La Corte d`appello di Firenze,CRON.11333 prima sezione civile

La Corte d’appello di Firenze,CRON.11333
prima sezione civile,
composta dai Signori
Giovacchino Massetani,
Presidente,
Bruno Rados,
Consigliere,
Alessandro Turco,
Consigliere, rel., est.,
pronuncia il presente
decreto
nel procedimento iscritto al n. 415 del ruolo della volontaria
giurisdizione dell'anno 2005, promosso, in questo grado,
da
Azienda
ospedaliero-universitaria
di
Careggi
(già
Azienda
ospedaliera di Careggi), rappresentata e difesa, per procura
estesa in calce al reclamo, dall'Avvocata
Enrichetta Brandi, di
Firenze,
elettivamente
domiciliata
presso
la
sede
legale
dell’Ente, in Firenze,
reclamante,
contro
**********, elettivamente domiciliato presso la persona e lo
studio dell'Avvocata Daniela Consoli, Via Senese, 12, Firenze, che
lo rappresenta e difende per procura estesa a margine della
comparsa di costituzione e risposta in sede di reclamo,
convenuto in sede di reclamo,
procedimento avente ad oggetto:
azione contro la discriminazione dello straniero ex art. 44 dlgs
25 luglio 1998, n. 286;
con l'intervento del
Pm,
il quale, il 15.6.2005, ha così concluso:
"Accoglimento del reclamo".
ÿÿÿÿÿÿÿÿÿÿ
La Corte,
letti gli atti e uditi i procuratori delle parti;
osserva:
1)
Con ricorso depositato presso la Cancelleria del Tribunale di
Pistoia il 15 XII 2004 ******** espose:
~
di essere cittadino albanese e di risiedere regolarmente in
Italia dal 31.3.1996;
~
di essere medico-chirurgo, specialista in cardiologia, e di
svolgere attualmente, dal 2002, la sua attività professionale,
dapprima come medico volontario e, dal marzo 2004, come libero
1
professionista “a contratto”, presso la divisione di cardiologia
dell’Ospedale di Careggi, in Firenze;
~
di avere avuto notizia, nel giugno 2004, che l’Azienda aveva
emanato un bando di concorso per 6 dirigenti medici in
Cardiologia, pubblicato nel Bollettino ufficiale della Regione
toscana n. 23 del 9.6.2004;
~
di avere constatato, avendo intenzione di partecipare al
concorso, che il bando richiedeva, per l'ammissibilità della
domanda di partecipazione, la "cittadinanza italiana, salve le
equiparazioni stabilite dalle leggi vigenti… o cittadinanza di uno
dei Paesi dell'Unione europea";
~
di avere, ugualmente, inviato la domanda di ammissione;
~
di
avere
ricevuto,
il
14.10.2004,
la
comunicazione
dell'Azienda di esclusione dal concorso per difetto della
cittadinanza italiana o della cittadinanza di uno dei Paesi
dell'Unione europea" (in un fax precedentemente inviato al
ricorrente si faceva, invece, riferimento al fatto che "l'essere
assunto presso una Azienda sanitaria con la qualifica di dirigente
pare implicare quell'esercizio di pubblici poteri che, per
normativa e giurisprudenza, sono riservati esclusivamente al
cittadini italiani").
2)
Argomentato
in
ordine
all’antigiuridicità
della
discriminazione in discorso ex artt. 43 e 44 dlgs 25 luglio 1998,
n. 286, il ricorrente concluse affinché fosse ordinato alla
Azienda ospedaliera di Careggi di ammetterlo al concorso in
parola, oltre al risarcimento del danno;
3)
Con decreto depositato il 7 v 2005 il Tribunale di Pistoia, in
parziale accoglimento del ricorso, ordinò alla Azienda convenuta
l’ammissione di …….. al concorso de quo; respinse la domanda di
risarcimento del danno; dichiarò integralmente compensate le spese
di lite.
4)
Con atto di reclamo depositato il 1° vi 2005 l’Azienda
ospedaliero-universitaria di Careggi (già Azienda ospedaliera di
Careggi) s’è doluta di tale provvedimento per i seguenti motivi:
I)
difetto di giurisdizione del giudice adito («la posizione
azionata dal ricorrente non può considerarsi vicenda successiva
all'instaurarsi del vincolo contrattuale di lavoro e quindi
assumere la consistenza di diritto soggettivo, riguardando al
contrario
proprio
la
legittimità
di
un
concorso
pubblico
finalizzato all'instaurazione di un rapporto di lavoro con una
pubblica amministrazione, resta, come tale, attribuita in via
esclusiva alla giurisdizione amministrativa»);
II) «l'art.
2
del
dlgs
286/1998
non
opera
una
assoluta
equiparazione tra cittadino italiano e straniero comunitario e non
in materia di accesso al lavoro privato e pubblico come sostiene
il giudice adito in primo grado; difatti al comma 5 prevede che
"allo straniero è riconosciuta parità di trattamento con il
cittadino relativamente alla tutela dei diritti e degli interessi
legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione e
nell'accesso ai pubblici servizi, nei limiti e nei modi previsti
dalla legge"; di più: il successivo art. 27 comma 3 dello stesso
dlgs 286/1998 prevede espressamente che "rimangono ferme le
2
disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana
per lo svolgimento di determinate attività": è di tutta evidenza
come il legislatore ha accolto un principio, non di equiparazione
giuridica piena, bensì limitata, che sopporta eccezioni ed opera
un rinvio alla normativa specifica vigente per le varie materie …;
pare difficilmente sostenibile che le disposizioni di cui al dlgs
286/98 possano avere implicitamente abrogato disposizioni di rango
primario facenti parte, fra l'altro, di un ordinamento speciale,
quale quello oggetto del dpr 3/1957, ma soprattutto del dpr
483/97, recante la disciplina concorsuale per il personale
dirigenziale del servizio sanitario nazionale …; la Corte
Costituzionale, con la sentenza 454 del 30.12.1998 …, ha …
affermato che la garanzia legislativa di “parità di trattamento e
piena uguaglianza dei diritti” per i lavoratori extracomunitari,
rispetto ai lavoratori cittadini italiani, contenuta nel dlgs
286/98, opera fin quando non esista nell'ordinamento una norma che
esplicitamente o implicitamente deroghi alla piena uguaglianza …;
l'art. 38 del dlgs 30.3.2001, n. 165 (cd testo unico in materia di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni) … prevede
al comma 1 che: “i cittadini degli stati membri dell'Unione
Europea
possono
accedere
ai
posti
di
lavoro
presso
le
amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o
indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela
dell'interesse nazionale”; questa difesa non vede quale meccanismo
interpretativo delle fonti esistenti legittimerebbe l'assunto per
cui una possibilità lavorativa nel pubblico impiego nettamente
preclusa ai cittadini comunitari qualora detta funzione comporti,
direttamente o indirettamente, l'esercizio di pubblici poteri,
debba ritener si dovuta, a parità di funzioni, ai cittadini
extracomunitari»;
III) «il Tribunale di Pistoia, nell'ordinanza reclamata, precisa
che …, nell'ipotesi in esame, non sembra che nessun interesse
fondamentale od inderogabile della collettività sia coinvolto dal
ruolo che il ……..vorrebbe andare a ricoprire, non sembrando che un
dirigente medico in cardiologia svolga un lavoro che incida
direttamente, od anche indirettamente, in qualcuno degli interessi
basilari di cui sopra; al riguardo, ci si limita a far riferimento
a quanto sopra esposto in merito al fatto che il rivestire la
qualifica
di
dirigente
all'interno
di
una
pa
implica
necessariamente l'esercizio di pubblici poteri, precluso, a
tutt'oggi, a chi non sia in possesso della cittadinanza italiana».
5)
Costituitosi in giudizio il convenuto in sede di reclamo ha
contrastato il reclamo in fatto e in diritto, chiedendo la
conferma del provvedimento impugnato.
6)
Il Pg, il 15.6.2005, ha concluso per l’accoglimento del
reclamo.
7)
La Corte si è riservata la decisione all’udienza del 30 ix
2005.
