La Corte d’appello di Firenze,CRON.11333 prima sezione civile, composta dai Signori Giovacchino Massetani, Presidente, Bruno Rados, Consigliere, Alessandro Turco, Consigliere, rel., est., pronuncia il presente decreto nel procedimento iscritto al n. 415 del ruolo della volontaria giurisdizione dell'anno 2005, promosso, in questo grado, da Azienda ospedaliero-universitaria di Careggi (già Azienda ospedaliera di Careggi), rappresentata e difesa, per procura estesa in calce al reclamo, dall'Avvocata Enrichetta Brandi, di Firenze, elettivamente domiciliata presso la sede legale dell’Ente, in Firenze, reclamante, contro **********, elettivamente domiciliato presso la persona e lo studio dell'Avvocata Daniela Consoli, Via Senese, 12, Firenze, che lo rappresenta e difende per procura estesa a margine della comparsa di costituzione e risposta in sede di reclamo, convenuto in sede di reclamo, procedimento avente ad oggetto: azione contro la discriminazione dello straniero ex art. 44 dlgs 25 luglio 1998, n. 286; con l'intervento del Pm, il quale, il 15.6.2005, ha così concluso: "Accoglimento del reclamo". ÿÿÿÿÿÿÿÿÿÿ La Corte, letti gli atti e uditi i procuratori delle parti; osserva: 1) Con ricorso depositato presso la Cancelleria del Tribunale di Pistoia il 15 XII 2004 ******** espose: ~ di essere cittadino albanese e di risiedere regolarmente in Italia dal 31.3.1996; ~ di essere medico-chirurgo, specialista in cardiologia, e di svolgere attualmente, dal 2002, la sua attività professionale, dapprima come medico volontario e, dal marzo 2004, come libero 1 professionista “a contratto”, presso la divisione di cardiologia dell’Ospedale di Careggi, in Firenze; ~ di avere avuto notizia, nel giugno 2004, che l’Azienda aveva emanato un bando di concorso per 6 dirigenti medici in Cardiologia, pubblicato nel Bollettino ufficiale della Regione toscana n. 23 del 9.6.2004; ~ di avere constatato, avendo intenzione di partecipare al concorso, che il bando richiedeva, per l'ammissibilità della domanda di partecipazione, la "cittadinanza italiana, salve le equiparazioni stabilite dalle leggi vigenti… o cittadinanza di uno dei Paesi dell'Unione europea"; ~ di avere, ugualmente, inviato la domanda di ammissione; ~ di avere ricevuto, il 14.10.2004, la comunicazione dell'Azienda di esclusione dal concorso per difetto della cittadinanza italiana o della cittadinanza di uno dei Paesi dell'Unione europea" (in un fax precedentemente inviato al ricorrente si faceva, invece, riferimento al fatto che "l'essere assunto presso una Azienda sanitaria con la qualifica di dirigente pare implicare quell'esercizio di pubblici poteri che, per normativa e giurisprudenza, sono riservati esclusivamente al cittadini italiani"). 2) Argomentato in ordine all’antigiuridicità della discriminazione in discorso ex artt. 43 e 44 dlgs 25 luglio 1998, n. 286, il ricorrente concluse affinché fosse ordinato alla Azienda ospedaliera di Careggi di ammetterlo al concorso in parola, oltre al risarcimento del danno; 3) Con decreto depositato il 7 v 2005 il Tribunale di Pistoia, in parziale accoglimento del ricorso, ordinò alla Azienda convenuta l’ammissione di …….. al concorso de quo; respinse la domanda di risarcimento del danno; dichiarò integralmente compensate le spese di lite. 4) Con atto di reclamo depositato il 1° vi 2005 l’Azienda ospedaliero-universitaria di Careggi (già Azienda ospedaliera di Careggi) s’è doluta di tale provvedimento per i seguenti motivi: I) difetto di giurisdizione del giudice adito («la posizione azionata dal ricorrente non può considerarsi vicenda successiva all'instaurarsi del vincolo contrattuale di lavoro e quindi assumere la consistenza di diritto soggettivo, riguardando al contrario proprio la legittimità di un concorso pubblico finalizzato all'instaurazione di un rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione, resta, come tale, attribuita in via esclusiva alla giurisdizione amministrativa»); II) «l'art. 2 del dlgs 286/1998 non opera una assoluta equiparazione tra cittadino italiano e straniero comunitario e non in materia di accesso al lavoro privato e pubblico come sostiene il giudice adito in primo grado; difatti al comma 5 prevede che "allo straniero è riconosciuta parità di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela dei diritti e degli interessi legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell'accesso ai pubblici servizi, nei limiti e nei modi previsti dalla legge"; di più: il successivo art. 27 comma 3 dello stesso dlgs 286/1998 prevede espressamente che "rimangono ferme le 2 disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività": è di tutta evidenza come il legislatore ha accolto un principio, non di equiparazione giuridica piena, bensì limitata, che sopporta eccezioni ed opera un rinvio alla normativa specifica vigente per le varie materie …; pare difficilmente sostenibile che le disposizioni di cui al dlgs 286/98 possano avere implicitamente abrogato disposizioni di rango primario facenti parte, fra l'altro, di un ordinamento speciale, quale quello oggetto del dpr 3/1957, ma soprattutto del dpr 483/97, recante la disciplina concorsuale per il personale dirigenziale del servizio sanitario nazionale …; la Corte Costituzionale, con la sentenza 454 del 30.12.1998 …, ha … affermato che la garanzia legislativa di “parità di trattamento e piena uguaglianza dei diritti” per i lavoratori extracomunitari, rispetto ai lavoratori cittadini italiani, contenuta nel dlgs 286/98, opera fin quando non esista nell'ordinamento una norma che esplicitamente o implicitamente deroghi alla piena uguaglianza …; l'art. 38 del dlgs 30.3.2001, n. 165 (cd testo unico in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni) … prevede al comma 1 che: “i cittadini degli stati membri dell'Unione Europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale”; questa difesa non vede quale meccanismo interpretativo delle fonti esistenti legittimerebbe l'assunto per cui una possibilità lavorativa nel pubblico impiego nettamente preclusa ai cittadini comunitari qualora detta funzione comporti, direttamente o indirettamente, l'esercizio di pubblici poteri, debba ritener si dovuta, a parità di funzioni, ai cittadini extracomunitari»; III) «il Tribunale di Pistoia, nell'ordinanza reclamata, precisa che …, nell'ipotesi in esame, non sembra che nessun interesse fondamentale od inderogabile della collettività sia coinvolto dal ruolo che il ……..vorrebbe andare a ricoprire, non sembrando che un dirigente medico in cardiologia svolga un lavoro che incida direttamente, od anche indirettamente, in qualcuno degli interessi basilari di cui sopra; al riguardo, ci si limita a far riferimento a quanto sopra esposto in merito al fatto che il rivestire la qualifica di dirigente all'interno di una pa implica necessariamente l'esercizio di pubblici poteri, precluso, a tutt'oggi, a chi non sia in possesso della cittadinanza italiana». 5) Costituitosi in giudizio il convenuto in sede di reclamo ha contrastato il reclamo in fatto e in diritto, chiedendo la conferma del provvedimento impugnato. 6) Il Pg, il 15.6.2005, ha concluso per l’accoglimento del reclamo. 7) La Corte si è riservata la decisione all’udienza del 30 ix 2005. ÿÿÿÿÿÿÿÿÿÿ 8) L’eccezione di difetto di giurisdizione è infondata avendo, il ricorrente, agito ai sensi dell'art. 44 del dlgs 25 luglio 1998, 3 n. 286, norma che, espressamente, demanda al tribunale ordinario di provvedere «con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda» diretta a «a rimuovere gli effetti della discriminazione», «per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», determinata dal «comportamento di un privato o della pubblica amministrazione» (in termini: Corte d’appello di Firenze, 2 luglio 2002, in Riv. it. dir. lav., 2003, II, 272, con nota di Mammone; in Ragiusan, 2003, f. 229-0, 569: «È sottoposta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia promossa, a norma del combinato disposto degli art. 2 e 44 dlgs 25 luglio 1998, n. 286, da un cittadino extracomunitario nei confronti di una azienda ospedaliera pubblica per l'accertamento del comportamento discriminatorio dalla stessa tenuto con la mancata ammissione alla procedura concorsuale per l'assunzione, a causa del mancato possesso del requisito della cittadinanza italiana»). 