Facoltà di Filosofia, Lettere, Scienze Umanistiche e Studi Orientali Dipartimento di Filosofia Dottorato di Ricerca in Filosofia – XXIV ciclo Coordinatore Prof. Virginio Marzocchi Curriculum Filosofia: Ricerche Teorico-Storiche SSD M-FIL/01 Categorie giuridiche e ordine politico in Hobbes Supervisori Prof. Mario Reale Prof. Stefano Petrucciani Dottorando Camila Perea Rojas Matricola n° 983379 Anno Accademico 2010/2011 INDICE Introduzione 2 PARTE PRIMA Il contesto storico-scientifico del paradigma hobbessiano I. La rottura dell’armonia. Diritto e Rivoluzione nella storia inglese tra Cinquecento e Seicento II. 10 Il miracolo del sistema di common law.Elementi preliminari di storia del diritto inglese III. 40 Tra custom e reason.Voci della filosofia del diritto nel mondo di common law 103 PARTE SECONDA Il diritto e la metodologia logico-formale nella filosofia di Hobbes I. In controluce. La questione del diritto in Hobbes attraverso la critica di Hale 142 II. Dal metodo geometrico al metodo giuridico. Un’inversione di prospettiva 164 Bibliografia 213 1 Introduzione La ricerca che viene qui introdotta è il risultato di un lungo confronto con l’opera di Hobbes, in particolare con le categorie giuridiche che operano all’interno della sua riflessione filosofica. La nostra attenzione si è progressivamente concentrata intorno a questo aspetto – che a confronto di altri ha senz’altro ricevuto meno attenzione da parte degli studiosi – non senza un motivo preciso, che è lo stesso per cui, a nostro avviso, risultano ancora oggi stimolanti le letture che del filosofo inglese hanno dato interpreti quali Macpherson e Schmitt: la volontà di uscire dal cupo cono d’ombra entro il quale è finito per fossilizzarsi un pensiero che, se osservato nel vivo, mostra innumerevoli sfaccettature, oscillazioni, tentennamenti, ma soprattutto dimostra essere impegno e sforzo costruttivo, prima ancora che compiuto sistema e paradigma. Sia detto per inciso, o anche come semplice curiosità, che proprio negli scritti su Hobbes dello studioso tedesco si può rinvenire lo spunto che ha rappresentato la scintilla di questa indagine: l’affermazione secondo la quale il filosofo inglese era interessato a superare l’anarchia del diritto di resistenza feudale, cetuale o ecclesiastico. Nel nostro caso non si tratta di restituire un “nuovo” Hobbes, come si è voluto tentar di fare, anche in tempi recenti, dopo l’attribuzione all’autore di un’opera pubblicata anonima nel 1620, (nella quale, tra l’altro, vi è contenuto un Discourse of Lawes che 2 sarebbe stato certo rilevante per la nostra analisi, ma condividiamo il giudizio di Perez Zagorin e riteniamo che il suo contenuto difficilmente possa essere frutto della mente del nostro). L’intenzione è stata piuttosto quella di mettere a punto una linea di lettura che consentisse l’acceso alla peculiarità di una costellazione di concetti all’interno della quale i momenti forti del progetto hobbesiano – assolutismo, pessimismo antropologico, positivismo giuridico, per citarne solo tre – rivelano possedere confini flessibili e porosi. Tale scopo è stato realizzato estendendo il raggio d’azione dell’analisi non solo ai tre grandi trattati politici, Elements of Law, De Cive e Leviathan, ma anche addentrandoci in opere meno battute come il De Corpore, lo stesso De Homine e, primo tra tutti, il Dialogue between a Philosopher and a Student of the Common Laws of England. Accompagnati lungo la via di ricerca dal contenuto di quest’ultimo in particolare, lo sguardo si è rivolto indietro, soffermandosi in maniera insistente e particolareggiata, forse anche eccessiva, ma siamo convinti non ingiustificata, in direzione dell’orizzonte storico-politico dal quale è sorto il modello giuspolitico hobbesiano. Dalla lettura del Dialogue emergeva infatti una critica complessiva – la prima in verità – al modello di common law, la crisi del quale costituisce uno dei livelli cruciali su cui si è articolato il cedimento sistemico avvenuto in Inghilterra nel passaggio dal ‘500 al ‘600. Proprio da qui abbiamo deciso dunque di prendere le mosse per la nostra analisi, convinti e consapevoli del fatto che in ogni pagina della sua opera, Hobbes abbia a 3 mente il venir meno dell’efficacia dei meccanismi giuridici e politici regolatori degli interessi nel suo paese. Non intendiamo far riferimento tanto alla circostanza, puntuale quanto ovvia, per cui la composizione del De Cive è stata sollecitata dal dibattito sulla Shipmoney, o ad altro ancora che di questo tenore si potrebbe affermare, ma piuttosto a qualcosa di ben più strutturale ed essenziale: al fatto che Hobbes sia testimone del punto massimo di rottura di un’armonia sociopolitica che non sembrava più in grado di ricomporsi da sé. Riportiamo, a modo di esempio, uno specifico passaggio dell’analisi per tentare di indicare meglio il senso complessivo nonché quello di alcuni dei momenti di questa prima sezione. Dall’analisi del fenomeno delle recinzioni emerge, a nostro parere, una dinamica di fondo: mutate condizioni economiche spinsero verso un accentramento guidato da una razionalità individualista che richiedeva una nuova configurazione di diritti. L’intera questione è per molti versi riconducibile al problema del passaggio dall’uso alla proprietà, nel caso specifico dal precedente uso, in parte comune, della terra alla proprietà privata piena, tema fondamentale nel dibattito costituzionale del Seicento sul piano giuridico e uno dei nodi centrali del pensiero hobbesiano sul piano del potere. Nella sua tarda fatica sul diritto, Hobbes si riferisce costantemente e in modo estremamente dettagliato a corti, procedure, statuti, delitti e pene; citava Selden, Lambarde, e naturalmente Coke, il bersaglio principale. 4 La sua argomentazione faceva i conti con un mondo giuridico che ci è sembrato dunque non solo degno di attenzione, ma ci è apparso anche e in qualche modo come un’ampia e dettagliata mappa nella quale era possibile ritrovare e leggere in filigrana la trama di un assetto che, già gravemente indebolito, avrebbe subito gli ulteriori colpi da Hobbes inferti, prima di conoscere una rinnovata vitalità nei secoli successivi. Il proposito di tenere insieme la prospettiva storica e teoretica ci ha quindi inevitabilmente e necessariamente condotto anche al tentativo di ricostruzione del retroterra scientifico-giuridico al quale attinge e nel quale si innesta la riflessione giuspolitica hobbesiana. Anche in questo caso il limite del regressus è stato spostato all’indietro, fino alla riflessione di Saint German, dalla quale si prendono le mosse per percorrere un cammino simile e parallelo al precedente, che giunge gradualmente fino a Selden, autore riconosciuto e per molti aspetti anche assai apprezzato dallo stesso Hobbes. Ciò che in questo caso si cercherà di ascoltare e far risuonare saranno le diverse voci di una tradizione composita e sfaccettata, nella quale è possibile intravedere, a nostro giudizio, innovazioni ed elementi conservativi di un paradigma embrionale che vedremo poi delinearsi in maniera peculiare in Hobbes. Avvaliamoci del giudizio di un autorevole medievalista e storico del diritto canonico per introdurre il contenuto della seconda parte della nostra indagine, la quale procede verso l’analisi testuale lasciandosi alle spalle questo lavoro archeologico. 5 Brian Tierney ha sostenuto nel suo importante libro The Idea of Natural Rights: Studies on Natural Rights, Natural Law and Church Law, 1150-1625, che “il tentativo compiuto da Hobbes di mettere insieme alcuni frammenti della dottrina medievale del diritto naturale con la sua visione del mondo radicalmente differente, produsse delle incoerenze fra le diverse branche del suo pensiero e delle debolezze all’interno dei suoi stessi scritti politici”; con questa affermazione si potrebbe anche parzialmente concordare, sempre che si tralasci un’intonazione del discorso che sembra valutare l’intento hobbesiano come uno spregiudicato assemblaggio di elementi della tradizione medievale. Tuttavia, rovesciando proprio questa sfumatura, ci sentiamo di affermare che, proprio perché intento a rendere conto di una visione del mondo da costruirsi interamente nella frattura dell’ordinato e armonico cosmo medievale, Hobbes si trovò a rifondare il linguaggio preesistente, e ciò tentò di realizzare con tutte le contraddizioni e le aporie che poteva comportare questa tragica operazione. È dunque vero, seppur in parte, che egli prova ad agire nel regno del linguaggio come il suo sovrano assoluto agisce nel mondo della politica, con una sorta di approccio semantico à la Humpty Dumpty1: ma dal momento in cui conserva una terminologia Sappiamo che le introduzioni non gradiscono le note, ma questa ci è particolarmente cara. Nell’articolo intitolato Natural Law and Natural Rights. Old Problems and Recent Approaches, comparso in “The Review of Politics”, n. 64, vol. 3, 2002, Tierney riporta le parole dello Humpty Dumpty di Carroll: “When I use a word, it means just what I choose it to mean”. Potrebbe sembrare un divertissement letterario invocare in maniera seria quel meraviglioso resoconto del nominalismo che è il capitolo sesto di Through the Looking Glass per accennare al problema del linguaggio in Hobbes, quindi non andremo oltre. Per curiosità e per dire della possibile concretezza del nesso, ricordiamo soltanto come sia stato ipotizzato che il significato di glory nell’espressione “there’s glory for you”, da cui muove il puntuale scambio tra Alice e Humpty Dumpty, sia stato influenzato proprio dalla definizione di sudden glory data da Hobbes in Lev., p. 27. Cfr. W. Gaffney, Humpty Dumpty and Heresy; Or the Case of the Curate’s Egg, in “Western Humanities Review”, 22, 2, 1968, pp. 131-141. 1 6 antica di secoli, pur mantenendone spesso solo l’impalcatura, egli in realtà lascia aperto un varco che permette di rintracciare continuità e discontinuità lessicali e semantiche, nonché di indagare a fondo circa le ragioni delle une e delle altre. Che vi sia uno iato strutturale, una sorta di faglia nelle fondamenta del sistema, è quanto abbiamo evidenziato nella seconda parte di questo lavoro; seguendo le definizioni di Hobbes, abbiamo tentato di indagare quanto esse “veramente” intendessero, non sorvolando, ma piuttosto osservando con cura quanto emerge anche dalle loro contraddizioni, tenendo soprattutto di mira – secondo l’indicazione del filosofo stesso, che nel Leviathan scrive: “For it is not the bare words, but the scope of the writer, that giveth the true light by which any writing is to be interpreted; and they that insist upon single texts, without considering the main design, can derive nothing from them clearly, but rather…make everything more obscure than it is” – “lo scopo dello scrittore”. L’impatto dell’annuncio sistematico dell’opera hobbesiana ha posto talmente in primo piano il momento ‘forte’ del suo pensiero (che potremmo forse racchiudere tutto nell’istanza dell’assolutezza: del comando, dell’obbedienza, del sovrano) da produrre l’eclissi (parziale o totale) di un’altra istanza in esso presente e a nostro parere forse di altrettanta fondamentale importanza: un momento che non ci sentiremmo quindi di definire ‘debole’, ma piuttosto, ci sia permessa la minima licenza poetica, umbratile (ci sembra appropriato pensarla appunto come l’ombra del sistema). Una spinta complementare, correlativa, ad ogni modo imprescindibile – la quale forse costringerebbe a ripensare più ‘debolmente’ la prima (ma questa è una conseguenza per noi di minore rilievo, se paragonata alla ricchezza e alla fertilità filosofica di quanto 7 ritrovabile nella seconda) – che si può ritrovare in due luoghi cardini della riflessione hobbesiana: il concetto di equità e il concetto di autorità. Dalla nozione di equity emerge il limite intrinseco che costituisce la regola essenziale dell’esercizio del potere, il quale, sotto questa particolare angolatura, si rivelerà non poter mai essere del tutto solutus. A partire dal luogo contrassegnato dai termini autore-attore-autorità è possibile osservare invece una peculiare concezione dell’uomo, nella quale viene soprattutto posto in evidenza il diritto e il potere che ad esso ineriscono, in un senso talmente pregnante e in se stesso costruttivo da fondare l’intera possibilità e plausibilità della costruzione statale. 8 PARTE PRIMA Il contesto storico-scientifico del paradigma giuspolitico hobbesiano 9 I La rottura dell’armonia Diritto e Rivoluzione nella storia inglese tra Cinquecento e Seicento L’esigenza di ricostruire il contesto storico nel quale si collocano le componenti giuridiche della filosofia di Hobbes non corrisponde ad una pretesa di spiegazione globale e inattaccabile del suo pensiero, ma piuttosto alla volontà di trovare coordinate materiali in grado di facilitarne l’ubicazione, e al contempo di rilevare fatti e avvenimenti in grado di dare maggiore spessore al significato e alla portata di alcuni aspetti teorici, assumendo così lo studio della storia politica, economica e sociale come una fonte inesauribile di indizi, di influssi, di nessi. Si tratta di una ricchezza sterminata che si potrebbe moltiplicare esponenzialmente perlomeno in due direzioni, distendendosi per un verso in un passato che rimanda continuamente ad un passato anteriore, e per un altro specificandosi in microstorie sempre ulteriormente articolate e restringibili. Così intesa, come complessità infinita e indomabile, questa stessa ricchezza esclude a priori la possibilità di ricondurre alla storia, puntualmente e secondo una perfetta corrispondenza biunivoca, ogni elemento di una determinata speculazione filosofica. 10 In questo senso ricostruire il contesto non significa quindi andare alla ricerca di fattori che, sommati, abbiano dato un certo risultato (non perché si neghi la potenza delle cause, ma perché si constata, prima ancora, l’impossibilità di tenerle tutte a mente); si tratta piuttosto di cogliere alcune delle innumerevoli tensioni vitali che abitano il retroterra di cui ci stiamo occupando, rendendolo di volta in volta arido o fertile. E ciò si intende compiere partendo da un’immagine, quella della ‘rottura dell’armonia’, che ben caratterizza il Seicento inglese, per passare poi all’analisi di alcuni momenti chiave (il fenomeno delle recinzioni, il dibattito sulla tassazione, la conseguente disputa sulla prerogativa regia e sullo stato di necessità) che permetterà infine di evidenziare gli elementi di crisi del sistema di common law rilevanti in vista dell’esame delle implicazioni giuridiche nel pensiero di Hobbes. L’interesse enorme della storia del XVII secolo in Inghilterra è dato in primo luogo dal suo essere momento di straordinaria trasformazione, di profondi rivolgimenti, in una parola sola, di crisi2. Per gli avvenimenti inglesi valgano le parole scritte da Santo Mazzarino a proposito della vicende, simili pur se opposte nel loro strutturarsi, che portarono alla fine dell’impero romano e alla nascita dell’impero accadico: “organismi nuovi 2 Così, nelle efficaci pagine introduttive del suo libro, M. Kishlansky, A Monarchy Transformed. Britain 1603-1714, London 1996 (tr. it. L’età degli Stuart. L’Inghilterra dal 1603 al 1714, Bologna 1999), p.13: “Il periodo che coincise con il regno degli Stuart (1603-1714) introdusse moltissimi elementi che caratterizzarono la nazione nei decenni successivi, gran parte dei quali presenti ancora oggi. Nacque il commercio moderno; la scienza divenne maggiorenne; la letteratura maturò come non era mai successo prima né si sarebbe ripetuto in seguito; l’ordinamento feudale perse vigore; la tortura, la stregoneria e l’eresia scomparvero lentamente”. 11 germogliavano su un terreno sconvolto, e le antiche strutture franavano sotto il peso della loro stessa antichità”3. Decidere a quale delle due strutture si avvicini di più il percorso dell’Inghilterra, se a quella della via romana che condusse dall’unità alla frammentazione, o quella che portò dalla pluralità degli stati sumerici allo stato unico di Akkad, è problema non semplice, la cui eventuale soluzione non esaurirebbe in ogni caso la complessità degli avvenimenti d’oltremanica. Teniamo fermo intanto un punto metodologico: l’individuazione di una struttura che colleghi e regga un determinato passaggio storico, pur restando “una creazione sul fantasma della realtà”4, è da assumersi non come una riduzione o un appiattimento, ma come una via di accesso, una linea di lettura; massima importanza rivestirà allora lo studio dei punti di rottura, laddove la riflessione voglia tendere alla comprensione dei materiali e dei meccanismi con i quali si sono innalzate e mantenute le costruzioni umane, poi incrinatesi e crollate per l’effetto corrosivo del mutamento. La molteplicità di motivi concorsi nella crisi risoltasi con la ratio ultima della Rivoluzione del 1640-1660 rende inadeguata ogni approssimazione unilaterale e definitiva al problema che essa rappresenta. Prendiamo le mosse da una considerazione generalissima. Con la fine del regno di Elisabetta e l’inizio dell’età degli Stuarts si definirono e si radicalizzarono i termini di 3 S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Torino 2008, p. 15. Usiamo in senso traslato un’espressione di G. Radbruch sulla quale avremo modo di ritornare, riprendendola nel suo significato puntuale: “La creazione del diritto ad opera del legislatore è una creazione sul fantasma della realtà”. Cfr., G. Radbruch, Der Geist des englischen Rechts, Gottingen 1958 (tr. it. Lo spirito del diritto inglese, Milano 1962), p. 9. 4 12 una sistemica ‘rottura dell’armonia’5, che non senza ragione potrebbe pensarsi come la lunga onda d’urto delle idee di Copernico e di Lutero. “La grandezza dell’epoca elisabettiana stava nel fatto che la ricchezza di fermenti nuovi non incrinava la nobile forma dell’ordine antico. E ciò era dovuto alla regina: non si sa bene come, i Tudors si erano inseriti nella costituzione dell’universo medievale”6; all’idea fondamentale sulla quale si reggeva questo universo, un ordine cosmico e sociale gerarchicamente strutturato, creato da Dio e imperniato sulla Terra e sul Re, si collegava direttamente la premessa – vera colonna portante della costituzione Tudor e delle idee politiche di Giacomo I – della naturale armonia tra gli interessi del popolo e quelli del monarca. Ma se è vero che nel regno di Elisabetta la danza cosmica è rappresentata nel corpo politico7, fu solo questione di tempo veder emergere le profonde crepe che si aprirono tanto in quella come in questo. Oltre il mito elisabettiano, non solo i fermenti nuovi furono gravidi di conseguenze, ma lo stesso nobile ordine nel quale essi venivano ad inserirsi dimostrò avere al proprio La “natura della malattia” del secolo si ritrova racchiusa per intero nelle famose parole di Ulisse nel Troilo e Cressida (atto I, scena 3). W. Shakespeare, Tutte le opere, Firenze 1964, p. 766: “I cieli stessi, i pianeti, e questo centro dell’universo, osservan grado, priorità e posto, perseveranza, corso, proposizione, stagione, forma, ufficio, e costume, seguendo un preciso ordine; e perciò il magnifico pianeta Sole è in nobile eminenza installato e posto nella sfera tra gli altri; il cui occhio salutifero corregge i sinistri aspetti dei pianeti maligni, e come il bando d’un re, ingiunge senza intoppo a buoni e a malvagi; ma quando i pianeti in maligna mescolanza si sviano dal loro ordine, quali pestilenze, e quali portenti, quale tenzone, quale infuriar del mare e sussultar della terra, commozione dei venti, paure, mutamenti, orrori, stornano e spaccano, lacerano e sradicano l’unità e il calmo connubio dei ceti dalla lor fissa condizione! Oh, quando è scossa la gerarchia, che è la scala a tutti gli eccelsi disegni, l’impresa languisce! Come potrebbero le comunità, i gradi nelle scuole, e le fratellanze nelle città, il pacifico commercio tra separanti sponde, la primogenitura e il diritto di nascita, la prerogativa dell’età, corone, scettri, allori, conservare il loro legittimo posto se non per mezzo della gerarchia? Sol togliete la gerarchia, mettete fuori tono quella corda, e udite che discordo che segue; ogni cosa si scontra in puro antagonismo…”. 6 E. M. W. Tillyard, The Elizabethan World Picture, London 1943, pp.1-6. 7 Idem. 5 13 interno altri pericolosi elementi di debolezza: la storia amministrativa8 e costituzionale9 degli ultimi anni dell’era Tudor rivela come fosse già allora in atto un processo di deterioramento strutturale che, con il primo re Stuart, conobbe una violenta fase di accelerazione e portò infine agli esiti drammatici della guerra civile sotto Carlo I. Da qualunque prospettiva lo si voglia osservare, in tale processo si palesa l’indebolimento dei vincoli che tenevano unita la società inglese, la fine della concordia degli interessi all’interno della classe dirigente e il venir meno del consenso dato ad essa dal paese; dalla prospettiva del diritto si nota che la trama giuridica nazionale (poiché di un prodotto propriamente inglese si tratta), sembrò non riuscire più a incanalare ordinatamente i distinti interessi dei soggetti; superstite sin dal lontano dodicesimo secolo in una forma peculiare che faceva della sua flessibilità la chiave della sua resistenza, essa conobbe il punto del suo massimo irrigidimento. Il dato politico decisivo rilevabile da questo quadro – ed è uno dei tanti punti critici colto da Hobbes con disarmante lucidità – è proprio la non naturalità dell’armonia e la necessità di individuare un centro intorno al quale costruirla artificialmente. L’ambito del diritto è la lente che adotteremo quindi per scorgere i tratti sommari delle difficoltà che travagliarono questa fase della storia inglese. Cfr. J. E. Neale, The Elizabethan Political Scene, in “Proceedings of the British Academy”, 1948 (tr. it. in E. Rotelli e P. Schiera, Lo Stato Moderno, II: Principi e ceti, Bologna 1971, pp. 189-211). 9 Ch. H. McIllwain, Costitutionalism: Ancient and Modern, New York 1947 (tr. it., Costituzionalismo antico e moderno, Bologna 1990, p. 130). 8 14 Tale scelta, certo parziale, non è priva di fondamento: è stato detto che la scienza e la riforma giuridica furono il centro della rivoluzione del XVII secolo 10; il campo nel quale si combatté la battaglia per la supremazia e l’uscita dalla crisi costituzionale fu quello della terminologia e delle pratiche giuridiche che innervavano il funzionamento del governo e della società inglese. Il vasto dibattito intorno alle categorie del diritto negli anni precedenti alla guerra civile fu una sorta di difficile presa di coscienza che quella società, profondamente segnata dai mutamenti economici, esercitò su se stessa. Proprio dall’indicazione di uno degli elementi più significativi di queste trasformazioni economiche è possibile mettere in evidenza, nel passaggio tra Cinquecento e Seicento, alcuni aspetti peculiari della transizione da strutture di tipo feudale a strutture di stampo capitalistico, utili ad indicare, nella loro concretezza, tendenze e questioni che influirono con vigore sulla società e sul pensiero inglese del tempo. La questione, complessa e ampiamente dibattuta, che si analizzerà qui soltanto sinteticamente è quella delle recinzioni (enclosures) e dell’appropriazione delle terre comuni ad opera soprattutto della gentry: uno dei fenomeni –forse il più rappresentativo delle tematiche che qui vorremmo affrontare – caratterizzanti il processo di riordino Cfr. B. Manning, “The Nobles, the People and the Constitution”, in T. Aston (a cura di), Crisis in Europe 1560-1660, London 1965 (tr. it. in Crisi in Europa 1560-1660. Saggi di Past and Present, Napoli 1968, p. 347). 10 15 agrario e fondiario che, tra i due secoli, travolse insieme con i vincoli, i legami di certezza giuridica e di solidarietà territoriale degli antichi rapporti di produzione11. Il diritto consuetudinario, nato e sviluppatosi all’interno di una società tipicamente agraria, era destinato riorganizzazione a risentire dell’ingente profondamente patrimonio terriero del trasferimento proveniente in e della gran parte dall’abolizione della proprietà ecclesiastica. La serie di atti parlamentari con i quali si era compiuta la dissoluzione dei monasteri tra il 1536 e il 1539, aveva sì gettato la base davvero solida della Riforma inglese, ma nel mutamento del quadro della distribuzione della proprietà che essa comportava, vi erano stati inevitabilmente fattori di potenziale destabilizzazione che, nel lungo processo di assestamento che seguì, tramutarono la primaria forza coesiva della società Tudor in principale fattore disgregativo di quella Stuart. Pare opportuno prendere le mosse dal concetto di Common Law inteso come Law of the Land. Land è un termine che va inteso sia nel senso politico di “paese” sia nell’accezione di “suolo” posseduto12: in verità, entrambi i significati mostrano un intimo collegamento, se si ricorda che la maggior parte della terra inglese apparteneva ai grandi notabili, alle corporazioni, alla Chiesa e alla Corona. Proprio questi corpi privilegiati, tra i quali era ascesa prepotentemente la gentry negli anni 1540-1640, definirono l’identità politica, culturale e sociale del paese intorno alla garanzia del diritto G. Giarrizzo, “Il pensiero inglese nell’età degli Stuart e della Rivoluzione”, in L. Firpo (diretta da), Storia delle dottrine politiche, economiche e sociali, vol. IV, Tomo Primo, Torino 1980, p. 165. 12 Cfr. Ch. Hill, The Intellectual Origins of English Revolution, Oxford 1965. 11 16 di proprietà e al mantenimento dello status quo, avvalendosi dell’efficace strumento del diritto consuetudinario per fare emergere dal lontano passato e conferire coscienza e spessore a rapporti di fatto e decisioni legali, già esaltate a ‘precedenti’ e ora invocate come leggi fondamentali13. Nelle campagne inglesi la situazione di fatto era in continuo mutamento. La forte crescita demografica, iniziata gradualmente dalla fine del Quattrocento e durata fino alla fine degli anni quaranta del Seicento, fu un fattore rilevante che contribuì a modificare gli assetti tradizionali: l’aumento della popolazione mise a durissima prova il regime agrario tradizionale14, e il conseguente aumento della domanda di derrate alimentari, insieme con il crollo dei salari dovuto alla manodopera in eccedenza, avrebbe presto modificato in maniera definitiva non solo la configurazione della campagna ma anche il rapporto tra questa e la città. Gli effetti della crescita furono devastanti per i contadini privi di terra, che maggiormente beneficiavano dell’agricoltura di sussistenza, ma rappresentarono un’occasione grazie alla quale i produttori di beni in eccesso furono incentivati a utilizzare proprietà fino ad allora scarsamente sfruttate. Il declino dell’aristocrazia e l’ascesa della gentry fu determinato in gran parte dalla capacità di cogliere quest’occasione: se le entrate della prima calarono in virtù sia dell’inflazione, sia di una gestione anacronistica delle coltivazioni, la seconda, mutando radicalmente l’atteggiamento tradizionale nei confronti della produzione agricola, si Cfr. G. Giarrizzo, “COURT vs COUNTRY: la società dell’Europa barocca”, in G. Nocera (a cura di), Il segno barocco: testo e metafora di una civiltà, Roma 1983, pp. 147-161. 14 Cfr. M. Kishlansky, op. cit., pp. 31 ss. 13 17 avviò verso l’adozione di sistemi rigorosi e più razionali di sfruttamento della terra, resi ormai necessari dalle nuove esigenze del mercato. La gestione moderna implicava necessariamente un’agricoltura intensiva, possibile su larga scala solo con l’estinzione dei diritti comuni, l’accorpamento degli appezzamenti, le recinzioni e soprattutto la concessione in affitto delle terre a prezzi di mercato, con la conseguente espulsione dei possessori consuetudinari come i copyholders15. Ciò che in questi anni giungeva a conclusione era la lenta e progressiva distruzione dei sistemi delle terre comuni e dei campi aperti16, ovvero il definitivo tramonto della razionalità ad essi sottostante. Il valore economico delle common lands per la comunità non era affatto trascurabile: esse non erano soltanto le terre dove gli abitanti del villaggio potevano svolgere svariate attività (taglio della legna, fabbricazione del carbone, caccia, pesca, e – forse la più importante – pascolo), ma avevano anche la funzione di integrare il reddito di molte famiglie di piccoli proprietari, di affittuari o di lavoratori saltuari, nonché di rappresentare la fonte principale di entrate di quei contadini nullatenenti che vivevano di espedienti e lavoravano per lo più dietro salario quando i lavori agricoli erano più intensi. G. Garavaglia, Storia dell’Inghilterra Moderna. Società, economia e istituzioni da Enrico VII alla Rivoluzione industriale, Bologna 1998, p. 44. 16 Cfr. P. Malanima, Uomini, risorse, tecniche nell’economia europea dal X al XIX secolo, Milano 2003, pp. 99 ss. 15 18 Gli open fields, a differenza delle common lands, non erano proprietà comune, ma proprietà privata composta di tante strisce non recintate, collimanti con i campi di altri proprietari. Qui, la coazione esercitata dagli interessi della comunità era ancora più manifesta: in assenza di steccati, tutti i terreni dovevano seguire le medesime rotazioni ed erano soggetti alle medesime coltivazioni. Seguendo gli stessi avvicendamenti, i campi erano liberi da colture negli stessi lassi di tempo ed era proprio e solo in quei ben definiti momenti che venivano sottoposti ad usi collettivi come la spigolatura e il pascolo, facendo sì che i diritti di proprietà, sottostanti a regolamenti comuni, venissero sospesi durante il periodo che andava dalla raccolta alla nuova semina. Il sistema nel suo complesso, seppur chiuso alle innovazioni e all’espansione, mitigava le difficoltà che affliggevano la campagne garantendo in particolare il delicato equilibrio tra gli arativi e i terreni di pascolo. In presenza di una limitata mercantilizzazione, si trattava di un impiego razionale delle risorse17 che assicurava l’equa ripartizione dei rischi, fondamentale per allentare le tensioni e mantenere la stabilità solidale della comunità. Gli svantaggi dei campi aperti però non furono più trascurabili con la diffusione delle relazioni di mercato: in un quadro mutato in cui la produzione era destinata alla vendita e non più solo alla sussistenza, la ripartizione dei rischi era sinonimo non più di stabilità ma di staticità, e di fatto finiva per rappresentare un ostacolo ai profitti. 17 Cfr. C. J. Dahlman, The open field system and beyond, Cambridge 1980. 19 La libertà di scelta da parte di individui che assumevano su di sé il rischio del successo o dell’insuccesso delle decisioni riguardanti gli orientamenti produttivi, divenne la soluzione ottimale per accrescere i profitti personali: così dettava la nuova razionalità. L’individualismo agrario spinse allora per la cessazione dei diritti comuni e il consolidamento della proprietà privata, mediante la ricomposizione e l’unificazione dei terreni. La coltivazione intensiva era inoltre solo uno dei vari modi con cui trarre profitto dai nuovi appezzamenti: essi potevano anche essere impiegati permanentemente come pascolo, oppure venduti o affittati ad un valore più alto. Nella sua lunga storia (in relazione ai sistemi di campi aperti un’analisi approfondita dovrebbe risalire al X secolo), il fenomeno delle enclosures prese molteplici forme, ma fu nel XVII secolo che l’accentramento dei terreni divenne la norma. La modalità più diffusa attraverso cui ciò avvenne fu l’estinzione dei diritti comuni e recinzione in seguito all’accordo fra le parti: questo accordo poteva giungere grazie ad adesioni estorte con la forza, così come in virtù di intese amichevoli18. Siamo così giunti ad un punto fondamentale. 18 Hill parla di un accordo di recinzione stipulato dai freeholders di Eyam nel 1702 (Clarke Papers, II, p. 404) come un eccellente esempio di contratto hobbesiano. Ch. Hill, “Thomas Hobbes and the Revolution”, in Puritanism and Revolution: Studies in Interpretation of English Revolution of the17th Century, New York 1997, p. 255, nota. 20 L’intero procedimento delle recinzioni era sempre stato di difficile attuazione perché la protezione del sistema di gestione dei campi aperti era uno degli scopi fondamentali del diritto inglese, sia di equity sia di common law. Nondimeno, proprio il fatto che questo sistema si basasse “su norme consuetudinarie, createsi quindi progressivamente e non per imposizione di un’autorità superiore, aveva fatto sì che esistessero diversi modi per procedere legalmente alla loro estinzione”19. Così “il signore ha potuto piegare a suo favore i costumi”20, consolidando la sua proprietà a discapito non solo dei nullatenenti, ma anche dei possessori consuetudinari. “Non era la nascita della proprietà privata, ma la sua terra ora era più sua di quanto non fosse prima”21: la malleabilità legale del diritto consuetudinario, utilizzata in questa sede per rafforzare e in qualche modo cristallizzare la situazione di partenza, scardinava antichi modi di produzione agricola e secolari forme di stabilizzazione sociale. La voragine di incertezza giuridica che così veniva aperta avrebbe necessariamente spinto verso forme di garanzia in grado di fissare e pacificare i rapporti sociali: in epoca moderna, queste forme furono i contratti; dalla seconda metà del Settecento, l’estinzione dei diritti comuni e le recinzioni avvennero per lo più mediante atti parlamentari. Ci interessa sottolineare la struttura di fondo che emerge dal fenomeno delle recinzioni: mutate condizioni economiche spinsero verso un accentramento guidato da una razionalità individualista che richiedeva una nuova configurazione di diritti. L’intera 19 G. Garavaglia, op.cit., p. 117. M. Bloch, Seigneurie française et manoir anglais, Paris 1960 (tr. it. Signoria francese e maniero inglese. Lezioni sulla proprietà fondiaria in Francia e in Inghilterra, Milano 1980, pp 207-208). 21 P. Malanima, op.cit., p. 104. 20 21 questione è per molti versi riconducibile al problema del passaggio dall’uso alla proprietà, nel caso specifico dal precedente uso – in parte comune –della terra alla proprietà privata piena, tema fondamentale nel dibattito costituzionale del Seicento sul piano giuridico e uno dei nodi centrali del pensiero hobbesiano sul piano del potere. Proprio in questo passaggio cruciale si evidenziò la componente implosiva del diritto consuetudinario, laddove il costume di cui esso era portatore si dimostrò definibile di volta in volta in base agli interessi delle classi possidenti, e finì per rivelare la sua potente carica di antigiuridicità. Che il tentativo di neutralizzare la conflittualità naturalmente derivante da un tale quadro sia passato poi dalla forma del contratto e successivamente dell’atto del Parlamento, è un fatto della massima importanza per la nostra analisi: si tratterebbe di un movimento di riassestamento complessivo di una società le cui strutture tradizionali, scardinate nelle loro antiche forme, aspiravano ad un apparato istituzionale nuovo ed efficace, in grado di mediare gli interessi distinti e assicurare certezza e maggiore stabilità. Attraverso il fenomeno delle recinzioni sarebbe visibile quindi una sorta di primo livello di quella rottura dell’armonia precedentemente citata, che accordava e legava insieme le diverse componenti della società inglese. Le enclosures sembrerebbero rappresentare dunque una delle tante fratture, quella tra il paese e la classe dirigente dei proprietari terrieri, che alimentarono il fuoco della guerra civile. Il segno più evidente di questo scollamento fu il declino costante del controllo sulle campagne da parte dei signori. 22 Per gran parte del secolo precedente la Riforma, la land question era già stata un tema scottante22, ma nella seconda metà del Cinquecento e nella prima metà del Seicento le sommosse contadine, provocate principalmente dalla scarsità di cibo e dall’opposizione alle recinzioni, erano ormai endemiche in diverse regioni inglesi. L’obiettivo di queste rivolte non era certo il sovvertimento dell’ordine costituito, ma piuttosto l’affermazione di diritti basilari, come quello all’esistenza, oscurati proprio dietro il velo di un apparente mantenimento dell’antico. Il venir meno della produzione di obbedienza indica la progressiva perdita di vigore nell’efficacia dell’azione ordinante ad opera del signore. Il maniero costituiva una stretta fusione tra impresa economica e insieme di sovranità23, e le trasformazioni della prima non potevano rimanere senza conseguenze sul piano dei poteri: il consolidamento dei possedimenti che aveva portato in superficie la contrapposizione tra diritti dei landlords e dei tenants, implicava una ridefinizione del concetto di proprietà destinata ad avere forti ripercussioni in ambito giurisdizionale. Si può affermare che il tramonto del feudalesimo in Inghilterra fosse iniziato molto presto: già nel XII secolo l’espansione della giustizia regia, con la quale è nata la common law, aveva imposto una notevole limitazione al sistema di giustizia delle manorial courts, riservando ai tribunali del re la competenza in ambito criminale. 22 23 R. H. Tawney, Religion and the Rise of Capitalism, New York 1926, p. 138. M. Bloch, op. cit., p. 93. 23 “Ma tutto ciò che riguardava i canoni, tutto ciò che riguardava il possesso della terra, doveva restare al signore”24 e così il villano, nella giurisprudenza che si stabilì e per quel che riguardava il suo rapporto col signore, fu sottratto alla giurisdizione regia. Quando però le motivazioni del malcontento contadino sorsero precisamente nell’ambito di competenza del signore e contro i suoi interessi, le istanze giurisdizionali locali necessitarono l’appoggio di un’istanza superiore, ovvero di un potere centrale forte, in grado di garantire controllo e ordine: l’alleanza tra ceto dirigente e Corona si cimenta sul bisogno comune di questa garanzia. Il filo che lega l’appropriazione della ricchezza e della terra all’appropriazione del potere politico era stato visto nella sua doppia veste disgregativa, sul piano sociale e sul piano istituzionale, da More25, ma la soluzione di un uso non proprietario della prima e del secondo delineata già nel 1516 in Utopia, non poteva trovare spazio tra una classe dirigente di proprietari terrieri i cui interessi combaciavano con quelli della monarchia. In questa sinergia per cui “il potere non solo era concentrato nello stato, ma riconcentrato nei proprietari terrieri”26, si può trovare una delle cifre dello stato assoluto inglese. L’arricchimento della gentry comportò un enorme aumento del controllo da essa esercitato sul governo degli affari locali, in particolare nella veste dei giudici di pace 24 Ibid., p. 162. Th. More, Utopia, I, 18. 26 B. Manning, cit., p. 338. 25 24 onorari; non fu quindi casuale che sia stato questo ceto a beneficiare maggiormente dell’espansione della professione legale e della burocrazia giudiziaria. Le nuove generazioni migrarono dalle campagne verso le città, ed entrarono in contatto con i settori dinamici del ceto mercantile: “Londra pullulava di rampolli della èlite terriera, e in molte famiglie fu il figlio avviato alla carriera legale, all’impiego o al commercio a fare fortuna”27. Inoltre, con il declino dell’aristocrazia fondiaria, anche l’influenza della gentry nelle elezioni parlamentari si fece sentire sempre di più, determinandone la partecipazione attiva al funzionamento del sistema di governo. Si trattava quindi della concentrazione di potere in mano a una classe dirigente mutata che si realizzava sia sul piano locale sia su quello nazionale, ma pur sempre in nome, rispettivamente, della pace del re e nell’istituto del King in Parliament; proprio facendo leva su un centralismo regio necessario a garantire la stabilità del regno, si configurava un assetto che sembrava superare la dispersione di potere gettando un robusto ponte tra la provincia e la città. Ma la tenuta del centro del potere si sarebbe rivelata presto fragile e precaria. L’allargamento del ceto dirigente (così come l’ampliarsi vertiginoso di quello dei poveri nullatenenti, spinti dalla miseria in flussi migratori continui verso centri urbani non certamente in grado di assorbirli tutti) stava trasformando la vita politica, sociale ed economica del paese in una maniera così profonda e radicale da non poter essere a lungo gestita dall’azione stabilizzatrice della Corona. 27 Id. 25 Tale pacificazione fu possibile fintantoché ci fu convergenza tra i suoi interessi e quelli delle forze rappresentate in sede parlamentare, ovvero quelle che Thomas Wilson nel 1600 chiamava nobilitas major e nobilitas minor28. Ma la convergenza venne meno quando i bisogni finanziari del re minarono il pilastro su cui si basava il compromesso con la classe dirigente, ovvero il mantenimento dei diritti di proprietà. L’espansione degli obblighi dello stato rese impellente la regolarità e l’aumento delle entrate della corona e ciò finì necessariamente per intaccare il privilegio di tassazione attraverso il Parlamento della classe dirigente: il punto era nevralgico, perché grazie a questo privilegio la nobiltà grande e piccola era riuscita a far sì che il peso principale nel sostenere lo stato ricadesse sulle classi inferiori anziché su quelle superiori. Se è vero che l’esenzione delle tasse per i nobili, flagello delle finanze francesi fino alla fine dell’Ancien Régime, era sconosciuta in Inghilterra, è vero anche che in questa peculiare declinazione del dominium politicum et regale29 inglese la dualità di tassazione si riproponeva sotto altre vesti, ben più sottili. È qui possibile notare come l’assenza di tale privilegio, che costituisce uno degli elementi che differenziano l’assolutismo inglese da quello continentale, riproponga comunque sull’isola problematiche analoghe a quelle d’oltremanica, che in entrambi i casi avevano in sé il seme della rovina. F. J. Fisher (a cura di), The State of England Anno Dom. 1600 by Thomas Wilson, in “Camden Society Miscellany”, XVI, 1936, p. 23. 29 Così la famosa definizione di Sir John Fortescue, The Governance of England, Oxford 1885. 28 26 Ancora una volta il tema della proprietà, osservato dal punto di vista dei diritti fondiari, può gettare luce sul problema di cui ci stiamo occupando. Nel regime feudale le terre erano gravate da una serie di diritti stratificati che, formando una scala continua e ascendente, giungevano per gradi dal contadino al re. In virtù della sua formazione lenta e progressiva, questo sistema non giunse mai a completezza nei paesi del continente; in Inghilterra, invece, esso era stato introdotto in blocco dopo la conquista normanna del 1066, assumendo “un rigore che appartiene unicamente ai sistemi sociali imposti”30, e tutta la terra, senza eccezione, fu concepita come proprietà (ownership) esclusiva del re (Universal Derivative Tenure). Risulta chiaro che in un quadro così concepito non vi è luogo per un concetto di proprietà del suolo in senso assoluto: col fenomeno delle recinzioni abbiamo notato come s’impose, a un certo punto, la necessità pratica e teorica di definire rigorosamente un tale concetto. L’eco di un’idea così strutturale e rigida del sovrano come primo signore del paese e dello stato come sua impresa privata era destinata a farsi sentire nel tempo e le sue implicazioni a livello economico, giuridico e politico, si sarebbero rivelate decisive proprio nel momento finale del declino dell’ordinamento feudale. 30 M. Bloch, op. cit., pp. 128-129. 