RIVELATORI DELLA RADIAZIONE OTTICA E - dieet

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RIVELATORI DELLA RADIAZIONE OTTICA
E TECNICHE PER LA MISURA DEGLI IMPULSI
Classificazione dei rivelatori ottici
I rivelatori della radiazione ottica possono essere suddivisi in due gruppi: rivelatori a
generazione di cariche e rivelatori a generazione di fononi.
I primi si distinguono a loro volta in rivelatori ad effetto fotoelettrico, ossia quelli in
cui l'energia dei fotoni è tale da estrarre degli elettroni da un conduttore, e rivelatori a
generazione di cariche mobili, ossia quelli in cui l'energia dei fotoni è tale da
generare coppie elettrone-lacuna in un semiconduttore. Questi rivelatori, detti anche
rivelatori quantici, sono i più diffusi, in particolare nel campo del visibile e del vicino
infrarosso, per le caratteristiche di elevata sensibilità e prontezza di risposta.
I rivelatori a generazione di fononi trasformano l'energia della radiazione
elettromagnetica in energia termica ossia in un innalzamento della temperatura di un
opportuno materiale. Dalla misura della temperatura si risale all'intensità della
radiazione incidente. Questi rivelatori sono in genere poco sensibili e piuttosto lenti
ma caratterizzati da una risposta spettrale molto ampia ed uniforme. Inoltre, a
differenza degli altri, non hanno bisogno di essere portati a temperatura bassa quando
devono rivelare la radiazione nel campo del medio e lontano infrarosso. Si tenga
comunque presente che la velocità dell'innalzamento della temperatura dipende dalla
massa, quindi per realizzare rivelatori di questo tipo relativamente veloci si deve
cercare di ridurne, per quanto possibile, le dimensioni.
Rumore nei rivelatori ottici
Nella rivelazione della radiazione luminosa il rumore è una fluttuazione casuale della
misura che limita l'accuratezza con la quale si vogliono determinare le più piccole
intensità ottiche o le loro variazioni.
In un rivelatore si hanno due tipi di rumore: rumore termico (o Johnson) e rumore
shot.
Il rumore termico è quello generato per agitazione termica delle cariche e può essere
schematizzato circuitalmente da un generatore di corrente il cui valore quadratico
medio è dato da:
4KT∆ν
i J2 =
(1)
R
dove K è la costante di Boltzmann, T la temperatura in gradi Kelvin, ∆ν la larghezza
di banda rispetto al segnale del circuito di rivelazione ed R il valore della resistenza
equivalente parallelo dello stesso circuito di rivelazione.
Il rumore shot è dovuto al modo casuale con cui gli elettroni sono emessi o generati
ed è rappresentato circuitalmente da un generatore di corrente il cui valore quadratico
medio è dato da:
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is2 = 2ei ∆ν
(2)
dove e è la carica dell'elettrone, i è la corrente media del segnale e ∆ν la larghezza di
banda rispetto al segnale del circuito di rivelazione.
Questo tipo di rumore, a differenza del precedente, è presente anche quando la
temperatura si avvicina allo zero assoluto in quanto prodotto dalle cariche generate
dal segnale. Volere eliminare questo rumore significa eliminare la generazione delle
cariche, ossia il segnale. In relazione a ciò si ha il limite quantico della rivelazione
della radiazione: la sensibilità è condizionata dal principio di indeterminazione della
meccanica quantistica. Si può dimostrare, ma è anche abbastanza intuitivo, che la
potenza minima rilevabile è data da:
hν∆ν
Pmin =
(3)
η
dove ν è la frequenza della radiazione luminosa, ∆ν la larghezza di banda del circuito
di rivelazione ed η l'efficienza del fotorivelatore, ossia la frazione di cariche generate
per fotone incidente. Ovviamente η è sempre minore di 1. Nellla migliore delle
ipotesi è uguale ad 1.
Dall'esame della precedente si evidenzia che se η=1 è possibile rivelare l'energia (hν)
dei singoli fotoni la cui distanza nel tempo è superiore all'inverso di ∆ν. E' ovvio che
un sistema di rivelazione che ha una banda limitata a ∆ν non può risolvere eventi la
cui separazione nel tempo è minore di ∆ν-1 secondi.
Non è possibile rivelare una potenza inferiore a quella data dalla (3) per il semplice
motivo che un valore inferiore potrebbe essere dovuto soltanto all'arrivo sul
fotorivelatore di una frazione di fotone. Questo è in contraddizione con la meccanica
quantistica: non esistono frazioni di fotone!
