Scuole Secondarie di I Grado di Palanzano e di Monchio delle Corti

Scuole Secondarie di I Grado
di Palanzano e di Monchio delle Corti
Con il Patrocinio dei
Comuni di Palanzano e di Monchio Delle Corti
INDICE
Premessa
Prefazione
Introduzione
Antefatto
IL NONNO DI EMMA DI E. AGNESINI
IL PARTIGIANO PIERINO DI E. AZZOLINI
LA BRIGATA DALLE IMPRESE IMPOSSIBILI DI G. BERINI
IL RAGAZZO PARTIGIANO DI F. BORIASSI
LA STORIA DI LIVIA DINARELLI DI M. BORTOLIN
IL CONTADINO DI F. CELENTANO
ORAZIO TANCREDI DI C. COSTI
LETTERE: CARA ELEONORA DI E. DIACONU
I PARTIGIANI DI MONCHIO DI A. FERRARI
STORIA PARTIGIANA DI D. FERRA
RICORDI DI T. FERRARI (1999)
LA FINE DELLA GUERRA PARTIGIANA DI T. FERRARI (2000)
GIOANNINO DI G. GANDOLFI
IL PARTIGIANO DI E. GUATTERI
IL PARTIGIANO GIANNI DI KHELIFI HADIL
LETTERA A CLELIA DI V. LAZZARI
MEMORIE DI UN PARTIGIANO DI N. LAZZARI
LA BRIGATA ROSSA DI G. LIKMETA
LA BRIGATA VERDE DI C. MONTALI
IL RASTRELLAMENTO DI L. NOTARANGELO
LA BRIGATA SCANSAFATICHE DI ALESSANDRO ORSINI
LA BRIGATA GIALLA DI D. PARASCANU
CARO DIARIO DI A. PRIORI
HO VISTO COSE…… DI F. PRIORI
GENNAIO 1944 DI A. ROZZI
IL PARTIGIANO LUCA DI A. SCORTICATI
GIGIONE E PONO DI P. VINCETTI
Scuole Secondarie di I Grado
di Palanzano e di Monchio delle Corti
Con il Patrocinio dei
Comuni di Palanzano e di Monchio Delle Corti
STORIE PARTIGIANE
Racconti
ANNO SCOLASTICO 2012/2013
Sponsor stampa cartacea
Progetto Scolastico “La Resistenza a Palanzano e Monchio.
Docenti: Arturo Gagliardi (Docente di Lettere)
Arianna Menduni (Docente di Lettere)
Mariangela Pastanella (Docente di Lingue Straniere)
Antonina Foderà (Docente di Arte)
In copertina: Foto di un lancio di approvvigionamento su Rigoso
e riproduzione di Consuelo Montali: U. Bertoli, “Soldato
tedesco”.
All’interno opere di U. Bertoli rielaborati dagli studenti.
Premessa
Questo pregevole volume scritto dagli studenti della
Scuola Media di Palanzano e Monchio evoca in me storie di
vita familiare.
Il territorio della Valle dei Cavalieri accolse i primi nuclei
di ribelli della Resistenza parmense e fu proprio nella
frazione di Valcieca che salirono, dalla pianura di Vigatto,
alcuni giovani i quali andarono poi a costituire la IV Brigata
di Giustizia e Libertà, la formazione in cui combatterono
anche mio padre e i suoi due fratelli.
Andarono in montagna, così, a piedi, attraverso strade
secondarie e sentieri, per sfuggire ai controlli dei militi della
Repubblica Sociale, nell’inverno del ’44.
Salirono a mani nude, disarmati, in fuga dall’esercito di
Salò, con l’obiettivo immediato di trovare rifugio presso
un’abitazione estiva di un loro compaesano. Solo uno di loro,
tra quei primi giovani, lo zio Elvio, aveva avuto una vera e
propria esperienza di guerra sul fronte slavo, quello zio che
cadrà in uno scontro a fuoco contro il nemico a Reno di
Tizzano il 30 ottobre di quel tragico anno.
Al suo coraggio e alla sua esperienza di soldato, si
affidavano i compagni che lo seguivano.
Fu dopo un po’ di tempo, in primavera, nella zona tra
Palanzano e Monchio, che avvennero i primi avio-lanci di
armi da parte degli Alleati i quali, proprio lì, installarono la
loro missione militare.
Questo lavoro di ricerca sull’epopea resistenziale, svolto
con la preziosa collaborazione degli insegnanti e degli Enti
Locali, rappresenta un esempio felice di realizzazione degli
ideali di Piero Calamandrei, uno dei principali giuristi italiani
del ‘900.
In una delle sue più importanti opere “Lo Stato siamo noi”,
egli sosteneva che mantenere in vita lo spirito della
Resistenza significa creare un nuovo rapporto tra cittadini e
Stato, un rapporto che passa innanzitutto attraverso la scuola
perché “se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si
mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo
andare è più importante del Parlamento e della Magistratura
e della Corte Costituzionale”.
Da questa riflessione sorge la consapevolezza che il più
grande pericolo sta in ciò che è contrario alla Resistenza,
quel che Calamandrei definiva “desistenza”: lo stato d’animo
di coloro i quali sono “stufi di sentir parlare di antifascismo e
sono condannati da un’antica malattia che consiste nella
sfiducia verso la libertà, nel desiderio di appartarsi, di
lasciare la politica ai politicanti”.
Educare i giovani ai valori della Resistenza, della
democrazia e della libertà, significa inoltre rafforzare la
consapevolezza dell’importanza del pensiero di Antonio
Gramsci, morto nelle carceri fasciste, quando scriveva: “odio
gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere
partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e
partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è
vigliaccheria, non è vita”. Ciò che intendeva sostenere
Gramsci era quindi la necessità di rafforzare nei giovani gli
ideali di partecipazione alla vita pubblica, traendo esempio
anche dalla storia.
Si tratta in definitiva del medesimo moto ideale che
impregnò la breve ma intensa esperienza del giovane
Giacomo Ulivi, martirizzato nella lotta di liberazione dal
nazifascismo a 19 anni, una manciata di anni in più di quella
dei ragazzi che oggi vedono pubblicato il loro prezioso
contributo di ricerca storica.
Quel giovane, conscio del ruolo essenziale che ogni
cittadino deve svolgere per la difesa della democrazia e della
libertà sosteneva che “... al di là di ogni retorica, constatiamo
come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il
nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sciagura è
sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in
cui il nostro Paese è caduto: se l’avessimo sempre tenuto
presente, come sarebbe successo questo? ...”.
La Scuola Media di Palanzano e Monchio, con il
contributo dei rispettivi Comuni, promuovendo la
conoscenza del Movimento di Liberazione, anche attraverso
la pubblicazione di questo volume, accresce nei giovani quel
sentimento di amore per la libertà e di condivisione dei più
alti valori di umanità contro ogni forma di dittatura dei
popoli.
Il Presidente Associazione Liberi Partigiani Italiani della Provincia di Parma
Attilio Ubaldi
Prefazione
Grazie a tutti. Grazie per aver lavorato, grazie per aver
scavato nella memoria dei vostri antenati.
Un pezzo di storia è passata nelle nostre terre: una storia
fatta di donne e uomini che hanno deciso di non rimanere
indifferenti ma, mettendo a rischio la propria vita, in questa
storia hanno voluto avere un ruolo.
Spesso tutto è rimasto nell’ombra col rischio che le
generazioni future, pur godendo dei benefici ottenuti grazie
al sacrificio di queste persone, non percepissero che la
democrazia è un bene da conquistare ogni giorno.
Ecco perché io torno a ringraziarvi cosciente anche del
fatto che questo lavoro importante lascerà un segno
indelebile nel vostro futuro.
Sindaco di Monchio
Claudio Moretti
Introduzione
All’inizio dell’anno scolastico accolsi volentieri l’invito
del professor Arturo Gagliardi a partecipare sia
personalmente sia come rappresentante del Comune di
Palanzano ad un progetto didattico con i ragazzi della Scuola
Media di Palanzano e Monchio delle Corti per la
pubblicazione del presente libro, senza certamente pretese
letterarie o storiche, ma quale rivisitazione dei più
drammatici periodi della storia del movimento partigiano nel
nostro territorio.
Mi sono subito premurato di far conoscere al professore e
successivamente ai ragazzi i pochi partigiani ancora in vita
che con orgoglio e determinazione, talvolta con gli occhi
lucidi o la voce tremolante, hanno risposto alle molteplici
domande relative al loro vissuto. I ragazzi si sono affidati ai
loro ricordi, alle loro vicende narrate, con le loro luci e
ombre, come se fossero accadute il giorno prima.
Negli occhi dei ragazzi c’era tutta l’ammirazione, il
rispetto, la fiducia, la curiosità, il piacere di scoprire i famosi
nomi di battaglia usati nei vari combattimenti per
raggiungere il traguardo più importante della nostra
democrazia, la libertà!
Da parte mia voglio ringraziare i partigiani che hanno
aderito a questa iniziativa con grande disponibilità, i ragazzi
per l’impegno e la curiosità dimostrati, il professor Arturo
Gagliardi e tutti gli insegnanti che hanno collaborato per
raggiungere gli obiettivi didattici prefissati.
Vicesindaco di Palanzano
Emilio Pigoni
Antefatto
“Storie partigiane” è un volumetto di racconti elaborati
dagli studenti delle Scuole Secondarie di Palanzano e
Monchio. Esso nasce da un progetto sulla Resistenza svolto
dalle due scuole utilizzando software di condivisione, che
hanno permesso agli studenti di poter collaborare a distanza
nelle ricerche storiche sulla Resistenza del loro territorio
servendosi delle tecnologie del progetto regionale
Scuol@ppennino (I-pad, computer, Lim).
Dalla acquisizione delle informazioni (attraverso:
approfondimenti storici, interviste ai partigiani e ai testimoni
dei due Comuni, la lettura del romanzo “Il sentiero dei nidi
di Ragno”, l’approfondimento della figura e delle opere di U.
Bertoli e le ricerche sull’Agente Speciale inglese Frank
Hayhurst, che operava su questi territori) si è poi passati ad
una fase di rielaborazione e di sviluppo creativo. In questo
volumetto, infatti, gli allievi hanno inventato storie partigiane
partendo dalle conoscenze acquisite, che hanno superato il
limite dell’astrattezza grazie ai loro anziani, che hanno
parlato direttamente agli studenti della guerra e del ruolo che
hanno avuto in essa. In quei racconti le loro montagne si
sono mostrate come il rifugio e il baluardo della libertà e i
ragazzi hanno scoperto in quegli anziani una storia e un
mondo di valori che non sospettavano.