27 Sul piano del diritto, il fattore di capitale importanza che qui si intravede è l’indistinzione, caratteristica del sistema di common law, tra diritto pubblico e diritto privato, sulla quale avremo modo di soffermarci in seguito. Sul piano delle finanze31, la concezione medievale che abbiamo brevemente delineato comportava che il re, in tempo di pace, dovesse “vivere del suo” e governare quindi servendosi solo delle entrate ordinarie derivanti dal patrimonio regio, sia per diritto di prerogativa, sia per concessione permanente; il ricorso alle entrate straordinarie, concesse dal Parlamento, sarebbe stato giustificato solo in circostanze estreme, ad esempio, in caso di guerra. L’inflazione e gli impegni governativi avevano però vanificato il principio dell’autosufficienza del re già in pieno Cinquecento, e l’effetto di tale dissoluzione, non apertamente riconosciuta sotto Elisabetta, fu la pesante eredità (aggravata dalla di lui generosa munificenza) ricevuta da Giacomo I e da Carlo I: non è un caso che su questi termini si sia articolata gran parte dell’aspra dialettica tra re e parlamento nel corso della prima metà del secolo. L’armonia nella classe dominante si ruppe quindi palesemente con l’avvento al trono di Giacomo I. La separazione della monarchia dalla sua base sociale fece sì che il re, per risolvere le difficoltà finanziarie, si spingesse ad invadere i diritti della nobiltà e della gentry. Lo scollamento, abbiamo visto, sembrava essersi aperto tra paese e classe dirigente. 31 G. Garavaglia, op. cit., pp. 457 ss. 28 Ciò che si prospetta adesso è un’ulteriore spaccatura, interna ora alla classe di governo, di cui vanno rintracciate almeno approssimativamente le origini. L’allargamento della base sociale che desiderava e reclamava un posto all’interno del ceto dirigente, evidente con l’espansione su larga scala delle scuole e delle università 32, determinò un movimento inflazionistico che portò ad un eccesso di postulanti in rapporto al numero dei posti disponibili33. La lotta per gli uffici e la connessa corruzione che ad essa si legava, rappresentò una questione dolente negli ultimi anni del governo di Elisabetta e non fu più eludibile sotto il primo re della dinastia Stuart. Inoltre, proprio in presenza di un tale processo, la gestione amministrativa da parte della corona secondo i cardini di un modello stabilito da secoli, non poteva non contribuire a peggiorare il quadro: la vendita dei titoli, l’ereditarietà delle cariche, la venalità degli uffici, il pagamento dei funzionari con onorari fluttuanti, gratifiche e prebende, ad esempio, facevano tutti parte di una gestione dello stato come impresa privata che non era più finanziariamente sostenibile34. La corsa per il prestigio e per il profitto che vedeva le fazioni aristocratiche in lotta per onori e impieghi rappresentò motivo di grave dissidio all’interno della classe dirigente, Cfr. M. H. Curtis, “The alienated intellectuals of Early Stuart England”, in T. Aston (a cura di), Crisis in Europe 1560-1660, London 1965 (tr. it. in Crisi in Europa 1560-1660. Saggi di Past and Present, Napoli 1968, pp. 395-423). 33 Cfr. J. E. Neale, art. cit., p. 206. 34 G. E. Aymler, Attempts at Administrative Reform 1625-1640, in “English Historical Review”, vol. 72, n. 283, 1957 (tr. it. in E. Rotelli e P. Schiera, Lo Stato Moderno, III: Accentramento e Rivolte, Bologna 1974, p. 24). 32 29 ma certamente non l’unico: la discordanza profonda era sulla linea politica della monarchia che, impegnata nel rafforzamento del potere centrale in veste di controllore e regolatore della vita economica, religiosa e sociale, era rea agli occhi dell’aristocrazia e, in particolare, agli occhi di proprietari terrieri e piccoli produttori urbani e di campagna inclini ad uno sviluppo dell’economia in senso capitalistico, di aver oltrepassato la misura necessaria per mantenere l’ordine esistente. Tale limite era rappresentato dall’equilibrio tra le istanze del Government e quelle della Property35: la sede di questa armonizzazione era stata storicamente il Parlamento, ed in epoca Tudor essa era stata possibile sia perché sorretta da una robusta ideologia dell’ordine cosmico (che a livello politico si rifletteva come naturale concordia degli interessi dei governati e dei governanti), sia perché vantaggiosa economicamente per le classi dominanti. L’accordo si era diversamente attuato a seconda delle circostanze anche in virtù della labilità dei confini tra le due sfere, ma ora che le esigenze della Ragion di Stato entravano in collisione con i diritti dei sudditi (proprietari), la definizione degli ambiti diveniva il problema cruciale. La costituzione Tudor non presentava nessuna soluzione al riguardo e non è un caso che lo scontro si presenti proprio quando la fine della linea dinastica richiederà l’insediamento di una nuova famiglia regnante; il logorio del compromesso tra potere regale e poteri feudali, tra ragion di stato e antica costituzione, imperniato sulla Cfr. G. A. Ritter, «Divine right» und Präerogative der englischen Könige 1603-1640, in “Historische Zeitschrift”, 196, 1963 (tr. it. in E. Rotelli e P. Schiera, Lo Stato Moderno, III: Accentramento e Rivolte, Bologna 1974, pp. 69-106). 35 30 distinzione tra dinastia e popolo-paese, faceva emergere in tutta la sua portata la questione fondamentale: “come dare legittimità alla proprietà (trasmissibilità ereditaria) del potere?”36. Intorno ai termini di tale questione si definirà, in maniera tortuosa e complessa, il passaggio dalla tradizione dinastica a quella nazional-statale in Inghilterra. Sin dal primo parlamento di Giacomo I (1604) il dissidio fu evidente: il Re, da una parte, si preoccupava di affermare che i privilegi della Camera Bassa dipendevano da una graziosa concessione del monarca; la formulazione, a rigor di termini esatta (perché derivante da una concezione del rapporto fra re e sudditi che faceva leva sull’asimmetria del contratto di signoria iniziato con l’avvento di Guglielmo I!), “inevitabilmente suggeriva che quanto era stato concesso poteva essere tolto”37; dall’altra, il Parlamento introduceva tra gli atti, in forma di apologia e soddisfazione, una difesa dei propri privilegi considerati diritto e eredità dovuta, preesistenti l’attacco del re normanno (the Norman Yoke) e superiori quindi rispetto alle prerogative regie. La concezione del potere di Giacomo I prese forma nella prassi politica con il Bate’s Case38 (1606), quando per la prima volta il Re sostenne l’utilizzo delle sue prerogative assolute ed illimitate per accedere ad una riscossione fiscale indipendente dal Parlamento. G. Giarrizzo, “COURT vs COUNTRY: la società dell’Europa barocca”, cit., p. 156. M. Kishlansky, cit., p. 112. 38 Gran parte del reddito reale proveniva dagli introiti doganali. Nel 1600 Elisabetta iniziò a riscuotere un’imposta speciale sull’uva passa. Nel 1606 John Bate, il maggior importatore del prodotto, si rifiutò di pagarla perché essa non era stata accordata alla corona dal parlamento. Cfr. Ibid., p. 118. 36 37 31 Il caso concerneva infatti il diritto della corona di elevare dazi aggiuntivi sulle merci importate; i giudici, chiamati ad esprimersi in proposito, decisero all’unanimità in favore del diritto del re di riscuotere le impositions. Le motivazioni addotte dal giudice Fleming, che costituirono successivamente uno dei pilastri delle teorie regaliste, indicavano un potere assoluto – distinto da quello abituale – del monarca; esso era tale perché aveva come fine il beneficio generale, la salus populi: “la sentenza si basava sulla distinzione mai affermatasi in Inghilterra a differenza che sul continente, fra diritto pubblico e diritto privato implicava che l’interesse della collettività, interpretato soltanto dal re in base alle regole della politica e del diritto statale, in caso di conflitto, prevalesse sui diritti del singolo”39. La situazione finanziaria ereditata da Elisabetta, peggiorata dall’incerta politica dello stesso Giacomo, era ora drammatica. Il Great Contract, che tentava un compromesso innovativo, prevedendo l’accordo di un sussidio che estinguesse tutti i debiti del re e di una tassa annuale sulla terra, fallì. Fallì soprattutto perché in esso era implicito un principio che sottraeva stabilmente al consenso di una delle parti le decisioni in merito al proprio profitto e proprietà, e tale parte, ovviamente, non diede il proprio assenso. In questa sottrazione stabile vi era il fondamento della possibilità di un azione di governo ordinaria e continuativa, indispensabile ormai per il funzionamento dello stato: il problema era che entrambe le parti in campo intendevano avocare a sé la titolarità del 39 G. A. Ritter, art. cit., p. 89. 32 potere e quindi anche la decisione sui modi e le condizioni di tale azione. Un compromesso contrattuale in merito era di fatto impraticabile. Appoggiandosi alla decisione sul caso Bate, il segretario Cecil, conte di Salisbury, aumentò le imposte e tassò nuove merci, facendo delle imposizioni una fonte regolare di entrate e muovendo così un passo forzato verso quella riforma sentita come urgente necessità dalla metà del XVI secolo; per il Parlamento, il pericolo potenziale della sentenza di Fleming si dimostrò attuale. Nel dibattito parlamentare del 1610 la Camera Bassa sostenne che la questione dei dazi ricadeva nella sfera della proprietà e non in quella del governo e William Hakevill, partendo da una concezione secondo la quale i diritti della corona facevano parte di un rapporto di diritto privato, concluse l’impossibilità di tassazione, persino in caso di guerra, al di fuori del Parlamento. Persino in caso di guerra. Il punto era estremamente importante perché portava alla luce l’importanza politica della definizione dei piani dell’ordinario e dello straordinario, della pace e della guerra, della normalità e della necessità. Si ricordi che il modello finanziario di stampo medievale prevedeva il ricorso alle entrate straordinarie approvate dal Parlamento soltanto in casi eccezionali. Ebbene, le difficoltà del Tesoro avevano finito per rovesciare i termini: la richiesta di erogazione di stanziamenti straordinari al Parlamento diventò una pratica abituale dal 1572 e proprio in 33 base a questo accresciuto potere, il Parlamento reclamò il ruolo esclusivo di regolatore normativo dell’economia ordinaria del paese. Un principio giuridico fondante della common law, in base al quale è l’azione del sovrano ad essere speciale ed eccezionale, veniva ora fatto valere sul piano delle entrate a favore della preminenza del Parlamento sul re. Ma quest’ultimo, dal piano stesso del diritto, avrebbe a sua volta sostenuto la propria prerogativa. Durante il governo di Carlo I vi furono due casi che segnarono profondamente la vicenda costituzionale inglese e che meritano quindi un’analisi più dettagliata: il Darnel’s Case (detto anche “dei Cinque Cavalieri”, 1627) e lo Hampden’s Case (meglio noto come Shipmoney Case, 1637). I due erano legati – il primo indirettamente, il secondo direttamente – alla questione della tassazione, dietro entrambi soffiava il vento della guerra e nelle due sentenze fu chiamata in causa la specialità e l’eccezionalità della prassi regale. Ancora una volta il conflitto con il Parlamento (quello del 1626, come è noto, fu sciolto prematuramente) aveva portato alla negazione dei sussidi al re, questa volta necessari al fine di sostenere il re danese Cristiano IV nella seconda fase della Guerra dei Trent’anni. 34 Il rimedio fu trovato nei forced loans, facenti parte da tempo dei programmi reali per accrescere le entrate, ma mai prima d’ora così direttamente legati all’impossibilità di ricevere aiuti dal Parlamento40. Nel 1627 la corona fece imprigionare più di settanta gentiluomini rei di averne rifiutato il pagamento; il King’s Bench – suprema corte del diritto comune – inviò al Consiglio Privato i writs di habeas corpus richiedendo le motivazioni dell’arresto qualora i prigionieri non ottenessero la libertà provvisoria. Il re rifiutò il rilascio su cauzione argomentando che gli arresti erano stati effettuati per ordine particolare del re (“per speciale mandatum domini regis”), evitando così di sottomettere la questione dei prestiti forzosi a trattazione giudiziaria41. Il quesito sulla causa dell’imprigionamento venne così ‘neutralizzato’ dietro una figura prevista dalla common law, che si rivelò carente ancora una volta di mezzi giuridici capaci di difendere i diritti dei singoli. Le questioni sollevate dal caso erano di primaria importanza, non solo perché riproponevano la questione della legittimità della raccolta di denaro senza l’approvazione del Parlamento, ma anche e sopratutto perché riguardavano la garanzia di un diritto che rientrava sempre nell’ambito semantico della property ma che prendeva ora un altro nome, quello di libertà. Un’incauta mossa di Carlo I fece esplodere i motivi di una crisi di fiducia nel suo operato che si veniva delineando già dai primi anni del regno. 40 41 M. Kishlansky, op. cit., p. 148. A. De Benedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Bologna 2001, pp. 182 ss. 35 In proposito del Darnel’s case i giudici non avevano emesso propriamente un giudizio, ma un rule of court che impediva che il caso venisse citato in futuro come precedente, circoscrivendolo a quella determinata occasione. L’Avvocato Generale però tentò di modificare il verbale in modo da poterlo usare come precedente legale. La Petition of Right fu la risposta vigorosa alla grave e palese minaccia del diritto che così si era palesata. In essa il Parlamento colpì puntualmente gli eccessi nell’uso della prerogativa (proibì, tra l’altro, di tassare senza il suo consenso previo e di arrestare senza procedimento giudiziario) ma non riuscì ad imbrigliare il loro uso nel caso di stato di necessità. Proprio su questo concetto si era giustificata l’estensione del tributo di sostegno alla marina (ship money) nel 1634; erano passati tre anni da allora quando John Hampden fece ricorso alle vie legali sostenendo che il tributo non poteva essere ancora difeso con l’argomento dell’emergenza temporanea e che i fondi avrebbero dovuto ricavarsi chiedendo un sussidio al parlamento. La vittoria su misura del re (nel tribunale i voti favorevoli furono sette, i contrari cinque) fu uno dei segni più chiari della crisi politica e giuridica in atto; su questa fragile base egli comunque governò, senza il Parlamento, dal 1629 al 1640, a dimostrazione dell’inefficacia dei mezzi giuridici esistenti a limitare l’azione del sovrano. Nella primavera del 1640 l’emergenza era talmente grave da non poter essere sottoposta a valutazione. La rivolta della Scozia e la minaccia d’invasione del paese spinsero Carlo a convocare il Parlamento, ma in undici anni le tensioni non si erano certo allentate: il compromesso non fu possibile e l’assemblea venne sciolta dopo poco più di quindici 36 giorni (Short Parliament); dopo le catastrofiche sconfitte belliche, nell’autunno ebbe inizio il Lungo Parlamento e nell’arco delle vicende che si susseguirono i colpi mortali inferti ai due corpi del re decisero la vittoria del Parlamento. Nel confronto entrambe le parti fecero ricorso al diritto, e non al potere, per sostenere le loro rispettive cause; i giuristi assunsero un ruolo di primissimo piano e il fulcro della disputa si collocò tutto all’interno della scienza giuridica. Proprio sui protagonisti, sulle posizioni e i termini di questo dibattito dovremo in seguito soffermarci. La lacerazione della common law tuttavia trasse anche e soprattutto origine dalle tensioni sociali del XVII secolo, e perciò il conflitto costituzionale non è pensabile semplicemente come un chiaro confronto tra dispotismo e libertà, come una rivolta contro la centralizzazione o come il tentativo fallito di mettere (di nuovo) in armonia le due sfere della prerogativa del re e dei diritti dei sudditi, del Government e della Property. Abbiamo visto come l’assolutismo inglese sia rinvenibile nella stretta alleanza tra re e ceto dirigente e non escluda, anzi necessiti del Parlamento come sede istituzionale del compromesso; come fosse la difesa della proprietà piuttosto che quella della libertà a imperniare l’alleanza, e infine come la concentrazione del potere consistesse in un doppio movimento che, finché le entrate lo consentirono, rafforzava reciprocamente monarchia e classe dei governanti. 37 Quando la sostenibilità finanziaria di questo assetto venne meno e la sovrapposizione degli ambiti e la vaghezza dei confini tra governo e proprietà posero gravi difficoltà di prassi politica, fu chiaro che il problema non era risolvibile con gli strumenti stessi del diritto esistente, che l’armonia rotta nei fatti, poteva rientrare nella teoria del diritto solo a patto di determinare un nuovo criterio di legittimità in nome del quale garantirsi la titolarità e il controllo sul potere centrale. L’appello alla proprietà ricompose in un ampio e incontrollabile movimento il malcontento di tutti i delusi, dal ceto dirigente toccato recentemente nei suoi privilegi, alla massa del popolo già da tempo martoriata, passando per i piccoli produttori delle campagne e delle città, e la causa della libertà economica di cui esso era portavoce sembrò accomunare le speranze e gli obbiettivi degli scontenti. Sembrò, perché le divisioni all’interno del Parlamento presto evidenziarono come la difesa della proprietà non potesse garantirsi in eguale maniera a tutti. Il discorso di Edmund Waller alla Camera dei Comuni nel 1641 in occasione del dibattito sulla Root and Branch Petition è estremamente esplicito: se il “bastione” dell’episcopato fosse preso – affermava Waller – “…da questo assalto del popolo e con ciò svelato una volta per tutte il mistero, che non possiamo negar loro nulla quando lo chiedono così in armi, la prossima volta avremo un duro compito nel difendere la nostra proprietà, come lo è stato l’ultima volta nel salvarci dalla prerogativa. Se…essi prevalgono nella richiesta di eguaglianza nelle faccende ecclesiastiche, la prossima richiesta può essere la Lex Agraria, una pari eguaglianza nei beni temporali. (…) sono convinto che qualora una eguale divisione di terre e di beni sia richiesta, si scopriranno 38 altrettanti punti della Scrittura, che sembrino favorire ciò…E per quanto riguarda gli abusi cui si riferisce nella Remonstrance, dove si racconta cosa questo o tal’altro pover’uomo abbia sofferto da parte dei vescovi, così vi possono essere presentati un migliaio di casi di poveri diavoli, che hanno ricevuto un duro trattamento dai loro signori”42. Nel 1642 la guerra civile scoppiò. 42 A Speech Made by Master Waller Esquire in the Honourable House of Commons (1641), citato da B. Manning, art. cit., p. 360. 39 II Il miracolo del sistema di common law Elementi preliminari di storia del diritto inglese Il percorso sin qui seguito ci ha portato ad indicare la molteplicità dei piani nei quali si articola la crisi sistemica da cui quest’analisi ha preso le mosse, evidenziando come in essa concorrano un insieme di fratture e cedimenti che finirono per coinvolgere l’intera struttura della società inglese. Abbiamo avuto modo di sottolineare l’importanza assunta dal diritto in questo contesto e di accennare ad alcuni degli elementi caratterizzanti il sistema di common law che proprio in questi anni mostrarono segni di ambiguità e di debolezza, rendendo palese la gravità di una situazione di incertezza giuridica che richiedeva pressantemente la messa a punto di una riforma complessiva. Per comprendere pienamente le voci che in vario modo parteciparono a questo dibattito è però necessario prendere ora in considerazione l’orizzonte teorico dal quale emersero. 40 La mirabile costruzione giuridica inglese aveva dietro di sé una lunga storia quando giunse la crisi, e a questa sopravvisse appellandosi proprio all’antichità e alla nobiltà delle proprie radici. In cerca di rimedi alle carenze man mano emerse, i giusperiti d’oltremanica volsero lo sguardo all’interno della tradizione di cui erano i rappresentanti, rinvenendovi strumenti endogeni di identificazione e correzione dei difetti; al contempo, attraverso un confronto agguerrito con le istanze che minacciavano il sistema dall’esterno, essi indicarono elementi di adattabilità e perfettibilità che permisero in fin dei conti la messa a punto di un potente meccanismo di difesa nel quale si articolavano abilmente conservazione e rinnovamento. Non è certo questa la sede per ripercorrere minutamente la vicenda storica del sistema di common law partendo dai suoi albori nel 1066 o dalla definizione delle sue caratteristiche profonde all’epoca di Enrico II, nonostante la profonda convinzione che essa racchiuda, come un microcosmo, questioni capitali del tortuoso e lungo cammino della modernità; si può e si deve però rendere conto del rilievo teorico delle tappe del percorso lungo il quale si definirono alcuni degli aspetti, taluni più noti, altri meno, che caratterizzarono sin da allora la peculiare declinazione giuridica inglese, al fine di scorgere distintamente la natura e i limiti della mediazione che in essa si aspirava realizzare. La precocità della tendenza all’accentramento a discapito dei poteri locali è un tratto indelebile della storia dell’Inghilterra, ma non propriamente un sigillo della sua atipicità. 41 In verità, sotto questo aspetto, la vicenda dell’Inghilterra non conferma tanto un presunto carattere autonomo e separato – la sua insularità, nel linguaggio della storiografia –, ma viene piuttosto a collocarsi in una singolare posizione nella storia europea, anticipando, seconda solo alla Sicilia normanna, tensioni e soluzioni che, pur con specificità territoriali e in maniera asincrona, segneranno l’intero sviluppo dei sistemi politici e giuridici occidentali43. In virtù di questa precocità, un fenomeno che idealmente può essere concepito come la contrapposizione fra monarchia e cetualismo dei corpi sociali si dilata in un ampio lasso temporale, all’interno del quale le modulazioni particolari che complicano il quadro fino a farlo quasi svanire appaiono sì ‘aumentate’, ma in cui risulta anche facilitata l’analisi delle dinamiche generali che intendiamo ora individuare. La domanda sociale di certezza del diritto muove con mano ferma i fili della storia giuridica e delle istituzioni. Essa chiama in scena, di volta in volta, organi giurisdizionali nuovi capaci di contrapporsi e concorrere con i vecchi per il raggiungimento della tutela e la garanzia di una giustizia oscuratasi, evidentemente, dietro la fossilizzazione o la devianza di quelli nati in precedenza. Il trionfo della giustizia regia in Inghilterra tra dodicesimo e tredicesimo secolo fu dovuto al minor costo e alla maggiore efficienza, rapidità ed equità dell’azione dei tribunali centrali rispetto a quelli locali. 43 Cfr. H. J. Berman, Law and Revolution. The Formation of the Western Legal Tradition, Cambridge 1983, cap. IX (tr. it., Diritto e Rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Bologna 1998). 42 Con le riforme del diritto processuale e sostanziale attuate da Enrico II si giungeva al termine della fase embrionale del processo di accentramento iniziato con Guglielmo il Conquistatore e proseguito dai suoi successori. Il concetto di sovranità che presupponeva l’introduzione dell’universal derivative tenure, sottostava anche alla particolare composizione del tribunale regio dal 1066 al 1154: la Curia regis “non fu solo un’assemblea feudale dei principali fittavoli del re” ma “comprendeva anche un gruppo di funzionari regi che amministravano gli affari della corona per tutto il regno”44. Il sensibile aumento dell’autorità centrale della Corona che in questo modo si delineava procedeva lungo un binario doppio: da un parte, coinvolgeva coloro – o almeno una parte di coloro – a discapito dei quali la giurisdizione regia si era estesa, ridefinendone il profilo sotto la veste di delegatari locali, amministratori di giustizia incaricati di agire in nome del re, baroni che, nonostante la sottrazione di rendita connessa direttamente alla riduzione di giurisdizione, dopo poco più di due secoli avrebbero riconosciuto tale potestà superiore e richiesto esplicitamente la sua opera di garanzia 45; dall’altra parte, veniva creato quell’importantissimo corpo di ufficiali itineranti la cui professionalizzazione sarebbe stata raggiunta solo sotto Enrico II. Questo quadro stabiliva sì un sistema altamente centralizzato, ma rimaneva pur sempre fondato sul controllo personale del re sul proprio seguito e sui diritti feudali; la sua azione, inoltre, restava circoscritta all’intervento straordinario e di rimedio in occasione di gravi reati o di torti avvenuti in casi specifici. 44 45 Ibid., p. 436. Cfr. U. Mattei, Il Modello di Common Law, Torino 2010, Capitolo Primo. 43 Le riforme di Enrico II si mossero proprio nella direzione della stabilizzazione e della regolarizzazione del sistema. È estremamente interessante notare come la battaglia istituzionale dal sovrano combattuta, che si concluse conferendo carattere permanente ai tribunali centrali e sigillando in via definitiva l’ampliamento della giurisdizione regia, muoveva esplicitamente, più che contro le generiche pretese dei baroni, contro la tendenza specifica dei funzionari locali a “convertire i propri doveri ufficiali in diritti patrimoniali”46: gli anni dell’interregno di Stefano di Blois furono segnati da questa prima e significativa forma di sclerosi dell’organizzazione, a causa della quale si faceva palese una reificazione dell’incarico che finiva per stravolgere le forme e i fini del compito assegnato, trasformando in titolare il delegatario. Dal seguente aneddoto traspare, a nostro avviso, la chiara percezione della questione in gioco nella riforma di Enrico II. «Una volta accadde che dopo aver sentito una decisione concisa e giusta resa nei confronti di un ricco a favore di un povero, dissi a Lord Ranolfo [Glanvill]: “Sebbene la sentenza a favore del povero avrebbe potuto essere rimandata mediante molti cavilli, egli l’aveva raggiunta per mezzo di una decisione felice e veloce”. “Certamente”, disse Ranulfo, “noi qui decidiamo le cause in modo molto più rapido dei tuoi vescovi nelle 46 F. W. Maitland, The Forms of Actions at Common Law, Cambridge 1948, p. 12, citato da U. Mattei, op. cit., p. 4. 44 loro chiese”. “È vero”, dissi, “ma se il tuo re fosse così distante come è il papa dai suoi vescovi, penso che anche voi sareste lenti come loro”» (corsivo nostro)47. La precisazione del re plantageneto – nelle mani del quale, conviene ricordare, si veniva ora a concentrare un esteso dominio che comprendeva anche tutta la Francia occidentale – coglieva in controluce uno dei punti nodali del problema insito nella sfida dell’affermazione storica della common law, ovvero, riuscire a conferire efficacia all’azione di un sistema giuridico centralizzato operante su un vasto territorio, e quindi anche necessariamente in regioni distanti dal centro, lontane dagli occhi del sovrano: il successo dipendeva dalla celerità e dalla felicità dell’esercizio della giustizia del re anche, e forse soprattutto, in assenza del re. L’assicurazione dell’indispensabile continuità amministrativa in un contesto spaziale dilatato richiedeva la formazione di una monarchia impersonale in grado di conferire una sorta di ubiquità ad una figura che per la maggior parte dei suoi sudditi era ormai divenuta astratta48. Due furono gli strumenti predisposti al raggiungimento di tal fine: i writs, sui quali ci soffermeremo in seguito, e i giudici itineranti49. 47 W. Map, De Nugis Curialium, a cura di M. R. James, Oxford 1914, p. 261, citato da H. J. Berman, op. cit., p. 434. 48 Cfr. C. Carozzi, “Le monarchie feudali: Francia e Inghilterra”, in N. Tranfaglia e M. Firpo (diretta da), La Storia: i grandi problemi dal Medioevo all’età contemporanea, Torino 1986, vol. 2, p. 359. Vd. anche H. G. Richardson e G. O. Sayles, The Governance of Medieval England from the Conquest to Magna Carta, Edimburgo 1963, p. 169. 49 Cfr. Ch. H. McIllwain, op. cit., p. 80. 45 Ma la nozione chiave su cui poggerà la possibilità stessa dell’intera costruzione è uno dei pilastri del diritto comune inglese, sviluppo estremo, in verità, di un fondamentale principio di diritto comune europeo, vale a dire, la Pace del Re50. Il trapasso dal privato al pubblico nella sfera del diritto repressivo è segnato dall’affermarsi di questa specifica idea di pace e rimanda a un concetto di law che è common non perché consuetudinario, ma perché eguale in tutto il regno: eguale in virtù del suo esser promanato da organi legislativi e giudiziari centrali, comune in quanto corrispondente ad un’unità politica concretizzatasi anche come effetto dell’attività di un ceto di giuristi professionisti. Si tratta di un aspetto originario che deve essere rimarcato con forza perché, pur parzialmente eclissatosi nell’evoluzione storica del sistema giuridico inglese51, non scompare mai, anzi e in maniera significativa riemerge prepotentemente ogni qual volta le strutture di quest’ultimo si irrigidiscono, minacciando così la pace stessa. Si tenga a mente quindi come la sorprendente via percorsa dalla common law inizi di fatto con il gesto di un’invisibile mano sovrana che stila (di diritto scritto si tratta52!) un diritto che, nel suo articolarsi effettuale, proseguirà il cammino tendendo Cfr. M. Lupoi, Alle radici del mondo giuridico europeo, Roma 1995, pp. 484-485: “(…) è nella monarchia inglese del XII secolo che si palesa l’estremo sviluppo del bannum carolingio: la Pace del Re avvolge l’intero Stato e la sua violazione è un crimine contro il re; su questa nozione viene posto uno fra i più importanti pilastri della giurisdizione accentrata di common law e dunque del diritto comune inglese”. 51 Cfr. U. Mattei, op. cit.: “Il «miracolo» del common law è quello di un diritto regio, e quindi comune a tutti i sudditi, nato negli interstizi dei diritti particolari e via via sviluppatosi in maniera tale per cui la sua natura di trionfo del centralismo regio non venne mai percepita, se non in misura comparativamente assai limitata. Un diritto regio che ben presto si affrancò anche dallo stesso Re e venne ad assumere tali caratteristiche di tecnicismo e, in definitiva, di imparzialità, che gli consentirono di sopravvivere a guerre civili, rivoluzioni e rivolgimenti storici epocali, giungendo fino a noi con immutato carisma e prestigio sociale”. Il fatto storico all’origine del «miracolo» del diritto inglese è quindi il trionfo del Re e della sua pace. 52 Cfr. M. Lupoi, op. cit., p. 369. 50 46 progressivamente a rimuovere la sua fonte, per giungere, all’apice di quest’oblio, persino a volerne vanificare la presenza, immobilizzandola. Non ingannino le parole. Difficilmente si può immaginare qualcosa di più concreto ed evidente delle riforme messe in atto da Enrico II: l’impronta che egli diede alle forme di giustizia fu talmente profonda e definitiva da far sì che queste non venissero mai più messe seriamente in discussione; ma ciò che orientava il percorso era la ricerca e la formulazione di risposte alla domanda di certezza del diritto, prima e più che un’adozione cosciente e personale della Corona. L’innovazione nelle istituzioni in direzione della regolarità e permanenza del loro carattere fu dunque il tratto saliente della trasformazione dell’amministrazione e della giustizia pubblica guidata dal Re: nel 1178 il Bench, tribunale antenato della Court of Common Pleas, che in futuro avrebbe deciso le cause civili, aveva dimora fissa a Westminister; all’inizio del secolo successivo la Court of King’s Bench giudicava regolarmente e in presenza del Re le cause che riguardavano in maniera diretta la Corona; si trovava ad affiancare entrambe un organismo dall’importanza cruciale, la Cancelleria, incaricato di emettere ordini in nome del Re nella forma di writs o di altri tipi di documenti formali sigillati col Great Seal (avremo modo di sottolineare più precisamente l’enorme rilievo di questo istituto quando affronteremo la questione della nascita dell’Equity). Sul fronte dell’organizzazione delle finanze, lo Scacchiere completava la configurazione dello Stato inglese, tracciando un quadro d’insieme in cui è ben visibile sia lo sforzo di 47 definizione istituzionale, sia l’indicazione del pesante compito dell’arte di governo per i secoli a venire, ovvero il mantenimento del precario equilibrio tra due elementi essenziali, la giustizia e le finanze. Per comprendere meglio il modo in cui i mutamenti dei metodi e delle procedure trasformarono anche il contenuto della giustizia converrà soffermarsi ora su una delle principali tra le riforme enriciane, la giurisdizionalizzazione dei writs. Per secoli in Europa la notificazione della volontà dei re era avvenuta mediante brevi ordini scritti (i brevia della lingua latina), i quali assunsero in inglese il nome di writ: a questi “viene ascritto il merito di aver fatto venire in esistenza non soltanto un sistema centralizzato di giustizia ed una gerarchia unitaria di corti, ma anche un medesimo diritto oggettivo per l’intero regno d’Inghilterra”53. Seguendo un percorso complesso di progressiva specializzazione, il writ inglese conosce durante il XII secolo – ultima delle tappe in cui è scandibile la sua evoluzione – una fase di ulteriore specificazione, tendendo a definirsi come mezzo tecnico dell’imperio reale tanto per l’emanazione di ordini amministrativi, quanto per l’avvio delle cause davanti alle corti del Re. Con questo passaggio finale la forma propria nella quale si concretizzava il carattere occasionale e rimediale della giustizia regia di cui abbiamo già avuto modo di dire, diveniva uno strumento tecnico di uso regolare che coinvolgeva in maniera attiva i funzionari della Corona nella Corte, gli avvocati e infine la popolazione all’interno della giuria. 53 Ibid., p. 389. 48 Nella sua più antica versione il writ conteneva un ordine per mezzo del quale il Re comandava agli sceriffi di attivarsi in un determinato senso per la soddisfazione della parte che era riuscita a portare all’attenzione del sovrano il torto subito; l’ordine contenuto nell’executive writ non si dirigeva contro i pronunciamenti dei tribunali locali (non si trattava quindi di un giudizio d’appello), ma era la dichiarazione di un rimedio ultimo concesso dalla graziosa volontà del Re, nel caso eccezionale in cui la giurisdizione feudale non fosse riuscita a fare pieno diritto. Inserendosi così nelle lacune delle procedure consuete (gli “interstizi” di Sumner Maine54), il diritto regio inglese mostrava sin dagli inizi uno dei suoi tratti peculiari: assumendo le sembianze della grazia, esso s’insinuava prepotentemente nei luoghi non raggiunti dalla giustizia ordinaria per realizzare un ‘miracoloso’ affinamento giurisprudenziale della giurisprudenza stessa; in questo modo la giustizia del Re emendava sì in via straordinaria il diritto tradizionale esistente, ma finiva insensibilmente anche per trasformarne la struttura portante in maniera duratura. Con Enrico II assistiamo alla metamorfosi dell’antico executive writ in judicial writ: egli “trasformò l’ordine regio dal comando di «Fare questo o quello» in «Convocazione di un’inchiesta da parte dei giudici per definire la questione controversa – e lì ottenere il writ»”55. 54 55 Cfr. H. Sumner Maine, Dissertations on Early Law and Customs, London 1981, p. 389. H. J. Berman, op. cit., p. 446. 49 Con questo slittamento capitale verso la procedura intesa in senso tecnico – nel quale ci sembra appunto di poter intravedere i primi passi della ‘miracolosa’ mimetizzazione dell’intervento regio, nonché la prima manifestazione di quello* che diventerà il perno del diritto inglese – si infrangeva l’idea dell’ordine imperativo e monolitico del potere regale: una decisione personale chiamata a tutelare una determinata posizione giuridica cedeva il passo ad un comando articolato; mentre nel breve esecutivo si realizzava una giustizia che consisteva nell’essere risposta univoca e definitiva al tenace sforzo, anche economico, in virtù del quale la voce della parte lesa aveva raggiunto le orecchie del sovrano smuovendone la volontà, nel breve giurisdizionale prendeva corpo invece un bisogno che riguardava la risoluzione di più numerose e complesse cause, l’insieme delle quali richiedeva adesso l’adempimento di un compito di tutela quantitativamente e qualitativamente mutato, perché connesso al mantenimento della pace del re. In nome di questo alto principio, all’immediatezza, che legava precedentemente il venire a conoscenza del torto alla presa di decisione in merito, si sostituiva un lasso di tempo nel quale si sarebbe dovuta determinare la rilevanza giuridica degli avvenimenti: per decidere, al Re non sarebbe più stato sufficiente ‘venire a sapere’; ora egli era ‘tenuto a sapere’, e perciò gli era indispensabile la definizione mediata e quanto più oggettiva ed imparziale della questione di fatto. La giurisdizione regia veniva quindi a stabilirsi, innanzitutto e ancora, sull’emissione dell’ordine scritto, con la fondamentale differenza però che il nuovo writ non conteneva un ordine a procedere, ma comandava di avviare un’indagine orientata a condurre ad un processo; in questa maniera la giustizia del Re stabiliva anche, e in maniera innovativa, i modi specifici secondo i quali tale procedimento doveva essere condotto. 50 Il consolidamento del sistema di giustizia centralizzato ad opera di Enrico II non andava nella direzione dell’onnipervasività, né il suo ampliamento significò l’abolizione dei tribunali tradizionali, ma rappresentava piuttosto la “creazione di una giurisdizione regia concorrente nelle cause ordinarie che coinvolgevano particolari tipi di pretese – ed esse erano piuttosto numerose – che avevano un impatto sull’ordine pubblico”56. In questo modo, si definiva in nome della stabilità del regno un ambito di specifiche cause suscettibili di essere giudicate anche dai tribunali reali e nelle rigide procedure di questi ultimi veniva normalizzato il nesso torto/rimedio per una serie determinata di controversie. Il modello dei writs aveva dato origine a nuovi tipi di forms of action il cui metodo di prova non era più l’ordalia o il duello, ma quello di una giuria chiamata a decidere in termini di vero o falso su un punto di rilevanza giuridica preparato dai common lawyers: furono infatti questi ultimi ad adoperarsi maggiormente per perfezionare l’attacco sferzato al monopolio dei diritti locali, affinando e forzando con ogni mezzo l’argomentazione legale (pleading) in modo da far rientrare i loro casi nella classe di torti tutelata dalle corti centrali. In sinergia con la loro azione e in base al principio enunciato da Bracton secondo il quale “dove c’è un torto, c’è un rimedio” (che in verità corrisponde ad affermare che la classe delle causes of action è aperta), la Cancelleria moltiplicava l’emissione di writs dando avvio ad un’attività che progressivamente avrebbe visto addensarsi, intorno a casi 56 Ibid., p. 453. 51 simili, simili rimedi, producendo brevi stereotipati che rappresentavano di fatto, nonostante l’apparenza procedurale, un esercizio legislativo. Furono proprio questi passi evolutivi a conferire al diritto inglese quello stile giurisprudenziale peculiare che costituisce storicamente un’alternativa alle teorie di responsabilità giuridica sull’esempio del diritto canonico. Questo sviluppo dinamico ebbe sul piano del governo enormi ripercussioni, le quali però incontrarono ben presto un limite intrinseco. Il sistema dei writs incarnava una dialettica complessa tra ampliamento e delimitazione della giurisdizione regia, che vedeva il farsi ordinario e regolare dell’intervento indissolubilmente legato alla specificazione tecnica dei casi e delle modalità di agire; proprio il fatto che il suo carattere fosse concorrenziale e non onnicomprensivo, permise ai poteri locali di porre un freno alla produzione di brevi da parte della Cancelleria, finendo per modificare con le sue stesse armi il segno originario del sistema: la cristallizzazione delle forms of action, ascrivibile in gran parte alla limitazione dell’emissione di writs ad opera delle Provisions of Oxford del 1258, fece sì che fosse un numero chiuso di rimedi ora a precedere e determinare i diritti, invertendo di fatto i termini dell’affermazione di Bracton57. In questa fase successiva e per molti versi definitiva, furono gettate le basi di un assetto istituzionale nel quali formule e mandati regi, nati sia per arginare derive anarchiche e violente, sia per competere in efficacia e agilità con i tribunali locali, feudali ed 57 F. W. Maitland, op. cit., p. 6. 52 ecclesiastici, divennero l’ossatura immutabile del diritto e il nucleo permanente dell’azione di governo. La spinta centralistica in Inghilterra non voleva né poteva mirare alla scomparsa delle corti locali; la cifra profonda del suo precoce successo consistette proprio nel definire in maniera duratura una modalità di rapporto tra poteri coesistenti, tracciando così uno schema concettuale destinato ad avere grandissima fortuna e rilievo nella storia del pensiero e delle istituzioni anglosassoni. Si trattò dell’affermazione di una tecnica giuspolitica rivelatasi doppiamente capace: essa garantiva, anzitutto, certezza giuridica, perché agiva in nome di un principio generale di mantenimento della pace, definiva specifici ambiti di competenza per ognuna delle istanze e stabiliva rigide forme procedurali; si dimostrava poi un formidabile strumento politico in grado di spostare i confini stessi del potere. Con l’espansione della giurisdizione regia e il conseguente ridimensionamento dei poteri ecclesiastici e feudali si realizzò per la prima volta un modello di coesistenza e restrizione delle sfere di potere che, presto fu chiaro, era applicabile anche alla delimitazione del potere stesso del Re. Tentiamo di spiegare meglio le caratteristiche di questo nuovo modello ricostruendone sinteticamente le vicende all’origine. All’apice della sua evoluzione, il sistema dei writs era riuscito a mettere in moto un meccanismo di produzione di giustizia effettivamente alternativo, espressione di un potere – quello reale – il cui compito consisteva 53 esclusivamente nel definire forme procedurali proprie, nelle quali sarebbero andate poi a inserirsi e a risolversi rivendicazioni e torti determinati. Nella trama sottile di questa rilevante limitazione di competenza è importante notare come la comparsa di corti centrali così concepite, pur implicando la nascita di soggetti nuovi, lasci immutato un aspetto strutturale della situazione precedente: il giudizio, nell’antico processo, è il giudizio di Dio; ogni problematicità legale attiene esclusivamente alla forma seguita nell’avviare il caso. Non accade diversamente nei tribunali del Re, dove ogni sentenza è una Sua sentenza, certa e giusta purché corrispondente a specifiche forms of action. Nei tribunali antichi e nuovi la centralità del momento formale garantiva, in entrata, un’enorme plasticità data sia dalla possibilità di adeguare svariati casi alle numerose forme consuete, sia dalla moltiplicabilità delle forme d’azione stesse; in uscita, si stabiliva una rigida, univoca e regolare connessione con un verdetto infallibile in grado di ristabilire la giustizia. Intorno ai writs si era articolato quindi un percorso parallelo (e per alcuni versi analogo a quelli già esistenti) che, sviluppatosi inizialmente di volta in volta in risposta a puntuali esigenze dei postulanti, si collocava fuori da – e in opposizione all’idea di – un sistema giuridico comprensivo. La successiva cristallizzazione delle forme d’azione sta a testimoniare però l’impossibilità pratica di un’amministrazione della giustizia indefinitamente aperta al 54 caso concreto: la plausibilità e l’appetibilità politica della common law richiesero la limitazione del numero dei writs, ovvero la necessità di segnare il confine entro e non oltre il quale sarebbe stata riconosciuta la legittimità dell’azione delle corti reali. In questo modo il nuovo sistema di diritto, pur rimanendo estraneo ad ogni cornice astratta, sacrificava uno dei suoi elementi di plasticità a favore del consolidamento sia della procedura come perno stabile della sua attività, sia delle forme d’azione già stabilite come elementi strutturali immodificabili. Lungo questo percorso era stata la giurisdizionalizzazione dei writs sotto Enrico II ad indicare il metodo in virtù del quale sarebbe stata possibile l’espansione ed infine il trionfo della common law: il successo dell’azione dei tribunali regi non sarebbe spiegabile senza l’introduzione di questa mediazione, grazie alla quale veniva gettato un ponte tra centro e periferia, nonché tra incertezza e verità. È stata però un’altra riforma enriciana, intimamente legata al mutamento dei writs ma di cui precedentemente si è detto solo en passant, a conferire spessore materiale ed efficacia concreta ad un processo che, esposto solo nei termini suddetti, potrebbe apparire fin troppo etereo. Con l’introduzione della giuria si portava sul piano del nuovo sistema di diritto una pratica già esistente nell’amministrazione normanna: l’uso di inchieste giurate per l’ottenimento di informazioni rilevanti. 