ÿÿÿÿÿÿÿÿÿÿ
8)
L’eccezione di difetto di giurisdizione è infondata avendo, il
ricorrente, agito ai sensi dell'art. 44 del dlgs 25 luglio 1998,
3
n. 286, norma che, espressamente, demanda al tribunale ordinario
di provvedere «con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della
domanda»
diretta
a
«a
rimuovere
gli
effetti
della
discriminazione», «per motivi razziali, etnici, nazionali o
religiosi», determinata dal «comportamento di un privato o della
pubblica amministrazione» (in termini: Corte d’appello di Firenze,
2 luglio 2002, in Riv. it. dir. lav., 2003, II, 272, con nota di
Mammone; in Ragiusan, 2003, f. 229-0, 569: «È sottoposta alla
giurisdizione del giudice ordinario la controversia promossa, a
norma del combinato disposto degli art. 2 e 44 dlgs 25 luglio
1998, n. 286, da un cittadino extracomunitario nei confronti di
una
azienda
ospedaliera
pubblica
per
l'accertamento
del
comportamento discriminatorio dalla stessa tenuto con la mancata
ammissione alla procedura concorsuale per l'assunzione, a causa
del mancato possesso del requisito della cittadinanza italiana»).
9)
È
necessario,
prima
di
affrontare
il
merito
della
controversia, dar conto, sinteticamente, del quadro normativo che
viene in campo; a questo riguardo vanno, in particolare,
rammentati seguenti atti:
I)
la convenzione numero 143 dell'Organizzazione internazionale
del lavoro, del 24 giugno 1975, riporta, tra le altre, le
seguenti, significative disposizioni:
a)
l’art.
11,
I
comma,
del
seguente
tenore:
«Ai
fini
dell'applicazione della presente parte della convenzione il
termine "lavoratore migrante" designa una persona che emigra o è
emigrata da un paese verso l'altro, in vista di una occupazione,
altrimenti che per proprio conto; esso include qualsiasi persona
ammessa regolarmente in qualità di lavoratore migrante»;
b)
l’art. 8: «1. A condizione di aver risieduto legalmente nel
paese ai fini dell'occupazione, il lavoratore migrante non potrà
essere considerato in posizione illegale o comunque irregolare a
seguito della perdita del lavoro, perdita che non deve, di per sé,
causare il ritiro del permesso di soggiorno o, se del caso, del
permesso di lavoro. 2. Egli dovrà, quindi, usufruire di un
trattamento
identico
a
quello
dei
cittadini
nazionali,
specialmente per quanto riguarda le garanzie relative alla
sicurezza dell'occupazione, la riqualifica, i lavori di assistenza
e di reinserimento»;
c)
l’art. 10: «Ogni Stato membro per il quale la convenzione sia
in vigore s'impegna a formulare e ad attuare una politica
nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti alle
circostanze ed agli usi nazionali, la parità di opportunità e di
trattamento in materia di occupazione e di professione, di
sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonché di
libertà individuali e collettive per le persone che, in quanto
lavoratori
migranti
o
familiari
degli
stessi,
si
trovino
legalmente sul suo territorio»;
d)
l’art. 14: «Ogni Stato membro può: a) …; b) …; c) respingere
l'accesso a limitate categorie di occupazione e di funzioni,
qualora tale restrizione sia necessaria nell'interesse dello
Stato»);
4
II) la predetta convenzione fu ratificata e resa esecutiva sulla
base della legge 10 aprile 1981, n. 158; l’art. 3 di tale legge
conferì, inoltre, al Governo, la delega ad emanare, entro un anno
dall'entrata in vigore della legge stessa, «decreti aventi valore
di legge ordinaria, secondo i principi direttivi contenuti nelle
convenzioni n. 92, 133 e 143, di cui all'articolo 1 della presente
legge,
per
stabilire
le
norme
necessarie
ad
assicurare
l'adempimento degli obblighi derivanti dalle convenzioni stesse»);
III) al fine di attuare la convenzione n. 143 fu, in realtà,
emanata la legge 30 dicembre 1986, n. 943 (legge successivamente
abrogata, ad eccezione dell'art. 3, dall’articolo 47 del dlgs 25
vii 1998, n. 286), che, per quanto, qui, interessa, dispose, agli
artt. 1 e 14, quanto segue:
a)
«Art. 1. 1. La Repubblica italiana, in attuazione della
convenzione dell'Oil n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con la
legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori
extracomunitari legalmente residenti nel suo territorio e alle
loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti
rispetto ai lavoratori italiani …»;
b)
«Art. 14. 1. Sono esclusi dall'applicazione della presente
legge …: …. … 3. La presente legge non si applica altresì ai
cittadini degli Stati membri della Cee ed ai lavoratori
extracomunitari per i quali sono previste norme particolari più
favorevoli anche in attuazione di accordi internazionali. 4.
Rimangono ferme le disposizioni che prevedono il possesso della
cittadinanza
italiana
per
lo
svolgimento
di
determinate
attività»);
IV) intervenne, poi, la legge 6 marzo 1998, n. 40; possono essere
ricordati, di tale legge,
a)
l’articolo 41, del seguente tenore: «Art. 41. Discriminazione
per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. 1. Ai fini del
presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che
.... 2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) …; c)
chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si
rifiuti
di
fornire
l'accesso
all'occupazione,
all'alloggio,
all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socioassistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia
soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di
appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o
nazionalità; d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni,
l'esercizio di un'attività economica legittimamente intrapresa da
uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in
ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una
determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità; e)
il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'art.
15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata
dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990,
n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un
effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i
lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un
gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una
cittadinanza.
Costituisce
discriminazione
indiretta
ogni
5
trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri
che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori
appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo
etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o
ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo
svolgimento dell'attività lavorativa. 3. …»;
b)
l’articolo 45 («Delega legislativa per l'attuazione delle
norme
comunitarie
in
materia
di
ingresso,
soggiorno
e
allontanamento dei cittadini degli Stati membri dell'Unione
europea. 1. Il Governo è delegato ad emanare, entro il termine di
un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, un
decreto
legislativo
contenente
la
disciplina
organica
dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini
degli altri Stati membri dell'Unione europea. 2. Il decreto
legislativo
deve
osservare
i
seguenti
princìpi
e
criteri
direttivi: a) garantire piena ed integrale attuazione alle norme
comunitarie relative alla libera circolazione delle persone in
materia di ingresso, soggiorno, allontanamento, con particolare
riferimento alla condizione del lavoratore subordinato e del
lavoratore autonomo che intenda stabilirsi, prestare o ricevere un
servizio in Italia; ….»;
c)
l’articolo 47: «Testo unico - Disposizioni correttive. 1. Il
Governo è delegato ad emanare, entro il termine di centoventi
giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, un
decreto legislativo contenente il testo unico delle disposizioni
concernenti gli stranieri, nel quale devono essere riunite e
coordinate fra loro e con le norme della presente legge, con le
modifiche a tal fine necessarie: a) le disposizioni vigenti in
materia di stranieri non incompatibili con le disposizioni della
presente legge contenute nel testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773; b)
le disposizioni della legge 30 dicembre 1986, n. 943, e quelle
dell'articolo 3, comma 13, della legge 8 agosto 1995, n. 335,
compatibili con le disposizioni della presente legge. 2. Il
Governo è altresì delegato ad emanare, entro il termine di due
anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o
più decreti legislativi recanti le disposizioni correttive che si
dimostrino necessarie per realizzare pienamente i principi della
presente legge o per assicurarne la migliore attuazione. Con le
medesime modalità saranno inoltre armonizzate con le disposizioni
della presente legge le altre disposizioni di legge riguardanti la
condizione giuridica dello straniero. 3. …»
V)
con dlgs 25 luglio 1998, n. 286, fu approvato, ai sensi del
citato art. 47 della legge 6 marzo 1998, n. 40, il testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero; del dlgs 25 luglio 1998,
n. 286, si rammentano, qui, in particolare:
a)
l’articolo 2: «Diritti e doveri dello straniero. 1. Allo
straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello
Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana
previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni
internazionali in vigore e dai princìpi di diritto internazionale
6
generalmente
riconosciuti.
2.