Fotomoltiplicatore
Questo dispositivo è in grado di rilevare la radiazione luminosa nel campo compreso
fra il vicino infrarosso e l'ultravioletto (e oltre) ed appartiene alla categoria dei
rivelatori quantici.
Alla base del funzionamento del fotomoltiplicatore è l'effetto fotoelettrico: se un
fotone possiede un'energia sufficiente, può far si che un elettrone venga estratto da un
conduttore che prende il nome di fotocatodo. Il fotocatodo è la parte più critica del
fotomoltiplicatore perché converte un flusso di fotoni in elettroni (e quindi in
corrente) e determina la caratteristica di risposta spettrale del dispositivo. Il
fotocatodo è costituito da materiali a basso lavoro di estrazione; più basso è questo
lavoro e più grande è la lunghezza d'onda rilevabile. I materiali che si adoperano per
il fotocatodo sono composti dell'argento, cesio, antimonio il cui lavoro di estrazione è
di circa 1,5 eV contro i 4,5 eV tipico dei metalli. Si riescono a rivelare lunghezze
d'onda sino a circa 1 µm. Si definisce efficienza quantica del fotocatodo la frazione di
elettroni estratti per fotone incidente.
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Nella figura 1 sono riportate le curve di risposta spettrale di vari fotocatodi. Nello
stesso diagramma sono riportate le curve ad efficienza quantica (η) costante. Si
osservi che l'efficienza quantica, e quindi anche la risposta, dipende fortemente dalla
lunghezza d'onda.
Fig. 1
Gli elettroni, emessi dal fotocatodo in ambiente vuoto, sono accelerati da un
opportuno campo, verso un elettrodo a potenziale più alto rispetto al catodo e
chiamato (primo) dinodo. Gli elettroni arrivando su questo elettrodo con un'energia
cinetica di circa 100eV provocano un'emissione secondaria di coefficiente superiore
ad 1. Tipicamente il coefficiente di emissione secondaria δ è dell'ordine di 5, ossia
per ogni elettrone incidente vengono emessi 5 elettroni. Gli elettroni emessi da questo
primo dinodo sono accelerati verso un secondo dinodo su cui arrivano sempre con
un'energia di circa 100 eV grazie alla differenza di potenziale acceleratrice. E così via
sino all'ultimo dinodo che prende il nome di anodo. Si ha quindi un processo di
moltiplicazione di corrente.
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Se δ è il coefficiente di emissione secondaria ed N il numero dei dinodi, il fattore di
moltiplicazione della corrente fra catodo ed anodo è:
G = δN
(4)
6
Ad esempio, se δ=5 ed N=9, G ≈ 2·10 .
La figura 2 schematizza un tubo fotomoltiplicatore e la figura 3 il modo di alimentare
tramite un unico alimentatore ed un partitore resistivo tutti gli elettrodi del
fotomoltiplicatore. Il partitore deve essere dimensionato in modo tale che i dinodi più
vicini all'anodo devono, in presenza di segnale sul fotocatodo, essere alimentati da
una corrente abbastanza elevata. Nel caso in cui si prevede che i segnali siano di tipo
impulsivo si collegano in parallelo ai resistori dei condensatori per sopperire agli
impulsi di corrente nei transitori. L'alimentatore deve fornire una differenza di
potenziale dell'ordine del kV.
Fig. 2
Fig. 3
La forma curva dei dinodi riduce la possibilità che gli elettroni compiano percorsi
differenti. La differenza di percorso degli elettroni allunga il tempo di salita nella
risposta del fotomoltiplicatore ad un segnale a gradino.
Nella risposta del fotomoltiplicatore ad un gradino si possono distinguere due tempi:
tempo di ritardo e tempo di salita. Il tempo di ritardo è dovuto al tempo impiegato
dagli elettroni a compiere il percorso ed in genere ha poca importanza perché non
pregiudica l'informazione. Il tempo di salita dipende, come già detto, dai differenti
percorsi degli elettroni e determina una distorsione del segnale. In un buon
fotomoltiplicatore il tempo di salita è dell'ordine del nanosecondo.
Nei fotomoltiplicatori la rivelazione delle frequenze alte è limitata dalla trasparenza
della finestra del fotocatodo.