Gli scolari, poi, hanno iniziato a ricercare nelle proprie
famiglie tracce di questa storia e spesso hanno scoperto ruoli
più o meno importanti che esse hanno avuto nel movimento
della Resistenza. In questi racconti, quindi, spesso c’è una
libera eco di vicende realmente accadute.
La nostra speranza è che questi valori, scoperti e
approfonditi dai ragazzi, possano mettere radici e contribuire
al loro sviluppo civico.
Si ringrazia per la collaborazione Guido Pisi e Andrea di
Betta (Istituto della Resistenza e dell’Età Contemporanea di
Parma), il Sindaco di Monchio Claudio Moretti, il
Vicesindaco di Palanzano Emilio Pigoni, che hanno favorito
le ricerche storiche e prodotto i contatti e quel clima di
fiducia indispensabile per poter realizzare le interviste ai
partigiani del territorio.
Inoltre si ringraziano Guido e Michele Ghelfi che, con la
loro azienda “La Fojeda”, hanno sponsorizzato la stampa di
questo volume.
Docente di Lettere di Palanzano
Arturo Gagliardi
IL NONNO DI EMMA
di Elena Agnesini
Palanzano
“Ok ragazzi, ecco i vostri testi corretti, ce n’è uno in
particolare che mi è piaciuto molto e vorrei farlo leggere alla
classe...Emma, alzati per favore e leggici il tuo compito”.
Emma si alzò e, un po’ impaurita, andò verso la lavagna e
lesse: “Il mio eroe di Emma Watson... Una volta, tanto tempo
fa, quando era in corso la Seconda Guerra mondiale, mio
nonno era un ragazzo, aveva la mia età e non era stato
arruolato nell’esercito. Lui e la sua famiglia vivevano in una
piccola casa in un paesino di montagna... Un giorno gli disse
la sua mamma: ‘Corri Mario corri’, mentre gli consegnava la
cesta con all’interno cinque pagnotte e due salami... Mario
sapeva che il contenuto della cesta era molto prezioso in quei
tempi in cui il cibo scarseggiava. Il ragazzo corse per la
strada e poi tagliò per un campo perché sapeva che sulla
strada si appostavano sempre alcuni soldati tedeschi. L’erba
umida sferzava le sue tibie nude mentre correva a grandi
falcate verso il sentiero nel bosco che lo avrebbe condotto
alla cascina. Corse fino a quando non si sentì sicuro di essere
arrivato abbastanza lontano da tutti, poi rallentò. Il sentiero
era ripido e, a causa della pioggia, era ricoperto di fango...
Rallentò, sempre mantenendo un’andatura veloce che gli
permise di raggiungere la cascina in un’ora. Una volta
arrivato, bussò piano tre volte e attese, poco dopo un soldato
inglese gli aprì la porta e lo fece entrare. C’erano cinque
soldati inglesi che erano riusciti a scappare dai tedeschi e con
l’aiuto della famiglia del ragazzo si erano rifugiati lì in attesa
che la loro pattuglia li recuperasse.Da allora Mario ogni due
giorni gli portava i viveri, ciò che la sua famiglia riusciva a
mettere da parte. I soldati un giorno, anziché ricevere il cibo
da Mario, gli offrirono un pezzo di coniglio che avevano
cacciato e dell’acqua. Il ragazzo accettò con gioia. Quei
soldati parlavano inglese, ma avevano imparato un po’ di
italiano, così Mario intrattenne con loro una breve
conversazione. Erano simpatici e alcuni avevano costruito
con dei rametti secchi e delle ghiande una grossolana
riproduzione del castello di Buckingham Palace. Il piccolo
Mario si sentiva importantissimo. Svolgere quel compito lo
riempiva di gioia. Lui avrebbe voluto avere l’età per potersi
arruolare, così come avevano fatto i suoi fratelli maggiori,
desiderava tanto battersi per la sua patria. Immaginava che
avrebbe ricevuto una medaglia al valore. Gli piaceva
quell’idea, ne era sicuro, la Regina d’Inghilterra in persona
l’avrebbe nominato baronetto!!!! I suoi sogni vennero
interrotti da Tony, il comandante degli inglesi, che gli chiese
se ci fossero novità sull’avanzamento degli americani in
Italia. Mario, un po’ irritato per questa brusca interruzione
del suo fantasticare, gli rispose che non sapeva nulla. Si
trattenne con i soldati ancora mezzora, poi tornò a casa e
cenò con una pagnotta ripiena di prosciutto crudo. I mesi
passarono. Una domenica la mamma di Mario gli diede un
pollo arrosto da portare ai soldati, era un giorno di festa,
anche loro si meritavano un pasto adeguato. Quando tornò a
casa, Mario ebbe la notizia più bella della sua vita: la guerra
era finita, finita, F I N I T A! Non ci poteva credere, corse
subito a dirlo ai soldati, quando arrivò era tutto bagnato per
la pioggia e affannato per la grande corsa. Si era pure ferito
un ginocchio, ma non gli importava, diede la notizia ai
soldati e tutti insieme corsero a valle e, uniti agli altri
compaesani, festeggiarono sino a notte fonda. Mario mangiò
pane e marmellata, tantissima marmellata, che durante i
tempi di guerra era una cosa prelibata come l’aragosta
adesso. Dopo alcuni mesi i soldati inglesi partirono per la
loro patria e si realizzò il sogno di Mario: la Regina
d’Inghilterra assegnò una medaglia al valore a lui e alla sua
famiglia. Nonostante la sua altezza ridotta, Mario si sentiva
in cima al mondo, era felice e per lui la felicità era il dono
più grande.”
Emma ricevette un applauso e ringraziò la classe. Tornò a
sedere, orgogliosa di suo nonno.
IL PARTIGIANO PIERINO
di Edoardo Azzolini
Palanzano
Un partigiano, di nome Pierino, si recò sul luogo del
distaccamento e vide che era il primo ad essere arrivato.
Quindi aspettò che giungessero gli altri partigiani, che furono
lì dopo dieci minuti. I partigiani erano arrivati tutti. Pierino e
gli altri fecero rifornimento di armi, cibo e acqua perché
dovevano partire per andare nei boschi e scoprire se i
tedeschi si stavano muovendo verso di loro. Partirono e ad un
certo punto videro i tedeschi, ma mentre si affrettavano a
cambiar strada, vennero presi in un’imboscata, furono
catturati e portati dal superiore tedesco.
Pierino e suoi uomini vennero interrogati per sapere dove
fosse la brigata di cui faceva parte il loro distaccamento, ma
non parlarono, solo uno parlò e riferì che la brigata si trovava
ad un’ora di viaggio. Allora i tedeschi partirono subito e
trovarono la brigata, che fu attaccata alle spalle. Alcuni
partigiani furono uccisi e tutti gli altri furono catturati.
Ma Pierino aveva un asso nella manica, infatti, prima di
essere incatenato, aveva rubato la chiave al comandante dei
tedeschi e così riuscì a liberare se stesso e gli altri. Poi
scapparono senza farsi scoprire e, tornati al loro
distaccamento, si organizzarono per attaccare coloro che li
avevano catturati. Infatti, riuscirono a tornare dai tedeschi e li
sconfissero.
LA BRIGATA DALLE IMPRESE IMPOSSIBILI
di Giulia Berini
Palanzano
Era un freddo giorno di febbraio,
io e la mia brigata, detta “la brigata
dalle imprese impossibili”, perché
non avevamo mai perso uno scontro
con i tedeschi, avanzavamo verso
una nuova impresa, ma non
sapevamo ancora cosa ci aspettasse.
Infatti in quel freddo giorno i
tedeschi ci attaccarono alle spalle,
noi non ce l’aspettavamo, ma non ci
scoraggiammo, iniziammo anche
noi a mitragliare. Dopo alcune ore
vincemmo, ma ci furono molti morti
sia tra i soldati tedeschi, sia tra i partigiani. Per noi era una
sconfitta, soprattutto per me, anche se avevamo vinto la
battaglia, ma avevamo subìto la perdita di due dei miei
migliori partigiani: Bruno e Orso. Io giurai di vendicarmi.
Aspettai la notte e partii per il distaccamento di quei soldati
che li avevano uccisi, alcuni dei miei partigiani vollero
venire con me. Ci ricordavamo benissimo i loro volti
nascosti sotto quei caschi. Per arrivare al distaccamento
nemico impiegammo tre giorni, ma tutti quegli sforzi, tutte
quelle difficoltà che avevamo affrontato, furono
ricompensate appena vedemmo l’accampamento di quei
bastardi. Ci mettemmo in gruppo e decidemmo quale doveva
essere il nostro piano d’attacco. Deciso quello, entrammo di
soppiatto, i tedeschi non se l’aspettavano, erano distratti. Noi
li uccidemmo senza pietà, così come avevano fatto loro con i
nostri compagni. Lo sterminio non durò tanto, solo qualche
minuto. Appena dopo perlustrammo le cantine di quel
distaccamento e le stalle. Trovammo armi, cibo e anche
alcuni prigionieri, americani e italiani. Decidemmo di
portarli con noi, loro ci furono grati e, appena tornati in città,
ci ricompensarono offrendoci soldi e cibo per il nostro
distaccamento. La sera stessa di quel giorno di vendetta, gli
americani e i partigiani di tutta Italia si unirono e andarono a
sterminare tutti i tedeschi rimasti. A quella spedizione
partecipammo anch’io e la mia brigata dalle imprese
impossibili. Quando iniziammo a sparare contro i tedeschi,
vidi in mezzo a tante persone senza cuore un bambino
spaventato. Allora decisi di attraversare il campo nemico e di
proteggere quel bambino. Arrivata la mattina, tutti i tedeschi
erano morti, l’unico tedesco che in quel territorio era rimasto
vivo era proprio quel bambino. Io, per la prima volta, andai
contro la mia brigata perché decisi di crescere quel piccolino
come fosse mio figlio. Tutti considerarono quest’atto come
una sorta di tradimento verso la mia patria, ma a me non
importava. Quella terra che avevo sempre difeso ormai non
mi accettava più, allora decisi di andarmene con la mia
famiglia in America, con l’aiuto di quei prigionieri americani
fu possibile.
A distanza di tanti anni, io sono ancora vivo e posso
raccontarvi la mia guerra. Per me la guerra è stata una
tragedia, ma mi ha dato la cosa più bella del mondo, mio
figlio Vittorio, detto anche Bruno.
