Corte Costituzionale Ufficio Stampa Sentenze nn. 2 e 5 del 2004 (Statuto della Calabria e legge sull’immigrazione) La Corte costituzionale con la sentenza n. 2 del 2004 (redatta dal giudice costituzionale prof. Ugo De Siervo), depositata in data odierna, ha deciso sulle norme dello statuto della Regione Calabria impugnate dal Governo. La Corte ha accolto due delle cinque questioni di costituzionalità sollevate: sono stati respinti i dubbi di costituzionalità relativi alla competenza del Consiglio e non della Giunta ad adottare alcuni tipi di regolamenti regionali, alla disposizione relativa ad alcuni profili della disciplina in tema di dirigenti regionali, alla disposizione riguardante la competenza regionale in materia tributaria. Sono stati, invece, accolti i rilievi di costituzionalità relativi all’elezione del Presidente della Giunta insieme al Vice Presidente e ad alcune disposizioni statutarie in materia elettorale. Per la Corte costituzionale le Regioni ad autonomia ordinaria, sulla base del nuovo Titolo quinto della seconda parte della Costituzione, dispongono di un’ampia potestà statutaria, che possono esercitare con ampia discrezionalità per darsi un autonomo ordinamento interno, ma pur sempre nel rispetto degli specifici limiti determinati dalla Costituzione. Uno di questi limiti riguarda il potere regionale di disciplinare la forma di governo: le Regioni sono libere di scegliere modalità diverse dall’elezione diretta del Presidente della Giunta, che è indicata dalla Costituzione come un modello possibile ed utile, ma non possono utilizzare il procedimento di elezione diretta, che è finalizzato ad una specifica valorizzazione del ruolo politico unificante del Presidente della Giunta, per l’elezione da parte del corpo elettorale di un tandem di candidati (Presidente e Vice Presidente). Non a caso, la difesa della Regione ha cercato di dimostrare che lo statuto calabrese in realtà non prevedeva l’elezione diretta, ma la Corte ha invece giudicato che, tale era il sistema configurato dalle norme statutarie. Inoltre lo statuto regionale non può privare il Presidente eletto direttamente dal corpo elettorale del potere di dimettersi provocando l’automatico scioglimento del Consiglio regionale. Un altro limite della potestà statutaria regionale deriva dalla attribuzione alla legge regionale (e non allo statuto) del potere di determinare la legislazione elettorale regionale, nel rispetto della legislazione nazionale di cornice: in quest’ambito lo statuto può quindi solo determinare criteri direttivi in conformità alle disposizioni costituzionali. Con la sent. n. 5 del 2004 (relatore il giudice costituzionale Giovanni Maria Flick), anch’essa depositata in data odierna, la Corte ha dichiarato infondate diverse questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-ter, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 13, comma 1, l. 30 luglio 2002, n. 189, che punisce con l’arresto da sei mesi ad un anno lo straniero, destinatario di provvedimento di espulsione, che, «senza giustificato motivo», si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine di allontanamento impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis dello stesso articolo. La prima censura riguardava l’art. 25 Cost., per l’asserita indeterminatezza della clausola «senza giustificato motivo», che rende punibile la permanenza nello Stato dello straniero raggiunto dall’ordine. La Corte — dopo aver sottolineato che questa formula e altre simili sono largamente usate nell’ordinamento penale — ha osservato che, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici rimettenti, il significato della clausola può essere adeguatamente ricavato da una serie di indici. Essi si desumono sia dallo scopo dell’incriminazione, che — proponendosi di rendere effettivo il provvedimento di espulsione — tende ad eliminare situazioni di illiceità o di pericolo connesse alla presenza dello straniero nel territorio dello Stato; sia dal sistema costituzionale e normativo in cui l’incriminazione si colloca, il quale — pur a fronte della tendenziale indivisibilità dei diritti fondamentali — regola in modo diverso l’ingresso e la permanenza degli stranieri nel paese, a seconda che si tratti di richiedenti il diritto di asilo o rifugiati, ovvero di c.d. migranti economici. La clausola del «giustificato motivo» riguarda, perciò, quegli ostacoli che, anche senza integrare delle vere e proprie cause di giustificazione, impediscono o rendono difficile o pericoloso allo straniero l’adempimento dell’ordine di lasciare il territorio nazionale. Alla identificazione di tali situazioni contribuiscono, altresì, lo stesso testo unico sull’immigrazione e le altre leggi relative allo straniero. In particolare, soprattutto sotto l’aspetto pratico evidenziato criticamente da alcuni dei giudici rimettenti, costituiscono sicuri indici di «giustificato motivo» le ragioni — necessità di soccorso, difficoltà nell’ottenimento dei documenti per il viaggio, indisponibilità di un mezzo di trasporto idoneo — che ai sensi dell’art. 14, comma 1, d.lgs. 286/1998 legittimano la pubblica amministrazione a non procedere, in deroga alla previsione generale dell’art. 13, comma 4, all’accompagnamento immediato alla frontiera dello straniero colpito da provvedimento di espulsione. Quest’ultima conclusione rende altresì evidente che la norma non contrasta — come ritenuto invece da qualcuno dei giudici rimettenti — neppure con gli artt. 2, 3 e 27 Cost., sotto il profilo dell’«inesigibilità» della condotta richiesta allo straniero sotto minaccia di sanzione penale, quando egli si trovi nell’impossibilità di munirsi di documenti e di biglietto di viaggio nel breve termine di cinque giorni, previsto per l’adempimento dell’obbligo. Di tale «inesigibilità» il legislatore si è infatti dato carico proprio con la clausola «senza giustificato motivo». Una volta accertato che non vi è lesione al principio di determinatezza, viene meno anche l’ulteriore censura di violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.), che era stata sollevata sotto il profilo della non conoscibilità a priori delle situazioni idonee ad integrare il «giustificato motivo» da parte del destinatario del precetto. Né, d’altra parte, tale clausola implica un’inversione dell’onere della prova in danno dell’imputato: essa — come negli altri casi in cui viene usata la stessa formula — pone a carico dello straniero soltanto l’onere di allegare i motivi di giustificazione che non siano conosciuti né conoscibili dal giudice. Quanto, infine, al fatto che l’applicazione della norma in questione si risolverebbe in un aggravio di lavoro e di costi per gli uffici giudiziari, la Corte ha ribadito la propria costante giurisprudenza, per cui il principio del buon andamento della pubblica amministrazione è riferibile solo all’organizzazione degli uffici giudiziari, ma non all’esercizio della funzione giurisdizionale. dal Palazzo della Consulta, 13 gennaio 2004