Il fotomoltiplicatore nel suo campo di risposta spettrale è uno strumento
estremamente sensibile grazie all'amplificazione interna di corrente ed al basso
rumore. Utilizzando particolari accorgimenti, come lunghi tempi di integrazione e
raffreddamento del fotocatodo è possibile rilevare con il fotomoltiplicatore livelli di
potenza dell'ordine di 10-18 W. Si tenga presente che il rumore prodotto nel fotocatodo
è amplificato in pieno dall'insieme dei dinodi mentre il rumore introdotto dai vari
dinodi è amplificato via via sempre meno a secondo della posizione del dinodo.
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La potenza minima rilevabile, dovuto al rumore shot di generazione della cariche sul
fotocatodo, è:
hν∆ν
Pmin =
(5)
η
E' possibile realizzare una distribuzione continua di dinodi ricoprendo la superficie
interna di un tubo di materiale isolante, ad esempio vetro, con uno strato resistivo. I
tubi possono essere molto sottili, sistemati uno accanto l'altro ed alimentati in
parallelo. In questo modo si è realizzata una struttura "Micro Channel Plate - MCP",
rappresentata in figura 4.
Fig. 4
Strutture di questo tipo trovano applicazione nella rivelazione di immagini di
bassissima intensità e spesso sono utilizzate in campo astronomico.
Rivelatori fotoconduttivi
Un cristallo semiconduttore adatto ad assorbire la radiazione da rivelare è inserito in
un circuito come quello riportato in figura 5.
Fig. 5
La resistenza interna del semiconduttore diminuisce con l'assorbimento della
radiazione e conseguentemente aumenta la tensione VL sulla resistenza di carico RL.
Nell'ipotesi in cui la variazione del valore della resistenza interna del semiconduttore
è piccola rispetto al suo stesso valore (∆Ri/Ri <<1) la variazione della tensione VL è
proporzionale all'intensità luminosa.
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L'abbassamento della resistività è dovuto al fatto che i fotoni, se dotati di energia
sufficiente, generano all'interno del semiconduttore coppie elettrone-lacuna. L'energia
dei fotoni deve essere superiore all'energia di gap del semiconduttore. Questo
determina un valore minimo per la frequenza rilevabile e massimo per la lunghezza
d'onda:
E
hc
ν min = G ;
λ max =
h
EG
Drogando opportunamente il semiconduttore si può fare in modo da ridurre l'energia
di gap e quindi ridurre la frequenza minima (o aumentare la lunghezza d'onda
massima) rilevabile. In questo caso infatti il livello di Fermi sia avvicina alla banda di
conduzione, se il drogaggio e di tipo n, o alla banda di valenza, se il drogaggio è di
tipo p. Con questa tecnica si possono rivelare segnali la cui lunghezza d'onda è
dell'ordine dei 50µm, con l'accortezza di mantenere la temperatura del dispositivo
bassa in modo tale che KT<<∆E. In questo caso si è sicuri che non si creano coppie
elettrone-lacuna per effetto della temperatura. Quindi la temperatura deve essere tanto
più bassa quanto più grande è la lunghezza d'onda da rivelare. In figura 6 sono
riportate le curve di risposta di alcuni fotoconduttori commerciali (Santa Barbara
Research Corp.) e le relative temperature a cui devono lavorare.
Fig. 6
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Il vantaggio dei rivelatori fotoconduttivi rispetto ai fotomoltiplicatori è la possibilità
di rivelare lunghezze d'onda molto grandi, anche se in questo caso è necessario
raffreddare il dispositivo. Nei rivelatori fotoconduttivi non è presente l'effetto
moltiplicativo tipico dei fotomoltiplicatori.
Anche nei semiconduttori sono presenti sia il rumore termico che il rumore shot.
Quest'ultimo è doppio perché si deve considerare l'aleatorietà sia del processo di
generazione delle cariche sia quello di ricombinazione. Quindi la potenza minima
rilevabile è data da:
2hν∆ν
Pmin =
(6)
η
ossia doppia di quella (5) rilevabile con il fotomoltiplicatore. C'è però da dire che
l'efficienza quantica dei fotoconduttori è in genere superiore (si può avvicinare ad 1)
per cui i due effetti si compensano.
Rivelatori a giunzione
Questi rivelatori sono basati sulla generazione di coppie elettrone-lacuna nella
giunzione p-n fra due semiconduttori.
Fig. 7
Fig. 8
Fig. 9
In figura 7 è schematizzato il funzionamento privo di polarizzazione ed in figura 8
quello con polarizzazione inversa. In entrambi i casi i fotoni generano
proporzionalmente una corrente, il cui andamento, per tre differenti valori di
illuminazione, è riportato in figura 9.
