Presentazione del volume: Ines de Castro, eroina del teatro italiano tra Settecento e Ottocento Biblioteca Vallicelliana – Salone Borromini Roma 29 maggio 2008 Relazione della Prof.ssa Mariagrazia Russo - Università di Viterbo Vorrei innanzitutto ringraziare il prof. Salvatore Statello per avermi dato l’occasione di parlare di un tema così avvincente come quello di Inês de Castro e per avermi offerto l’opportunità di stare in questo stupendo Salone Borromini della preziosa Biblioteca Vallicelliana. Ospitalità che dobbiamo alla direttrice Maria Concetta Petrollo Pagliarani e alla dott.ssa Mirtella Taloni, alle quali vanno i miei più sentiti ringraziamenti. Il prof. Statello per la presentazione del suo libro si sarebbe forse dovuto più assennatamente rivolgere a un professore di Letteratura Italiana o di Teatro anziché a un docente di lingua portoghese. Ma la scelta – deve e su questo potrà poi eventualmente smentirmi il prof. Statello – deve essere nata da una simpatia reciproca che abbiamo provato nel momento in cui ci siamo ritrovati a parlare nella Biblioteca Nazionale di Roma sui medesimi temi: io avevo appena pubblicato un testo sulle implicazioni leopardiane nella cultura letteraria portoghese e lui aveva da poco finito di lavorare a questo volume che oggi presentiamo. I temi di Inês de Castro ci avevano riguardato entrambi: io avevo ritrovato rimembranze del figura di Inês de Castro cantata da Luís de Camões nell’ A Silvia leopardiano; nella biblioteca del poeta recanatese avevo poi trovato il lavoro drammatico di Giovanni Colomés l’Agnese di Castro, stampato a Livorno nel 1781, e avevo esaminato da vicino i rapporti tra Leopardi e Giuseppe Persiani, uno degli artisti più prestigiosi de teatro italiano a Parigi il quale aveva presentato a Napoli proprio l’Inês de Castro ma poco amato e apprezzato dallo stesso Leopardi: stavo infatti cercando di dimostrare che il poeta dell’Infinito conosceva il mito e lo aveva velatamente riproposto in A Silvia. Ci trovavamo quindi, per motivi diversi, su medesime piste: Colomés e Persiani. Da questi comuni interessi, totalmente poligenetici, è nato quindi il desiderio di “parlarne” di più e soprattutto di parlarne con altri. Il titolo del libro che oggi presentiamo è quindi Ines de Castro, Eroina del Teatro Italiano tra Settecento e Ottocento, edito nel 2004 dal Circolo Socio-Culturale “Il Faro” di Riposto. Ma prima di iniziare a illustrare nel dettaglio il contenuto del volume del prof. Statello vorrei fornire alcune indicazioni sulla traccia di quelle che Gérard Genette definisce le “soglie” del testo stesso, ossia tutti quegli elementi che ruotano attorno a una pubblicazione conferendogli spessore e qualità. Genette parla del peritesto editoriale, di titoli, dediche, prefazioni e postfazioni, note, ecc. Noi qui non ci soffermiamo a esaminare ognuno di questi aspetti perché il tempo non sarebbe veramente sufficiente, ma qualcosa vorrei tuttavia rilevare perché da queste “soglie” 1 si evince la grande mole di lavoro che soggiace a questo centinaio di pagine: è sufficiente per esempio leggere i ringraziamenti per comprendere come non ci troviamo di fronte a un dovuto formalismo, ma a contatti diretti presi a seguito di un lavoro di ricerca profondo e appassionato che ha condotto il prof. Statello nell’Archivio di Stato e nell’Archivio Storico di Firenze, nell’Archivio Comunale di Livorno, nell’Archivio di Stato e nella Biblioteca Ronciniana di Prato, nell’Archivio Arcivescovile di Bologna, nella Biblioteca dell’Istituto Storico dei Gesuiti di Roma, nella Biblioteca Comunale di Vergato (senza contare gli altri archivi citati nelle note quali