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© 2008 Matteo Garnero
www.garnero.it
Perché ha vinto Berlusconi
I edizione: novembre 2008
II edizione: luglio 2010
La lezione di Berlusconi
I edizione: settembre 2012
© UteLibri
Tutti i diritti riservati.
Stampata da:
Prontostampa srl
Via Praga, 1
24040 Verdellino Zingonia (Bergamo)
Copertina realizzata
da Comunika – G&P Group
978-88-6736-014-7
Matteo Garnero
La lezione di
Berlusconi
L’importanza del Marketing
in politica
Alle mie tre
Principesse
PREFAZIONE
Questo libro non è un trattato storico-politico che analizza
esaustivamente la campagna elettorale del 2008 per individuare le motivazioni (profonde e non) della vittoria di Silvio Berlusconi.
Questo libro prende spunto dalle elezioni nazionali 2008
perché sono un punto di svolta epocale: la politica italiana è cambiata,
gli elettori italiani sono cambiati.
Qualcuno se ne era reso già conto ed ha agito di conseguenza, qualcuno
non se n’è accorto e ne ha pagato le conseguenze. Care.
Il sottotitolo del libro aiuta a comprenderne meglio lo scopo.
Da anni in Italia si parla di marketing politico ma in realtà, fino ad oggi,
ci si è occupati esclusivamente di comunicazione politica, che è solo
uno degli elementi del marketing. Anche le Facoltà di Scienze Politiche
italiane offrono solitamente lezioni di comunicazione politica; raro, se
non impossibile, trovare nei loro programmi la parola “marketing”.
Ma è sicuramente arrivato il momento della svolta.
Le implicazioni di questo giro di boa non sono forse chiare
per tutti: questo breve volume è dedicato proprio ad illustrare, con
semplicità e molti esempi, cosa sia successo veramente lo scorso aprile.
Quindi, si potrà iniziare a ragionare sulle possibili conseguenze.
Il primo capito risponde alla domanda “cos’è il marketing?”,
con particolare riferimento a come esso può essere applicato al mondo
della politica. Il secondo capitolo prova a rispondere al quesito contenuto nella copertina del libro.
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Note degli autori:
In più punti la trattazione storica non è esaustiva:
infatti essa è strumentale all’obiettivo del manuale.
Nei racconti tratti da vere esperienze, i nomi di luoghi e persone sono
stati, in alcuni casi, modificati al fine di rispettare l’altrui privacy.
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1.
COS’E’ IL MARKETING?
1.1. Introduzione: Zero o Light?
1.2. La Storia
1.3. La Definizione
1.4. Le Sfide del Futuro
1.5. Strategia
1.6. Il Processo Strategico
1.7. Marketing Strategico
1.8. Marketing Operativo
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1.1. Introduzione: Zero o Light?
Milano, estate 2006.
Abbiamo solo un’ora di pausa ed il caldo è torrido: la cosa più
intelligente da fare è quindi trovare il bar più vicino. Simone però è uno
sportivo ed un salutista, ormai l’ho capito, e non accetterebbe mai di
mangiare in fretta e furia un tramezzino ricolmo di maionese.
Mi obbliga quindi a proseguire sotto il sole cocente, su di un asfalto che
nelle ore più calde si scioglie leggermente: la sera si vedono diverse
impronte di scarpe, stile Walk of Fame ad Hollywood. A Genova non
ho mai visto niente di simile.
Alla fine, grondante di sudore (io, perché Simone, essendo appunto
sportivo, è anche magro e suda meno), capisco che ha trovato il posto
perfetto, all’insegna dello slow food.
Dopo aver consultato il menu incomincio a perdonare il mio
collega per la sofferenza che mi ha inflitto: il locale offre piatti unici,
adatti ai lavoratori con poco tempo a disposizione, ma completi e
gustosi. Scelgo un’insalatona “Venere” o qualcosa del genere, Simone
un piatto a base di proteine (non ingrassano, stimolano il metabolismo
ecc.ecc.). Qualcosa di strano avviene quando la graziosa cameriera
orientale ci chiede cosa vogliamo da bere.
Io non ho dubbi: la mia solita, inseparabile Coca Cola. La
prima reazione del collega è uno sguardo di palese disgusto; nei suoi
occhi mi sembra di leggere un chiaro “già sei sovrappeso e ingerisci tutti
quegli zuccheri?”. Poi quando è il suo turno inizia quasi a balbettare, mi
sembra di sentire, in mezzo ai vari farfugliamenti, la parola “coca”; ma
alla fine, dopo essersi schiarito la voce, più sicuro di sé, annuncia alla
cameriera che gradirebbe una bottiglietta di acqua naturale. Lei, che
essendo straniera e avendo duemila cose da fare, sicuramente non si è
accorta di niente, si congeda con uno splendido sorriso (di circostanza
sicuramente) che mette ancora in più in rilievo la sua bellezza tipica.