55 La più imponente e degna di memoria fu condotta da Guglielmo I, e sulla sua base scaturì la compilazione del Domesday Book, il Libro del Giorno del Giudizio58, titolo più che adatto per il primo catasto fondiario della storia d’Europa. Occasionalmente anche i tribunali ecclesiastici avevano fatto ricorso a giurie di dodici membri per la delucidazione e talvolta perfino per la decisione di controversie. L’adozione stabile del processo per inchiesta nella cause civili di competenza dei tribunali centrali rappresentò un’importantissima innovazione. Grazie ad essa trovarono spazio fattori determinanti che avrebbero finito per rendere il trial by jury un metodo probatorio preferibile rispetto a quelli dell’ordalia o del duello. Preferibile perché migliore: dal punto di vista politico, il coinvolgimento della popolazione locale sotto la guida di funzionari regi risolse la tensione tra l’esercizio decentrato della giustizia e il suo controllo centralizzato, offrendo un’alternativa accettabile rispetto alle antiche assemblee feudali; dal punto di vista giuridico, il suo lento affermarsi significò il rigetto della procedura inquisitoria tipica del mondo di civil law e sigillò uno tra i più distintivi caratteri del sistema di diritto inglese. Questo passaggio si diede in via definitiva però solo quando vi fu il bisogno di dare una risposta istituzionale all’abolizione dell’ordalia sancita dal concilio Lateranense IV (1215). La prima occorrenza del nome con cui è nota l’inchiesta si trova nel Dialogus de Scaccario, scritto sotto Enrico II da Richard FitzNeal, il quale così spiegava: “For this reason we call this book the ‘book of judgments’, not because it contains decisions made in controversial cases, but because from it, as from the Last Judgment, there is no further appeal”. Vd. E. Amt, S. D. Church (a cura di), Dialogus de Scaccario, and Costitutio Domus Regis: The Dialogue of the Exchequer, and The Establishment of the Royal Household, New York 2007, pp. 96-99. 58 56 L’introduzione di un elemento umano chiamato a sostituire il giudizio di Dio espresso attraverso gli elementi, non è in alcun modo interpretabile come gesto unilaterale e risolutivo, segno di un processo di secolarizzazione banalmente inteso59; esso rappresentò piuttosto la travagliata e sofferta risposta da parte della Corona, ormai sul capo di Enrico III, ad un divieto della Chiesa che di fatto lasciava disarmata la giustizia penale del regno60. In un primo momento ai giurati venne chiesto di riferire quanto sapevano in base all’ipotesi che essi, in quanto compaesani dell’imputato, conoscessero la verità sui fatti e potessero quindi giurare di dichiararla, per l’appunto, veracemente. La varietà e la discrepanza, nonché talvolta persino la contraddittorietà e l’inattendibilità dei veredicta – vicini piuttosto a testimonianze e dicerie che non a verdetti veri e propri – delineò una procedura inquisitoria incerta, nella quale il giudice, esaminata l’informazione raccolta, risolti i punti di contrasto e così raggiunta l’evidenza, decideva e sulla questione di fatto, e sulla questione di diritto61. L’infallibilità del giudizio sembrava messa in questa maniera a dura prova, al punto da fornire l’occasione a coloro che si opponevano all’abolizione dell’ordalia di difenderne il prestigio e la certezza. Un breve accenno sarà forse sufficiente per cogliere la complessità della vicenda: l’ordalia e il duello giudiziario, pratiche cruciali grazie alle quali si mantiene la separazione tra la parzialità dell’uomo e l’infallibilità di Dio, vengono superati e condannati nel concilio del 1215 perché la “giustizia della Chiesa tenderà a conciliare e inglobare la giustizia umana e la giustizia divina” (corsivo nostro). Vd. P. Prodi, Una storia della giustizia, Bologna 2000, p. 48. 60 Cfr. T. F. T. Plucknett, A concise history of the common law, Boston 1956, p. 119. 61 Ibid., pp. 123-124. 59 57 Il baricentro venne quindi spostato all’opposto estremo: i giudici scaricarono l’intera responsabilità sulla giuria, chiamata ora a pronunciarsi semplicemente in termini di vero o falso, ed ebbero ad affermare l’imperscrutabilità del verdetto. Per eccesso, la sentenza risultava così una specie di nuova ordalia, accettata pienamente senza venir posta in alcun modo in discussione. La razionalizzazione della giuria fu il risultato di un lento procedere per tentativi alla ricerca della certezza del diritto. La definizione di un istituto che avrebbe caratterizzato in maniera così peculiare l’esperienza giuridica inglese dovette attendere la progressiva distinzione tra la funzione della testimonianza e quella del verdetto per poter ribadire poi chiaramente la separazione tra jury e judge. Soltanto quando al veredictum corrispose la scoperta della verità dei fatti, e non più la dichiarazione veritiera di quanto saputo (a metà del XVI secolo ai giurati non era consentito di ricorrere alla propria conoscenza personale dei fatti in causa; essi dovevano giudicare solo ‘secondo coscienza’), fu possibile assegnare alla giuria una sfera di azione autonoma ed imparziale, differente sia da quella dei testimoni, sia da quella dei giudici. Concepire gli iuratores esclusivamente e propriamente come judges of fact in dovere di pronunciare un giudizio unanime, essendo la verità una ed una sola, implicava la separazione netta tra questione di fatto, di competenza della giuria, e questione di diritto, appannaggio unico della corte. 58 Naturalmente solo parte di questo percorso fu compiuto durante il regno di Enrico II. Nell’ambito delle cause penali, l’Assise di Clarendon (1166) aveva reso stabile l’accusa da parte della giuria, ma non il processo, il quale veniva regolarizzato per i sospettati di fellonia nella forma esclusiva – si badi bene – dell’ordalia dell’acqua fredda, escludendo quella del fuoco e il duello. Diversa ed estremamente significativa fu la disposizione della medesima assemblea in ambito civile: l’assize of novel disseisin – rivelatasi col tempo una delle leggi più importanti tra quelle mai emanate in Inghilterra62 – stabiliva che sarebbe stato il processo per inchiesta a decidere azioni di reintegrazione in caso di recente spossessamento. Nel 1176 l’assize of mort d’ancestor, e più tardi quella di darrein presentment completarono il quadro delle assisi possessorie: l’estensione dell’uso della giuria riguardò rispettivamente le questioni circa il possesso in caso di morte del proprietario e quelle in cui si doveva determinare la parte cui spettasse il diritto di aggiudicare un beneficio ecclesiastico resosi vacante. La regolarizzazione del trial by jury per questo specifico tipo di cause pone in evidenza la stretta connessione tra l’impiego d’inchieste giurate e la protezione del possesso63 (visibile per la verità già nelle linee guida della compilazione del Domesday Book, dove la tenure da tutelare era però quella del Re). 62 Cfr. F. Pollock, F. W. Maitland, The History of English Law Before the Time of Edward I, vol. I, New Jersey 2008, p. 146. 63 Ibid., p. 143. 59 Essa rivela anche di più: il programma complessivo di normalizzazione e pacificazione che Enrico II si propose di realizzare, doveva intercettare il piano sul quale la conflittualità dimostrava essere maggiormente frutto dell’intreccio e dell’interdipendenza tra moventi di tipo giuridico, politico ed economico, vale a dire, il diritto di proprietà64. Fu proprio su questo piano che le innovazioni formali si dimostrarono insufficienti: il re “aveva bisogno di qualcosa di più delle nuove tecniche di soluzione delle controversie mediante tribunali professionali, dei vari tipi di breve, delle inchieste regie e delle forme d’azione; egli aveva bisogno anche di un nuovo ordine sostanziale della proprietà terriera, un ordine che fosse in grado di penetrare la complessità degli interessi politici ed economici coinvolti. Lo trovò nel concetto di possesso”65. La complessità di interessi era senz’altro correlata alla compresenza di molteplici diritti sulla terra propria del sistema di diritto feudale. Si trattava di una realtà alla quale mal si adattavano i concetti di possesso e di proprietà di tipo romano, perché qui il secondo non poteva assumere il carattere di esclusività assoluta, ed il primo indicava più della semplice occupazione di fatto o dei diritti che da essa derivavano. Per comprendere la rilevanza generale dell’argomento, nonché quella specifica rispetto alla nostra analisi, converrà riportare le seguenti parole di McIlwain: “Il diritto medievale di proprietà era anche il diritto alle franchigie o libertà, dello status personale, del pubblico ufficio e di molto altro ancora. Ad esempio, anche una cosa così costituzionale come la prerogativa del re, quando diventava oggetto di discussione giuridica, era trattata nei tribunali applicando le stesse norme, che valevano per il diritto di proprietà di un suddito”. Vd. Ch. H. McIlwain, op. cit., p. 82. 65 H. J. Berman, op. cit., p. 455. 64 60 L’ampliamento del concetto di possesso significava quindi il perfezionamento di uno spazio di tutela che nel diritto romano restava limitato e subordinato a quello della tutela della proprietà, e che reclamava invece in questo contesto uno statuto giuridico autonomo, rivendicabile, in fin dei conti, persino nei confronti del proprietario stesso. L’assise di recente spossessamento era per l’appunto un’azione contro l’espropriatore, indipendente dalla proprietà. Essa stabiliva una procedura regia che sanciva una legittimità nuova e forgiava tenacemente un istituto sconosciuto in precedenza: il possesso incondizionato. La cifra di questo fondamentale concetto sembra essere la sublimazione di una situazione di fatto a diritto reale. Nella saisine il possesso veniva innalzato al rango dei diritti e così lo si rendeva non solo indipendente dal controllo e dall’occupazione fisica (corpore) della terra, ma anche riferibile a beni mobili o immateriali. La giurisdizione regia, illuminando una zona d’ombra concettuale alla quale corrispondeva però un’evidente realtà materiale, definiva un ambito di propria competenza che sottraeva potere (ma non solo, lo vedremo appena di seguito) ai tribunali baronali ed ecclesiastici. Questa categorizzazione faceva “parlare” la realtà conferendogli certezza: perciò fu in grado di dar vita ad un ordine sostanziale nuovo. 61 Compiuta questa sublimazione, dove veniva a collocarsi la fonte di legittimità della saisine? Essa risiedeva evidentemente nel passato. Si trattava di “un possesso reso venerabile dal tempo”66 che il re avrebbe protetto indefessamente una volta sentite le risposte a specifiche domande di fatto. Non una raccolta di prove, dunque, ma un celere ed efficace appello alla memoria degli uomini innervava il processo che avrebbe offerto rimedio contro il disseisin, rivelando una movenza tipica della common law: l’intervento eccezionale del re colmava celermente una lacuna nelle procedure tradizionali, non creando – almeno all’apparenza – diritto, ma conferendo spessore giuridico a posizioni antiche non ancora tutelate. In maniera ancora emblematica, la stabilizzazione delle assisi possessorie dimostra come l’espansione del sistema di giustizia regio implicò qualcosa di più complesso della semplice sottrazione di giurisdizione alle corti feudali ed ecclesiastiche. All’interno di queste assisi vigeva esplicitamente un principio di diritto privato che il re aveva già fatto valere a difesa dei propri possedimenti e che ora, per grazia e in via eccezionale, veniva reso agibile anche ai liberi possessori; vigeva inoltre, potenzialmente, un importantissimo principio di diritto pubblico, a dimostrazione dell’indistinguibilità e della sovrapposizione degli ambiti giuridici in epoca medievale particolarmente nel mondo di common law: “the king himself will protect by royal writ and inquest of neighbours every seisin of a free tenement. It is a principle which in 66 M. Bloch, La société féodale, Paris 1939-40, Vol. I, Libro secondo, cap. V (trad. it., La società feudale, Torino 1974, p. 136) 62 course of time can be made good even against kings. The most famous words of Magna Carta will enshrine the formula of the novel disseisin”67. Converrà soffermarsi sulla prima parte della lucida formulazione di Pollock e Maitland. La definizione delle cause specifiche di competenza dei tribunali centrali, condusse il diritto inglese nella seconda metà del dodicesimo secolo a distinguere nettamente due grandi categorie di possedimenti fondiari: da una parte, vennero qualificate come nonlibere le terre gravate da servizi disonoranti e dalla durata precaria (vi furono comprese quindi la maggioranza delle piccole aziende contadine); le restanti terre, dall’altra, costituirono le free tenures, alle quali si estese col tempo il nome e le caratteristiche – l’ereditarietà in primo luogo – dei fees68. Solo il possesso di queste ultime sarebbe stato protetto dalle corti del re; tutto ciò che riguardava le unfree tenures rimaneva invece in mano alle corti locali. Concepita in questo modo ed inserita in un quadro nel quale i termini del binomio terrauomo risultavano difficilmente individuabili, la separazione tra tribunali regi e feudali portava con sé una nuova classificazione degli status, modificando anzitutto la nozione stessa di libertà e schiavitù. Secondo quale criterio? Ebbene, secondo il criterio della tutela del diritto. 67 68 F. Pollock, F. W. Maitland, op. cit., p. 146. M. Bloch, La società feudale, cit., p. 218. 63 Nella giurisprudenza che si stabilì, soltanto i freemen trovarono riparo sotto l’ombra protettrice del re, mentre i villani, nei rapporti col loro signore, furono sottratti alle corti regie divenendo i secondi in blocco (e a differenza che in passato), uomini-legati (bondmen). Il principio fatto valere a monte faceva parte della tradizione del diritto comune europeo: il servo non poteva essere giudicato e punito da nessuno al di fuori del suo signore, ovvero, la libertà significava – in uno dei suoi molteplici sensi – la totale dipendenza dal tribunale pubblico. La straordinaria precocità dello sviluppo giuridico inglese e la risoluzione dei problemi concreti che essa pose, ne richiese l’applicazione rigorosa al fine di conferire celermente plausibilità e stabilità al sistema. Ma la maglia della concezione risultò per un verso troppo stretta e per l’altro troppo larga per setacciare efficacemente la realtà: pochi uomini potevano affermare di avere sopra di sé come unico signore il re, ove moltissimi, anche di posizione elevata o di antichi liberi natali, si trovavano in anelli inferiori della vasta rete di dipendenze che innervava la società; questi ultimi, pur avendo possedimenti all’interno di estesi manieri, non avrebbero potuto certamente essere definiti come non-liberi. La forte disparità tra liberi e villani così intesi richiamò nel tempo l’uso di un altro principio comune al senso dei tempi, secondo il quale lo schiavo era tenuto a fornire tutto il suo lavoro al padrone: nel tredicesimo secolo la nozione di villein si era significativamente ridotta ai detentori di terre obbligate da corvées estremamente gravose e da servigi considerati poco onorevoli. 64 All’opera vi era il criterio dei servizi, il quale, applicandosi più all’uomo che alla terra, spezzava efficacemente l’antica coincidenza dei loro statuti e scopriva il mezzo per intenderli distintamente69. Il problema della coesistenza della giustizia regia con quella aristocratico-fondiaria si risolse con la conclusione di un accordo confinario tra le due potenze; il tratto netto che divise in Inghilterra i poteri giudiziari, divise altrettanto chiaramente la società: una rigida frontiera gerarchica – benché collocata più in basso rispetto ad altre realtà europee – estendeva di fatto la nozione di servitù e l’assoggettamento stesso ad una massa di contadini un tempo variamente differenziata, la quale veniva omologata nel vilainage e abbandonata in gran parte all’arbitrio del signore. In cause riguardanti terzi il re avrebbe prontamente fatto giustizia ove richiesta, ma egli rinunciava del tutto a interferire nel rapporto tra il Lord e i suoi uomini. La concezione del villano come non-libero solo ed esclusivamente in rapporto al suo signore, ma libero – perché avente diritto alla giustizia pubblica – nei confronti di chiunque altro, era una sottigliezza giuridica che s’infrangeva contro il semplice esercizio del concreto potere politico dell’aristocrazia inglese. Un’aristocrazia che, intesa come classe contrassegnata dal sigillo della libertà, dove il semplice freeman non 69 Cfr. Ibid., pp. 304-309. 65 differiva de jure dal gentiluomo, era certo meno definita e più aperta della nobiltà (prima di sangue e poi di diritto) tipica del continente, ma costituiva pur sempre un’oligarchia70. La barriera del potere signorile che il re si asteneva implicitamente dal varcare già nella formula del novel disseisin, sarebbe venuta a consolidarsi nell’articolo 39 della Magna Carta del 121571 e ancor più chiaramente nel corrispondente articolo 29 della redazione del 1217; a quest’ultimo fa riferimento la seconda parte della citazione di Pollock e Maitland da cui abbiamo preso le mosse. Converrà riportarlo per intero: Nullus liber homo decetero capiatur vel inprisonetur aut disseisiatur de aliquo libero tenemento suo vel libertatibus vel liberis consuetudinibus suis, aut utlagetur, aut exulet, aut aliquo alio modo destruatur, nec super eum ibimus, nec super eum mittemus, nisi per legale judicium parium suorum, vel per legem terre72. Sin dalla prima versione traspare la distinzione fondante su cui poggia il potente principio espresso nel testo, ma è la significativa interpolazione di ben tre nuove nozioni nella seconda stesura che specifica definitivamente il senso dell’asimmetria. 70 Ibid., p. 375. Cfr. C. Bemont, Chartres des libertés anglaises, Paris 1892, p. 33. Vd. P. Vinogradoff, “Magna Carta, Clause 39” , in H. E. Malden (a cura di), Magna Carta. Commemoration Essays, London 1917, pp. 78-95. 72 C. Bemont, op. cit., p. 55. In corsivo le aggiunte non presenti nella prima revisione del testo (1216). 71 66 L’articolo 39 traccia una linea di confine che esclude e subordina gli unfree villeins, perché la garanzia di certezza e uguaglianza giuridica, cimentata sul giudizio dei pari, non si applica al servo sottoposto al suo superiore, ma soltanto all’uomo libero. Il bisogno di disporre di un criterio materiale separato dall’uomo che più efficacemente scinda libertà e schiavitù, indicando concretamente l’uguaglianza che caratterizza e definisce pari modo i freemen, condurrà infine all’aggiunta del ’17. Che cosa sono quindi il liberum tenementum, le libertates e le liberae consuetudines? Dei primi abbiamo già avuto modo di dire: si tratta dei liberi poderi, in opposizione alle tenures in vilainage; le seconde comprendono immunità e franchigie di vario tipo, mentre le ultime riguardano il diritto di riscuotere dazi e più in generale un insieme di interessi personali di stampo monopolistico73. Considerati assieme, costituiscono gli uguali privilegi dell’aristocrazia inglese74, quegli stessi che con la mobilità della fortuna fondiaria si sarebbero inevitabilmente e progressivamente erosi e riconfigurati. “In verità era fatale che un giorno o l’altro intervenisse la giustizia regia dal momento che talvolta un esproprio riguardava l’ordine pubblico”75: ciò accadde circa un secolo e mezzo dopo la prima stesura della grande carta delle libertà inglesi. 73 Cfr. W. S. McKechnie, Magna Carta: A Commentary on the Great Charter of King John, with an Historical Introduction, Glasgow 1914, pp. 383-384. 74 Cfr. M. Bloch, La società feudale, cit., p. 225: “Dal vecchio capitolare carolingio alla Magna Charta (sic), fondamento classico delle libertà inglesi, questa specie di uguaglianza nel privilegio, che si ripercuoteva così dall’alto in basso, era destinata a restare uno dei più fecondi principi della consuetudine feudale”. 75 M. Bloch, Signoria francese e maniero inglese, cit., p. 192. 67 Le riforme di Enrico II contenevano quindi in nuce principi opponibili alla figura stessa del re? La traccia del discorso che seguiamo vuole spostare non tanto la risposta, quanto i termini stessi della domanda: se le riforme enriciane – ma più correttamente dovremmo dire i caratteri del governo dopo la conquista normanna che in esse trovarono normalizzazione – veicolarono l’idea che il potere stesso del re fosse arginabile mediante il diritto, fu perché esse innanzitutto definirono un ambito giuridico unitario, comune e legittimo, che rappresentò la cornice entro la quale ogni potere tradizionale fu costretto ad inserirsi e ad agire. Come le dighe (turcies) della Loira che lo stesso Plantageneto fece costruire76, le forme del diritto tramandate dal suo regno offrirono un modello che domava e incanalava i poteri esistenti (operazione alquanto hobbesiana!), costituendo un’ossatura talmente solida ed efficace da far sì che questi ultimi, da allora in poi, si impegnassero non tanto per spezzarla o scinderla, quanto piuttosto per dominarla. Quella dei grandi è certo concepibile come un’azione against the king; ma la sua vera portata traspare ancor più nella faticosa lotta per piegare a proprio vantaggio un sistema di governo che proprio dopo l’epoca di Enrico II non aveva più bisogno della presenza de re per funzionare. La loro aspirazione al dominio si realizzò definendo e articolando gli ambiti interni al quadro: in questo modo specifico risultava possibile controllare il meccanismo della giustizia regia che, lungi dall’aver annientato gli altri poteri, rimaneva in qualche modo aperto, flessibile, adattabile. Vd. R. Fossier, “The rural economy and demographic growth”, in D. Luscombe, J. Riley-Smith, The New Cambridge Medieval History, vol. IV, p. I, Cambridge 2004, p. 28. 76 68 Non solo. Collocato al termine della fase embrionale del processo di accentramento iniziato con Guglielmo il Conquistatore e proseguito dai suoi successori, il momento rappresentava anche l’inizio di una longeva vita che doveva ancora specificarsi, svilupparsi appieno, maturare. Che la strategia fosse tale lo dimostra l’articolo della Magna Carta su cui ci siamo soffermati, e lo dimostra anche, seppur a un livello meno fondante, un'altra clausola ivi presente la quale introduce, per la prima volta attraverso statuto, una capitale distinzione giurisdizionale: Communia placita non sequantur curiam nostram sed teneantur in aliquo loco certo77. L’articolo 17 stabiliva che le cause comuni (common pleas) non sarebbero state più giudicate presso la corte regia, a differenza delle cause in cui la Corona fosse direttamente coinvolta. Il punto di partenza era una bipartizione già esistente all’interno della Curia regis durante il dodicesimo secolo, che registrava la presenza da una parte di una magistratura fissa che si riuniva regolarmente in assenza del re (in the Bench), e dall’altra di una corte itinerante che giudicava in presenza del re medesimo (coram rege); stavolta la Magna Carta si rifaceva ad essa per tracciare i confini giurisdizionali di quelli che sarebbero 77 C. Bemont, cit., p. 51. 69 diventati in futuro i due più importanti tribunali di diritto comune, vale a dire, la Court of Common Pleas e il King’s Bench. La rilevanza straordinaria di questo passaggio nell’evoluzione del sistema di common law è descrivibile nei seguenti termini: la stabilizzazione delle corti di diritto comune corrisponde all’istituzionalizzazione del principio di delega che aveva da sempre orientato l’operato dei raminghi re inglesi. La corte delle cause comuni, uno dei pilastri dello stato inglese, compie tale principio, superandolo: al nuovo tribunale viene attribuito un proprio ambito di competenza giurisdizionale circoscritto significativamente alle cause civili, autonomo e separato definitivamente dalla persona del re. In questo modo l’amministrazione della giustizia tra privati (liberi, nel senso che abbiamo sopra chiarito) si ritaglia all’interno dell’attività di governo un vasto spazio nel quale la figura del signore supremo viene in un certo senso messa tra parentesi, sottintesa. Un processo analogo sarebbe stato seguito, ai margini, anche dagli altri tribunali di diritto comune, a testimonianza non soltanto dell’interconnessione tra le magistrature, ma soprattutto del fatto che il divenire ordinario e stabile delle procedure e delle corti doveva passare attraverso questa astrazione fondamentale. Quando si legge che i communia placita “non seguiranno la nostra corte, ma si terranno in un luogo fisso”, o quando, come nel quindicesimo secolo, perfino il tribunale coram 70 rege smette di spostarsi al seguito del sovrano, si tratta di un momento decisivo nel quale il carattere certo e permanente dei luoghi della giustizia è concretamente un tutt’uno con la certezza e la permanenza delle forme del diritto. Istituti aventi sede fissa, sganciatesi dalla mobilità del re itinerante, non rappresentano metaforicamente leggi consolidate e definite in maniera inderogabile: incarnano essi stessi un concetto di legge che, svincolato dalla discrezionalità propria dell’antica giustizia regia, si fonda separatamente e in opposizione all’eccezionalità. Questa tensione verso l’istituzionalizzazione ordinaria alberga in sé la capitale distinzione tra il re e la Corona78 e appare come una delle concrete manifestazioni della complessa vicenda storica che vide differenziarsi la persona del sovrano dal sostrato giuridico che lo accomunava e lo legava alla comunità. Su un piano concettuale la parola ‘Corona’ si oppone “alla pura physis del re e alla pura physis del territorio” indicando “la metaphysis politica di cui erano partecipi rex e regnum o il corpo politico (a cui entrambi appartenevano) nei suoi diritti sovrani”79. Non ci addentreremo in questa densa e spinosa questione. Ciò che ci preme sottolineare è come l’assestamento di un sistema di diritto che in origine è schematicamente pensabile come un atto della voluntas teocratica del re80 (solo schematicamente, prendendo a modello la sfera della repressione criminale; la breve analisi condotta per il Cfr. E. H. Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A study in Medieval Political Theology, Princeton 1957, cap. VII (tr. it., I due Corpi del Re, Torino 1989, pp. 269 ss.) 79 Ibid., p. 293. 80 Cfr. W. Ullmann, Principles of Government and Politics in the Middle Ages, London 1961 (tr. it. Principi di governo e politica nel Medioevo, Bologna 19822, Parte Seconda, cap. III). 78 71 diritto proprietario in ambito civile ha mostrato invece come il piano del compromesso e l’accordo, quantomeno con i liberi del regno, fosse costitutivo e mai del tutto scindibile dall’azione del re) richiami poi in vita, sulla via del suo farsi ordinamento, un principio superiore che vincola sovrano e sudditi: tale principio è la rule of law. Segnando un punto di non ritorno nello sviluppo della rule of law, le Corti di diritto comune fecero leva su quello che, seguendo la terminologia di Ullmann, diremmo l’aspetto feudale della regalità inglese, oppure quello che già Bracton, a metà del tredicesimo secolo, aveva concepito come jurisdictio81: esse delimitarono un piano di giustizia ordinaria nel quale l’uguaglianza nel privilegio dei signori inglobava, almeno in teoria, anche il signore supremo, divenendo tutti in questo modo sudditi della legge. Ebbene, di quale legge? La risposta non è del tutto agevole. La prassi giudiziaria che in maniera così efficace aveva reso operante la giustizia regia, aveva anche elaborato un diritto che non era mai stato concepito come creazione, rimanendo così nel solco della migliore tradizione giuspolitica medievale82. La plausibilità politica di un sistema di giustizia centralizzato e legittimato dal re, che veniva ad inserirsi in un orizzonte giuridico plurale, riconoscente soltanto la garanzia della memoria e la legittimità del tempo, impose e spinse a mantenere il nodo inestricabile che legava insieme la procedura e il diritto sostanziale: fu in questo modo che le forme della giustizia, vestite di regalità, fornirono una mirabile apparenza soltanto 81 82 Cfr. Ch. H. McIlwain, op. cit., cap. IV. Cfr. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 20084, pp.130 ss. 72 alla luce della quale sembrarono dar voce ad un diritto preesistente, silenzioso, ma già reso venerabile dal passato. Il re era sì la fontana della giustizia, ma l’acqua che vi scorreva sorgeva prima e altrove83. Si trattava di un principio antico e in genere valido, ma massimamente palese qualora la presenza del sovrano nel tribunale fosse soltanto fittizia; quando la giurisdizione regia si esercitava per delega, ed era il più delle volte, allora era la corte a ‘dire’ o ‘trovare’ il diritto, rammemorando le regole e incorporandole nella sua sentenza84. Non stupisce quindi che il momento in cui la finzione secondo la quale ‘ogni giurisdizione è giurisdizione del re’ divenne fatto istituzionale, ovvero la fase che vide lo stabilizzarsi delle corti di diritto comune, abbia coinciso con l’elevazione a massima di tale vetusto principio. L’apparenza era in sommo grado mirabile perché riproduceva in gran parte la realtà: il perno dell’attività tecnica di un ceto di giuristi sempre più forte e autonomo, era effettivamente il rinvenimento della massima di decisione a partire dalla natura dei fatti, Nel 1765 William Blackstone avrebbe così scritto: “Another capacity, in which the king is considered in domestic affairs, is as the fountain of justice and general conservator of the peace of the kingdom. By the fountain of justice the law does not mean the author or the original, but only the distributor” (Book I, Ch. VII, iii). W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England in Four Books, Philadelphia, 1893, vol. I, p. 266. 84 M. Bloch, La société, cit. p. 416. 83 73 non una produzione creativa85, e ciò costituì certamente il fondamento di un patrimonio sapienziale che si consolidò e si tramandò per secoli. Il sistema dei writs – su cui ci siamo trattenuti – e lo sviluppo del metodo del Case Law diedero al diritto inglese quell’indelebile impronta giurisprudenziale che lo caratterizza, insieme al diritto romano e al diritto canonico, come uno dei grandi sistemi giuridici europei. Le Provisions of Oxford del 1258 dimostrano però come nelle forme vi fosse anche la sostanza, ovvero come lo ius dicere comportasse tal volta lo ius dare. Il numero dei writs venne chiuso per timore di una legislazione giudiziaria che, pur nella stretta connessione con le decisioni dei giudici, di fatto creava istituti nuovi, come si evince in modo paradigmatico dalla nascita e dall’evoluzione delle assisi possessorie. Le Disposizioni fissavano così la rigida cornice entro la quale una materia flessibile e incredibilmente adattabile avrebbe incontrato la capacità interpretativa dei funzionari non più del re, ma del diritto, grazie ai quali si sarebbe dunque attuato il governo della legge. Ma, ancora, di quale legge? Un anacronismo terminologico ci porterebbe a dire la common law, e pur trovandoci concettualmente nei suoi pressi, l’espressione giusta sarebbe quella acutamente scelta dai redattori del capitolo 39 della Magna Carta: la lex terrae. 85 Cfr. G. Radbruch, op. cit., p. 34. 74 Con questo concetto veniva sancita in Inghilterra la centralità per il diritto di un’idea di rapporti di natura feudale e più specificamente, la validità effettiva del momento contrattuale, vera essenza del feudalesimo o, come diremo ancora meglio a breve, del diritto feudale in senso tecnico. La questione necessita di alcuni importanti precisazioni per essere compresa appieno, altrimenti la portata del movimento innovativo e al tempo stesso conservativo che era in atto, rischia di rimanere nell’oscurità. Per prima cosa bisogna chiarire ciò che la lex terrae non è. Essa non è il diritto consuetudinario, e neppure Landrecht in senso stretto: sebbene essa inglobi la consuetudo, riconoscendo sì la maestà e l’importanza di un elemento che è in senso pregnante ‘costitutivo’ dell’ordine giuridico medievale86, essa enfatizza significativamente, come vedremo successivamente, più il suo essere fonte di legittimazione che non fonte del diritto. Nonostante in essa sia presente un elemento territoriale imprescindibile – che rimanda tuttavia al regno intero e non è espressione di una specifica realtà locale – la lex terrae incorpora anzitutto l’aspetto vincolante del diritto feudale, ovvero, la reciprocità contrattuale. A partire da quanto abbiamo affermato precedentemente a proposito della vicenda del vilainage in Inghilterra, non nuoce ricordare che la sistematizzazione di cui ci stiamo 86 Cfr. P. Grossi, op. cit., pp. 87 ss. 75 occupando in questa fase non fa riferimento al diritto del maniero, il quale “disciplinava le relazioni tra il signore ed i contadini, la produzione agricola e la vita del castello e del contado in generale”87, ma riguarda invece il diritto che regolava il possesso feudale e i rapporti signore-vassallo, ovvero, il diritto feudale in senso tecnico. Solo in questa sfera, giunta certo ad ampliarsi considerevolmente, vigeva l’aspetto contrattuale. Va chiarito e specificato ora il significato di quest’ultimo. Il contratto feudale conferiva uno status: ciò che veniva rimesso alla libera volontà dei contraenti era il consenso al rapporto88, mentre il contenuto giuridico della relazione, in quanto predeterminato, rimaneva praticamente indisponibile89. Nel momento in cui questa specifica nozione di contrattualità s’innalzò a principio costituzionale nella lex terrae, l’esercizio della libertà dei baroni e del re venne definito sulla base di un diritto superiore a entrambi, che aveva al proprio interno, nella forma del reciproco consenso, il criterio di verifica e lo strumento di vicendevole controllo. Così, lo sforzo congiunto e il comune accordo divenivano i presupposti fondamentali del diritto sostanziale che i tribunali di common law avrebbero dovuto applicare ordinariamente; essi ponevano, racchiusi nel termine lex terrae, un sigillo indelebile alla capacità giuspolitica dei magnati, mentre la funzione monarchica del sovrano veniva ridotta radicalmente. 87 H. J. Berman, op.cit., p. 288. “La libertà infatti non consisteva nel non avere alcun signore (tutti lo avevano), consisteva nel poterselo scegliere”: M. Bloch, Signoria francese, cit., p. 151. 89 Cfr. H. J. Berman, op.cit., pp. 294 ss. 88 76 In virtù dell’enfasi sull’elemento contrattuale del diritto feudale, il re venne inquadrato paradossalmente nella cornice giuridica determinata dalla stabilizzazione della sua stessa giustizia, divenendo in questa sfera soggetto dei diritti e degli obblighi connessi allo status coronae: “agendo attraverso i suoi giudici, il re innalzava una barriera contro la sua stessa voluntas monarchica”90. È chiaro come in questo contesto il contenuto della legge dovesse rimandare non più a quelli che un tempo erano nati come interventi eccezionali decisi unilateralmente dal re, ma piuttosto ad un sostrato giuridico comune che si sarebbe manifestato in maniera ordinaria grazie all’applicazione meccanica di regole messe a punto dai common lawyers. La certezza verso la quale tendeva la definizione della common law richiedeva fissità, prevedibilità, continuità; necessitava dunque dell’assestamento di un sistema chiamato ad incarnare la finzione della perpetua necessitas alla quale era sottintesa proprio “la perpetuazione di un qualcosa che per definizione indicava un’eccezione, una condizione eccezionale o una momentanea deviazione dall’ordinario” 91. In virtù del suo essere agli antipodi dell’eccezione, staccata dall’idea di legge creata o perfino scritta, intimamente legata alla dimensione della memoria e del tempo nonché a quella della terra e del sangue, la consuetudine fu il polo materiale verso il quale slittò la fonte di legittimazione del diritto inglese: essa offrì la base naturalistica capace di 90 91 W. Ullmann, op. cit., p. 225. E. H. Kantorowicz, op. cit., p. 245. 77 conferire validità – perché era ella stessa paradigma e ripetizione – agli immutabili schemi sapienziali ai quali i giusperiti avrebbero fatto riferimento. Ma come può la consuetudine, “fonte viva che rampolla dall’esperienza”92, offrire un fondamento solido per la costruzione di un apparato giuridico? Ebbene, quando dal piano dell’effettività, delle pratiche divenute norme grazie alla reiterazione, la consuetudine viene spostata su quello della validità, allora le sue radici vengono in qualche modo troncate e la circolazione della linfa che la tiene in vita viene interrotta. Essa non è più fonte inesauribile di materia giuridica ma piuttosto e ancora una volta, limite, cornice. Dalla formulazione rinvenibile già nello Statuto di Merton (1235) della lex come ‘usitata et approbata’, emerge chiaramente come l’elemento contrattuale, cui abbiamo prima fatto cenno, abbia piegato a proprio vantaggio e legato indefettibilmente a sé la nozione di uso continuativo, cogliendovi il consenso tacito, persino inconscio, implicito nella ripetizione che la caratterizza. Il fattore sine qua non della legittimità era l’approvazione, e la consuetudine era ciò che i magnati, esplicitamente o implicitamente, riconoscevano tale. Ancorati all’assenso della ‘comunità’, statuti e costumi giunsero a formare un corpo di diritto estremamente flessibile al proprio interno, ma dai contorni altrettanto rigidi. 92 P. Grossi, cit. 78 È importante ravvisare tra i più significativi frutti della cooperazione e dell’accordo tra re e baroni – sebbene sorprenda trovare questi armonici principi sullo sfondo di durissimi conflitti costituzionali – proprio la fissazione di un limite alla “memoria giuridica” inglese: il capitolo 39 del primo statuto di Westminister e gli statuti detti del quo warranto del 1289-1290, stabilirono come dies a quo il 3 settembre 1189, giorno dell’incoronazione di Riccardo I; i tribunali, nel rammentare leggi antiche, non si sarebbero mai dovuti spingere a ritroso oltre quella data93. Le corti di common law si affrancarono quindi dal patronato regio e conquistarono stabilmente il terreno dell’amministrazione ordinaria della giustizia, legittimando la propria azione sulla base di un principio superiore (venutosi a consolidare sempre più distintamente nella rule of law) che trovava realizzazione concreta nell’applicazione meccanica di immutabili schemi sapienziali: la tenuta di questa legittimità dipendeva in massimo grado dal rigore con cui i giusperiti avrebbero eseguito questa applicazione. Essi riuscirono a far fruttare in modo pregevole l’adattabilità e l’elasticità interna del sistema, tenendo ferme le sue forme strutturali, il che rappresentò senza dubbio il fattore decisivo dell’affermazione della common law: la permanenza delle forme d’azione si affiancava con successo alla capacità di far rientrare in esse sempre nuove e più complesse fattispecie. 93 R. C. van Caenegem, European Law in the Past and the Future, Cambridge 2002 (tr. it., I sistemi giuridici europei, Bologna 2003, p. 19.) 79 Ma proprio l’estremo tecnicismo procedurale ha fatto sì che le corti di diritto comune in Inghilterra non siano mai state sole, e ciò sembra essere il risvolto istituzionale che mette in evidenza come l’affermazione del modello giuridico inglese consista, essenzialmente, nel suo non essere trionfo. Il loro consolidamento non esaurì tutta la giurisdizione della corona perché implicò la delimitazione di una sfera d’azione che, in nome dell’autonomia e della certezza, dovette rinunciare all’amministrazione dell’equity, ovvero al potere di fare giustizia nel caso concreto che richiedesse una decisione in deroga alla rule of law. Con la perpetuazione dell’eccezionalità presupposta dalla stabilizzazione delle corti ordinarie, venne meno proprio il loro potere di decidere sull’eccezione**. Si trattava di un potere residuo nel quale era ben visibile quella capacità di creare diritto (ius dare) che i tribunali di common law si alienarono insieme all’identificazione con il sovrano; un potere elastico e discrezionale che rimase così competenza dell’amministrazione diretta del re, in forza della sua prerogativa. Mantenendo il carattere di eccezionalità e sussidiarietà appartenente in origine proprio alla giustizia regia centrale dalla quale la common law aveva preso le mosse, le prerogative courts furono il luogo dove rimase in vita l’elemento monarchico che l’affermazione del diritto comune inglese aveva tenacemente ridotto. Ancora una volta ciò che merita maggiore attenzione è innanzitutto l’ineliminabile presenza di sistemi alternativi in grado di provvedere ai casi in cui i meccanismi ordinari 80 si fossero rivelati inefficaci: il concorrere – armonico fintantoché i confini giurisdizionali si mantennero fluidi – di tribunali straordinari, determinò la conservazione sul piano istituzionale di una bipolarità strutturale in grazia della quale il sistema nel suo complesso sarebbe stato in grado, almeno in teoria, di provvedere all’intero spettro di casi richiedenti giustizia: alla common law divenuto jus strictum spettava la funzione di far valere la legge nel caso normale; e qualora il rigore di questo compito, eseguito in specifiche e singolari circostanze, si fosse rivelato sinonimo di ingiustizia, allora l’equity avrebbe offerto il rimedio destinato a correggere l’inconveniente94. In linea di principio i due sistemi, paralleli e non antitetici, avrebbero dovuto integrarsi e completarsi perfettamente a vicenda; nei fatti, la competizione tra le corti finì per rivelare tutta la sua carica conflittuale. “Il segreto del successo degli esperimenti costituzionali nell’Inghilterra del Medioevo stava nella flessibilità e nella capacità di adattamento della common law e nella saggezza con cui essa lasciava al re teocratico un certo campo di azione entro il quale la voluntas regia poteva farsi sentire con tutto il suo peso. L’ampiezza o la limitatezza di questo campo dipendeva non già da principi ma dai fatti, né occorre specificare quanto fluide fossero le linee di demarcazione”95. Con queste parole Walter Ullmann ha efficacemente indicato la sorprendente dialettica che ha legato la vicenda storica dell’affermarsi della common law al mantenimento di 94 95 Cfr. G. Radbruch, op. cit., p. 31. W. Ullmann, op. cit., p. 241. 