9) È necessario, prima di affrontare il merito della controversia, dar conto, sinteticamente, del quadro normativo che viene in campo; a questo riguardo vanno, in particolare, rammentati seguenti atti: I) la convenzione numero 143 dell'Organizzazione internazionale del lavoro, del 24 giugno 1975, riporta, tra le altre, le seguenti, significative disposizioni: a) l’art. 11, I comma, del seguente tenore: «Ai fini dell'applicazione della presente parte della convenzione il termine "lavoratore migrante" designa una persona che emigra o è emigrata da un paese verso l'altro, in vista di una occupazione, altrimenti che per proprio conto; esso include qualsiasi persona ammessa regolarmente in qualità di lavoratore migrante»; b) l’art. 8: «1. A condizione di aver risieduto legalmente nel paese ai fini dell'occupazione, il lavoratore migrante non potrà essere considerato in posizione illegale o comunque irregolare a seguito della perdita del lavoro, perdita che non deve, di per sé, causare il ritiro del permesso di soggiorno o, se del caso, del permesso di lavoro. 2. Egli dovrà, quindi, usufruire di un trattamento identico a quello dei cittadini nazionali, specialmente per quanto riguarda le garanzie relative alla sicurezza dell'occupazione, la riqualifica, i lavori di assistenza e di reinserimento»; c) l’art. 10: «Ogni Stato membro per il quale la convenzione sia in vigore s'impegna a formulare e ad attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti alle circostanze ed agli usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonché di libertà individuali e collettive per le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio»; d) l’art. 14: «Ogni Stato membro può: a) …; b) …; c) respingere l'accesso a limitate categorie di occupazione e di funzioni, qualora tale restrizione sia necessaria nell'interesse dello Stato»); 4 II) la predetta convenzione fu ratificata e resa esecutiva sulla base della legge 10 aprile 1981, n. 158; l’art. 3 di tale legge conferì, inoltre, al Governo, la delega ad emanare, entro un anno dall'entrata in vigore della legge stessa, «decreti aventi valore di legge ordinaria, secondo i principi direttivi contenuti nelle convenzioni n. 92, 133 e 143, di cui all'articolo 1 della presente legge, per stabilire le norme necessarie ad assicurare l'adempimento degli obblighi derivanti dalle convenzioni stesse»); III) al fine di attuare la convenzione n. 143 fu, in realtà, emanata la legge 30 dicembre 1986, n. 943 (legge successivamente abrogata, ad eccezione dell'art. 3, dall’articolo 47 del dlgs 25 vii 1998, n. 286), che, per quanto, qui, interessa, dispose, agli artt. 1 e 14, quanto segue: a) «Art. 1. 1. La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell'Oil n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con la legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori extracomunitari legalmente residenti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani …»; b) «Art. 14. 1. Sono esclusi dall'applicazione della presente legge …: …. … 3. La presente legge non si applica altresì ai cittadini degli Stati membri della Cee ed ai lavoratori extracomunitari per i quali sono previste norme particolari più favorevoli anche in attuazione di accordi internazionali. 4. Rimangono ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività»); IV) intervenne, poi, la legge 6 marzo 1998, n. 40; possono essere ricordati, di tale legge, a) l’articolo 41, del seguente tenore: «Art. 41. Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. 1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che .... 2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) …; c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socioassistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l'esercizio di un'attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità; e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni 5 trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa. 3. …»; b) l’articolo 45 («Delega legislativa per l'attuazione delle norme comunitarie in materia di ingresso, soggiorno e allontanamento dei cittadini degli Stati membri dell'Unione europea. 1. Il Governo è delegato ad emanare, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo contenente la disciplina organica dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini degli altri Stati membri dell'Unione europea. 2. Il decreto legislativo deve osservare i seguenti princìpi e criteri direttivi: a) garantire piena ed integrale attuazione alle norme comunitarie relative alla libera circolazione delle persone in materia di ingresso, soggiorno, allontanamento, con particolare riferimento alla condizione del lavoratore subordinato e del lavoratore autonomo che intenda stabilirsi, prestare o ricevere un servizio in Italia; ….»; c) l’articolo 47: «Testo unico - Disposizioni correttive. 1. Il Governo è delegato ad emanare, entro il termine di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo contenente il testo unico delle disposizioni concernenti gli stranieri, nel quale devono essere riunite e coordinate fra loro e con le norme della presente legge, con le modifiche a tal fine necessarie: a) le disposizioni vigenti in materia di stranieri non incompatibili con le disposizioni della presente legge contenute nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773; b) le disposizioni della legge 30 dicembre 1986, n. 943, e quelle dell'articolo 3, comma 13, della legge 8 agosto 1995, n. 335, compatibili con le disposizioni della presente legge. 2. Il Governo è altresì delegato ad emanare, entro il termine di due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi recanti le disposizioni correttive che si dimostrino necessarie per realizzare pienamente i principi della presente legge o per assicurarne la migliore attuazione. Con le medesime modalità saranno inoltre armonizzate con le disposizioni della presente legge le altre disposizioni di legge riguardanti la condizione giuridica dello straniero. 3. …» V) con dlgs 25 luglio 1998, n. 286, fu approvato, ai sensi del citato art. 47 della legge 6 marzo 1998, n. 40, il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero; del dlgs 25 luglio 1998, n. 286, si rammentano, qui, in particolare: a) l’articolo 2: «Diritti e doveri dello straniero. 1. Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai princìpi di diritto internazionale 6 generalmente riconosciuti. 2. Lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei d iritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l'Italia e il presente testo unico dispongano diversamente. Nei casi in cui il presente testo unico o le convenzioni internazionali prevedano la condizione di reciprocità, essa è accertata secondo i criteri e le modalità previste dal regolamento di attuazione. 3. La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell'Oil n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani. 4. …»; b) l’articolo 27: «Ingresso per lavoro in casi particolari. 1. Al di fuori degli ingressi per lavoro di cui agli articoli precedenti, autorizzati nell'ambito delle quote di cui all'articolo 3, comma 4, il regolamento di attuazione disciplina particolari modalità e termini per il rilascio delle autorizzazioni al lavoro, dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato, per ognuna delle seguenti categorie di lavoratori stranieri: a …; … r bis infermieri professionali assunti presso strutture sanitarie pubbliche e private [lettera aggiunta dall'art. 22 della legge 30 luglio 2002, n. 189]. 