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Milano, autunno 2006.
Milano non può essere più diversa da come me la ricordavo.
La mia esperienza estiva era stata traumatizzante perché ogni volta che
uscivo da un meraviglioso locale climatizzato mi sembrava di entrare in
un forno a microonde acceso. Oggi invece c’è freddo, piove e c’è anche
quel goccio di vento che fa scendere l’acqua obliquamente.
Naturalmente neanche queste condizioni atmosferiche impediscono a
Simone di farmi attraversare un paio di incroci in più per andare nel suo
locale preferito. Entrando, scopro che il milanese medio è molto più
furbo di noi e probabilmente:
-o mangia in ufficio;
-o entra veloce nel bar più vicino, si prende un bel tramezzino e torna
al sicuro e al caldo.
Il locale infatti è praticamente vuoto. Il nostro rito, compreso lo
scambio di battute con la cameriera, si ripete uguale a se stesso. Ma poi
qualcosa cambia.
Dopo aver ordinato la mia solita Coca Cola Simone, a voce
bassissima e rosso in viso come se stesse per dire una cosa sconcia,
sussurra alla cameriera, “Per me una Coca Cola Light”.
Lei, che da brava professionista ha probabilmente già scritto sul suo
block-notes “mezza naturale”, lo fissa e decide di assicurarsi di aver
sentito bene.
“Cosa scusa?”. Capisco subito che per Simone questa è la cosa
peggiore che possa capitare. Ho un momento di empatia per lui: mi
viene in mente quando una volta sono andato in farmacia e ho chiesto
furtivamente, in mezzo ad altre richieste di medicinali, un test di gravidanza per mia moglie. Mentre la farmacista si arrampicava per prendere
una scatola di aspirina, mi ha urlato, “Il test di gravidanza lo vuole con
uno o due stick?”. Istintivamente mi sono voltato verso le circa quindici
persone dietro di me, sicuro che, per la legge di Murphy, ce ne sarebbero state almeno un paio che conoscevo e a cui non volevo far sapere
che stavamo cercando un figlio. Per fortuna non fu così, ma io ero
paonazzo ed imbarazzato lo stesso.
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Simone ora è nelle stesse condizioni, si guarda intorno come un ladro
colto con le mani nel sacco, l’unica cosa che non capisco è: perché?
A me la Coca Cola Light non è mai piaciuta, il gusto mi dà nausea,
ed è vero che trovo difficoltà a comprendere come un essere umano
normale possa berla senza che i muscoli del suo viso si contraggano
come quelli di chi si beve mezzo litro di spremuta di limone senza
zucchero. Però non credo che ci si debba vergognare ad ordinarla, né
che nessuno giudicherebbe male una persona solo perché ha il coraggio
di berla.
Genova, fine estate 2007.
Sono a casa e faccio un po’ di zapping. Ad un certo punto mi
stanco e decido di lasciare un canale a caso. Inizia una pubblicità che
mi colpisce. Su di un autobus, il tipico giovane impiegato americano
(probabilmente al ritorno da lavoro) sorseggia una Coca Cola ma, in
seguito ad un primo piano della bottiglia, si scopre che non è il solito
prodotto. Il packaging non è rosso ma nero. Il protagonista legge
l’etichetta, “Gusto Coca Cola e zero zucchero”… improvvisamente
viene colto da un’indomabile euforia, gira per l’autobus e inizia a
parlare (e poi urlare) ai suoi compagni di viaggio.
“Ma è come dire avere tutto dalla vita: andare a letto tardi e svegliarsi
tardi; cominciare il week-end il mercoledì” (a questo punto l’autista
gli apre le porte in corsa ed il ragazzo salta atleticamente sul tetto
dell’autobus); “trovare lavoro come bagnino in una spiaggia di nudiste,
avere una fidanzata che ama il calcio, e che non dice mai di nooooooo”.
A questo punto l’autobus inchioda di fronte al mare e lui vola in acqua;
si rialza subito e urla alla folla, riunita per vedere se è ancora vivo, “Sto
bene, sto benissimo!”.
Lo spot termina con il pay-off “Coca Cola zero, gusto coca cola, zero
zucchero”.
