VII Giornata di Studio dello STI Cristo prototipo dell’uomo: i diversi modelli venerdì 20 marzo 2015 La lezione di Gaudium et Spes 22 Questo intervento vuole mostrare l’acquisizione centrale del Vaticano II riguardo al rapporto tra Cristo e l’uomo: anzitutto si mostrerà quale fosse il precedente approccio neo-scolastico sul rapporto tra umano e cristiano (1.), poi si sottolineeranno alcuni elementi emersi durante il dibattito conciliare (2.) ed infine si commenterà brevemente il testo definitivo di GS 22 (3.). 1. Un soprannaturale estrinseco, con Cristo ai margini Per comprendere l’impostazione prevalente durante la Neoscolastica riguardo al rapporto tra natura e grazia ci si può rifare utilmente ad un articolo-manifesto degli anni ’50 di mons. Pietro Parente (1891-1986), allora docente alla Lateranense e consultore del Sant’Uffizio, sul tema del soprannaturale. Anzitutto vanno notate le ricorrenze terminologiche all’interno dell’articolo: il blocco di termini “natura/naturale” è presente 132 volte, “soprannaturale” 97, “Dio” 66, “Grazia” 31, “esigenza/ non esigenza” 26, “trascendenza” 15, “gratuità” 12, “Spirito Santo” 3 (2 per parlare dei suoi doni e 1 citando Gv), “Gesù Cristo” 2 (1 citando Gv e 1 per trattare dei miracoli come segno di autenticazione della Grazia), “Padre” 1 (citando Gv). Emergono già alcuni elementi significativi: si intende trattare il rapporto tra umano e cristiano ponendo da una parte un uomo inteso come “natura” e dall’altra un Dio genericamente monoteistico – infatti le Persone della Trinità sono quasi assenti –, mentre la Grazia è posta in tensione rispetto alla natura umana, come realtà in sé non esigibile e trascendente, appunto come realtà “soprannaturale”. Venendo all’esposizione, si ha ben presto una chiara definizione dei rapporti tra naturale e soprannaturale (corsivi miei). Naturale e soprannaturale si dicono per rispetto alla natura considerata nel suo essere e nella sua potenzialità attiva o passiva. Naturali sono gli elementi costitutivi essenziali di un ente, naturale anche la sua virtù operativa in ordine ad un effetto ad essa proporzionato, naturale finalmente la sua capacità a ricevere l’azione di una causa anch’essa naturale. Per conseguenza il soprannaturale trascende la natura nella sua costituzione essenziale, nella sua potenza e nella sua capacità propria: in una parola il soprannaturale supera le forze della natura, è al di sopra del suo raggio d’azione, legato alle cause seconde. Ma questa nozione dev’essere integrata dall’altra che è l’assoluta gratuità, per cui il soprannaturale, come intervento o dono divino, esclude il diritto o esigenza da parte della creatura e il debito da parte di Dio (974). Si noti come il soprannaturale sia definito sulla base del naturale, cioè di un sistema di natura di tipo metafisico che si colloca come necessario preliminare alla trattazione della grazia, poiché da diverso tempo la teologia cattolica ritiene necessario che la dogmatica sia preceduta da una trattazione metafisica descritta sempre più come un sistema autonomo e completo. In questo modo la natura ha le proprie esigenze di intelligibilità e il soprannaturale, per potersi creare un proprio spazio, deve presentarsi come ciò che è al di fuori della natura e delle sue esigenze, in modo che questa non possa accampare diritti di esso. Prosegue quindi Parente: Finalmente il soprannaturale essenziale […] è un’entità realizzata da Dio nella creatura razionale e che supera tutta la natura creata nella sua costituzione, nelle sue potenzialità e nelle sue esigenze; tale è la Grazia comunicata all’anima come una misteriosa partecipazione della stessa natura divina, sulla linea di una causalità quasi formale (974). L’approccio incentrato sulla nozione di natura finisce ora per proiettare le sue categorie pure sul soprannaturale, annacquando lo specifico della teologia. Infatti qui la persona umana è una “creatura razionale”, Dio è una “natura divina” e la grazia “un’entità”, definizioni che hanno perso tutta la ricchezza del linguaggio biblico e patristico, dove Dio Padre inviava il suo Figlio per amore dell’uomo, fatto a Sua immagine e somiglianza, e gli faceva dono del Suo Spirito per ammetterlo alla comunione con Sé, mostrando una grazia come relazione interpersonale. L’esito ultimo di quest’approccio è poi l’estrinsecismo del soprannaturale rispetto alla natura. In conclusione: a) ordine naturale consiste in una natura o in tutta la natura creata, considerata nella sua essenziale costituzione e nella sua potenzialità attiva e passiva in rapporto al proprio fine, proporzionato alle sue forze e alle sue native esigenze; b) ordine soprannaturale consiste nell’azione divina, con cui Dio eleva e dispone una natura razionale al conseguimento di