2. …. 3. Rimangono ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività»; c) l’articolo 43: «Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. 1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente .... 2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell'esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionali, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; … 3. …»; VI) poiché, come si è visto, l’articolo 27, II co., del dlgs 25 luglio 1998, n. 286, dispone che rimangano «ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività» occorre, a questo punto, 7 estendere a questo tema la ricognizione normativa; va anzitutto, ricordato, a tal proposito, che, originariamente, il possesso della cittadinanza italiana era richiesto, dall'art. 2 del dpr 10 gennaio 1957, n. 3, tra i «requisiti generali» per l'accesso agli impieghi civili dello Stato; VII) al predetto tu facevano, generalmente, riferimento le varie discipline settoriali del pubblico impiego; per quanto riguarda lo stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali v., per es., il I comma dell’ articolo 10 del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761, del seguente tenore: «Ammissione agli impieghi. Per l'ammissione agli impieghi si applicano, salvo quanto previsto dal presente decreto, le norme vigenti per i dipendenti civili dello Stato di cui al dpr 10 gennaio 1957, n. 3, e successive integrazioni e modificazioni»; VIII) l'art. 2 (intitolato «Pubblico impiego») della l. 23 ottobre 1992, n. 421, («Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale») recò, sotto la lettera t, la seguente direttiva: «t) prevedere una organica regolamentazione delle modalità di accesso all'impiego presso le pubbliche amministrazioni, espletando, a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri, concorsi unici per profilo professionale, da espletarsi a livello regionale, abilitanti all'impiego presso le pubbliche amministrazioni, ad eccezione delle regioni, degli enti locali e loro consorzi, previa individuazione dei profili professionali, delle procedure e tempi di svolgimento dei concorsi, nonché delle modalità di accesso alle graduatorie di idonei da parte delle amministrazioni pubbliche, prevedendo altresì la possibilità, in determinati casi, di provvedere attraverso concorsi per soli titoli o di selezionare i candidati mediante svolgimento di prove psicoattitudinali avvalendosi di sistemi automatizzati; prevedere altresì il decentramento delle sedi di svolgimento dei concorsi [lettera così modificata dall'art. 11, l. 15 marzo 1997, n. 59]»; IX) l'art. 1 (intitolato «Sanità») della stessa legge 23 ottobre 1992, n. 421, appena citata sub VIII («Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale») recò anche, sotto la lettera q, la seguente direttiva: «q) prevedere che il rapporto di lavoro del personale dipendente sia disciplinato in base alle disposizioni dell'articolo 2 della presente legge, individuando in particolare i livelli dirigenziali secondo criteri di efficienza, di non incremento delle dotazioni organiche di ciascuna delle attuali posizioni funzionali e di rigorosa selezione negli accessi ai nuovi livelli dirigenziali cui si perverrà soltanto per pubblico concorso, configurando il livello dirigenziale apicale, per quanto riguarda il personale medico e per le altre professionalità sanitarie, quale incarico da conferire a dipendenti forniti di nuova, specifica idoneità nazionale all'esercizio delle funzioni di direzione e rinnovabile, definendo le modalità di accesso, le attribuzioni e le 8 responsabilità del personale dirigenziale, ivi incluse quelle relative al personale medico, riguardo agli interventi preventivi, clinici, diagnostic i e terapeutici, e la regolamentazione delle attività di tirocinio e formazione di tutto il personale»; X) in attuazione della delega di cui all'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, fu emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 («Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421»); si ricordano, del decreto legislativo in parola: a) l'art. 37 (dapprima modificato, limitatamente al III comma, dall'art. 24 del dlgs n. 80 del 1998 e, poi, abrogato e riprodotto, nel testo modificato, dall’art. 38 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), del seguente tenore: «Articolo 37. Accesso dei cittadini degli Stati membri della Comunità europea. 1. I cittadini degli Stati membri della Comunità economica europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale. 2. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell'art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono individuati i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all'accesso dei cittadini di cui al comma 1. 3. Nei casi in cui non sia intervenuta una disciplina di livello comunitario, all'equiparazione dei titoli di studio e professionali si provvede con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato su proposta dei Ministri competenti [Tali posti furono fissati con il dpcm 7 febbraio 1994, n. 174]. Con eguale procedura si stabilisce la equivalenza tra i titoli accademici e di servizio rilevanti ai fini dell'ammissione al concorso e della nomina»; b) l’articolo 41: «Requisiti di accesso e modalità concorsuali. 1. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, con decreto del Presidente della Repubblica da adottare ai sensi dell'art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono disciplinati: a) i requisiti generali di accesso all'impiego e la relativa documentazione; … 3. Per quanto non espressamente previsto dal presente capo ed in attesa dell'emanazione del decreto del Presidente della Repubblica di cui al comma 1, restano ferme le disposizioni vigenti in materia di assunzione all'impiego. …» (tale articolo fu, poi, abrogato dall'art. 43 del dlgs 31 marzo 1998, n. 80, articolo a sua volta abrogato dall'art. 72, del dlgs 30 marzo 2001, n. 165); XI) come si è già, appena, ricordato l’articolo 41 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, fu, poi, abrogato dall'art. 43 del dlgs 31 marzo 1998, n. 80 (articolo a sua volta abrogato dall'art. 72, del dlgs 30 marzo 2001, n. 165); tuttavia, nel tempo della vigenza dell’articolo 41 in questione, era stato, intanto, emanato, con il dpr 9 maggio 1994, n. 487, il regolamento previsto da tale disposizione; non sembra, sia detto per inciso, che la 9 successiva abrogazione della norma di delega possa avere travolto un atto normativo legittimamente emanato; l'art. 2 del regolamento di cui trattasi è del seguente tenore: «Articolo 2. Requisiti generali. 1. Possono accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni i soggetti che posseggono i seguenti requisiti generali: 1) cittadinanza italiana. Tale requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve le eccezioni di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 febbraio 1994, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 1994, serie generale n. 61; …»; XII) in attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, fu emanato il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 («Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421»); si ricorda, del decreto legislativo in parola, l'art. 18, del seguente tenore: «Articolo 18 Norme finali e transitorie. 1. Il Governo, con atto regolamentare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, adegua la vigente disciplina concorsuale del personale del Servizio sanitario nazionale alle norme contenute nel presente decreto ed alle norme del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, in quanto applicabili, prevedendo: a) i requisiti specifici, compresi i limiti di età, per l'ammissione; …. 2. Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 1 e salvo quanto previsto dal dlgs 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, i concorsi continuano ad essere espletati secondo la normativa del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761, e successive modificazioni ed integrazioni ivi compreso l'art. 9, L. 20 maggio 1985, n. 207 [Comma così sostituito dall'art. 19, d.lg. 7 dicembre 1993, n. 517]. … 10. Il Governo emana, entro centottanta giorni dalla pubblicazione del decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517, un testo unico delle norme sul Servizio sanitario nazionale, coordinando le disposizioni preesistenti con quelle del presente decreto [Comma aggiunto dall'art. 19, d.lg. 7 dicembre 1993, n. 517]» XIII) l’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483, «Regolamento recante la disciplina concorsuale per il personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale» (nel cui preambolo si legge fra l’altro: «Visto il decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761, recante norme sullo stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali; Visto il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni ed integrazioni, recante norme sul riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, ed, in particolare, l'art. 18, comma 1, secondo il quale il Governo, con atto regolamentare, deve adeguare la vigente disciplina concorsuale del personale del Servizio sanitario nazionale alle disposizioni contenute nel decreto legislativo 30 dicembre 1992, 10 n. 502 e successive modificazioni ed integrazioni, nonché alle norme del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni, stabilendo, in particolare, i requisiti specifici, compresi i limiti di età per l'ammissione ai concorsi …»), è del seguente tenore: «Articolo 1 Requisiti generali di ammissione. 1. Ai sensi dell'articolo 18, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni e integrazioni, possono partecipare ai concorsi coloro che possiedono i seguenti requisiti generali: a) cittadinanza italiana, salve le equiparazioni stabilite dalle leggi vigenti, o cittadinanza di uno dei Paesi dell'Unione europea; …». 10) All’esito dell’esplorazione normativa compiuta sub 9 risultano direttamente applicabili alla fattispecie che è oggetto del giudizio le seguenti disposizioni: a) l’articolo 2, III comma, del dlgs 25 luglio 1998, n. 286, a norma del quale «La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell'Oil n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani»; b) l’articolo 27, II co., del dlgs 25 luglio 1998, n. 286, secondo cui «rimangano «ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività»; c) l’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483 («Regolamento recante la disciplina concorsuale per il personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale »), del seguente tenore: «Articolo 1 Requisiti generali di ammissione. 1. Ai sensi dell'articolo 18, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni e integrazioni, possono partecipare ai concorsi coloro che possiedono i seguenti requisiti generali: a) cittadinanza italiana, salve le equiparazioni stabilite dalle leggi vigenti, o cittadinanza di uno dei Paesi dell'Unione europea; …». 11) In ordine alla norma di cui all’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483, che sembrerebbe, dunque, precludere al Dott. Gentian Memisha la partecipazione al concorso di cui trattasi debbono essere svolte le seguenti considerazioni: I) la fonte del diritto rappresentata dal decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483, ha natura di regolamento delegato, emanato a norma dell'art. 17, II comma, della legge 23 agosto 1988 n. 400; II) utilizzando lo strumento dei regolamenti delegati, previsti dal predetto II comma, il Governo può validamente disciplinare anche materie precedentemente regolate da atti con forza di legge; non per questo, però, può dirsi che i regolamenti in questione siano dotati di forza di legge, in quanto l’effetto abrogativo della norma di rango legislativo eventualmente sostituita da quella dettata dal regolamento è da imputarsi alla legge 11 autorizzativa, e non al regolamento, il quale, nel meccanismo, funge solo da fatto il cui avveramento costituisce la condizione di operatività dell’abrogazione stessa; III) consegue, da quanto detto sub II: a) che, «nell'ambito dei regolamenti governativi, non esiste alcun rapporto di gerarchia fra regolamenti di attuazione delle leggi, previsti in via generale dall'art. 17 comma 1, l. 23 agosto 1988, n. 400, e regolamenti delegificanti previsti dal successivo comma 2, essendo, anzi, conseguenza fisiologica del procedimento di delegificazione, consentire per l'avvenire, una disciplina di determinate materie in precedenza regolate da fonti primarie (salvo ovviamente i casi di riserva assoluta di legge), attraverso fonti regolamentari per provvedere alle ulteriori modifiche della disciplina, qualora se ne ravvisi l'opportunità …» (Corte dei conti, sez. riun., 27 dicembre 1999, n. 45/E, in Foro amm., 2000, 1983; v. anche Cassazione civile, sez. I, 15 ottobre 1984, n. 5169: «Il regolamento delegato, o meglio autorizzato, non va confuso con il decreto legislativo delegato (che non è un regolamento ma un atto equiparato alla legge) in quanto costituisce un atto di normativa secondaria al quale la legge consente di fare più di quello che potrebbe un comune regolamento e quindi di disporre su materia coperta da riserva di legge o di derogare ad una legge formale»; Corte costituzionale, 20 luglio 1995, n. 333, in Dir. e giur. agr., 1996, 157, con nota di La Medica; in Regioni, 1996, 113, con nota di Marzona: «Nella disciplina del procedimento per il riconoscimento doc di vini, di cui al dpr 20 aprile 1994, n. 348, non si ravvisa la violazione del principio della riserva di legge, in quanto tale principio opera solo con riferimento a materie di diretta spettanza regionale mentre per quelle di competenza statale, una fonte normativa, quale il regolamento delegato , autorizzata a disciplinare la materia con previsione di abrogazione delle norme vigenti, può avere forza innovativa dell'ordine legislativo preesistente»); b) che, «nell'attuale configurazione monastica di forma di governo con potere legislativo riservato al Parlamento, il controllo della Corte costituzionale deve essere limitato alle sole fonti primarie. È pertanto ritenuta inammissibile la q.l.c. di una norma regolamentare, nella specie di un regolamento c.d. "autorizzato" ex art. 17 comma 2 l. 23 agosto 1988 n. 400, che va, invece, sottoposta al vaglio del giudice amministrativo, sotto l'aspetto della sua legittimità (Tar di Latina, 17 aprile 2000, n. 189; v. anche Consiglio Stato, sez. V, 3 febbraio 1978, n. 135: «Il dpr 18 marzo 1957, n. 266, emanato in base all'art. 31 l. 29 dicembre 1956 n. 1533, concretizza la figura del regolamento delegato nel quale l'autorizzazione delle camere al governo non trasferisce a questo la funzione legislativa ma ampia soltanto la facoltà regolamentare del medesimo. L'atto emanato conserva, quindi, anche per quanto concerne la sua impugnabilità, il contenuto di atto amministrativo»; Corte costituzionale, 15 luglio 2003, n. 239, in Giur. cost., f. 4: «Deve essere respinta l'eccezione di inammissibilità della q.l.c. degli art. 120 comma 12 2, e 130, comma 1, lett. b), dlgs 30 aprile 1992, n. 285, relativamente alle previsioni degli art. 5 e 11 dpr 19 aprile 1994, n. 575, proposta sull'assunto del carattere regolamentare delle norme impugnate. I giudici rimettenti hanno, infatti, ritenuto che la sostituzione delle disposizioni di rango legislativo non si sia perfezionata per ragioni concernenti i limiti della materia disciplinata, risultando perciò inoperante la clausola abrogatrice delle norme anteriori, prevista quale effetto di "delegificazione" conseguente all'entrata in vigore del citato regolamento, e restando esse tuttora in vigore»; Corte costituzionale, 18 giugno 2003, n. 212, in Giur. cost., f. 3: «È inammissibile la q.l.c. dell'art. 239 