A quel punto, da uomo di marketing quale dovrei essere, tutto
diventa chiaro.
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Genova, autunno 2007.
Finalmente trovo un bar evoluto che non vende soltanto la
solita combinazione Coca/Sprite/Fanta e azzardo la fatidica domanda:
“Avete la Coca Cola Zero?”.
Con un sorriso a 32 denti, che sottointende “Era da settimane che aspettavo questa domanda per dimostrare al mondo che non siamo un bar
come gli altri”, la barista mi dice “Certo!”. Pago e prendo in mano il
prezioso oggetto.
Per anni ho combattuto con la mia dipendenza da Coca Cola,
aggravata ulteriormente dal fatto di aver sposato una ragazza che soffre dello stesso disturbo. Questa dipendenza mi ha portato a ingerire
circa 500 calorie di zuccheri aggiuntivi al giorno, togliendomi ogni
possibilità di dimagrire. In vacanza mi sono anche ritrovato a bere
Coca Cola alle 8 di mattina per colazione, insieme alla brioche o alla
focaccia, chiaro segno di raggiungimento del punto del non ritorno.
Ma ora sono di fronte ad una possibile soluzione dei miei problemi.
Se la promessa degli spot viene mantenuta, ho finalmente trovato il mio
metadone.
Negli anni ho imparato due cose:
- primo, le multinazionali ormai non realizzano più pubblicità ingannevole, o almeno totalmente ingannevole;
- secondo, il detto americano no free lunch è vero, non esistono cose
facili nella vita (diete facili, modi per arricchirsi facili ecc.).
Queste mie due sicurezze sono in contrasto e mi destabilizzano un po’.
Apro la mia lattina e bevo. Incredibile: sa veramente di Coca Cola e
non mi vengono le solite convulsioni da Coca Light. Finisco il primo
sorso euforico, ma qualcosa improvvisamente accade: il terribile, fantomatico retrogusto. Aspartame, o qualcosa del genere: sostanze che non
perdonano. Non mi lascio però spaventare da questa prima esperienza,
sono sicuro che mi abituerò al post-sorso.
Provo comunque gratitudine per le menti illuminate che hanno creato
questo nuovo prodotto: l’esperto di marketing che si è reso conto che
ci sono sicuramente milioni di bevitori di Coca Cola che vorrebbero
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dimagrire ma che svengono a contatto con i vapori della “Light”, e il
chimico che è riuscito a trasformare un’esigenza dei consumatori in una
realtà.
Milano, autunno 2007.
Stiamo andando al “nostro” locale, ma questa volta io e Simone
non siamo soli. Alcuni nostri colleghi si sono aggregati, siamo in tanti e
l’umore è alto. Alla cameriera chiediamo di unire un paio di tavoli e lei,
come suo tipico, ci accontenta subito. Ci scambiamo opinioni sul menu
e alla fine, con un po’ di confusione, riusciamo ad ordinare.
Quando mi viene chiesto cosa voglio da bere, parto in quarta,
“Avete Coca Cola Zero?”. Che domanda, a Milano! A Milano arriva
tutto prima, in contemporanea con Londra, New York, Parigi.
“Certo”, mi risponde, senza neanche quel sorriso compiaciuto che mi
era stato rivolto a Genova. ‘Qua ormai deve essere un prodotto consolidato’, penso.
“Allora una Coca Cola Zero”, ribadisco. Quello che mi stupisce è
che una frazione di secondo dopo sento la voce di Simone, alta e allegra, “Coca Zero anche per me, grazie”. Poi continua a chiacchierare
allegramente con gli altri come se niente fosse.
A metà del pranzo, buonissimo come al solito, mi estraneo
un attimo dalla compagnia per fotografare quel momento come se
fossi un osservatore esterno. In particolare guardo quella porzione di
tavolo dove siamo seduti, uno di fronte all’altro, io e Simone. E penso a
quello che vuol dire veramente fare marketing, capire le esigenze delle
persone, anche quelle più intime, e tentare di dar loro risposta.
Vicino ai nostri bicchieri ci sono due lattine di Coca Cola Zero: Simone
finalmente ha una bibita virile, adatta a chi vuole fare il bagnino in una
spiaggia di nudiste, che lo aiuta però a mantenersi in forma; io posso
finalmente bere qualcosa che ha il gusto di Coca Cola ma che arresta il
mio trend di aumento di peso di un chilo all’anno.
Ogni tanto anche il marketing rende le persone felici.
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