Lo
straniero
regolarmente
soggiornante nel territorio dello Stato gode dei d iritti in
materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le
convenzioni internazionali in vigore per l'Italia e il presente
testo unico dispongano diversamente. Nei casi in cui il presente
testo
unico
o
le
convenzioni
internazionali
prevedano
la
condizione di reciprocità, essa è accertata secondo i criteri e le
modalità previste dal regolamento di attuazione. 3. La Repubblica
italiana, in attuazione della convenzione dell'Oil n. 143 del 24
giugno 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 158,
garantisce
a
tutti
i
lavoratori
stranieri
regolarmente
soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di
trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori
italiani. 4. …»;
b)
l’articolo 27: «Ingresso per lavoro in casi particolari. 1. Al
di fuori degli ingressi per lavoro di cui agli articoli
precedenti,
autorizzati
nell'ambito
delle
quote
di
cui
all'articolo 3, comma 4, il regolamento di attuazione disciplina
particolari
modalità
e
termini
per
il
rilascio
delle
autorizzazioni al lavoro, dei visti di ingresso e dei permessi di
soggiorno per lavoro subordinato, per ognuna delle seguenti
categorie di lavoratori stranieri: a …; … r bis infermieri
professionali assunti presso strutture sanitarie pubbliche e
private [lettera aggiunta dall'art. 22 della legge 30 luglio 2002,
n. 189]. 2. …. 3. Rimangono ferme le disposizioni che prevedono il
possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di
determinate attività»;
c)
l’articolo 43: «Discriminazione per motivi razziali, etnici,
nazionali o religiosi. 1. Ai fini del presente capo, costituisce
discriminazione
ogni
comportamento
che,
direttamente
o
indirettamente
....
2.
In
ogni
caso
compie
un
atto
di
discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata
di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di
pubblica necessità che nell'esercizio delle sue funzioni compia od
ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a
causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una
determinata razza, religione, etnia o nazionali, lo discriminino
ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o
si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno
straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di
appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o
nazionalità; c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più
svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione,
all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali
e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in
Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di
appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o
nazionalità; … 3. …»;
VI) poiché, come si è visto, l’articolo 27, II co., del dlgs 25
luglio 1998, n. 286, dispone che rimangano «ferme le disposizioni
che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo
svolgimento di determinate attività» occorre, a questo punto,
7
estendere a questo tema la ricognizione normativa; va anzitutto,
ricordato, a tal proposito, che, originariamente, il possesso
della cittadinanza italiana era richiesto, dall'art. 2 del dpr 10
gennaio 1957, n. 3, tra i «requisiti generali» per l'accesso agli
impieghi civili dello Stato;
VII) al predetto tu facevano, generalmente, riferimento le varie
discipline settoriali del pubblico impiego; per quanto riguarda lo
stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali v., per
es., il I comma dell’ articolo 10 del decreto del Presidente della
Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761, del seguente tenore:
«Ammissione agli impieghi. Per l'ammissione agli impieghi si
applicano, salvo quanto previsto dal presente decreto, le norme
vigenti per i dipendenti civili dello Stato di cui al dpr 10
gennaio 1957, n. 3, e successive integrazioni e modificazioni»;
VIII)
l'art. 2 (intitolato «Pubblico impiego») della l. 23
ottobre 1992, n. 421, («Delega al Governo per la razionalizzazione
e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico
impiego, di previdenza e di finanza territoriale») recò, sotto la
lettera t, la seguente direttiva:
«t) prevedere una organica regolamentazione delle modalità di
accesso
all'impiego
presso
le
pubbliche
amministrazioni,
espletando, a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri,
concorsi unici per profilo professionale, da espletarsi a livello
regionale,
abilitanti
all'impiego
presso
le
pubbliche
amministrazioni, ad eccezione delle regioni, degli enti locali e
loro consorzi, previa individuazione dei profili professionali,
delle procedure e tempi di svolgimento dei concorsi, nonché delle
modalità di accesso alle graduatorie di idonei da parte delle
amministrazioni pubbliche, prevedendo altresì la possibilità, in
determinati casi, di provvedere attraverso concorsi per soli
titoli o di selezionare i candidati mediante svolgimento di prove
psicoattitudinali avvalendosi di sistemi automatizzati; prevedere
altresì il decentramento delle sedi di svolgimento dei concorsi
[lettera così modificata dall'art. 11, l. 15 marzo 1997, n. 59]»;
IX) l'art. 1 (intitolato «Sanità») della stessa legge 23 ottobre
1992, n. 421, appena citata sub VIII («Delega al Governo per la
razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di
sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza
territoriale») recò anche, sotto la lettera q, la seguente
direttiva:
«q) prevedere che il rapporto di lavoro del personale dipendente
sia disciplinato in base alle disposizioni dell'articolo 2 della
presente legge, individuando in particolare i livelli dirigenziali
secondo criteri di efficienza, di non incremento delle dotazioni
organiche di ciascuna delle attuali posizioni funzionali e di
rigorosa selezione negli accessi ai nuovi livelli dirigenziali cui
si perverrà soltanto per pubblico concorso, configurando il
livello dirigenziale apicale, per quanto riguarda il personale
medico e per le altre professionalità sanitarie, quale incarico da
conferire a dipendenti forniti di nuova, specifica idoneità
nazionale all'esercizio delle funzioni di direzione e rinnovabile,
definendo
le
modalità
di
accesso,
le
attribuzioni
e
le
8
responsabilità del personale dirigenziale, ivi incluse quelle
relative al personale medico, riguardo agli interventi preventivi,
clinici, diagnostic i e terapeutici, e la regolamentazione delle
attività di tirocinio e formazione di tutto il personale»;
X)
in attuazione della delega di cui all'art. 2 della legge 23
ottobre 1992, n. 421, fu emanato il decreto legislativo 3 febbraio
1993,
n.
29
(«Razionalizzazione
dell'organizzazione
delle
amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia
di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre
1992, n. 421»); si ricordano, del decreto legislativo in parola:
a)
l'art. 37 (dapprima modificato, limitatamente al III comma,
dall'art. 24 del dlgs n. 80 del 1998 e, poi, abrogato e
riprodotto, nel testo modificato, dall’art. 38 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165), del seguente tenore: «Articolo
37. Accesso dei cittadini degli Stati membri della Comunità
europea. 1. I cittadini degli Stati membri della Comunità
economica europea possono accedere ai posti di lavoro presso le
amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o
indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela
dell'interesse nazionale. 2. Con decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri, ai sensi dell'art. 17 della legge 23
agosto 1988, n. 400, sono individuati i posti e le funzioni per i
quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza
italiana, nonché i requisiti indispensabili all'accesso dei
cittadini di cui al comma 1.
3. Nei casi in cui non sia
intervenuta
una
disciplina
di
livello
comunitario,
all'equiparazione dei titoli di studio e professionali si provvede
con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato su
proposta dei Ministri competenti [Tali posti furono fissati con il
dpcm 7 febbraio 1994, n. 174]. Con eguale procedura si stabilisce
la equivalenza tra i titoli accademici e di servizio rilevanti ai
fini dell'ammissione al concorso e della nomina»;
b)
l’articolo 41: «Requisiti di accesso e modalità concorsuali.
1. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente
decreto, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri,
con decreto del Presidente della Repubblica da adottare ai sensi
dell'art.
17
della
legge
23
agosto
1988,
n.
400,
sono
disciplinati: a) i requisiti generali di accesso all'impiego e la
relativa documentazione; … 3. Per quanto non espressamente
previsto dal presente capo ed in attesa dell'emanazione del
decreto del Presidente della Repubblica di cui al comma 1, restano
ferme
le
disposizioni
vigenti
in
materia
di
assunzione
all'impiego. …» (tale articolo fu, poi, abrogato dall'art. 43 del
dlgs 31 marzo 1998, n. 80, articolo a sua volta abrogato dall'art.
72, del dlgs 30 marzo 2001, n. 165);
XI) come si è già, appena, ricordato l’articolo 41 del decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, fu, poi, abrogato dall'art. 43
del dlgs 31 marzo 1998, n. 80 (articolo a sua volta abrogato
dall'art. 72, del dlgs 30 marzo 2001, n. 165); tuttavia, nel tempo
della vigenza dell’articolo 41 in questione, era stato, intanto,
emanato, con il dpr 9 maggio 1994, n. 487, il regolamento previsto
da tale disposizione; non sembra, sia detto per inciso, che la
9
successiva abrogazione della norma di delega possa avere travolto
un atto normativo legittimamente emanato; l'art. 2 del regolamento
di cui trattasi è del seguente tenore:
«Articolo 2. Requisiti generali. 1. Possono accedere agli impieghi
civili delle pubbliche amministrazioni i soggetti che posseggono i
seguenti requisiti generali: 1) cittadinanza italiana. Tale
requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione
europea, fatte salve le eccezioni di cui al decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri 7 febbraio 1994, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 1994, serie generale n. 61;
…»;
XII) in attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 23
ottobre 1992, n. 421, fu emanato il decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 502 («Riordino della disciplina in materia
sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n.
