Scuole Secondarie di I Grado di Palanzano e di Monchio delle Corti Con il Patrocinio dei Comuni di Palanzano e di Monchio Delle Corti INDICE Premessa Prefazione Introduzione Antefatto IL NONNO DI EMMA DI E. AGNESINI IL PARTIGIANO PIERINO DI E. AZZOLINI LA BRIGATA DALLE IMPRESE IMPOSSIBILI DI G. BERINI IL RAGAZZO PARTIGIANO DI F. BORIASSI LA STORIA DI LIVIA DINARELLI DI M. BORTOLIN IL CONTADINO DI F. CELENTANO ORAZIO TANCREDI DI C. COSTI LETTERE: CARA ELEONORA DI E. DIACONU I PARTIGIANI DI MONCHIO DI A. FERRARI STORIA PARTIGIANA DI D. FERRA RICORDI DI T. FERRARI (1999) LA FINE DELLA GUERRA PARTIGIANA DI T. FERRARI (2000) GIOANNINO DI G. GANDOLFI IL PARTIGIANO DI E. GUATTERI IL PARTIGIANO GIANNI DI KHELIFI HADIL LETTERA A CLELIA DI V. LAZZARI MEMORIE DI UN PARTIGIANO DI N. LAZZARI LA BRIGATA ROSSA DI G. LIKMETA LA BRIGATA VERDE DI C. MONTALI IL RASTRELLAMENTO DI L. NOTARANGELO LA BRIGATA SCANSAFATICHE DI ALESSANDRO ORSINI LA BRIGATA GIALLA DI D. PARASCANU CARO DIARIO DI A. PRIORI HO VISTO COSE…… DI F. PRIORI GENNAIO 1944 DI A. ROZZI IL PARTIGIANO LUCA DI A. SCORTICATI GIGIONE E PONO DI P. VINCETTI Scuole Secondarie di I Grado di Palanzano e di Monchio delle Corti Con il Patrocinio dei Comuni di Palanzano e di Monchio Delle Corti STORIE PARTIGIANE Racconti ANNO SCOLASTICO 2012/2013 Sponsor stampa cartacea Progetto Scolastico “La Resistenza a Palanzano e Monchio. Docenti: Arturo Gagliardi (Docente di Lettere) Arianna Menduni (Docente di Lettere) Mariangela Pastanella (Docente di Lingue Straniere) Antonina Foderà (Docente di Arte) In copertina: Foto di un lancio di approvvigionamento su Rigoso e riproduzione di Consuelo Montali: U. Bertoli, “Soldato tedesco”. All’interno opere di U. Bertoli rielaborati dagli studenti. Premessa Questo pregevole volume scritto dagli studenti della Scuola Media di Palanzano e Monchio evoca in me storie di vita familiare. Il territorio della Valle dei Cavalieri accolse i primi nuclei di ribelli della Resistenza parmense e fu proprio nella frazione di Valcieca che salirono, dalla pianura di Vigatto, alcuni giovani i quali andarono poi a costituire la IV Brigata di Giustizia e Libertà, la formazione in cui combatterono anche mio padre e i suoi due fratelli. Andarono in montagna, così, a piedi, attraverso strade secondarie e sentieri, per sfuggire ai controlli dei militi della Repubblica Sociale, nell’inverno del ’44. Salirono a mani nude, disarmati, in fuga dall’esercito di Salò, con l’obiettivo immediato di trovare rifugio presso un’abitazione estiva di un loro compaesano. Solo uno di loro, tra quei primi giovani, lo zio Elvio, aveva avuto una vera e propria esperienza di guerra sul fronte slavo, quello zio che cadrà in uno scontro a fuoco contro il nemico a Reno di Tizzano il 30 ottobre di quel tragico anno. Al suo coraggio e alla sua esperienza di soldato, si affidavano i compagni che lo seguivano. Fu dopo un po’ di tempo, in primavera, nella zona tra Palanzano e Monchio, che avvennero i primi avio-lanci di armi da parte degli Alleati i quali, proprio lì, installarono la loro missione militare. Questo lavoro di ricerca sull’epopea resistenziale, svolto con la preziosa collaborazione degli insegnanti e degli Enti Locali, rappresenta un esempio felice di realizzazione degli ideali di Piero Calamandrei, uno dei principali giuristi italiani del ‘900. In una delle sue più importanti opere “Lo Stato siamo noi”, egli sosteneva che mantenere in vita lo spirito della Resistenza significa creare un nuovo rapporto tra cittadini e Stato, un rapporto che passa innanzitutto attraverso la scuola perché “se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale”. Da questa riflessione sorge la consapevolezza che il più grande pericolo sta in ciò che è contrario alla Resistenza, quel che Calamandrei definiva “desistenza”: lo stato d’animo di coloro i quali sono “stufi di sentir parlare di antifascismo e sono condannati da un’antica malattia che consiste nella sfiducia verso la libertà, nel desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti”. Educare i giovani ai valori della Resistenza, della democrazia e della libertà, significa inoltre rafforzare la consapevolezza dell’importanza del pensiero di Antonio Gramsci, morto nelle carceri fasciste, quando scriveva: “odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita”. Ciò che intendeva sostenere Gramsci era quindi la necessità di rafforzare nei giovani gli ideali di partecipazione alla vita pubblica, traendo esempio anche dalla storia. Si tratta in definitiva del medesimo moto ideale che impregnò la breve ma intensa esperienza del giovane Giacomo Ulivi, martirizzato nella lotta di liberazione dal nazifascismo a 19 anni, una manciata di anni in più di quella dei ragazzi che oggi vedono pubblicato il loro prezioso contributo di ricerca storica. Quel giovane, conscio del ruolo essenziale che ogni cittadino deve svolgere per la difesa della democrazia e della libertà sosteneva che “... al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro Paese è caduto: se l’avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? ...”. La Scuola Media di Palanzano e Monchio, con il contributo dei rispettivi Comuni, promuovendo la conoscenza del Movimento di Liberazione, anche attraverso la pubblicazione di questo volume, accresce nei giovani quel sentimento di amore per la libertà e di condivisione dei più alti valori di umanità contro ogni forma di dittatura dei popoli. Il Presidente Associazione Liberi Partigiani Italiani della Provincia di Parma Attilio Ubaldi Prefazione Grazie a tutti. Grazie per aver lavorato, grazie per aver scavato nella memoria dei vostri antenati. Un pezzo di storia è passata nelle nostre terre: una storia fatta di donne e uomini che hanno deciso di non rimanere indifferenti ma, mettendo a rischio la propria vita, in questa storia hanno voluto avere un ruolo. Spesso tutto è rimasto nell’ombra col rischio che le generazioni future, pur godendo dei benefici ottenuti grazie al sacrificio di queste persone, non percepissero che la democrazia è un bene da conquistare ogni giorno. Ecco perché io torno a ringraziarvi cosciente anche del fatto che questo lavoro importante lascerà un segno indelebile nel vostro futuro. Sindaco di Monchio Claudio Moretti Introduzione All’inizio dell’anno scolastico accolsi volentieri l’invito del professor Arturo Gagliardi a partecipare sia personalmente sia come rappresentante del Comune di Palanzano ad un progetto didattico con i ragazzi della Scuola Media di Palanzano e Monchio delle Corti per la pubblicazione del presente libro, senza certamente pretese letterarie o storiche, ma quale rivisitazione dei più drammatici periodi della storia del movimento partigiano nel nostro territorio. Mi sono subito premurato di far conoscere al professore e successivamente ai ragazzi i pochi partigiani ancora in vita che con orgoglio e determinazione, talvolta con gli occhi lucidi o la voce tremolante, hanno risposto alle molteplici domande relative al loro vissuto. I ragazzi si sono affidati ai loro ricordi, alle loro vicende narrate, con le loro luci e ombre, come se fossero accadute il giorno prima. Negli occhi dei ragazzi c’era tutta l’ammirazione, il rispetto, la fiducia, la curiosità, il piacere di scoprire i famosi nomi di battaglia usati nei vari combattimenti per raggiungere il traguardo più importante della nostra democrazia, la libertà! Da parte mia voglio ringraziare i partigiani che hanno aderito a questa iniziativa con grande disponibilità, i ragazzi per l’impegno e la curiosità dimostrati, il professor Arturo Gagliardi e tutti gli insegnanti che hanno collaborato per raggiungere gli obiettivi didattici prefissati. Vicesindaco di Palanzano Emilio Pigoni Antefatto “Storie partigiane” è un volumetto di racconti elaborati dagli studenti delle Scuole Secondarie di Palanzano e Monchio. Esso nasce da un progetto sulla Resistenza svolto dalle due scuole utilizzando software di condivisione, che hanno permesso agli studenti di poter collaborare a distanza nelle ricerche storiche sulla Resistenza del loro territorio servendosi delle tecnologie del progetto regionale Scuol@ppennino (I-pad, computer, Lim). Dalla acquisizione delle informazioni (attraverso: approfondimenti storici, interviste ai partigiani e ai testimoni dei due Comuni, la lettura del romanzo “Il sentiero dei nidi di Ragno”, l’approfondimento della figura e delle opere di U. Bertoli e le ricerche sull’Agente Speciale inglese Frank Hayhurst, che operava su questi territori) si è poi passati ad una fase di rielaborazione e di sviluppo creativo. In questo volumetto, infatti, gli allievi hanno inventato storie partigiane partendo dalle conoscenze acquisite, che hanno superato il limite dell’astrattezza grazie ai loro anziani, che hanno parlato direttamente agli studenti della guerra e del ruolo che hanno avuto in essa. In quei racconti le loro montagne si sono mostrate come il rifugio e il baluardo della libertà e i ragazzi hanno scoperto in quegli anziani una storia e un mondo di valori che non sospettavano. Gli scolari, poi, hanno iniziato a ricercare nelle proprie famiglie tracce di questa storia e spesso hanno scoperto ruoli più o meno importanti che esse hanno avuto nel movimento della Resistenza. In questi racconti, quindi, spesso c’è una libera eco di vicende realmente accadute. La nostra speranza è che questi valori, scoperti e approfonditi dai ragazzi, possano mettere radici