Siamo tutti pezzi «Unici» Nek canta l`amore alla vita

48 Spettacoli
L’ECO DI BERGAMO
MARTEDÌ 11 OTTOBRE 2016
Siamo tutti pezzi «Unici»
Nek canta l’amore alla vita
Il disco. Il 14 in uscita il nuovo album, il 16 sarà alle Due Torri di Stezzano
Alle spalle 25 anni di carriera. Ora punta sulla ricerca elettronica
UGO BACCI
Siamo tutti pezzi
«Unici», ecco il concetto e la parola slogan che anima l’ultimo
disco di Nek, in uscita il 14 ottobre. Due giorni dopo l’artista sarà a Stezzano a firmar copie
presso il centro commerciale
«Le Due Torri», il 16 alle 16, allo
store MediaWorld. Dopo il successo di «Prima di parlare», dopo 25 anni di carriera, 30 da musicista, ecco nuovi paesaggi
emotivi che Nek regala ai suoi
fan, non solo italiani.
Lo stile melodico e pop è
quello che conosciamo, stavolta
Filippo lavora con più passione
all’elettronica, conferendo al
suono un dato di modernità che
già si era annunciato nel disco
precedente. «L’album nasce dal
riflesso di “Prima di parlare”.
L’entusiasmo per quel cambio
di rotta mi ha spinto ad andare
avanti e diventare anche più
estremo. La ricerca elettronica
era in corso d’opera, ma qui viene ulteriormente incentivata. Il
disco di prima, che portava semplicemente il mio nome, era
molto essenziale: chitarra, basso, batteria. Dopo ho sentito il
desiderio di far qualcosa di nuovo. Non voglio che la gente si
abitui a pensare di me sempre la
stessa cosa. In ogni disco ci sono
le canzoni che cambiano, ma anche il resto è giusto che sia diverso. Il genere musicale grosso
modo è lo stesso, lo stile compositivo può cambiare di un po’,
ma è difficile che finisca rifondato e allora non restano che i
suoni a modificare l’estetica. A
me piace cambiare, anche sorprendere se mi riesce, ma i cambiamenti sono sempre dolci,
slittamenti progressivi». Anche
in questo nuovo album Nek suo-
Nek festeggia 25 anni di carriera internazionale ANSA/ MANDELLI
Il tour
A maggio all’Arena
Niente Sanremo
Sul versante live, dopo un giro di incontri con il pubblico nei negozi di
dischi, di un tour vero e proprio di
Nek si parlerà nella primavera del
2017, quando per il mese di maggio
la carrellata di concerti comincerà
dall’Arena di Verona (in data ancora da confermare).
Dopo la fortunata esperienza dello
scorso anno al Festival di Sanremo,
l’edizione 2017 non lo avrà invece
come protagonista. «Carlo Conti è
un amico e me lo ha chiesto - ha confessato Nek - ma quest’anno non ci
sarò come cantante in gara. Chissà,
però magari come autore...».
na un po’ tutto, si mette al servizio di tutti gli strumenti.
«Sono un autarchico. Mi piace suonarmi tutte le parti. È un
piacere che ho provato a partire
dall’album “Filippo Neviani”.
Ho avuto l’onore e il piacere di
lavorare con grandi musicisti,
però alla fine devi raccontare
l’emozione che provi a qualcuno
e quello deve provare a tradurla
secondo una sua tecnica, una
sua sensibilità. Un collaboratore deve decodificare la mia emozione per poi tentare di restituirla per quella che dovrebbe
essere. Ma non riuscirà mai a
farlo perché in ballo c’è anche la
sua di sensibilità. Dove è possibile tolgo il passaggio così l’emozione passa per quella che è.
Trasferisco su disco quel che
sento, senza nessun filtro ulteriore. Funziona». Tra i solchi si
parla anche d’amore.
Di un amore che non ha manuali d’istruzione, un amore
«differente» che non ha bisogno
di dire «per sempre», un amore
che può diventare «prigionia»,
l’amore che metaforicamente
s’incarna in una terra. «L’amore
non capito, l’amore percepito al
momento opportuno. In realtà
è la vita che mi affascina. Questo
è un disco d’amore, ma parla
della vita in tutte le sue sfaccettature. D’altra parte l’amore è un
sentimento comune che appartiene alla vita di tutti. Ci sono
tante forme d’amore, anche la
dedizione a qualcosa lo è.