421»); si ricorda, del decreto legislativo in parola, l'art. 18,
del seguente tenore:
«Articolo 18 Norme finali e transitorie. 1. Il Governo, con atto
regolamentare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra
lo Stato, le regioni e le province autonome, adegua la vigente
disciplina concorsuale del personale del Servizio sanitario
nazionale alle norme contenute nel presente decreto ed alle norme
del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive
modificazioni ed integrazioni, in quanto applicabili, prevedendo:
a) i requisiti specifici, compresi i limiti di età, per
l'ammissione; …. 2. Fino alla data di entrata in vigore del
decreto di cui al comma 1 e salvo quanto previsto dal dlgs 3
febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni,
i concorsi continuano ad essere espletati secondo la normativa del
decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761,
e successive modificazioni ed integrazioni ivi compreso l'art. 9,
L. 20 maggio 1985, n. 207 [Comma così sostituito dall'art. 19,
d.lg. 7 dicembre 1993, n. 517]. …
10. Il Governo emana, entro centottanta giorni dalla pubblicazione
del decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517, un testo unico
delle norme sul Servizio sanitario nazionale, coordinando le
disposizioni preesistenti con quelle del presente decreto [Comma
aggiunto dall'art. 19, d.lg. 7 dicembre 1993, n. 517]»
XIII)
l’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 10
dicembre 1997, n. 483, «Regolamento recante la disciplina
concorsuale per il personale dirigenziale del Servizio sanitario
nazionale» (nel cui preambolo si legge fra l’altro: «Visto il
decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761,
recante norme sullo stato giuridico del personale delle unità
sanitarie locali; Visto il decreto legislativo 30 dicembre 1992,
n. 502 e successive modificazioni ed integrazioni, recante norme
sul riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma
dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, ed, in
particolare, l'art. 18, comma 1, secondo il quale il Governo, con
atto
regolamentare,
deve
adeguare
la
vigente
disciplina
concorsuale del personale del Servizio sanitario nazionale alle
disposizioni contenute nel decreto legislativo 30 dicembre 1992,
10
n. 502 e successive modificazioni ed integrazioni, nonché alle
norme del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive
modificazioni ed integrazioni, stabilendo, in particolare, i
requisiti specifici, compresi i limiti di età per l'ammissione ai
concorsi
…»), è del seguente tenore: «Articolo 1 Requisiti
generali di ammissione. 1. Ai sensi dell'articolo 18, comma 1, del
decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive
modificazioni e integrazioni, possono partecipare ai concorsi
coloro
che
possiedono
i
seguenti
requisiti
generali:
a)
cittadinanza italiana, salve le equiparazioni stabilite dalle
leggi vigenti, o cittadinanza di uno dei Paesi dell'Unione
europea; …».
10) All’esito dell’esplorazione normativa compiuta sub 9 risultano
direttamente applicabili alla fattispecie che è oggetto del
giudizio le seguenti disposizioni:
a)
l’articolo 2, III comma, del dlgs 25 luglio 1998, n. 286, a
norma del quale «La Repubblica italiana, in attuazione della
convenzione dell'Oil n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con
legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori
stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro
famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti
rispetto ai lavoratori italiani»;
b)
l’articolo 27, II co., del dlgs 25 luglio 1998, n. 286,
secondo cui «rimangano «ferme le disposizioni che prevedono il
possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di
determinate attività»;
c)
l’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 10
dicembre 1997, n. 483 («Regolamento recante la disciplina
concorsuale per il personale dirigenziale del Servizio sanitario
nazionale »), del seguente tenore: «Articolo 1 Requisiti generali
di ammissione. 1. Ai sensi dell'articolo 18, comma 1, del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni e
integrazioni,
possono
partecipare
ai
concorsi
coloro
che
possiedono
i
seguenti
requisiti
generali:
a)
cittadinanza
italiana, salve le equiparazioni stabilite dalle leggi vigenti, o
cittadinanza di uno dei Paesi dell'Unione europea; …».
11) In ordine alla norma di cui all’art. 1 del decreto del
Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483, che
sembrerebbe, dunque, precludere al Dott. Gentian Memisha la
partecipazione al concorso di cui trattasi debbono essere svolte
le seguenti considerazioni:
I)
la fonte del diritto rappresentata dal decreto del Presidente
della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483, ha natura di
regolamento delegato, emanato a norma dell'art. 17, II comma,
della legge 23 agosto 1988 n. 400;
II) utilizzando lo strumento dei regolamenti delegati, previsti
dal predetto II comma, il Governo può validamente disciplinare
anche materie precedentemente regolate da atti con forza di legge;
non per questo, però, può dirsi che i regolamenti in questione
siano dotati di forza di legge, in quanto l’effetto abrogativo
della norma di rango legislativo eventualmente sostituita da
quella dettata dal regolamento è da imputarsi alla legge
11
autorizzativa, e non al regolamento, il quale, nel meccanismo,
funge solo da fatto il cui avveramento costituisce la condizione
di operatività dell’abrogazione stessa;
III) consegue, da quanto detto sub II:
a)
che, «nell'ambito dei regolamenti governativi, non esiste
alcun rapporto di gerarchia fra regolamenti di attuazione delle
leggi, previsti in via generale dall'art. 17 comma 1, l. 23 agosto
1988, n. 400, e regolamenti delegificanti previsti dal successivo
comma 2, essendo, anzi, conseguenza fisiologica del procedimento
di delegificazione, consentire per l'avvenire, una disciplina di
determinate materie in precedenza regolate da fonti primarie
(salvo ovviamente i casi di riserva assoluta di legge), attraverso
fonti regolamentari per provvedere alle ulteriori modifiche della
disciplina, qualora se ne ravvisi l'opportunità …» (Corte dei
conti, sez. riun., 27 dicembre 1999, n. 45/E, in Foro amm., 2000,
1983; v. anche Cassazione civile, sez. I, 15 ottobre 1984, n.
5169: «Il regolamento delegato, o meglio autorizzato, non va
confuso con il decreto legislativo delegato (che non è un
regolamento ma un atto equiparato alla legge) in quanto
costituisce un atto di normativa secondaria al quale la legge
consente di fare più di quello che potrebbe un comune regolamento
e quindi di disporre su materia coperta da riserva di legge o di
derogare ad una legge formale»; Corte costituzionale, 20 luglio
1995, n. 333, in Dir. e giur. agr., 1996, 157, con nota di La
Medica; in Regioni, 1996, 113, con nota di Marzona: «Nella
disciplina del procedimento per il riconoscimento doc di vini, di
cui al dpr 20 aprile 1994, n. 348, non si ravvisa la violazione
del principio della riserva di legge, in quanto tale principio
opera solo con riferimento a materie di diretta spettanza
regionale mentre per quelle di competenza statale, una fonte
normativa,
quale
il
regolamento
delegato
,
autorizzata
a
disciplinare la materia con previsione di abrogazione delle norme
vigenti, può avere forza innovativa dell'ordine legislativo
preesistente»);
b)
che, «nell'attuale configurazione monastica di forma di
governo con potere legislativo riservato al Parlamento, il
controllo della Corte costituzionale deve essere limitato alle
sole fonti primarie. È pertanto ritenuta inammissibile la q.l.c.
di una norma regolamentare, nella specie di un regolamento c.d.
"autorizzato" ex art. 17 comma 2 l. 23 agosto 1988 n. 400, che va,
invece, sottoposta al vaglio del giudice amministrativo, sotto
l'aspetto della sua legittimità (Tar di Latina, 17 aprile 2000, n.