81 una sfera giuridica straordinaria (che potrebbe dirsi anche, e non si tratterebbe di un mero gioco di parole, una sfera extra-giuridica ordinaria). Ora, osservando in controluce la questione che ci occupa, ovvero quella del dualismo di common law ed Equity, i termini assumono qui uno speciale valore: proprio perché l’ampiezza della giurisdizione di equità dipendeva dai fatti ad essa sottoposti e non da princìpi, il suo ambito di competenza crebbe enormemente e senza ostacoli non appena la rigidità delle corti di diritto comune si capovolse da certezza in inefficacia, da applicazione rigorosa della legge attraverso stabili procedure, in atrofia. La “saggezza” della common law, nel momento in cui affiorò il potenziale antagonismo tra i sistemi alternativi, che in verità per più di un secolo avevano condiviso l’amministrazione della giustizia in campi differenti, dimostrò essere basata sull’accettazione di una convivenza nella quale rimaneva irrisolta la questione circa la fonte ultima di legittimità. La minaccia ai tribunali ordinari divenne concreta e tangibile dal XV secolo, quando fu evidente che le barriere inattaccabili delle forme d’azione avevano reso insuperabili una serie crescente di problemi che, sottoposti invece al Cancelliere, trovavano una soluzione adatta ed equa. È di non poco interesse il fatto che il consolidamento della giurisdizione di equità sia il risultato del rapido sviluppo del settore legale della Cancelleria, quel pilastro istituzionale inglese la cui competenza prima e originaria consistette nel custodire il Gran Sigillo, ovvero nel confermare l’emanazione dei mandati regi (writs e altri tipi di 82 documenti formali), assumendosi con ciò la direzione e il coordinamento di tutti i dipartimenti di governo96. Il segretariato, seguendo un percorso analogo a quello già indicato per le corti di diritto comune, iniziò a differenziarsi dalla Real Casa sotto Enrico III (1216-1272) e smise definitivamente di seguire il re, fissando la propria sede in Chancery Lane a Londra, nel XIV secolo: ancora una volta, la stabilizzazione del domicilio significava la definizione della propria funzione – nel caso della Cancelleria, quella di governo – separatamente dalla figura del re. Questo importantissimo ente, il quale aveva sì “burocratizzato” il governo stabilendo e conservando regolari formule e procedure amministrative, ma aveva anche contribuito a mantenere uno sfondo unitario grazie al quale veniva ad evitarsi una divisione troppo rigida del governo stesso in uffici autonomi, si trovò già nel XIV secolo a dover far fronte, in nome del re, alle moltissime petizioni che non trovavano rimedio nella common law e che venivano quindi indirizzate direttamente al sovrano. Rilevante ci sembra in primo luogo il fatto che il braccio legale del re teocratico, lasciato libero dalla common law proprio nel campo dell’equità, trovi dimora istituzionale proprio in quell’organo composto – fino alla Riforma – quasi sempre da ecclesiastici: la procedura seguita dalla Cancelleria, rapida e poco attenta ai formalismi, era infatti quella romano-canonistica; anche secondo questa prospettiva andrebbe analizzato il rapporto di contrapposizione, ma anche di convivenza, tra common law e civil law. 96 Cfr H. J. Berman, op. cit., pp. 442 ss. 83 In secondo luogo, ma forse in primis per importanza, il fatto che questo sistema di giustizia straordinaria sia nato in grembo all’ufficio “che definiva la pubblica amministrazione, gli affari di governo, come qualcosa di meno della politica (rappresentata dalla persona del sovrano) e come qualcosa di più dell’insieme dei singoli uffici di governo”97; dentro un “superdipartimento” dunque, che demarcava una decisiva zona intermedia dalla quale si realizzava un controllo orizzontale dell’intero apparato governativo. Forzando un poco l’analisi potremmo sostenere che l’equity avrebbe rappresentato a sua volta una ‘supergiustizia’ la quale, fiancheggiando i tribunali ordinari, sarebbe stata incaricata di mitigare il rigore della common law, controllandone in un certo senso la resa effettiva in termini di giustizia. Non si trattava precisamente di un controllo degli standard di legalità: questo compito era stato mantenuto significativamente dalle corti di common law che si erano assunte e avevano mantenuto tale potere prima ancora della loro stabilizzazione, riservandosi l’emissione dei prerogative writs98; nell’equity era rinvenibile piuttosto uno strumento di vigilanza flessibile in grado di individuare – ed eventualmente correggere – l’ingiustizia nella fattispecie concreta. Nel seguire i caratteri portanti del marco giuridico inglese, mentre rivolgiamo lo sguardo in conclusione ai margini lasciati dalla common law al diritto legittimato dalla prerogativa regia, la completezza dell’analisi e forse anche il rigor di logica richiederebbero di soffermarsi perlomeno su due ulteriori vicende: la nascita e 97 98 Ibid., p. 443. Cfr. U. Mattei, op. cit., p. 14. 84 l’affermazione del Parlamento, fondamentale Corte di Giustizia che segnò in maniera unica lo sviluppo costituzionale inglese; e, inoltre, il fiorire delle corti di prerogativa (la Court of Star Chamber e la Court of Requests), le quali furono in maniera molto più netta rispetto alla Court of Chancery, espressione della volontà monarchica del re. Non solo l’enorme complessità di entrambe le questioni, ma anche una motivazione strutturale che si procederà subito ad esporre, ci esimono almeno in parte da tale compito. Il regno di Edoardo I (1272-1237) fu il periodo di massimo utilizzo della legislazione diretta mediante statutes, e l’ultima fase in cui vennero attuate profonde riforme istituzionali dal re senza il concorso del Parlamento. Il potere di creare diritto (ius dare), potere al quale abbiamo visto rinunciare le corti di diritto comune, rappresentava dal punto di vista politico un fronte troppo cruciale per essere lasciato alla semplice discrezionalità del re, e i baroni erano ben consapevoli del fatto che far valere su questo piano il principio della consensualità feudale avrebbe significato mantenere un legame giuridico in grado di limitare il re e, in fin dei conti, di operare un controllo, a parità di livello, delle decisioni centrali per mano dei poteri locali. “Il concetto del «re in parlamento» è il punto di arrivo di un lungo cammino dal feudalesimo al costituzionalismo”99: perciò, pur rimanendo in questo percorso fuori dalla portata della common law giurisprudenziale, il potere legislativo del King in Parliament 99 W. Ullmann, op. cit., pp. 240-241. 85 rappresenta in maniera superlativa il suo spirito perché incarna sì la prerogativa, ma della communitas regni, non del re. È pur sempre vero che lo statute rimane estraneo alla concezione giuridica inglese così imperniata, come abbiamo più volte visto, sul piano processuale. Da questa prospettiva il diritto posto con la legge (statute) costituisce un diritto speciale, straordinario, sottoposto in origine ad un’interpretazione restrittiva e perciò non applicato solitamente per via analogica100; successivamente, non appena il ruolo politico del Parlamento aumentò in maniera tale da non lasciargli tempo e modo di dirimere direttamente ogni dubbio esegetico, e ai common lawyers furono concessi dunque ampi spazi di discrezionalità, la convivenza tra common law e statutes venne comunque resa a lungo pacifica101. Il mutamento dell’interpretazione da restrittiva in estensiva, ma non in analogica, dimostra come la futura alleanza tra Parlamento e corti di diritto comune avesse radici profonde: sottoposti entrambi alla rule of law, l’uno proclamava, quando necessario, aspetti specifici della lex terrae, le altre li interpretavano; in questo modo, non essendovi integrazione o correzione, anche il carattere creativo del diritto positivo veniva riassorbito dalla mentalità di common law. La giurisdizione di equity portava con sé qualcosa di molto meno domabile, ed è per questo che nella nostra analisi occupa una posizione privilegiata: il principio di equità 100 M. Ascheri, Introduzione storica al diritto moderno e contemporaneo, Torino 20082, cap. VII. Cfr. G. W. Thomas, James I, Equity and Lord Keeper John Williams, in “The English Historical Review”, v. 91, n. 360, 1976, p. 515: “[…] in the late thirteenth and early fourteenth centuries common law courts adopted a policy which denied the extension of statutes beyond their strict words. By the sixteenth century, however, the process was being reversed”. 101 86 rimandava ad un ambito di giustizia discrezionale e flessibile che nella sua intangibilità proponeva un antagonismo radicale, spia di una latente ma profonda conflittualità. Il discorso per le corti conciliari è per certi versi, più semplice. Come la Court of Chancery, anche le altre corti di prerogativa possedevano una giurisdizione sussidiaria che forniva rimedio nel caso in cui il diritto comune avesse fallito, e le loro decisioni erano allo stesso modo un esempio di intervento diretto del sovrano. A differenza della prima però, sia la Corte della Camera Stellata che la Court of Requests rimasero a lungo legate e sovrapposte al Consiglio della Corona: significativamente fu solo dopo la metà del XVI secolo, quando le spinte centralistiche dei Tudor si fecero sentire sempre più, che venne definita in maniera più chiara la loro configurazione ed ampliata notevolmente la loro attività102. La celerità e l’efficienza iniziale delle loro procedure dimostrò potersi tramutare facilmente in abuso – il che si verificò puntualmente sotto i primi Stuart, i quali ne fecero i bastioni dell’assolutismo – e ciò a causa del loro scarso livello di autonomia nei confronti del re. Fu proprio questo il motivo per cui tra le prerogative courts solo quella della Cancelleria sopravvisse al regicidio103. 102 Cfr. H. J. Berman, Law and Revolution II. The Impact of the Protestant Reformations on the Western Legal Tradition, London 2003 (tr. it. Diritto e Rivoluzione II. L’impatto delle riforme protestanti sulla tradizione giuridica occidentale, Bologna 2010, p. 385). 103 Può essere utile, al fine di sottolineare il carattere politicamente estremo delle corti di prerogativa ed evidenziare quindi il rapporto di esclusione non mediabile da esse intrattenuto col Parlamento (al successo 87 La competizione fra le corti è un fenomeno di lunga durata e di vasta penetrazione – rinvenibile non solo tra tipi diversi di tribunale, ma anche, singolarmente presi, al loro interno – che offre nel complesso una visuale eccellente sulle vicissitudini inglesi dalla prospettiva delle istituzioni e delle concezioni giuridiche, e ciò ancor più se considerate nella specifica contrapposizione tra equity e common law. In tale concorrenza, così come si presenta fino al XV secolo, vi è il segno di una domanda sociale che preme in direzione della certezza del diritto, la quale viene posta e aumenta esponenzialmente nelle sedi in cui trova soddisfazione; vi è inoltre l’espressione di diversi gruppi di interesse ben consapevoli della corrispondenza tipicamente medievale tra potere giurisdizionale, potere economico e potere politico; vi è infine, nel suo oscillante, a volte precario, ma pur sempre durevole equilibrio, l’espressione di un’astuzia (della razionalità politica inglese, oppure del caso della storia104) per cui, non consistendo il successo di una giurisdizione nella soppressione definitiva delle altre esistenti, venne mantenuta una pluralità di sfere che, grazie a confini fluidi, finirono per rinsaldarsi nel competere, estendendosi e contraendosi vicendevolmente. del quale, infatti, non sopravvissero), quanto affermato da Norman Davies, nel suo dibattuto, non sempre accurato, ma pur pregevole libro, riguardo alla Camera Stellata: “Tutti i discorsi sulle «costituzioni», inevitabilmente associati a una monarchia successiva e limitata, lasciano in ombra le dimensioni dell’autocrazia reale nell’epoca Tudor e nella prima epoca Stuart. Si può sostenere che per i centocinquantasei anni tra la sua creazione nel 1485 e la sua abolizione nel 1641 il tribunale della Camera Stellata sia stato più essenziale del parlamento al funzionamento complessivo del governo. Dal 1540, la Camera Stellata comprese sia il Consiglio privato sia i presidenti dei tribunali, cioè sia il potere esecutivo sia quello giudiziario, creando quindi un blocco di influenza in sessione permanente in grado di dominare sulla sfera del parlamento, più circoscritta e più discontinua. In realtà, si potrebbe facilmente obbiettare che il parlamento non poté mai sviluppare il proprio potenziale fino a quando la Camera stellata fu rimossa insieme alla filosofia politica che ne costituiva il fondamento”. N. Davies, The Isles: A History, London 1999 (tr. it. Isole. Storia dell’Inghilterra, della Scozia, del Galles e del Irlanda, Milano 2004, p. 470. 104 “Se Irnerio avesse insegnato o Azone avesse scritto un secolo prima, o se un Enrico III, invece di un Enrico II, avesse seguito Stefano sul torno d’Inghilterra, noi forse useremmo il Digesto di Giustiniano nelle nostre scuole di diritto”: Ch. H. McIlwain, op. cit., pp. 79-80. 88 L’ampiezza delle une era ai minimi quando, in virtù dell’efficienza quella delle altre era ai massimi, ma quando l’estensione era tale da far irrigidire e sclerotizzare le seconde, allora le prime avanzavano in progressione. Tutto ciò si palesa seguendo le avventure della Court of Chancery, per i motivi che abbiamo esposto precedentemente, e ancora alla luce di altri: è molto significativo, ad esempio, il fatto che siano stati proprio i lavori di questa corte a conoscere per primi una crescita vertiginosa, quando intorno al 1400, l’allentamento dei legami di servitù aveva fatto sì che la questione degli espropri toccasse i diritti di coloro che per definizione non erano tutelati dalla common law105. Allora fu la Corte della Cancelleria a proteggere i copyholds, “tecnicamente al di fuori della giurisdizione di diritto comune in quanto considerati unfree tenures, cioè possedimenti di origine feudale anticamente occupati da servi della gleba”106. In questo mutato quadro, le dispute che cadevano fuori dalle definizioni sostanziali del diritto comune – e si trattava in questo caso della fondamentale definizione di libertà – erano il luogo in cui summum ius diveniva summa iniuria: i casi richiedevano dunque non una giustizia fondata sulla lex terrae, ma necessitavano per l’appunto di un rimedio in deroga alla rule of law; essi investivano, in una parola, l’equità. È stato notato come la pluralità di sfere sia orientata verso una convivenza in disposizione orizzontale, non gerarchica, che pur rivela, se osservata dalla prospettiva di 105 106 Vd. supra, nota 33. Garavaglia, op. cit., p. 587. 89 una giurisdizione di equità chiamata a temperare il rigore della common law, la presenza di un’asimmetria. In merito a questo esercizio l’equity non si trova mai ad operare contra legem, ma sì extra legem, e in un certo qual modo supra legem. In questa corte veniva così mantenuto in vita un principio discrezionale che per definizione non conosceva sanzione legale, grazie al quale si conservava istituzionalmente la bipolarità caratteristica della regalità medievale e attraverso cui si intravede la permanenza di quella che è stata chiamata “la difficoltà di tutto il costituzionalismo”107 dell’età di mezzo. Il modo in cui questa difficoltà emerse in epoca Tudor raccoglie in una sorta di riflesso distorto e ingigantito tensioni latenti da secoli, l’affiorare delle quali mise allo scoperto i potenziali effetti disgregativi del permanere dell’ambiguità e, in ultima analisi, la carica conflittuale sottaciuta dall’indecisione circa la fonte ultima di legittimità. Che vi fosse una stretta correlazione con uno scollamento articolato in più livelli all’interno della società inglese, abbiamo detto nel primo capitolo. Sul piano della giustizia, la scarsa resa effettiva dei meccanismi pacificatori predisposti dal sistema dimostrò la loro incapacità di contemperare ancora gli interessi: è vero che “alla base dell’ingiustizia in Inghilterra non c’era tanto l’imperfezione delle norme quanto le perversioni che separavano la teoria dalla pratica: la corruzione e la debolezza delle giurie, la parzialità di sceriffi e giudici di pace, persino le richieste fatte da sovrani i 107 Ch. H. McIlwain, op. cit., p. 95. 90 quali pure, con il giuramento di incoronazione, si erano solennemente impegnati a far rispettare lo spirito della legge”108; ma nella teoria stessa era rinvenibile una fragilità strutturale. Non sembra casuale il fatto che il ruolo teocratico del re medievale sia tornato a farsi sentire prepotentemente quando il sovrano era divenuto capo supremo della chiesa d’Inghilterra, e il senso in cui tale funzione mosse proprio nei riguardi della Cancelleria è estremamente pregnante. In quel che potremmo pensare come un curioso gioco di specchi, Enrico VIII ebbe Thomas More come Enrico II ebbe Thomas Becket109: in entrambi i casi i Cancellieri, martiri in nome dell’opposizione alla supremazia del re, furono messi a morte dal sovrano seguendo procedure pur sempre legali. Nei due emblematici scontri tra sovrano e cancelliere si intravvede drammaticamente la tensione tra i due ordinamenti universalistici attraverso la quale è percorribile l’intera storia giuridica occidentale. 108 S. Bridgen, New World, Lost Worlds. The Rule of the Tudors, 1485-1603, London 2000 (tr. it. Alle origini dell’Inghilterra moderna. L’età dei Tudor 1485-1603, Bologna 2003, p. 221.) 109 L’atto di accusa di Hugh de Morville nei confronti di Becket, riportato da M. Ventura, Diritto canonico e diritti comuni in Europa. «Common Law» e «ius commune» in due comparazioni, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 2, 1993, pp. 415-439, merita davvero di essere citato: “Il nostro re vide che l’unica cosa necessaria era ristabilire l’ordine: frenare i poteri esagerati delle amministrazioni locali… e dare una sistemazione all’amministrazione della giustizia. Egli voleva che Becket… unisse gli uffici della Cancelleria e di Arcivescovado. Se Becket fosse andato incontro ai desideri del Re, avremmo avuto uno stato quasi ideale: avremmo avuto l’unione dell’amministrazione spirituale e di quella temporale sotto un governo centrale… Ma che cosa avvenne? Appena Becket, ad istanza del Re, venne fatto Arcivescovo, si dimise dalla carica di Cancelliere, divenne più pretesco dei preti, adottò un tenore di vita ostentatamente e offensivamente ascetico; affermò immediatamente che esisteva un ordine più alto di quello che il nostro Re, e che egli stesso come servitore del Re, si erano sforzati per tanti anni di stabilire; e che – Dio sa perché – i due ordini erano incompatibili” (corsivo nostro). Citato da P. Prodi, Una storia, cit., pp.125126. 91 Da un’angolazione più circoscritta è possibile scorgere anche ciò che qui più ci preme: la spinta verso il centralismo sotto i Tudor ebbe nell’affermazione della Corte di Equità a discapito delle corti di diritto comune uno strumento eccellente, perché riattivò con vigore sul piano giuridico la prerogativa regale rimasta e lasciata-essere ai margini della common law, ponendo così in primo piano la contrapposizione tra le sfere. Inizialmente la risposta dei common lawyers non fu volta ad aggravare il conflitto, ma si orientò verso una correzione interna che, attraverso l’opera legislativa del Parlamento e il controllo della prassi giudiziaria della stessa Cancelleria, riducesse sempre più le ragioni a monte del ricorso all’equità110. La contrapposizione però si faceva sempre più rigida e si trasformava progressivamente in ostilità dichiarata, dal momento in cui il germe della disarmonia dilagava dove prima c’era comunione di intenti e coesistenza pacifica. La competizione fra le corti nel XVI secolo fu il principale motore delle importanti trasformazioni del sistema giuridico e politico inglese, poiché la sua radicalizzazione spinse nella direzione di una demarcazione più netta dei limiti tra le giurisdizioni, la quale non poteva non investire una definizione più precisa dei tipi di giustizia che esse amministravano. Durante l’era Tudor la Corte della Cancelleria era comunemente descritta come una court of conscience, e non come una court of law: le corti di legge si fondavano su un diritto proprio e autoctono, le cui radici affondavano stabilmente nel passato e seguivano procedure fissate da tempo e consolidate; a livello procedurale il tribunale di equity applicava invece un diritto civile giammai ritenuto una ripresa rigida del diritto romano, Cfr. G. Giarrizzo, “Il pensiero inglese nell’età dei Tudor”, in L. Firpo (diretta da), Storia delle dottrine politiche, economiche e sociali, vol. III, Torino 1987, p. 697. 110 92 ma piuttosto un suo adattamento alla situazione inglese secondo i dettami della coscienza. Nel suo essere adattamento vi era tutta la benefica flessibilità di un equità chiaramente extra-giuridica perché non fondata su un diritto proprio, supra legem perché in grado di trascendere le leggi in vigore correggendone l’operato qualora si rivelasse ingiusto; il fondamento della coscienza veicolava però, e si perdoni il bisticcio di parole, un’infondatezza in virtù della quale rimaneva fuori dalla portata di ogni sanzione o stabilizzazione legale. Quando le condizioni politiche lo richiesero, il piano di trascendenza a cui rimandava la giurisdizione di equità – la cui separatezza, superiorità e totale alterità furono difese da Becket e More con la propria vita – venne ‘incarnato’ nella figura del re. L’onda era stata avviata da Enrico VII ed Enrico VIII, sotto i quali l’allargamento della competenza giurisdizionale della Cancelleria aveva assunto i toni di sfida nei confronti delle corti di diritto comune; queste però avevano reagito perseverando nella convivenza, muovendo piuttosto verso l’emendazione endogena in forza della quale si frenava pacificamente, ma anche in modo insidioso, l’avanzata della giustizia di equità; l’urto sarà per certi versi irreparabile quando Giacomo e i civilians forzeranno ulteriormente la questione e arriveranno a definire l’equity non più come un complemento della common law, bensì come l’esercizio della “coscienza regale” perché “in the court of equitie, the King governes (like God himselfe) by his owne individuall 93 goodness and Justice, though placed (during his royall pleasure) in the brest of another”111. Durante il regno del primo Stuart si notò appena l’assenza di un criterio in base al quale distinguere tra una giustizia straordinaria e sovraordinata e un operato contra legem; nel regno di Carlo I, fu chiara la mancanza di un freno legale in grado di evitare la tramutazione della prima nella seconda. Il momento più drammatico dello scontro tra common law ed equity fu il famoso dissidio tra il cancelliere Thomas Egerton, primo barone Ellesmere, ed il più importante di tutti i giuristi inglesi, Sir Edward Coke112: l’importanza dell’episodio risiede nel fatto che a partire dalla contrapposizione dei due funzionari, i quali rappresentavano, con una certa semplificazione, la mentalità dei poli opposti che coesistevano nel quadro giuridico inglese, iniziò a definirsi più chiaramente il problema della prerogativa regia. La disputa non riguardò l’esistenza della giurisdizione di equità113, la cui necessità d’altronde non fu mai negata da alcun giurista, ma il volto minaccioso assunto dalla sua espansione a discapito delle corti di common law. Ancora una volta la cartina tornasole fu la certezza giuridica: l’allargamento dell’equity fu percepito come una vera e propria dichiarazione di guerra alla common law nel momento in cui lo spostamento del confine della sua giurisdizione non avvenne soltanto ‘in orizzontale’, invadendo quindi settori tradizionalmente riservati ai tribunali di diritto comune, ma anche ‘dall’alto’, riaprendo i casi già decisi presso le corti ordinarie e capovolgendone le sentenze. 111 Così il decano di Westminster e Lord Chancellor dal 1621 al 1625 John Williams, citato da G. W. Thomas, art. cit., p. 525. 112 Vd. infra p.121. 113 Cfr. J. H. Baker, The Common Lawyers and the Chancery: 1616, in “The Irish Jurist”, IV, 1969, p. 370. 94 Fu ciò che fece Ellesmere intorno agli anni dieci del Seicento. Si trattava della sovversione dell’ordine e della certezza della common law114. Ellesmere però si faceva portavoce di una delle più consistenti accuse nei confronti dell’operato delle corti, ovvero e per l’appunto “the incertentye of Judicature”: abbiamo detto circa la sclerotizzazione del sistema e accennato alla corruzione dei funzionari; è indicativo dello sviluppo del conflitto però, che tra le cause di tale incertezza Egerton annoveri proprio il fatto che in tempi recenti le corti abbiano preso a interpretare estensivamente gli statuti e in generale ad allontanarsi dal rigore della legge, decidendo i giudici in base alla loro discrezione, “And so confounde the distincte Jurisdictions of comen lawe and of equitye, challenging and takinge bothe to theym selves”115. Sullo sfondo dello scontro vi era la rivendicazione, da parte di Giacomo I, del potere assoluto di cui l’azione della Corte di Cancelleria era espressione, potere che peraltro gli era riconosciuto formalmente da tempo, come testimonia il seguente brano di uno degli Year Books del regno di Enrico IV: “There are two manners of power and processes in the Chancery – the Ordinary and the Absolute power. The Ordinary power is the power in which certain order is observed just as it is observed in positive law; but the law of 114 Cfr. A. Cromartie, The Constitutionalist Revolution: The Transformation of Political Culture in Early Stuart England, in “Past and Present”, n. 163, 1999, p. 92. 115 Ellesmere’s breviate for the Privy Council, sept. 1615, citato da G. W. Thomas, art. cit., p. 517. 95 nature has no certain order, but it acts by any means that the truth may be known, and therefore in its procedure called Absolute”116. La differenza stava ora però, nel modo in cui il primo re Stuart, messo in primo piano il nesso legge naturale-legge divina, faceva leva sul suo ruolo teocratico: l’intangibilità dell’ordine su cui poggia la coscienza reale non rimanda qui, in base al diritto divino, all’incertezza che i common lawyers avrebbero voluto attribuirle, ma piuttosto ad una certezza assoluta perché derivata da Dio, insindacabile e non responsabile verso alcuna istanza umana. Deducendo i suoi doveri da una legge di natura che è riflesso dell’ordine gerarchico del mondo, nel quale il re si trova immediatamente posto sotto Dio, ricavando da essa quindi “corrette similitudini”, Giacomo afferma che il sovrano è rispetto ai sudditi nella medesima posizione in cui è la testa nel corpo umano, ma soprattutto (e forse in maniera meno ambigua) sostiene vigere tra loro il medesimo rapporto che intercorre tra un padre e i suoi figli117: la concezione antropomorfica si applicava forse anche meglio all’ambito 116 Cfr. L. A. Sheridan, Equity, London 1969, p. 3. La Corte di Cancelleria si articolava nel Latin side, che seguiva le procedure di common law per la composizione di dispute sorte dalle sue attività amministrative, e nel English side che trattava le cause per cui il diritto comune non offriva rimedio: nella nostra trattazione abbiamo fatto riferimento solo al secondo, per evitare di complicare ulteriormente il quadro evidenziando la divisione e la bipolarità all’interno stesso del tribunale. La sostanza del ragionamento rimane a nostro giudizio immutata, se non addirittura ulteriormente confermata. 117 James I, The Trew Law of Free Monarchies, in Ch. H. McIlwain (a cura di), The Political Works of James I, London 1918, p. 55. 96 della reciprocità feudale, mentre nel modello patriarcale la verticalità era inequivocabile118. La dottrina del diritto divino di Giacomo non era indirizzata tanto ad una giustificazione di un assolutismo monarchico, quanto piuttosto all’enfasi sulla derivazione diretta dei diritti del re da Dio119, e ciò perché l’esigenza politica alla quale il sovrano si trovava a rispondere non implicava l’affermazione dell’illimitatezza dei suoi poteri e la conseguente rottura della cornice costituzionale preesistente – fuori dalla quale egli non si collocò120 – ma richiedeva invece di postulare il fondamento della titolarità giuridica del potere del re, sulla base del quale si sarebbe definita la sua prerogativa. Come abbiamo tentato di mostrare, si trattava di un principio giuridico che faceva parte integrante del sistema inglese sin dalle sue origini e che era assoluto (come ben si vede nella sua veste equitativa) non perché omnipervasivo, ma perché indefinibile nei suoi confini. Il modo in cui la giurisdizione di equità è espressione della prerogativa regia illumina i diversi aspetti della questione: il suo intervento è privo di cardini, nel senso che deve procedere nel caso specifico ricorrendo di volta in volta ad ogni mezzo necessario a far Così le parole del Cancelliere Williams: “Should he that is next under God in all causes be subject to the Courts of his Liege-people and Homagers? He is their common Parent”. Citato da G. W. Thomas, art. cit., p. 524. 119 Cfr. G. A. Ritter, art. cit. p. 74. 120 F. D. Wormuth, The Royal Prerogative 1603-1649. A Study in English Political and Constitutional Ideas, Ithaca 1939, p. 93. 118 97 giustizia; ed è inoltre legalmente infondato, perché ha come compito ultimo il trascendimento delle leggi in vista dell’interesse del demandante. In questo quadro la fondazione concettuale della prerogativa reale per via divina e patriarcale era volta a colmare il vuoto di legittimità che la common law aveva lasciato aperto su due fronti, e non è certamente un caso che ciò avvenga nella fase di incertezza giuridica apertasi con la successione di Giacomo al trono: il titolo del re fondato sul volere di Dio, già dalla nascita, parla di una concezione della monarchia nella quale è rinvenibile l’accentuazione dell’autorità naturale del sovrano – e quindi dei legami naturali, diretti ed extragiuridici fra re e sudditi – e attraverso la quale si rafforza e si definisce, inevitabilmente in maniera sovraordinata rispetto al popolo-paese, la nozione di dinastia. Ma la regalità feudale in Inghilterra aveva seminato in profondità, e i tempi in cui il ruolo teocratico del re si era delineato erano lontani e profondamente differenti: difficilmente si sarebbe potuto affermare un principio dinastico che non fosse stato legato anche, in un rapporto di reciprocità, alla comunità. Perciò, già dagli anni ’30, e proprio sottolineando gli effetti e i fini dell’intervento equitativo del re sul piano del governo, gli autori monarchici avrebbero spostato il momento fondante della prerogativa dal diritto divino all’interesse della comunità (salus populi), sull’onda di quanto affermato già dal giudice Fleming nella sentenza sul caso Bate (1606), aprendo i giochi dunque a quel conflitto costituzionale che abbiamo visto delinearsi nei grandi processi sotto Carlo I. 98 La polemica circa i poteri della Cancelleria e le riflessioni intorno al rapporto tra legge ed equità, assume rilevanza nei dibattiti costituzionali, dal momento che investono la definizione sia del soggetto a cui compete il giudizio nello stato di necessità, sia la demarcazione del luogo della sovranità legislativa; ma è significativa ad un livello ancor più ampio e generale, nella misura in cui intorno ad esse si articolano, provenienti dal fronte della common law, le teorie che tenacemente tenteranno di risolvere in termini giuridici, il nodo problematico di natura essenzialmente politica circa il criterio di distinzione tra diritto pubblico e diritto privato. Davanti al vuoto di legittimità cui abbiamo più volte fatto riferimento, i common lawyers si sforzeranno di affermare, specularmente rispetto alle teorie del primo Stuart, la naturalità, l’immutabilità e in fin dei conti la superiorità dei fondamenti del diritto privato: quando le libertà degli inglesi verranno connotate come diritto ed eredità, la difesa della proprietà si erigerà a criterio assoluto in base al quale definire il pubblico bene, e a limite invalicabile di ogni prerogativa; allora i giuristi di diritto comune forniranno il supporto intellettuale al blocco gentry-puritani-common lawyers che vedrà ora nel Parlamento e non nell’operato del re, la sede della propria unificazione, rinsaldando il partito che vedremo alla fine prevalere. Che la questione riguardasse la titolarità giuridica del potere appare in controluce nelle parole pronunciate da Thomas Hedley alla camera dei Comuni nel 1610, attraverso le quali egli si sforzava di tenere distinte la sfera della sovrana prerogativa reale da quella del profitto e della proprietà dei liberi sudditi, riaffermando con intonazione moderna 99 quella distinzione tra libertà e servitù che abbiamo visto collocarsi agli origini stessi della common law e che l’opera di Fortescue aveva innalzato a bandiera del libero inglese contro il francese servo: “Non è tanto più grave perdere la ricchezza, quanto il potere di tenerla, poiché nulla più della condizione di «villano» (beni e terre in potere del signore) vale a deprimere mente e carattere al punto che non può servire il paese in guerra o in pace”. Nella prima parte dell’intervento di Hedley, così come in quelli successivi di Hakewill e Fuller, vi è la definizione complessa e l’esaltazione senza riserve della common law: il fondamento teorico in base al quale si contrapponeva all’immagine del re come legge parlante, quella della voce suprema del diritto comune inglese, era il medesimo postulato dai common lawyers nel momento in cui videro minacciata la loro sfera di competenza da parte delle giurisdizioni alternative. Fu questo il banco di prova della capacità politica che i giuristi attribuivano, in maniera sempre più enfatica e crescente dal XVI secolo, alla common law, e del correlato portato epistemologico in virtù del quale essa venne concepita come scienza universale in grado di attingere ad ogni tipo di sapere al fine di promuovere il bene comune121. I primi quarant’anni del Seicento furono l’apice dell’idea secondo la quale le categorie della common law erano in grado di sistemare questioni politiche, e ciò pur rinvenendo nella Petition of Right del 1628 quel che è leggibile come il fallimento del tentativo “[…] a system probably best seen, in fact, as natural law applied to English life, determining the rights of king and subject in ways so ideally just that there could be no possibility of an appeal to other principles”. A. Cromartie, art. cit., p. 82. 121 100 dell’antiquaria giuridica di tenere insieme potere regio e regime di proprietà: nel momento in cui la santità e la protezione assoluta del secondo non solo resero esangue il primo, ma lo neutralizzarono – prima parzialmente, poi definitivamente – stabilendo il nuovo luogo della sovranità nel Parlamento, si tracciò il quadro nel quale si riaffermava “la supremazia del parlamento sulle corti di giustizia, e non già una gerarchia – come avrebbero voluto Coke e i common lawyers – delle diversi corti, intesa a deprimere le corti di equità, limitandone l’ambito giurisdizionale”122. La successiva evoluzione della Court of Chancery mostra però un ulteriore risvolto: se è vero che non vi fu la gerarchizzazione delle corti in virtù della quale i giuristi di diritto comune aspiravano a esercitare un altissimo ruolo – politico in verità – che avrebbe mantenuto l’assetto del sistema, è vero anche che vi fu la normalizzazione e la stabilizzazione della giurisdizione di equità, nella quale si riconobbe d’ora in poi un corpo fisso di norme tradizionali collocabile ordinariamente accanto alla giurisdizione di common law. E in questo passaggio non si può non cogliere un successo della concezione ‘orizzontale’ del diritto inglese. La fusione a metà Ottocento dei due tribunali, insieme con il mantenimento della fondamentale bipartizione concettuale common law/equity che giunge fino a noi, dice forse di una mentalità giuridica che è riuscita tenacemente a sopravvivere, rinunciando sì 122 G. Giarrizzo, “Il pensiero inglese nell’età degli Stuart e della Rivoluzione”, cit., p. 185. 101 alla decisione politica di ultima istanza123, ma inglobando pure nella cornice ideale della rule of law l’intero mondo del diritto. Il moderno principio di legalità e di indipendenza del potere giudiziario incarna un’assolutezza che smentisce parzialmente la tesi sostenuta dal Cancelliere Williams, secondo il quale “in every policy there must be a Supreme, that can be judge by none, for else the process between Party and Party would be circular, or rather infinite…”; solo parzialmente, perché se è vero che sul piano giuridico la rule of law recide in maniera netta ogni possibilità di appello a principi altri, è vero anche che essa, sul piano politico, tace. Vedremo di seguito, attraverso la voce di alcuni dei suoi autori, come i concetti della scienza della common law delinearono questo quadro complessivo, per poter così preparare l’analisi della soluzione hobbesiana all’interno della complessa vicenda storica e filosofica del diritto inglese. L’Inghilterra, a differenza degli Stati Uniti, ha scelto a favore della teoria blackstoniana della sovranità del parlamento contro quella di Coke sulla sovranità del giudiziario, impedendo il controllo da parte delle corti sulla costituzionalità delle leggi; il quadro è mutato significativamente a partire dalla “constitutional revolution” messa in atto dalle riforme avviate nel 1997 dal governo Blair. Vd. U. Mattei, op. cit., p. 23 nota, e pp. 51 ss. 123 102 III Tra custom e reason Voci della filosofia del diritto nel mondo di common law Uno degli aspetti più significativi che emerge dalla complessa evoluzione del sistema di common law è la sorprendente resistenza di quel complesso assetto giuspolitico premoderno, nel quale convivono consensualmente molteplici sfere di potere che si presentano al contempo definite e aperte, separate e in sovrapposizione. Si è avuto modo di evidenziare come la spinta centralistica inglese si sia avviata e imposta insinuandosi originariamente nelle crepe dell’impianto giuridico preesistente, finendo poi per conferire all’insieme stesso un aspetto nuovo e uno stampo indelebile: il modo peculiare in cui questo processo avvenne coniugò con tenacia elementi di carattere opposto, integrandoli in un sistema flessibile che costituiva in se stesso il tratto d’unione, a livello geopolitico, tra centro e realtà locali, su un piano giuridico e costituzionale – ma anche filosofico – tra eccezionalità e carattere ordinario delle leggi, tra potere assoluto e limitato; conservò in sostanza quella bipolarità propria del Medioevo nella quale coesistono, pur separate e in contrapposizione, trascendenza ed immanenza. Lo sviluppo del mondo dei concetti del diritto comune inglese indica un percorso per certi versi analogo, pur se spesso ritmato dal rovesciamento del segno dei termini. Ne 103 anticipiamo la costante a nostro avviso rinvenibile, nonostante le significative differenze, negli autori che segnarono questo itinerario e che ci accingiamo ora ad affrontare. In Inghilterra, il linguaggio della common law riuscì ad imporsi docilmente interiorizzando tutti quegli elementi che rimandavano ad altro e che indicavano un oltre, conferendo in questo modo spessore teorico tanto alla concezione ‘orizzontale’ del sistema, quanto al suo spiccato carattere nazionale. La via battuta fu altamente mirabile. Questo linguaggio era riuscito ad ammettere pacificamente l’esistenza di un ambito extralegale (vale, come si è già notato, per la prerogativa assoluta del re, vale, come si vedrà a breve, per la legge naturale), ma ciò a due condizioni: affermando, in primis, l’esistenza in sé di una traccia che è allo stesso tempo un residuo di quella trascendenza, una sorta di segno particolare dell’universale (il quale tratto, rendendosi solo in questo modo disponibile, viene poi riconosciuto, unitamente al suo manifestarsi interno, come locale); mantenendo, in secondo luogo, l’alterità di quell’ “extra”, inteso come un ordine distinto e però confinante, dunque non sovraordinato. Il consenso intorno a questo linguaggio perdurò fintanto che alla labilità dei confini teoreticamente definiti corrispose un accomodamento elastico degli intenti e delle rivendicazioni degli agenti in campo, andando di pari passo, quindi, con la tenuta del mobile equilibrio dell’insieme. Nel momento in cui l’impossibilità di mantenere l’armonia fu evidente, allora la sovrapposizione delle sfere e la flessibilità delle definizioni venne percepita come una componente decisiva dell’aumento di incertezza e 104 insicurezza giuridica che i giuristi di epoca elisabettiana e giacobita avevano chiaramente avvertito. Il duro e continuo lavorio degli scrittori inglesi124 si rivela come il tentativo di modificare e precisare i contorni dei concetti in base ai quali sarebbe stato possibile spiegare, ma anche orientare e talvolta correggere, il sistema di common law. La ragionevolezza del diritto inglese: Saint German Se ci limitiamo a quanto scritto prima del diciassettesimo secolo, Il Doctor and Student125 di Christopher Saint German è probabilmente l’opera teoretica sul diritto inglese di maggior rilievo. Noto per l’aspra e prolungata polemica con More126 che vide, oltre l’intento mediatore, l’affermazione di un principio di divisione e gerarchizzazione tra giurisdizione laica ed ecclesiastica, a Saint German va anche il merito di aver messo a punto una vasta, brillante e soprattutto sistematica teoria del diritto la quale, essendo circoscritta al contesto nazionale, finiva per dare al diritto inglese l’apparenza di un corpus omogeneo. È a questa operazione che bisogna guardare se si vogliono trovare le cause del sopravvivere dell’equity come sistema alternativo rispetto alla common law: senza l’opera didascalica di Saint German la secolarizzazione dell’equity (avvenuta per 124 Per una panoramica degli autori che inseguito affronteremo, vd. M. Lobban, 8: A History of the Philosophy of Law in the Common Law World, 1600-1900, in E. Pattaro (ed.), A Treatise of Legal Philosophy and General Jurisprudence, Dodrecht 2007. 125 La prima parte dell’opera venne pubblicata in latino nel 1528 col titolo Dialogus de fundamentis Legum Angliae et de conscientia, la seconda parte fu scritta in inglese e pubblicata nel 1530, mentre la traduzione della prima risale al 1531. 126 Cfr. J. A. Guy, “Thomas More and Christopher St. German: The Battle of the Books”, in A. Fox e J. A. Guy (a cura di), Reassessing the Henrician Age: Humanism, Politics and Reform 1500-1550, Oxford 1986, pp. 95-120. 