per esempio quello di Stradella, in provincia di Pavia). Su una bella carta patinata e arricchito di fotografie in bianco e nero elegantemente disseminate lungo tutto il testo, questo volume presenta una decina di profili elaborati a mo’ di scheda ove emerge la sinossi dell’opera trattata e la novità o i punti di contatto rispetto ai lavori precedenti. Un lavoro siffatto potrebbe sembrare compilativo, sintetico, organizzato come qualsiasi altro strumento di tipo bio-biliografico. Ma in esso c’è invece molto di più: ogni parola è frutto di un’indagine condotta con serietà e con rigore scientifico. Attraverso queste pagine viene infatti rintracciata, confrontata e vista nel suo complesso percorso ricettivo la storia di un mito portoghese diffusosi in ambito europeo con particolare attenzione per l’Italia. Questa serietà di ricerca è testimoniata non solo dagli interventi iniziali del Direttore editoriale Lucio Torrisi e del sindaco di Riposto Carmelo D’Urso, o dalla Prefazione del Prof. Alfredo Sgroi dell’Università di Catania, o dalla Postfazione della scrittrice Angela Barbagallo (tutte voci autorevoli che rendono omaggio a questo volume), ma è testimoniata soprattutto da ogni singolo profilo, da ogni capitolo, dalla ricchezza delle note, dalla folta bibliografia (indicata solo come Bibliografia essenziale, che lascia sottintendere la ulteriore mole di testi consultati), elementi tutti – questi – che indicano l’articolato processo da cui è scaturita ciascuna parola e ciascun dato qui fornito. Pubblicazioni di questo tipo sono oggi poco frequenti perché al tanto lavoro di ricerca corrispondono poi poche pagine, a volte anche solo poche righe: il lavoro di ricerca (di vera ricerca e non limitata alle pagine in Internet), unica fatica feconda, oggi non va più di moda. E ringrazio quindi ancora una volta il prof. Statello per averci dato un libro “fuori moda”, ma così prezioso perché “sedimentato”, capace di “scrostare le parti meno note” o “seguire le piste meno battute” (come scrive Alfredo Sgroi) di un pezzo di storia e di letteratura, ma soprattutto di un mito. Chi era dunque Inês de Castro? La creazione letteraria che se ne è fatta confonde ovviamente storia e realtà: non si percorreranno qui in questa sede le varie teorie o le ipotesi di ricostruzione di un mito. Ripeto però le linee principali che di Inês de Castro traccia il prof. Statello nei suoi “Cenni storici” posti in apertura di volume: nata tra il 1310 e il 1320 da Pedro Fernández de Castro, signore galego di Monforte de Lemos, e da Aldonça Suárez de Valdares, Inês si reca in Portogallo al seguito di Costanza di Castiglia che andava in sposa a D. Pedro, figlio del re Alfonso IV. Ma, ci racconta Statello, “arrivata la sposa col suo seguito, pare che il principe sia stato attratto piuttosto dalla straordinaria bellezza della damigella d’onore – ossia di Inês – che dalle fattezze della legittima sposa”. Esiliata dal regno, Inês, alla morte di Costanza, viene richiamata in Portogallo da D. Pedro. Nel 1354 pare che celebrassero 2 le nozze nella chiesa di S. Vincenzo a Bragança e che si stabilissero a Coimbra, nel palazzo annesso al monastero di Santa Chiara. L’influenza che forse i fratelli di Inês esercitavano sul principe ereditario fu mal accolta dal popolo e interpretata in modo pericoloso da far nascere in Alfonso IV e nei suoi consiglieri la decisione di uccidere Inês de Castro il 7 gennaio del 1355. Nel 1360, dopo la sua salita al trono, D. Pedro decide di vendicarsi: uccide i carnefici di Inês e legittima come infanti i figli avuti da questo matrimonio. Poi – continua il racconto di Statello – D. Pedro fece “disseppellire