dpr 30 maggio 2002, n. 115, sollevata in riferimento agli art. 76, 97 comma 1 e 111 cost., in quanto trattasi di questione avente ad oggetto norma non di rango legislativo, ma regolamentare, come tale sottratta al sindacato di legittimità costituzionale, derivando essa dal dpr 30 maggio 2002, n. 114, concernente il testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di spese di giustizia e non dal d.lg. 30 maggio 2002, n. 113»; Corte costituzionale, 14 giugno 2001, n. 194, in Giur. cost., f. 3; in Foro it., 2002, I, 34: « È manifestamente inammissibile , in quanto avente ad oggetto una disposizione di natura regolamentare, la q.l.c. dell'art. 17 del regolamento di previdenza per i deputati dell'assemblea regionale siciliana approvato nella seduta del 19 luglio 1973 n. 176, nella parte in cui non prevede per il coniuge divorziato del deputato regionale, il diritto all'assegno vitalizio di reversibilità, in riferimento all'art. 3 cost.)»; c) che, anche in ordine ai regolamenti delegati, spetta al giudice ordinario la potestà disapplicativa prevista dall’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E (sul punto v., ex plurimis, Cassazione civile, sez. I, 1° aprile 1982, n. 2006, in Riv. giur. edilizia, 1983, I, 29: «Il potere-dovere del giudice di riscontrare la conformità alla Costituzione ed alla legge di un atto amministrativo normativo, quale il regolamento cosiddetto delegato, al fine della sua eventuale disapplicazione, ove illegittimo, nella parte in cui sia lesivo delle posizioni soggettive dedotte in causa, può essere esercitato anche in sede di cassazione, non rendendosi necessari nuovi accertamenti di fatto ed in osservanza del principio jura novit curia»; v. anche Cassazione civile, sez. lav., 16 giugno 1981, n. 3928: «Il dm 6 marzo 1969, con cui sono state determinate le retribuzioni convenzionali medie dei dipendenti delle aziende alberghiere da prendere a base del calcolo dei contributi previdenziali, non ha efficacia retroattiva, giacché il potere dell'autorità amministrativa di operare tale determinazione anche per il passato non risulta conferito dalla legge (art. 6 rd 14 aprile 1939, n. 636, e art. 35 dpr 30 maggio 1955, n. 797), la quale attribuisce solo il potere di adeguare ex nunc la base di calcolo in relazione alle contingenze temporali. L'attribuzione al citato decreto ministeriale della natura di regolamento delegato (fondato, cioè, sull'espresso conferimento di potestà normativa da parte della legge) o la sua riconduzione alla categoria degli atti generali 13 non escludono, che, nell'una come nell'altra ipotesi, al giudice ordinario, chiamato a conoscere della fattispecie di cui il decreto suddetto entra a far parte, spetti il potere-dovere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi (art. 5 l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E), a prescindere da qualsiasi impugnazione in sede di giurisdizione amministrativa»; Cassazione civile, sez. lav., 26 novembre 1994, n. 10069: «La previsione, da parte dell'art. 4 del dm 2 luglio 1983, n. 1622 (che, in tema di equo indennizzo per i ferrovieri, riproduce, quanto alle modalità di presentazione della domanda, la disciplina già prevista in via generale dall'art. 51 del dpr 3 maggio 1957 n. 686), di un termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di equo indennizzo è legittima, traendo tale previsione regolamentare (che è riconducibile non all'ipotesi di esecuzione o a quello del regolamento autonomo o indipendente ma all'ipotesi del regolamento delegato) origine e legittimità dalla norma primaria costituita dall'art. 11 della l. 6 dicembre 1981, n. 564, ed essendo detto termine congruo e ragionevole, e tale, quindi, da non comprimere il diritto al beneficio, svuotandone il contenuto»; Cassazione civile, sez. II, 17 ottobre 1985, n. 5113, in Giur. imp., 96; in Riv. giur. edilizia, 1986, I, 117; in Giur. it., 1986, I, 1, 698: «Il rd n. 274 del 1929, in tema di competenza professionale dei geometri ha natura di regolamento delegato: pertanto il relativo controllo di legittimità deve coinvolgere l'esame della sua conformità alla legge "delegante"»; Cassazione civile, sez. trib., 4 novembre 2003, n. 16498, in Giur. it., 2004, 857: «Il fatto che taluna delle disposizioni emanate dall'Autorità di vigilanza possa risultare in contrasto con i principi elencati nei decreti legislativi che la regolamentano , così come la prospettazione di qualsiasi altra illegittimità delle disposizioni regolamentari non osservate non incide sulla legittimità costituzionale di dette norme, ma comporta la disapplicazione da parte del giudice adito di quelle secondarie ritenute illegittime, ai sensi dell'art. 5 l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E»; Cassazione civile, sez. I, 20 settembre 2002, n. 13770, in D&G - Dir. e Giust., f. 38, 74; in Giust. civ., I, 2390: «La disposizione dell'art. 373, comma 1, del regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada (d.P.R. n. 495 del 1992), ove estende in via solidale al proprietario del veicolo l'obbligazione di pedaggio assunta dal conducente con l'impiego del mezzo in un tratto autostradale, è illegittimo, in carenza di previsioni in tal senso da parte di detto codice o di altra norma di legge, tenuto conto che tale estensione, comportando l'imposizione di una prestazione patrimoniale (per fatto altrui), richiede una disposizione normativa; all'illegittimità della menzionata disposizione consegue la disapplicazione della stessa, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 2248 all. E del 1865»; Cassazione civile, sez. lav., 13 novembre 2001, n. 14095, in Vita not., 1459: «L'indennità di cessazione dalla carica spetta anche al notaio incaricato in via temporanea ai sensi dell'art. 6 l. 16 febbraio 1913 n. 89, dovendosi disapplicare, ex art. 5 l. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E, perché contraria agli art. 3 e 38 cost., la norma regolamentare 14 di cui all'art. 17, comma 5, dpr 12 ottobre 1990, n. 317, la quale esclude il periodo di esercizio temporaneo di funzioni notarili ai fini della determinazione dell'indennità di cessazione prevista dall'art. 26 del medesimo dpr»; Corte costituzionale, 18 ottobre 2000, n. 427, in Cass. pen., 2001, 776, con nota di Nuzzo; in Foro it., 2001, I, 170: «Sono inammissibili le q.l.c. del combinato disposto degli art. 120 comma 1 e 130 comma 1 lett. b) dlgs n. 285 del 1992, così come sostituiti dal dpr 19 aprile 1994, n. 575 (Regolamento recante la disciplina dei procedimenti per il rilascio e la duplicazione della patente di guida dei veicoli), sollevate in riferimento agli art. 3, 4, 76 e 97 cost.»; ivi, in particolare, leggesi fra l’altro: «…4. - Inammissibili sono invece le questioni sollevate dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia - sezione staccata di Lecce, sulle disposizioni degli artt. 120, comma 1, e 130, comma 1, lettera b), del decreto legislativo contenente il nuovo codice della strada, come sostituite dal dpr n. 575 del 1994. Con tale formula, che ricorre in due ordinanze (r.o. 715 e 716/1999), deve intendersi che il giudice rimettente abbia inteso sollevare questione di legittimità costituzionale di norme aventi ormai natura regolamentare, ciò che, per costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, e specificamente in tema di regolamenti di "delegificazione", ordinanza n. 100 del 2000), eccede i limiti della sua giurisdizione, secondo la definizione che di questa è data dall'art. 134 della Costituzione il quale la limita al caso dell'illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge. Il pieno esplicarsi della garanzia della Costituzione nel sistema delle fonti, in particolare con riferimento a quelle di valore regolamentare adottate in sede di "delegificazione", non è comunque pregiudicato dall'anzidetta limitazione della giurisdizione del giudice costituzionale. La garanzia è normalmente da