IL RAGAZZO PARTIGIANO
di Francesca Boriassi
Palanzano
Sono stato sul punto di morire, la televisione ha bruciato
ogni mio neurone, sono sopravvissuto all’adolescenza, alla
guerra, ma non alla vecchiaia. Ho pensato di essere
invincibile, ma la verità è che quel rettangolo mi ha rovinato,
da quando sono diventato vecchio non faccio altro che
guardarlo, trasmette cose inutili, però mi fa viaggiare, mi fa
uscire da quella macabra stanza. Quando stai per morire ti
passa la vita davanti, io penso tutti i giorni a quando ero
giovane, penso sempre alla guerra, anche se non sono ricordi
felici e non sono fiero di averla combattuta e di avere ucciso.
Quei ricordi mi fanno venire l’adrenalina nelle vene: la
consapevolezza del rischio che correvo mi dà ancora forti
emozioni. Sì, è brutto da dire, ma la mia vita adesso è fatta
solo di pappe per neonati e di familiari che mi trattano come
un poppante! Quando ero giovane ero un membro della
brigata rossa, veramente ero solo uno che portava cibo ai veri
partigiani, avevo 12 anni, ero troppo piccolo per combattere,
ma ero così ingenuo che avrei voluto prendere in mano un
fucile e iniziare a difendere la mia patria. In realtà, il luogo
più lontano dove fossi mai andato era il fiume e ci andavo
con le mie sorelle a lavare i vestiti. Ogni giorno vedevo mio
padre entrare dalla porta, lanciare un sospiro, mia madre era
preoccupata dal mattino alle 6 fino alla sera fino a quando
non tornava a casa, io non capivo, ero ingenuo. L’unico mio
pensiero era aiutare mio padre, volevo diventare l’uomo di
casa, che pensiero stupido, me ne rendo conto solo ora. Ma
una mattina alle 5.30, mio padre mi prese per un braccio, mi
tirò giù dal letto, mi fece segno con il dito di tacere, io ero
preso dall’entusiasmo, mi sentivo Capitan America, finché
non sentii uno sparo. Da quel momento in poi ero lì lì per
farmela sotto. Mio padre mi portò nelle cantine dove c’erano
anche le mie sorelle e mia madre, poi prese il fucile e si
allontanò. In quei veloci 10 secondi provai milioni di
sentimenti diversi, ma il più forte fu la fierezza, perché mi
sentivo utile. Passai dietro alla mucca e andai ancora in
pigiama verso mio padre, anche se forse sarebbe stato meglio
se fossi rimasto fermo. Mio padre si avviò verso la collina ed
io gli corsi dietro urlando: “Papà papà papà”, mio padre si
voltò e mi prese per un orecchio tirandomi verso il campo e
mi disse: “Taci!”. Mio padre non era un uomo di tante parole,
ma quelle poche che diceva non erano certo dei “ti voglio
bene”. Mi prese in braccio e mi portò sulla Fiat Balilla dove
c’erano altri tre uomini, anche loro padri di famiglia.
Arrivammo al fronte, io mi sentii realizzato, non capivo che
non saremmo tornati più indietro! Quando arrivammo alla
base e scendemmo dalla macchina, tutti guardarono male me
e mio padre. Arrivò un signore e prese mio padre alle spalle,
trascinandolo dentro ad una specie di grotta. Mio padre mi
fece segno di rimanere lì, anche lui a suo modo era peggio di
una donna con tutti i suoi gesti, era incomprensibile. Se non
capivi, però, ti picchiava, per cui facevo finta di capire per
poter rimanere lì con lui. Si sentivano urla strazianti
provenire da quella grotta, mi voltai e vidi alcuni partigiani
con dei fucili in mano, sanguinanti, alcuni su delle barelle, e
capii all’istante che dovevo tornare indietro, mi stavo
smarrendo nei miei pensieri, mi girava la testa a vedere tutto
quel sangue e quel dolore! Non tutti sopportano la vista del
sangue, io sono uno di quelli, ma di lì a poco avrei cambiato
idea sulla necessità di allontanarmi da quel posto, per la
sopravvivenza fai qualunque cosa. Io non ho ucciso per
divertimento o per rendere giusto quel che è ingiusto, ma
l’ho fatto solo per sopravvivere: o io o loro! All’improvviso
un uomo mi prese alle spalle e mi trascinò dentro a una
grotta, penso ancora adesso che l’abbia fatto per farmi vedere
ciò che c’era e ciò che succedeva in quel luogo: delle cose
orribili!!! Mi diede un cucchiaio e mi buttò dietro ad una
pentola. Pian piano arrivarono degli uomini, zoppicanti e con
un viso sciupato, allora io, come fossi un cameriere, mi alzai
sulle punte e versai loro un brodo che faceva rivoltare solo a
guardarlo. Poi entrarono altri uomini, tutti uguali, sciupati,
zoppicanti e malconci. L’unico uomo, l’unico partigiano che
non entrava era mio padre. Dietro di me vidi il partigiano che
mi aveva portato in quella stanza (se così si può chiamare),
allora corsi da lui e gli chiesi a testa alta dove fosse mio
padre. Lui, semplicemente, mi rispose: “È andato a compiere
il suo dovere!”. Io, confuso, tornai alla mia postazione di
cameriere, vidi un’uscita e degli uomini provenire dal fronte,
corsi loro incontro sperando che ci fosse anche mio padre,
ma mi sbagliavo. Erano partigiani di un altro distaccamento,
quando mi videro mi presero su e mi portarono nel loro
accampamento. Quegli uomini mi chiesero spiegazioni e io
raccontai tutto! Capirono qualcosa di me che neanche io
sapevo e che non mi vollero dire. Presero un’arma e me la
diedero, mi fecero indossare una tuta speciale e mi
insegnarono a sparare. Feci centro su ogni obiettivo, avevo
una buona mira, mirare alle mie sorelle con il bastone era
servito a qualcosa! Il giorno dopo mi misero in fila con gli
altri. Mi chiesero di portare un messaggio ad un altro
distaccamento e mi dissero di stare attento alle camicie grigie
e alle divise nere: se ne avessi vista una, non avrei dovuto
esitare a nascondermi tra l’erba. Mi misi a correre giù per il
campo, avevo i pantaloni che erano il doppio delle mie
gambe, ogni tanto inciampavo e cadevo per terra.
All’improvviso un uomo mi prese alle spalle e mi disarmò.
Lo guardai e gli misi una mano sotto la giacca per vedere la
camicia: non era né grigia, né nera. Allora capii che si
trattava di un partigano, gli mollai il messaggio e scappai, ma
fui bloccato da altri partigiani. Incominciarono a farmi
domande su chi fossi e da dove venissi, io ero spaventato e
non volevo rispondere, l’uomo che mi interrogava
somigliava a “Babbo Natale”, ma pareva cattivo. Mi presero
e mi buttarono tra alcuni ragazzi poco più grandi di me. In
due settimane mi insegnarono a sparare e a usare il
linguaggio Morse, ma, cosa più importante mi insegnarono a
farmi gli affari miei e a non tradire la patria, a non parlare
neanche sotto tortura e a tenermi dentro i segreti fino alla
morte. Imparai a non fare molte domande. Una mattina
presto ci fecero alzare e il signore che comandava disse
all’omone di svegliarci e di andare al fronte. Quando mi vide
con quei pantaloni così lunghi, si mise a ridere, prese un
coltello e li tagliò, quell’orlo era fatto meglio di quello che
faceva mia sorella! Aspettavamo il segnale per sparare.
L’omone mi guardò e mi disse di andare sopra la montagna,
di fare attenzione al segnale e di comunicarlo il più
velocemente possibile. Andai sopra la montagna e dopo venti
minuti vidi il segnale e corsi a dirlo agli altri. Avevo aspettato
venti minuti dentro ad una buca, ripiegato come una palla!
Dopo pochi secondi vidi miliardi di proiettili sparati
all’impazzata, persone che morivano... e capii perché ogni
sera mio padre tornava a casa con quell’espressione
malinconica! E in quell’arco di secondi interminabili mi
ricordai di mio padre, che fine aveva fatto? Magari era lì in
mezzo, allora mi alzai per cercarlo tra i feriti. Qualcuno però
provò a spararmi e io mi ributtai in una buca e ci rimasi,
fregandomene della postura che doveva tenere la mia spina
dorsale! L’indomani, quando sembrava tutto finito, ritornai
dove erano tutti gli altri. Vidi l’omone con i vestiti tutti
sporchi, non c’erano più tutti i partigiani: ne erano rimasti
trenta ed erano molto mal ridotti! L’omone si avvicinò a me
ed esclamò: “Bravo! Hai fatto un buon lavoro!” ed io lo
guardai e gli dissi: “Se avessi fatto un buon lavoro non
sarebbero morti in tanti!!”. Lui mi guardò e replicò: “Non è
colpa tua ma dei nazisti, loro stanno distruggendo l’Italia, se
continuano così dovremmo emigrare tutti!”. Allora gli dissi:
“E dove dovremmo andare? Io voglio ritrovare il mio papà e
tornare a casa dalla mia mamma e da quelle rompiscatole
delle mie sorelle!”. L’omone: “Ti capisco! Io vorrei tornare
da mia moglie e dalle mie figlie! Come ti chiami? Io
Giovanni e tu, piccolo?”. Gli risposi: “Mi chiamo Enzo, ma
tu sai dove può essere il mio papà?”. Giovanni mi disse che
mio padre era prigioniero dei tedeschi, da cui dipendeva il
futuro di tutti. In quelle parole trovai la forza per continuare
a combattere! Continuammo a parlare e lui fu l’unico che
riuscì a spiegarmi il perché di questa guerra. Giovanni era un
insegnante di filosofia, era un uomo colto. Dopo qualche
settimana andammo dalla sua famiglia, mi ospitò e conobbi
sua figlia, era di un anno più piccola di me. Una bambina
adorabile e aveva una madre dolcissima. Quando ripartimmo,
passammo anche per la mia zona, non mi venne nostalgia ma
tanta paura, paura che fossero morte le persone a me care,
quindi non volli passare da casa! Dopo qualche mese
ricominciammo a combattere. Vidi da lontano un uomo,
sanguinava, aveva un vestito verdastro macchiato del sangue
delle sue vittime innocenti, un partigiano al mio fianco prese
un fucile e gli piantò un proiettile in testa! Lo lasciammo lì
per terra, ma non mi spiego ancora il perché. Mi rimase in
testa il suo volto, ho sempre avuto l’impressione che
quell’uomo fosse mio padre, più che altro lo immaginavo,
dal momento che non l’ho mai più rivisto. Mi sono sempre
chiesto cosa la gente ci trova nell’uccidersi, nel rovinare la
vita di una persona e di tutta la sua famiglia: dietro un uomo
c’è sempre una storia emozionante, la vita non è un cartone,
noi non possiamo uccidere per riportare la democrazia,
questo è ancora più sbagliato, nessuno ci dà la libertà di
maltrattare un uomo e tutta la sua storia, ma è meglio
uccidere che essere uccisi! Nel mondo succedono tante cose
brutte e questa è stata una delle peggiori.