105 evidenti motivi durante il regno di Enrico VIII, proprio a partire dal quale –eccezione fatta per la reggenza di Maria I e l’affidamento dell’incarico a Williams sotto Giacomo I – vennero esclusi gli ecclesiastici dall’ufficio di Cancelliere e fu bandito l’insegnamento del diritto canonico dalle Università) avrebbe significato probabilmente il suo totale assorbimento nei principi e nelle procedure dei tribunali di diritto comune. Chiaramente indirizzato a sostenere attivamente la Riforma in Inghilterra, il libro di Saint German si proponeva di fornire “una legittimazione universale alle consuetudini proprie della sua comunità nazionale”127, calcando così la via battuta da tutto l’umanesimo giuridico del sedicesimo secolo. Questa legittimazione passava attraverso la ripresa dello schema scolastico di articolazione della legge tracciato da San Tommaso128, anche se il riferimento diretto di Saint German era a colui che fu cancelliere dell’università di Parigi dal 1395 al 1415, nonché uno dei massimi esponenti delle istituzioni e del pensiero ufficiale dell’epoca, Jean Gerson129. La derivazione non è affatto di scarsa importanza, perché indica chiaramente come il diritto inglese, giunto a dover rivendicare e definire il proprio statuto di fronte a, contro e sopra il diritto universale della Chiesa, si sia trovato ad accogliere proprio dal diritto canonico influssi considerevoli, seppur poi declinati in maniera peculiare e significativa: la giustificazione delle leggi dell’Inghilterra richiedeva innanzitutto di affermare il loro contenuto di ragione, e per ottenere ciò ci si era dovuti rifare a quel potente modello di pensiero nel quale la ragionevolezza della legge era un tutt’uno con la sua partecipazione 127 H. J. Berman, Diritto e Rivoluzione II, cit., p. 419. San Tommaso, Summa Theologica, Ia IIae, quest. 91. 129 Cfr. P. Prodi, Una storia, cit., pp. 182 ss. 128 106 ad una legge più alta, universale ed eterna130: il diritto naturale di San Tommaso d’Aquino. La trattazione di Saint German131 inizia quindi, come d’obbligo, dalla legge eterna, che veniva da lui intesa seguendo il nominalista Gerson, come atto della volontà divina; si passa poi alla legge di ragione, alla legge divina e infine alla legge umana. È la seconda articolazione che ci è utile per individuare l’ambito specifico nel quale Saint German modifica la tradizionale gerarchia scolastica delle leggi. Il titolo latino del secondo capitolo recita: “de lege rationis que inter doctores vocatur lex naturae rationalis creature sive ius gentium”. Un primo elemento va sottolineato a proposito della consueta identificazione tra legge di ragione e legge di natura, perché Saint German, come l’Aquinate, pur ammettendo un senso più ampio del concetto di lex naturalis che include tutte le creature – razionali e non – secondo la definizione di ius naturale di Ulpiano132, la intende in senso proprio133 soltanto come legge di natura delle creature dotate di ragione, le quali partecipano all’eterna legge di Dio per lumen naturalis rationis134. Nella versione latina questa specifica definizione collima con lo ius gentium, ma il riferimento alla nozione del diritto romano cade nella versione inglese dell’opera e non senza motivo: quando affronterà la legge di ragione, Saint German si distaccherà in maniera non irrilevante da Tommaso (il quale, valga la pena ricordarlo, pur senza Cfr. A. Passerin d’Entreves, La dottrina del diritto naturale, Milano 1980, cap. 2. Cfr. P. Vinogradoff, “Reason and Conscience in Sixteenth-century Jurisprudence” in The Collected Papers of Paul Vinogradoff London 19642, pp. 190-204. 132 Digesto, I, I, 1: “Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est.” 133 San Tommaso, Summa Theologiae, Ia IIae, quest. 91 a.2 ad 3: “In creatura autem irrationali non partecipatur rationaliter, unde non potest dici lex nisi per similitudinem”. 134 Cfr. San Tommaso, Summa Theologiae, Ia IIae, quest. 91 a.2 co.; J. Gerson, Opera Omnia, II, Anvers 1706, p. 202.; Ch. Saint German, Doctor and Student: or, Dialogues between a Doctor of Divinity and a Student in the Laws of England, Dublin 1792, Ch. 2. 130 131 107 addentrasi nelle difficoltà di una annosa questione, lega insieme in un rapporto deduttivo discendente, legge naturale e legge umana). Il giurista inglese procederà invece a stabilire una gerarchia che colloca al vertice la law of reason primary, comprendente quelle leggi ricavate dalla semplice ragione, i cui divieti e comandi sono accessibili a tutti gli uomini in ogni luogo ed in ogni tempo, e i cui contenuti concernono ad esempio, il valore della vita e la personalità umana. A questa seguirà la law of secondary reason, la quale verrà a sua volta distinta in due rami, generale e particolare: sarà proprio l’introduzione di quest’ultima suddivisione a non rendere più possibile la corrispondenza complessiva della legge di ragione con lo ius gentium. La legge di ragione secondaria generale sembra non creare difficoltà al riguardo, fondata com’è sulla consuetudine in base alla quale si garantisce la certezza della proprietà; il passo merita di essere citato per esteso, perché assume un aspetto ancor più interessante se osservato alla luce di quanto precedentemente sottolineato in quest’analisi a proposito del diritto proprietario. The law of a secondary reason general is grounded and derived of the general law, or general custom of property, whereby good moveable and immoveable be brought into a certain property, so that every man know his own thing. And by this branch be prohibited in the laws of England disseisins, trespass in lands and goods, rescuss, theft, unlawful with-holding of another man’s goods, and such other […] And because disseisins, trespass in lands and goods, theft, and other had not been known, if the law of property had not been ordained; therefore all things that be derived by reason out of the said 108 law of property, be called the law of reason secondary general, for the law of property is generally kept in all countries. 135 Si legga a fianco la conclusione al capitolo secondo. Il giurista inglese aveva allora riportato l’opinione secondo la quale la legge che prevede la comunanza dei beni non è mai stata una legge di ragione: essendo stata valida soltanto in fasi di estrema necessità136 (“time of extreme necessity”), mutando dunque a seconda delle circostanze, essa verrebbe a mancare di quel carattere immutabile proprio della law of reason. Proseguendo nel ragionamento saremmo portati a negare il carattere di legge di ragione alla stessa law of property, la quale verrebbe meno in circostanze eccezionali, rivelandosi anch’essa variabile nel tempo. Che tipo di legge è dunque la law of property, che ritroviamo ora in un senso che rientra nello ius gentium, ma non del tutto nella lex rationis? Incrociando i luoghi del testo potremmo ipotizzare si tratti di una legge in genere, desumibile da quella di ragione, e perciò riconosciuta generalmente in tutti i luoghi, che però conosce casi limite per i quali viene meno la sua consueta validità. Se già nella legge di ragione secondaria generale è ravvisabile una sorta di incrinatura nel concetto di legge di ragione pura, la lacerazione sembra palesarsi con ancor maggior chiarezza nel caso della law of secondary reason particular: qui cadono entrambi i criteri dell’universalità dello spazio e dell’immutabilità nel tempo, perché questa legge 135 Ch. St. German, op. cit., ch. 5. Ch. St. German, op. cit., ch. 2: “And here is to be understood, that after some men, the law whereby all thing were in common, was never of the law of reason, but only in the time of extreme necessity. For they say, that the law of reason may not be changed; but they say, it is evident, that the law whereby all things should be in common, is changed: wherefore they conclude, that was never the law of reason”. 136 109 riguarda soltanto il regno d’Inghilterra e deriva non dalla sola ragione, ma dalle consuetudini ivi esistenti. Il punto teorico è fondamentale per capire la giustificazione che Saint German dà del diritto inglese in nome del suo contenuto di ragione, o meglio, della sua ragionevolezza: “si tratta di una «ragione», se così possiamo esprimerci, non già astratta e universale, ma essenzialmente particolare e storica”137. Per meglio focalizzare la questione lo Studente ricorre ad un esempio concreto – mossa certo non irrilevante, che ritroveremo lungo tutto il testo – sottoponendo al Doctor of Divinity un caso non deciso, da considerare sotto la premessa di una legge consuetudinaria inglese che è stata anzitutto enunciata. Il Dottore giunge alla soluzione della vicenda seguendo, inconsapevole, passaggi logici che corrispondono esattamente a pronunciamenti fatti in passato da giudici inglesi 138, e ciò perché si tratta, nelle parole dello Studente, di un processo pratico nel quale si interpreta ragionevolmente il caso a partire dai principi del costume impostosi in Inghilterra. L’operazione compiuta da Saint German è chiara: egli mira a giustificare le operazioni dialettiche del diritto nazionale in base alla loro ragionevolezza, innalzando e rafforzando così lo statuto della legge inglese. Mentre le altre suddivisioni della legge si trovano al riparo dalle polemiche poiché il loro contenuto è da tutti sufficientemente A. Passerin d’Entreves, “La teoria del diritto e della politica in Inghilterra all’inizio dell’età moderna”, in Saggi di storia del pensiero politico, Milano 1992. L’ispirazione storicistica del diritto inglese sembra comparire in nuce in Saint German. Vedremo in seguito gli sviluppi di questo indirizzo nelle teorie degli scrittori successivi, per analizzare infine la critica mossagli da Hobbes e la risposta da parte di uno dei suoi più importanti rappresentanti, Hale. Vd. infra, pp. 142 ss. 138 Vd. P. Vinogradoff, op. cit., p. 195, nota. 137 110 noto, la legge di ragione secondaria particolare presenta, proprio riguardo alla sua conoscenza, grandi difficoltà; si tratta di una legge ibrida, che in quanto frutto della ragione non richiede necessariamente di venir fissata nella legge scritta, presentando di per sé un certo grado di evidenza, evidenza però non tale da renderla a chiunque disponibile; in quanto applicata a partire da antichi costumi, da massime e da statuti, l’interpretazione e la definizione del suo contenuto devono però essere affidate a giudici professionisti, al parlamento e al re. Saint German delinea così un quadro composto in primo luogo da immemorabili consuetudini che costituiscono in senso proprio la common law, conosciute soltanto in quanto determinate dagli esperti conoscitori dei principi della legge inglese. Se la certezza della common law è fondata sulla sapienza di giuristi addestrati a una pratica dimostrativa che non procede only by reason139, la sua forza obbligante è tutta racchiusa in questo senso di ragionevolezza intrinseca che non è mera ragione, ma ragione rafforzata da consuetudini accettate da tempo e perciò stesso presumibilmente buone e necessarie. Non passi inosservato il fatto che, in quello scollamento dall’immutabilità della pura ragione che poteva far pensare a un deficit di certezza del diritto comune inglese, Saint German ritrova in verità un diverso principio di ragione che, seppur imperfetto, finisce per potenziare la common law, dal momento che si intreccia in essa con una permanenza duratura nel tempo: come dire che la stessa mutabilità della consuetudine che rende Ch. St. German, op. cit., ch. 7. L’idea, da qui facilmente deducibile, di una ragione dei giuristi diversamente intesa, sarà lo spazio in cui troverà dimora il concetto di ragione artificiale. Vd. infra. 139 111 spuria la ragione, rimasta legata ad essa in un intreccio costitutivo, rappresenta un’aggiunta di valore in quanto mima, avvicinandola, l’eternità perduta. Vi è in ciò anche un forte tratto di debolezza: proprio in quanto non ancorata alla semplice ragione, la legge di ragione secondaria particolare basata sulla consuetudine può essere abolita o modificata mediante uno statuto parlamentare, e ciò non in virtù dell’essere gli statuti imposizioni di un organismo costituzionale superiore, ma piuttosto perché al parlamento Saint German attribuisce la suprema autorità interpretativa della legge naturale e divina, conferendogli quindi non solo – e si ricordi che si tratta del suo principale intento polemico – la giurisdizione sulle questioni ecclesiastiche, ma anche la capacità di valutare se e in che misura la common law si discosti da quelle. Il discorso circa la sovranità del parlamento, concetto di cui il nostro è considerato precursore140, lo si trova soprattutto negli scritti polemici degli anni trenta, attraverso i quali egli partecipa attivamente al dibattito nato intorno alla Riforma in Inghilterra. Esso rappresenta la chiave di volta della soluzione proposta da Saint German al conflitto di leggi e autorità esploso prima, durante e dopo l’emanazione dell’Atto di Supremazia nel 1534, e ridefinisce sopratutto il rapporto tra legge umana e legge divina. Sottratti gli statuti parlamentari ad ogni controllo di validità dalla prospettiva di un modello di diritto superiore, l’affermazione della corrispondenza delle leggi del regno alle leggi di Dio poteva sostenersi soltanto sulla base della loro coerenza effettiva e storica, riproponendo ancora una volta il criterio della durata, accanto a quello rilevantissimo del consenso tra re, nobili e commons, come segni fattuali della legittimità Cfr., J. A. Guy, “Thomas More…”, cit., p. 101. Vd. anche J. Golsworthy, The Sovereignty of Parliament: History and Philosophy, Oxford 1999, p. 71. 140 112 della legge positiva del regno: fino a prova contraria, la ragionevolezza della legge positiva doveva essere presunta. Nella lunga campagna contro la giurisdizione ecclesiastica, Saint German era giunto nei pressi del campo spinoso della coscienza individuale. Sostenne che in questioni attinenti il diritto, erano da seguire non i dettami dei chierici, ma sì quelli della legge, e non soltanto (e nemmeno soprattutto) quelli della legge divina o della legge di ragione pura: la coscienza doveva essere guidata e orientata principalmente della legge del paese, vale a dire, dai costumi, dalle massime, dagli statuti, e ciò perché, come egli si spinse ad affermare, il parlamento aveva avuto incarico non solo sui corpi, ma anche sulle anime dei sudditi141. Lungo questa via però il giurista inglese si trovò a dover affrontare un tema che investiva un altro durissimo conflitto tra giurisdizioni, non più la contrapposizione tra sfera ecclesiastica e temporale, ma quella tra Court of Chancery e corti di common law. All’interno del quadro delineato da Saint German si apriva però il seguente quesito: se l’intero sistema di giustizia doveva presupporsi ragionevole, che bisogno c’era di una giurisdizione orientata a correggerlo? O più precisamente, perché si rendeva necessaria la presenza di una corte separata che amministrasse l’equità? Dopo il cancellierato di Thomas Wolsey (1515-1529) – versione embrionale di quello sovversivo di Ellesmere (1596-1617)142 – Saint German tentò per primo di definire i Vd. Ch. Saint German, “A Lytle Treatise Called The Newe Addicions”, in T. R. T. Plucknett, J. L. Barton (a cura di), St. German’s Doctor and Student, London 1974, p. 327. 142 Vd. supra, p. 95. 141 113 rapporti tra common law ed equity battendo la via della conciliazione e del riconoscimento reciproco tra le sfere. In questa misura, la risposta alla domanda sopra enunciata si orienterà all’individuazione della complementarietà tra le corti, e la loro esistenza separata verrà ricondotta soltanto alla diversità delle procedure in esse seguite e non già a tipi di giustizia diversi e opponibili, o addirittura gerarchicamente disposti. Secondo Saint German (il quale parte dal concetto aristotelico di epieikeia, riprendendolo non direttamente dai luoghi classici dell’Etica Nicomachea143, ma dalla trattazione di Gerson144, per declinarlo poi in modo originale), la Corte della Cancelleria provvedeva a offrire rimedio alla parte lesa esclusivamente mediante il writ di subpoena145, solo e unicamente nel caso eccezionale in cui le corti di diritto comune non fossero riuscite a fare giustizia tramite le loro procedure ordinarie; il che equivaleva in verità ad affermare che i pronunciamenti della giurisdizione d’equity non avrebbero potuto dar luogo a sentenze contro la common law, dal momento che consistevano piuttosto in un’integrazione attraverso la quale si dava voce alla legge di ragione, nel caso in cui fosse rimasta silente una volta applicati gli schemi procedurali ordinari. Per questi passi che costituiscono la ‘fonte madre’ di ogni discorso sull’equità, vd. Aristotele, Etica Nicomachea, V, 12, 1136b 33; V, 14, 1137a 31 – 1138a 3; VI, 11, 1143a 20. Vd. anche, Retorica, I, 13, 1374a 26 – 1374b 23. 144 Ch. Saint German, op. cit., ch. 16: “And it is called also by some men epieikeia; the which is no other thing but an exception of the law of God, or the law of reason, from the general rules of the law of man: when they by reason of their generality, would in any particular case judge against the law of God or the Law of reason, the which exception is secretly understood in every general rule of every positive law” (corsivo nostro). 145 Col writ di subpoena, valido ovunque nel paese, la corte ingiungeva al convenuto di comparire e rispondere alla petizione, pena una consistente ammenda o persino l’imprigionamento; in esso non veniva precisato il motivo dell’azione, deresponsabilizzando così il postulante. Il procedimento avviato prevedeva che il Cancelliere, non affrancato da una giuria, potesse ricevere testimonianze direttamente dalle parti in causa. Abbiamo già avuto modo di dire come la minor formalità delle procedure della Court of Chancery fosse spesso sinonimo di maggiore efficacia e celerità rispetto all’operato delle corti di diritto comune. Vd. Garavaglia, op. cit., p. 582. 143 114 Il giurista escludeva così dall’azione legittima della Cancelleria la possibilità di correggere decisioni già prese nel King’s Bench, nella Court of Common Pleas e nella Court of Exchequer146; proprio ciò che farà invece Ellesmere generando lo scontro con Coke. Ancora una volta il carattere non assoluto e imperfetto della common law lascia aperta la porta a un suo potenziamento: l’equity non smentisce la ragionevolezza del sistema perché, alla luce del suo intervento, la mutabilità del diritto comune inglese indica la possibilità di un completamento che, in fin dei conti, tende a connotare la common law in modo forse più ampio, ma pur sempre autosufficiente. Facendo della peculiarità della Court of Chancery la sua specifica procedura, Saint German non solo collocava l’equità sul medesimo piano della common law in senso stretto, ma inquadrava la prima, allo stesso modo in cui era inquadrata la seconda, in un parametro di applicazione pratica prestabilito che, inevitabilmente, conosceva eccezioni in casi determinati: vi erano dunque circostanze nelle quali la giurisdizione d’equity nulla poteva. Questa conclusione ci porta a chiarire il senso esatto in cui l’equità viene considerata come un tramite della coscienza: la Corte della Cancelleria era una court of conscience non nel senso che seguiva la coscienza del Lord Cancelliere, ma nella misura in cui la sua procedura era volta a stabilire, sempre guidata dai principi e dai fondamenti della legge d’Inghilterra, la vera giustizia sottaciuta dalla common law: la coscienza alla quale attingeva non presentava un carattere individuale, ma poteva essere intesa piuttosto come una sorta di “coscienza nazionale” che aleggiava intorno al diritto comune inglese. 146 Cfr. A. Cromartie, art. cit., p. 82. 115 A partire da queste premesse, nessun rimedio equitativo era offerto dunque nei casi in cui non vi fosse l’evidenza delle prove da sottoporre alla corte, come non era prevista nemmeno alcuna correzione da parte di essa di massime o statuti: gli occhi della corte di equità erano ciechi nei casi in cui la ragione (o l’assenza di essa!) si celasse, da una parte nel margine pur ristretto in cui la coscienza individuale rimaneva insondabile, e dall’altra in quella sfera in cui la decisione del parlamento era sovrana e insindacabile. Tanto l’individuo come il parlamento avrebbero potuto in linea teorica, compiere il male assoluto o l’assoluto bene, agendo arbitrariamente o liberamente, e in entrambi i casi essi sarebbero stati come demoni o santi non imputabili davanti ad alcuna corte umana. Nel secondo caso si sarebbe trattato della realizzazione della pura ragione, ed il massimo bene non conosce accuse e non necessita di tribunali (quando a fare la rivoluzione saranno i santi147, infatti, chi li potrà giudicare?). Di fronte invece all’eventuale devianza dalla legge di ragione nessuna sanzione legale è disponibile. La soluzione al dilemma che emerge dalle parole di Saint German è pregnante, da qualunque angolatura la si guardi. Se la bontà dell’azione del parlamento è da lui provata per via fattuale, affermando dunque la presunzione della ragionevolezza della sua decisioni in base alla storia, egli ritrova la bontà dell’uomo elaborando proprio il concetto di coscienza: a monte di questa, Saint German indicherà la nozione di synderesis148 – giunta fino a lui seguendo un percorso che parte dal commento a Ezechiele di Girolamo, passa a Alberto Magno e 147 148 Cfr. Walzer M., The Revolution of the Saints: A Study in the Origins of Radical Politics, London 1982. Cfr. Ch. Saint German, op. cit., ch. 13. 116 da lì a Tommaso149 – ovvero quel potere naturale dell’anima di muovere verso il bene e discostarsi dal male. Sulla base di questa facoltà di discernimento, grazie alla quale sono in lui i principi della legge di ragione, l’uomo sarà in grado di testare in cuor suo la validità delle leggi, e, nel caso specifico in cui esse si dimostrino ingiuste, egli potrà provvedere a rimediare secondo il dettame non già della legge, ma della sua personale coscienza. La nascita del movimento antiquario: Lambarde Nella figura di William Lambarde (1536-1601) trovano luogo e sviluppo alcuni dei più importanti aspetti del pensiero di Saint German, dal ruolo centrale del parlamento, alla complementarietà tra common law ed equità ed al valore della storia come cardine di legittimità del sistema giuridico inglese. Da quest’ultimo tema converrà prendere le mosse per comprendere l’importanza di colui che viene considerato essere il fondatore, e insieme ad Hale uno dei massimi esponenti, dell’antiquaria giuridica inglese. L’inizio del movimento antiquario – che sul piano della storia legale può ben considerarsi la risposta culturale alla questione posta, ma non risolta, da Saint German, circa la vetustà degli istituti giuridici inglesi – può datarsi al 1576, anno in cui venne pubblicata la prima storia di una contea inglese, la Perambulation of Kent: containing the description, Hystorie, and Custumes of that Shyre150, scritta da Lambarde. 149 P. Vinogradoff, cit. W. Lambarde, Perambulation of Kent: containing the description, Hystorie, and Custumes of that Shyre, London 1576. Cfr. G. Burgess, The Politics of the Ancient Constitution, Pennsylvania 1993, pp. 58 ss. 150 117 L’interesse dell’opera, che doveva essere la prima di una serie di studi corografici volti ad indagare le antichità inglesi contea per contea (ma il progetto venne abbandonato dopo la lettura del manoscritto della Britannia di Camden151 nel 1585), sta nel suo rappresentare quel particolare tipo di approccio storico (destinato a diventare un vero e proprio genere della storiografia del paese) che ha come oggetto circoscritte realtà regionali entro i cui confini vengono ritrovate le manifestazioni locali che innervano la vicenda nazionale nel suo complesso. L’importanza della ricerca intorno a queste declinazioni topiche emerge con tutta la sua forza se la si osserva alla luce dei presupposti teorici rinvenibili in Saint German: di essi, tale indagine costituisce una sorta di ricaduta sul piano dei saperi, e risulta evidente come la progressiva retrodatazione degli istituti, nonché il crescere della certezza delle conoscenze sui loro tratti specifici, abbia permesso di conferire spessore materiale alla loro bontà e alla peculiare razionalità che essi incarnano. In questo senso far risalire la creazione degli organi giuridici all’epoca della conquista sassone come fa Lambarde nell’Archeion, or, A discourse Upon the High Courts of Justice in England152, risultava essere un’operazione di enorme rilevanza: la genesi del sistema veniva situata così in un tempo lontanissimo, e ricollegata inoltre alle usanze di un popolo le cui radici affondavano in un immemorabile passato che emergeva, significativamente (e la questione meriterebbe trattazione a sé), dalle pagine di quello che in tempi più recenti – e per ben altri motivi – è stato definito uno dei libri più pericolosi mai scritti153, la Germania di Tacito. 151 W. Camden, Britannia, London 1585. W. Lambarde, Archeion, or, A discourse Upon the High Courts of Justice in England, London 1635. 153 A. Momigliano, Studies in Historiography, New York 1966, pp. 112-113. 152 118 Collocando la nascita della common law prima della conquista normanna, Lambarde negava l’idea che essa potesse considerarsi risultato dell’azione innovativa di un solo re, e pur mantenendo la figura della regalità, egli l’intrecciava inscindibilmente ad un elemento consensuale che risuonava nelle parole dei capitoli settimo e undicesimo dell’opera tacitiana: “Nec Regibus infinita potestas, de minoribus rebus Principes consultant, de majoribus omnes”154. La natura di questa compresenza di elementi è rintracciata nel precorso di formazione delle corti di giustizia, che, schematicamente, possiamo riproporre come segue: Lambarde fa nascere il governo quando il popolo, dilaniato da conflitti, si sottomette in vista della pace, alle leggi e ai comandi di un re; quando questi però volge a proprio personale vantaggio tali disposizioni, allora il popolo concepisce leggi e precetti di giustizia che legano il governante; quest’ultimo, allora, si incaricherà di stabilire corti che offriranno rimedi alle ingiustizie, applicando le direttive provenienti dal popolo stesso. Ciò che ci interessa sottolineare, in quanto descrive esemplarmente una tensione che abbiamo più volte detto essere strutturale, è il fatto che l’esposizione di Lambarde torni continuamente sia sulla centralità del parlamento insieme con le corti ordinarie, sia sulla presenza di quel potere “sovrano e preminente”155 di equità, il solo in base al quale il re può esercitare pienamente l’ufficio di rendere giustizia. 154 W. Lambarde, Archeion, cit., p. 246. Ibid., p. 68 (tr. it. in N. Matteucci, Costituzionalisti inglesi, Bologna 1962, p. 47) : “Considerando che il principe di questo regno è l’immediato ministro della giustizia in Dio, e che alla sua incoronazione ha giurato di rendere ai suoi sudditi aequam & rectam Iutstitiam, non posso immaginare come ciò possa avvenire in altro modo, se non che, oltre alla sua corte di mero diritto, egli debba riservare a se stesso, o rimettere ad altri, un certo potere sovrano preminente, col quale egli possa al tempo stesso sopperire alle mancanze, e correggere il rigore di quel diritto positivo e scritto, che di per sé non è, né può essere fatto, una regola talmente perfetta, che un uomo possa con essa rettamente misurare la giustizia in tutti i casi che possano avvenire”. 155 119 Tenendo insieme questa duplice prospettiva, il sistema di diritto inglese è per lui la realizzazione di un’aurea via di mezzo tra le estreme circostanze nelle quali potrebbe rivelarsi arbitraria l’azione delle une e dell’altro, e grazie ad essa si congiungono, secondo precisi criteri, l’esigenza di una giustizia ordinaria che agisca mediante l’applicazione di determinate forme giuridiche e la necessità di una giustizia equitativa che integri e mitighi il rigore delle leggi. Fra questi due estremi, Medio tutissimus ibis, c’è una via di mezzo, che preserverà al tempo stesso la maestà del re, manterrà l’autorità delle corti ordinarie, e soccorrerà l’angosciato cliente nel più grave disagio. La qual via di mezzo, per dirla brevemente, è questa che ho detto: sempre che l’ordinaria giurisdizione delle corti di common law non venga impedita da tale sconfinata autorità, ma soltanto (come ho detto) laddove esse non abbiano autorizzazione ad accogliere il processo, o laddove il corso della loro debita procedura sia disturbato; o laddove il caso sia tale da meritare di essere ascoltato in più alta sede; o la parte sia tale da essere incapace di reggere il faticoso corso di un solenne processo e giudizio; o laddove qualche altra rara, straordinaria, o importante considerazione indurrà ad adottare questo 156. La specificazione dei modi in cui questa coesistenza deve avvenire sposta sempre più la tematica del rapporto common law/equity sul piano costituzionale, e sempre a questo proposito non sembra irrilevante il fatto che, a differenza di Saint German che rimarca essere l’equity amministrata innanzitutto dai giudici piuttosto che dal re, Lambarde pur dicendo della possibilità di delega – – enfatizzi proprio l’origine regale della giurisdizione di equità, definendola propriamente come la “coscienza del principe”. 156 Ibid., p. 121 (tr. it. pp. 49-50). 120 Il pericolo potenziale insito nell’esercizio delle due giurisdizioni insieme alla possibilità di una loro perfetta associazione e successo nel caso in cui si limitino e si completino a vicenda, vengono resi con eloquenza quando Lambarde paragona la legge e l’equità a due piante velenose che se mescolate abilmente, compongono una dolce medicina: “a most sweet and harmonical Justice”157. Lo sforzo, tutto teso a dimostrare l’armonia risultante dalla doppia radice di un assetto giuridico che proprio in virtù della sua “aurea mediocrità” costituiva un sistema naturale e ordinato, è chiara espressione delle preoccupazioni di fine secolo 158: la sua eco però giungerà a farsi sentire – il libro, scritto nel 1591, sarà pubblicato postumo nel 1635 – soltanto quando si accorderà con l’enfasi ideologica che già negli anni precedenti alla guerra civile, si rivolgeva alla tradizione per recuperare, in realtà rifondandola, l’armonia perduta: una tradizione che poteva “essere rimessa in piedi solo per mezzo della soppressione del passato prossimo e il ritorno a un passato più remoto”159. La legge come ragione artificiale: Coke Solo a patto di scegliere specifiche e circoscritte ‘linee di lettura’ si può forse aspirare a rendere, o almeno ad evocare con successo, la complessità e la ricchezza d’implicazioni del pensiero degli autori che abbiamo scelto di affrontare. Ciò vale a maggior ragione per un personaggio del calibro di Sir Edward Coke, figura di primissimo ordine del pensiero giuridico inglese, coinvolto profondamente, come abbiamo già avuto modo di accennare, nelle vicende travagliate del suo tempo, capace di veicolare in nome di una passione per la propria disciplina alla quale è difficile trovare 157 W. Lambarde, Archeion, cit., p. 69. Cfr. supra, I.1. 159 H. J. Berman, Diritto e Rivoluzione I, cit, p. 127. 158 121 eguali, un patrimonio sapienziale che catapultò nella modernità e oltre, un’impronta medievale che, applicata a tempi nuovi, si caricò di significati inediti. Nelle pagine che seguono non ci proponiamo quindi di offrire una visione globale della sua concezione giuridica o un resoconto dettagliato del suo ruolo politico, ma piuttosto cercheremo di isolare alcuni aspetti che abbiamo già visto posti e in vario modo sviluppati da Saint German e Lambarde, per mettere a fuoco il modo in cui vennero collocati e ridefiniti all’interno della sua opera (contro la quale, converrà ricordarlo, si scagliò esplicitamente lo Hobbes del Dialogue). Oltre ad essere oggetto del dibattito che lo vuole rappresentante tipico o viceversa voce eccentrica della “common law mind”160, Coke è stato detto essere esponente di un conservatorismo rivoluzionario161 e tale definizione ci aiuta più di altre a ricollegare il discorso su di lui a quanto detto in conclusione al paragrafo su Lambarde: l’urgente bisogno di una riforma del sistema di giustizia, che è il risvolto, sul piano giuridico, di una rottura sistemica non più ricomponibile, si trasformò nelle mani di Coke anzitutto in un impresa letteraria senza precedenti, la quale, attingendo ad un passato remoto, pose le basi di un assetto nuovo nel quale ebbero seconda vita antichi principi e lontani saperi. Nei quattro volumi degli Institutes of the Laws of England Coke mise la sua vastissima conoscenza degli Year Books a disposizione di tutte le generazioni di common lawyers a venire, traendo fuori da quelli che sono “la forma più misteriosa ed al contempo più 160 Per la prima opinione vd. Pocock, J. G. A., The Ancient Constituition and the Feudal Law: A History of English Historical Thought in Seventeen Century. A Reissue whith a Retrospect, Cambridge 1987. Per la seconda, G. Burgess, op. cit. 161 Cfr. H. J. Berman, Diritto e Rivoluzione II, cit, p. 442. 122 caratteristica della letteratura giuridica inglese medievale”162, un patrimonio che altrimenti sarebbe forse rimasto occulto e silente. L’opera tuttavia non è una panoramica completa sul diritto inglese disposta in forma di norme, ma piuttosto un commentario alle sue fonti, teso fondamentalmente a trasmettere l’arte del ragionamento legale: questa sua forma di glossa comprende già i tratti caratteristici della concezione del diritto del suo autore. Il lontano passato al quale Coke rivolge l’attenzione è principalmente e significativamente l’epoca precedente ai Tudor. Non che egli neghi il carattere immemore del diritto inglese: per lui, come per gli autori a lui antecedenti, la notte dei tempi nella quale si perdono le origini della common law non conosce un inizio fissato nella memoria o riportato nei registri; ma quando egli guarderà ad un passato ancora più remoto per ritrovare le fasi embrionali delle istituzioni inglesi, seguendo a ritroso lo sviluppo della common law, il suo approccio storico si rivelerà approssimativo e spesso insostenibile. E ciò si spiega perché al Coke giurista non interessa tanto stabilire la storicità dei fatti, quanto soprattutto rimarcare la continuità ininterrotta di questa storia; e in questo senso, retrodatare l’origine della common law persino ai tempi di Bruto di Troia, con Fortescue e contro il Goticismo di Lambarde, significa affermare anzitutto che il diritto inglese è sopravvissuto inalterato ad ogni conquista e ad ogni conquistatore. I casi tratti dagli Year Books non tracciavano una linea di partenza, ma erano soltanto la fonte scelta da cui trarre un corpo organico di principi che si sarebbero ritrovati identici in tutto l’arco della storia inglese. Sia detto per inciso che, dopo la composizione degli 162 Composti tra il 1270 circa fino al 1535, gli Year Books raccolgono informalmente decisioni, statuti, dibattiti, riflessioni estemporanee, riportando per ognuno l’anno del regno in cui sono avvenuti. Si tratta di una sorta di pangea dei generi della letteratura giuridica inglese. Vd. U. Mattei, op. cit., p. 44. 123 Institutes, nessun common lawyer guardò più indietro o fuori da quanto commentato da Coke. “Si creò immediatamente la tendenza a non andare a guardare il diritto anteriore a Coke. I vecchi casi da lui citati avrebbero continuato ad essere citati, quelli da lui omessi non sarebbero mai più stati recuperati”163: l’opera costituì nei fatti, un limite e un ancoraggio della memoria giuridica inglese. È stato proprio il carattere paradossale della compresenza nella legge di un elemento consuetudinario, quindi mutevole, e un aspetto fisso e immodificabile, a dar filo da torcere agli interpeti di Coke. Come potevano convivere questi due aspetti? Abbiamo visto con Saint German e Lambarde come l’ispessimento giuridico e filosofico dell’elemento consuetudinario abbia implicato il riconoscimento della mutabilità della legge e portato con sé la necessità di dare a questo carattere un valore positivo e rafforzativo della common law. Ora però Coke si trova di fronte alla crisi di un assetto che, fondato su questi mobili pilastri, non è più capace di armonizzare da sé le intrinseche componenti contrapposte; e in questa precisa misura non riesce più ad essere garante di certezza, per cui lo sforzo della sua riflessione volge tutto all’individuazione di fondamenti saldi e immutabili in grado di contenere la spinta dissolutiva dei mutamenti. For any fundamental point of the ancient common law and customs of the realm, it is a maxim in policy, and a trial by experience, that the alteration of any of them is most dangerous for that which had been refined and perfected by all the wisest men in former succession of ages and proved and approved 163 T. F. T. Plucknett, A Concise History of the Common Law, Boston 19565, p. 283, citato da U. Mattei, op. cit., p. 47. 124 by continual experience to be good & profitable for the common wealth, cannot with great hazard an danger be altered or changed 164. Il suo conservatorismo è la risposta ad una precisa circostanza politica in cui l’appello alla natura e al contenuto di ragione della legge inglese era divenuto strumento sovversivo nelle mani di chi, come Ellesmere e Giacomo, tendeva ad espandere la sua giurisdizione oltre i limiti prestabiliti dal sistema, indirizzando la monarchia a divenire più potente di quanto non lo richiedesse il mantenimento dell’ordine sociale esistente165: ai suoi occhi fu evidente che il richiamo ai precedenti consuetudinari, in mancanza di un chiaro riferimento ad un fondamento di legittimità, poteva rappresentare una seria minaccia al potere del diritto e alle libertà individuali. La preservazione di questi ultimi è il fulcro della riflessione di Coke, ma dovremo precisare in seguito in che modo essi si debbano intendere. Sir Edward non dubitò nell’invocare la legge di natura quando si trattò di fare della fedeltà alla Corona – dovuta in pari modo da tutti i cittadini nati dopo l’incoronazione di Giacomo in entrambi i suoi regni 166 (Calvin’s case, 1608) – il fondamento della legittimità della naturalizzazione (sic) dei sudditi scozzesi. 164 E. Coke, Le Qvart Part des Reports del Edward Coke, London, 1604, preface, sig. B2, citato da M. Lobban, op. cit., p. 35 165 Cfr. B. Manning, art. cit., (tr. it. p. 347) e in generale, supra, I. 1. 166 Cfr. G. Burgess, op. cit., pp. 127 ss. Pur senza poterci soffermare nel dettaglio, il punto che emerge da quanto afferma Burgess è molto indicativo: nel momento in cui la riflessione giuridica inglese si trova ad agire in funzione imperialistica, ed è il caso dell’Unione Anglo-Scozzese, essa fa uso di quel jus gentium che è stato bandito, in modo complesso, articolato e per molti versi ambiguo, dai propri confini. Interessante notare insieme che dopo la Gloriosa Rivoluzione del 1689, il parlamento inglese “permise alle prerogative regie di sopravvivere, per esempio, nel controllo delle colonie inglesi d’oltremare” (H. J. Berman, Diritto e Rivoluzione II, cit., p. 411). 125 Nel giudizio sul caso Calvin, il successo del re nell’affermare un dovere “esistito fin dall’istituzione del governo e prima della creazione delle legge e del diritto”167, fu sostenuto da chi, come Coke, ebbe modo di asserire che “before judicial or municipal laws were made, Kings did decide causes according to natural equity, and were not tied to any rule or formality of law, but did dare jura”168. Quale maggior riconoscimento della prerogativa regia! Coke non era un oppositore della filosofia giuridica di Giacomo: il dissidio sorse quando si fece palese il fatto che conferire al re la piena titolarità di una tale autorità naturale ed extra-giuridica poteva condurre sia ad un indebolimento della base dei diritti dei sudditi inglesi (finché si tratto di quelli dei sudditi scozzesi tale possibilità non sembrò particolarmente problematica), sia ad una fatale menomazione della common law; fu ciò che avvenne durante lo scontro con il Cancelliere Ellesmere e in occasione del Bate’s Case. I due aspetti in verità erano per Coke profondamente intrecciati ed è significativo il fatto che la difesa di entrambi i diritti, dei sudditi e della common law, rimandi nella sua argomentazione ad un concetto di proprietà ereditabile, non lontano da quello di cui si avvaleva Giacomo per difendere la propria prerogativa. È da questa prospettiva che risulta anzitutto insostenibile considerare la posizione di Coke come una difesa della libertà in senso astratto dell’individuo: se è vero che egli, ridefinendo una questione che avevamo visto insinuarsi in Saint German, fa della sfera individuale dei soggetti un criterio di legittimità e un limite all’arbitrio – si ricordi che 167 168 G. A. Ritter, art. cit., (tr. it., p. 88). English Reports vol. 77, p. 392, citato da M. Lobban, op. cit., p. 55. 126 egli fu il redattore, insieme a Selden, della Petition of Right – è altrettanto vero che intende tale sfera come una dimensione del tutto diversa a quella della coscienza. Quando dice libertà, egli pensa alle libertates feudali, ai beni, alle franchigie e ai privilegi169; quando ne afferma il carattere fondamentale in nome di una serie di statuti medievali che vanno dal de Tallagio non Concedendo alla Magna Carta, sta sostenendo il carattere naturale e inviolabile, per l’uomo inglese, della proprietà privata, e non certo della ragione individuale. Tuttavia la difesa delle libertà così intese, nella congiuntura politica dell’epoca, assumeva un valore costituzionale dalla portata potenzialmente rivoluzionaria: ad esempio,l’idea tipicamente feudale secondo la quale “la dimora di un inglese è per lui come il suo castello”, evocata a più riprese sia nei Reports e che negli Institutes, veniva tramutata in un principio giuridico sulla base del quale sarebbe stato possibile affermare l’illegalità delle requisizioni ad opera del re170; in generale, Coke stava creando un fondamento (ben più saldo della memoria giuridica) a cui ancorare la libertà degli inglesi, intesa come l’insieme dei loro beni e come totale l’arbitrio sulla loro propria persona e su di essi171; egli stava ridefinendo la storia del diritto nazionale in termini di Tradizione e Precedente, in base ai quali legittimare e garantire, sempre e solo secondo l’interpretazione dei giuristi, la proprietà. “In sostanza Coke pensava in termini di «diritti» non di «diritto»” 172, ma proprio la tutela di questi diritti concreti richiedeva anche il ripensamento e la riformulazione di una teoria del diritto che in questi anni stava rivelandosi incapace di dare certezza, e ciò Nel secondo volume degli Institutes Coke usa questi termini nel commento all’articolo 29 della Magna Carta; vd. N. Matteucci, op. cit., p. 60. 170 Ch. Hill, Intellectual Origins of The English Revolution Revisited, Oxford 20022, p. 211. 171 Cfr. C. B. Macpherson, The Political Theory of Possessive Individualism, Oxford 1962, ch. III. 172 Ch. H. McIlwain, op. cit., p. 36. 169 127 appunto perché, secondo il fronte antimonarchico, la prerogativa regia aveva invaso illegittimamente la sfera della proprietà dei cittadini, nella quale veniva a comprendersi anche il diritto stesso. La risposta di Coke è perentoria: “La common law ha tanto riproporzionato le prerogative del re, che queste non possono togliere, né pregiudicare, il retaggio di alcuno; e il miglior patrimonio che il cittadino possiede è la legge del regno”173. Seguendo questa direzione, Coke si trovò a spostare il baricentro della riflessione giuridica da quegli elementi di mutevolezza e dinamicità propri della consuetudine al polo della ferma ragione, che, da lui concepita in senso innovativo, avrebbe costituito il perno di una teoria del diritto specificamente inglese, e si sarebbe in verità sganciata in modo ben più radicale rispetto a Saint German, dall’idea di ragione naturale. Nel 1607 Sir Edward ebbe a dire al re che “le cause riguardanti la vita o il patrimonio o i beni e le fortune dei suoi sudditi non erano cose da decidersi in base alla ragione «naturale», ma in base alla ragione «artificiale» e al giudizio della legge, la quale legge è un atto che richiede lungo studio ed esperienza prima che un uomo possa attingere alla sua conoscenza”174. Riportiamo per intero il celebre brano degli Institutes che definisce il nuovo concetto, che pure avevamo già parzialmente rinvenuto nella prima citazione qui fatta dell’opera di Coke, quando si diceva sulla pericolosità di innovare quelle antiche leggi affinate e perfezionate dai più saggi uomini continuativamente nel tempo. 