ricercare, volta a volta, a seconda dei casi, o nella questione di costituzionalità sulla legge abilitante il Governo all'adozione del regolamento, ove il vizio sia a essa riconducibile (per avere, in ipotesi, posto principi incostituzionali o per aver omesso di porre principi in materie che costituzionalmente li richiedono); o nel controllo di legittimità sul regolamento, nell'ambito dei poteri spettanti ai giudici ordinari o amministrativi, ove il vizio sia proprio ed esclusivo del regolamento stesso …»); IV) l’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483 è, a parere della Corte, nella parte in cui prevede, quale requisito di ammissione ai concorsi per il personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale, il possesso della cittadinanza italiana o della cittadinanza di uno dei Paesi dell'Unione europea, inapplicabile, nella presente fattispecie, per più ordini di ragioni: a) anzitutto va chiarito che il fatto che, precedentemente, lo stesso precetto fosse recato da una fonte di rango legislativo non muta i termini relativi alla individuazione della tecnica di riconduzione della disciplina giuridica alla legalità dell’ordinamento, che deve essere quella relativa ai regolamenti: 15 se anche si volesse ritenere che la precedente norma legislativa, recante lo stesso precetto sostanziale, avesse costituito, per il normatore delegato, ai sensi dell’art. 17 cpv della legge 23 agosto 1988, n. 400, una delle «norme generali regolatrici della materia» alle quali il normatore delegato era, in via di principio, vincolato, certamente andrebbe, al contempo, considerato che, a maggior ragione, lo stesso normatore delegato avrebbe dovuto rispettare, nell’esercizio della delega, le norme, ugualmente vigenti, aventi, in ipotesi, valore preponderante rispetto a quelle illegittime; l’eventuale illegittimità del precetto de quo per contrasto con una di tali norme non potrebbe, quindi, ormai, essere utilmente riferita alla norma legislativa abrogata ma solo al regolamento, attualmente vigente, che l’ha reiterata; b) si è già ricordato (§ 9, I) che la convenzione numero 143 dell'Organizzazione internazionale del lavoro, del 24 giugno 1975, ratificata dall’Italia sulla base della legge 10 aprile 1981, n. 158 e resa esecutiva colla stessa legge, impegna, tra l’altro, gli Stati contraenti ad «attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti alle circostanze ed agli usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione …» (art. 10) e prevede che la preclusione, nei confronti dello straniero, all'accesso «a limitate categorie di occupazione e di funzioni» possa attuarsi «qualora tale restrizione sia necessaria nell'interesse dello Stato» (art. 14); c) secondo un primo, possibile iter logico-giuridico la norma che impegna l’Italia alla parità, con l’eccezione ora rammentata, coi lavoratori italiani e alla parità dei lavoratori stranieri fra loro rimarrebbe insensibile, per il suo, originario carattere internazionale, ad ogni, eventuale, successiva norma giuridica interna, fossanco di rango legislativo, che, in qualunque fattispecie concreta, si ponesse in conflitto con essa: in altre parole, ragionando sulla base di una distinzione delle norme giuridiche secondo la competenza loro assegnata dall'ordinamento e non secondo il loro valore gerarchico, il conflitto, in tali casi, dovrebbe sempre essere, de plano, risolto con l’applicazione della norma di fonte internazionale, senza nemmeno l’intermediazione logica dell’accertamento d’invalidità della fonte nazionale: in un tale ordine di concetti sembra porsi la Corte costituzionale quando, nella sentenza 19 gennaio 1993, n. 10, ha, fra l’altro, affermato: «… La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, stabilisce all'art. 6, terzo comma, lettera a), che "ogni accusato ha diritto (...) a essere informato, nel più breve spazio di tempo, nella lingua che egli comprende e in maniera dettagliata, della natura e dei motivi dell'accusa a lui rivolta". Una disposizione del tutto identica é, altresì, contenuta nell'art. 14, terzo comma, lettera a), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, patto che é stato firmato il 19 dicembre 1966 a New York ed é stato reso esecutivo in Italia 16 con la legge 25 ottobre 1977, n. 88l. Le norme internazionali appena ricordate sono state introdotte nell'ordinamento italiano con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione (v. sentt. nn. 188 del 1980, 153 del 1987 e 323 del 1989) e sono tuttora vigenti, non potendo, certo, esser considerate abrogate dalle successive disposizioni del codice di procedura penale, non tanto perché queste ultime sono vincolate alla direttiva contenuta nell'art. 2 della legge delega del 16 febbraio 1987, n. 81 ("il codice di procedura penale deve [...] adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale"), quanto, piuttosto, perché si tratta di norme derivanti da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tali, insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (per un’altra applicazione della distinzione fra le norme giuridiche sulla base della competenza v. Corte costituzionale, 7 novembre 1995, n. 482, in Riv. trim. appalti, 75, con nota di Anelli, Nicodemo, Senzani; in Regioni, 1996, 373, con nota di Morbidelli; in Rass. giur. Enel, 1996, 903: «La delegificazione in materia di lavori pubblici prevista dall'art. 3 l. n. 109 del 1994 non è applicabile nei confronti della legislazione regionale o provinciale, in quanto i regolamenti governativi, compresi quelli delegat i, non sono legittimati a disciplinare materie di competenza regionale o provinciale, né lo strumento della delegificazione ex art. 17 l. n. 400 del 1988 può operare per fonti di natura diversa da quella statale, in quanto fra quest'ultima e le fonti di natura regionale o provinciale vi è un rapporto di competenza e non di gerarchia»); d) anche prescindendo dall’iter logico-giuridico del quale si è detto sub c rimane la costatazione del particolare rilievo, nel sistema delle fonti del diritto interno, della norma, di origine internazionale, che impegna l’Italia alle sopradette parità; ed infatti: d.1) è pur vero che, per giurisprudenza, non solo costituzionale, consolidata, il principio dell’adattamento automatico, di cui all’art. 10, 1° co. («L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute») non riguarda le norme internazionali pattizie, ma solo quelle consuetudinarie (sebbene, per il vero, anche la regola pacta sunt servanda sia consuetudinaria; riguardo alla giurisprudenza v. Consiglio di Stato, sez. IV, 10 agosto 2004, n. 5499, in Foro amm. Cds, , 2152: «È inconfigurabile un rapporto di supremazia analogo a quello definito con riferimento alle fonti di carattere generale del diritto internazionale (di natura consuetudinaria e che trovano ingresso nell'ordinamento interno per mezzo del suo adeguamento automatico sancito dall'art. 10 cost., acquistando in tal modo valore costituzionale) tra le norme della convenzione europea sui diritti dell'uomo (di natura pattizia e recepita con legge ordinaria) e le leggi nazionali e ciò determina l'insussistenza del presupposto giuridico e concettuale che autorizza la disapplicazione delle disposizioni legislative interne confliggenti con il diritto all'effettività della tutela 17 giurisdizionale sancito dalla convenzione »; Corte costituzionale, 29 gennaio 1996, n. 15: «A differenza di quel che avviene, per effetto dell'art. 10, comma 1, cost., rispetto al diritto internazionale generalmente riconosciuto, l'eventuale contraddizione di trattati da parte di norme legislative interne non determinerebbe un vizio di incostituzionalità di tali norme indipendentemente dalla mediazione di una norma della Costituzione, dato che la vigenza in Italia di un trattato deriva pur sempre da un atto di volontà sovrana dello Stato espresso in forma legislativa»; ivi leggesi: «… Tuttavia, il richiamo