i resti mortali della donna amata e, dopo averli fatti rivestire con abiti regali, in processione da Coimbra li fece trasportare nell’Abbazia di Alcobaça, dove fece dare definitiva sepoltura in uno dei monumenti funebri più belli di tutta la Penisola Iberica. Lo stesso Pietro fece costruire il proprio sarcofago vicino a quello di Inês”. Una storia così non poteva se non diventare un fecondo tema letterario e suscitare interesse nella sensibilità dei poeti i quali, anche sotto la spinta della concezione dell’amore di Dante, di Petrarca e delle dottrine neoplatoniche, introdotte in Portogallo dagli umanisti italiani tra cui Cataldo Siculo Parisio, ne fecero “il simbolo dell’amore puro, sacrificato alla «ragion di stato», vittima degli intrighi delle «inique corti»”. Dapprima delineata storicamente nelle cronache trecentesche e quattrocentesche di López de Ayala, di Fernão Lopes e di Rui de Pina, questa figura femminile viene poi accolta nel XVI secolo dalle pagine a carattere più propriamente letterario: il Portogallo se ne riappropria, sulla linea dantesca degli inferni degli innamorati, con Garcia de Resende nel 1516 che in alcune strofe forse un po’ monotone ma piene di umanità fa piangere nel suo Cancioneiro Geral la bella Inês de Castro che previene le dame contro i mali d’amore; poi a metà del secolo António Ferreira rappresenta a Coimbra la tragedia Castro, pubblicata postuma nel 1587; e nel 1572 Luís de Camões la ricorda ne Os Lusíadas in modo così lirico da lasciarla per sempre impressa nella leggenda letteraria. In Spagna Jerónimo Bermudez pubblica nel 1577 due tragedie, la Nise Lastimosa e la Nise Laureada, che l’italiano Pietro Napoli Signorelli (vissuto a Madrid tra il 1765 e il 1783) definì un plagio della Castro (queste due opere saranno tradotte in italiano nel 1857); poi, sempre in Spagna, a metà del Seicento Luís Vélez de Guevara scrive Reinar después de morir. Il mito di Inês de Castro varca i Pirenei dopo due secoli di diffusione e di sviluppo nella Penisola Iberica: in Francia nel 1723 Antoine Houdard de La Motte mette in scena la tragedia Inés de Castro con alcune innovazioni rispetto al mito inesiano precedente. Cambiano i contorni della storia, cambia l’epilogo che vede l’eroina morire avvelenata anziché uccisa cruentemente. “Se al nostro autore – afferma Statello – mancava l’afflato poetico, non difettava, però, la capacità inventiva, avendo prodotto un’opera densa di concetti, espressi male poeticamente, anche se tra tanti versi alessandrini in rima baciata ve ne sono alcuni di rara bellezza”. Inutile dire che l’opera fu largamente e ripetutamente tradotta in Italia dal 1761 al 1796 e che diede un forte imput alla diffusione del mito in tutta Europa. Con Domenico Laffi, sacerdote e scrittore del Seicento, il prof. Statello fa un passo indietro nell’assetto cronologico e inizia la carrellata del teatro italiano: Domenico Laffi è il primo autore italiano che mette in scena un’opera avente come 3 soggetto Inês de Castro “sganciata dai testi di storia o da quelli dell’epopea camoniana”. Nel 1689 egli pubblica infatti a Bologna La fedeltà anche doppo Morte, overo, Il Regnar doppo Morte, tragedia cavata dal Portoghese, che è un libero rifacimento del testo spagnolo di Luís Vélez de Guevara e di cui il Laffi aveva probabilmente sentito parlare in un noto viaggio in Portogallo. Diversi i nomi e i luoghi rispetto al mito portoghese, ridotto a uno il numero dei figli, diverso lo stile che diventa ora prosa, diverso il linguaggio reso “popolare”, “buffo”, a volte “equivoco e triviale” e con il “lessico della farsa”, diversa infine la morte della donna che avviene per