173 E. Coke, Le Second Part des Reports del Edward Coke, London, 1604 (tr. it. in N. Matteucci, op. cit., p. 63). 174 Ibid., p. 56. 128 And this is another strong argument in law, Nihil quod est contra rationem est licitu; for reason is the life of the law, nay the common law itselfe is nothing else but reason; which is to be understood of an artificiall perfection of reason, gotten by long study, observation, and experience, and not every man’s naturall reason; for, Nemo nascitur artifex. And therefore if all the reason that is dispersed into so many severall heads, were united into one, yet could he not make such a law as the law in England is; because by many successions of ages it hath beene fined and refined by an infinite number of grave and learned men, and by long experience growne to such perfection, for the government of this realme, as the old rule may be justly verified of it, Neminem oportet esse sapientorem legibus: no man out of his own private reason ought to be wiser than the law, which is the perfection of reason 175. Coke si trova a sostenere la supremazia della common law in nome della sua razionalità, ma la sua concezione della legge richiede ora di incorporare pienamente la purezza e l’immutabilità a cui aveva rinunciato la ragionevolezza di Saint German. La ragione naturale, tenacemente ridotta alla ragione individuale, viene contrapposta ad una ragione artificiale inedita che, da sola e pienamente, costituisce il criterio conoscitivo in grado di dire e interpretare la legge, e la cui essenza consiste in un patrimonio sapienziale creatosi nel tempo all’interno delle corti e custodito e perfezionato nell’erudizione dei giuristi di professione. Coke identifica il concetto di common law con la cornice razionale così definita, o meglio, col ragionamento giuridico stesso. 175 E. Coke, The First Part of the Institutes of the Laws of England, or, a Commentary upon Littleton, London 179415, 97b. 129 Si deve certo pensare a quel procedimento non riconducibile interamente alla razionalità naturale accennato in Saint German, ma la radicalizzazione del motivo fa sì che ora ad esso venga attribuita una perfezione ed una completezza tali da affermare la supremazia del diritto comune inglese contro quella di ogni altra istanza, e con ciò, in realtà, la titolarità giuridica di un sovraordinato potere dei common lawyers. Il sapere pratico di questi uomini saggi ha “finito e rifinito” la legge, instituendo e perfezionando un’arte che ingloba ogni aspetto del mondo del diritto nella misura in cui domina le regole di applicazione concreta dei principi: è evidente che la ragione artificiale di cui parla Coke trova dimora solo nel luogo e nel tempo della nazione inglese, perché ciò che in essa vien fissato è il modo specifico in cui il diritto prende vita in quel determinato contesto176. Si badi però al fatto che egli pensa ad un’arte in senso alto, che solo lontanamente ha a che fare con gli artigianali lavorii e che si distingue dalle pratiche locali: il diritto comune inglese è per lui qualcosa di più e di diverso delle consuetudini regionali nate nel seno e legittimate dall’uso continuativo delle comunità; esso rimanda invece a costumi generali definiti e sviluppati esclusivamente nelle corti da esperti professionisti profondamente conoscitori delle procedure e dei principi. Con questo tenace sforzo di affermare la supremazia della common law grazie anche al potente strumento della ragione artificiale – monopolio di sapienza dei giuristi, contrapposta e collocata sopra la ragione privata – Coke vuol compiere al medesimo tempo un’operazione di inclusione e di nuova gerarchizzazione, disponendo gli elementi in una scala arte-fatta che ha come vertice le prerogative delle corti di diritto comune: 176 H. J. Berman, Diritto e Rivoluzione II, cit., p. 438. 130 queste avrebbero dovuto costituire un potere superiore la cui esistenza si dimostrava necessaria per ripristinare l’armonia, un’ultima istanza alla quale sarebbe spettata esclusivamente l’interpretazione dei precedenti, degli statuti, oltre la quale non sarebbe potuta andare neanche l’equity. Incarnando assolutamente e perfettamente la ragione, la common law così concepita escludeva l’esistenza di ogni beyond, e pur riconoscendo l’esistenza di una discrezionalità pur sempre ineliminabile, avocava a sé la definizione e la salvaguardia dei limiti entro i quali doveva esercitarsi, ovvero, detto con espressione paradossale, reclamava l’essere una prerogativa della prerogativa. Sappiamo che sul piano politico la linea non ebbe successo; sul piano giuridico invece essa ebbe invece in certo senso lunga vita177. Ma dal punto di vista filosofico tale idea di ragione racchiudeva il sapere fondante l’ordine in un mistero talmente ermetico da non poter non rappresentare una sfida aperta per un pensatore come Hobbes. Legge naturale e legge positiva in Hooker Far seguire all’analisi su Coke quella su Richard Hooker non ha certamente una giustificazione cronologica: Hooker nasce un paio di anni dopo Coke, ma la sua prematura morte nel 1600 anticipa di trenta anni quella di Sir Edward. La motivazione di questa scelta è piuttosto di ordine teorico: nella riflessione di Hooker ci sembra di scorgere una posizione che, pur se collocata prima nel tempo e legata 177 Vd. supra, I.2. 131 inseparabilmente alla vicenda dell’anglicanesimo, supera per finezza, rigore e originalità, la riflessione del più importante giurista inglese. Non soltanto: la ripresa di alcuni suoi motivi da parte di Selden e Hale costituirà un fondamentale contrappunto alle considerazioni sul diritto di Hobbes. Il “giudizioso” Hooker, così chiamato perché considerato rappresentante eccellente della moderazione e del buon senso propri dello spirito inglese, fu l’autore di una magnifica opera apologetica che segnò uno dei principali “punti di partenza per il cammino intrapreso dall’Inghilterra nel discostarsi dalla corrente principale del protestantesimo europeo”178: The Laws of Ecclesistical Polity179. In essa cercò di affrontare e risolvere i problemi sollevati dall’affermazione puritana, secondo la quale le Scritture avevano definito in maniera univoca e definitiva la forma del governo ecclesiastico; l’obbiettivo di Hooker era quindi dimostrare “in quale modo si esplichi la libertà umana nella vita morale, sociale e politica, quali siano i limiti di tale libertà, e con quali mezzi l’umanità possa giungere allo stabilimento di ottime leggi per il quieto e bene vivere in terra, che, seppur non direttamente ordinate da Dio, possono dirsi di possedere indiretta approvazione e sanzione divina”180. Vi è in Hooker come in Coke l’affermazione della supremazia del diritto, ma le differenze intorno alla definizione di quest’ultimo sono più che sostanziali. D. MacCulloch, Reformation. Europe’s House Divided, 1490-1700, London 2003 (tr. it., Riforma. La divisione della casa comune europea 1490-1700, Roma 2010, pp. 643 ss.) 179 L’opera è composta da otto volumi, i primi cinque dei quali vennero pubblicati con Hooker ancora in vita; gli ultimi tre dopo complesse vicissitudini e evidenti modifiche, videro la luce, il sesto e l’ottavo nel 1648, il settimo nel 1662. Vd. R. Hooker, Of the Laws of Ecclesistical Polity, in The Folger Library Edition of the Works of Richard Hooker, vols. 1-3. Cambridge 1977. 180 A. Passerin d’Entrèves, “La teoria…”, cit. 178 132 Troviamo infatti, all’avvio della trattazione del teologo anglicano, una concezione generale della legge che dipende direttamente da San Tommaso e che delinea un’idea vasta ed altissima del diritto: essa rimanda all’esistenza di una struttura razionale del mondo, ad una legge di armonia naturale che proviene da Dio181 e che innerva non soltanto rapporti gerarchici, ma ogni misura determinante l’azione umana. Vi sono di quelli che applicano il nome della legge alle sole regole di condotta imposte da un’autorità superiore. Mentre noi estendendo in un qualche modo la portata del termine, chiamiamo legge qualsiasi regola o misura che riguardi le azioni, e con cui queste vengano regolate 182. Hooker ritrova quindi un principio di diritto naturale universalmente vincolante che non si colloca in un piano separato, ma è rinvenibile in linea teorica nella e dalla ragione di ogni uomo: su questa via egli pare rivendicare il ruolo e la dignità della razionalità e della libertà umana, delle quali egli sembra difendere la capacità di dedurre leggi morali e politiche a partire da principi ad esse manifesti. Non solo quindi quella della rivelazione diretta, ma molteplici sono le vie lasciate agli uomini da Dio per stabilire le leggi che dirigono il loro agire183. Due dati, uno antropologico e uno gnoseologico, intervengono subito a complicare il quadro: pur ammettendo una naturale inclinazione nell’uomo alla vita sociale, la sua volontà, sostiene Hooker, è “inwardly obstinate, rebellious, and averse from all R. Hooker, Ecclesiastical Polity, I, XVI, 8: “Della legge non si può dire niente di meno che essa procede dal cuore di Dio, la sua voce è l’armonia del mondo: tutte le cose in cielo e in terra le rendono omaggio, le più piccole sentendone la mancanza e la maggiori non esentate dal suo potere: e tutti gli Angeli, gli uomini e le creature di qualsiasi condizione, ciascuna in diversa maniera ma tutte unite in uniforme consenso, ammirano in essa la madre della loro pace e gioia”. Citato da G. A. Ritter, art. cit., p. 92. 182 Ibid., I, III, 1, citato in A. Passerin d’Entrèves, La dottrina, cit., p. 88. 183 Ibid., II, I, 2: “mentre Dio ha lasciato agli uomini vari tipi di leggi, e da tutte quelle leggi sono le azione degli uomini in qualche modo dirette”, citato da G. Giarrizzo, “Il pensiero politico inglese nell’età dei Tudor”, cit., p. 794. 181 133 obedience unto the sacred laws of his nature”184; inoltre, ciò che esige la legge di natura non è facilmente discernibile e richiede giudizio e una approfondita riflessione. La capacità della ragione sarà quindi in grado di indicare un modo per uscire da una situazione di disobbedienza e ignoranza del bene, e tale via è l’associazione politica. Il passo in cui il teologo descrive la genesi di quest’ultima è fondamentale per comprendere il modo in cui in questa teoria il principio di ragione naturale così altamente inteso richieda, nel suo storico e concreto darsi, un fondamento positivo che ad esso si affianchi, dichiarando esplicitamente l’insufficienza della visione aristotelica e tracciando, ci sembra chiaramente, i solchi che, pur nella loro diversità, seguiranno Hobbes e anche Locke. Per togliere di mezzo queste reciproche offese e torti, non c’era altra via fuor del comporsi e accordarsi tra loro, organizzando una specie di governo pubblico e assoggettandosi ad esso: perché coloro ai quali conferirono autorità di governo procurassero al resto pace, tranquillità e stato felice. Gli uomini han sempre saputo che in caso di offesa possono difendersi da sé; han saputo altresì che il diritto di cercar il proprio vantaggio non può esercitarsi con danno altrui, anzi a tentativi simili tutti gli uomini debbono resistere con tutti i mezzi; infine essi han saputo che in ragione nessun uomo può pretendere di determinare il proprio diritto, e procedere a difenderlo nel modo in cui l’ha determinato, giacché ogni uomo è parziale verso sé medesimo e quelli che ama: e perciò dispute e conflitti sarebbero infiniti a meno di consentire a quanto ordinano delle persone a cui si è convenuto dare tale autorità. Senza un tale consenso non v’ha ragione per un uomo di pretendere di essere signore o giudice di un altro: poiché, sebbene vi sia secondo Aristotele una specie di 184 Ibid., I, X, 1. 134 diritto naturale nel nobile saggio e virtuoso a governare su quanti hanno disposizione servile, nondimeno per la manifestazione stessa di questo loro diritto e una più pacifica soddisfazione di entrambi par necessario l’assenso di quanti debbono essere governati185. Indicata nel diritto naturale la base di ogni diritto umano, Hooker guarda ora al fondamento razionale dell’obbligazione giuridica e politica: tale fondamento è ai suoi occhi il consenso. Questo preciso elemento umano è la cifra del suo contrattualismo, il quale corrisponde non già alla storicità, ma piuttosto ad un’esigenza di razionalità ed evidenza che sola giustifica e legittima la sottomissione dei consociati (e si noti per inciso che, di questi consociati, sembra quantomeno insinuarsi l’uguaglianza). È chiaro però che in esso vi è la traccia profonda dell’esperienza giuridica e costituzionale inglese nella quale, come abbiamo avuto modo di sottolineare più volte, il fattore della consensualità permane con tenacia. Sul fondamento dell’obbedienza Hooker sembra riecheggiare in primo luogo un tema già presente nell’idea di consuetudine in Saint German: qualora sia possibile stabilire con prove certe e necessarie che la legge positiva è ingiusta, allora il singolo avrà la libertà di respingerla in coscienza; ma nella circostanza invece in cui la determinazione della sua giustezza costituisca una questione di mera probabilità, allora la coscienza privata dovrà tacere, presumere tale legge giusta e acconsentire al dettato della comunità che da tempo e fino ad allora l’ha preservata. 185 Ibid., I, X, 4. Citato da G. Giarrizzo, “Il pensiero politico inglese nell’età dei Tudor”, cit., pp. 793-794. 135 Se considerata in funzione antipresbiteriana, la questione assumeva i toni di una critica al diritto di resistenza e di un’argomentazione che potremmo dire assolutistica: la disputa circa la miglior forma di governo e la critica alle leggi esistenti sono per Hooker legittime solo se provengono dall’autore di quella e di queste, quindi, solo se mossa dalla comunità in toto e non soltanto da una sua parte; finché non si dia questa condizione, il fine della pace richiede che il governo stabilito sia il detentore del potere di sentenziare in via definitiva e di costringere successivamente al silenzio le parti in conflitto. L’idea di sovranità che vien qui abbozzata è per Hooker utilizzabile solo a certe condizioni, che sono in verità proprio quelle determinate dal consenso, inteso dal teologo anglicano nel seguente doppio verso: da una parte come manifestazione esplicita di approvazione personale dell’intera comunità, per mezzo della rappresentanza in parlamento; dall’altra come tacita espressione di assenso attraverso la consuetudine. Grazie a questa doppia tenaglia Hooker colloca nella comunità il fondamento della legislazione positiva, nonché la sede della determinazione dei modi e della forma di governo; inoltre, configurato in questo modo il diritto degli uomini, la varietà delle leggi viene correlata alla molteplicità dei fini, per cui la loro mutabilità è riconosciuta e auspicata purché sia orientata verso il meglio: il moderato Hooker fa sposare così l’elemento convenzionale con la teleologia aristotelica. L’eredità dell’antiquaria giuridica: Selden Desta qualche perplessità vedere come lo sviluppo delle implicazioni filosofiche del quadro delineato da Coke ad opera di Selden passi attraverso la negazione di alcuni suoi 136 presupposti base e proceda con decisione verso il recupero di elementi strutturali della common law che in esso erano stati oscurati; in tale operazione l’eco di temi che abbiamo visto essere cruciali della riflessione di Hooker, gioca ora un ruolo di primissimo piano. La fama di John Selden come giurista, antiquario, orientalista e biblista, nonché come personaggio politico di primissimo piano, è iscritta negli annali della Società degli Antiquari, nei dibattiti parlamentari degli anni venti del Seicento, e in ogni libro di storia inglese. Sono rimaste celebri le parole di Milton, che lo incoronò “the chief of learned men reputed in this land”186. Un veloce sguardo ad alcuni dei titoli delle numerose e importanti opere che egli scrisse basterà forse a far intuire non solo la vastità della sua cultura, ma anche l’impegno con cui egli intraprese l’indagine storica che caratterizzò la sua avventura intellettuale: vi troviamo l’edizione annotata di Fortescue, la History of Thites – che gli valse una convocazione presso il Consiglio Privato, e la successiva ritrattazione e distruzione del volume – l’Analencton Anglo-Britannicon, la risposta a Grozio contro la libertà dei mari intitolata Mare Clausum, la Dissertatio ad Fletam che contiene l’importante commento al passo di Bracton sulla Lex Regia187, il De jure naturali et gentium iuxta Disciplinam Ebraeorum188. 186 J. Milton, Aeropagitica, in S. Orgel, J. Goldberg (a cura di), John Milton. The Major Works, Oxford 2003, p. 246. 187 Cfr. Ch. H. McIlwain, op. cit., pp. 90-93 e p. 111, nota 9. 188 Cfr. J. Selden, Opera Omnia, London 1726. 137 Ognuna di queste opere ci dice del recupero approfondito di una storia che in Coke era certo rimasta presente, ma sullo sfondo e in maniera vaga, e che diviene qui invece terreno, ossia fonte e fondamento della legge stessa. L’urgenza di fissare un fondamento stabile e immutabile, che portò Sir Edward a identificare in fin dei conti la legge col ragionamento legale, è chiaramente venuta meno nella riflessione di Selden, il quale, al contrario, concepisce la legge come un insieme di norme positive rintracciabili nel tempo, cangianti ed in continua evoluzione, rinvenibile in due sole manifestazioni: la consuetudine e gli atti del parlamento. Ricondotto pienamente il diritto alla sua storicità, in Selden l’essenza della legge sembra perdere l’ancoraggio ad una ragione astrattamente intesa: per lui solo l’indagine della vita concreta delle istituzioni positive può fornire la materia da cui dedurre una teoria del diritto che non sarà più esclusivamente inglese, come lo era invece nei principali autori del mondo di common law, ma che varrà per qualunque sistema di diritto dato. Discostandosi ancora da chi, come Saint German e Coke, voleva la bontà e la superiorità della common law basata sull’antichità e sul suo peculiare esser fondata sulla legge di natura, per Selden il valore di qualunque sistema di diritto è correlato ad una nozione di tempo qualitativamente inteso: non la pura durata quindi, ma la capacità che esso ha di adattarsi alle situazioni e migliorarsi nel tempo189. Tutti gli assetti giuridici sono ai suoi occhi parimenti antichi e a fondamento di ognuno vi è in ugual modo la legge di natura; ma questa, sarà bene sottolinearlo, non è pensata 189 Cfr. H. J. Berman, Diritto e Rivoluzione II, cit., p. 444. 138 come un insieme completo di principi immutabili e fuori dal tempo, ma sì come un corpo aperto, limitabile, indissolubilmente legato al suo darsi concreto. Selden non scioglie dunque la legge positiva da quella di natura, egli in realtà le intreccia in una maniera talmente costitutiva da far sì che la seconda, intesa in maniera autonoma e astratta, venga relegata in una zona di inintelligibilità: la conoscenza delle leggi deve rivolgersi allora alle forme storiche in cui governano con autorità, ovvero ai determinati contesti in cui esse sono valide. Nel determinare che cosa fa sì che una legge sia tale, ovvero, mirando al fondamento dell’obbligatorietà, Selden reintroduce un elemento gerarchico che avevamo visto in qualche modo dissolversi nella concezione della legge naturale di Hooker. Non posso davvero immaginarmi cosa significhi diritto naturale, se non la legge di Dio. Come posso sapere che non devo rubare, che non devo commettere adulterio, senza che qualcuno me l’abbia detto? Certamente è perche mi è stato detto così, e non perché io pensi che non dovrei fare tali cose, né perché voi pensiate che io non debba; se fosse così le nostre menti potrebbero cambiare. Donde allora proviene il vincolo? Da un potere più alto, null’altro può legare190. Analogamente l’obbligatorietà delle leggi positive – le quali alterano, adattandole ai fatti, le leggi naturali – passa necessariamente attraverso l’introduzione di una asimmetria: in Selden, come in Hooker, il governo delle leggi si fonda sull’elemento del consenso, che in questi come in quello, si affianca al criterio della conformità al 190 J. Selden, Table Talk, London 1927, pp. 69-70 (tr. it. in N. Matteucci, op.cit., p.71) 139 comando divino e si manifesta in maniera esplicita o tacita, recuperando ancora il valore legittimante dell’attività legislativa del parlamento e, soprattutto, della consuetudine: Laws or civil sanctions depend on the express and natural consent of those who were present and active themselves in making laws or admitting customs in use; or on the tacit and civil consent of those who surrendered their decision and power before others, according to the diverse origins and constitutions of republics, or from the submission of themselves and their descendants, or by other means, so that they agreed to bind themselves and their descendants to whatever was decreed, without giving their express and natural consent to each individual matter 191. Ancora una volta la storicità di questo consenso sarà per Selden prova e fonte della validità della legge intera. Nella disputa aperta da Hobbes sul valore normativo del passato così inteso, prenderà la parola l’allievo Hale. 191 J. Selden, Opera Omnia, cit., p. 607. 140 PARTE SECONDA Il diritto e la metodologia logico-formale nella filosofia di Hobbes 141 I In controluce La questione del diritto in Hobbes attraverso la critica di Hale Il Dialogue between a Philosopher and a Student of the Common Laws of England192 di Hobbes, opera tarda, incompiuta e perciò nella volontà dell’autore non destinata alla pubblicazione193, contiene la prima critica ragionata e integrale alla common law. Ad essa ha risposto in un importante documento rimasto inedito fino al 1921194 Sir Matthew Hale, allievo e amico di Selden, nonché – nelle parole di Holdsworth – “il più grande scienziato del diritto che l’Inghilterra abbia mai visto”195. La discussione tra i due risulterebbe in partenza arida e senza sbocchi, considerato il carattere diametralmente opposto delle premesse fondamentali degli autori: per la nostra analisi risulta essere invece un ottimo campo di osservazione, poiché in essa si confrontano le posizioni di chi da una parte aveva colto falle profonde sia nell’“appello alla ragione” – artificiale – di Coke, sia nell’elemento consensuale implicito nell’ 192 HW, Dialogue between a Philosopher and a Student of the Common Laws of England, Oxford 2005. “The Treatise De Legibus at the end of it is imperfect. I desire Mr. Horne to pardon me that I consent not to his Motion. Nor shall Mr. Crooke himself get my consent to print it.”: Hobbes ad Aubrey, Agosto 1679, in HW, The Correspondence: 1660-1679, vol. 2, Oxford 1998, p. 772. 194 F. Pollock, Sir Matthew Hale on Hobbes: An Unpublished Ms, in “Law Quarterly Review”, 37, 1921, pp. 274-303. Sull’impressione che fece l’opera hobbesiana su Hale, si legga quanto dice Aubrey ad un corrispondente privato: “Judge Hales (who is no greater courtier) haz read it & much mislikes it, and is his Enemy”. Citato da A. Cromartie, General Intoduction, in HW, Dialogue, cit., p. xvii. 195 W. S. Holdsworth, A History of English Law, London 1922-52, vol. VI, p. 581. 193 142 “appello al contratto” di Selden; ed anche di chi, dall’altra, aveva tentato proprio un compromesso tra di loro 196. La risposta di Hale si articola in due blocchi, e ricalca da subito l’andamento della trattazione hobbesiana. Il primo, In Caput Primum of Laws in Generall and the Law of Reason, è una presa di posizione a favore del concetto di ragione artificiale di Coke, contro il quale Hobbes aveva argomentato in apertura del Dialogue. Non era la prima volta che il filosofo inglese puntava il dito contro il famoso giurista: già nel XXVI capitolo del Leviathan197, Hobbes aveva dedicato al celebre passo degli Institutes,198 in cui tale definizione di ragione artificiale viene fornita, un intero paragrafo nel quale egli si era sforzato di evidenziare il punto fragile, se non addirittura pernicioso, della questione; la sua critica va dunque considerata almeno in questi due luoghi. Nel passo corrispondente del Dialogue la proposizione del problema avviene, concorde alla vis polemica del testo, in maniera asciutta e diretta: dopo aver concordato con Coke sulla concezione che identifica legge e ragione, e pure con la sua definizione di equità, Hobbes fa chiosare al Filosofo: When I consider this, and find it to be true, and so evident as not to be denyed by any Man of right sense, I find my own reason at a stand; for it frustrates all the Laws in the World: for upon this ground any Man, of any Law whatsoever 196 Cfr. A. Cromartie, Sir Matthew Hale 1609-1676. Law, religion and natural philosophy, Cambridge 1995. 197 Lev., p. 140. 198 Vd. supra, p. 129. 143 may say it is against Reason, and thereupon make a pretence for his disobedience199. La generica e diafana definizione del giurista porta ad un punto morto200 ogni spinta conoscitiva perché semplicemente lascia aperta ogni possibilità. Essa non offre alcun criterio per determinare la rettitudine della legge, o meglio, offre un criterio talmente vasto e indefinito da non essere distintamente utilizzabile, il che per Hobbes si traduce concretamente, anzitutto, nella possibilità della disobbedienza ad essa. La risposta dello Studente riporta la citazione testuale di Coke, specificando quindi che si tratta di una ragione artificiale perfetta, acquisita con lunga esperienza e dotto studio, distribuita in tante teste diverse per un lungo succedersi di epoche, finita e rifinita da sapienti uomini di legge. Il Filosofo allora ammette insieme al suo interlocutore che la conoscenza del diritto sia una scienza e un’arte, ma non può concedere il fatto che essa sia qualcosa di diverso dalla ragione naturale e di coincidente piuttosto con una ragione artificiale resa retta dal tempo o dalla quantità e la qualità dei suoi artefici. L’excursus del Filosofo ha certamente una tonalità che potremmo dire anticorporativa201: Hobbes coglie quell’aspetto presente massimamente in Coke, ma rinvenibile in verità in quasi tutti gli esponenti della common law, che rivendica i privilegi esclusivi dei giuristi, intendendoli come casta. 199 HW, Dialogue, cit., p. 9. Così traduce Norberto Bobbio l’inglese “at a stand”. Vd. T. Hobbes, Opere Politiche, Torino 19884, p. 400. 201 Cfr. HW, Dialogue, cit., p. 11: “Sir Edw. Coke for drawing to the Men of his own Profession as much Authority as lawfully he might, is not to be reprehended…”. 200 144 La questione non è certo riducibile ad astio personale: sul piano dell’educazione giuridica, l’evoluzione della professione forense in Inghilterra è una storia di monopolî, e il carattere fortemente elitario del ceto dei giuristi, insieme all’aura sacerdotale che in maniera così concreta ha connotato la pratica e l’elaborazione teorica del diritto inglese202, sono fattori che non potevano non essere rilevanti nel momento in cui gli “oracoli della common law” (l’espressione è di Coke) rivendicavano a sé un potere supremo nello stato. In questo senso, il tono del discorso hobbesiano assume una valenza particolare che non va vista, a nostro avviso, come piatta partigianeria o facile attacco ad una prepotente categoria di professionisti o, peggio ancora, allo statuto stesso della scienza giuridica. Proprio in questa direzione sembra in parte muovere la stizzita – e perciò particolarmente eloquente – risposta di Hale; nonostante nel complesso essa sollevi una serie di obiezioni importanti, proprio queste ultime ci soccorreranno successivamente nel tentativo di chiarire come si configuri nell’insieme la questione del diritto all’interno della filosofia hobbesiana. L’aspirazione dei legisti ad essere detentori esclusivi della Summa Ratio non pone tanto, o meglio non soltanto, il problema contestuale del loro voler essere supremi “senza il Re”203; se una questione di fondo si pone è quella per cui la riduzione della legge a mera sapienza ne rimuove il momento autoritativo, all’interno del quale dobbiamo sentir 202 Cfr. J. P. Dawson, The Oracles of the Law, Westport 1968. Vd. anche C. Costantini, La legge e il tempio. Storia comparata della giustizia inglese, Roma 2007. 203 HW, Dialogue, cit., p. 10. 145 risuonare non soltanto il carattere sanzionatorio verticale, ma anche la possibilità di accesso e partecipazione204. Colta da questa prospettiva, la frase che più volte è rimbalzata tra sostenitori e detrattori di Hobbes ha un’eco diversa: “It is not Wisdom, but Authority that makes a Law” 205. Si tratta certo di una affermazione radicale, ma si deve leggere la famosa e perentoria sentenza come risposta ad una posizione altrettanto radicale, che, enfatizzando l’elemento sapienziale, aveva inglobato dolcemente (e, vorremmo dire, sottaciuto) l’istanza ‘dura’ che costitutiva parimenti la legge, in modo da aprire scenari teorici nuovi e vedere il quadro complessivo sotto luce differente. Si tenga a mente il brano del capitolo 4 del Doctor and Student di Saint German: And that the law of man be just and rightwise, two things be necessary, and that is to say, wisdom and authority. Wisdom that he may judge after reason, what is to be done for the commonalty, and what is expedient for a peaceable conservation and necessary sustentation of them; authority, that he have authority to make laws. For the law is derived of ligare, that is to say, to bind206. È la congiunzione equilibrata di sapienza e autorità ad essere evidentemente venuta meno ai tempi di Coke e di Hobbes, ed il filosofo inglese scorge non solo la potenzialità politica dello spostamento di peso, tutto a favore della prima, della fonte di legittimità; Cfr. il seguito del passo citato supra, nota 10: “…but to the gravity and Learning of the Judges they ought to have added in the making of Laws, the Authority of the King, which hath the Sovereignty: for of these Laws of Reason, every Subject that in his Wits, is bound to take notice at his Peril, because Reason is part of his Nature, which he continually carryes about with him and may read it, if he will”. 205 Ibid., p. 10. L’espressione “authoritas non veritas facit legem” compare nel Leviatano latino (OL, vol. III, p. 202) ma non nella versione inglese. Cfr. Lev, p. 143. Cfr. anche OL, vol. II, De Cive, XII, 4. 206 Ch. Saint German, Doctor and Student, cit., ch. 4. 204 146 ma anche la sua debolezza, ovvero, il possibile allentamento della forza obbligante della legge che ne deriva. Il sostenere che è sempre e solo la ragione naturale a dare accesso alle arti e alle scienze, oppure che “il termine ragione legale non è chiaro” perché “le creature terrestri sono fornite solamente della ragione umana”, dovrà intendersi allora come l’intenzione di squarciare il velo di un sapere chiuso ed escludente, chiaramente percepito come mero strumento di potere, recuperando quello che in Hooker si configurava come la dignità della ragione umana. Nelle pagine di apertura del Dialogue s’intravede dunque una densa problematica della filosofia hobbesiana, la quale potrebbe essere descritta come questione relativa ad un ‘principio di trasparenza’, che nella riflessione di Hobbes orienta non solo l’intera costruzione dello spazio giuridico, sia come dichiarazione e interpretazione della legge, sia come accessibilità ad essa; ma investe anche, e in maniera portante, la costruzione stessa del sapere. Per circoscrizione tematica, la prima questione è quella che ci interessa qui maggiormente: ma si accenni da subito a quanto si analizzerà per esteso nel capitolo seguente, ovvero a come, proprio a partire dalla considerazione del ruolo della certezza e della trasparenza del diritto nella realizzazione di un assetto civile, sia possibile mettere a fuoco una crepa nell’idea ‘forte’ di scienza e considerare la tensione razionalistica della filosofia di Hobbes da una nuova, e per certi versi rovesciata, prospettiva207. Quanto opporrà Hale a Hobbes all’inizio delle sue Reflections non a caso è imperniato proprio su questo intricato groviglio di questioni. 207 Vd. infra, cap. II.2. 147 La difesa della ragione artificiale di Coke, che però Hale, da ottimo allievo, intende in maniera più vasta e certo filosoficamente più pregnante, prende le mosse da un’idea di ragione articolata in tre diversi sensi208: il primo comprende la Subjective reason (dove l’aggettivo deve tradursi con ‘sostanziale’ e non con ‘soggettiva’, per i motivi che ora vedremo), che consiste “in the Congruity, Connexion, and fitt Dependence of one thing upon antoher” e che ben si potrebbe intendere come la ragione nelle cose, come la loro logica interna209. Hale insiste su un preciso carattere della ragione così intesa, ribadendolo in ognuno degli esempi riportarti, da quello dell’ordine della Natura, a quello dell’essere ragionevole delle Matematiche, a quello della certa, anche se oscura, ragionevolezza della Morale: la Ragione Sostanziale precede e preesiste ad ogni facoltà ed istituzione umana. Nella trattazione segue poi “a Facultie cōmon to all reasonable Creatures”, attraverso la quale l’uomo attinge la conoscenza delle cose e delle azioni, e che, pur essendo uguale per tutta l’umanità, si orienta e si modella nel suo concreto esplicarsi, in parte a causa del temperamento, in parte mediante la disciplina, seguendo svariate vie e diversi modi d’attuazione. Troviamo infine in terzo luogo, la definizione che più interessa l’argomentazione di Hale: si tratta dell’incontro tra la facoltà razionale e l’oggetto ragionevole, ovvero dell’esercizio della ragione applicato ad un oggetto particolare, il quale viene orientato in direzioni particolari seguendo metodi particolari (l’iterazione è dello stesso Hale). 208 209 F. Pollock, Sir Matthew Hale on Hobbes, art. cit., pp. 286-288. Cfr. H. J. Berman, Diritto e Rivoluzione II, cit., p. 464. 148 È in virtù della ragione così intesa che si distinguono gli uomini e si dicono essere Matematici, Fisici, Giuristi e in generale, Artificers: il termine, che si potrebbe rendere meglio con ‘professionisti’ o ‘esperti’, che non con ‘artefici’ o ‘artigiani’, è da legare al artificiall che qualifica la ragione di Coke. Con questa triplice articolazione del concetto di ragione Hale pone dunque la premessa per indicare la specialità del sapere tecnico degli uomini di legge, la quale verrà poi immediatamente rafforzata sottolineando la peculiarità dell’oggetto del loro studio; a questo punto l’attacco a Hobbes sarà frontale. […] there is none of so great a difficulty for the Faculty of reason to guide it Selfe and come to any Steddiness as that of Laws, for the regulation and Ordering of Civill Societies and for the measuring of right and wrong, when it comes to particulars. And therefore it is not possible for men to come to the Same Certainty, evidence and Demonstration touching them as may be expected in Mathematicall Sciences, and they that pleased themselves wth a perswasion that they can wth as much evidence and Congruitie make out an unerring Systeme of Laws and Politiques equally applicable to all States and Ocassions, as Euclide demonstrates his Conclusions, decive themselves wth Notions wch ineffectuall, when they come to particular application210. Hale sta evidentemente puntando a un bersaglio ben più grande che non il Dialogue e con ciò egli, volente o nolente, manca a nostro parere il punto tra le righe di quelle poche pagine, quello che abbiamo detto essere la questione dell’accessibilità alla conoscenza 210 F. Pollock, Sir Matthew Hale on Hobbes, art. cit., p.288. 149 della legge civile in generale211, cogliendo invece quello nodale che riguarda lo statuto scientifico della filosofia civile hobbesiana, sul quale dovremmo successivamente soffermarci. Ci basti per ora indicare un punto paradigmatico dal quale risulta palese come le strade dei due contendenti non abbiano punto di incontro: spiegando il secondo senso di Ragione, quello della Facoltà delle nature razionali, Hale afferma che nella circostanza in cui la facoltà è distante dall’oggetto, allora la ragione procede gradualmente e discorsivamente, mediante deduzioni, illazioni o inferenze, da cosa a cosa; quando l’oggetto si trova in prossimità alla facoltà, invece, essa procede quasi per saltum, e l’esempio che egli ivi riporta è, significativamente, quello della vista (“as the bodily Eye sees”212). L’intera filosofia hobbesiana è segnata invece dal rigoroso ed ostinato – e in fin dei conti drammatico – tentativo di fare i conti con il vuoto che presuppone il salto di cui parla pacificamente Hale, un vuoto che inerisce la conoscenza, giammai la natura213, e non è forse casuale che gli ambiti in cui tale tensione si manifesti massimamente siano per l’appunto l’ottica e la filosofia civile. Quando egli afferma la mancanza di una retta ragione costituita dalla natura, la sua riflessione non ha precisamente perso o rinunciato alla ragione nelle cose alle quali rimanda la prima definizione di Hale, ma piuttosto in essa è venuta meno la sicurezza del Cfr. Lev., 137: “For the knowledge of particular laws belongeth to them, that profess the study of the laws of their several countries; but the knowledge of the civil law in general, to any man”. 212 Ibid., p. 286. 213 Cfr. OL, vol. 2, De Homine, XI, 11: “La natura non tollera né lo spazio né il tempo vuoto” 211 150 salto, la fiducia nel graduale passaggio, venendosi ad imporre quindi la necessità di rifondare, su nuove basi e il più saldamente possibile, la certezza. In ciò, il ruolo svolto a livello sistemico dalla ‘forma’ del diritto avrebbe forse fatto vedere sotto diversa luce alcuni degli aspetti qui criticati dal giudice Hale: not but that reason itself is always right reason, as well as arithmetic is a certain and infallibile art: but no one man’s reason , nor the reason of any one number of men, makes the certainty; no more than an account is therefore well cast up, because a great many men have unanimously approved it. And therefore, as when there is a controversy in an account, the parties must by their own accord, set up for right reason, the reason of some arbitrator, or judge, to whose sentence they will both stand, or their controversy must either come to blows, or be undecided, for want of a right reason constituted by nature214 (corsivo nostro). Da questa angolatura è manifesto come il criterio della saldezza non può consistere per Hobbes nella ragione di un uomo o dall’approvazione di tanti; la certezza a cui qui si aspira richiede qualcosa in più, perché, prima ancora di essere la fermezza incrollabile della scienza, è l’assicurazione della risoluzione pacifica del conflitto; e risulta quantomeno paradossale constatare che proprio alla radice di una speculazione che, stando a Hale, costruisce nozioni astratte e universali che si rivelano poi errate e manchevoli quando applicate a circostanze particolari215, vi sia appunto la preoccupazione primaria della ricaduta nel reale di tale concezioni. 214 215 Lev., pp. 18-19. F. Pollock, art. cit., p. 289. 151 Hobbes ha negli occhi la crisi dell’assetto giuspolitico inglese, e abbiamo già visto non solo in quale misura tale crisi fosse una tappa decisiva nel percorso storico di un sistema di composizione degli interessi dimostratosi non più efficace davanti a mutate circostanze economiche e sociali, ma anche quanto chiaramente fosse percepita la necessità, per comprendere e superare tale impasse, di definire le nozioni e le sfere che orientavano e articolavano l’azione di governo. Da qui noi non intendiamo certo dedurre la storicità contro l’astoricità sovente invocata dell’interrogativo e delle risposte che la filosofia hobbesiana pone e offre: indichiamo qualcosa di meno e per certi versi qualcosa di più, vale a dire, che la sfida che essa accetta è quella di segnare una via politica che faccia pienamente i conti con il problema del potere e che risolva il concreto dilemma emerso nell’Inghilterra del Seicento circa il luogo della sovranità. Tale intento, in un contesto nel quale proprio il pensiero giuridico aveva giocato un ruolo fondamentale nel lasciare indecisa la questione contribuendo a dare una sostegno teorico ad un assetto nel quale erano stati mantenuti armonicamente assoluto e limitato, eccezionale e ordinario, non poteva non fare i conti con la categoria del diritto. Ed è infine da notare come alla critica ferrea ad alcuni dei presupposti basilari della common law inglese, Hobbes congiunga l’assegnazione di un meta-luogo al concetto stesso di diritto – come possiamo intravedere nella seconda parte della citazione su riportata – conferendogli alcuni caratteri rinvenibili, almeno in parte, nelle formulazioni di giuristi come Selden e lo stesso Hale, ma collocando in un punto filosoficamente fondante soprattutto la nozione di necessità di un limite, di un’istanza ultima che, una 152 volta convenuta, non consenta ulteriore appello, così chiaramente espressa dal giudizioso Hooker. Così piena di egoismo e di ostinazione è la nostra natura, che senza una sentenza definitiva che una volta data possa reggere, e l’imposizione del silenzio alle parti in conflitto, v’ha poca speranza che simili conflitti possano chiudersi pacificamente in breve tempo. E ancora: Non v’è alcuno sbocco possibile di pace e tranquillità, a meno che la voce probabile di ogni intera società o corpo politico non prevalga sulle pretese particolari che si affermano nello stesso corpo 216. Hobbes avrebbe sottoscritto in gran parte queste affermazioni, non ultima anche quella del carattere probabile della voce comune, seppur dando forse loro un’intonazione diversa. Del teologo inglese è stato detto che “scrisse come un postrivoluzionario, cioè come uno che guardava indietro alla trasformazione incombente e cercava di riconciliarla con quel che c’era prima”217; ebbene, Hobbes scrive effettivamente a trasformazione avvenuta, ed egli la percepisce in una maniera eminentemente strutturale, tale da non poterla considerare suscettibile di riconciliazione, ma solo di rifondazione. 216 217 Citato da G. Giarrizzo, “Il pensiero politico nell’epoca dei Tudor”, cit., 794. Cfr. H. J. Berman, Diritto e Rivoluzione II, cit., p. 420. 153 Egli riconosce la mortalità del corpo artificiale dello stato, la sua fallibilità, ma ciò che ad egli maggiormente preme è costruire su basi nuove. The use and the end of reason is not the finding of the sum, and truth of one, or a few consequences, remote from the first definitions, and settled signification of names; but to begin at these; and proceed from one consequence to another.218 Rivolta al futuro, la ragione di Hobbes non può trovare saldo fondamento di giustizia e giustezza in un passato come quello concepito dai common lawyers di cui si presume acriticamente la bontà, tanto meno se esso viene ad incarnarsi misteriosamente e pienamente nel sapere tecnico di esperti. Si potrebbe obbiettare, prima di chiudere questa digressione, che non vi sia niente di più misterioso e insindacabile del sapere-volontà del sovrano hobbesiano. Proviamo a rispondere a questa affermazione forse superficiale con un’annotazione che non ci pare altrettanto banale: mai Hobbes, che pure fa uso frequente dell’aggettivo artificial qualificando numerosi e sostanziali aspetti dello stato civile, mai lo attribuisce alla ragione. In verità quasi mai, ovvero solo in un’unica circostanza. L’eccezione che conferma la regola è eloquente: nella prima pagina del Leviathan, dove si dipana l’analogia tra l’uomo naturale e l’uomo dello stato, la quale costituisce una sorta di radiografia del grande uomo nel celebre frontespizio, egli afferma: “equity and laws [are], an artificial reason and will”. 