Adesso, quando riaccendo quel rettangolo e vedo uomini
normali che stanno al governo e prendono un sacco di soldi
mentre io, che ho combattuto per liberare (in qualche
maniera) il mio Paese, non riesco ad arrivare a fine mese, mi
sale una tale rabbia...! E penso alla gente che è morta per
salvare l’Italia da altri italiani, mentre i politici stanno seduti
su una poltrona a dire quello che è giusto e non è giusto.
Tornando ai miei ricordi, anche Giovanni alla fine rimase
ucciso, in un attacco a sorpresa. A quel punto i partigiani mi
affidarono uno degli incarichi più complicati, difficili e
deprimenti che si possano svolgere: ero distrutto dal dolore,
Giovanni era una specie di secondo padre per me, e gli altri
partigiani ne erano consapevoli, ecco perché mi chiesero di
andare dalla sua famiglia per comunicarle la sua morte.
Quando io e un mio compare arrivammo a casa di
Giovanni, fummo accolti da sua moglie e sua figlia, che
avevano un sorriso accecante e disarmante... Ma ci
sforzammo di vincere il dolore e l’imbarazzo, e alla fine
riuscimmo a comunicare loro la brutta notizia. Venimmo via
da quella casa afflitti, la moglie di Giovanni però non mi era
sembrata molto sorpresa, forse perché quando un uomo parte
per andare in guerra la sua donna sa che probabilmente non
tornerà più indietro. Le donne sono esseri molto forti, spesso
più di noi uomini, anche se combattono in silenzio.
Qualche mese dopo, in uno scontro, mi piantarono un
proiettile nella gamba, e quindi i miei compagni partigiani
decisero di mandarmi in una baracca di un mio compare fino
a che non fossi guarito. Qualche tempo dopo, finalmente,
tutto quell’inferno finì. Adesso, quando mi affaccio alla
finestra e vedo quei bambini giocare alla guerra, beh io
auguro loro che possano invecchiare senza aver mai vissuto
una cosa del genere, anche se in fondo in fondo penso che in
futuro riaccadrà.
Finita la guerra, è andato tutto per il verso giusto,
specialmente da quando ho incontrato la donna che sarebbe
poi diventata mia moglie e che io già conoscevo: la figlia di
Giovanni!
Adesso so che io non sono un eroe, né un codardo, ma
faccio semplicemente parte di quegli uomini che hanno
combattuto per la libertà e che tutti ammirano, anche se ora
vengo trattato come un poppante.
LA STORIA DI LIVIA DINARELLI
di Mattia Bortolin
Palanzano
Durante la Seconda guerra mondiale, una giovane donna di
nome Livia Dinarelli, originaria di Milano, viveva nella
cascina della Perdera, vicino a un piccolo paese di
campagna: Nirone. Una notte dell’autunno del 1944, vicino a
quel luogo, fu fatto un lancio coordinato di armi, munizioni,
indumenti per i ragazzi della Resistenza, visto che lì si era
rifugiato un distaccamento.
Livia e il fratello, avvistato il lancio, si diressero sul posto
e raccolsero tutto quello che potevano, nascondendolo in un
buco dentro una grossa quercia, per andarlo poi a recuperare
in un secondo momento. Il fratello, dopo aver raccolto quelle
cose, andò a casa e lasciò sola la sorella a sistemare il bottino
nel tronco. Livia, all’improvviso, sentì un rumore provenire
da dietro un cespuglio, con cautela impugnò la pistola, che
teneva sempre in tasca per far fronte a eventuali momenti di
pericolo, e poi sparò. Dopo qualche secondo andò a guardare
dietro al cespuglio e sentì un grande dolore al petto perché
aveva scoperto di aver ucciso un partigiano. Subito
arrivarono altri compagni del ragazzo e Livia scappò nel
bosco lì vicino. In paese la notizia era oramai sulla bocca di
tutti: Livia aveva una taglia sulla testa e suo fratello era
atterrito. Dopo mesi, un cacciarore trovò il corpo della donna
in un canale con un buco in testa. Oggi, dopo sessantanove
anni, il mistero rimane irrisolto: omicidio o suicidio? Una
cosa è certa: del povero partigiano non ne hanno più parlato.
IL CONTADINO
di Ferdinando Celentano
Palanzano
Da giovane sono stato un partigiano. Un giorno, mentre
stavo passeggiando in un bosco, avendo fame e sete, andai in
una fattoria; lì un contadino, molto silenzioso ma gentile e
premuroso, mi offrì del latte e un po’ di pane.
Qualche giorno dopo seppi che quel contadino era stato
ucciso, probabilmente per avermi aiutato. Quindi decisi di
vendicarmi di quei nazisti che lo avevano ucciso. Andai a
cercare rinforzi avendo scoperto dove fosse l’accampamento
dei tedeschi.
Quindi attaccammo di sorpresa i nazisti, riuscimmo a
ucciderli tutti e a liberare la zona, che da quel momento
divenne un luogo tranquillo.
ORAZIO TANCREDI
MAESTRO DI SCUOLA ELEMENTARE
di Christian Costi
Monchio
Il maestro di scuola elementare Orazio Tancredi di
Silicagi, nell’entroterra Genovese, era un giovane pieno di
ideali.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, decise di unirsi
alle brigate partigiane con il nome di battaglia “il Noce”,
perché aveva la corazza dura come una noce. Sognava un
Paese libero dell’oppressione nazi-fascista e per questo era
disposto a rischiare la vita.
Dopo numerose azioni di sabotaggio, il suo gruppo ebbe
ordine di minare il ponte sul fiume Tannero, nodo cruciale
del traffico militare nemico. Durante l’assalto, il gruppo subì
numerose perdite. Il Noce venne catturato: dopo essere stato
torturato e interrogato,venne ucciso.
La sua storia, dimenticata da tutti, è simile a quella di
centinaia di valorosi che hanno donato la vita per la libertà.
LETTERE: CARA ELEONORA
di Elisa Diaconu
Monchio
Genova, 9 Settembre 1943
Cara Eleonora,
è stata una giornata molto faticosa per il tuo papà, ma
finalmente è libero di svestire quell’odiosa divisa. Pare che la
guerra sia finita!
Non vediamo l’ora di riabbracciarti e vedere quanto sei
cresciuta.
Siamo stati tanto tempo via da casa, troppo tempo, ma era
necessario, per tenerti al sicuro, lì con tua nonna. Presto
torneremo a Sanremo per goderci la nostra famiglia... e
perché no?! …anche il mare.
Al nostro ritorno mi piacerebbe sentire il profumo di quella
torta che sai fare così bene.
Ci vediamo presto. Da’ un abbraccio alla nonna.
Tua madre.
Genova, 23 ottobre 1943
Cara mamma,
c’è un cambio di programma. Io e Carlo non possiamo
tornare a Sanremo come avevo scritto nella lettera che vi ho
inviato giorni fa.
Le strade sono piene di tedeschi che non lasciano passare
nessun veicolo e siamo rimasti bloccati a Genova.
Soprattutto per Carlo, ogni spostamento può essere letale.
Deve assolutamente rimanere nascosto. Per questo ho
pensato che forse sarebbe meglio far venire voi due qui da
noi: viaggiare è meno pericoloso per donne e bambini. Non ti
preoccupare, abbiamo anche già trovato una casa isolata
dove rifugiarci.
Per raggiungerci, c’è una strada secondaria che ti illustro
nella mappa. Mi raccomando, portate con voi il minimo
indispensabile e ricordati di nascondere i gioielli. Non vorrei
che venissero i soldati tedeschi a perquisire la casa.
Sono angosciata, mamma! La situazione sta peggiorando.
C’è un caos totale! Ho bisogno del vostro conforto.
Con affetto,
Lisa.
P.S.: Di’ ad Eleonora che non vedo l’ora di riabbracciarla.
I PARTIGIANI DI MONCHIO
di Andrea Ferrari
Monchio
Faggio, Scodgador, Bagaglio e Cognac erano quattro
partigiani che operavano nel territorio di Monchio delle
Corti. Erano i migliori della vallata, tutti ragazzi forti e
coraggiosi, vestiti in modo un po’ bizzarro, con pezzi di
divise sottratte ai nazifascisti.
Furono innumerevoli le azioni che compirono durante i
gloriosi anni della Resistenza: questa è una delle più
meritevoli.
Il 20 Giugno 1944 Scodgador ricevette una “soffiata”: i
tedeschi stavano rastrellando Ranzano e presto sarebbero
arrivati sino a Monchio. Imprecando, si recò di corsa a
Rimagna per chiamare gli altri tre fidati compagni. I quattro
passarono dalla base del distaccamento nei pressi di Rigoso
per trascorrere la notte e per rifornirsi di armi: un Bren, delle
bombe a mano e tre pistole.
Il mattino successivo, dopo aver preso accordi con il
comandante del distaccamento, s’incamminarono in
direzione Vecciatica. Giunti sul luogo prestabilito,
aspettarono che passasse il convoglio tedesco, per sferrargli
un attacco a sorpresa. Appena videro la prima camionetta,
aprirono il fuoco, ma il Bren s’inceppò. I tedeschi ebbero il
tempo di riorganizzarsi e di rispondere agli spari. Bagaglio e
suoi compagni decisero, allora, di battere in ritirata per
raggiungere in fretta e furia il bivio del Ponte, dove
avrebbero provato a colpirli nuovamente.
Quest’imboscata fu molto più efficace della prima ma,
mentre erano impegnati in questo scontro all’ultimo sangue,
un altro gruppo di nazisti passò dal “Vignale”, entrando a
Lugagnano quasi indisturbato. Nonostante gli sforzi dei
quattro partigiani, qui fu commesso un terribile eccidio di
donne, anziani e bambini.
In seguito, i quattro partigiani di Monchio furono i
protagonisti attivi di numerosissime altre azioni contro gli
oppressori e gioirono in modo incontenibile quando fu
proclamata la Liberazione Nazionale: era il 25 Aprile del
1945.