189; v. anche Consiglio Stato, sez. V, 3 febbraio 1978, n. 135:
«Il dpr 18 marzo 1957, n. 266, emanato in base all'art. 31 l. 29
dicembre 1956 n. 1533, concretizza la figura del regolamento
delegato nel quale l'autorizzazione delle camere al governo non
trasferisce a questo la funzione legislativa ma ampia soltanto la
facoltà regolamentare del medesimo. L'atto emanato conserva,
quindi, anche per quanto concerne la sua impugnabilità, il
contenuto di atto amministrativo»; Corte costituzionale, 15 luglio
2003, n. 239, in Giur. cost., f. 4: «Deve essere respinta
l'eccezione di inammissibilità della q.l.c. degli art. 120 comma
12
2, e 130, comma 1, lett. b), dlgs 30 aprile 1992, n. 285,
relativamente alle previsioni degli art. 5 e 11 dpr 19 aprile
1994, n. 575, proposta sull'assunto del carattere regolamentare
delle norme impugnate. I giudici rimettenti hanno, infatti,
ritenuto
che
la
sostituzione
delle
disposizioni
di
rango
legislativo non si sia perfezionata per ragioni concernenti i
limiti della materia disciplinata, risultando perciò inoperante la
clausola abrogatrice delle norme anteriori, prevista quale effetto
di "delegificazione" conseguente all'entrata in vigore del citato
regolamento,
e
restando
esse
tuttora
in
vigore»;
Corte
costituzionale, 18 giugno 2003, n. 212, in Giur. cost., f. 3: «È
inammissibile la q.l.c. dell'art. 239 dpr 30 maggio 2002, n. 115,
sollevata in riferimento agli art. 76, 97 comma 1 e 111 cost., in
quanto trattasi di questione avente ad oggetto norma non di rango
legislativo, ma regolamentare, come tale sottratta al sindacato di
legittimità costituzionale, derivando essa dal dpr 30 maggio 2002,
n.
114,
concernente
il
testo
unico
delle
disposizioni
regolamentari in materia di spese di giustizia e non dal d.lg. 30
maggio 2002, n. 113»; Corte costituzionale, 14 giugno 2001, n.
194, in Giur. cost., f. 3; in Foro it., 2002, I, 34: « È
manifestamente inammissibile , in quanto avente ad oggetto una
disposizione di natura regolamentare, la q.l.c. dell'art. 17 del
regolamento di previdenza per i deputati dell'assemblea regionale
siciliana approvato nella seduta del 19 luglio 1973 n. 176, nella
parte in cui non prevede per il coniuge divorziato del deputato
regionale, il diritto all'assegno vitalizio di reversibilità, in
riferimento all'art. 3 cost.)»;
c)
che, anche in ordine ai regolamenti delegati, spetta al
giudice ordinario la potestà disapplicativa prevista dall’art. 5
della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E (sul punto v., ex
plurimis, Cassazione civile, sez. I, 1° aprile 1982, n. 2006, in
Riv. giur. edilizia, 1983, I, 29: «Il potere-dovere del giudice di
riscontrare la conformità alla Costituzione ed alla legge di un
atto amministrativo normativo, quale il regolamento cosiddetto
delegato, al fine della sua eventuale disapplicazione, ove
illegittimo, nella parte in cui sia lesivo delle posizioni
soggettive dedotte in causa, può essere esercitato anche in sede
di cassazione, non rendendosi necessari nuovi accertamenti di
fatto ed in osservanza del principio jura novit curia»; v. anche
Cassazione civile, sez. lav., 16 giugno 1981, n. 3928: «Il dm 6
marzo 1969, con cui sono state determinate le retribuzioni
convenzionali medie dei dipendenti delle aziende alberghiere da
prendere a base del calcolo dei contributi previdenziali, non ha
efficacia
retroattiva,
giacché
il
potere
dell'autorità
amministrativa di operare tale determinazione anche per il passato
non risulta conferito dalla legge (art. 6 rd 14 aprile 1939, n.
636, e art. 35 dpr 30 maggio 1955, n. 797), la quale attribuisce
solo il potere di adeguare ex nunc la base di calcolo in relazione
alle contingenze temporali. L'attribuzione al citato decreto
ministeriale della natura di regolamento delegato (fondato, cioè,
sull'espresso conferimento di potestà normativa da parte della
legge) o la sua riconduzione alla categoria degli atti generali
13
non escludono, che, nell'una come nell'altra ipotesi, al giudice
ordinario, chiamato a conoscere della fattispecie di cui il
decreto suddetto entra a far parte, spetti il potere-dovere di
disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi (art. 5 l.
20 marzo 1865, n. 2248, all. E), a prescindere da qualsiasi
impugnazione in sede di giurisdizione amministrativa»; Cassazione
civile, sez. lav., 26 novembre 1994, n. 10069: «La previsione, da
parte dell'art. 4 del dm 2 luglio 1983, n. 1622 (che, in tema di
equo indennizzo per i ferrovieri, riproduce, quanto alle modalità
di presentazione della domanda, la disciplina già prevista in via
generale dall'art. 51 del dpr 3 maggio 1957 n. 686), di un termine
semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di equo
indennizzo è legittima, traendo tale previsione regolamentare (che
è riconducibile non all'ipotesi di esecuzione o a quello del
regolamento autonomo o indipendente ma all'ipotesi del regolamento
delegato) origine e legittimità dalla norma primaria costituita
dall'art. 11 della l. 6 dicembre 1981, n. 564, ed essendo detto
termine congruo e ragionevole, e tale, quindi, da non comprimere
il diritto al beneficio, svuotandone il contenuto»; Cassazione
civile, sez. II, 17 ottobre 1985, n. 5113, in Giur. imp., 96; in
Riv. giur. edilizia, 1986, I, 117; in Giur. it., 1986, I, 1, 698:
«Il rd n. 274 del 1929, in tema di competenza professionale dei
geometri ha natura di regolamento delegato: pertanto il relativo
controllo di legittimità deve coinvolgere l'esame della sua
conformità alla legge "delegante"»; Cassazione civile, sez. trib.,
4 novembre 2003, n. 16498, in Giur. it., 2004, 857: «Il fatto che
taluna delle disposizioni emanate dall'Autorità di vigilanza possa
risultare in contrasto con i principi elencati nei decreti
legislativi che la regolamentano , così come la prospettazione di
qualsiasi altra illegittimità delle disposizioni regolamentari non
osservate non incide sulla legittimità costituzionale di dette
norme, ma comporta la disapplicazione da parte del giudice adito
di quelle secondarie ritenute illegittime, ai sensi dell'art. 5 l.
20 marzo 1865, n. 2248, all. E»; Cassazione civile, sez. I, 20
settembre 2002, n. 13770, in D&G - Dir. e Giust., f. 38, 74; in
Giust. civ., I, 2390: «La disposizione dell'art. 373, comma 1, del
regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada
(d.P.R. n. 495 del 1992), ove estende in via solidale al
proprietario del veicolo l'obbligazione di pedaggio assunta dal
conducente con l'impiego del mezzo in un tratto autostradale, è
illegittimo, in carenza di previsioni in tal senso da parte di
detto codice o di altra norma di legge, tenuto conto che tale
estensione,
comportando
l'imposizione
di
una
prestazione
patrimoniale (per fatto altrui), richiede una disposizione
normativa;
all'illegittimità
della
menzionata
disposizione
consegue la disapplicazione della stessa, ai sensi dell'art. 5
della legge n. 2248 all. E del 1865»; Cassazione civile, sez.
lav., 13 novembre 2001, n. 14095, in Vita not., 1459: «L'indennità
di cessazione dalla carica spetta anche al notaio incaricato in
via temporanea ai sensi dell'art. 6 l. 16 febbraio 1913 n. 89,
dovendosi disapplicare, ex art. 5 l. 20 marzo 1865 n. 2248, all.
E, perché contraria agli art. 3 e 38 cost., la norma regolamentare
14
di cui all'art. 17, comma 5, dpr 12 ottobre 1990, n. 317, la quale
esclude il periodo di esercizio temporaneo di funzioni notarili ai
fini della determinazione dell'indennità di cessazione prevista
dall'art. 26 del medesimo dpr»; Corte costituzionale, 18 ottobre
2000, n. 427, in Cass. pen., 2001, 776, con nota di Nuzzo; in Foro
it., 2001, I, 170: «Sono inammissibili le q.l.c. del combinato
disposto degli art. 120 comma 1 e 130 comma 1 lett. b) dlgs n. 285
del 1992, così come sostituiti dal dpr 19 aprile 1994, n. 575
(Regolamento recante la disciplina dei procedimenti per il
rilascio e la duplicazione della patente di guida dei veicoli),
sollevate in riferimento agli art. 3, 4, 76 e 97 cost.»; ivi, in
particolare, leggesi fra l’altro: «…4. - Inammissibili sono invece
le questioni sollevate dal Tribunale amministrativo regionale
della Puglia - sezione staccata di Lecce, sulle disposizioni degli
artt. 120, comma 1, e 130, comma 1, lettera b), del decreto
legislativo contenente il nuovo codice della strada, come
sostituite dal dpr n. 575 del 1994. Con tale formula, che ricorre
in due ordinanze (r.o. 715 e 716/1999), deve intendersi che il
giudice rimettente abbia inteso sollevare questione di legittimità
costituzionale di norme aventi ormai natura regolamentare, ciò
che, per costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, e
specificamente in tema di regolamenti di "delegificazione",
ordinanza
n.