La teoria del comportamento delle giunzioni p-n nei semiconduttori anche in
presenza di fotoni è stata studiata estesamente in altro corso. In figura 10 sono
riportati i diagrammi che riassumono il funzionamento in assenza di polarizzazione
ed in presenza di polarizzazione inversa della giunzione. Caratteristica di questi
rivelatori è che è generata una corrente elettronica (se il circuito è chiuso) anche in
assenza di polarizzazione. E' lo stesso principio di funzionamento delle celle solari. Il
campo elettrico generato dalle cariche fisse porta via le cariche mobili verso le due
differenti zone; in questo modo sui morsetti si può misurare una differenza di
potenziale e, se il circuito si chiude su una resistenza, circola una corrente. Spesso si
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preferisce polarizzare inversamente la giunzione per allargare la zona di svuotamento
e quindi aumentare la probabilità di catturare fotoni.
Fig. 10
La figura 11 evidenzia lo spostamento delle cariche generate dai fotoni nella zona di
giunzione in presenza di polarizzazione inversa. Per aumentare ulteriormente la zona
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di svuotamento si utilizzano spesso strutture (PIN) con un semiconduttore intrinseco
fra i due semiconduttori drogati.
Affinché la radiazione luminosa raggiunga la zona di giunzione è necessario che
almeno uno dei due semiconduttori sia sottile e quindi semitrasparente, così come
l'elettrodo.
Fig. 11
Nella figura 12 sono riportate le tipiche strutture dei fotodiodi normali e di quelli
PIN.
Fig. 12
I fotodiodi sono in grado di rivelare fotoni la cui energia è superiore alla energia di
gap del semiconduttore, quindi, in relazione al semiconduttore utilizzato, vanno bene
dall'ultravioletto al vicino infrarosso; ossia approssimativamente lo stesso campo
spettrale dei fotomoltiplicatori, ma senza l'effetto di moltiplicazione. Nei fotodiodi, a
differenza dei fotomoltiplicatori, si può eliminare la finestra di protezione per
eliminare l'assorbimento ma si deve tenere presente che via via che la frequenza della
radiazione aumenta questa è assorbita sulla superficie più esterna del semiconduttore
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e le coppie elettrone-lacuna non riescono a raggiungere la zona di giunzione (si tenga
presente la "lunghezza di diffusione" delle cariche in un semiconduttore). Fotodiodi
più adatti a rivelare l'ultravioletto devono avere lo strato semiconduttore esposto alla
luce molto sottile e la finestra, se presente, deve essere trasparente a quelle lunghezze
d'onda.
La velocità di risposta dei fotodiodi è simile a quella dei fotomoltiplicatori (≈ 1ns). I
fotodiodi presentano il vantaggio di non dovere essere alimentati o di essere
alimentati con tensioni molto basse.
Fotodiodi a valanga
E' possibile ottenere un effetto moltiplicativo simile a quello dei fotomoltiplicatori
polarizzando fortemente in modo inverso una giunzione p-n. Quanto si verifica nella
giunzione è schematizzato in figura 12.
Fig. 12
Non è però possibile raggiungere fattori moltiplicativi elevati (non più di 100) perché
questo implicherebbe elevate correnti in zone localizzate della giunzione che
porterebbero alla distruzione del dispositivo. I fotodiodi a valanga possono essere
molto veloci (tempi di risposta del centinaio di picosecondi).
Rivelatori ad effetto "photon drag"
Questo rivelatori utilizzano un cristallo semiconduttore, ad esempio germanio,
drogato in modo tale che siano presenti degli elettroni liberi, ossia drogato di tipo n.
Al singolo fotone è associata non soltanto un'energia ma anche una quantità di moto:
hν
p=
c
Questa quantità di moto può essere ceduta dai fotoni agli elettroni liberi presenti nel
semiconduttore. Per effetto del trasferimento della quantità di moto gli elettroni si
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spostano verso la faccia del cristallo opposta a quella su cui incide la radiazione
luminosa. Sistemando due elettrodi, anulari o semitrasparenti (deve passare la
radiazione luminosa), e chiudendo il circuito su un resistore circola una corrente
proporzionale al numero dei fotoni, quindi all'intensità luminosa, che raggiunge il
cristallo.