Cosa ne fu, poi, di loro? Animati da una grande volontà di
partecipare attivamente al conflitto, nell’estate dello stesso
anno decisero di spostarsi in Giappone, l’unico fronte dove,
ahimé, si continuava a combattere. Morirono a Nagasaki a
causa dello scoppio della bomba atomica… certo che gli
Alleati avrebbero potuto avvertirli no??!!
STORIA PARTIGIANA
di Davide Ferrari
Palanzano
Durante il periodo
della Resistenza, nei
boschi di Palanzano, il
partigiano Matteo era
costantemente inseguito
dai soldati tedeschi, che
volevano
giustiziarlo
perché si era rifiutato di
arruolarsi con l’esercito
tedesco per aiutarlo nei
combattimenti al fronte.
Matteo, che era un ragazzo di montagna e quindi abituato a
inverni freddi, a correre nei boschi e ad attraversare torrenti,
che erano numerosi nella sua zona, riuscì a fuggire e, dopo
essersi rifugiato con altri disertori nel bosco, aveva iniziato
ad aiutare i partigiani, che lì erano molto operosi e che da
quel momento in poi sarebbero stati i suoi nuovi amici.
Matteo e i suoi compagni seguirono una pattuglia tedesca
fino all’accampamento nemico, dove scoppiò la battaglia. I
partigiani, animati da un grande coraggio, piombarono a
sorpresa nell’accampamento, uccisero e catturarono i
tedeschi e si impossessarono delle loro armi strategiche:
lanciarazzi, bombe a mano, ecc. Inoltre, si rifornirono di
moltissimi viveri, che fra le formazioni partigiane
scarseggiavano. Matteo rimase ferito, ma fu fortunato perché
molti dei suoi amici non erano riusciti a soppravvivere. Il
giovane ragazzo di montagna non si perse d’animo e
continuò a combattere.
Un’altra impresa che il giovane Matteo compì, fu quella di
proteggere un paesino sulle montagne di Palanzano dai
tedeschi che lo volevano bruciare: il distaccamento di
Matteo, comandato da un grande uomo, il dottor Rossi, che
era stato premiato varie volte dal Comitato di Liberazione
Nazionale ed era molto amato da tutta la popolazione, riuscì
con formidabili strategie e col coraggio dei suoi uomini a
salvare tante vite. Un tragico giorno, mentre andavano a
prendere un carico di vestiti invernali, i partigiani furono
sorpresi da una divisione tedesca dotata di vari carri armati. I
partigiani provarono in tutti i modi a fuggire da una morte
certa, ma un fascista infiltrato fra i partigiani aveva segnalato
tutte le vie di fuga e i tedeschi le avevano bloccate. Quindi i
partigiani soccombettero all’attacco.
Matteo purtroppo morì, ma si distinse, perché il suo
sacrificio, assieme a quello del dottor Rossi e degli altri
numerosissimi partigiani, fu importante per la libertà e la vita
di molte persone.
RICORDI
di Thomas Ferrari (1999)
Palanzano
I nascondigli più sicuri erano quelli sotterranei, lontano dai
fabbricati perché i fascisti, durante il rastrellamento, davano
fuoco alle case oppure ai boschi. Quando ciò accadeva, gli
uomini scappavano e le donne e i bambini rimanevano in
casa con il rischio di essere uccisi.
Il rastrellamento a Lalatta è stato fatto due volte. In uno
dei due sono stati uccisi dei partigiani ed è stato veramente
tragico. I fascisti rubavano il cibo, incendiavano case e stalle
per scovare e uccidere i partigiani. La gente del paese andava
nei boschi a nascondere il cibo in posti segreti.
Se catturavano degli uomini, i fascisti li portavano in
Germania nei campi di concentramento. Tanta gente non è
più tornata a casa. I fascisti rubavano persino le vacche.
Anche i partigiani ogni tanto rubavano le vacche per
procurarsi da mangiare.
Un giorno un fascista fu catturato da un distaccamento di
partigiani a Pratolungo, poi fu portato a Lalatta e ucciso. In
un’altra occasione ci fu uno scontro a fuoco tra Nestore, capo
partigiano del distaccamento di Ranzano, e un fascista di
nome Celestino Azzolini, rimasero entrambi uccisi.
Fortunatamente noi non viviamo più quella realtà.
LA FINE DELLA GUERRA PARTIGIANA
di Thomas Ferrari (2000)
Palanzano
Era un giorno cupo e piovoso e un bambino era stato
lasciato con suo nonno, il quale, non sapendo di cosa parlare,
gli disse: “Ti va se ti racconto una storia di quando ero
piccolo?”.
Allora il bambino, incuriosito, gli rispose di sì. Il nonno
iniziò a raccontare: “Un giorno ero in giro per il bosco
quando sentii un grido, allora impaurito iniziai a correre, ma
passando sulle foglie secche fui scoperto e rincorso. Dopo
qualche centinaia di metri fui preso da un uomo, che mi
portò in una base tedesca. Fui bendato e quindi non sapevo
dove mi trovassi e dove fosse la base. Mi accorsi però che
eravamo entrati in un sentiero ripido e roccioso. Dopo circa
dieci minuti di viaggio, sentii alcune parole ma non ne capii
il significato perché erano in tedesco. Quando arrivammo
alla base, fui destinato ai lavori forzati. Dopo una settimana
che ero stato catturato, una domenica mattina sentii degli
spari provenire dall’esterno e vidi un partigiano, di nome
Paolino Boraschi, entrare nel capannone dove ero stato
portato. Due tedeschi iniziarono a sparargli, ma lui tirò fuori
il fucile e li uccise e mi liberò. Arrivati fuori vedemmo molti
partigiani morti. Fu così che finì la guerra. Ti è piaciuta la
storia?”. Il bambino rispose: “Sì nonno, è stata molto bella”.
Poi arrivarono i genitori e il bambino ancora oggi è fiero di
raccontare questa storia ai suoi amici.
GIOANNINO
di Giorgia Gandolfi
Palanzano
Un partigiano, di nome Gioannino, quando era in guerra
vide un suo compagno scappare e urlare mentre cercava un
riparo: alcuni tedeschi avevano lanciato delle bombe.
Gioannino allora iniziò a correre e si rifugiò assieme ai
compagni in un posto sicuro, ma si accorse che mancava uno
di loro. Quando Gioannino lo vide, lo chiamò urlando più
che poteva. Il compagno era troppo lontano per sentirlo, si
trovava in una zona scoperta, infatti gli scoppiò una bomba
di fianco... Il silenzio piombò come un macigno su tutti i
partigiani che assistettero alla scena, il terrore era evidente
nei loro occhi. Alla sera tutti si rannicchiarono nei rifugi e
pensavano preoccupati alle loro mogli e ai loro figli. Il
mattino seguente Gioannino e i suoi compagni tornarono a
combattere, ma altri due compagni morirono, catturati e
fucilati dai tedeschi. I partigiani ritornarono al rifugio e
prepararono da mangiare e andarono a dormire.
Durante la notte i tedeschi, avendo scoperto il rifugio,
aspettavano che tutti si fossero addormentati per fare una
strage. Gioannino era l’unico ancora sveglio e riuscì a vedere
i tedeschi, quindi svegliò silenziosamente tutti i compagni,
che finsero di continuare a dormire per aspettare che i
tedeschi entrassero nel rifugio. Tutti avevano tra le mani o un
fucile o una pistola ed erano pronti ad usarli. Infatti, appena i
tedeschi furono a portata di tiro vennero investiti da proiettili
che provenivano da tutte le direzioni. Molti di loro morirono,
ma ci furono altri che riuscirono a fuggire. La mattina
seguente i partigiani partirono subito alla ricerca dei soldati
tedeschi, ma non li trovarono. Gioannino sentiva che c’era
sotto qualcosa che non andava. Infatti caddero in una
imboscata, Gioannino fu fatto prigioniero dai tedeschi e fu
portato nel loro rifugio. Gli fecero domande in tedesco ma
Gioannino non capiva, allora arrivò il sergente tedesco che
un po’ di italiano lo parlava, e tradusse a Gioannino le
domande. Gli chiesero di lavorare per loro e gli promisero
salva la vita, ma lui non accettò: preferiva morire piuttosto
che tradire gli amici.
Un soldato tedesco gli mise la pistola alla testa e il
sergente gli disse che se non avesse lavorato per loro quel
soldato avrebbe premuto il grilletto e lui sarebbe morto sul
colpo. Gioannino si rifiutò nuovamente di rispondere. Il
soldato tedesco, allora, premette il grilletto.
Gioannino morí e altri partigiani lì vicino furono attirati
dallo sparo e scoprirono il rifugio dei tedeschi. I partigiani,
allora, presero tutte le bombe che avevano e le tirarono
contro i tedeschi, uccidendoli tutti. Poi trovarono Gioannino
morto con un buco in testa che passava da una parte all’altra.
IL PARTIGIANO
di Emanuele Guatteri
Palanzano
Siamo al primo ponte pre-estivo: tre giorni di pic-nic,
spiaggia, montagna, relax.
Ma è anche il 25 aprile, per cui non voglio parlarvi di cose
frivole, penso che sia più significativo farvi conoscere una
storia di vallata, che è una parte della storia vera di Vincenzo
Bertolino, ragazzo del 1925, che militò per due anni coi
partigiani di Val Corsaglia e che mi ha raccontato
personalmente questa avventurosa e difficile fase della sua
vita.
«Dopo l’8 settembre, visto che non ero ancora soldato
perché avevo solo 16 anni, sono rimasto a casa, a Frabosa
Sottana, ma spesso i tedeschi ed i repubblichini venivano a
fare rastrellamenti e, se ti trovavano, ti portavano via e
rischiavi di finire in Germania, o peggio. Allora noi giovani
andammo tutti coi partigiani e anch’io mi ritrovai così, tra il
dicembre del ’43 e il gennaio del ’44, in montagna a Fontane,
sotto il comando di Ignazio Vian, il tenente di complemento
della guardia di frontiera che dopo l’8 settembre era
diventato una delle anime della Resistenza, combattendo
sulla Bisalta e a Boves, fino all’incendio del paese per mano
nazista tra il 31 dicembre ’43 e il 2 gennaio ’44. Con lui
c’era il sergente maggiore Gino Antoniol, un veneto. Il 13
marzo 1944 accadde un fatto terribile: i tedeschi salivano da
Bossea, perché sapevano che noi eravamo a Fontane.