218 Lev., p.19. 154 È l’equità a doversi immaginare come una ragione artificiale, anziché le leggi, le quali sono per Hobbes sempre un atto di volontà: comunque l’aggettivo ha una coloritura diversa rispetto al termine in Coke. Lo spunto è ricco di significato, ma per ora basti notare come, ad ogni modo, equity e law si presentino insieme, indicando forse un binomio radicale e inscindibile. Ritorniamo ora però al punto di partenza: è erroneo pensare che Hobbes intendesse il sapere denotato col termine artificial reason come pura e arbitraria espressione della volontà dei giudici: comprendeva certo che “Coke citava i precedenti giudiziali per provare l’esistenza di un antico diritto consuetudinario sapienziale, nascente dal ragionamento di molte generazioni di giuristi dotti”219, come risulta chiaro dal passo del Leviathan che riporteremo per esteso a continuazione; ma proprio ciò non solo ratificava la critica alla chiusura e all’oscurità di tale patrimonio sapienziale, ma la arricchiva di ulteriori e ancor più cruciali elementi. That law can never be against reason, our lawyers are agreed; and that not the letter, (that is every construction of it,) but that which is according to the intention of the legislator, is the law. And it is true: but the doubt is, of whose reason it is, that shall be received for law. It is not meant of any private reason; for the there would be as much contradiction in laws, as there is in the Schools; nor yet (as Sir Edward Coke makes it) an artificial perfection of reason, gotten by long study, observation, and experience, (as his was.) For it is possible long study may increase, and confirm erroneous sentences: and where men build on false grounds, the more they build, the grater is the ruin: and of those that study, and observe with equal time, and diligence; the reason 219 H. J. Berman, Diritto e Rivoluzione II, cit., p. 468. 155 and resolutions are, and must remain, discordant: and therefore it is not that juris prudentia, or wisdom of subordinate judges; but the reason of this our artificial man the commonwealth, and his command, that maketh the law: and the commonwealth being in their representative but one person, there cannot easily arise any contradiction in the laws; and where they doth, the same reason is able, by interpretation or alteration, to take it away. In all courts of justice, the sovereign (which is the person of the commonwealth,) is he that judgeth: the subordinate judge, ought to have regard to the reason, which moved his sovereign to make such law, that his sentence may be according thereunto; which then is his sovereigns sentence; otherwise it is his own, and an unjust one220. L’identificazione tra legge e ragione anche qui sembra pacifica. Ma il fatto che Hobbes sollevi immediatamente la domanda riguardo chi sia il titolare di quella ragione ci rimanda subito alla questione della localizzazione del potere legislativo e in qualche modo ci pone preliminarmente al di qua della Ragione Sostanziale di Hale. Che la ragione della legge richiedesse la determinazione di un soggetto per poter essere tradotta concretamente e resa effettiva era un punto che non era sfuggito neppure al contraddittore di Hobbes, ma la soluzione che quest’ultimo formula è, come vedremo successivamente, del tutto antitetica, nonché interamente rinvenibile in quel procedere graduale e armonico della facoltà razionale una volta essa abbia compiuto il ‘salto conoscitivo’ di cui si è sopra detto. E’ saliente il fatto che Hobbes, negando la coincidenza tra la ragione della legge e quella “privata”, faccia riferimento alle Scuole e non agli individui: il rilievo sembra mettere 220 Lev., pp. 139-140. 156 fuori gioco l’obbiezione di Hale che, difendendo Coke e in base all’articolata definizione di ragione, aveva ribadito il carattere tecnico-corporativo del sapere dei giuristi, distinguendolo e opponendolo al sapere comune a tutti gli individui. Ebbene, Hobbes non considera neanche la possibilità che la legge sia espressione di una razionalità individuale, ma anzi il suo bersaglio è proprio l’idea che la legge sia espressione della ragione di un gruppo, di una Scuola, per l’appunto. Si tratta di un elemento che bisogna tenere a mente se si vuol comprendere il senso in cui Hobbes enfatizza la distinzione pubblico-privato, perché da qui risulta evidente come “privato” sia in primo luogo “parte” che si differenzia e tende a voler prevalere sul “tutto”. Cosa si contesta in questa sede specificamente al concetto di ragione artificiale? Hobbes impugna l’eventualità che una costruzione sia eretta su false fondamenta. Vi è qui non solo un sincero riconoscimento della fallibilità221 della ragione, oscurato dalla fiducia nei precedenti dei common lawyers, ma anche un indizio filosofico del massimo interesse che tende a sostenere sia la non necessaria bontà delle origini222, sia la possibilità di perseverare nell’errore e dunque, e ancora la non necessaria bontà della lunga durata223. Questa è una delle più rimarchevoli obbiezioni hobbesiane alla venerazione del passato dell’antiquaria giuridica: fondando ogni sapere su una storia presunta di per sé buona, si finisce per appiattire ogni conoscenza e per fare dei fatti, di quanto è accaduto, il criterio unico di giustizia. 221 Cfr. OL, vol II, De Cive, XV, 17. Cfr., Lev., p. 392. L’amaro contrappunto fattuale che si trova nella Revisione e Conclusione del Leviathan ci appare indicativo del carattere costruttivo della speculazione hobbesiana: “there is scarce a commonwealth in the world, whose beginnings can in conscience be justified”. 223 Cfr. HW, Dialogue, p. 100:”But Precedents prove only what was done, and not that was well done”. 222 157 Si neutralizza infine quella differenza di ragioni e soluzioni degli studiosi della materia, che a detta di Hobbes e significativamente, “sono e devono rimanere discordanti”, quasi ad accennare alla fertilità critica di un sapere libero, colto e diligente, che si discosti dall’ortodossia imposta dal tempo antico. Vediamo a contrario quanto sostenuto da Hale: For Instance, itt is reasonable for me to preferre a Law made by a hundred or two hundrd persons of age and wisdome Experience and Interest before a Law excogitated by my Selfe […] Againe it is a reason for me to preferre a Law by wch a Kingdome hath been happily governed four or five hund rd yeares then to adventure the happiness and Peace of a Kingdom upon Some new Theory of my owne tho’ I am better acquainted wth the reasonableness of my owne theory then wth that Law224. Tutto il tono del passo evidenzia la moderazione e il conservatorismo di questo grande riformatore, che ancora una volta vede o troppo poco, o troppo bene: la ragione della legge a cui pensa Hobbes non è la ragione di un Self (non quella di lui stesso, come sembra insinuare Hale, accusando Hobbes allo stesso modo in cui questo aveva accusato Coke: vanitas vanitatum, et omnia vanitas) inteso come persona particolare. La ragione che egli invoca è una ragione comune il cui titolare è pensabile solo ed esclusivamente come persona ficta, proprio perché un’unità sovrastante i particolari è concepibile solo in maniera fittizia; è sintomatico che in questo luogo del Leviathan, che ben si sarebbe prestato all’attribuzione della ragione artificiale allo stato, Hobbes ometta 224 F. Pollock, art. cit., p. 291. 158 ancora l’espressione e indichi invece subito la possibilità della contraddizione tra le leggi dettate dal sovrano: tale circostanza, in nome dell’unità del legislatore, è dal legislatore stesso risolvibile, giacché egli medesimo ha il potere di risolvere le discordie tra esse, eliminandole, interpretandole o cambiandole. Non ci sembra qui essere lontani da quel principio di auto-emendazione più volte proclamato dalla common law, in virtù del quale essa si era resa pervasiva al cospetto di altri sistemi di giustizia, ma la differenza sostanziale su cui ci soffermeremo ora, pur se collocata nel medesimo luogo indicato da Hooker, quello del consenso, consiste proprio nella diversa individuazione della fonte di legittimità. La lezione del teologo anglicano ha avuto lunga e sfaccettata vita. In Hale, come già in Selden, all’origine delle istituzioni governative vi era l’assenso circa la forma dello stato e le sue qualificazioni interne, ma il suo acuto e profondo senso storico aveva fatto sì che tale accordo fosse da egli pensato non solo in tutta la sua concretezza, come un fatto realmente accaduto, reso manifesto da un documento oppure testimoniato “by long custom and usage”, ma anche come un evento modificabile a seconda del luogo e del tempo, sempre purché avvenuto attraverso il consenso delle parti interessate225. In mancanza di evidenza materiale di un tale accordo tra governanti e governati, ed era questo il caso del’Inghilterra, l’uso costante doveva considerarsi “the Evidence of what the Pact shall be presumed to have been”226, e in questo modo si manteneva la storicità del contratto, ma la si collocava in un zona grigia accessibile alla conoscenza solo in via presunta. 225 Cfr., M. Hale, The Prerogatives of the King, London 1975. M. Hale, Extracts from a Manuscript of Sir Matthew Hale Concerning the Government and Laws of England, citato da M. Lobban, op. cit., p. 68. 226 159 Inoltre per Hale il consenso, pur se inteso come fondamento di ogni legge umana, è pensato come un atto immediato e presente solo nel caso in cui si tratti della legge statuaria, ovvero, solo quando consista in un esito del risultato dell’azione legislativa del re e del parlamento; in tutti gli altri casi si tratta di un consenso implicito, in base al quale si è comunque tenuti all’obbedienza. Su questo piano è chiaro come in Hale sia venuta meno l’esigenza di immutabilità che muoveva Coke. Egli fa leva invece sulla concezione dinamica del diritto grazie alla quale acquista rilievo concreto l’idea di un sapere che deve venire ai particolari, modificare il necessario e, in generale, intercettare le esigenze a seconda delle situazioni, mantenendo (ma adattando e limitando al contempo) i principi della legge di natura227. Così concepito il sistema di diritto rappresenta la cornice costituzionale entro la quale rientra e variamente si articola l’esercizio degli attori politici, e in questa misura intorno agli anni ’60 del Seicento la voce di Hale chiamava in causa, a partire e secondo il criterio della antica e fondamentale common law, il principio di limitazione delle sfere di potere all’interno della stato, in particolare, naturalmente, quella della prerogativa regia. Si tratta certamente della rivendicazione di una capacità politica dei giudici, ai quali non viene data la facoltà legislativa, ma sì lo sviluppo giurisprudenziale della legge, e nel complesso dell’evidenziazione di un ruolo di controllo e vigilanza suprema ad opera dei lawyers. Cfr. D. E. C. Yale, Hobbes and Hale on Law, Legislation and the Sovereign, in “Cambridge Law Journal”, 31, 1972, pp. 121-156. 227 160 Cosa fondava i limiti che tali giuristi erano chiamati a mantenere? Ebbene era il costume, declinato però in una maniera peculiare che dovremmo brevemente analizzare: nel custom Hale ritrova un principio di autorità impersonale che sembra in verità costruirsi in opposizione all’idea di una semplice legge di ragione attuale richiedente un titolare; il fondamento consuetudinario spalmato nel tempo conferisce il sovrappiù dell’uso, quindi dell’esperienza ripetuta, sottraendo la pura legge di ragione all’arbitrarietà di quel pericoloso Self che Hale identifica nel potere sovrano hobbesiano, e dando al contempo un peso legittimante al consenso tacito di molti in un lungo arco temporale. È interessante notare come Hale non lasci nell’inafferrabile mondo delle usanze l’elemento consuetudinario, il che avrebbe certo reso instabile il fondamento dell’autorità: se le sue origini si perdono in verità in un sovrapporsi e mescolarsi di eventi e circostanze, la sua concreta definizione è da ritrovarsi nella convalida legale che per Hale come per Hobbes, consiste nella loro espressione scritta. Ci si riferisce non solo gli statuti, ma anche e significativamente ai legal records, nei quali era rinvenibile quel minimum di certezza e quell’ampio margine di flessibilità interpretativa sulla base delle quali i giuristi avrebbero mantenuto “the great Substratum”228, modificando e aggiustando il restante contenuto, adeguandolo alle esigenze pratiche. In questa nozione di custom non vi è traccia, se non in un lontano e indefinibile sottofondo, del consenso delle parti: l’accettazione della sottomissione alla legge all’interno di una determinata, ma non immutabile, cornice istituzionale è per Hale già 228 M. Hale, The History of the Common Law of England, Chicago 1971, p. 46. 161 avvenuta, e il compito della preservazione dei fondamenti e della riforma delle loro rese particolari è riposto interamente nella sapienza degli esperti. Hale non può certo considerarsi un paradigmatico oppositore di Hobbes 229, per quanto il deliberato antagonismo delle Reflections polarizzi le posizioni dei contendenti: il giudice, come il filosofo, vide elementi profondamente critici e atrofizzati all’interno del sistema di common law, e percepì la necessità di dare un luogo all’autorità per rendere efficace la legge. Entrambi compresero, sulla scia di Hooker, l’insufficienza del principio naturalistico a fondare l’ordinamento civile, ma il plus che essi proposero si differenziò proprio quando venne collocato dall’uno, dentro e ‘a livello’ dell’ordinamento stesso, nella nozione di legge come consuetudine positiva; dall’altro, fuori e ‘sopra’ di esso, nell’idea di legge come comando positivo. Nel primo e nel secondo senso si riconosce la realtà dell’incertezza delle leggi e degli inconvenienti delle loro applicazioni: ma Hale affida il criterio di identificazione ed emendazione ai giuristi, chiamati a mantenere e riformare insensibilmente uno status quo percepito come buono in sé, e quindi perfezionabile al suo stesso interno; mentre ciò che Hobbes trova nel potere ultimo del sovrano è la soluzione politica ad un problema che si trova a monte (o, che dir si voglia, a valle), ovvero una risposta al possibile conflitto interno ad un assetto non più capace di auto-equilibrarsi: il primo Seicento in Inghilterra era l’evidenza storica di tale possibilità. Cfr. E. Campbell, Thomas Hobbes and the Common Law, in “Tasmanian University Law Review”, 1, 1958, p.37. 229 162 Hale rimprovera a Hobbes il fatto che tale potere sovrano, slegato da ogni vincolo, sia più pericoloso, più arbitrario e più incerto di qualunque inconveniente a cui esso voglia rimediare, e così dice in conclusione alla sua risposta: And it is Madness to think that the Modell of Lawes of governmnt is to be framed according to Such Circumstances as very rarely occurre. Tis as if a Man should make Agarike and Rhubarb his Ordinary Dyett, because it is of use when he is Sicke wch may be once in 7 yeares 230. Hobbes è un pensatore della crisi. In lui, il caso straordinario o di necessità non è pretestuosamente preso come fondamento del modello, ma come luogo di osservazione, come nodo storicamente rilevabile, nel quale è richiesta la decisione circa un’ultima istanza. In esso egli vede il breakpoint della compagine politica, e quindi, criticamente, a partire da qui egli si preoccupa di indicare i termini di una rifondazione consensuale che al di là dello status, tenga insieme gli interessi. In questa misura il fatto che il contratto in Hobbes, a differenza che in Hale, non sia un dato storico è estremamente rilevante, perché dimostra come egli stia cercando un principio logico propulsivo in grado sia di fondare l’obbedienza, sia di assegnare un ruolo presente e concreto all’assenso degli individui. 230 F. Pollock, art. cit., p. 302. 163 II Dal metodo geometrico al metodo giuridico Un’inversione di prospettiva La faglia nel sistema della scienza e l’infrangersi del modello razionalistico Attraverso la critica di Hale abbiamo visto in controluce alcuni degli aspetti che connotano il diritto nella riflessione hobbesiana, constatando come una delle obbiezioni principali mossa a quest’ultima s’imperni proprio sull’aspirazione a voler definire un modello giuspolitico sull’esempio della geometria euclidea. Ciò che ci proponiamo in questa sezione è vedere, analizzando il ruolo e la valenza del diritto nella costruzione dell’assetto civile, come si possa notare l’insinuarsi di una crepa nel progetto scientifico hobbesiano, il quale verrebbe così a mostrare una valenza diversa da quella del modello e un significato che va oltre la sua pretesa sistematica. 164 In virtù della forza con cui il metodo caratterizza e unifica il programma della filosofia di Hobbes, non rappresenta certo una novità porre all’interno di una ricerca sulla sua speculazione tale cruciale questione231. Ripercorrere l’ordine logico-formale dell’opera di Hobbes (ordine che, è bene ricordarlo, non corrispose a quello cronologico di stesura, che vide prima la composizione del De Cive nel 1642, poi, a tredici anni di distanza, quella del De corpore e infine quella del De Homine nel 1656) sembrerebbe una via sicura in vista della restituzione dei principi deduttivi originari del sistema: tanto lontano e tanto ampiamente si è diffusa l’illuminazione euclidea del nostro raccontata in modo icastico (anche se forse un po’ troppo sensazionalistico) da Aubrey232! Si aggiunga a ciò il fascino, anche estetico, che il sistema inevitabilmente continua ancora oggi a sprigionare, rimanendo doppiamente impresso nel lettore sia per il rigore dimostrativo, sia, se così possiamo dire, per lo spirito teo-logico che in esso aleggia. Nello studio della dottrina, da qui procedono molti dei lavori dedicati all’autore; per citare due esempi, dal vetusto ma sempre indispensabile F. Tonnies, Hobbes. Leben und Lehre, Stuttgart, 1896, al più recente R. Tuck, Hobbes, Oxford 1998. 232 A nostro parere vale la pena di riportare, almeno in nota, l’intero passo a cui alludiamo: “Aveva quaranta anni quando si mise a studiare la geometria: il che accadde per caso. Siccome si trovava nella biblioteca di un signore, c’era lì aperto il libro degli elementi di Euclide, precisamente il 47 El. libri I. Egli lesse la proposizione. Per Dio...disse (di quando in quando inseriva qualche bestemmia per dare più enfasi al discorso) questo è impossibile! Quindi legge la dimostrazione, che lo riporta a una precedente proposizione: legge pure questa. La quale lo riporta a un’altra proposizione, e anche questa legge. Et sic deinceps in modo che alla fine, per via dimostrativa, rimase convinto della verità in questione. Questo lo fece innamorare della geometria”. Aubrey, Brief Lives, Oxford 1898 (tr. it., Vite brevi di uomini illustri, Milano 1989, p.149). 231 165 Il metodo seguito da Hobbes, in pari tempo archeologico e architettonico, non solo riporta alla luce le antiche colonne di Euclide, ma corrisponde perfettamente anche all’ordine naturale delle cose, ovvero all’ordine della creazione divina. Le cose confuse devono essere discusse, distinte, ordinate, contrassegnando ciascuna con il proprio nome; cioè c’è bisogno di un metodo corrispondente alla natura stessa delle cose. Questo, poi, era l’ordine della creazione: la luce, la distinzione della notte e del giorno, il firmamento, gli astri, le cose sensibili, l’uomo. E dopo la creazione, il comandamento. L’ordine della riflessione dunque, sarà questo: la ragione, la definizione, lo spazio, gli astri, la qualità sensibile, l’uomo. E, adulto l’uomo, il cittadino 233. Può destar sorpresa, invece, il fatto che l’aggettivo privilegiato dalla nostra analisi e da noi quindi prescelto per qualificare il metodo sia ‘giuridico’ e non il ben più familiare e ovvio ‘geometrico’. Si tratta di un’inversione di prospettiva che rovescia, come si può ben vedere, gli estremi del celebre progetto hobbesiano234 e che dunque muove dalla filosofia civile a quella naturale. L’operazione è più complessa di quanto potrebbe sembrare a un primo sguardo, perché non consiste tanto in una mera evidenziazione estrinseca della priorità della riflessione politica rispetto a quella logico-matematica (sulla quale del resto si conviene OL, vol. I, De Corpore, Ad Lectorem (tr. it. Elementi di Filosofia. Il Corpo – L’uomo, Torino 1972, p. 67). 234 Vd. OL, vol. II, De cive, Praefatio ad lectores (tr. it. Opere Politiche, cit., p. 74). 233 166 ampiamente), quanto – piuttosto – nel tentativo di seguire dall’interno le orme di ciò che il sistema, col suo ordine euclideo, tende ad oscurare. Si tratta, in sintesi, di una specie di movimento discendente che pone in primo piano l’ombra del sistema stesso. Iniziando proprio con questo capovolgimento di prospettiva, è di fondamentale importanza notare come, in modo niente affatto casuale, le due maggiori opere tarde rappresentino i fasci paralleli di luce che proiettano tale unica ombra comune sullo sfondo del pensiero dell’autore del Leviathan. Non è un caso perché è precisamente in esse, ed in particolare nel De homine, che possiamo riscontrare, a nostro giudizio, le prime crepe nella roccia apparentemente solida e priva di fessure del sapere scientifico hobbesiano. Da questo punto di vista la Lettera dedicatoria al Trattato sull’Uomo è un documento di altissima sincerità – e drammaticità – filosofica. All’età di sessant’anni Hobbes confessa di aver dovuto combattere con le belve235 prima di riuscire finalmente a portare a compimento i suoi Elementa Philosophiae. Il riferimento, come risulta chiaro dal successivo accenno al Demetrio di Plutarco, è autobiografico e allude alla ‘lotta’ del filosofo contro i denigratori che in quegli anni lo vollero mettere in cattiva luce agli occhi di Carlo II. Ma, prestando maggiore attenzione a quanto egli in tale sede afferma a proposito del contenuto dell’opera, le belve potrebbero assumere anche altre sembianze. OL, vol. 2, De homine, Epistola dedicatoria (tr. it. Elementi di Filosofia, cit., p. 493: “Risponderò: ε̉θηριομάχησα. Anche io, infatti, ho i miei Demetri ed Alessandri”). Il riferimento è alla Prima Lettera ai Corinzi, XV, 32 e a Plutarco, Vita di Alessandro, 54. 235 167 Ma a questa sezione capita che le due parti, di cui è costituita, sono molto dissimili tra loro: ed invero l’una è molto difficile, l’altra molto facile; l’una si fonda sulle dimostrazioni, l’altra sull’esperienza; l’una può essere compresa da pochi, l’altra da tutti. Perciò si congiungono quasi là dove si separano profondamente (conjunguntur quasi ad praecipitium). Ma ciò era necessario: lo richiedeva appunto il metodo di tutta quanta l’opera236. La strenua osservanza del metodo, pietra angolare in virtù della quale si sarebbe portato a compimento l’ideale unificazione delle scienze, sembra aver condotto Hobbes, necessariamente e tragicamente, sull’orlo di una sorta di scacco speculativo: L’uomo, infatti, non è solo corpo naturale, ma anche parte della comunità, cioè, per così dire, del corpo politico. Per la qual cosa si doveva considerare e come uomo e come cittadino: cioè gli ultimi principi della fisica si dovevano connettere con i principi della politica, il più difficile con il più facile 237. Ci permettiamo di chiosare: così sarebbe dovuto accadere, ma così non fu. Lo impedirono, come cercheremo di mostrare, non lo scarso tempo a disposizione dell’autore o la difficoltà estrema del compito stesso – fatto ultimo che Hobbes in verità nega: “la parte restante era facilissima” – o altri fattori congiunturali, ma bensì motivazioni di carattere strutturale: l’intera vicenda “riflette la storia sofferta di un 236 237 Id. Id. 168 pensiero che sempre più faticosamente svolgeva i momenti particolari di una costruzione apparsa al suo nascere, esaltante e risolutiva e rivelante invece, col procedere del lavoro, tutte le difficoltà implicite e le antinomie implicite in un tentativo tanto audace e ambizioso”238. Limitiamoci per il momento a rimarcare che l’incontro tanto agognato viene a mancare proprio tra quelle due discipline delle quali Hobbes si considerava uno dei massimi promotori, se non addirittura il fondatore stesso; ci stiamo riferendo rispettivamente all’ottica e all’etica. Ciò che si insidia nella prima è il rinvio ineludibile al mondo degli oggetti, il quale ne impedisce in fin dei conti la chiusura tautologica che caratterizza invece ogni scienza aprioristicamente intesa239. Tale frattura all’interno della scienza dell’ottica poteva non avere, è il caso di dire di riflesso, conseguenze fatali su quella dell’etica? Stando alla divisione dei metodi, la risposta dovrebbe essere negativa. Ci sono infatti due philosophandi methodi, l’uno dalla generazione agli effetti possibili, l’altro dagli effetti o φαινομένοισ alla possibile generazione240 e la filosofia civile è più volte e con enfasi ascritta da Hobbes al primo di questi241. 238 A. Pacchi, Introduzione, in T. Hobbes, De Homine, Roma 1972, p. 8. Cfr. A. Pacchi, Convenzione e ipotesi nella formazione della filosofia naturale di Thomas Hobbes, Firenze 1965. 240 De corpore, XXV, 1. 239 169 La fondazione della scienza civile e morale coincide dunque, secondo questo ideale sistemico, con l’enunciazione delle cause a partire dalle quali è possibile ottenere uno stato civile; queste cause sono i principi o, meglio, gli elementi, che risultano essere contemporaneamente esito della dissoluzione e inizio della costruzione teoreticaeuclidea e pratica-baconiana. È fondamentale capire il modo peculiare in cui queste due movenze si saldano insieme, anche perché è proprio in questo frangente che si ritrova una delle radici primarie della critica di Hobbes all’antiquaria giuridica. Nella definizione di scienza nel capitolo decimo del De Homine troviamo di nuovo, seppur in forma abbreviata, l’esposizione dei due metodi della filosofia; ma il punto si tinge qui di una considerazione assiologica che risulta per noi massimamente significativa, perché si afferma essere preferibile dare il nome proprio di scienza soltanto a quel procedimento dimostrativo in base al quale risulta possibile una progettazione futura, […] giacché giova più sapere in che modo possiamo nella miglior maniera servirci della cause presenti che conoscere quale fu l’irrevocabile passato. Perciò a gli uomini è stata concessa una scienza fondata su siffatta dimostrazione solo di quelle cose la cui generazione dipende dal loro stesso arbitrio242. 241 242 Cfr. De cive, Epistola dedicatoria, p.139 (tr. it. Opere Politiche, cit., p. 65). De homine, X, 4. 170 Si badi al fatto che Hobbes non sta negando in toto il valore del procedimento induttivo: egli lo sta subordinando al processo deduttivo secondo un criterio di valore pratico; ma il valore del primo è senz’altro riconosciuto, nonché affiancato, a quello del secondo (e di ciò Hale avrebbe avuto certamente piacere). Sono anche utili, soprattutto le storie: ed invero forniscono esperimenti sui quali si appoggiano le scienze delle cause; la storia naturale, così, è utile alla fisica, mentre le storie civili sono utili alla scienza politica e morale, siano vere o false, purché non impossibili243. La bontà della conoscenza storica è ammessa anche nel caso di incertezza, e persino nella sua eventuale falsità, a condizione che non pregiudichi la plausibilità dell’evento passato, e quindi, ci pare, sempre che risponda ad un’esigenza di possibilità futura. Torniamo però alla dimostrazione deduttiva. La scientificità di tale operazione è per Hobbes garantita, è il caso di rammentarlo, in base al principio del cosiddetto verumfactum: per il fatto che i principi in forza dei quali si conosce che cosa sono il giusto e l’equo, l’ingiusto e l’iniquo, cioè le cause della giustizia, in altri termini le leggi ed i patti, li abbiamo fatti noi stessi 244. 243 244 Ibid, XI, 10. Ibid., X, 5. 171 Siamo noi medesimi, quindi, a definire i principi del commonwealth, siamo noi i suoi autori, e in questa – e solo in questa – misura è concepibile una scienza civile aprioristicamente dimostrata. È la soggettività umana, o meglio, l’intersoggettività, a fornire la necessaria garanzia dell’oggettività, e quindi della saldezza della costruzione statuale; oltre a ciò, Hobbes sembra evidenziare come tale garanzia richieda il riconoscimento della propria autorità nei confronti dello stato, nonché l’assenso presente al accordo che in esso si realizza. Così apparentemente risolta nei suoi elementi (o piuttosto liquidata una volta per tutte) la questione, si correrebbe però il rischio concreto di lasciare nell’oblio l’altro piano che porta Hobbes sempre e di nuovo a fare inevitabilmente i conti con il Giano bifronte della conflittuale natura umana. Gli uomini non sono solo autori, ma al contempo costituiscono la materia dello Stato. E per quanto il tutore dell’uomo-cittadino, lo Stato moderno, tenti di plasmare, disciplinare e correggere tale ostinata chora, cercando di non lasciar ulteriormente espandersi l’ombra dell’irrazionale che accompagna inevitabilmente l’uomo-naturale, essa continuamente tende a riapparire. Rispetto all’arco giornaliero di vita dell’edificio statuale, si può forse affermare che esso non conosce mezzogiorno. 172 Proviamo ad avviarci verso alcune prime conclusioni ripercorrendo e integrando i passaggi dell’analisi fin qui condotta: partiamo da un passo del capitolo sesto del De Corpore che ben riassume i termini della questione. La filosofia civile è strettamente legata alla filosofia morale, dalla quale tuttavia può essere staccata: infatti le cause dei movimenti della mente possono conoscersi non soltanto con il ragionamento, ma anche con l’esperienza attraverso la quale ciascuno osserva i propri movimenti. […] Ormai, da quanto si è detto, risulta che il metodo di filosofare, per quelli che ricercano semplicemente la scienza, senza proporsi una determinata questione, è in parte analitico, in parte sintetico, cioè è analitico dai sensi alla scoperta dei principi, sintetico per tutto il resto245. Tale affermazione sembra l’inevitabile presa d’atto dell’infrangersi definitivo dell’ideale unitario della scienza politica, il quale sembra trovare il proprio ostacolo insuperabile nel residuo di empiricità, nell’ineludibile dato sensibile costitutivo della natura umana. Si tratta, a ben vedere, di una frattura che era stata in qualche modo preannunciata nel De Cive e a partire dalla quale Hobbes, giustificando l’alterazione nell’ordine della composizione del sistema, aveva di fatto affermato l’eccezionalità dello statuto scientifico della politica. 245 De Corpore, VI, 7. 173 Per questo ho affrettato la composizione di questa terza parte, sospendendo quella delle altre due; onde è accaduto che quella che doveva essere l’ultima e riuscita la prima in ordine di tempo, anche perché non mi è parso che avesse bisogno delle precedenti, fondata com’è su principi propri, provati dall’esperienza246. Nella filosofia civile, in cui si troverebbero compossibili l’istanza aprioristica della scienza con la sua validazione a posteriori, sembra definitivamente compiersi il fallimento della applicabilità totale del principio aprioristico e forse la tenuta stessa dell’intera filosofia hobbesiana. Se questa fosse davvero la nostra conclusione finale, essa risulterebbe senz’altro troppo drastica. Questo impasse sul cammino metodologico, se così possiamo definirlo, non è in grado a nostro parere di mettere a tacere definitivamente l’insopprimibile esigenza di unità, così profondamente radicata nello spirito hobbesiano. Anzi e comunque, tale resistenza della materia nei confronti dell’ingessatura geometrica, spinge l’anelito di unità a riemergere per reazione con una potenza ed una capacità dinamica interna rinnovata, se non addirittura accresciuta. La concezione di una filosofia etico-politica razionalmente dimostrabile è senza dubbio una delle più durature conquiste della riflessione hobbesiana. 246 OL, vol. II, De cive, Praefatio ad lectores (tr. it. Opere Politiche, cit., p. 76). 174 Ma anche alla luce dei limiti appena evidenziati alla portata delle nostre affermazioni e al di là di ogni loro indebita cristallizzazione in modello, questo ramo della filosofia di Hobbes non può comunque non risentire intimamente di questa sorta di faglia epistemologica costitutiva, trattandosi di una frattura non geometricamente né in altro modo rimarginabile. Per quanto il bisogno di ordine e di certezza – segno così profondo dell’intero secolo – porti Hobbes a cercare di espungere il più possibile l’empiria dalla filosofia civile, il dato sensibile mantiene e fa valere la sua duplice natura, massimamente quando preme l’intento pratico di pacificazione, vale a dire, di costruzione di un ‘sapere’ che coincide col (ci sia consentita l’espressione) ‘fare’ la pace. In questa misura la predilezione dell’inglese non può mostrarsi solo nei confronti di un sapere di tipo tautologico: l’etica e la politica incrociano la realtà laddove la forma retta, geometrica delle prime, incontra la materia obliqua, fallibile, incerta della seconda. Questo spazio di incontro che si apre tra quasi-tautologie e quasi-verità di fatto, ci sembra presentarsi, ed è di massima importanza sottolinearlo, nella forma inequivocabile del diritto. La possibilità di questo difficile accordo sia sul piano teoretico che quello pratico –e in questo caso i due piani più che convergere, in verità coincidono – è data, secondo Hobbes, dalla necessità della convenzione; così la concezione di fondo che emerge dai “precipizi” sia della cognizione che della scienza, è concezione eminentemente giuridica. 175 Solo la forza argomentativa del contratto è in grado di innestare un meccanismo logico in grado di rendere duratura la tenuta della costruzione politica: essa è dunque una forza propulsiva che fa appello ad una natura umana mai convertibile fino in fondo, ma pur sempre domabile, addomesticabile; una human nature in grado cioè di forzarsi all’ubbidienza, ed in questa maniera, ri-costruirsi, edificarsi – in certo senso letteralmente ri-farsi – non dal nulla, ma dalla propria duplice materia, passionale e razionale. Si tratta in definitiva di un educarsi all’essere uomini e al contempo cittadini, non uomini-e-basta247. L’anelito primario di civiltà che così diviene in Hobbes esigenza di certezza è allora quello del diritto. E ci sembra evidente, infine, che non si tratta di una certezza scientifica, ma neppure di un’assicurazione soggettiva, piuttosto della ricerca tenace e inesauribile di una garanzia morale, di un impegno sincero e costante ad accettare la mediazione giuridica che sola rende possibile la vita in comunità e che costituisce forse il lascito più importante dell’eredità hobbesiana, non solo in campo politico. Lasciamo in tal senso lo spazio conclusivo alle stesse parole di Hobbes, che ci sembrano costituire una sorta di involontario ritratto della sua persona e del senso del suo compito filosofico: 247 Cfr. OL, vol. II, De Cive, I, 2, nota. 176 Sometimes a man knows a place determinate, within the compass whereof he is to seek; and then his thoughts run over all the parts thereof, in the same manner, as one would sweep a room, to find a jewel; or as a spaniel ranges the field, till he find a scent; or as a man should run over the alphabet, to start a rhyme248. Equità: legge civile e legge naturale, moralità e consenso In conclusione al XXX capitolo del Leviathan si trova un’affermazione in parziale contrasto rispetto a quanto si legge nella Lettera Dedicatoria al De Homine sopra citata. Il passaggio è peculiare, non ha corrispondenze né negli Elements né nel De cive, e affronta un argomento delicatissimo del dibattito politico in Inghilterra ai tempi di Hobbes – e non solo – quello dei consiglieri del sovrano. Hobbes vi aveva dedicato l’intero capitolo XXV, ma è proprio qui dove risulta più enfaticamente rimarcato il tema che ci concerne. Non potendoci addentrare in questa sede in una questione che, pur avendo importanti ripercussioni a livello di teoria politica ed investendo questioni che affronteremo successivamente, resta squisitamente storica – qualche accenno ad essa, come sottotraccia, si può trovare nella prima parte di questo lavoro – si noti almeno en passant come il filosofo inglese colga uno dei punti decisivi intorno al quale si era annodata tanta della conflittualità esplosa durante il Seicento, ovvero la rivendicazione dei privilegi dei funzionari superiori in termini di diritti ereditari249. 248 Lev., I, III, 6. Hobbes rimarca l’incompatibilità di tali privilegi col potere sovrano e indica nel riconoscimento pubblico del merito personale, indipendente da ogni criterio di nascita, la via virtuosa che deve essere 249 177 Con l’obbiettivo di vanificare la qualità del consigliere in quanto membro della classe dirigente, Hobbes scrive: Good counsel comes not by lot, nor by inheritance; and therefore there is no more reason to expect good advice from the rich, or noble, in matter of state, than in delineating the dimensions of a fortress; unless we shall think there needs no method in the study of the politics, (as there does in the study of geometry,) but only to be lookers on; which is not so. For the politics is the harder study of the two 250. È rilevante come la difficoltà della politica, connessa per il suo studio alla necessità non solo dell’osservazione, ma anche di un metodo, emerga proprio in questo luogo dell’opera hobbesiana. Il capitolo Of the Office of the Sovereign Representative nel Leviathan ha visto la trattazione ampliarsi e specificarsi sensibilmente rispetto alle opere precedenti251, ed in esso si trova l’ultima delle numerose occorrenze del termine dal quale vorremmo fare cominciare il nostro discorso: equity. progressivamente introdotta nello stato. Cfr. Lev., p.184: “but contending for them as a right, they must needs by degrees let them go, and have at last no further honour, than adhereth naturally to their abilities”. 250 Id. 251 EW, vol. IV, El., IX; OL, vol. II, De cive, cap., XIII. 178 Converrà soffermarci anzitutto su un passo che si trova soltanto nel De Cive, all’inizio del corrispondente capitolo XIII intitolato De Officis Eorum Qui Summum Imperium Administrant252. Si tratta di un distinguo analitico che significativamente scompare dal capolavoro del ’51, e nel quale il diritto del sovrano e il suo esercizio vengono considerati separatamente. La sovranità, pur essendo indivisibile in quanto al soggetto titolare, conosce un’articolazione interna che dà luogo a due momenti potenzialmente scindibili. Hobbes delinea in una maniera espressiva, che dimostra quanto fosse impressa in lui l’idea di un cosmo galileiano, le circostanze in cui tali momenti coincidono oppure vengono scissi: Quando il diritto (ius) di sovranità e l’effettivo suo esercizio (exercitium) sono distinti, l’ordinamento dello Stato è simile all’ordinamento naturale del mondo, in cui Dio, primo motore di tutte le cose, produce gli effetti naturali ad opera delle cause seconde. Quando invece chi ha il diritto di regnare vuol essere personalmente presente a tutti i giudizi, le discussioni e gli atti pubblici, l’ordinamento dello Stato sarebbe simile all’ordinamento del mondo in cui Dio, oltrepassando l’ordine naturale, volesse intervenire immediatamente a produrre ogni mutamento nella materia 253. 252 OL, vol. II, p. 297. Non passi inosservato il cambiamento delle parole scelte da Hobbes; nel De Cive il sovrano è “colui che amministra il sommo potere”, nel Leviathan si tratta del “sovrano rappresentativo”. Avremmo modo di tornare su questa pregnante nuova qualifica. 253 Ibid., p. 298 (tr. it. Opere Politiche, cit., p. 253.). 179 I doveri del sovrano definiscono i modi in cui il potere sommo è tenuto ad adempiere concretamente al suo compito caratterizzante, ovvero provvedere alla sicurezza del popolo (salus populi254). Ribadiamo: è tenuto. Che la sovranità non sia sottoposta alla legge civile è questione più che nota: il sovrano assoluto di Hobbes non può essere soggetto, per definizione, ad alcuna limitazione legale. Egli però sottosta ad una regola che – solo perché legati alla definizione hobbesiana – non possiamo affermare essere una legge in senso proprio. Si tratta ad ogni modo sia di una fondamentale obbligazione morale, di cui diremmo meglio successivamente, sia di un costitutivo dettame politico che solo garantisce la tenuta dello stato. Il punto decisivo è il seguente: il rispetto e il riconoscimento del potere sovrano da parte del suddito, evento imprescindibile e colonna portante non solo della nascita ma anche (e forse soprattutto) della vita dello stato, non è imponibile. E da ciò risulta evidente come la riflessione hobbesiana faccia intimamente i conti con il punto cieco alla base di ogni compagine politica, vale a dire, col fatto che i cittadini, per Così nel Levitano latino e nel De cive, dove Hobbes compie un’importante precisazione: il popolo, egli dice, è da intendersi qui non come la persona civile, ma come la moltitudine dei cittadini che vengono governati. Si veda dunque come nel suo effettivo esercizio, il potere sovrano debba aver riguardo per i membri dello stato in quanto membri, non potendo avere a che fare concretamente con la finzione che fa di essi un’unità omogenea. Quasi a dire che nel momento della sua resa pratica, diversamente da quello della sua costruzione teorica, lo stato debba continuamente e instancabilmente ‘fare’ e ‘tenere’ quell’unità. In che modo ciò sia possibile sarà in seguito detto. Cfr. Ibid., p. 299. 254 180 essere veramente vincolati ad essa, debbano ancora prima di conoscere e sottoporsi a qualunque comando positivo, essere legati ed obbligati “sincerely from the heart”255 all’ordinamento istaurato. And the grounds of these rights [of sovereignty], have the rather need to be diligently, and truly taught; because they cannot be maintained by any civil law, or terror of legal punishment. For a civil law, that shall forbid rebellion, (and such is all resistance to the essential rights of sovereignty,), is not (as a civil law) any obligation, but by virtue only of the law of nature, that forbiddeth the violation of faith; which natural obligation if men know not, they cannot know the right of any law the sovereign maketh. And for the punishment, they take it but for an act of hostility; which when they think they have strength enough, they will endeavour by acts of hostility, to avoid256. (corsivo nostro) La ribellione non è sanzionabile per legge, perché essa, in un bizzarro gioco di specchi, riflette in negativo l’assolutezza del sovrano. Fuori dai confini del commonwealth ci si trova in una zona in cui non vi è diritto civile, ma di nuovo e soltanto la forza del diritto naturale: perciò, ed è qui dove è massimamente evidente la carica politica del precetto a cui sottostà il sovrano, qualora 255 Cfr. Lev., p. 179. Ibid., p. 175. Cfr., De Cive, XIV, 21, dove il ragionamento viene svolto a proposito del suddito che viola la legge di natura. 