100
del
2000),
eccede
i
limiti
della
sua
giurisdizione, secondo la definizione che di questa è data
dall'art. 134 della Costituzione il quale la limita al caso
dell'illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi
forza di legge. Il pieno esplicarsi della garanzia della
Costituzione
nel
sistema
delle
fonti,
in
particolare
con
riferimento a quelle di valore regolamentare adottate in sede di
"delegificazione", non è comunque pregiudicato dall'anzidetta
limitazione della giurisdizione del giudice costituzionale. La
garanzia è normalmente da ricercare, volta a volta, a seconda dei
casi, o nella questione di costituzionalità sulla legge abilitante
il Governo all'adozione del regolamento, ove il vizio sia a essa
riconducibile
(per
avere,
in
ipotesi,
posto
principi
incostituzionali o per aver omesso di porre principi in materie
che costituzionalmente li richiedono); o nel controllo di
legittimità sul regolamento, nell'ambito dei poteri spettanti ai
giudici ordinari o amministrativi, ove il vizio sia proprio ed
esclusivo del regolamento stesso …»);
IV) l’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 10
dicembre 1997, n. 483 è, a parere della Corte, nella parte in cui
prevede, quale requisito di ammissione ai concorsi per il
personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale, il
possesso della cittadinanza italiana o della cittadinanza di uno
dei Paesi dell'Unione europea, inapplicabile, nella presente
fattispecie, per più ordini di ragioni:
a)
anzitutto va chiarito che il fatto che, precedentemente, lo
stesso precetto fosse recato da una fonte di rango legislativo non
muta i termini relativi alla individuazione della tecnica di
riconduzione
della
disciplina
giuridica
alla
legalità
dell’ordinamento, che deve essere quella relativa ai regolamenti:
15
se anche si volesse ritenere che la precedente norma legislativa,
recante lo stesso precetto sostanziale, avesse costituito, per il
normatore delegato, ai sensi dell’art. 17 cpv della legge 23
agosto 1988, n. 400, una delle «norme generali regolatrici della
materia» alle quali il normatore delegato era, in via di
principio,
vincolato,
certamente
andrebbe,
al
contempo,
considerato che, a maggior ragione, lo stesso normatore delegato
avrebbe dovuto rispettare, nell’esercizio della delega, le norme,
ugualmente vigenti, aventi, in ipotesi, valore preponderante
rispetto a quelle illegittime; l’eventuale illegittimità del
precetto de quo per contrasto con una di tali norme non potrebbe,
quindi, ormai, essere utilmente riferita alla norma legislativa
abrogata ma solo al regolamento, attualmente vigente, che l’ha
reiterata;
b)
si è già ricordato (§ 9, I) che la convenzione numero 143
dell'Organizzazione internazionale del lavoro, del 24 giugno 1975,
ratificata dall’Italia sulla base della legge 10 aprile 1981, n.
158 e resa esecutiva colla stessa legge, impegna, tra l’altro, gli
Stati contraenti ad «attuare una politica nazionale diretta a
promuovere e garantire, con metodi adatti alle circostanze ed agli
usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento in
materia di occupazione e di professione …» (art. 10) e prevede che
la preclusione, nei confronti dello straniero, all'accesso «a
limitate categorie di occupazione e di funzioni» possa attuarsi
«qualora tale restrizione sia necessaria nell'interesse dello
Stato» (art. 14);
c)
secondo un primo, possibile iter logico-giuridico la norma che
impegna l’Italia alla parità, con l’eccezione ora rammentata, coi
lavoratori italiani e alla parità dei lavoratori stranieri fra
loro rimarrebbe insensibile, per il suo, originario carattere
internazionale, ad ogni, eventuale, successiva norma giuridica
interna, fossanco di rango legislativo, che, in qualunque
fattispecie concreta, si ponesse in conflitto con essa: in altre
parole, ragionando sulla base di una distinzione delle norme
giuridiche secondo la competenza loro assegnata dall'ordinamento e
non secondo il loro valore gerarchico, il conflitto, in tali casi,
dovrebbe sempre essere, de plano, risolto con l’applicazione della
norma di fonte internazionale, senza nemmeno l’intermediazione
logica dell’accertamento d’invalidità della fonte nazionale: in un
tale ordine di concetti sembra porsi la Corte costituzionale
quando, nella sentenza 19 gennaio 1993, n. 10, ha, fra l’altro,
affermato: «… La Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4
novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto
1955, n. 848, stabilisce all'art. 6, terzo comma, lettera a), che
"ogni accusato ha diritto (...) a essere informato, nel più breve
spazio di tempo, nella lingua che egli comprende e in maniera
dettagliata, della natura e dei motivi dell'accusa a lui rivolta".
Una disposizione del tutto identica é, altresì, contenuta
nell'art. 14, terzo comma, lettera a), del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici, patto che é stato firmato
il 19 dicembre 1966 a New York ed é stato reso esecutivo in Italia
16
con la legge 25 ottobre 1977, n. 88l. Le norme internazionali
appena ricordate sono state introdotte nell'ordinamento italiano
con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi
ordini di esecuzione (v. sentt. nn. 188 del 1980, 153 del 1987 e
323 del 1989) e sono tuttora vigenti, non potendo, certo, esser
considerate abrogate dalle successive disposizioni del codice di
procedura penale, non tanto perché queste ultime sono vincolate
alla direttiva contenuta nell'art. 2 della legge delega del 16
febbraio 1987, n. 81 ("il codice di procedura penale deve [...]
adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate
dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo
penale"), quanto, piuttosto, perché si tratta di norme derivanti
da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tali,
insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di
disposizioni di legge ordinaria» (per un’altra applicazione della
distinzione fra le norme giuridiche sulla base della competenza v.
Corte costituzionale, 7 novembre 1995, n. 482, in Riv. trim.
appalti, 75, con nota di Anelli, Nicodemo, Senzani; in Regioni,
1996, 373, con nota di Morbidelli; in Rass. giur. Enel, 1996, 903:
«La delegificazione in materia di lavori pubblici prevista
dall'art. 3 l. n. 109 del 1994 non è applicabile nei confronti
della
legislazione
regionale
o
provinciale,
in
quanto
i
regolamenti governativi, compresi quelli delegat i, non sono
legittimati a disciplinare materie di competenza regionale o
provinciale, né lo strumento della delegificazione ex art. 17 l.
n. 400 del 1988 può operare per fonti di natura diversa da quella
statale, in quanto fra quest'ultima e le fonti di natura regionale
o provinciale vi è un rapporto di competenza e non di gerarchia»);
d)
anche prescindendo dall’iter logico-giuridico del quale si è
detto sub c rimane la costatazione del particolare rilievo, nel
sistema delle fonti del diritto interno, della norma, di origine
internazionale, che impegna l’Italia alle sopradette parità; ed
infatti:
d.1) è pur vero che, per giurisprudenza, non solo costituzionale,
consolidata, il principio dell’adattamento automatico, di cui
all’art. 10, 1° co. («L'ordinamento giuridico italiano si conforma
alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute»)
non riguarda le norme internazionali pattizie, ma solo quelle
consuetudinarie (sebbene, per il vero, anche la regola pacta sunt
servanda sia consuetudinaria; riguardo alla giurisprudenza v.
Consiglio di Stato, sez. IV, 10 agosto 2004, n. 5499, in Foro amm.