Antoniol e un altro di Boves si erano spostati alla borgata
Revelli, in una casa da cui si vedeva bene la strada, e con un
fucile mitragliatore Gino da tre ore sparava sulla colonna,
rallentandola, poi si era spostato in una baita più su, per
vedere anche l’altra curva, e continuava a sparare. Verso
l’una mi mandarono a portargli da mangiare: durante quella
mezz’ora di cammino avevo molta paura, anche perché ad un
certo punto il mitragliatore non sparava più e quindi non
sapevo cosa avrei trovato. Quando entrai, mi accorsi che ad
Antoniol tremavano le mani: il nastro caricatore aveva
ancora dei proiettili, ma il mitragliatore si era inceppato!
Credo che Gino avesse capito di essere spacciato, perché mi
disse: “Che fai lì, posa tutto e vattene”. In quel preciso
momento i nazisti col mortaio centrarono lo spigolo della
finestra e una pietra colpì in testa Antoniol, che cadde
fulminato. Io ero rimasto immobile e stordito, ma l’altro
partigiano che era con lui mi gridò: “Sbrigati, salviamo il
mitragliatore e scappiamo, ché se arrivano ci ammazzano
tutti e due”. A turno abbiamo portato il mitragliatore su per
un sentiero verso la Balma, incontrando Vian e gli altri a
Casera Vecchia; il giorno dopo ci siamo divisi: loro hanno
raggiunto Viozene ed Upega e i nazisti li hanno inseguiti,
catturando ed uccidendo alcuni di loro, mentre io ed il mio
amico Giovanni siamo scesi verso Burino e di lì all’Alma
Ressia. I tedeschi intanto fucilavano per rappresaglia cinque
civili a Fontane. Cercando di fermare i tedeschi, fui colpito
di striscio alla testa e ricoverato in un ospedale. Quando uscii
da lì fortunatamente la guerra era finita».
La storia di questo partigiano, insieme a quelle di tanti
altri, mi serviranno per scrivere un libro che ricordi che la
libertà di cui oggi godiamo non è stato un regalo, ma che
uomini come Vincenzo Bertolino l’hanno conquistata con
grandi sacrifici, anche per noi!
IL PARTIGIANO GIANNI
di Khelifi Hadil
Palanzano
Il 24 maggio del 1944 ci fu il secondo rastrellamento dei
tedeschi in via Palermo.
Fu Gianni a scorgere i tedeschi, per cui iniziò a urlare in
mezzo alla via, si mise a bussare alle porte di tutti i vicini per
avvisarli e farli mettere in fuga... Le donne si affrettarono a
nascondere i figli nelle botole. Intanto arrivò il sergente
tedesco e mandò tutti i suoi soldati nelle case vicine.
Gianni, allora, si diresse nel bosco, dove per un po’ si
nascose. Il giorno dopo decise di recarsi in via Palermo a
vedere cosa fosse successo e, quando fu sul posto, venne
preso da un forte desiderio di vendetta verso i tedeschi per
quello che avevano fatto ai suoi vicini di casa e per aver
portato via il fratello della donna che amava. Quindi decise
di unirsi ai partigiani e imparò a usare i fucili. Divenne un
buon partigiano e riuscì a vendicare tutte le persone che
erano state rastrellate.
Alla fine lui e gli altri partigiani ammazzarono tutti i
tedeschi. Poi, dopo la guerra, sposò Raffaella, la donna che
amava ed ebbero due figli: Marco e Lorenzo.
LETTERA A CLELIA
di Valentina Lazzari
Monchio
23 aprile 1945
Cara Clelia,
ti scrivo questa lettera perché non so se avremo la fortuna di
rivederci.
In questi ultimi mesi sono rimasto qui, nella nostra cara
Monchio.
Tutto sommato si sta bene, lo sai. La gente è buona “ cme el
pan” e i posti dove nascondersi sono tanti. L’esser tornato in
questi luoghi mi ha spesso fatto riaffiorare alla mente ricordi
della nostra infanzia quando, innocenti e spensierati,
portavamo le mucche al pascolo della Nuda, a Pian del Mont,
alla Scarvata, o quando facevamo il bagno al Boz del
Mulin....Com’era bello! Quante risate!
Avrei mille cose da raccontarti, ma non ho tanto tempo. Ti
scrivo per un saluto veloce. Spero che non sia l’ultimo,
amore mio. In questi ultimi mesi, come ti ho già detto, sono
rimasto tra i monti del nostro cuore. Ci siamo sistemati in
una vecchia cascina nella macchia di Valditacca, vicino alla
cascata della Verlonda. Siamo in sei: io, el Lov, Riana, il
Boia, la Volpa e Stramblon. Qui riceviamo un sacco di aiuti e
moltissime testimonianze d’affetto da parte della gente di
Valditacca e di Pianadetto.
Ci sono anche degli Inglesi che ho conosciuto al Prato. Uno
di loro si chiama Franco e mi ha insegnato un po’, soltanto
un po’, ad usare una macchina per inviare i codici “Mors”
(così li chiama lui, ma io non ne capisco tanto di sti moster
chi!). Franco promette in continuazione che a giorni
arriveranno gli Alleati, ci dice di non preoccuparci, ma è da
tanto tempo che sento ripetere lo stesso ritornello e ormai ho
perso le speranze.
No, cosa dico?! Io sono un partigiano. La speranza non può e
non deve abbandonarmi.
Ho avuto un sacco di tempo per pensare, riflettere,
soprattutto nelle lunghe notti senza di te. Sai cosa ho
concluso, Clelia? Che gli altri, in questa sporca guerra,
combattono per sete di potere, per interessi, per cupidigia.
Invece noi, noi partigiani combattiamo per degli ideali, per
un’Italia affrancata dagli oppressori, per una libertà che forse
non arriverà mai, o forse arriverà domani, ma non importa!
Si combatte con orgoglio e pieni di una matta e disperata
brama di vivere.
Sai cosa c’è Clelia mia? In questi anni mi sono, come non
mai, attaccato alla vita! Domani ci sarà uno scontro con i
nazi-fascisti e non so come potrà andare a finire, ma tu non
preoccuparti amore, un modo per cavarmela lo troverò.
Adesso devo andare, mi chiamano per gli ultimi preparativi.
Ti amo tesoro mio e ti prometto che, quando questa
maledetta guerra finirà, torneremo a vivere qui a Monchio,
nella nostra amata Monchio.
Arrivederci Clelia , dunque... questo non può essere un
addio.
Il tuo Gino
MEMORIE DI UN PARTIGIANO
di Nicholas Lazzari
Monchio
Era l’11 gennaio del 1945, tirava un vento gelido ed i
monti erano coperti di neve.
Io e Albi, entrambi partigiani del distaccamento del
Guercio, eravamo in giro per una ricognizione.
All’improvviso sopraggiunse un camion tedesco: non ci fu
via di scampo!
Ci condussero nel loro accampamento e ci rinchiusero in
una stanza priva di finestre, legandoci l’uno all’altro. La
paura m’impediva di pensare! Per fortuna Albi aveva un
coltellino nascosto sotto la cintura, con cui riuscì a tagliare le
corde: approfittando della porta lasciata aperta e
dell’oscurità, riuscimmo ad evadere rubando una jeep
tedesca. La nostra fuga fu interrotta dalla foratura di una
gomma ma, dopo un rapido cambio di pneumatico,
riprendemmo la corsa verso il Monte Navert. Poi un altro
terribile intoppo! Incontrammo un altro camion tedesco, ma
riuscimmo a mimetizzarci velocemente nel folto del bosco.
Che paura! In un attimo mi passò tutta la vita davanti!
Trascorremmo la notte in un rifugio ed il mattino dopo
decidemmo di osare. Presi da una voglia disperata di andare
a vedere cosa fosse successo ai nostri familiari dopo l’ultimo
rastrellamento, calammo in paese, a Monchio delle Corti,
indossando delle divise tedesche trovate nella jeep, nel caso
in cui avessimo malauguratamente incontrato qualche sporco
nazista.
Fu una fortuna incredibile che, all’altezza delle prime case,
incontrassi subito mio padre. Lacrime, abbracci e tanta
voglia di raccontare. Mi disse di essersi salvato grazie ad
cunicolo scavato sotto il pavimento della nostra stalla. I
tedeschi passarono e ripassarono nelle vicinanze della botola
un sacco di volte, senza mai scoprirlo. La stessa sorte,
purtroppo, non toccò ai genitori di Albi e a sua sorella né a
tanti altri amici di cui conservo gelosamente la memoria.
Questo è uno dei numerosissimi ricordi legati a quegli
anni, mai troppo lontani. Ormai è tutto finito: io e i miei
paesani stiamo ricostruendo con gioia quello che la guerra ha
spazzato via. Bevo la vita ogni giorno come se fosse la
bevanda più preziosa, anche se a volte tornano ad assalirmi
gli incubi di un passato che, spero, non ritorni mai più.
LA BRIGATA ROSSA
di Genny Likmeta
Palanzano
Durante una fredda giornata d’inverno la brigata rossa
stava camminando per i campi alla ricerca di un posto dove
accamparsi quando, in un tratto non molto lontano da dove si
trovavano, sentirono degli spari e si misero subito al riparo
nascondendosi dietro una grande roccia e lì si sentirono al
sicuro. Gli spari, però, si avvicinavano sempre di più e loro
decisero che era il momento di cominciare a difendersi e
rispondere al fuoco. Questa fu una battaglia molto lunga e
appena i tedeschi se ne andarono i partigiani furono contenti,
ma poi si accorsero che mancavano due o tre persone e
cominciarono a cercarle. Dopo un po’ di tempo un partigiano
li trovò morti dietro un albero e quella giornata, che
sembrava una delle migliori, si trasformò in un incubo. Per il
distaccamento fu un evento tragico sia perché i tre partigiani
morti erano i migliori, sia perché non avevano mai perso
degli uomini in battaglia. Il distaccamento decise di fermarsi
in quel luogo e dopo una lunga nottata di sonno, si
svegliarono all’Alba per andare a cercare un riparo migliore.
Mentre camminavano tranquilli sentirono degli altri spari,
ma questi venivano da molto lontano. Allora i partigiani
decisero di andare a controllare per capire di cosa si trattasse.
Arrivati nel luogo da dove provenivano gli spari videro una
scena bruttissima: c’erano tantissimi uomini morti e vicino
ad un grande edificio c’erano due o tre uomini feriti. I
partigiani cercarono in qualche modo di aiutarli e dopo che i
feriti si furono ripresi raccontarono al distaccamento che
erano stati attaccati all’improvviso dai tedeschi. I partigiani
decisero di fermarsi lì e di unirsi così ai pochi uomini che
erano rimasti.