che l'ordinanza di rimessione, attraverso l'art. 10, primo comma, della Costituzione, fa a questa norma non è conferente, ai fini della presente questione di legittimità costituzionale. In primo luogo, per motivi formali, non si può dire, che in questo, come in altri casi del medesimo genere, si abbia a che fare fin da ora con il diritto internazionale generalmente riconosciuto, al quale l'art. 10, primo comma, della Costituzione rinvia per incorporarlo nell'ordinamento italiano, attribuendo a esso un valore di norme costituzionali, pur escludendo la possibilità di derogare ai principi fondamentali del nostro ordinamento (sent. n. 48 del 1979). Per quanto all'origine vi sia una deliberazione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, consegnata a un testo che esprime un accordo internazionale che ha da tempo ricevuto numerose adesioni e che è perciò efficace come trattato multilaterale, e sebbene i principi ivi proclamati abbiano portata universale per la loro stessa intrinseca natura, l'adesione a quel patto e la sua vigenza in Italia derivano pur sempre da un atto di volontà sovrana individuale dello Stato espresso in forma legislativa. E ciò - se non impedisce di attribuire a quelle norme grande importanza nella stessa interpretazione delle corrispondenti, ma non sempre coincidenti, norme contenute nella Costituzione - impedisce però di assumerle in quanto tali come parametri nel giudizio di costituzionalità delle leggi (ex pluribus, sentenze nn. 323 del 1989, 153 del 1987 e, specificamente, sentenza n. 188 del 1980, nonché ordinanza di questa Corte in composizione integrata per i procedimenti d'accusa, 6 febbraio 1979). Cosicché, una loro eventuale contraddizione da parte di norme legislative interne non determinerebbe di per sé - cioè indipendentemente dalla mediazione di una norma della Costituzione - un vizio d'incostituzionalità. Un rilievo, questo, che vale ancor più chiaramente per le norme contenute nel Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, anch'esso sinteticamente evocato dal giudice a quo, unitamente al Patto internazionale sui diritti civili e politici, con riguardo all'art. 10 della Costituzione …»; Corte costituzionale, 26 febbraio 1993, n. 75, in Giur. cost. 1993, 500; in Riv. dir. internaz. 1993, 447: «È manifestamente infondata, con riferimento all'art. 10 cost. in relazione all'art. 6 par. 3 lett. d) della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata con l. 4 agosto 1955 n. 848, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 244 comma 1 c.p.c., nella parte in cui non prevede che, 18 oltre al nome ed al cognome delle persone specificamente indicate sui singoli capitoli di prova sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata, il convenuto abbia diritto alla precisazione della residenza delle persone indicate a testi, e cioè all'elemento essenziale per individuarli e reperirli. La giurisprudenza costante della corte esclude le norme internazionali pattizie, ancorché generali, dall'ambito normativo o dell'art. 10 cost., il principio di adeguamento automatico dell'ordinamento giuridico italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute dovendo intendersi riferito esclusivamente alle norme consuetudinarie »; Corte costituzionale, 27 dicembre 1991, n. 496, in Giur. cost ., fasc. 6. «È manifestamente infondata, con riferimento all'art. 10 cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 20 comma 4 r.d. 16 luglio 1905 n. 646 (approvazione del t.u. delle leggi sul credito fondiario). Le norme internazionali pattizie, quale l'invocato art. 6 prg. 3 lett. a della convenzione europea dei diritti dell'uomo, fuoriescono dall'ambito di operatività dell'art. 10 cost., che può avere ad oggetto soltanto norme di carattere consuetudinario»; Corte costituzionale, 27 giugno 1989, n. 364, in Giur. cost., fasc. 3: «È manifestamente infondata, in riferimento all'art. 10 cost., la questione di legittimità costituzionale, esaminata per la prima volta, dell'art. 633 comma ultimo c.p.c., nella parte in cui non consente la tutela monitoria se la notificazione dell'ingiunzione all'intimato debba effettuarsi all'estero, in asserito contrasto con i patti comunitari i quali comportano, tra l'altro, l'obbligo della repubblica di garantire la liberalizzazione degli scambi commerciali all'interno della comunità. Le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, richiamate dall'art. 10 cost., non si identificano nelle norme pattizie derivanti da trattati e convenzioni internazionali ratificati dallo Stato, come il trattato di Roma. Comunque nei patti comunitari non si configurano principi generali incidenti sulla materia del processo, lasciata alla disciplina del diritto interno degli Stati membri. Il divieto di notificazione del decreto ingiuntivo all'estero determina solo una causa di inammissibilità della tutela monitoria, che è un procedimento speciale, e non un difetto della giurisdizione, potendosi agire in sede ordinaria»; Corte costituzionale, 13 maggio 1987, n. 153: «… 14. - Tenendo presenti le conclusioni cui si era pervenuti nell'esporre il quadro delle norme di diritto internazionale vigenti nella materia, appare infine infondata la questione di costituzionalità degli artt. 1 e 2 della l. n. 103 del 1975 nella parte in cui riservano allo Stato le trasmissioni via etere verso l'estero, sollevata con riferimento all'art. 10, primo comma della Costituzione e 10 n. 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Al riguardo va infatti rilevato che questa Corte ha costantemente affermato (sent. nn. 32 del 1960, 135 del 1963, 48 del 1967, 104 del 1969, 69 del 1976, 48 del 1979, 188 del 1980, 96 del 1982) il principio secondo cui l'adeguamento automatico alle norme di diritto internazionale generalmente 19 riconosciute può avere ad oggetto soltanto norme di carattere consuetudinario, mentre l'ordinanza di rimessione fa riferimento all'art. 10 della predetta convenzione che è norma di carattere pattizio»); d.2) è anche vero, però, che la norma pattizia che impone la parità riguarda il tema della condizione giuridica dello straniero ed è vero, ancora, che l’art. 10, II co., della Costituzione afferma: «La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali»; d.3) la formula dell’art. 10, II co., della Costituzione non implica che le norme pattizie in tema di condizione giuridica dello straniero assumano, una volta introdotte nel diritto interno, un rango costituzionale, dovendo, in realtà, esse stesse, sottoporsi previamente al vaglio di legittimità costituzionale (sul punto v. Corte costituzionale, 21 giugno 1979, n. 54, in Riv. dir. internaz., 802: «Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici. La circostanza che l'art. 10, comma 2, cost. preveda che la condizione giuridica dello straniero "è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali" non comporta che la legge ordinaria di esecuzione di uno di tali trattati si sottragga al controllo di costituzionalità. Norme di raffronto per siffatto controllo non sono i soli disposti costituzionali che si riferiscono esplicitamente agli stranieri in genere ed all'estradizione in specie, bensì le norme e i principi costituzionali»); tuttavia non è dubbio, a parere della Corte, che, una volta superato questo vaglio, esse si collochino, nei confronti delle norme legislative ordinarie (e, naturalmente, nei confronti delle norme di regolamento, delegato o non che esso sia), in una posizione gerarchicamente sovra-ordinata (secondo un meccanismo simile a quello previsto, in riferimento al Concordato, secondo la giurisprudenza costituzionale, dall’art. 7 Cost.; sembra affermare questo principio, in giurisprudenza, Cassazione civile, sez. III, 10 febbraio 1993, n. 1681, in Dir. economia assicur., 297; in Foro it., I, 3067, con nota di Calò; in Nuova giur. civ. commentata, I, 643, con nota di Campeis, De Pauli: «L'art. 16 comma 1 delle