La caratteristica di questi rivelatori è che, non dovendo superare una barriera di
potenziale (gli elettroni sono già liberi), sono in grado di rivelare lunghezze d'onda
anche molto grandi. Inoltre questi rivelatori sono veloci e possono funzionare a
temperatura ambiente, anche in presenza di lunghezze d'onda grandi. Lo svantaggio è
è che sono poco sensibili per cui possono essere utilizzati soltanto nell'analisi degli
impulsi generati dai laser.
Rivelatori bolometrici
Questi, come i successivi, appartengono alla categoria dei rivelatori a generazione di
fononi. Nei rivelatori bolometrici la radiazione luminosa colpisce una superficie
otticamente assorbente che si trova a stretto contatto di un resistore ad elevato
coefficiente di temperatura. Dalla variazione del valore della resistenza si risale
all'intensità della radiazione incidente.
Rivelatori a termopila
Nei rivelatori a termopila la radiazione luminosa colpisce una superficie otticamente
assorbente che si trova a stretto contatto di una termocoppia. La differenza di
potenziale generata dalla termocoppia è legata all'innalzamento della temperatura e
quindi all'intensità della radiazione incidente. La termocoppia può essere realizzata in
film sottile quindi avere una massa piuttosto ridotta così come il tempo di risposta. Le
termopile sono frequentemente utilizzate in ottica per determinare l'intensità di fasci
luminosi, anche di bassa intensità.
Il funzionamento della termopila è basato sull'effetto Seebeck: in un conduttore i cui
estremi si trovano a temperature differenti si ha una migrazione di elettroni
dall'estremità più calda a quella più fredda e quindi si può misurare, a circuito aperto,
una differenza di potenziale. Il coefficiente di Seebeck è definito come rapporto fra
differenza di potenziale e differenza di temperatura. Questo coefficiente è non
lineare, dipende dal materiale e dalla sua temperatura assoluta ed è dell'ordine di
alcuni µV/°K. Riscaldando la zona di contatto fra due conduttori diversi, si generano
in questi conduttori due forze elettromotrici di segno opposto ma di modulo
differente, a causa dei differenti coefficienti di Seebeck.
Nell'ipotesi in cui i coefficienti di Seebeck (Sb e Sa) dei due conduttori si possano
ritenere costanti nell'intervallo di temperatura considerato, la differenza di
temperatura fra le estremità calde e quelle fredde è data da:
∆T = ∆V/(Sb-Sa)
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dove ∆V è la differenza di potenziale fra le estremità fredde dei due conduttori.
Rivelatori piroelettrici
Esistono cristalli, come il tantalato di litio (LiTaO3), la cui polarizzazione varia con la
temperatura. Metallizzando due facce opposte di questi cristalli si ottiene un
condensatore la cui capacità varia al variare della temperatura. Infatti durante la
variazione della temperatura, per effetto della radiazione incidente sul cristallo, sono
indotte delle cariche sulle facce del condensatore con un conseguente transitorio della
corrente. Quindi i rivelatori piroelettrici registrano soltanto le variazioni di
temperatura, ossia i transitori, che possono essere relativamente veloci se il
dispositivo è realizzato con strati sottili e quindi di massa ridotta.
Tecniche per la misura degli impulsi
La misura diretta della forma e della durata degli impulsi corti è limitata (~100ps)
dalla larghezza di banda (alcuni GHz) dei fotorivelatori e degli oscilloscopi. Per
sopperire a questo inconveniente sono stati messi a punto strumenti e tecniche
opportune.
a) GENERAZIONE DI SECONDA ARMONICA (Second Harmonic Generation)
L'impulso luminoso è diviso in due da un divisore di fascio. I due fasci, dopo aver
compiuto percorsi differenti, si ricombinano in un cristallo non lineare generando, se
parzialmente o totalmente sovrapposti, un impulso a frequenza doppia (generazione
di seconda armonica). E' necessario avere a disposizione un treno continuo di impulsi
uguali perché per ogni differenza di percorso, dovuto al fatto che uno specchio può
essere traslato finemente, si deve determinare l'intensità di seconda armonica. Dalla
larghezza della curva di intensità di seconda armonica in funzione della differenza di
percorsi è possibile determinare, nota la velocità della luce, la durata degli impulsi.
Il prodotto di due impulsi identici distanziati nel tempo di τ (autocorrelazione) è
sempre simmetrico rispetto a τ=0 quindi con questo metodo non è possibile
determinare l'eventuale asimmetria degli impulsi. Affinché l'efficienza di generazione
di seconda armonica sia elevata è necessario che si abbia l'eguaglianza della velocità
di propagazione della fondamentale e della seconda armonica ("phase matching").