decollazione. Dalla Francia la triste storia ricompare sulle scene in lingua italiana con Pietro Metastasio che per primo porta il tema nel melodramma quando nel 1733 scrive il Demofoonte (che corrisponde al personaggio storico di Alfonso IV), musicato da Antonio Caldara. Con Metastasio la tragedia si capovolge in un’opera a lieto fine dove prevalgono le ragioni del cuore a quelle dello stato. Anche qui nomi diversi (questa volta da tragedia greca) e diverso l’intreccio, ma ovunque è riconoscibile – così come mette in evidenza il prof. Statello – Houdard de La Motte e Luís Vélez de Guevara. A ragione viene incluso in questa analisi anche il già citato gesuita spagnolo Giovanni Colomés che pubblica nel 1781 l’Agnese di Castro, prima tragedia italiana in cui il nome dell’eroina viene posto a titolo dell’opera stessa. Juan Bautista Colomés di fatto viveva in Italia dal 1767, da quando cioè l’ordine dei Gesuiti era stato soppresso in Spagna. Egli conosce tutte le opere che lo precedono e le adatta e plasma in endecasillabi sciolti riprendendo di tanto in tanto versi di Petrarca. La sua tragedia, dove viene messa in scena l’invidia per la fortuna dei Castro, riscuote immediato successo di pubblico. Con l’inquieto Giovanni Greppi, bolognese, che condusse un’avventurosa vita diviso tra corti e conventi (ogni luogo abbandonato perché troppo stretto per la sua indole ribelle), il prof. Statello mette in luce come l’attenzione in Italia si sposti verso il personaggio maschile, forse sulla scia del ballo tragico presentato a Napoli nel 1785 di Domenico Le Fevre, Don Pietro, Infante di Portogallo. L’opera del Greppi si intitola proprio Don Pietro di Portogallo, Soprannominato il Crudele, dramma in endecasillabi sciolti in cinque atti. In esso vengono messi in luce i sentimenti di Pedro, ora eroe wertheriano, dopo la barbara morte del linda Inês avvenuta nel palazzo reale di Coimbra e gli intrighi di corte. In esso sono posti in scena tutti gli aspetti più macabri del mito portoghese: il disseppellimento, l’uccisione dei carnefici con l’estrazione del cuore. Ad esso si aggiungono anche elementi pre-romantici quali l’urna che si scuote come a voler parlare con Pietro e l’esasperato conflitto generazionale tra padre e figlio. Con Greppi il dramma reinterpretato degli infelici amori diviene veicolo di denuncia politica e istanza contro la tirannide. Segue poi il medaglione di Davide Bertolotti, un verseggiatore torinese, uno degli ultimi classicisti in forte polemica con i Romantici. Relativamente a quest’opera vi è un dato oggi per noi piuttosto curioso – e questo solo l’acume critico del prof. Statello poteva metterlo in rilievo –: la sua Ines de Castro rappresentata al teatro di Milano nel 1826 riscosse più successo de Il Conte di Carmagnola di Alessandro 4 Manzoni. La sua base è il Compendio di Storia Universale del Conte di Segur del 1824 riportato ad introduzione: ritorna quindi la morte più aderente al mito portoghese addirittura con sangue in scena per arma da taglio. Sebbene legato allo stile classico, Davide Bertolotti inserisce scene tipiche del lirismo romantico come il monologo e le preghiere di Inês, vittima delle passioni prettamente romantiche legate ad eros e thanatos, gelosia e vendetta. Anche Luigi Biagiotti, come Davide Bertolotti, bracciante o apprendista di cancelleria che sia (perché di tutti i profili tracciati il prof. Statello ricostruisce biografie con documenti d’archivio di prima mano), all’inizio del sua opera Ines de’ Castro (1831), a supporto della veridicità dei fatti narrati introduce alcune pagine di storia e due epigrafi dai Lusiadi di Luís de Camões e da Vittorio