e contribuire al loro sviluppo civico. Si ringrazia per la collaborazione Guido Pisi e Andrea di Betta (Istituto della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma), il Sindaco di Monchio Claudio Moretti, il Vicesindaco di Palanzano Emilio Pigoni, che hanno favorito le ricerche storiche e prodotto i contatti e quel clima di fiducia indispensabile per poter realizzare le interviste ai partigiani del territorio. Inoltre si ringraziano Guido e Michele Ghelfi che, con la loro azienda “La Fojeda”, hanno sponsorizzato la stampa di questo volume. Docente di Lettere di Palanzano Arturo Gagliardi IL NONNO DI EMMA di Elena Agnesini Palanzano “Ok ragazzi, ecco i vostri testi corretti, ce n’è uno in particolare che mi è piaciuto molto e vorrei farlo leggere alla classe...Emma, alzati per favore e leggici il tuo compito”. Emma si alzò e, un po’ impaurita, andò verso la lavagna e lesse: “Il mio eroe di Emma Watson... Una volta, tanto tempo fa, quando era in corso la Seconda Guerra mondiale, mio nonno era un ragazzo, aveva la mia età e non era stato arruolato nell’esercito. Lui e la sua famiglia vivevano in una piccola casa in un paesino di montagna... Un giorno gli disse la sua mamma: ‘Corri Mario corri’, mentre gli consegnava la cesta con all’interno cinque pagnotte e due salami... Mario sapeva che il contenuto della cesta era molto prezioso in quei tempi in cui il cibo scarseggiava. Il ragazzo corse per la strada e poi tagliò per un campo perché sapeva che sulla strada si appostavano sempre alcuni soldati tedeschi. L’erba umida sferzava le sue tibie nude mentre correva a grandi falcate verso il sentiero nel bosco che lo avrebbe condotto alla cascina. Corse fino a quando non si sentì sicuro di essere arrivato abbastanza lontano da tutti, poi rallentò. Il sentiero era ripido e, a causa della pioggia, era ricoperto di fango... Rallentò, sempre mantenendo un’andatura veloce che gli permise di raggiungere la cascina in un’ora. Una volta arrivato, bussò piano tre volte e attese, poco dopo un soldato inglese gli aprì la porta e lo fece entrare. C’erano cinque soldati inglesi che erano riusciti a scappare dai tedeschi e con l’aiuto della famiglia del ragazzo si erano rifugiati lì in attesa che la loro pattuglia li recuperasse.Da allora Mario ogni due giorni gli portava i viveri, ciò che la sua famiglia riusciva a mettere da parte. I soldati un giorno, anziché ricevere il cibo da Mario, gli offrirono un pezzo di coniglio che avevano cacciato e dell’acqua. Il ragazzo accettò con gioia. Quei soldati parlavano inglese, ma avevano imparato un po’ di italiano, così Mario intrattenne con loro una breve conversazione. Erano simpatici e alcuni avevano costruito con dei rametti secchi e delle ghiande una grossolana riproduzione del castello di Buckingham Palace. Il piccolo Mario si sentiva importantissimo. Svolgere quel compito lo riempiva di gioia. Lui avrebbe voluto avere l’età per potersi arruolare, così come avevano fatto i suoi fratelli maggiori, desiderava tanto battersi per la sua patria. Immaginava che avrebbe ricevuto una medaglia al valore. Gli piaceva quell’idea, ne era sicuro, la Regina d’Inghilterra in persona l’avrebbe nominato baronetto!!!! I suoi sogni vennero interrotti da Tony, il comandante degli inglesi, che gli chiese se ci fossero novità sull’avanzamento degli americani in Italia. Mario, un po’ irritato per questa brusca interruzione del suo fantasticare, gli rispose che non sapeva nulla. Si trattenne con i soldati ancora mezzora, poi tornò a casa e cenò con una pagnotta ripiena di prosciutto crudo. I mesi passarono. Una domenica la mamma di Mario gli diede un pollo arrosto da portare ai soldati, era un giorno di festa, anche loro si meritavano un pasto adeguato. Quando tornò a casa, Mario ebbe la notizia più bella della sua vita: la guerra era finita, finita, F I N I T A! Non ci poteva credere, corse subito a dirlo ai soldati, quando arrivò era tutto bagnato per la pioggia e affannato per la grande corsa. Si era pure ferito un ginocchio, ma non gli importava, diede la notizia ai soldati e tutti insieme corsero a valle e, uniti agli altri compaesani, festeggiarono sino a notte fonda. Mario mangiò pane e marmellata, tantissima marmellata, che durante i tempi di guerra era una cosa prelibata come l’aragosta adesso. Dopo alcuni mesi i soldati inglesi partirono per la loro patria e si realizzò il sogno di Mario: la Regina d’Inghilterra assegnò una medaglia al valore a lui e alla sua famiglia. Nonostante la sua altezza ridotta, Mario si sentiva in cima al mondo, era felice e per lui la felicità era il dono più grande.” Emma ricevette un applauso e ringraziò la classe. Tornò a sedere, orgogliosa di suo nonno. IL PARTIGIANO PIERINO di Edoardo Azzolini Palanzano Un partigiano, di nome Pierino, si recò sul luogo del distaccamento e vide che era il primo ad essere arrivato. Quindi aspettò che giungessero gli altri partigiani, che furono lì dopo dieci minuti. I partigiani erano arrivati tutti. Pierino e gli altri fecero rifornimento di armi, cibo e acqua perché dovevano partire per andare nei boschi e scoprire se i tedeschi si stavano muovendo verso di loro. Partirono e ad un certo punto videro i tedeschi, ma mentre si affrettavano a cambiar strada, vennero presi in un’imboscata, furono catturati e portati dal superiore tedesco. Pierino e suoi uomini vennero interrogati per sapere dove fosse la brigata di cui faceva parte il loro distaccamento, ma non parlarono, solo uno parlò e riferì che la brigata si trovava ad un’ora di viaggio. Allora i tedeschi partirono subito e trovarono la brigata, che fu attaccata alle spalle. Alcuni partigiani furono uccisi e tutti gli altri furono catturati. Ma Pierino aveva un asso nella manica, infatti, prima di essere incatenato, aveva rubato la chiave al comandante dei tedeschi e così riuscì a liberare se stesso e gli altri. Poi scapparono senza farsi scoprire e, tornati al loro distaccamento, si organizzarono per attaccare coloro che li avevano catturati. Infatti, riuscirono a tornare dai tedeschi e li sconfissero. LA BRIGATA DALLE IMPRESE IMPOSSIBILI di Giulia Berini Palanzano Era un freddo giorno di febbraio, io e la mia brigata, detta “la brigata dalle imprese impossibili”, perché non avevamo mai perso uno scontro con i tedeschi, avanzavamo verso una nuova impresa, ma non sapevamo ancora cosa ci aspettasse. Infatti in quel freddo giorno i tedeschi ci attaccarono alle spalle, noi non ce l’aspettavamo, ma non ci scoraggiammo, iniziammo anche noi a mitragliare. Dopo alcune ore vincemmo, ma ci furono molti morti sia tra i soldati tedeschi, sia tra i partigiani. Per noi era una sconfitta, soprattutto per me, anche se avevamo vinto la battaglia, ma avevamo subìto la perdita di due dei miei migliori partigiani: Bruno e Orso. Io giurai di vendicarmi. Aspettai la notte e partii per il distaccamento di quei soldati che li avevano uccisi, alcuni dei miei partigiani vollero venire con me. Ci ricordavamo benissimo i loro volti nascosti sotto quei caschi. Per arrivare al distaccamento nemico impiegammo tre giorni, ma tutti quegli sforzi, tutte quelle difficoltà che avevamo affrontato, furono ricompensate appena vedemmo l’accampamento di quei bastardi. Ci mettemmo in gruppo e decidemmo quale doveva essere il nostro piano d’attacco. Deciso quello, entrammo di soppiatto, i tedeschi non se l’aspettavano, erano distratti. Noi li uccidemmo senza pietà, così come avevano fatto loro con i nostri compagni. Lo sterminio non durò tanto, solo qualche minuto. Appena dopo perlustrammo le cantine di quel distaccamento e le stalle. Trovammo armi, cibo e anche alcuni prigionieri, americani e italiani. Decidemmo di portarli con noi, loro ci furono grati e, appena tornati in città, ci ricompensarono offrendoci soldi e cibo per il nostro distaccamento. La sera stessa di quel giorno di vendetta, gli americani e i partigiani di tutta Italia si unirono e andarono a sterminare tutti i tedeschi rimasti. A quella spedizione partecipammo anch’io e la mia brigata dalle imprese impossibili. Quando iniziammo a sparare contro i tedeschi, vidi in mezzo a tante persone senza cuore un bambino spaventato. Allora decisi di attraversare il campo nemico e di proteggere quel bambino. Arrivata la mattina, tutti i tedeschi erano morti, l’unico tedesco che in quel territorio era rimasto vivo era proprio quel bambino. Io, per la prima volta, andai contro la mia brigata perché decisi di crescere quel piccolino come fosse mio figlio. Tutti considerarono quest’atto come una sorta di tradimento verso la mia patria, ma a me non importava. Quella terra che avevo sempre difeso ormai non mi accettava più, allora decisi di andarmene con la mia famiglia in America, con l’aiuto di quei prigionieri americani fu possibile. A distanza di tanti anni, io sono ancora vivo e posso raccontarvi la mia guerra. Per me la guerra è stata una tragedia, ma mi ha dato la cosa più bella del mondo, mio figlio Vittorio, detto anche Bruno. IL RAGAZZO PARTIGIANO di Francesca Boriassi Palanzano Sono stato sul punto di morire, la televisione ha bruciato ogni mio neurone, sono sopravvissuto all’adolescenza, alla guerra, ma non alla vecchiaia. Ho pensato di essere invincibile, ma la verità è che quel rettangolo mi ha rovinato, da quando sono diventato vecchio non faccio altro che guardarlo, trasmette cose inutili, però mi fa viaggiare, mi fa uscire da quella macabra stanza. Quando stai per morire ti