disposizioni sulla legge in generale, che ammette lo straniero al godimento dei diritti civili attribuiti al cittadino italiano solo a condizione di reciprocità, non è derogato dagli art. 2-3-10-24 cost. perché: 1) l'art. 2 si riferisce solo ai diritti inviolabili specificamente individuati e riconosciuti dai successivi art. 13 (diritto di libertà personale), 14 (inviolabilità del domicilio), 15 (libertà e segretezza della corrispondenza), 19 (libertà religiosa), 27 (personalità della responsabilità penale), 24 (tutela giurisdizionale), i quali sono, quindi, i soli diritti riconosciuti anche allo straniero senza il limite della condizione di reciprocità; 2) l'art. 3 non esclude i trattamenti differenziati che rispondono ad un criterio di ragionevolezza (quale è quello riservato agli stranieri dal citato art. 16 delle disposizioni sulla legge in generale; 3) l'art. 10 impone solo l'adeguamento delle norme sulla condizione giuridica dello straniero alle norme ed ai trattati internazionali, implicitamente 20 legittimando quelle limitazioni che non contrastano con altre norme costituzionali o con i principi e gli atti di diritto internazionale; 4) l'art. 24 si riferisce solo alla tutela giurisdizionale dei diritti già posseduti e riconosciuti»; nella sentenza 27 luglio 2000, n. 376 (in Giur. cost., 2675; in Dir. pen. e processo, 1347; in Riv. dir. internaz., 1149: « È costituzionalmente illegittimo, per violazione degli art. 2, 3, 10, 29 e 30 cost., l'art. 17 comma 2 lett. d) l.6 marzo 1998 n. 40 (Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero), ora sost. dall'art. 19 comma 2 lett. d) d.lg. 25 luglio 1998 n. 286 (Tu delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui non estende il divieto di espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio»), la Corte Costituzionale, pur senza manifestare expressis verbis il senso giuridico del raffronto da essa operato, definì, comunque, la questione che le era, in concreto, sottoposta assumendo, in sostanza, a parametro della legittimità della norma legislativa che era oggetto del giudizio, riguardante la condizione giuridica dello straniero, anche alcune norme di fonte internazionale pattizia: si legge, in particolare, tra l’altro, nella predetta sentenza: «… 6. - I principi di protezione dell'unità familiare, con specifico riguardo alla posizione assunta nel nucleo dai figli minori in relazione alla comune responsabilità educativa di entrambi i genitori, non trovano riconoscimento solo nella nostra Costituzione ma sono affermati anche da alcune disposizioni di trattati internazionali ratificati dall'Italia, tra le quali: quelle di cui agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848; l'art. 10 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali e l'art. 23 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, ratificati e resi esecutivi dalla legge 25 ottobre 1977, n. 881; gli artt. 9 e 10 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, ratificata e resa esecutiva dalla legge 27 maggio 1991, n. 176; dal complesso di queste norme, pur nella varietà delle loro formulazioni, emerge un principio, pienamente rinvenibile negli artt. 29 e 30 Cost., in base al quale alla famiglia deve essere riconosciuta la più ampia protezione ed assistenza, in particolare nel momento della sua formazione ed in vista della responsabilità che entrambi i genitori hanno per il mantenimento e l'educazione dei figli minori; tale assistenza e protezione non può non prescindere dalla condizione, di cittadini o di stranieri, dei genitori, trattandosi di diritti umani fondamentali, cui può derogarsi solo in presenza di specifiche e motivate esigenze volte alla tutela delle stesse regole della convivenza democratica …»); e) deve escludersi che, nel vigente ordinamento, un primario ospedaliero sia titolare di potestà pubbliche o che, comunque, possa, per la posizione lavorativa in questione, aversi il caso, previsto dall’art. 14 della convenzione dell’Oil del 1975, della 21 ricorrenza di un «interesse dello Stato» a precludere l’accesso di uno straniero a tale posto; del resto è la stessa Amministrazione ora reclamante a riconoscere, per facta concludentia, quanto si è detto: essa ha, infatti, deliberato di ammettere al concorso in questione anche i cittadini di altri paesi dell’Unione europea e ciò, a norma dell’art. 38 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (v. § 9, x, a), è stato possibile solo perché il posto di lavoro de quo è stato, evidentemente, individuato, appunto, tra quelli «che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale»; f) discende, da quanto si è detto, che il regolamento approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483, è - nella parte in cui prevede, in riferimento ai cittadini stranieri, una limitazione dell ’accesso ai concorsi per il personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale maggiore di quella consentita, agli Stati contraenti, dalla convenzione numero 143 dell'Organizzazione internazionale del lavoro, del 24 giugno 1975, ratificata dall’Italia sulla base della legge 10 aprile 1981, n. 158 e resa esecutiva colla stessa legge illegittimo e che esso, dunque, nella presente controversia, avente ad oggetto l’allegato diritto dell’attuale convenuto in sede di reclamo di partecipare al concorso in questione, deve essere disapplicato, in parte qua, ex art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E; il regolamento in questione risulta, tra l’altro, illegittimo, e deve, pertanto, essere disapplicato, anche nella parte in cui, in violazione del principio di parità tra i cittadini stranieri, stabilito dalla citata convenzione numero 143 dell'Organizzazione internazionale del lavoro, prevede, per taluni cittadini stranieri, un trattamento deteriore rispetto a quello previsto per altri cittadini stranieri: si osservi, sul punto, che un trattamento differenziato in mejus non è previsto solo in favore dei cittadini di altri paesi dell’Unione (ciò che potrebbe essere giustificato in relazione alla cd cittadinanza dell’Unione) ma anche, in forza di specifici accordi bilaterali (come quello, firmato a Bruxelles il 16 dicembre 1991, con la Polonia, ratificato dall'Italia in forza della legge 30 settembre 1993, n. 386, e reso esecutivo dalla stessa legge), in favore di cittadini di determinati paesi terzi (su quest’ultimo punto v., per es., Tar di Roma, sez. III, 21 gennaio 2002, n. 540: «Ai sensi dell'art. 37 dell'accordo fra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e la Repubblica di Polonia, dall'altra, ratificato dall'Italia con legge 30 settembre 1993, n. 386, il trattamento accordato ai lavoratori di nazionalità polacca legalmente occupati nel territorio di uno Stato membro è esente da qualsiasi discriminazione basata sulla nazionalità per quanto riguarda le condizioni di lavoro; pertanto, poiché ai concorsi per posti di pubblico impiego trova applicazione il dpr 9 maggio 1994 n. 487, è illegittima l'esclusione di un cittadino polacco per il solo fatto che il medesimo non abbia la cittadinanza italiana»). 22 12) Il reclamo va, dunque, respinto perché infondato, con la conseguente, integrale conferma del provvedimento impugnato. 13) Ricorrono giusti motivi (giurisprudenza non univoca) per disporre l'integrale compensazione, fra le parti, delle spese relative al presente grado di giudizio. P Q M la Corte d'Appello di Firenze, prima sezione civile, rigetta, perché infondato, il reclamo proposto dall’Azienda ospedalierouniversitaria di Careggi contro il decreto del Tribunale di Pistoia depositato il 7 v 2005, confermando integralmente il provvedimento impugnato; compensa integralmente, fra le parti, le spese relative al presente grado di giudizio. Così deciso in Firenze, nella camera di consiglio del 30/9/2005. Il Presidente FTO MASSETANI DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 21/12/05 Il Cancelliere LILIA PERRI 23