Alfieri. Attraverso una trama lenta per la sua verbosità, il poeta offre una lettura romantica dei personaggi, tra i quali spicca Pedro come vittima degli intrighi di corte che, dopo la morte di Costanza, deceduta a sua volta per amore, fugge in un solitario castello insieme a Inês, ora vista come donna seduttrice e non più ostacolata dai vincoli di sudditanza. In questo dramma, come novità all’interno della tradizione e rispetto alle precedenti opere, sarà proprio Pedro a presentare al padre i figli. Poi tra i medaglioni elaborati dal prof. Statello compare finalmente una donna (al tema si era avvicinata già nel 1827 Eduige De Battisti de S. Giorgio che tradusse in endecasillabi sciolti la Ines de Castro del conte Giulio di Soden, scritta in prosa in lingua tedesca nel 1784). Questa donna corrisponde al nome di Laura Beatrice Oliva-Mancini, persona colta ed istruita figlia di un seguace di Gioacchino Murat, esiliata con la famiglia a Parigi per le restrizioni politiche imposte dai Borboni. Laura Beatrice nel 1842 scrive la tragedia Ines, mettendo in evidenza l’eroina femminile, specchio delle “varie problematiche dell’Italia risorgimentale”. Tragedia politica, quindi, ma anche riflesso del tema romantico della cieca passione amorosa. Elementi nuovi come una lettera chiesta a Inês nella quale avrebbe dovuto dichiarare che i figli non erano di Piero; o la presenza della spia inviata da Alfonso per scoprire se il figlio avesse affidato il suo cuore a una “donna vile” sono altri piccoli tasselli che vanno a disegnare il mito inesiano in Italia. Con Enrico Franceschi, pisano – e non l’omonimo lucchese, come ben ci avvisa il prof. Statello – che nel 1853 rappresenta nel teatro Nuovo di Firenze una Ines de Castro, l’immagine della donna assume connotati completamente diversi: sul palco non sale più una figura femminile “fiera del proprio amore e della propria innocenza, pronta al sacrificio di sé, ma un’eroina [...] in preda al rimorso, figlio della colpa”. E questa colpa è sentita quando sul letto di morte Costanza confessa proprio a lei, sua migliore amica, le sofferenze d’amore per il tradimento del marito con una “vile donna”. Ma anche qui Ines si immola come vittima riparatrice offrendosi al posto di Piero, nel frattempo imprigionato per la ribellione al padre. La tragedia in versi verrà ripresa solo verso la fine del secolo con Luigi Bandozzi, mentre quella di Gioacchino Napoleone Pepoli, pubblicata nel 1855, sarà in prosa. Gioacchino Napoleone Pepoli, nipote di Gioacchino Murat (e per la seconda volta in questa raccolta di profili ricorre il nome del generale francese), è il secondo 5 dopo Domenico Laffi (da lui verosimilmente conosciuto) a scrivere un’opera teatrale in prosa ispirata alle vicende di Inês: una tragedia in cinque atti rappresentata al teatro del Corso dalla Compagnia Lombarda. Ancora una volta la figura di Inês vittima della “ragion di stato” ma dotata di una forte personalità; quella del re inetto e condizionato dagli intrighi di palazzo; e quella del principe facile preda di ricatti a seguito del suo amore celato ne costituiscono i personaggi principali. Altri elementi quali il rapimento del figlio, l’accettazione di Inês di fingersi morta affogata nel Tejo, la tristezza del marito che le erige un monumento ad Alcobaça (dove ora giacciono i loro corpi) e che accetta suo malgrado di sposare la castigliana Isabella per unirsi contro i Mori, il disvelarsi della verità proprio davanti alla tomba vuota e il triste epilogo dell’uccisione di Inês per mano di un servo infedele, mostrano un’opera in cui predominano forti passioni, personaggi totalmente negativi, assetati di