passa la vita davanti, io penso tutti i giorni a quando ero giovane, penso sempre alla guerra, anche se non sono ricordi felici e non sono fiero di averla combattuta e di avere ucciso. Quei ricordi mi fanno venire l’adrenalina nelle vene: la consapevolezza del rischio che correvo mi dà ancora forti emozioni. Sì, è brutto da dire, ma la mia vita adesso è fatta solo di pappe per neonati e di familiari che mi trattano come un poppante! Quando ero giovane ero un membro della brigata rossa, veramente ero solo uno che portava cibo ai veri partigiani, avevo 12 anni, ero troppo piccolo per combattere, ma ero così ingenuo che avrei voluto prendere in mano un fucile e iniziare a difendere la mia patria. In realtà, il luogo più lontano dove fossi mai andato era il fiume e ci andavo con le mie sorelle a lavare i vestiti. Ogni giorno vedevo mio padre entrare dalla porta, lanciare un sospiro, mia madre era preoccupata dal mattino alle 6 fino alla sera fino a quando non tornava a casa, io non capivo, ero ingenuo. L’unico mio pensiero era aiutare mio padre, volevo diventare l’uomo di casa, che pensiero stupido, me ne rendo conto solo ora. Ma una mattina alle 5.30, mio padre mi prese per un braccio, mi tirò giù dal letto, mi fece segno con il dito di tacere, io ero preso dall’entusiasmo, mi sentivo Capitan America, finché non sentii uno sparo. Da quel momento in poi ero lì lì per farmela sotto. Mio padre mi portò nelle cantine dove c’erano anche le mie sorelle e mia madre, poi prese il fucile e si allontanò. In quei veloci 10 secondi provai milioni di sentimenti diversi, ma il più forte fu la fierezza, perché mi sentivo utile. Passai dietro alla mucca e andai ancora in pigiama verso mio padre, anche se forse sarebbe stato meglio se fossi rimasto fermo. Mio padre si avviò verso la collina ed io gli corsi dietro urlando: “Papà papà papà”, mio padre si voltò e mi prese per un orecchio tirandomi verso il campo e mi disse: “Taci!”. Mio padre non era un uomo di tante parole, ma quelle poche che diceva non erano certo dei “ti voglio bene”. Mi prese in braccio e mi portò sulla Fiat Balilla dove c’erano altri tre uomini, anche loro padri di famiglia. Arrivammo al fronte, io mi sentii realizzato, non capivo che non saremmo tornati più indietro! Quando arrivammo alla base e scendemmo dalla macchina, tutti guardarono male me e mio padre. Arrivò un signore e prese mio padre alle spalle, trascinandolo dentro ad una specie di grotta. Mio padre mi fece segno di rimanere lì, anche lui a suo modo era peggio di una donna con tutti i suoi gesti, era incomprensibile. Se non capivi, però, ti picchiava, per cui facevo finta di capire per poter rimanere lì con lui. Si sentivano urla strazianti provenire da quella grotta, mi voltai e vidi alcuni partigiani con dei fucili in mano, sanguinanti, alcuni su delle barelle, e capii all’istante che dovevo tornare indietro, mi stavo smarrendo nei miei pensieri, mi girava la testa a vedere tutto quel sangue e quel dolore! Non tutti sopportano la vista del sangue, io sono uno di quelli, ma di lì a poco avrei cambiato idea sulla necessità di allontanarmi da quel posto, per la sopravvivenza fai qualunque cosa. Io non ho ucciso per divertimento o per rendere giusto quel che è ingiusto, ma l’ho fatto solo per sopravvivere: o io o loro! All’improvviso un uomo mi prese alle spalle e mi trascinò dentro a una grotta, penso ancora adesso che l’abbia fatto per farmi vedere ciò che c’era e ciò che succedeva in quel luogo: delle cose orribili!!! Mi diede un cucchiaio e mi buttò dietro ad una pentola. Pian piano arrivarono degli uomini, zoppicanti e con un viso sciupato, allora io, come fossi un cameriere, mi alzai sulle punte e versai loro un brodo che faceva rivoltare solo a guardarlo. Poi entrarono altri uomini, tutti uguali, sciupati, zoppicanti e malconci. L’unico uomo, l’unico partigiano che non entrava era mio padre. Dietro di me vidi il partigiano che mi aveva portato in quella stanza (se così si può chiamare), allora corsi da lui e gli chiesi a testa alta dove fosse mio padre. Lui, semplicemente, mi rispose: “È andato a compiere il suo dovere!”. Io, confuso, tornai alla mia postazione di cameriere, vidi un’uscita e degli uomini provenire dal fronte, corsi loro incontro sperando che ci fosse anche mio padre, ma mi sbagliavo. Erano partigiani di un altro distaccamento, quando mi videro mi presero su e mi portarono nel loro accampamento. Quegli uomini mi chiesero spiegazioni e io raccontai tutto! Capirono qualcosa di me che neanche io sapevo e che non mi vollero dire. Presero un’arma e me la diedero, mi fecero indossare una tuta speciale e mi insegnarono a sparare. Feci centro su ogni obiettivo, avevo una buona mira, mirare alle mie sorelle con il bastone era servito a qualcosa! Il giorno dopo mi misero in fila con gli altri. Mi chiesero di portare un messaggio ad un altro distaccamento e mi dissero di stare attento alle camicie grigie e alle divise nere: se ne avessi vista una, non avrei dovuto esitare a nascondermi tra l’erba. Mi misi a correre giù per il campo, avevo i pantaloni che erano il doppio delle mie gambe, ogni tanto inciampavo e cadevo per terra. All’improvviso un uomo mi prese alle spalle e mi disarmò. Lo guardai e gli misi una mano sotto la giacca per vedere la camicia: non era né grigia, né nera. Allora capii che si trattava di un partigano, gli mollai il messaggio e scappai, ma fui bloccato da altri partigiani. Incominciarono a farmi domande su chi fossi e da dove venissi, io ero spaventato e non volevo rispondere, l’uomo che mi interrogava somigliava a “Babbo Natale”, ma pareva cattivo. Mi presero e mi buttarono tra alcuni ragazzi poco più grandi di me. In due settimane mi insegnarono a sparare e a usare il linguaggio Morse, ma, cosa più importante mi insegnarono a farmi gli affari miei e a non tradire la patria, a non parlare neanche sotto tortura e a tenermi dentro i segreti fino alla morte. Imparai a non fare molte domande. Una mattina presto ci fecero alzare e il signore che comandava disse all’omone di svegliarci e di andare al fronte. Quando mi vide con quei pantaloni così lunghi, si mise a ridere, prese un coltello e li tagliò, quell’orlo era fatto meglio di quello che faceva mia sorella! Aspettavamo il segnale per sparare. L’omone mi guardò e mi disse di andare sopra la montagna, di fare attenzione al segnale e di comunicarlo il più velocemente possibile. Andai sopra la montagna e dopo venti minuti vidi il segnale e corsi a dirlo agli altri. Avevo aspettato venti minuti dentro ad una buca, ripiegato come una palla! Dopo pochi secondi vidi miliardi di proiettili sparati all’impazzata, persone che morivano... e capii perché ogni sera mio padre tornava a casa con quell’espressione malinconica! E in quell’arco di secondi interminabili mi ricordai di mio padre, che fine aveva fatto? Magari era lì in mezzo, allora mi alzai per cercarlo tra i feriti. Qualcuno però provò a spararmi e io mi ributtai in una buca e ci rimasi, fregandomene della postura che doveva tenere la mia spina dorsale! L’indomani, quando sembrava tutto finito, ritornai dove erano tutti gli altri. Vidi l’omone con i vestiti tutti sporchi, non c’erano più tutti i partigiani: ne erano rimasti trenta ed erano molto mal ridotti! L’omone si avvicinò a me ed esclamò: “Bravo! Hai fatto un buon lavoro!” ed io lo guardai e gli dissi: “Se avessi fatto un buon lavoro non sarebbero morti in tanti!!”. Lui mi guardò e replicò: “Non è colpa tua ma dei nazisti, loro stanno distruggendo l’Italia, se continuano così dovremmo emigrare tutti!”. Allora gli dissi: “E dove dovremmo andare? Io voglio ritrovare il mio papà e tornare a casa dalla mia mamma e da quelle rompiscatole delle mie sorelle!”. L’omone: “Ti capisco! Io vorrei tornare da mia moglie e dalle mie figlie! Come ti chiami? Io Giovanni e tu, piccolo?”. Gli risposi: “Mi chiamo Enzo, ma tu sai dove può essere il mio papà?”. Giovanni mi disse che mio padre era prigioniero dei tedeschi, da cui dipendeva il futuro di tutti. In quelle parole trovai la forza per continuare a combattere! Continuammo a parlare e lui fu l’unico che riuscì a spiegarmi il perché di questa guerra. Giovanni era un insegnante di filosofia, era un uomo colto. Dopo qualche settimana andammo dalla sua famiglia, mi ospitò e conobbi sua figlia, era di un anno più piccola di me. Una bambina adorabile e aveva una madre dolcissima. Quando ripartimmo, passammo anche per la mia zona, non mi venne nostalgia ma tanta paura, paura che fossero morte le persone a me care, quindi non volli passare da casa! Dopo qualche mese ricominciammo a combattere. Vidi da lontano un uomo, sanguinava, aveva un vestito verdastro macchiato del sangue delle sue vittime innocenti, un partigiano al mio fianco prese un fucile e gli piantò un proiettile in testa! Lo lasciammo lì per terra, ma non mi spiego ancora il perché. Mi rimase in testa il suo volto, ho sempre avuto l’impressione che quell’uomo fosse mio padre, più che altro lo immaginavo, dal momento che non l’ho mai più rivisto. Mi sono sempre chiesto cosa la gente ci trova nell’uccidersi, nel rovinare la vita di una persona e di tutta la sua famiglia: dietro un uomo c’è sempre una storia emozionante, la vita non è un cartone, noi non possiamo uccidere per riportare la democrazia, questo è ancora più sbagliato, nessuno ci dà la libertà di maltrattare un uomo e tutta la sua storia, ma è meglio uccidere che essere uccisi! Nel mondo