Cds, , 2152: «È inconfigurabile un rapporto di supremazia analogo
a quello definito con riferimento alle fonti di carattere generale
del diritto internazionale (di natura consuetudinaria e che
trovano ingresso nell'ordinamento interno per mezzo del suo
adeguamento automatico sancito dall'art. 10 cost., acquistando in
tal modo valore costituzionale) tra le norme della convenzione
europea sui diritti dell'uomo (di natura pattizia e recepita con
legge
ordinaria)
e
le
leggi
nazionali
e
ciò
determina
l'insussistenza del presupposto giuridico e concettuale che
autorizza
la
disapplicazione
delle
disposizioni
legislative
interne confliggenti con il diritto all'effettività della tutela
17
giurisdizionale sancito dalla convenzione »; Corte costituzionale,
29 gennaio 1996, n. 15: «A differenza di quel che avviene, per
effetto dell'art. 10, comma 1, cost., rispetto al diritto
internazionale
generalmente
riconosciuto,
l'eventuale
contraddizione di trattati da parte di norme legislative interne
non determinerebbe un vizio di incostituzionalità di tali norme
indipendentemente
dalla
mediazione
di
una
norma
della
Costituzione, dato che la vigenza in Italia di un trattato deriva
pur sempre da un atto di volontà sovrana dello Stato espresso in
forma legislativa»; ivi leggesi: «… Tuttavia, il richiamo che
l'ordinanza di rimessione, attraverso l'art. 10, primo comma,
della Costituzione, fa a questa norma non è conferente, ai fini
della presente questione di legittimità costituzionale. In primo
luogo, per motivi formali, non si può dire, che in questo, come in
altri casi del medesimo genere, si abbia a che fare fin da ora con
il diritto internazionale generalmente riconosciuto, al quale
l'art. 10, primo comma, della Costituzione rinvia per incorporarlo
nell'ordinamento italiano, attribuendo a esso un valore di norme
costituzionali, pur escludendo la possibilità di derogare ai
principi fondamentali del nostro ordinamento (sent. n. 48 del
1979).
Per
quanto
all'origine
vi
sia
una
deliberazione
dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, consegnata a un testo
che esprime un accordo internazionale che ha da tempo ricevuto
numerose adesioni e che è perciò efficace come trattato
multilaterale, e sebbene i principi ivi proclamati abbiano portata
universale per la loro stessa intrinseca natura, l'adesione a quel
patto e la sua vigenza in Italia derivano pur sempre da un atto di
volontà sovrana individuale dello Stato espresso in forma
legislativa. E ciò - se non impedisce di attribuire a quelle norme
grande
importanza
nella
stessa
interpretazione
delle
corrispondenti, ma non sempre coincidenti, norme contenute nella
Costituzione - impedisce però di assumerle in quanto tali come
parametri nel giudizio di costituzionalità delle leggi (ex
pluribus,
sentenze
nn.
323
del
1989,
153
del
1987
e,
specificamente, sentenza n. 188 del 1980, nonché ordinanza di
questa Corte in composizione integrata per i procedimenti
d'accusa,
6
febbraio
1979).
Cosicché,
una
loro
eventuale
contraddizione
da
parte
di
norme
legislative
interne
non
determinerebbe di per sé - cioè indipendentemente dalla mediazione
di una norma della Costituzione - un vizio d'incostituzionalità.
Un rilievo, questo, che vale ancor più chiaramente per le norme
contenute nel Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, anch'esso
sinteticamente evocato dal giudice a quo, unitamente al Patto
internazionale sui diritti civili e politici, con riguardo
all'art. 10 della Costituzione …»; Corte costituzionale, 26
febbraio 1993, n. 75, in Giur. cost. 1993, 500; in Riv. dir.
internaz. 1993, 447: «È manifestamente infondata, con riferimento
all'art. 10 cost. in relazione all'art. 6 par. 3 lett. d) della
convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata con l. 4
agosto 1955 n. 848, la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 244 comma 1 c.p.c., nella parte in cui non prevede che,
18
oltre al nome ed al cognome delle persone specificamente indicate
sui singoli capitoli di prova sui quali ciascuna di esse deve
essere interrogata, il convenuto abbia diritto alla precisazione
della
residenza
delle
persone
indicate
a
testi,
e
cioè
all'elemento
essenziale
per
individuarli
e
reperirli.
La
giurisprudenza
costante
della
corte
esclude
le
norme
internazionali pattizie, ancorché generali, dall'ambito normativo
o dell'art. 10 cost., il principio di adeguamento automatico
dell'ordinamento
giuridico
italiano
alle
norme
di
diritto
internazionale
generalmente
riconosciute
dovendo
intendersi
riferito esclusivamente alle norme consuetudinarie »; Corte
costituzionale, 27 dicembre 1991, n. 496, in Giur. cost ., fasc.
6. «È manifestamente infondata, con riferimento all'art. 10 cost.,
la questione di legittimità costituzionale dell'art. 20 comma 4
r.d. 16 luglio 1905 n. 646 (approvazione del t.u. delle leggi sul
credito fondiario). Le norme internazionali pattizie, quale
l'invocato art. 6 prg. 3 lett. a della convenzione europea dei
diritti
dell'uomo,
fuoriescono
dall'ambito
di
operatività
dell'art. 10 cost., che può avere ad oggetto soltanto norme di
carattere consuetudinario»; Corte costituzionale, 27 giugno 1989,
n. 364, in Giur. cost., fasc. 3: «È manifestamente infondata, in
riferimento all'art. 10 cost., la questione di legittimità
costituzionale, esaminata per la prima volta, dell'art. 633 comma
ultimo c.p.c., nella parte in cui non consente la tutela monitoria
se
la
notificazione
dell'ingiunzione
all'intimato
debba
effettuarsi all'estero, in asserito contrasto con i patti
comunitari i quali comportano, tra l'altro, l'obbligo della
repubblica
di
garantire
la
liberalizzazione
degli
scambi
commerciali all'interno della comunità. Le norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute, richiamate dall'art. 10
cost., non si identificano nelle norme pattizie derivanti da
trattati e convenzioni internazionali ratificati dallo Stato, come
il trattato di Roma. Comunque nei patti comunitari non si
configurano
principi
generali
incidenti
sulla
materia
del
processo, lasciata alla disciplina del diritto interno degli Stati
membri. Il divieto di notificazione del decreto ingiuntivo
all'estero determina solo una causa di inammissibilità della
tutela monitoria, che è un procedimento speciale, e non un difetto
della giurisdizione, potendosi agire in sede ordinaria»; Corte
costituzionale, 13 maggio 1987, n. 153: «… 14. - Tenendo presenti
le conclusioni cui si era pervenuti nell'esporre il quadro delle
norme di diritto internazionale vigenti nella materia, appare
infine infondata la questione di costituzionalità degli artt. 1 e
2 della l. n. 103 del 1975 nella parte in cui riservano allo Stato
le
trasmissioni
via
etere
verso
l'estero,
sollevata
con
riferimento all'art. 10, primo comma della Costituzione e 10 n. 1
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali. Al riguardo va infatti rilevato che
questa Corte ha costantemente affermato (sent. nn. 32 del 1960,
135 del 1963, 48 del 1967, 104 del 1969, 69 del 1976, 48 del 1979,
188 del 1980, 96 del 1982) il principio secondo cui l'adeguamento
automatico alle norme di diritto internazionale generalmente
19
riconosciute può avere ad oggetto soltanto norme di carattere
consuetudinario, mentre l'ordinanza di rimessione fa riferimento
all'art. 10 della predetta convenzione che è norma di carattere
pattizio»);
d.2) è anche vero, però, che la norma pattizia che impone la parità
riguarda il tema della condizione giuridica dello straniero ed è
vero, ancora, che l’art. 10, II co., della Costituzione afferma:
«La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in
conformità delle norme e dei trattati internazionali»;
d.3) la formula dell’art. 10, II co., della Costituzione non
implica che le norme pattizie in tema di condizione giuridica
dello straniero assumano, una volta introdotte nel diritto
interno, un rango costituzionale, dovendo, in realtà, esse stesse,
sottoporsi previamente al vaglio di legittimità costituzionale
(sul punto v. Corte costituzionale, 21 giugno 1979, n. 54, in Riv.
dir. internaz., 802: «Non è ammessa l'estradizione dello straniero
per reati politici. La circostanza che l'art. 10, comma 2, cost.
preveda che la condizione giuridica dello straniero "è regolata
dalla
legge
in
conformità
delle
norme
e
dei
trattati
internazionali" non comporta che la legge ordinaria di esecuzione
di
uno
di
tali
trattati
si
sottragga
al
controllo
di
costituzionalità. Norme di raffronto per siffatto controllo non
sono
i
soli
disposti
costituzionali
che
si
riferiscono
esplicitamente agli stranieri in genere ed all'estradizione in
specie, bensì le norme e i principi costituzionali»); tuttavia non
è dubbio, a parere della Corte, che, una volta superato questo
vaglio, esse si collochino, nei confronti delle norme legislative
ordinarie
(e,
naturalmente,
nei
confronti
delle
norme
di
regolamento, delegato o non che esso sia), in una posizione
gerarchicamente sovra-ordinata (secondo un meccanismo simile a
quello previsto, in riferimento al Concordato, secondo la
giurisprudenza costituzionale, dall’art. 7 Cost.; sembra affermare
questo principio, in giurisprudenza, Cassazione civile, sez. III,
10 febbraio 1993, n. 1681, in Dir. economia assicur., 297; in Foro
it., I, 3067, con nota di Calò; in Nuova giur. civ. commentata, I,
643, con nota di Campeis, De Pauli: «L'art. 16 comma 1 delle
disposizioni sulla legge in generale, che ammette lo straniero al
godimento dei diritti civili attribuiti al cittadino italiano solo
a condizione di reciprocità, non è derogato dagli art. 2-3-10-24
cost. perché: 1) l'art. 2 si riferisce solo ai diritti inviolabili
specificamente individuati e riconosciuti dai successivi art. 13
(diritto di libertà personale), 14 (inviolabilità del domicilio),
15 (libertà e segretezza della corrispondenza), 19 (libertà
religiosa), 27 (personalità della responsabilità penale), 24
(tutela giurisdizionale), i quali sono, quindi, i soli diritti
riconosciuti anche allo straniero senza il limite della condizione
di
reciprocità;
2)
l'art.