L’amore anima le canzoni da
sempre. Pensiamo a Battisti: sul
rapporto uomo donna ci ha costruito un’intera carriera».
Nek è un cantante e un autore
di successo da tanto tempo. Le
sue canzoni hanno fatto epoca,
in Italia, all’estero, hanno conosciuto anche qualche contestazione. «Al bagaglio che mi porto
appresso ci penso veramente
poco. Anche alle vecchie canzoni, ai successi abitualmente non
ci faccio mente locale. Semmai
capita quando canto: sono in
concerto e arriva il momento di
rinverdire “In te”, “Lascia che io
sia”, “Laura non c’è”, e allora che
mi accorgo di avere alle spalle
un passato che ritorna nei cuori
di chi è davanti. Cantano tutti e
potresti stare zitto, sentire solo
loro. Non sono orgoglioso, un
po’ contento sì. Subito dopo
penso a far meglio, sono molto
critico con me stesso. Il successo me lo sono guadagnato così,
anche a dispetto di quei giornalisti che, con me, non sono mai
andati troppo per il sottile».
Addio a Andrzej Wajda, regista
della storia e della sua Polonia
Lutto
Con l’autobiografico e
doloroso «Katyn» rivelò
al mondo l’orrore delle fosse
della polizia segreta di Stalin
Novant’anni compiuti
il 6 marzo scorso e non sentirli.
Così era Andrzej Wajda, il maestro del cinema polacco scomparso l’altra notte mentre già lo
attendeva la Festa del Cinema di
Roma per celebrarlo con la sua
ultima fatica, «Afterimage», ennesima tappa della sua meditazione sulla storia e le storture del
suo paese.
Passionale, vitale, eccessivo,
rigoroso, diplomatico, didattico:
quanti aggettivi si potrebbero
spendere per colui che, insieme
a Aleksander Ford, Kawaleroski, Kieslowski, Zanussi, Polanski, Holland, incarna il cinema
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Il regista polacco Andrzej Wajda al Festival di Venezia nel 2013 ANSA
polacco del ventesimo secolo.
Figlio di un ufficiale di cavalleria
abbattuto dal fuoco nemico durante la seconda guerra mondiale, soldato lui stesso e per questo
poi decorato al valore, Wajda si
sentiva fin da ragazzo un artista
e per questo, a guerra finita, si
iscrisse al corso di pittura dell’Accademia di Belle Arti per poi
migrare alla Scuola di cinema di
Lodz, autentica fucina dei maggiori talenti polacchi. Qui lo prese a benvolere Aleksander Ford
che dopo un paio di cortometraggi all’inizio degli anni ’50 lo
aiutò a esordire nel 1954 con il
suo primo film, «Generazione»
dedicato alla delusione postbellica della sua generazione. Era
già un’opera controcorrente per
la censura della Polonia comunista, ma l’eleganza espressiva
del giovane autore, la sua abilità
nell’usare la metafora anziché la
denuncia diretta permisero al
film di approdare nelle sale.
Comincia da qui un percorso
artistico eccezionalmente prolifico: oltre 50 titoli per poco più di
60 anni di militanza cinematografica. Altrettanto lunga è stata
quella politica di Wajda, che negli anni ’50 e ’60 fu scomoda voce
critica all’interno del Partito
Comunista, negli anni ’70 tra i
sostenitori e ambasciatori internazionali di Solidarnosc, negli anni ’90 addirittura senatore
della nuova Polonia democratica. Ma è grazie ai film che il suo
Lo spettacolo «Favola d’amore - Metamorfosi del bello»
«Teatro stalla»
In scena la ricerca
della felicità
Verdello
Alla Cascina Germoglio lo
spettacolo «Favola d’amore»
con attori, pazienti con disturbi
psichiatrici ed educatori
Per fare teatro non servono le poltroncine rosse, bastano le emozioni autentiche di chi
recitando vuol comunicarti
qualcosa, che sia un attore professionista o una persona con disabilità.
In questo senso la rassegna di
spettacoli proposta dal «Teatro
Stalla» sabato scorso (in scena
«Favola d’amore - Metamorfosi
del bello» regia di Silvia Barbieri
e Max Brembilla) è un’esperienza teatrale all’ennesima potenza. Alla Cascina Germoglio di
Verdello, infatti, si recita in un
rettangolo di sabbia; non c’è un
vero e proprio sipario che si alza
su una compagnia amatoriale o
di professionisti: si punta a un
teatro della diversità, dove recitano insieme persone con disturbi mentali e del comportamento, educatori, qualche attore di mestiere e anche animali.