Dopo pochi giorni, che sembrarono tranquilli, i partigiani
sentirono dei gran rumori e appena si alzarono videro in
lontananza molti tedeschi che avanzavano nella direzione di
quel grosso capanno. I partigiani subito presero le armi e
cominciarono a sparare. Anche i tedeschi si misero subito a
sparare e dopo poco tempo sembrava che ci fosse già stata
una battaglia lunghissima. A battaglia finita, I partigiani
avevano perso molti uomini, ma anche i tedeschi ne avevano
persi alcuni. Il distaccamento decise che non si poteva andare
avanti così perché avrebbero perso tutti gli uomini. Allora i
partigiani decisero che sarebbero stati loro ad andare ad
attaccare i tedeschi. Quella stessa notte andarono a cercare il
rifugio dei tedeschi e un partigiano in lontananza vide una
grande struttura che assomigliava ad una stalla. Con molta
cautela i partigiani si avvicinarono al rifugio ma, tutto non
andò come avevano pensato: i tedeschi si erano accorti del
loro arrivo. Cominciò di nuovo una lunga battaglia molto
pericolosa. I tedeschi attaccarono subito e uccisero alcuni
partigiani che, nonostante fossero rimasti in pochi, riuscirono
comunque a combattere contro i tedeschi e a sconfiggerli
definitivamente. Poco tempo dopo sentirono dei gran rumori
ed ebbero tantissima paura perché pensavano che fosse un
altro attacco dei tedeschi e loro non avevano più né armi né
uomini per poterli affrontare. I partigiani, comunque, si
appostarono, per resistere ad un nuovo attacco. In lontananza
videro molti carri armati avanzare, ma sopra c’erano dei
soldati felici che gioivano. Allora i partigiani capirono che
erano arrivati rinforzi per liberarli da quell’incubo.
LA BRIGATA VERDE
di Consuelo Montali
Palanzano
La brigata verde era piena di giovani ragazzi con tanta
voglia di difendere la propria patria, era chiamata così perché
tutti indossavano delle tute verdi per mimetizzarsi tra i prati.
Durante una calda giornata di primavera, i partigiani della
brigata verde si stavano preparando per andare in guerra,
partirono per andare in cima al monte, impiegarono quasi
un’ora per arrivare fin lassù. Quando furono lì, notarono la
presenza di altri uomini: erano i tedeschi. Quindi i partigiani
si nascosero dietro i cespugli e iniziarono a sparare. I
tedeschi non riuscivano a capire da dove venissero gli spari,
perché i partigiani erano mimetizzati con le loro tute verdi.
Così la brigata riuscì a uccidere tutti i nemici.
I partigiani esultarono tutti insieme perché sapevano che
quel giorno sarebbe stato indimenticabile. Presero i loro
sacchi a pelo e li misero tra i cespugli, accesero il fuoco e
iniziarono a cucinare la lepre che avevano catturato il giorno
prima. Appena finirono di mangiare, si addormentarono
subito. Quella notte, tutti i venti partigiani riposarono
tranquilli. Il giorno dopo, quando furono svegli, si accorsero
che mancavano cinque di loro. Guardarono in giro, ma non
ne trovarono traccia. Finalmente, dopo quattro ore di ricerca,
li trovarono dietro a un cespuglio, morti. Iniziarono a
perlustrare la zona perché sospettavano e temevano la
presenza di tedeschi, ma non ce n’erano. All’improvviso
sentirono degli spari e si intravidero in lontananza diversi
uomini: stavano arrivando i tedeschi. I partigiani, allora, si
nascosero dietro i cespugli e incominciarono a sparare.
Morirono diversi tedeschi, ma anche tre partigiani della
brigata verde. Alla fine vinsero i partigiani, visto che di
tedeschi non ce n’erano più.
Di venti partigiani ne erano rimasti dodici. Molti uomini
della brigata verde avevano paura di fare la fine degli altri,
quindi decisero di trovarsi un rifugio. Trovarono una baita
abbandonata, dove si erano nascosti anche gli uomini della
brigata rossa. Iniziarono a parlare tutti insieme e poi le due
brigate decisero di unirsi, così sarebbero diventate più forti.
Formarono un gruppo di cinquanta partigiani. Si
incamminarono per andare a lottare contro i tedeschi. In un
campo immenso, si trovarono contro i nemici. Gli altri erano
il doppio di loro. Dopo lunghe ore di battaglia, il numero dei
tedeschi si era dimezzato. I partigiani avevano subìto solo
due perdite, tutti gli altri stavano bene, a parte delle piccole
ferite, e alla fine ce la fecero, riuscirono a vincere e a perdere
solo sei di loro.
Ad un certo punto si sentì un rumore fortissimo provenire
da lontano. C’erano tanti uomini dentro carri armati che
salivano su per la montagna. Quando furono in cima,
iniziarono a urlare e a suonare le trombette tutti insieme,
stavano esultando perché la guerra era finita e loro avevano
ucciso gli ultimi tedeschi rimasti! Tutti felici scesero in paese
e festeggiarono la fine di quella tragedia.
IL RASTRELLAMENTO
di Loris Notarangelo
Palanzano
Nel giugno del 1944 andai al mare per una quindicina di
giorni con i nonni, ritornai a casa e vidi dalle montagne i
tedeschi che portavano via i miei genitori. Io scappai il più
lontano possibile per non farmi prendere. Mentre correvo,
incontrai alcuni partigiani e raccontai loro tutto quello che
sapevo sui tedeschi.
All’improvviso, davanti a me e ai partigiani, vidi
comparire una camionetta di tedeschi. Ebbi molta paura e
cercai di scappare, mentre i partigiani cercavano di bloccarli.
Iniziai a correre, e intanto sentivo sparare.
Poi ho saputo che erano stati presi tutti i partigiani, avrei
voluto fare qualcosa, ma non sapevo cosa e avevo paura di
finire ammazzato.
Alla fine miracolosamente sono sopravvissuto, ma non ho
mai saputo che fine hanno fatto quei partigiani.
LA BRIGATA SCANSAFATICHE
di Alessandro Orsini
Palanzano
In una calda giornata d’estate in piena Seconda Guerra
mondiale, c’era una piccola brigata che era tra le più
scansafatiche di tutte. Era composta solo da quattro ragazzi
giovani: Marco, Alessandro, Giacomo e Massimo.
Un giorno la brigata venne mandata a fare un giro di
perlustrazione, durante il quale i quattro ragazzi videro un
uomo consegnare dei fogli a un altro uomo che sembrava un
ufficiale tedesco, ma scoprirono poi che si trattava del cuoco
del loro accampamento. Allora andarono subito dal capitano
a riferire tutto, ma il capitano non credette loro e disse: “Voi
non riuscite a vedere neanche un maiale in un allevamento di
maiali, figuriamoci se vedete una spia!”.
I quattro si scoraggiarono un po’ ma poi decisero di fare
tutto da soli. Alla sera si allontanarono dall’accampamento
per pedinare la presunta spia; dopo venti minuti arrivò una
macchina nera dalla quale uscì il cuoco per scambiare ancora
informazioni. I quattro guardarono la targa e cercarono di
memorizzarla: 428BHW. “Non è possibile! Non ci credo!” esclamò Alessandro - “Ma quella non è la targa della
macchina del nostro capitano?”. Subito pensarono che il loro
capitano stesse complottando con i tedeschi.
Il giorno dopo, senza confrontarsi più con nessun
superiore, decisero di fare una “bella festa” al loro capitano e
al cuoco.
LA BRIGATA GIALLA
di Daniela Parascanu
Palanzano
Era la fine dell’inverno, faceva ancora molto freddo e la
neve imbiancava le montagne. In una casa povera e cadente
abitava un bambino insieme a sua sorella. Lui si chiamava
Henry e sua sorella Mary.
Henry aveva dieci anni e la sorella era l’unico familiare
che gli era rimasto: suo padre, un partigiano, era stato ucciso
in guerra; sua madre era morta di parto.
Mary era buona, lei lo amava tanto, aveva solo lui. Aveva
venti anni e non aveva mai trovato l’uomo della sua vita con
cui potersi sposare e vivere.
Henry voleva diventare un partigiano perché desiderava
proteggere la sua terra, ma lui non era che un bambino, anche
se sapeva ogni cosa sui partigiani e sui nascondigli del suo
territorio. Riusciva a trovare luoghi di cui nessuno conosceva
l’esistenza.
Un giorno Henry incontrò dei partigiani e si offrì di unirsi
a loro per aiutarli in guerra, così come aveva fatto suo padre.
Ma i partigiani non lo ascoltavano, quindi si mise davanti a
loro e disse: “Sono piccolo, è vero, però voglio anch’io
partecipare alla guerra”.
I partigiani iniziarono a ridere, dicendogli: “Cosa può fare
un piccolo bambino in una guerra? Può solo morire!”.
Quando i partigiani arrivarono a casa di Henry, uno dei più
importanti partigiani, Richard, vide Mary e se ne innamorò,
voleva chiederle se avesse un marito, ma non ebbe il
coraggio, era troppo intimidito dalla sua grande bellezza. In
quel momento la sorella di Henry, imbarazzata, diventò rossa
in volto come una rosa. Henry si accorse di tutto e pensò che
se quel partigiano e sua sorella si fossero messi insieme, per
lui sarebbe stato più facile diventare un partigiano. Il
distaccamento trascorse due settimana a casa di Mary, ma in
questo periodo tra i due giovani non era successo nulla ed
Henry era disperato perché i partigiani di lì a poco sarebbero
partiti per una missione contro i tedeschi e lui sarebbe
rimasto di nuovo a casa. Sentiva che doveva fare qualcosa,
non poteva andare così, lui doveva essere un partigiano come
lo era stato suo padre, forse lo avrebbe ritrovato, forse non
era morto come dicevano tutti. Allora Henry disse: “Aspetta
Richard, aspetta, mia sorella ti ama e penso che anche tu la
ami, perché non glielo dici? Lei aspetta da tanto tempo che tu
le dica qualcosa”.
Richard rispose: “Sì, anch’io la amo, però cosa posso fare?
Lei è qui e io devo andare in guerra e non so se mi
aspetterà”.
Il ragazzo gli disse: “Ti aspetterà perché lei ti ama tanto e
anche tu le deve dire ciò che provi perché lei non lo sa”.
Richard non era convinto delle parole di Henry, ma prima
di partire volle vedere Mary, perché pensava che quella
poteva essere l’ultima occasione per dirle ciò che provava,
temeva di non tornare vivo. Henry allora gli propose di farlo
diventare un partigiano, così sua sorella si sarebbe aggregata
al distaccamento con lui.