succedono tante cose brutte e questa è stata una delle peggiori. Adesso, quando riaccendo quel rettangolo e vedo uomini normali che stanno al governo e prendono un sacco di soldi mentre io, che ho combattuto per liberare (in qualche maniera) il mio Paese, non riesco ad arrivare a fine mese, mi sale una tale rabbia...! E penso alla gente che è morta per salvare l’Italia da altri italiani, mentre i politici stanno seduti su una poltrona a dire quello che è giusto e non è giusto. Tornando ai miei ricordi, anche Giovanni alla fine rimase ucciso, in un attacco a sorpresa. A quel punto i partigiani mi affidarono uno degli incarichi più complicati, difficili e deprimenti che si possano svolgere: ero distrutto dal dolore, Giovanni era una specie di secondo padre per me, e gli altri partigiani ne erano consapevoli, ecco perché mi chiesero di andare dalla sua famiglia per comunicarle la sua morte. Quando io e un mio compare arrivammo a casa di Giovanni, fummo accolti da sua moglie e sua figlia, che avevano un sorriso accecante e disarmante... Ma ci sforzammo di vincere il dolore e l’imbarazzo, e alla fine riuscimmo a comunicare loro la brutta notizia. Venimmo via da quella casa afflitti, la moglie di Giovanni però non mi era sembrata molto sorpresa, forse perché quando un uomo parte per andare in guerra la sua donna sa che probabilmente non tornerà più indietro. Le donne sono esseri molto forti, spesso più di noi uomini, anche se combattono in silenzio. Qualche mese dopo, in uno scontro, mi piantarono un proiettile nella gamba, e quindi i miei compagni partigiani decisero di mandarmi in una baracca di un mio compare fino a che non fossi guarito. Qualche tempo dopo, finalmente, tutto quell’inferno finì. Adesso, quando mi affaccio alla finestra e vedo quei bambini giocare alla guerra, beh io auguro loro che possano invecchiare senza aver mai vissuto una cosa del genere, anche se in fondo in fondo penso che in futuro riaccadrà. Finita la guerra, è andato tutto per il verso giusto, specialmente da quando ho incontrato la donna che sarebbe poi diventata mia moglie e che io già conoscevo: la figlia di Giovanni! Adesso so che io non sono un eroe, né un codardo, ma faccio semplicemente parte di quegli uomini che hanno combattuto per la libertà e che tutti ammirano, anche se ora vengo trattato come un poppante. LA STORIA DI LIVIA DINARELLI di Mattia Bortolin Palanzano Durante la Seconda guerra mondiale, una giovane donna di nome Livia Dinarelli, originaria di Milano, viveva nella cascina della Perdera, vicino a un piccolo paese di campagna: Nirone. Una notte dell’autunno del 1944, vicino a quel luogo, fu fatto un lancio coordinato di armi, munizioni, indumenti per i ragazzi della Resistenza, visto che lì si era rifugiato un distaccamento. Livia e il fratello, avvistato il lancio, si diressero sul posto e raccolsero tutto quello che potevano, nascondendolo in un buco dentro una grossa quercia, per andarlo poi a recuperare in un secondo momento. Il fratello, dopo aver raccolto quelle cose, andò a casa e lasciò sola la sorella a sistemare il bottino nel tronco. Livia, all’improvviso, sentì un rumore provenire da dietro un cespuglio, con cautela impugnò la pistola, che teneva sempre in tasca per far fronte a eventuali momenti di pericolo, e poi sparò. Dopo qualche secondo andò a guardare dietro al cespuglio e sentì un grande dolore al petto perché aveva scoperto di aver ucciso un partigiano. Subito arrivarono altri compagni del ragazzo e Livia scappò nel bosco lì vicino. In paese la notizia era oramai sulla bocca di tutti: Livia aveva una taglia sulla testa e suo fratello era atterrito. Dopo mesi, un cacciarore trovò il corpo della donna in un canale con un buco in testa. Oggi, dopo sessantanove anni, il mistero rimane irrisolto: omicidio o suicidio? Una cosa è certa: del povero partigiano non ne hanno più parlato. IL CONTADINO di Ferdinando Celentano Palanzano Da giovane sono stato un partigiano. Un giorno, mentre stavo passeggiando in un bosco, avendo fame e sete, andai in una fattoria; lì un contadino, molto silenzioso ma gentile e premuroso, mi offrì del latte e un po’ di pane. Qualche giorno dopo seppi che quel contadino era stato ucciso, probabilmente per avermi aiutato. Quindi decisi di vendicarmi di quei nazisti che lo avevano ucciso. Andai a cercare rinforzi avendo scoperto dove fosse l’accampamento dei tedeschi. Quindi attaccammo di sorpresa i nazisti, riuscimmo a ucciderli tutti e a liberare la zona, che da quel momento divenne un luogo tranquillo. ORAZIO TANCREDI MAESTRO DI SCUOLA ELEMENTARE di Christian Costi Monchio Il maestro di scuola elementare Orazio Tancredi di Silicagi, nell’entroterra Genovese, era un giovane pieno di ideali. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, decise di unirsi alle brigate partigiane con il nome di battaglia “il Noce”, perché aveva la corazza dura come una noce. Sognava un Paese libero dell’oppressione nazi-fascista e per questo era disposto a rischiare la vita. Dopo numerose azioni di sabotaggio, il suo gruppo ebbe ordine di minare il ponte sul fiume Tannero, nodo cruciale del traffico militare nemico. Durante l’assalto, il gruppo subì numerose perdite. Il Noce venne catturato: dopo essere stato torturato e interrogato,venne ucciso. La sua storia, dimenticata da tutti, è simile a quella di centinaia di valorosi che hanno donato la vita per la libertà. LETTERE: CARA ELEONORA di Elisa Diaconu Monchio Genova, 9 Settembre 1943 Cara Eleonora, è stata una giornata molto faticosa per il tuo papà, ma finalmente è libero di svestire quell’odiosa divisa. Pare che la guerra sia finita! Non vediamo l’ora di riabbracciarti e vedere quanto sei cresciuta. Siamo stati tanto tempo via da casa, troppo tempo, ma era necessario, per tenerti al sicuro, lì con tua nonna. Presto torneremo a Sanremo per goderci la nostra famiglia... e perché no?! …anche il mare. Al nostro ritorno mi piacerebbe sentire il profumo di quella torta che sai fare così bene. Ci vediamo presto. Da’ un abbraccio alla nonna. Tua madre. Genova, 23 ottobre 1943 Cara mamma, c’è un cambio di programma. Io e Carlo non possiamo tornare a Sanremo come avevo scritto nella lettera che vi ho inviato giorni fa. Le strade sono piene di tedeschi che non lasciano passare nessun veicolo e siamo rimasti bloccati a Genova. Soprattutto per Carlo, ogni spostamento può essere letale. Deve assolutamente rimanere nascosto. Per questo ho pensato che forse sarebbe meglio far venire voi due qui da noi: viaggiare è meno pericoloso per donne e bambini. Non ti preoccupare, abbiamo anche già trovato una casa isolata dove rifugiarci. Per raggiungerci, c’è una strada secondaria che ti illustro nella mappa. Mi raccomando, portate con voi il minimo indispensabile e ricordati di nascondere i gioielli. Non vorrei che venissero i soldati tedeschi a perquisire la casa. Sono angosciata, mamma! La situazione sta peggiorando. C’è un caos totale! Ho bisogno del vostro conforto. Con affetto, Lisa. P.S.: Di’ ad Eleonora che non vedo l’ora di riabbracciarla. I PARTIGIANI DI MONCHIO di Andrea Ferrari Monchio Faggio, Scodgador, Bagaglio e Cognac erano quattro partigiani che operavano nel territorio di Monchio delle Corti. Erano i migliori della vallata, tutti ragazzi forti e coraggiosi, vestiti in modo un po’ bizzarro, con pezzi di divise sottratte ai nazifascisti. Furono innumerevoli le azioni che compirono durante i gloriosi anni della Resistenza: questa è una delle più meritevoli. Il 20 Giugno 1944 Scodgador ricevette una “soffiata”: i tedeschi stavano rastrellando Ranzano e presto sarebbero arrivati sino a Monchio. Imprecando, si recò di corsa a Rimagna per chiamare gli altri tre fidati compagni. I quattro passarono dalla base del distaccamento nei pressi di Rigoso per trascorrere la notte e per rifornirsi di armi: un Bren, delle bombe a mano e tre pistole. Il mattino successivo, dopo aver preso accordi con il comandante del distaccamento, s’incamminarono in direzione Vecciatica. Giunti sul luogo prestabilito, aspettarono che passasse il convoglio tedesco, per sferrargli un attacco a sorpresa. Appena videro la prima camionetta, aprirono il fuoco, ma il Bren s’inceppò. I tedeschi ebbero il tempo di riorganizzarsi e di rispondere agli spari. Bagaglio e suoi compagni decisero, allora, di battere in ritirata per raggiungere in fretta e furia il bivio del Ponte, dove avrebbero provato a colpirli nuovamente. Quest’imboscata fu molto più efficace della prima ma, mentre erano impegnati in questo scontro all’ultimo sangue, un altro gruppo di nazisti passò dal “Vignale”, entrando a Lugagnano quasi indisturbato. Nonostante gli sforzi dei quattro partigiani, qui fu commesso un terribile eccidio di donne, anziani e bambini. In seguito, i quattro partigiani di Monchio furono i protagonisti attivi di numerosissime altre azioni contro gli oppressori e gioirono in modo incontenibile quando fu proclamata la Liberazione Nazionale: era il 25 Aprile del 1945. Cosa ne fu, poi, di loro? Animati da una grande volontà di partecipare attivamente al conflitto, nell’estate dello stesso anno decisero di spostarsi in Giappone, l’unico fronte dove, ahimé, si continuava a combattere. Morirono a Nagasaki a causa dello scoppio della bomba atomica… certo che gli Alleati avrebbero potuto avvertirli no??!! STORIA PARTIGIANA di Davide Ferrari Palanzano Durante il periodo della Resistenza, nei boschi di Palanzano, il partigiano Matteo