3
non
esclude
i
trattamenti
differenziati che rispondono ad un criterio di ragionevolezza
(quale è quello riservato agli stranieri dal citato art. 16 delle
disposizioni sulla legge in generale; 3) l'art. 10 impone solo
l'adeguamento delle norme sulla condizione giuridica dello
straniero alle norme ed ai trattati internazionali, implicitamente
20
legittimando quelle limitazioni che non contrastano con altre
norme costituzionali o con i principi e gli atti di diritto
internazionale; 4) l'art. 24 si riferisce solo alla tutela
giurisdizionale dei diritti già posseduti e riconosciuti»; nella
sentenza 27 luglio 2000, n. 376 (in Giur. cost., 2675; in Dir.
pen. e processo, 1347; in Riv. dir. internaz., 1149: « È
costituzionalmente illegittimo, per violazione degli art. 2, 3,
10, 29 e 30 cost., l'art. 17 comma 2 lett. d) l.6 marzo 1998 n. 40
(Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione giuridica
dello straniero), ora sost. dall'art. 19 comma 2 lett. d) d.lg. 25
luglio 1998 n. 286 (Tu delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), nella parte in cui non estende il divieto di
espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza
o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio»), la Corte
Costituzionale, pur senza manifestare expressis verbis il senso
giuridico del raffronto da essa operato, definì, comunque, la
questione che le era, in concreto, sottoposta assumendo, in
sostanza, a parametro della legittimità della norma legislativa
che era oggetto del giudizio, riguardante la condizione giuridica
dello straniero, anche alcune norme di fonte internazionale
pattizia: si legge, in particolare, tra l’altro, nella predetta
sentenza: «… 6. - I principi di protezione dell'unità familiare,
con specifico riguardo alla posizione assunta nel nucleo dai figli
minori in relazione alla comune responsabilità educativa di
entrambi i genitori, non trovano riconoscimento solo nella nostra
Costituzione ma sono affermati anche da alcune disposizioni di
trattati internazionali ratificati dall'Italia, tra le quali:
quelle di cui agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali,
resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848; l'art. 10 del
Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e
culturali e l'art. 23 del Patto internazionale relativo ai diritti
civili e politici del 1966, ratificati e resi esecutivi dalla
legge 25 ottobre 1977, n. 881; gli artt. 9 e 10 della Convenzione
di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo,
ratificata e resa esecutiva dalla legge 27 maggio 1991, n. 176;
dal complesso di queste norme, pur nella varietà delle loro
formulazioni, emerge un principio, pienamente rinvenibile negli
artt. 29 e 30 Cost., in base al quale alla famiglia deve essere
riconosciuta la più ampia protezione ed assistenza, in particolare
nel momento della sua formazione ed in vista della responsabilità
che entrambi i genitori hanno per il mantenimento e l'educazione
dei figli minori; tale assistenza e protezione non può non
prescindere dalla condizione, di cittadini o di stranieri, dei
genitori, trattandosi di diritti umani fondamentali, cui può
derogarsi solo in presenza di specifiche e motivate esigenze volte
alla tutela delle stesse regole della convivenza democratica …»);
e)
deve escludersi che, nel vigente ordinamento, un primario
ospedaliero sia titolare di potestà pubbliche o che, comunque,
possa, per la posizione lavorativa in questione, aversi il caso,
previsto dall’art. 14 della convenzione dell’Oil del 1975, della
21
ricorrenza di un «interesse dello Stato» a precludere l’accesso di
uno straniero a tale posto; del resto è la stessa Amministrazione
ora reclamante a riconoscere, per facta concludentia, quanto si è
detto: essa ha, infatti, deliberato di ammettere al concorso in
questione anche i cittadini di altri paesi dell’Unione europea e
ciò, a norma dell’art. 38 del decreto legislativo 30 marzo 2001,
n. 165 (v. § 9, x, a), è stato possibile solo perché il posto di
lavoro de quo è stato, evidentemente, individuato, appunto, tra
quelli «che non implicano esercizio diretto o indiretto di
pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse
nazionale»;
f)
discende, da quanto si è detto, che il regolamento approvato
con decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n.
483, è - nella parte in cui prevede, in riferimento ai cittadini
stranieri, una limitazione dell ’accesso ai concorsi per il
personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale maggiore
di quella consentita, agli Stati contraenti, dalla convenzione
numero 143 dell'Organizzazione internazionale del lavoro, del 24
giugno 1975, ratificata dall’Italia sulla base della legge 10
aprile 1981, n. 158 e resa esecutiva colla stessa legge illegittimo e che esso, dunque, nella presente controversia,
avente ad oggetto l’allegato diritto dell’attuale convenuto in
sede di reclamo di partecipare al concorso in questione, deve
essere disapplicato, in parte qua, ex art. 5 della legge 20 marzo
1865, n. 2248, all. E; il regolamento in questione risulta, tra
l’altro, illegittimo, e deve, pertanto, essere disapplicato, anche
nella parte in cui, in violazione del principio di parità tra i
cittadini stranieri, stabilito dalla citata convenzione numero 143
dell'Organizzazione internazionale del lavoro, prevede,
per
taluni cittadini stranieri, un trattamento deteriore rispetto a
quello previsto per altri cittadini stranieri: si osservi, sul
punto, che un trattamento differenziato in mejus non è previsto
solo in favore dei cittadini di altri paesi dell’Unione (ciò che
potrebbe essere giustificato in relazione alla cd cittadinanza
dell’Unione) ma anche, in forza di specifici accordi bilaterali
(come quello, firmato a Bruxelles il 16 dicembre 1991, con la
Polonia, ratificato dall'Italia in forza della legge 30 settembre
1993, n. 386, e reso esecutivo dalla stessa legge), in favore di
cittadini di determinati paesi terzi (su quest’ultimo punto v.,
per es., Tar di Roma, sez. III, 21 gennaio 2002, n. 540: «Ai sensi
dell'art. 37 dell'accordo fra le Comunità europee e i loro Stati
membri, da una parte, e la Repubblica di Polonia, dall'altra,
ratificato dall'Italia con legge 30 settembre 1993, n. 386, il
trattamento accordato ai lavoratori di nazionalità polacca
legalmente occupati nel territorio di uno Stato membro è esente da
qualsiasi discriminazione basata sulla nazionalità per quanto
riguarda le condizioni di lavoro; pertanto, poiché ai concorsi per
posti di pubblico impiego trova applicazione il dpr 9 maggio 1994
n. 487, è illegittima l'esclusione di un cittadino polacco per il
solo fatto che il medesimo non abbia la cittadinanza italiana»).
22
12)
Il reclamo va, dunque, respinto perché
infondato, con la conseguente, integrale conferma del
provvedimento impugnato.
13) Ricorrono giusti motivi (giurisprudenza non univoca) per
disporre l'integrale compensazione, fra le parti, delle spese
relative al presente grado di giudizio.
P Q M
la Corte d'Appello di Firenze, prima sezione civile,
rigetta,
perché infondato, il reclamo proposto dall’Azienda ospedalierouniversitaria di Careggi contro il decreto del Tribunale di
Pistoia depositato il 7 v 2005, confermando integralmente il
provvedimento impugnato;
compensa
integralmente, fra le parti, le spese relative al presente grado
di giudizio.
Così deciso in Firenze, nella camera di consiglio del 30/9/2005.
Il Presidente
FTO MASSETANI
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 21/12/05
Il Cancelliere
LILIA PERRI
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