potere, e in cui “l’ironia raggiunge spesso il sarcasmo”. L’ultimo ritratto elaborato dal prof. Statello e quello dell’Inês de Castro del livornese e già citato Luigi Bandozzi. Questa tragedia ha un’introduzione ad opera di Joaquim de Araujo dell’Accademia delle Scienze di Lisbona e allora console portoghese a Genova (altro comune interesse tra me e il prof. Statello) – quindi per la prima volta interviene un portoghese a sugellare la validità di un’opera italiana (tra l’altro vi è da dire che Joaquim de Araujo è anche autore di una delle prime bibliografie inesiane, a testimonianza quindi di un mito ben conosciuto). La tragedia viene scritta per la commemorazione del quarto centenario del viaggio di Vasco da Gama in India, quindi nel 1898. L’eco presente è quella della tradizione portoghese, ma anche del gusto del macabro spagnolo, con l’ombra della catastrofe sempre incombente. Contrariamente ad altre opere abbiamo qui finalmente i nomi e i toponimi lasciati con precisione in lingua originale. A livello di intreccio si torna quindi con Luigi Bandozzi alla fonte che ha originato il mito, abbandonando le riletture spagnole e francesi. Con quest’opera scende poi l’oblio sul mito di Inês quale soggetto ispiratore di opere teatrali in Italia. Ma questo “oblio” è strettamente legato alle opere teatrali non certo alla continuità del mito inesiano che arriva solidamente sino a noi. Lo dimostrano - i riferimenti che il prof. Statello fa nella sua “conclusione” alle pagine di storia letteraria e saggi dedicati a Inês de Castro (da Jannini a Carlo Rossi, da Renata Belardinelli a Brunetto De Cusatis sino alla più recente raccolta di studi a cura di Patrizia Botta) e in particolare un racconto che Antonio Tabucchi pubblica nel 1987 su L’amore di D. Pedro; - e lo dimostrano le pagine che il prof. Statello fa redigere alla musicologa Paola Ciarlantini a fine volume sull’Inês de Castro nel teatro d’opera dal tardo Settecento ad oggi e la fortuna teatrale dell’Inês de Castro musicata dall’ottocentesco Giuseppe Persiani riscoperto anche in Portogallo grazie alla rappresentazione che se ne è fatta nel 2003 a Coimbra nel grande cortile dell’Università antica. 6 Questo che il prof. Statello dedica a Inês de Castro è quindi un omaggio: un omaggio a una donna che la storia ha consegnato alla letteratura, e la letteratura al mito, che i confini geografici hanno circoscritto alla Penisola Iberica e che l’imponenza leggendaria ha lanciato oltre i Pirenei sino a farne un personaggio europeo. Una storia che, tra l’altro, Salvatore Statello ha voluto agganciare – attraverso una scheda a fine volume – alla vita siciliana, andando a rintracciare gli antenati di Pietro I di Portogallo di origine siciliana (sino a rimontare al conte Ruggero I di Sicilia) e i discendenti da parte di Inês de Castro che governeranno poi la Sicilia sino ad Alfonso V il Magnanimo. Tra l’altro nel 2002 Salvatore Statello aveva già pubblicato per la rivista “Il Faro” un articolo dal titolo Inês de Castro, Dante e la Sicilia, in cui aveva rintracciato un fil rouge che dai poeti della corte di Federico II di Svevia (annoverato tra gli antenati di D. Pedro) si connetteva all’amor cortese provenzale che schiudeva la porta ai poeti dello Stil Novo precursori di quell’Umanesimo che ad opera di Cataldo Siculo Parisio, siciliano appunto, tornerà proprio in terra lusitana. Salvatore Statello ha quindi celebrato in questo volume la donna e la sua terra, e non è quindi un caso (e torniamo così da dove siamo partiti: ad esaminare le “soglie” del testo) che il volume su Inês de Castro sia pubblicato in Sicilia e dedicato a una donna, sua moglie Angela. 7