era costantemente inseguito dai soldati tedeschi, che volevano giustiziarlo perché si era rifiutato di arruolarsi con l’esercito tedesco per aiutarlo nei combattimenti al fronte. Matteo, che era un ragazzo di montagna e quindi abituato a inverni freddi, a correre nei boschi e ad attraversare torrenti, che erano numerosi nella sua zona, riuscì a fuggire e, dopo essersi rifugiato con altri disertori nel bosco, aveva iniziato ad aiutare i partigiani, che lì erano molto operosi e che da quel momento in poi sarebbero stati i suoi nuovi amici. Matteo e i suoi compagni seguirono una pattuglia tedesca fino all’accampamento nemico, dove scoppiò la battaglia. I partigiani, animati da un grande coraggio, piombarono a sorpresa nell’accampamento, uccisero e catturarono i tedeschi e si impossessarono delle loro armi strategiche: lanciarazzi, bombe a mano, ecc. Inoltre, si rifornirono di moltissimi viveri, che fra le formazioni partigiane scarseggiavano. Matteo rimase ferito, ma fu fortunato perché molti dei suoi amici non erano riusciti a soppravvivere. Il giovane ragazzo di montagna non si perse d’animo e continuò a combattere. Un’altra impresa che il giovane Matteo compì, fu quella di proteggere un paesino sulle montagne di Palanzano dai tedeschi che lo volevano bruciare: il distaccamento di Matteo, comandato da un grande uomo, il dottor Rossi, che era stato premiato varie volte dal Comitato di Liberazione Nazionale ed era molto amato da tutta la popolazione, riuscì con formidabili strategie e col coraggio dei suoi uomini a salvare tante vite. Un tragico giorno, mentre andavano a prendere un carico di vestiti invernali, i partigiani furono sorpresi da una divisione tedesca dotata di vari carri armati. I partigiani provarono in tutti i modi a fuggire da una morte certa, ma un fascista infiltrato fra i partigiani aveva segnalato tutte le vie di fuga e i tedeschi le avevano bloccate. Quindi i partigiani soccombettero all’attacco. Matteo purtroppo morì, ma si distinse, perché il suo sacrificio, assieme a quello del dottor Rossi e degli altri numerosissimi partigiani, fu importante per la libertà e la vita di molte persone. RICORDI di Thomas Ferrari (1999) Palanzano I nascondigli più sicuri erano quelli sotterranei, lontano dai fabbricati perché i fascisti, durante il rastrellamento, davano fuoco alle case oppure ai boschi. Quando ciò accadeva, gli uomini scappavano e le donne e i bambini rimanevano in casa con il rischio di essere uccisi. Il rastrellamento a Lalatta è stato fatto due volte. In uno dei due sono stati uccisi dei partigiani ed è stato veramente tragico. I fascisti rubavano il cibo, incendiavano case e stalle per scovare e uccidere i partigiani. La gente del paese andava nei boschi a nascondere il cibo in posti segreti. Se catturavano degli uomini, i fascisti li portavano in Germania nei campi di concentramento. Tanta gente non è più tornata a casa. I fascisti rubavano persino le vacche. Anche i partigiani ogni tanto rubavano le vacche per procurarsi da mangiare. Un giorno un fascista fu catturato da un distaccamento di partigiani a Pratolungo, poi fu portato a Lalatta e ucciso. In un’altra occasione ci fu uno scontro a fuoco tra Nestore, capo partigiano del distaccamento di Ranzano, e un fascista di nome Celestino Azzolini, rimasero entrambi uccisi. Fortunatamente noi non viviamo più quella realtà. LA FINE DELLA GUERRA PARTIGIANA di Thomas Ferrari (2000) Palanzano Era un giorno cupo e piovoso e un bambino era stato lasciato con suo nonno, il quale, non sapendo di cosa parlare, gli disse: “Ti va se ti racconto una storia di quando ero piccolo?”. Allora il bambino, incuriosito, gli rispose di sì. Il nonno iniziò a raccontare: “Un giorno ero in giro per il bosco quando sentii un grido, allora impaurito iniziai a correre, ma passando sulle foglie secche fui scoperto e rincorso. Dopo qualche centinaia di metri fui preso da un uomo, che mi portò in una base tedesca. Fui bendato e quindi non sapevo dove mi trovassi e dove fosse la base. Mi accorsi però che eravamo entrati in un sentiero ripido e roccioso. Dopo circa dieci minuti di viaggio, sentii alcune parole ma non ne capii il significato perché erano in tedesco. Quando arrivammo alla base, fui destinato ai lavori forzati. Dopo una settimana che ero stato catturato, una domenica mattina sentii degli spari provenire dall’esterno e vidi un partigiano, di nome Paolino Boraschi, entrare nel capannone dove ero stato portato. Due tedeschi iniziarono a sparargli, ma lui tirò fuori il fucile e li uccise e mi liberò. Arrivati fuori vedemmo molti partigiani morti. Fu così che finì la guerra. Ti è piaciuta la storia?”. Il bambino rispose: “Sì nonno, è stata molto bella”. Poi arrivarono i genitori e il bambino ancora oggi è fiero di raccontare questa storia ai suoi amici. GIOANNINO di Giorgia Gandolfi Palanzano Un partigiano, di nome Gioannino, quando era in guerra vide un suo compagno scappare e urlare mentre cercava un riparo: alcuni tedeschi avevano lanciato delle bombe. Gioannino allora iniziò a correre e si rifugiò assieme ai compagni in un posto sicuro, ma si accorse che mancava uno di loro. Quando Gioannino lo vide, lo chiamò urlando più che poteva. Il compagno era troppo lontano per sentirlo, si trovava in una zona scoperta, infatti gli scoppiò una bomba di fianco... Il silenzio piombò come un macigno su tutti i partigiani che assistettero alla scena, il terrore era evidente nei loro occhi. Alla sera tutti si rannicchiarono nei rifugi e pensavano preoccupati alle loro mogli e ai loro figli. Il mattino seguente Gioannino e i suoi compagni tornarono a combattere, ma altri due compagni morirono, catturati e fucilati dai tedeschi. I partigiani ritornarono al rifugio e prepararono da mangiare e andarono a dormire. Durante la notte i tedeschi, avendo scoperto il rifugio, aspettavano che tutti si fossero addormentati per fare una strage. Gioannino era l’unico ancora sveglio e riuscì a vedere i tedeschi, quindi svegliò silenziosamente tutti i compagni, che finsero di continuare a dormire per aspettare che i tedeschi entrassero nel rifugio. Tutti avevano tra le mani o un fucile o una pistola ed erano pronti ad usarli. Infatti, appena i tedeschi furono a portata di tiro vennero investiti da proiettili che provenivano da tutte le direzioni. Molti di loro morirono, ma ci furono altri che riuscirono a fuggire. La mattina seguente i partigiani partirono subito alla ricerca dei soldati tedeschi, ma non li trovarono. Gioannino sentiva che c’era sotto qualcosa che non andava. Infatti caddero in una imboscata, Gioannino fu fatto prigioniero dai tedeschi e fu portato nel loro rifugio. Gli fecero domande in tedesco ma Gioannino non capiva, allora arrivò il sergente tedesco che un po’ di italiano lo parlava, e tradusse a Gioannino le domande. Gli chiesero di lavorare per loro e gli promisero salva la vita, ma lui non accettò: preferiva morire piuttosto che tradire gli amici. Un soldato tedesco gli mise la pistola alla testa e il sergente gli disse che se non avesse lavorato per loro quel soldato avrebbe premuto il grilletto e lui sarebbe morto sul colpo. Gioannino si rifiutò nuovamente di rispondere. Il soldato tedesco, allora, premette il grilletto. Gioannino morí e altri partigiani lì vicino furono attirati dallo sparo e scoprirono il rifugio dei tedeschi. I partigiani, allora, presero tutte le bombe che avevano e le tirarono contro i tedeschi, uccidendoli tutti. Poi trovarono Gioannino morto con un buco in testa che passava da una parte all’altra. IL PARTIGIANO di Emanuele Guatteri Palanzano Siamo al primo ponte pre-estivo: tre giorni di pic-nic, spiaggia, montagna, relax. Ma è anche il 25 aprile, per cui non voglio parlarvi di cose frivole, penso che sia più significativo farvi conoscere una storia di vallata, che è una parte della storia vera di Vincenzo Bertolino, ragazzo del 1925, che militò per due anni coi partigiani di Val Corsaglia e che mi ha raccontato personalmente questa avventurosa e difficile fase della sua vita. «Dopo l’8 settembre, visto che non ero ancora soldato perché avevo solo 16 anni, sono rimasto a casa, a Frabosa Sottana, ma spesso i tedeschi ed i repubblichini venivano a fare rastrellamenti e, se ti trovavano, ti portavano via e rischiavi di finire in Germania, o peggio. Allora noi giovani andammo tutti coi partigiani e anch’io mi ritrovai così, tra il dicembre del ’43 e il gennaio del ’44, in montagna a Fontane, sotto il comando di Ignazio Vian, il tenente di complemento della guardia di frontiera che dopo l’8 settembre era diventato una delle anime della Resistenza, combattendo sulla Bisalta e a Boves, fino all’incendio del paese per mano nazista tra il 31 dicembre ’43 e il 2 gennaio ’44. Con lui c’era il sergente maggiore Gino Antoniol, un veneto. Il 13 marzo 1944 accadde un fatto terribile: i tedeschi salivano da Bossea, perché sapevano che noi eravamo a Fontane. Antoniol e un altro di Boves si erano spostati alla borgata Revelli, in una casa da cui si vedeva bene la strada, e con un fucile mitragliatore Gino da tre ore sparava sulla colonna, rallentandola, poi si era spostato in una baita più su, per vedere anche l’altra curva, e continuava a sparare. Verso l’una mi mandarono a portargli da mangiare: durante quella mezz’ora di cammino avevo molta paura, anche perché ad un certo punto il mitragliatore non sparava più e quindi non sapevo cosa avrei trovato. Quando entrai, mi accorsi che ad