256 181 egli oltrepassi il limite che definisce la sua azione artificiale, allora la punizione naturale che si vedrà infliggere sarà la ribellione. La questione viene formulata in questi termini in fondo alla seconda parte dell’opera, alla fine del capitolo XXXI, Of the Kingdom of God by Nature: […] negligent government of princes, [is naturally punished] with rebellion…For seeing punishments are consequent to the breach of laws; natural punishments must be naturally consequent to the breach of the laws of nature; and therefore follow them as their natural, not arbitrary effects 257. È evidente come, pur non trattandosi di un freno legale, la legge di natura rappresenta un concreto vincolo all’esercizio del potere sovrano, laddove la sua infrazione corrisponde al venir meno della fiducia che ad esso è stata accordata e di conseguenza all’indebolimento del consenso in virtù del quale tale potere è stato innalzato. In questo preciso frangente della riflessione hobbesiana, in cui vediamo il sovrano obbligato dalla legge di natura a procurare il bene del popolo, bisogna rintracciare quello che, capovolgendo il titolo di un famoso studio, potremmo chiamare il volto non demoniaco del potere. 257 Ibid., p. 193. 182 Che la sua bontà, ma anche il suo proprio utile, consista essenzialmente nel suo essere principio di equità è immediatamente detto da Hobbes, il quale, specificando e migliorando l’argomentazione in proposito fatta nel De Cive, compie due importanti precisazioni: in primo luogo, egli chiarisce come la sicurezza a cui deve provvedere il sovrano rappresentativo non sia la mera sopravvivenza, ma consista anche in tutte la altre soddisfazioni della vita a cui ognuno possa attingere con attività lecite e senza pericolo o danno per il commonwealth; in secondo luogo – ed è ciò che alla nostra analisi massimamente interessa – Hobbes delinea il modo in cui il sovrano, nell’espletamento di tale compito, debba rapportarsi a quell’ “ognuno” sopra indicato. And this is intended should be done, not by care applied to individuals, further than their protection from injuries, when they shall complain; but by general providence, contained in public instruction, both of doctrine, and example; and in the making and executing of good laws, to which individual persons may apply their own cases258. Dietro alla “cura rivolta agli individui” si nasconde la parzialità. La regola che il sovrano è tenuto a seguire è dunque il principio di equità che Hobbes aveva indicato come l’undicesima legge di natura259. Il termine equity, rinvenibile già negli Elements e nel De Cive, usato più frequentemente nel Leviathan, adoperato chiaramente nel Dialogue, può considerarsi “the dominant Ibid., p. 175. Cfr. Ibid., p. 159: “The examples of the princes, to those that see them, are, and ever have been, more potent to govern their actions, than the laws themselves” (corsivo nostro). 259 Cfr. Ibid., p.77; De Cive, III,15; El., XVII, 2. 258 183 moral category in Hobbes’s political and legal philosophy” 260: intorno ad esso confluiscono tutti quei valori che il sovrano è tenuto a preservare, l’uguaglianza, la rettitudine, la giustizia. Ed è appunto dall’amministrazione di quest’ultima che Hobbes avvia la vera e propria trattazione circa i doveri del sovrano, ma che la questione non si riduca a questa sfera, e riguardi invece nel complesso e nel vivo l’intero suo operato, risulta evidente dallo svolgimento successivo dell’argomentazione, nella quale egli significativamente applica il principio all’imposizione delle tasse, alla carità pubblica, alle punizioni e alle ricompense. L’ambito dell’amministrazione della giustizia funge in qualche modo da modello paradigmatico perché è in tale sede che l’uguaglianza che il sovrano deve riconoscere assume la vera forma della giustizia ed è più chiaramente evidente in che maniera la legge civile intrattenga un rapporto con la legge naturale. Nel Leviathan Hobbes afferma anzitutto che, a dispetto di ogni disuguaglianza sociale, la legge deve essere applicata in modo eguale a tutti i livelli del popolo, perché solo in questo modo può venir rispettata l’equità to which, as being a precept of the law of nature, a sovereign is as much subject, as any of the meanest of his people261. L. May, “Hobbes on Equity and Justice”, in C. Walton, P. J. Johnson (a cura di), Hobbes’s ‘Science of Natural Justice’, Dordrecht 1987, p. 241. 260 184 L’istanza dell’equity come si può ben vedere, non solo rende uguali abbienti e poveri, ma rende persino eguali sudditi e sovrano, tutti parimenti vincolati da uno standard di moralità che indica ciò che è giusto fare prima e sopra ogni legge civile; si tratta di un elemento che apre una profondissima breccia nel famigerato positivismo giuridico hobbesiano, dal momento che riconosce la presenza di un vincolo superiore che sovrasta la legge civile. Come si concilia questa gerarchizzazione con la celebre e problematica affermazione secondo cui la legge naturale e la legge civile si contengono a vicenda e hanno uguale estensione? È stato più volte messo in luce come l’idea di legge intesa esclusivamente come comando vanifichi ogni rilevanza giuridica e politica della legge di natura, finendo per ridurre il contenuto dell’ultima alla forma impositiva del primo e annullandone di fatto il potere obbligante. Osservando la questione dalla prospettiva dell’equità il rapporto appare quantomeno ancor più complesso. Sarà di qualche utilità vedere in che maniera il problema emerga dalle pagine del Dialogue. Nell’opera degli anni sessanta la cornice è quella del confronto con le voci che sostengono la sovranità della common law. 261 Lev., p. 180. 185 Ansioso di affermare la titolarità del potere di ultima istanza, come abbiamo altrove visto, Hobbes si preoccupa di ricondurre entro il confine del diritto civile l’intero spettro della giustizia, e, per ottenere ciò, risulta evidente come debba venire inglobato non solo il momento positivo della legge, ma anche quel momento interpretativo che rende conto e ragione, se così possiamo dire, della lettera del comando. Che l’argomentazione tenti di fare i conti con questo senso dilatato di diritto emerge dalle prime pagine della trattazione, quando il Filosofo si sforza di identificare la forza e il senso proprio della legge con la ragione del sovrano, smantellando il concetto di ragione artificiale dei giuristi. Law. You speak of the Statute Law, and I speak of the Common Law. Ph. I speak generally of Law. Law. Thus far I agree with you, that Statute Law taken away, there would be no left, either here, or any where, any Law at all that would conduce to the Peace of a Nation; yet Equity, and Reason, which [are] Law Divine and Eternal, which oblige all Men at all times, and in all places, would still remain, but, be Obeyed by few: and though the breach of them be not punished in this World, yet they will be punished sufficiently in the World to come262. 262 HW, Dialogue, p.10 186 E ancora più avanti, quando l’identità della legge civile che aveva visto corrispondere in se stessa il suo essere somma col suo essere retta, mostra avere ancora una doppia articolazione: I say, that, the King Reason, when it is publikly upon Advice, and Deliberation declar’d, is that Anima Legis, and that Summa Ratio, and that Equity which all agree to be the Law of Reason, is all that is, or ever was Law in England 263 Si provi, leggendo queste linee, a tenere a mente quanto abbiamo precedentemente rilevato nella nostra analisi: Hobbes sta tracciando un quadro nel quale il saldarsi insieme di giustizia (qui intesa come sfera delimitata dalla legge positiva), ed equità (intesa come fondamento razionale di ogni legge), connota la legittimità del potere sovrano e subordina ad essa l’esercizio dei giudici inferiori. Se questo doppio binario si presenta unificato e non sottoposto a istanze ulteriori, qualora lo si osservi nella sua assoluta supremazia di diritto, di fatto si intravede in esso la presenza, accanto alla zona dei comandi e dei divieti sanciti e punibili legalmente, di un margine di trasgressione che inerisce ad un piano universale e valido, pur se non del tutto esplicitato nella formulazione delle leggi; si insinua dunque, un tanto di fallibilità che tale si definisce in rapporto alla pace e la sicurezza della nazione, legge suprema 263 Ibid., p. 19. 187 dello stato che, come si è potuto leggere nel Leviathan, qualora venga infranta sarà punita non nell’intangibile al di là, ma sul più che terreno fronte della ribellione. Il sovrano di Hobbes non è semplicemente un principe devoto e timoroso di Dio, egli è chiamato ad obbedire alla legge divina secondo la pretesa del popolo che a lui ha conferito fiducia. Ma ciò qui ci interessa maggiormente è ciò che troviamo al di là di tale scontro estremo. In questo contesto la possibilità di errare è quella dei giudici subordinati, e in tal senso è estremamente interessante notare come Hobbes porti immediatamente il discorso sul piano istituzionale, quasi a voler rendere materiale un meccanismo di temperamento del rigore della legge scritta che corrisponde in tutto e per tutto al temperamento morale del sovrano nel momento del suo esercizio pratico. Nel Dialogue Hobbes spiega la differenza tra giustizia ed equità partendo significativamente da quella tra Corte di Giustizia e Corte di Equità, ed a questo punto non potrà non notarsi l’importanza per la sua concezione del diritto di quelle complesse vicende che videro la competizione e lo scontro tra queste due giurisdizioni; alludiamo agli eventi avvenuti negli anni della sua giovinezza, di cui abbiamo trattato nella prima parte di questo lavoro. 188 In un primo momento Hobbes, attraverso le parole del Filosofo, sembra fare ai common lawyers un’importante concessione, che però viene presto ristabilita a favore della prerogativa del sovrano. Ph. You see that the difference between Injustice, and Iniquity is this; that Injustice is the Transgression of a Statute-Law, and Iniquity the Transgression of the [Common-Law which] was nothing else but the Law of Reason, and that the Judges of that Law are Courts of Justice, because the breach of the Statute-Law is Iniquity and Injustice also. […] La. Seeing all Judges in all Courts ought to Judge according to Equity, which is the Law of Reason, a distinct Court of Equity seemeth to me unnecessary, and but a Burthen to the People, since Common-Law, and Equity are the same Law. Ph. It were so indeed; If Judges could not err, but since they may err, and that the King is not bound to any other Law but that of Equity, it belongs to him alone to give Remedy to them that by the Ignorance, or Corruption of a Judge shall suffer dammage264. La pretesa di assorbimento dell’equity nelle procedure stesse della common law era stata esattamente la rivendicazione fatta dalle schiere dei professionisti dei tribunali ordinari al seguito di Coke, i quali rinvenivano nella legge già data l’unica fonte del diritto. 264 Ibid., pp. 30-31. 189 Ma il motivo per cui Hobbes, pur ammettendo in teoria l’argomento da loro portato, finisce per scartarlo, consiste significativamente nel riconoscimento della fallibilità del giudice, all’errore del quale deve poter offrire rimedio un potere superiore, libero dai vincoli della procedura legale. Il problema, è evidente, potrebbe riproporsi all’infinito, perché ogni potere umano è suscettibile di errore, ma sul piano dell’articolazione istituzionale la risposta di Hobbes, lo sappiamo, è netta, e soddisfa quel criterio di sicurezza e pacificazione che abbiamo visto farsi sempre più pressante lungo la sua riflessione. Ph. […] I am sure you can alledge none but this, that there were a necessity of a Higher Court of Equity than the Courts of Common-Law, to remedy the Errors in Judgment given by the Justices of Inferior Courts, and the Errors in Chancery were irrevocable, except by Parliament, or by special Commission appointed thereunto by the King265. La sovranità voluta da Coke è qui non solo puntualmente rovesciata sul piano delle corti, tra le quali ad essere superiore è la Cancelleria e non le corti di diritto comune, come avrebbe invece voluto il celebre giurista, ma anche interamente subordinata alla sovranità del potere supremo, che indicativamente sembra comparire qui nella forma del King in Parliament. 265 Ibid., p. 61. 190 Si evidenzino ancora altri due elementi. Il primo consiste nel fatto che il sorgere dell’equity si collochi nel momento applicativo della legge, lasciando intatta, in teoria, la perfetta corrispondenza della legge in se stessa: Hobbes intende l’errore come un errore del giudizio e giammai come un errore della legge, la quale deve sempre presumersi equa; qualora la sua applicazione riveli una possibile discrasia, allora un’istanza superiore dovrà ripristinare il senso ultimo della sua interpretazione in modo da rendere efficace il fine per cui è stata posta. Un secondo aspetto, che a questo si collega, ci pare vada poi sottolineato: l’intervento in campo giudiziario del supremo potere politico è un intervento eccezionale, che ricorda in verità quel Dio onnipotente che oltrepassa l’ordine naturale secondo l’immagine del passo precedentemente citato del De Cive. Ciò che il buon governo dovrebbe mettere in atto è un virtuoso meccanismo, in fondo vincolato alla morale, che renda quanto più possibile raro e non necessario il miracolo del Dio mortale. Equity is a certain perfect Reason that Interpreteth, and Amendeth the Law Written; though I Construe it a little otherwise than he [Coke] would have done; for no one can mend a Law but he that can make it, and therefore I say not it amends the Law, but the Judgments only when they are Erroneous 266. 266 Ibid., p. 68. 191 Sul piano legale la sovranità dell’equity poggia sull’identità tra legge naturale e legge civile che realizza lo stato, ma la possibilità che la legge in se stessa possa non essere retta (e quindi necessiti di un rimedio) viene pur sempre contemplata, anche se riportata interamente alla giurisdizione del suo autore, e, dovremmo dire in verità, alla sua coscienza. L’equità è quindi per il sovrano rappresentante principio morale supremo alla luce del quale egli deve tenacemente e costantemente guardare al bene cui è orientato il suo potere; potere che, da questa prospettiva, è forza solo perche è diritto. Quando Hobbes sostiene l’identità di bene privato e bene pubblico nella persona del Sovrano egli in realtà delinea un compito che, come rivela proprio il precetto di equità, si propone di dare una forma giuridica e politica nella quale possa trovare dimora un consenso non naturalmente dato. Also if a man he trusted to judge between man and man, it is a precept of the law of nature, that he deal equally between them. For without that, the controversies of men cannot be determined but by war 267. L’undicesima legge di natura, dimostratasi pietra angolare dell’ordine politico, sostiene la necessità di un contenimento e un temperamento delle passioni, sia del sovrano che dei sudditi, in forza del quale si riconosca l’uguaglianza e si bandisca la parzialità: 267 Lev., p. 77. 192 l’equità è dunque il fondamento morale su cui poggia lo stato e costituisce – essa, e non la forza naturale che viene lasciata al sovrano nel contratto – un criterio valido ed efficace col quale deve misurarsi faticosamente e costantemente l’esercizio del potere in vista del mantenimento della giustizia. È evidente come la giustizia che qui si invoca non sia riducibile in ultima analisi alla positività delle leggi, ma investa piuttosto il nucleo sostantivo della giuridicità: il diritto come vincolo reciproco, chiamato a legare gli animi prima ancora che le azioni degli uomini. La giustizia degli uomini268, tanto di chi è sovrano, come di chi è suddito, è dunque quella grande morale che consiste nell’esercizio della coscienza come abitudine costante tesa a frenare e silenziare tutte quelle passioni che riconoscono e tentano di rivendicare una disuguaglianza aliena alla natura dell’umanità. Solo il precetto di questa giustizia naturale dispone l’animo degli uomini alla convivenza pacifica. Autore, Attore, Autorità Nel definire la parzialità Hobbes riprende un termine greco del Nuovo Testamento269, che rimanda ad un preferenza e ad un giudizio di favore per gli uomini basato sulle apparenze esteriori e non sui meriti. 268 269 Cfr. Ibid., p.75. Romani 2:11; Efesini 6;9. 193 The observance of this law, from the equal distribution to each man, of that which in reason belonged to him, is called Equity and (as I have said before) distributive justice: the violation, acceptance of persons, προσωποληψία 270. Ritroveremo la radice della parola, seppur connotata in maniera diversa e significativa, nel XVI capitolo del Leviathan. Nell’architettonica dell’opera il luogo è la conclusione della parte dedicata all’Uomo, immediatamente prima dell’inizio della trattazione dello Stato: già questa collocazione, secondo quanto diremo avanti, è decisamente indicativa271. Si tratta di un passaggio estremamente delicato, guadagnato da Hobbes per la prima volta in quest’opera, nel quale si trova la messa a punto di un impianto giuridico in cui vi è una singolarissima metamorfosi degli uomini, in virtù della quale il passaggio dalla natura all’artificio è reso teoricamente possibile. Ci soffermeremo proprio sui termini e i contorni dell’assunzione di questa nuova veste, che farà dell’uomo un cittadino. È qui dove inizia il vero e proprio movimento costruttivo della scienza politica, nel quale troviamo la formulazione di un sistema di categorie nuovo (nel quadro del Leviathan, 270 Lev., p.77. A. Amendola, Il Sovrano e la Maschera, Napoli 1998, p. 203: “(…) la trattazione della persona si colloca al crocevia fra la fine del discorso sulla natura umana e l’inizio della “scienza politica” propriamente detta. La definizione di persona, insomma, in un certo senso, apre il sistema deduttivo che ‘ricompone’ il corpo politico”. 271 194 non certo della tradizione giuridica), grazie al quale Hobbes sposta la prospettiva che ha orientato l’antropologia delineata nella prima parte dell’opera272. Partiamo direttamente, come fa Hobbes stesso, dalla definizione della prima di queste categorie, ovvero, dal concetto di persona: A Person, is he, whose words or actions are considered, either as his own, or as representing the words or actions of another man, or of any other thing to whom they are attributed, whether truly or by fiction. When they are consider as his own, then is he called a natural person: and when they are considered as representing the words and actions of another, then is he a feigned or artificial person273. La definizione individua un soggetto ritenuto possessore oppure rappresentante di parole e azioni, rispettivamente, proprie o altrui. Anche se, come vedremo, la persona non necessariamente coincide con l’individuo, il presupposto di questa caratterizzazione è l’originaria e stabile attribuzione al singolo, da parte di altri, della titolarità dei mezzi di deposizione del diritto274: questo è il tacito dato primo che permette il costituirsi delle persone giuridiche, sia di quelle naturali che di quelle artificiali. 272 Ibid., p. 195 e ss. Lev., p. 80. 274 Per il significato propriamente giuridico di own e ownership cfr. W. Sakesteder, “Hobbes: Man the Maker”, in J.G. Van Der Bend (ed.), Hobbes: His view of man, Amsterdam 1982, pp. 77-88. 273 195 Hobbes delimita così un nuovo spazio concettuale in cui rientra, per definizione, sia l’assunto individualistico che il postulato di apertura all’intersoggettività. Entrambi gli elementi si intrecciano in una stretta morsa che tenteremo ora di allentare. Per fare ciò, riprendiamo ancora il contenuto testuale della definizione. Facendo leva sulle espressioni “are considered”, “are attributed”, possiamo osservare un preciso riscontro del presupposto su indicato: il riconoscimento dal di fuori della persona come agente giuridico appare un fattore strutturale che mette in evidenza il fatto che, per Hobbes, “la persona è una designazione esteriore”, la quale denota “una proprietà solo relazionale e percettiva”275; essa viene posta immediatamente in un contesto pubblico. La cornice tracciata dall’antropologia naturale aveva precluso ogni via uniforme di approdo ad un ordine intersoggettivo, e l’affacciarsi della morale come strumento ed apertura ad esso, proprio nella discontinuità del quadro delineato, indicava già l’indeducibilità e l’infondatezza che caratterizzerà indelebilmente lo stato artificiale, il solo che renderà tale ordinamento attuabile, ovvero, reale. Il concetto di persona si innesta proprio in questo iato: esso è una nozione giuridica, necessariamente sganciata dalla nozione fisica di individuo, a cui si giunge, però, proprio grazie a uno sdoppiamento interno all’individuo, che determina “un distanziamento tra il sé e le proprie azioni e parole, di modo che queste possono sia 275 B. Accarino, Rappresentanza, Bologna 1999, p. 53. Cfr. anche A. Amendola, op. cit., p. 201. 196 aderire al soggetto (…) sia staccarsene ed essere attribuite a un altro”276: nel primo caso abbiamo la persona naturale, nel secondo quella fittizia. Questa precisa scissione dell’unità fisico-naturale dell’uomo è funzionale al suo divenire artefice del commonwealth. Quali sono gli ‘oggetti’ che vengono ravvisati come posseduti dall’uomo? Essi sono le sue parole e le sue azioni. Lo slittamento rispetto alla trattazione del capitolo XIV va messo subito in evidenza: là, il possesso dell’uomo (e il diritto ad esso correlato) era sulle cose; nel patto ivi descritto, parole e azioni compivano un’importante funzione, che restava però, in fin dei conti, instabile ed insicura. Esse gettavano un ponte tra il volere e gli oggetti, sostenendo, in maniera drammaticamente debole, l’adempimento differito del loro trasferimento. Qui il quadro muta sensibilmente: il ‘dominio’ che la categoria di persona richiede di riconoscere agli individui è proprio su quei segni visibili della loro volontà, e con ciò l’argomentazione compie una mossa di formalizzazione risolutiva, che, con un certo azzardo, potremmo chiamare di concretizzazione dell’astratto. Lo spostamento compiuto da Hobbes è gravido di conseguenze, perché con esso egli attribuisce uno spessore definitivamente materiale alle facoltà individuali e, in questo modo conferisce all’uomo lo statuto nuovo (sempre e comunque nominalistico) di homo juridicus, caratterizzato originariamente, possiamo così dire, dal dominio di sé. 276 F. Izzo, Forme della modernità, Roma-Bari 2005, cap.2, par. 2. 197 Questo possesso, riconosciuto all’individuo immediatamente nella persona naturale, mediatamente in quella fittizia, è la forma nella quale il filosofo inglese stabilizza e cristallizza un nucleo soggettivo di inalienabilità che sarà il fondamento della teoria dell’autorizzazione. Proseguiamo seguendo il breve excursus filologico sulla parola persona: anche se Hobbes ricorda il significato greco di πρόσωπον come viso, egli riconduce interamente il termine, semplificando di fatto una complessa tradizione che intorno ad esso si era formata, al significato latino originale di maschera. È così che in questo luogo viene stabilito il nesso, per noi altamente stimolante, tra tribunale (l’ambito giuridico per eccellenza) e palcoscenico. […] and from the stage, hath been translated to any representer of speech and action, as well in tribunals, as theatres. So that the person, is the same that an actor is, both on the stage and in common conversation; and to personate, is to act, or represent himself, or another; and he that acteth another, is said to bear his person, or act in his name 277. La nozione di maschera sigilla l’identificazione tra persona e attore, ponendo a fondamento di entrambi il concetto di rappresentazione. 277 Lev., p.80. 198 Attraverso di essa prende corpo l’idea del binomio parole-azioni come qualcosa di assumibile, di indossabile, un’apparenza esterna mobile (giammai, secondo quanto abbiamo sostenuto sopra, abdicabile): proprio in forza di questo suo carattere sovrapponibile, artificiale rispetto alla natura immediatamente presentificantesi, la maschera può coincidere col viso, laddove la persona rappresenta se stessa; ma può soprattutto non coincidere con esso, nel qual caso l’attore recita in nome di un altro. È in questa breccia aperta con impetuoso sforzo teoretico che Hobbes può usare per la prima volta, ed in un senso politico-giuridico assolutamente innovatore, “il termine repraesentare come sinonimo di personam alicuius gerere”278: la persona artificiale non sta per un altro, ma agisce in nome di un altro, in un processo rappresentativo che lega insieme, nella forma del mandato oppure della licenza, due diversi soggetti: l’attore e l’autore. Of person artificial, some have their words and actions owned by those whom they represent. And then the person is the actor; and he that owneth his words and actions, is the Author: in which case the actor acteth by authority. For that which in speaking of goods and possessions, is called an owner, and in Latin dominus, in Greek κύριος; speaking of actions, is called author. And as the right of possession, is called dominion; so the right of doing any action, is called Authority and sometimes warrant. So that by authority, is always 278 B. Accarino, op. cit., p. 49. 199 understood a right of doing any act: and done by authority, done by commission, or license from him whose right it is 279. Abbiamo riportato per esteso il passo in cui viene definito l’importantissimo trinomio autore-attore-autorità: sono questi tre vocaboli che affrancano in maniera radicale il discorso artificialista, tramutando in veste definitivamente positiva i concetti inadeguati di possesso e dominio. Il senso dell’argomentazione viene specificato in maniera decostruttiva, il che implica, per l’analisi, non poche difficoltà. Rovesciamo quindi il passo partendo dall’autore e dal suo originario diritto. Nonostante l’analogia con il diritto di possesso di oggetti sia strutturale, il piano delineato richiede, progressivamente e con forza, una sua propria terminologia. Al concetto di dominio si sostituirà, quindi, la nozione di autorità: essa è il diritto dell’autore e riguarda in realtà una sorta di bene immateriale e inalienabile il cui contenuto è la facoltà che egli ha di agire da sé; l’auctoritas rimanda dunque al “diritto naturale che ognuno ha su se stesso”280. 279 280 Lev., p. 81. Y.C. Zarka, Hobbes et la pensée politique moderne, Paris 1995, cap. IX. 200 Con ciò Hobbes compie una “rivoluzione concettuale” dalle conseguenze epocali. Con questa definizione egli sovverte il senso tradizionale di autorità come dato obiettivo legato ad un’idea di verità sostanziale, che fungerebbe da principio gerarchico dell’ordine, e conia un’espressione tutta sbilanciata a favore degli autori-soggetti: in “conseguenza di questo vero e proprio rovesciamento, il fondamento ultimo della legittimazione del nuovo ordine moderno è un’auctoritas autorizzante individualistica”281. Questo soggettivo possesso astratto si ispessisce e acquisisce una valenza autonoma ed un peso effettuale all’interno della logica stringente del sistema concettuale che qui si delinea. Se è l’autorità che informa la rappresentazione della persona fittizia (e questo accadrà quando l’autore riconosca come sue le parole e le azioni messe in scena dal rappresentante), allora questa verrà considerata come l’attore che agisce con autorità. In questo peculiare e decisivo riconoscimento di titolarità, vi è un aspetto giustamente sottolineato, che demarca definitivamente la differenza tra autorizzazione e trasferimento: la prima è propriamente un tipo di trasmissione che non spossessa gli individui dal diritto sulle azioni che essi autorizzano, ma costituisce invece un diritto sul loro proprio diritto. 281 Cfr. G. Preterossi, Autorità., Bologna 2002, p. 56. 201 Ora, e solo ora, viene messo in evidenza il legame sussistente tra questa costellazione concettuale (persona, rappresentanza, autore, attore, autorità) e la trattazione precedente, più precisamente, quella concernente i contratti: From hence it followeth, that when the actor maketh a convenant by authority, he bindeth thereby the author, no less than if he had made it himself; and no less subjecteth him to all the consequences of the same. And therefore all that hath been said formerly, (chap. XIV) of the nature of convenants between man and man in their natural capacity, is true also when there are made by their actors, representers, or procurators, that have the authority from them, so far forth as is in their commission, but no further 282. Il passaggio vuole apparire, come al solito, pacifico, ma in realtà, alla luce di quanto abbiamo finora ammesso, comporta una radicale riconfigurazione dei piani. La condizione per cui il discorso sui patti stipulati da attori può reggere (ovvero avere una qualche incidenza sulla realtà, muovendo dal piano della finzione giuridica) è tutta in seno alla teoria dell’autorizzazione. Analizziamo i principali requisiti che essa contiene. Il punto di partenza è, come vediamo dal passo citato, il seguente: quando un attore pattuisce con autorità egli vincola con ciò, in tutto e per tutto, l’autore, e non se stesso. 282 Lev., p. 81. 202 L’unico modo però in cui si può appurare l’effettiva autorizzazione dell’attore da parte del titolare del diritto, è richiedere che tale autorità sia resa manifesta: così, chi abbia intenzione di stipulare un accordo con qualcuno attraverso la mediazione di un deputato è tenuto ad accertarsi dell’autorità283 di cui egli è investito. Emerge così una prima e imprescindibile condizione dell’autorizzazione: essa deve poter essere verificabile dai contraenti. Solo qualora essi richiedano la messa in mostra dell’autorità in nome della quale agisce il rappresentante, ovvero sollecitino l’evidenziazione del suo carattere di mediatore, potranno esigere l’adempimento dell’autore. Si tratta di un principio che sancisce l’esigenza di controassicurazione pubblica; laddove essa non venga inizialmente pretesa, avrà ruolo un’autorità fittizia che obbligherà invece soltanto l’attore, annullando in questa maniera la sua funzione di mediatore di una volontà diversa dalla propria284: nel momento in cui vi è un rappresentante che non recita che se medesimo, non c’è altro autore che l’attore stesso. L’eventualità della violazione di una legge di natura da parte di un commissario autorizzato, ci sembra indicativo in più sensi. La circostanza che viene descritta esprime in maniera netta alcuni importanti aspetti: innanzitutto emerge la concretezza della finzione messa in atto dal meccanismo 283 284 Id. Id. 203 dell’autorizzazione, nel quale il rappresentante è a tal punto svincolato dalle conseguenze del patto che di fatto egli è completamente irresponsabile delle sue azioni. Così, perfino nel caso estremo in cui il rappresentato ordini al rappresentante qualcosa che violi la legge naturale, l’intenzione di quest’ultimo rimane ingiudicabile, a condizione però che egli sia stato obbligato da un patto precedente a obbedire al suo comando. Il precetto di stare ai patti contenuto nella terza legge di natura sembra strutturare l’ordine dell’imputabilità, insinuandosi qui come prioritario rispetto alle altre leggi naturali. Questo è quanto Hobbes pone in questo caso sulle regole del rapporto di rappresentazione tra persone mediante finzione. Una finzione che abbiamo visto unificare, in virtù del nesso autorizzazione-mediazione-riconoscimento, individui diversi. Ora vengono affrontati tre casi in cui la personificazione riguarda “cose inanimate”, “esseri irrazionali” e “idoli”285, circostanze in cui la finzione in sé non basta a investire gli attori di autorità. Quale sarà l’ulteriore sostegno che essi richiedono? La risposta sarà univoca: lo Stato. Perché accade ciò? Bisognerà, in conclusione, verificarlo caso per caso. 285 Cfr. Lev.p. 82. 204 Il primo riferimento, quello alle “cose inanimate”, è abbastanza chiaro: non avendo alcuna facoltà autonoma, e tanto meno alcun diritto, non c’è niente in esse che sia suscettibile di essere chiamato autorità, quindi non vi è nulla che da quelle possa essere commissionato o delegato. Potranno compiere ciò, al massimo, i possessori o i governatori di tale cose, su questioni concernenti il loro uso e mantenimento, ma, come già sappiamo dall’analisi condotta nel secondo capitolo di questo lavoro, non vi è legittimità e stabilità in tali figure se non all’interno di uno Stato civile; solo in esso sarà possibile impersonare questi oggetti. Simile sarà, poco avanti, nel terzo caso, l’argomentazione sugli “idoli”: essi non sono che finzioni della mente e quindi , dice Hobbes concisamente, “un idolo non è nulla”. L’autorità in virtù della quale gli dei pagani sono stati impersonati non poteva che provenire dallo Stato, unica fonte materiale di riconoscimento giuridico in mancanza di un autore naturale. Il secondo caso è invece ben più interessante, e in qualche maniera illumina i due che gli sono affiancati: la questione è come rappresentare esseri privi di ragione, come i bambini e i folli. Ciò è possibile, dice Hobbes, attraverso tutori o curatori, i quali tuttavia possono rappresentare queste persone con autorità solo in forza dell’affidamento di un terzo (lo Stato), al quale sia stato anteriormente riconosciuto il dominio su di esse. 205 In questo modo il discorso sull’autorità si ricollega ad un giudizio di ragionevolezza sulle azioni, riposto normalmente nella facoltà calcolante degli individui, che però è assente e tace negli esseri animati di cui qui si parla. Estremamente significativo risulta il fatto che, in assenza di un sano principio di ragione individuale, vero sostegno di ogni singola autorità, non si possa ricorrere immediatamente ad un’altra ragione naturale che vi si sostituisca, ma si debba passare attraverso una terzietà artificialmente posta. La finzione della personificazione e la rappresentazione politica Il discorso appena svolto ci introduce infine all’analisi dei modi e delle caratteristiche di quel particolare tipo di rappresentazione giuridica che fonda lo stato civile, ovvero la rappresentazione politica286. Nel prosieguo del capitolo sedicesimo del Leviathan si trovano gli estremi di un singolare meccanismo di autorizzazione, che però si rivelerà poi essere a sua volta fondamento di ogni altro patto di rappresentanza, in una sintomatica circolarità che lega insieme diritto e potere. L’intento è creare qui quell’assetto pubblico che avevamo visto essere condizione del riconoscimento della persona giuridica: una questione che viene tenacemente inserita in un orizzonte che, paradossalmente, la richiede come presupposto. 286 Seguiamo qui la tesi sostenuta da Y. C. Zarka, op. cit., cap. IX. 206 La rappresentanza politica è così chiamata a istaurare un ordine che ricomponga su un piano più alto, del tutto artificiale e indeducibile, quell’unità tra volontà e azioni che lo stato di natura aveva dimostrato essere inattuabile in solitario, e che il concetto di persona aveva funzionalmente scisso in seno all’identità empirico-meccanica degli uomini: ad essa viene chiesta, quindi, la formazione di quel macro-soggetto287, ovvero di quella colossale e irrevocabile persona artificiale che è il Leviatano. In tutto questo, si tenga fermo quanto accennato nel paragrafo precedente: il carattere riconosciuto da Hobbes come interamente convenzionale del sistema di definizioni qui all’opera, impedisce che l’individuo venga assorbito definitivamente nella “superiore persona dello Stato”, ovvero che “l’uomo scompaia dietro la maschera della sua persona ‘giuridica’ ”. Ciò che viene riconosciuta così è “l’insuperabilità della tensione fra dato naturale e artificio, fra fatto e norma”288. Rimaniamo però nei limiti dell’argomentazione in questo luogo seguita da Hobbes. Nel margine di differenza e distanza stabilito tra persona giuridica ed individuo fisico può aver luogo una circostanza specifica (ed è proprio quella in cui si troverebbero gli uomini se intendessero farsi insieme artefici del commonwealth!) in cui gli autori del 287 288 Cfr. C. Galli, Spazi Politici, Bologna 2001, p. 44. A. Amendola, op. cit., p. 220. 207 mandato sono più individui: ma come può una moltitudine di uomini diventare una persona? A multitude of men, are made one person, when they are by one man, or one person, represented; so that it be done with the consent of everyone of that multitude in particular. For is the unity of the representer, not the unity of the represented, that maketh the person one. And it is the representer that beareth the person, and but one person: and unity, cannot otherwise be understood in multitude289. Se una molteplicità di uomini viene rappresentata da un’unica persona, allora essa diviene un’unità: ciò è possibile perché l’idea dell’unicità della persona è una nozione giuridica, sganciata dal piano naturale in cui vi è l’esistenza esclusiva delle singolarità materiali; essa fa parte, dunque, di un sistema categoriale secondo, che opera nella natura (in questo caso, specificamente in quella umana) perfezionandola mediante veri e propri strumenti concettuali che, come proprio delle finzioni linguistiche, raggruppano e unificano il molteplice disperso. In questo modo, dice testualmente l’inglese, qualora il rappresentante della moltitudine sia un uomo o una persona, essa si farà una. Ma ancora, come può ciò concretamente accadere? 289 Lev. p. 82. 208 La risposta di Hobbes è pregnante: ciò avviene mediante l’autorizzazione di quel rappresentante da parte di ogni singolo individuo; il fattore che determina l’unitarietà della persona fittizia è il consenso solidale e unidirezionale della moltitudine a favore di un medesimo attore. Eppure, detto sinteticamente, se la moltitudine (che in verità sembra essere qualcosa di più caotico e informe che la semplice molteplicità) è concorde, allora essa, dapprima, non era più tale. In una prospettiva genetica la circolarità del ragionamento è già qui evidente, perché ciò che viene a mancare è il primum della costruzione. La questione muta secondo un’angolatura artificialista, che vede postulati insieme, in forza di una strenua ricerca di ordine, pluralità e unità, in un complesso e delicato gioco di specchi, che mira a strutturare le condizioni di possibilità dello stato civile: un intento teorico che non potrà che assumere la forma di una efficace tautologia290. Seguiamo ancora, tenendo a mente questi aspetti, il discorso hobbesiano: And because the multitude naturally is not one, but many; they cannot be understood for one; but in any authors, of every thing their representative saith, or doth in their name; every man giving their common representer, authority from himself in particular; and owning all the actions the representer doth, in case they give him the authority without stint: otherwise, when they 290 Cfr. C.Galli, cit., p. 91. 209 limit him in what, and how far he shall represent them, none of them owneth more, tha they gave him commission to act291. L’artificio giuridico non può non fare i conti con la natura: per questo, esso dovrà considerare ogni singolo individualmente, identificando ognuno di essi come (ci sia concesso il gioco di parole) un autore autorizzante la propria particolare autorità. Il meccanismo compie un movimento retroattivo sul rappresentato che si fa manifesto con la descrizione dei tipi di autorizzazione, e mette in primo piano il ruolo del riconoscimento di titolarità: su questo elemento dinamico fa perno l’individuazione dello spazio e del tempo in cui l’autore è appunto tale. Nel mandato illimitato ciascun individuo riconoscerà come proprie tutte le azioni compiute dal rappresentante, e quindi egli non potrà che considerarsi rappresentato in futuro e per sempre dal rappresentante; nel mandato condizionato, invece, il vincolo della personificazione sussisterà nei limiti del contenuto stabilito e cesserà nel momento in cui esso venga messo in atto. L’attenzione cade ora, di nuovo, sull’unità del rappresentante: quando egli è un uomo la questione, possiamo così dire, non rappresenta un problema, perché l’unicità che egli è chiamato a rappresentare non differisce dalla sua identità psico-fisica e, quindi, l’ambito complessivo delle sue azioni rappresenterà unitariamente gli autori. È il caso della monarchia, dove il re stesso, da solo, incarna la persona fittizia. 291 Lev. p. 82. 210 L’eventualità in cui il rappresentante non sia un individuo, ma molti, complica la questione e richiede all’argomentazione di valersi di nuovi elementi. Indicare il modo in cui si produce l’unità di questo tipo di attore, occuperà Hobbes nei successivi tre paragrafi del testo. Il fattore che indefettibilmente sigilla l’unità rappresentativa di un insieme di uomini è la vox partis majoris. Seguendo un ragionamento di semplice annullamento matematico, possibile solo in un estimo di completa uguaglianza dei componenti, sarà la voce della maggioranza l’unica in grado di neutralizzare le voci dell’opposizione e farsi poi sentire, decretando l’azione da compiere, grazie al suo plus quantitativo, ossia alla sua “eccedenza incontrovertibile”292. Ora, perché una maggioranza vi sia, è necessario che il rappresentante sia composto da un numero dispari di uomini: nel caso contrario, l’attore risulterà frequentemente muto e inutile, visto che tra un numero pari di voci contrarie non ci sarà che un’annichilazione. Medesimi gli effetti se, all’interno del rappresentante, viene riconosciuto a qualcuno dei membri la prerogativa di veto (il diritto della “voce negativa”293): egli avrà il potere, orientato dalle sue opinioni e dai suoi interessi, di zittire le altre voci, rendendo anch’esso l’attore muto ed inabile. 292 293 F. Toennies, op. cit., cap. VIII, par. 4. Cfr. Lev. I, cap. XVI, p. 17. 211 In questo preciso frangente ci sembra in definitiva emergere con particolare potenza quel nesso parole-azioni, instancabilmente riportato nel testo, che lega indissolubilmente la capacità di agire alla capacità dichiarativa: ciò è massimamente evidente laddove la deliberazione viene messa in scena da una concreta pluralità di voci tenuta a decidere. Un aspetto non del tutto pacifico va tuttavia segnalato in margine: il discorso sul principio di maggioranza che viene qui sviluppato sembra riferirsi al caso di un mandato illimitato, perché ciò con cui il rappresentante è alle prese è la decisione riguardo ad un’azione, che, in caso di commissione condizionata, è riposta nella volontà dell’autore. Concludiamo in ogni caso abbracciando quanto segue: “l’obbiettivo della teoria della rappresentazione è questo: offrire i mezzi giuridici per pensare il passaggio da una molteplicità di individui singolari all’unità della persona giuridica”294. In questo senso essa realizza lo scopo, indicato in apertura al capitolo, di offrire un nuovo sistema di categorie che funga da ossatura nella costruzione del corpo dello Stato. Questo nuovo, complesso e potente impianto logico è la pietra miliare del processo di “giuridificazione del potere”295 all’opera nella teoria hobbesiana; ma proprio tale potere è richiesto in grado assoluto in seno ad un meccanismo di autorizzazione che necessita, per essere stabile ed efficace, di un’istanza suprema in grado di garantire le obbligazioni che da esso conseguono. Come abbiamo tentato di dimostrare, quest’ultima sarà in grado di realizzare tale obbiettivo soltanto seguendo il principio-cardine dell’equità. 294 295 Y. C. Zarka, cit. C. Galli, op. cit., p. 93. 212 BIBLIOGRAFIA Testi di Thomas Hobbes The English Works of Thomas Hobbes of Malmesbury, ed. W. Molesworth, 11 vols., London 1839-45. Opera philosophica, quae latine scripsit, omnia, 2 vols., Amsterdam 1668. 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