Richard non era molto sicuro che ciò fosse una cosa giusta,
ma era disposto a fare tutto per poter rimanere con la donna
amata. Così alla fine Henry e la sorella andarono con i
partigiani. Henry era simpatico a Richard, per lui era come
un fratello più piccolo ed Henry lo considerava quasi come
un padre.
Dopo tre mesi, Mary e Richard si misero insieme, ma
anche in lei come in suo fratello si accendeva la speranza di
poter ritrovare il loro padre. Un giorno, mentre Henry
cercava nuovi posti da utilizzare come nascondigli, sentì un
rumore, una voce che chiedeva aiuto. Lui non sapeva cosa
fare, pensava che fosse un fascista o tedesco, quindi scappò e
andò dai partigiani a chiedere aiuto. Sua sorella, spaventata,
voleva andare con loro per non rimanere da sola. Sperava che
quell’uomo scoperto da suo fratello potesse essere suo padre.
Solo lei poteva riconoscerlo, Henry aveva un ricordo vago
del suo genitore.
Dal bosco avanzava un anziano, Mary era spaventata e
voleva fuggire, poi riconobbe in quella figura qualcosa di
familiare, ma i partigiani presero le armi e stavano per
sparare.
Mary allora disse: “Aspettate! No, lui è mio padre!”.
Tutti rimasero fermi, Henry e sua sorella si avvicinarono
all’anziano e lo abbracciarono, era il loro padre e scoprirono
che era stato catturato dai tedeschi e solo da qualche giorno
era riuscito a scappare.
Henry si commosse perché quella era la prima volta che
vedeva suo padre, era appena nato quando se ne era andato
via. Tutti furono felici, ma Henry e Mary un po’ si
rattristarono al pensiero della madre morta.
Henry divenne uno dei più bravi partigiani, mentre Mary e
Richard si sposarono dopo la fine della guerra.
CARO DIARIO
di Alessandro Priori
Monchio
23 maggio 1944
Caro diario,
anche questa sera posso raccontarti la mia giornata perché
fortunatamente, neanche oggi i tedeschi sono riusciti ad
uccidermi. Sembra una considerazione assurda, ma di questi
tempi la mia vita non è un privilegio scontato!
Sono disteso su un pagliericcio, nella zona del dormitorio del
campo.
Questa mattina mi sono svegliato alle 5.00 per raccogliere la
legna. Più tardi, dovendo preparare il pranzo, sono andato a
controllare le varie trappole che abbiamo posizionato nel
bosco. Oggi siamo stati particolarmente fortunati perché
abbiamo trovato del cibo. E, ti assicuro, non è cosa di tutti i
giorni! In una trappola si era persino impigliata una bella
lepre, che ho cucinato per la cena. Avevamo ancora un po’ di
farina di mais: per cuocerla ho usato l’acqua del ruscello. Al
momento di mangiare la polenta, ci siamo resi conto che era
piena di puntini neri: erano formiche! Ma la fame era
talmente tanta che l’abbiamo mangiata comunque.
Adesso devo dormire, perché presto sarà giorno e dovrò
svegliarmi nuovamente di buon’ora. È faticosa la vita del
cuciniere, soprattutto quando il cibo scarseggia.
24 maggio 1944
Caro diario,
anche oggi, fortunatamente, posso raccontarti un’altra
giornata!
Scusami se vado di fretta, ma qui al campo è successa una
cosa noiosa e spiacevole: un’invasione di pidocchi! In testa
ne ho un’intera tribù, accidentaccio! Tra poco dovrò recarmi
dal mio compagno Carlo che mi aiuterà a sterminare un po’
di queste bestiacce. Lo ricambierò con lo stesso favore.
Gli attacchi dei tedeschi sono frequenti e impegnativi. Il mio
sesto senso mi dice che anche domani ci saranno nuovi
scontri. Dobbiamo al più presto andare in città a prendere
munizioni perché iniziano a scarseggiare…. ci mancavano
queste dannate bestiacce a renderci la vita impossibile!
Sono stanco… non so per quanto potrò resistere in queste
condizioni, spero che tutto finisca presto!
Ora ti saluto. Mi auguro di cuore di poter sfogliare le tue
pagine anche domani.
A presto, amico dei miei lunghi giorni!
HO VISTO COSE……
di Federica Priori
Monchio
Carissima famiglia,
ho avuto la fortuna di incontrare un combattente inglese che
mi ha promesso di consegnarvi questa lettera. Voglio dirvi
brevemente ciò che mi è successo in questi ultimi anni...
Quante terribili avventure ho vissuto in giro per l’Europa!
Iniziato l’orribile conflitto, mi hanno chiamato nell’ARMIR.
Non so come, ma sono riuscito a tornare sano e salvo, senza
che mi uccidesse il gelo russo. Dopo un breve periodo in
Nord Africa, mi sono specializzato nei codici Morse e ho
iniziato a fare il telegrafista qui in Italia, dove tuttora mi
trovo. Che meraviglia questi posti! Prima che venissero feriti
dalla guerra, dovevano essere un incanto!
In questo periodo lontano da casa, ho visto cose che nessuna
creatura umana avrebbe mai voluto vedere. Ho visto morire
decine e decine di compagni, per il bene delle generazioni
future. La loro morte è piena di orgoglio, coraggio e voglia di
libertà. Anche se non potessi più tornare a casa, promettetemi
di ricordarvi di me. Vi ho sempre voluto bene e vi porto
sempre nel cuore. Certo, mi piacerebbe essere a casa in
questo momento, abbracciarvi, ma è più forte il desiderio di
combattere per una grande causa, di sconfiggere
l’oppressore.
Ricordo sempre i vostri splendidi, bellissimi, fantastici
sorrisi, i vostri modi di fare e i vostri gesti, anche e
soprattutto quelli più banali e quotidiani. Vi ho voluto, vi
voglio, vi vorrò sempre un oceano di bene.
Con amore, Edward.
GENNAIO 1944
di Alberto Rozzi
Monchio
In quel freddo Gennaio del 1944, mi trovavo nei boschi tra
Palanzano e Monchio con alcuni compagni partigiani. Ci
avevano riferito che i tedeschi stavano attaccando da Rigoso,
per cui ci mettemmo in marcia per avvertire gli abitanti dei
due piccoli centri e per spingerli ad evacuare. Nei pressi di
Cozzanello, sentimmo un terribile boato: stavano arrivando!
Ci affrettammo per fare in modo che donne e bambini
fuggissero. Poi ci fu un sanguinosissimo scontro con le
truppe naziste: io, Rodrigo, Andrés, Ubbald, Pietrino e gli
altri miei compagni ci battemmo come fieri leoni, ma i
tedeschi erano in netta superiorità. Perciò, nostro malgrado,
fummo costretti a ritirarci verso San Matteo, avviliti per aver
perso ben trenta uomini. A questo scontro ne seguirono tanti
altri, a volte fortunati, a volte no. L’importante era battersi
sempre e comunque, senza mai perdere la speranza.
Era splendido il mio distaccamento e soprattutto i miei
amici più cari, quelli di una vita: Rodrigo era alto, magro e
imbattibile nella mira; Ubbald, coraggioso e temerario, era
forse il più forte del gruppo; Andrés, invece, era il più abile a
procurarsi il cibo e ad usare le armi; infine Pietrino, “il più
fuori di testa”, era magrissimo ma riusciva a tirarci sempre su
di morale con le sue battute. Eravamo un gruppo dotato di un
cuore enorme. È grazie a quel cuore e al nostro “furore”che
siamo riusciti a batterci con valore per anni, fino alla meritata
vittoria finale. Sono contento, adesso, di vedere la mia bella
patria libera e unita. E se avessi dovuto imparare a parlare in
tedesco? Oddio che incubo!
IL PARTIGIANO LUCA
di Andrea Scorticati
Palanzano
Dal 1943, durante la Seconda guerra mondiale, si erano
formati alcuni gruppi armati di partigiani contro le truppe
nazi-fasciste.
I partigiani sapevano che i tedeschi erano molto forti
militarmente, ma nonostante la paura, lo spirito di tornare
liberi e l’appoggio americano li rassicurava. I tedeschi erano
molto abili a infiltrarsi con le loro spie nei gruppi partigiani.
Presso il greto del torrente, un tedesco stava sistemando una
barca ma dalla boscaglia partì un colpo che lo ferì. Aveva
sparato il partigiano Luca, che era nascosto tra la vegetazione
e si armò di un bazooka per colpire il gruppo tedesco che, nel
frattempo, accorreva in soccorso del commilite ferito presso
la barca. Iniziò una sparatoria, si vedevano pallottole e
bombe che partivano da tutte le parti bum bum
bummmmmmmmmmmm. Luca venne colpito a morte da un
ufficiale tedesco. I partigiani subirono molte perdite e,
rimasti in pochi, si arresero ai tedeschi. Oggi in quel luogo
c’è un monumento alla memoria dei caduti per la libertà. Chi
mi ha raccontato questa storia ebbe vita dura.
GIGIONE E PONO
di Pietro Vincetti
Monchio
Il 25 ottobre 1944, nell’Appennino tosco-emiliano, un
gruppo di partigiani stava scappando perché avevano subito
un attacco a sorpresa da parte di un gruppo di tedeschi.
Quando arrivarono al campo, il comandante li rimproverò
perché si erano fatti sorprendere così ingenuamente,
mettendo a repentaglio la sicurezza dell’intero
distaccamento.
Il comandante disse di fare più attenzione anche perché
aveva la certezza che prestissimo sarebbero arrivati i rinforzi
per i tedeschi stanziati nelle vicinanze.
Nella notte, infatti, secondo le previsioni del comandante,
l’accampamento fu invaso da circa cinquanta soldati. I
partigiani erano intorno ad un tavolo e stavano
programmando le azioni dei giorni seguenti: quando le
sentinelle sentirono i primi rumori, diedero l’allarme.
Ognuno si mise al proprio posto di combattimento per
difendersi il meglio possibile.
I tedeschi cominciarono a sparare da tutte le parti e i
partigiani vennero rapidamente accerchiati.
Ma il Gigione e il Pono, i più temerari del gruppo,
riuscirono ad uscire dal retro del casolare e cominciarono a
sparare all’impazzata alle spalle dei tedeschi.
Quest’azione temeraria infuse coraggio agli altri partigiani,
che iniziarono a battersi con furore, prendendo il sopravvento
sui nazisti.
Una volta sventato l’attacco e dopo aver cambiato campo,
occorreva fare chiarezza su quanto era successo.
Perché i tedeschi erano riusciti in poco tempo a
sorprenderli per ben due volte?
C’era forse una spia in mezzo a loro?