Antoniol tremavano le mani: il nastro caricatore aveva ancora dei proiettili, ma il mitragliatore si era inceppato! Credo che Gino avesse capito di essere spacciato, perché mi disse: “Che fai lì, posa tutto e vattene”. In quel preciso momento i nazisti col mortaio centrarono lo spigolo della finestra e una pietra colpì in testa Antoniol, che cadde fulminato. Io ero rimasto immobile e stordito, ma l’altro partigiano che era con lui mi gridò: “Sbrigati, salviamo il mitragliatore e scappiamo, ché se arrivano ci ammazzano tutti e due”. A turno abbiamo portato il mitragliatore su per un sentiero verso la Balma, incontrando Vian e gli altri a Casera Vecchia; il giorno dopo ci siamo divisi: loro hanno raggiunto Viozene ed Upega e i nazisti li hanno inseguiti, catturando ed uccidendo alcuni di loro, mentre io ed il mio amico Giovanni siamo scesi verso Burino e di lì all’Alma Ressia. I tedeschi intanto fucilavano per rappresaglia cinque civili a Fontane. Cercando di fermare i tedeschi, fui colpito di striscio alla testa e ricoverato in un ospedale. Quando uscii da lì fortunatamente la guerra era finita». La storia di questo partigiano, insieme a quelle di tanti altri, mi serviranno per scrivere un libro che ricordi che la libertà di cui oggi godiamo non è stato un regalo, ma che uomini come Vincenzo Bertolino l’hanno conquistata con grandi sacrifici, anche per noi! IL PARTIGIANO GIANNI di Khelifi Hadil Palanzano Il 24 maggio del 1944 ci fu il secondo rastrellamento dei tedeschi in via Palermo. Fu Gianni a scorgere i tedeschi, per cui iniziò a urlare in mezzo alla via, si mise a bussare alle porte di tutti i vicini per avvisarli e farli mettere in fuga... Le donne si affrettarono a nascondere i figli nelle botole. Intanto arrivò il sergente tedesco e mandò tutti i suoi soldati nelle case vicine. Gianni, allora, si diresse nel bosco, dove per un po’ si nascose. Il giorno dopo decise di recarsi in via Palermo a vedere cosa fosse successo e, quando fu sul posto, venne preso da un forte desiderio di vendetta verso i tedeschi per quello che avevano fatto ai suoi vicini di casa e per aver portato via il fratello della donna che amava. Quindi decise di unirsi ai partigiani e imparò a usare i fucili. Divenne un buon partigiano e riuscì a vendicare tutte le persone che erano state rastrellate. Alla fine lui e gli altri partigiani ammazzarono tutti i tedeschi. Poi, dopo la guerra, sposò Raffaella, la donna che amava ed ebbero due figli: Marco e Lorenzo. LETTERA A CLELIA di Valentina Lazzari Monchio 23 aprile 1945 Cara Clelia, ti scrivo questa lettera perché non so se avremo la fortuna di rivederci. In questi ultimi mesi sono rimasto qui, nella nostra cara Monchio. Tutto sommato si sta bene, lo sai. La gente è buona “ cme el pan” e i posti dove nascondersi sono tanti. L’esser tornato in questi luoghi mi ha spesso fatto riaffiorare alla mente ricordi della nostra infanzia quando, innocenti e spensierati, portavamo le mucche al pascolo della Nuda, a Pian del Mont, alla Scarvata, o quando facevamo il bagno al Boz del Mulin....Com’era bello! Quante risate! Avrei mille cose da raccontarti, ma non ho tanto tempo. Ti scrivo per un saluto veloce. Spero che non sia l’ultimo, amore mio. In questi ultimi mesi, come ti ho già detto, sono rimasto tra i monti del nostro cuore. Ci siamo sistemati in una vecchia cascina nella macchia di Valditacca, vicino alla cascata della Verlonda. Siamo in sei: io, el Lov, Riana, il Boia, la Volpa e Stramblon. Qui riceviamo un sacco di aiuti e moltissime testimonianze d’affetto da parte della gente di Valditacca e di Pianadetto. Ci sono anche degli Inglesi che ho conosciuto al Prato. Uno di loro si chiama Franco e mi ha insegnato un po’, soltanto un po’, ad usare una macchina per inviare i codici “Mors” (così li chiama lui, ma io non ne capisco tanto di sti moster chi!). Franco promette in continuazione che a giorni arriveranno gli Alleati, ci dice di non preoccuparci, ma è da tanto tempo che sento ripetere lo stesso ritornello e ormai ho perso le speranze. No, cosa dico?! Io sono un partigiano. La speranza non può e non deve abbandonarmi. Ho avuto un sacco di tempo per pensare, riflettere, soprattutto nelle lunghe notti senza di te. Sai cosa ho concluso, Clelia? Che gli altri, in questa sporca guerra, combattono per sete di potere, per interessi, per cupidigia. Invece noi, noi partigiani combattiamo per degli ideali, per un’Italia affrancata dagli oppressori, per una libertà che forse non arriverà mai, o forse arriverà domani, ma non importa! Si combatte con orgoglio e pieni di una matta e disperata brama di vivere. Sai cosa c’è Clelia mia? In questi anni mi sono, come non mai, attaccato alla vita! Domani ci sarà uno scontro con i nazi-fascisti e non so come potrà andare a finire, ma tu non preoccuparti amore, un modo per cavarmela lo troverò. Adesso devo andare, mi chiamano per gli ultimi preparativi. Ti amo tesoro mio e ti prometto che, quando questa maledetta guerra finirà, torneremo a vivere qui a Monchio, nella nostra amata Monchio. Arrivederci Clelia , dunque... questo non può essere un addio. Il tuo Gino MEMORIE DI UN PARTIGIANO di Nicholas Lazzari Monchio Era l’11 gennaio del 1945, tirava un vento gelido ed i monti erano coperti di neve. Io e Albi, entrambi partigiani del distaccamento del Guercio, eravamo in giro per una ricognizione. All’improvviso sopraggiunse un camion tedesco: non ci fu via di scampo! Ci condussero nel loro accampamento e ci rinchiusero in una stanza priva di finestre, legandoci l’uno all’altro. La paura m’impediva di pensare! Per fortuna Albi aveva un coltellino nascosto sotto la cintura, con cui riuscì a tagliare le corde: approfittando della porta lasciata aperta e dell’oscurità, riuscimmo ad evadere rubando una jeep tedesca. La nostra fuga fu interrotta dalla foratura di una gomma ma, dopo un rapido cambio di pneumatico, riprendemmo la corsa verso il Monte Navert. Poi un altro terribile intoppo! Incontrammo un altro camion tedesco, ma riuscimmo a mimetizzarci velocemente nel folto del bosco. Che paura! In un attimo mi passò tutta la vita davanti! Trascorremmo la notte in un rifugio ed il mattino dopo decidemmo di osare. Presi da una voglia disperata di andare a vedere cosa fosse successo ai nostri familiari dopo l’ultimo rastrellamento, calammo in paese, a Monchio delle Corti, indossando delle divise tedesche trovate nella jeep, nel caso in cui avessimo malauguratamente incontrato qualche sporco nazista. Fu una fortuna incredibile che, all’altezza delle prime case, incontrassi subito mio padre. Lacrime, abbracci e tanta voglia di raccontare. Mi disse di essersi salvato grazie ad cunicolo scavato sotto il pavimento della nostra stalla. I tedeschi passarono e ripassarono nelle vicinanze della botola un sacco di volte, senza mai scoprirlo. La stessa sorte, purtroppo, non toccò ai genitori di Albi e a sua sorella né a tanti altri amici di cui conservo gelosamente la memoria. Questo è uno dei numerosissimi ricordi legati a quegli anni, mai troppo lontani. Ormai è tutto finito: io e i miei paesani stiamo ricostruendo con gioia quello che la guerra ha spazzato via. Bevo la vita ogni giorno come se fosse la bevanda più preziosa, anche se a volte tornano ad assalirmi gli incubi di un passato che, spero, non ritorni mai più. LA BRIGATA ROSSA di Genny Likmeta Palanzano Durante una fredda giornata d’inverno la brigata rossa stava camminando per i campi alla ricerca di un posto dove accamparsi quando, in un tratto non molto lontano da dove si trovavano, sentirono degli spari e si misero subito al riparo nascondendosi dietro una grande roccia e lì si sentirono al sicuro. Gli spari, però, si avvicinavano sempre di più e loro decisero che era il momento di cominciare a difendersi e rispondere al fuoco. Questa fu una battaglia molto lunga e appena i tedeschi se ne andarono i partigiani furono contenti, ma poi si accorsero che mancavano due o tre persone e cominciarono a cercarle. Dopo un po’ di tempo un partigiano li trovò morti dietro un albero e quella giornata, che sembrava una delle migliori, si trasformò in un incubo. Per il distaccamento fu un evento tragico sia perché i tre partigiani morti erano i migliori, sia perché non avevano mai perso degli uomini in battaglia. Il distaccamento decise di fermarsi in quel luogo e dopo una lunga nottata di sonno, si svegliarono all’Alba per andare a cercare un riparo migliore. Mentre camminavano tranquilli sentirono degli altri spari, ma questi venivano da molto lontano. Allora i partigiani decisero di andare a controllare per capire di cosa si trattasse. Arrivati nel luogo da dove provenivano gli spari videro una scena bruttissima: c’erano tantissimi uomini morti e vicino ad un grande edificio c’erano due o tre uomini feriti. I partigiani cercarono in qualche modo di aiutarli e dopo che i feriti si furono ripresi raccontarono al distaccamento che erano stati attaccati all’improvviso dai tedeschi. I partigiani decisero di fermarsi lì e di unirsi così ai pochi uomini che erano rimasti. Dopo pochi giorni, che sembrarono tranquilli, i partigiani sentirono dei gran rumori e appena si alzarono videro in lontananza molti tedeschi che avanzavano nella direzione di quel grosso capanno. I partigiani subito presero le armi e cominciarono a sparare. Anche i tedeschi si misero subito a sparare e dopo poco tempo sembrava che ci fosse già stata una battaglia lunghissima. A battaglia finita, I