Questo può essere ottenuto, previa opportuna orientazione di un cristallo uniassico
non lineare, sovrapponendo i due fasci di differenti polarizzazioni, come indicato in
figura 12.
Dall'osservazione di questa figura è evidente la tecnica impiegata per ottenere due
fasci sovrapposti con polarizzazione incrociata. Nella stessa figura si può notare la
presenza di un filtro di blocco della fondamentale perché il fotorivelatore deve
registrare esclusivamente l'intensità di seconda armonica. Il fotorivelatore, indicando
la potenza media degli impulsi, deve essere lento, ossia comportarsi da integratore.
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Fig. 12
b) FLUORESCENZA A DUE FOTONI (Two Photon Fluorescence)
L'impulso luminoso è diviso in due da un opportuno divisore di fascio, così come nel
metodo che utilizza la generazione di seconda armonica. I due impulsi viaggiano in
direzioni opposte all'interno di una soluzione colorante in grado di assorbire, in certe
condizioni, la radiazione luminosa e successivamente riemettere energia per
fluorescenza. Il salto energetico del colorante è tale da non potere essere superato
dall'energia associata ai fotoni, a meno che due di questi interagiscano nello stesso
istante. Questo si verifica quando i due impulsi, che procedono in verso opposto, si
sovrappongono (Figura 13).
Fig. 13
In altri termini il colorante assorbe solo se l'intensità della radiazione è sufficiente.
L'estensione della zona di fluorescenza dipende dalla durata dell'impulso: ad un
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impulso largo corrisponde una zona estesa e viceversa. Dalla misura dell'estensione
della zona fluorescente e nota la velocità della luce nel mezzo si risale alla durata
dell'impulso. Anche questo metodo, essendo basato sull'autocorrelazione, non
consente di individuare l'eventuale asimmetria temporale dell'impulso. Il vantaggio di
questo metodo è che è possibile conoscere, almeno in linea di principio, la durata del
singolo impulso senza dovere avere a disposizione un treno di impulsi.
c) STREAK CAMERA (Figura 14)
L'impulso luminoso è trasformato da un fotocatodo, simile a quello presente nei tubi
fotomoltiplicatori, in una certa quantità di elettroni emessi nel tempo in proporzione
all'intensità istantanea dell'impulso. Questi elettroni, accelerati da una griglia,
raggiungono in tempi differenti uno schermo fluorescente. Una coppia di placche
deflettrici, simili a quelle presenti nei tubi degli oscilloscopi a raggi catodici,
alimentate da una rampa di tensione che inizia un istante prima che arrivi l'inizio
dell'impulso, devia gli elettroni in modo tale da raggiungere lo schermo fluorescente
in zone differenti dipendentemente dall'istante in cui l'elettrone è generato. Quindi
l'evoluzione temporale dell'impulso è trasformata in un segmento più o meno esteso
sullo schermo e la cui intensità, punto per punto dipende dal numero degli elettroni
incidenti ossia dall'altezza dell'impulso in quell'istante.
Fig. 14
Al fine di aumentare l'intensità della traccia luminosa sullo schermo fluorescente,
immediatamente prima di questo è inserito un sistema amplificatore di elettroni a
microcanale (MCP) simile a quello descritto nella trattazione dei fotomoltiplicatori.
Si fa in modo che l'impulso luminoso colpisca il fotocatodo secondo un sottile
segmento parallelo al piano delle placca deflettrici. Questo può essere fatto,
dipendentemente dall'intensità dell'impulso, utilizzando una lente cilindrica o una
sottile fenditura posta davanti al fotocatodo.
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La variazione della differenza di potenziale fra le placche deflettrici deve essere
estremamente rapida, se si vogliono analizzare impulsi molto stretti, e l'inizio della
rampa deve essere ben sincronizzato con l'impulso.
Questo metodo, a differenza dei precedenti, consente di individuale le possibili
asimmetrie dell'impulso.
Bibliografia
- A. Yariv, Introduction to Optical Electronics - HRW
- D. Meschede, Optics, Light and Lasers - Wiley-VCH
- N. Menn, Practical Optics - Elsevier
- E.P. Ippen, C.V. Shank, contribution to Ultrashort Light Pulses (S.L.Shepiro, ed.),
Springer-Verlag
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