Come nasce Teatro Stalla?
La Cascina Germoglio di Verdello è una struttura della fondazione Emilia Bosis che accoglie e assiste persone con disturbi psichiatrici, e al suo interno
ospita, oltre alla comunità di cu-
nome resta inciso nella memoria del ’900: «Cenere e diamanti» appare come una folgorazione alla Mostra di Venezia del
1958 e grazie al premio della critica lo consacra nel mondo dopo
l’attenzione già conquistata dal
suo precedente «I dannati di
Varsavia». Del ’68 è il suo intenso e personalissimo omaggio al
ribellismo giovanile con «Tutto
in vendita» dedicato all’amico
Cybulski appena scomparso.
Tra il ’69 e il ’70 firma i suoi massimi capolavori: «Caccia alle
mosche», «Il bosco di betulle»,
«Paesaggio dopo la battaglia» in
cui traccia chiaro il confine della
sua ricerca tra malessere generazionale, metafora politica e affresco storico. Come Carlo Lizzani in Italia, Wajda ebbe sempre l’ossessione di usare la sua
opera come autentico «libro di
storia» aperto sulle pagine più
drammatiche e contraddittorie
della Polonia. E così, all’alba di
Solidarnosc osò sfidare la censura del Partito con il bellissimo
«L’uomo di marmo» del 1976 cui
seguì cinque anni dopo il più celebrativo «L’uomo di ferro» che
fece però sensazione anche per
la partecipazione di Lech Wale-
ra, anche un maneggio-fattoria
didattica (con la collaborazione
dell’ associazione «Aiuto a vivere» che in fattoria organizza
scuola di equitazione, progetti
di pet-therapy, di riabilitazione
e anche teatro equestre). Dall’incontro tra gli ospiti e gli animali nasce Teatro Stalla.
«Favola d’Amore - Metamorfosi del bello» è stato solo l’ultimo spettacolo in ordine di tempo realizzato al teatro Stalla:
prendendo spunto dal lavoro di
Herman Hesse, gli attori sul palco hanno messo in scena l’affannosa ricerca della felicità da parte di Pictor nel paradiso terrestre. «Cosa è bellezza? Cosa la felicità?» si chiede il protagonista.
La risposta sarà la perenne trasformazione, una metamorfosi
continua resa dagli attori, dalla
musica, dagli animali ma anche
e soprattutto dal colore: durante
lo spettacolo vengono dipinti
animali, vestiti e lo stesso fondale di scena. Una parte importante è riservata agli animali: dal rapace al pappagallo, dai cavalli al
cane, dal maialino al serpente,
inseriti nella scena non come
esibizioni da circo ma per quello
che sono e che riescono a esprimere ed evocare. La rassegna
prosegue il 22 ottobre con «Canto Animale» per la regia di Alessandro Garzella.
Gloria Vitali
sa nel ruolo di se stesso. Nonostante molte incursioni colte come l’infiammato «Danton» del
1981, Wajda restò sempre attaccato al suo Paese e alla sua cultura fino a trovare il coraggio per la
dolorosa e autobiografica denuncia di «Katyn» (2007). Con
chirurgico distacco e l’occhio lucido del cronista, il regista rivela
al mondo l’orrore delle fosse in
cui la polizia segreta di Stalin occultò i corpi di 22.000 ufficiali e
soldati sterminati nel 1940 per
fiaccare il patriottismo polacco
e favorire il ruolo dell’Armata
rossa nella guerra ai nazisti. Tra
quei morti c’era anche il padre
del regista e lo scandalo fu eclatante in tutto il mondo.
Così era Wajda: implacabile
nell’inseguire la verità, abile nell’evitare che la sua voce fosse tacitata dalle diverse censure del
suo tempo, appassionato fino alla faziosità, affamato di vita. Numerosi i riconoscimenti: Leone
d’oro alla carriera a Venezia
(1998), Oscar onorario (2000),
Orso d’oro alla carriera a Berlino
(2006), Palma d’oro per «L’uomo di ferro» nel 1981, quattro
nomination all’Oscar.
Giorgio Gosetti