partigiani avevano perso molti uomini, ma anche i tedeschi ne avevano persi alcuni. Il distaccamento decise che non si poteva andare avanti così perché avrebbero perso tutti gli uomini. Allora i partigiani decisero che sarebbero stati loro ad andare ad attaccare i tedeschi. Quella stessa notte andarono a cercare il rifugio dei tedeschi e un partigiano in lontananza vide una grande struttura che assomigliava ad una stalla. Con molta cautela i partigiani si avvicinarono al rifugio ma, tutto non andò come avevano pensato: i tedeschi si erano accorti del loro arrivo. Cominciò di nuovo una lunga battaglia molto pericolosa. I tedeschi attaccarono subito e uccisero alcuni partigiani che, nonostante fossero rimasti in pochi, riuscirono comunque a combattere contro i tedeschi e a sconfiggerli definitivamente. Poco tempo dopo sentirono dei gran rumori ed ebbero tantissima paura perché pensavano che fosse un altro attacco dei tedeschi e loro non avevano più né armi né uomini per poterli affrontare. I partigiani, comunque, si appostarono, per resistere ad un nuovo attacco. In lontananza videro molti carri armati avanzare, ma sopra c’erano dei soldati felici che gioivano. Allora i partigiani capirono che erano arrivati rinforzi per liberarli da quell’incubo. LA BRIGATA VERDE di Consuelo Montali Palanzano La brigata verde era piena di giovani ragazzi con tanta voglia di difendere la propria patria, era chiamata così perché tutti indossavano delle tute verdi per mimetizzarsi tra i prati. Durante una calda giornata di primavera, i partigiani della brigata verde si stavano preparando per andare in guerra, partirono per andare in cima al monte, impiegarono quasi un’ora per arrivare fin lassù. Quando furono lì, notarono la presenza di altri uomini: erano i tedeschi. Quindi i partigiani si nascosero dietro i cespugli e iniziarono a sparare. I tedeschi non riuscivano a capire da dove venissero gli spari, perché i partigiani erano mimetizzati con le loro tute verdi. Così la brigata riuscì a uccidere tutti i nemici. I partigiani esultarono tutti insieme perché sapevano che quel giorno sarebbe stato indimenticabile. Presero i loro sacchi a pelo e li misero tra i cespugli, accesero il fuoco e iniziarono a cucinare la lepre che avevano catturato il giorno prima. Appena finirono di mangiare, si addormentarono subito. Quella notte, tutti i venti partigiani riposarono tranquilli. Il giorno dopo, quando furono svegli, si accorsero che mancavano cinque di loro. Guardarono in giro, ma non ne trovarono traccia. Finalmente, dopo quattro ore di ricerca, li trovarono dietro a un cespuglio, morti. Iniziarono a perlustrare la zona perché sospettavano e temevano la presenza di tedeschi, ma non ce n’erano. All’improvviso sentirono degli spari e si intravidero in lontananza diversi uomini: stavano arrivando i tedeschi. I partigiani, allora, si nascosero dietro i cespugli e incominciarono a sparare. Morirono diversi tedeschi, ma anche tre partigiani della brigata verde. Alla fine vinsero i partigiani, visto che di tedeschi non ce n’erano più. Di venti partigiani ne erano rimasti dodici. Molti uomini della brigata verde avevano paura di fare la fine degli altri, quindi decisero di trovarsi un rifugio. Trovarono una baita abbandonata, dove si erano nascosti anche gli uomini della brigata rossa. Iniziarono a parlare tutti insieme e poi le due brigate decisero di unirsi, così sarebbero diventate più forti. Formarono un gruppo di cinquanta partigiani. Si incamminarono per andare a lottare contro i tedeschi. In un campo immenso, si trovarono contro i nemici. Gli altri erano il doppio di loro. Dopo lunghe ore di battaglia, il numero dei tedeschi si era dimezzato. I partigiani avevano subìto solo due perdite, tutti gli altri stavano bene, a parte delle piccole ferite, e alla fine ce la fecero, riuscirono a vincere e a perdere solo sei di loro. Ad un certo punto si sentì un rumore fortissimo provenire da lontano. C’erano tanti uomini dentro carri armati che salivano su per la montagna. Quando furono in cima, iniziarono a urlare e a suonare le trombette tutti insieme, stavano esultando perché la guerra era finita e loro avevano ucciso gli ultimi tedeschi rimasti! Tutti felici scesero in paese e festeggiarono la fine di quella tragedia. IL RASTRELLAMENTO di Loris Notarangelo Palanzano Nel giugno del 1944 andai al mare per una quindicina di giorni con i nonni, ritornai a casa e vidi dalle montagne i tedeschi che portavano via i miei genitori. Io scappai il più lontano possibile per non farmi prendere. Mentre correvo, incontrai alcuni partigiani e raccontai loro tutto quello che sapevo sui tedeschi. All’improvviso, davanti a me e ai partigiani, vidi comparire una camionetta di tedeschi. Ebbi molta paura e cercai di scappare, mentre i partigiani cercavano di bloccarli. Iniziai a correre, e intanto sentivo sparare. Poi ho saputo che erano stati presi tutti i partigiani, avrei voluto fare qualcosa, ma non sapevo cosa e avevo paura di finire ammazzato. Alla fine miracolosamente sono sopravvissuto, ma non ho mai saputo che fine hanno fatto quei partigiani. LA BRIGATA SCANSAFATICHE di Alessandro Orsini Palanzano In una calda giornata d’estate in piena Seconda Guerra mondiale, c’era una piccola brigata che era tra le più scansafatiche di tutte. Era composta solo da quattro ragazzi giovani: Marco, Alessandro, Giacomo e Massimo. Un giorno la brigata venne mandata a fare un giro di perlustrazione, durante il quale i quattro ragazzi videro un uomo consegnare dei fogli a un altro uomo che sembrava un ufficiale tedesco, ma scoprirono poi che si trattava del cuoco del loro accampamento. Allora andarono subito dal capitano a riferire tutto, ma il capitano non credette loro e disse: “Voi non riuscite a vedere neanche un maiale in un allevamento di maiali, figuriamoci se vedete una spia!”. I quattro si scoraggiarono un po’ ma poi decisero di fare tutto da soli. Alla sera si allontanarono dall’accampamento per pedinare la presunta spia; dopo venti minuti arrivò una macchina nera dalla quale uscì il cuoco per scambiare ancora informazioni. I quattro guardarono la targa e cercarono di memorizzarla: 428BHW. “Non è possibile! Non ci credo!” esclamò Alessandro - “Ma quella non è la targa della macchina del nostro capitano?”. Subito pensarono che il loro capitano stesse complottando con i tedeschi. Il giorno dopo, senza confrontarsi più con nessun superiore, decisero di fare una “bella festa” al loro capitano e al cuoco. LA BRIGATA GIALLA di Daniela Parascanu Palanzano Era la fine dell’inverno, faceva ancora molto freddo e la neve imbiancava le montagne. In una casa povera e cadente abitava un bambino insieme a sua sorella. Lui si chiamava Henry e sua sorella Mary. Henry aveva dieci anni e la sorella era l’unico familiare che gli era rimasto: suo padre, un partigiano, era stato ucciso in guerra; sua madre era morta di parto. Mary era buona, lei lo amava tanto, aveva solo lui. Aveva venti anni e non aveva mai trovato l’uomo della sua vita con cui potersi sposare e vivere. Henry voleva diventare un partigiano perché desiderava proteggere la sua terra, ma lui non era che un bambino, anche se sapeva ogni cosa sui partigiani e sui nascondigli del suo territorio. Riusciva a trovare luoghi di cui nessuno conosceva l’esistenza. Un giorno Henry incontrò dei partigiani e si offrì di unirsi a loro per aiutarli in guerra, così come aveva fatto suo padre. Ma i partigiani non lo ascoltavano, quindi si mise davanti a loro e disse: “Sono piccolo, è vero, però voglio anch’io partecipare alla guerra”. I partigiani iniziarono a ridere, dicendogli: “Cosa può fare un piccolo bambino in una guerra? Può solo morire!”. Quando i partigiani arrivarono a casa di Henry, uno dei più importanti partigiani, Richard, vide Mary e se ne innamorò, voleva chiederle se avesse un marito, ma non ebbe il coraggio, era troppo intimidito dalla sua grande bellezza. In quel momento la sorella di Henry, imbarazzata, diventò rossa in volto come una rosa. Henry si accorse di tutto e pensò che se quel partigiano e sua sorella si fossero messi insieme, per lui sarebbe stato più facile diventare un partigiano. Il distaccamento trascorse due settimana a casa di Mary, ma in questo periodo tra i due giovani non era successo nulla ed Henry era disperato perché i partigiani di lì a poco sarebbero partiti per una missione contro i tedeschi e lui sarebbe rimasto di nuovo a casa. Sentiva che doveva fare qualcosa, non poteva andare così, lui doveva essere un partigiano come lo era stato suo padre, forse lo avrebbe ritrovato, forse non era morto come dicevano tutti. Allora Henry disse: “Aspetta Richard, aspetta, mia sorella ti ama e penso che anche tu la ami, perché non glielo dici? Lei aspetta da tanto tempo che tu le dica qualcosa”. Richard rispose: “Sì, anch’io la amo, però cosa posso fare? Lei è qui e io devo andare in guerra e non so se mi aspetterà”. Il ragazzo gli disse: “Ti aspetterà perché lei ti ama tanto e anche tu le deve dire ciò che provi perché lei non lo sa”. Richard non era convinto delle parole di Henry, ma prima di partire volle vedere Mary, perché pensava che quella poteva essere l’ultima occasione per dirle ciò che provava, temeva di non tornare vivo. Henry allora gli propose di farlo diventare un partigiano, così sua sorella si sarebbe aggregata al distaccamento con lui. Richard non era molto sicuro che ciò fosse una cosa giusta, ma era disposto a fare tutto per poter rimanere con la donna amata. Così alla fine Henry e la sorella andarono con i partigiani. Henry era simpatico a Richard, per lui era come un fratello più piccolo ed Henry lo considerava quasi come un padre. Dopo tre mesi, Mary e Richard si misero insieme, ma anche in lei come in suo fratello si accendeva la speranza di poter ritrovare il loro padre. Un giorno, mentre Henry cercava nuovi posti da utilizzare come nascondigli, sentì un rumore, una voce che chiedeva aiuto. Lui non sapeva cosa fare, pensava che fosse un fascista o tedesco, quindi scappò e andò dai partigiani a chiedere aiuto. Sua sorella, spaventata, voleva andare con loro per non rimanere da sola. Sperava che quell’uomo scoperto da suo fratello potesse essere suo padre. Solo lei poteva riconoscerlo, Henry aveva un ricordo vago del suo genitore. Dal bosco avanzava un anziano, Mary era spaventata e voleva fuggire, poi riconobbe in quella figura qualcosa di familiare, ma i partigiani presero le armi e stavano per sparare. Mary allora disse: “Aspettate! No, lui è mio padre!”. Tutti rimasero fermi, Henry e sua sorella si avvicinarono all’anziano e lo abbracciarono, era il loro padre e scoprirono che era stato catturato dai tedeschi e solo da qualche giorno era riuscito a scappare. Henry si commosse perché quella era la prima volta che vedeva suo padre, era appena nato quando se ne era andato via. Tutti furono felici, ma Henry e Mary un po’ si rattristarono al pensiero della madre morta. Henry divenne uno dei più bravi partigiani, mentre Mary e Richard si sposarono dopo la fine della guerra. CARO DIARIO di Alessandro Priori Monchio 23 maggio 1944 Caro diario, anche questa sera posso raccontarti la mia giornata perché fortunatamente, neanche oggi i tedeschi sono riusciti ad uccidermi. Sembra una considerazione assurda, ma di questi tempi la mia vita non è un privilegio scontato! Sono disteso su un pagliericcio, nella zona del dormitorio del campo. Questa mattina mi sono svegliato alle 5.00 per raccogliere la legna. Più tardi, dovendo preparare il pranzo, sono andato a controllare le varie trappole che abbiamo posizionato nel bosco. Oggi siamo stati particolarmente fortunati perché abbiamo trovato del cibo. E, ti assicuro, non è cosa di tutti i giorni! In una trappola si era persino impigliata una bella lepre, che ho cucinato per la cena. Avevamo ancora un po’ di farina di mais: per cuocerla ho usato l’acqua del ruscello. Al momento di mangiare la polenta, ci siamo resi conto che era piena di puntini neri: erano formiche! Ma la fame era talmente tanta che l’abbiamo mangiata comunque. Adesso devo dormire, perché presto sarà giorno e dovrò svegliarmi nuovamente di buon’ora. È faticosa la vita del cuciniere, soprattutto quando il cibo scarseggia. 24 maggio 1944 Caro diario, anche oggi, fortunatamente, posso raccontarti un’altra giornata! Scusami se vado di fretta, ma qui al campo è successa una cosa noiosa e spiacevole: un’invasione di pidocchi! In testa ne ho un’intera tribù, accidentaccio! Tra poco dovrò recarmi dal mio compagno Carlo che mi aiuterà a sterminare un po’ di queste bestiacce. Lo ricambierò con lo stesso favore. Gli attacchi dei tedeschi sono frequenti e impegnativi. Il mio sesto senso mi dice che anche domani ci saranno nuovi scontri. Dobbiamo al più presto andare in città a prendere munizioni perché iniziano a scarseggiare…. ci mancavano queste dannate bestiacce a renderci la vita impossibile! Sono stanco… non so per quanto potrò resistere in queste condizioni, spero che tutto finisca presto! Ora ti saluto. Mi auguro di cuore di poter sfogliare le tue pagine anche domani. A presto, amico dei miei lunghi giorni! HO VISTO COSE…… di Federica Priori Monchio Carissima famiglia, ho avuto la fortuna di incontrare un combattente inglese che mi ha promesso di consegnarvi questa lettera. Voglio dirvi brevemente ciò che mi è successo in questi ultimi anni... Quante terribili avventure ho vissuto in giro per l’Europa! Iniziato l’orribile conflitto, mi hanno chiamato nell’ARMIR. Non so come, ma sono riuscito a tornare sano e salvo, senza che mi uccidesse il gelo russo. Dopo un breve periodo in Nord Africa, mi sono specializzato nei codici Morse e ho iniziato a fare il telegrafista qui in Italia, dove tuttora mi trovo. Che meraviglia questi posti! Prima che venissero feriti dalla guerra, dovevano essere un incanto! In questo periodo lontano da casa, ho visto cose che nessuna creatura umana avrebbe mai voluto vedere. Ho visto morire decine e decine di compagni, per il bene delle generazioni future. La loro morte è piena di orgoglio, coraggio e voglia di libertà. Anche se non potessi più tornare a casa, promettetemi di ricordarvi di me. Vi ho sempre voluto bene e vi porto sempre nel cuore. Certo, mi piacerebbe essere a casa in questo momento, abbracciarvi, ma è più forte il desiderio di combattere per una grande causa, di sconfiggere l’oppressore. Ricordo sempre i vostri splendidi, bellissimi, fantastici sorrisi, i vostri modi di fare e i vostri gesti, anche e soprattutto quelli più banali e quotidiani. Vi ho voluto, vi voglio, vi vorrò sempre un oceano di bene. Con amore, Edward. GENNAIO 1944 di Alberto Rozzi Monchio In quel freddo Gennaio del 1944, mi trovavo nei boschi tra Palanzano e Monchio con alcuni compagni partigiani. Ci avevano riferito che i tedeschi stavano attaccando da Rigoso, per cui ci mettemmo in marcia per avvertire gli abitanti dei due piccoli centri e per spingerli ad evacuare. Nei pressi di Cozzanello, sentimmo un terribile boato: stavano arrivando! Ci affrettammo per fare in modo che donne e bambini fuggissero. Poi ci fu un sanguinosissimo scontro con le truppe naziste: io, Rodrigo, Andrés, Ubbald, Pietrino e gli altri miei compagni ci battemmo come fieri leoni, ma i tedeschi erano in netta superiorità. Perciò, nostro malgrado, fummo costretti a ritirarci verso San Matteo, avviliti per aver perso ben trenta uomini. A questo scontro ne seguirono tanti altri, a volte fortunati, a volte no. L’importante era battersi sempre e comunque, senza mai perdere la speranza. Era splendido il mio distaccamento e soprattutto i miei amici più cari, quelli di una vita: Rodrigo era alto, magro e imbattibile nella mira; Ubbald, coraggioso e temerario, era forse il più forte del gruppo; Andrés, invece, era il più abile a procurarsi il cibo e ad usare le armi; infine Pietrino, “il più fuori di testa”, era magrissimo ma riusciva a tirarci sempre su di morale con le sue battute. Eravamo un gruppo dotato di un cuore enorme. È grazie a quel cuore e al nostro “furore”che siamo riusciti a batterci con valore per anni, fino alla meritata vittoria finale. Sono contento, adesso, di vedere la mia bella patria libera e unita. E se avessi dovuto imparare a parlare in tedesco? Oddio che incubo! IL PARTIGIANO LUCA di Andrea Scorticati Palanzano Dal 1943, durante la Seconda guerra mondiale, si erano formati alcuni gruppi armati di partigiani contro le truppe nazi-fasciste. I partigiani sapevano che i tedeschi erano molto forti militarmente, ma nonostante la paura, lo spirito di tornare liberi e l’appoggio americano li rassicurava. I tedeschi erano molto abili a infiltrarsi con le loro spie nei gruppi partigiani. Presso il greto del torrente, un tedesco stava sistemando una barca ma dalla boscaglia partì un colpo che lo ferì. Aveva sparato il partigiano Luca, che era nascosto tra la vegetazione e si armò di un bazooka per colpire il gruppo tedesco che, nel frattempo, accorreva in soccorso del commilite ferito presso la barca. Iniziò una sparatoria, si vedevano pallottole e bombe che partivano da tutte le parti bum bum bummmmmmmmmmmm. Luca venne colpito a morte da un ufficiale tedesco. I partigiani subirono molte perdite e, rimasti in pochi, si arresero ai tedeschi. Oggi in quel luogo c’è un monumento alla memoria dei caduti per la libertà. Chi mi ha raccontato questa storia ebbe vita dura. GIGIONE E PONO di Pietro Vincetti Monchio Il 25 ottobre 1944, nell’Appennino tosco-emiliano, un gruppo di partigiani stava scappando perché avevano subito un attacco a sorpresa da parte di un gruppo di tedeschi. Quando arrivarono al campo, il comandante li rimproverò perché si erano fatti sorprendere così ingenuamente, mettendo a repentaglio la sicurezza dell’intero distaccamento. Il comandante disse di fare più attenzione anche perché aveva la certezza che prestissimo sarebbero arrivati i rinforzi per i tedeschi stanziati nelle vicinanze. Nella notte, infatti, secondo le previsioni del comandante, l’accampamento fu invaso da circa cinquanta soldati. I partigiani erano intorno ad un tavolo e stavano programmando le azioni dei giorni seguenti: quando le sentinelle sentirono i primi rumori, diedero l’allarme. Ognuno si mise al proprio posto di combattimento per difendersi il meglio possibile. I tedeschi cominciarono a sparare da tutte le parti e i partigiani vennero rapidamente accerchiati. Ma il Gigione e il Pono, i più temerari del gruppo, riuscirono ad uscire dal retro del casolare e cominciarono a sparare all’impazzata alle spalle dei tedeschi. Quest’azione temeraria infuse coraggio agli altri partigiani, che iniziarono a battersi con furore, prendendo il sopravvento sui nazisti. Una volta sventato l’attacco e dopo aver cambiato campo, occorreva fare chiarezza su quanto era successo. Perché i tedeschi erano riusciti in poco tempo a sorprenderli per ben due volte? C’era forse una spia in mezzo a loro?