un fine trascendente tutta la natura creata, per mezzo di un’attività vitale deiforme, che culmina nella visione beatifica, termine supremo dell’economia della Grazia. Attesa l’assoluta gratuità dell’ente soprannaturale, è chiaro che non c’è nesso intrinseco tra l’uno e l’altro ordine; nella sua natura c’è soltanto una capacità passiva a ricevere l’azione divina, che realizza in essa liberamente il soprannaturale (974). Oggi di fatto l’uomo non ha altro fine segnato da Dio che quello soprannaturale (visione beatifica), ma di diritto Dio poteva creare l’uomo senza elevarlo a quel fine; è legittima dunque l’ipotesi di una natura pura che non ripugna alla potenza assoluta né alla potenza ordinata di dio. Tale ipotesi è la condizione della assoluta gratuità dell’ordine soprannaturale (977). Si noti come la nozione di natura sia un sistema in sé completo ed autosufficiente, tanto da avere anche un proprio fine – cioè un proprio scopo e senso ultimo – proporzionato alle proprie forze, senza alcun anelito intrinseco ad altro al di sopra di sé. Di conseguenza, affinché la natura umana abbia anche il fine soprannaturale, è necessario un intervento di Dio che sia logicamente distinto rispetto all’atto creativo, attraverso cui “elevi” l’uomo a questo fine superiore. E se pure Parente riconosce che il concreto essere umano che si ha davanti è chiamato alla visione di Dio, immediatamente precisa che è solamente una questione di fatto, perché “di diritto” Dio poteva anche creare un uomo che non fosse fatto per incontrarlo. Da qui l’idea di una “natura pura” – cioè di un uomo non fatto ad immagine di Dio – qui pudicamente definita come “ipotesi”, ma nei fatti qualcosa di più, se è “la condizione della assoluta gratuità della grazia”, cioè l’unico modo per evitare che la grazia diventi esigibile dalla natura secondo un sistema di ragione. Ecco allora l’estrinsecismo: non si capisce perché la natura umana debba avere bisogno della grazia, se “non c’è nesso intrinseco tra l’uno e l’altro ordine”, mentre l’unico flebile legame tra loro è “una capacità (o potenza obbedienziale) passiva”, che non è un anelito positivo, ma solo una non contraddizione logica tra la natura umana e la volontà di Dio di conferirle la grazia. Ed è per questo che Parente, alla fine, si sforza di correre un po’ ai ripari. É lecito dunque e giusto vedere nella potenza obbedienziale più che una morta passività o una mera non repugnanza. E finalmente, ad evitare un assurdo estrinsecismo nell’economia della Grazia (così profondamente e umanamente vitale), il soprannaturale deve essere presentato come complemento e perfezionamento della natura, cui Dio stesso non è estraneo; un complemento di somma convenienza ontologica e psicologica, che risponde pienamente alle aspirazioni e alle indigenze della natura, fiaccata dalla colpa di origine… occorre dunque concepire la potenza obbedienziale come un’apertura dello spirito che, specialmente in seguito al peccato originale, è agitato dalla nostalgia verso il mondo superiore perduto (977.979). Si noti come le dichiarazioni iniziali, che cercano di recuperare un legame vitale tra natura e grazia siano poco più che velleitarie, dopo che si è impostato questo rapporto nel modo che si è visto, tant’è che al massimo si arriva ad affermare tra loro una “somma convenienza”, che di fatto nel linguaggio scolastico esclude di per sé un nesso ontologico e necessario. Così alla fine Parente, per ridurre il rischio dell’estrinsecismo, decide di legare la necessità della grazia all’evento del peccato: infatti, se la natura di per sé è del tutto autosufficiente, tuttavia con il peccato ha perso tale autosufficienza e quindi ora ha bisogno della grazia. Ma ciò ha pesanti ripercussioni a livello sistematico, perché una natura legata alla grazia solo a motivo del peccato rende questo il vero protagonista della storia della salvezza e Cristo finisce per essere, al massimo, il Redentore dal peccato, ma non certo Colui che compie l’uomo nelle sue aspirazioni più profonde. 2. Verso la riscoperta della centralità di Cristo Le problematiche del rapporto tra naturale e soprannaturale emersero al Vaticano II solo in un secondo momento, quando si sentì il bisogno di dar vita allo “Schema XIII” (futura Gaudium et Spes), che tentasse di unificare una serie di questioni pastorali – come il modo di vedere il mondo moderno, il sfida dell’ateismo, la comunità umana, l’impegno politico, la famiglia e la pace – all’interno di una coerente visione antropologica cristiana, in modo da superare il rischio di una trattazione frammentaria di tutte queste problematiche antropologiche. La prima bozza del 1964 (“schema di Lovanio”) fece un tentativo di superare il dualismo tra naturale e soprannaturale recuperando il tema biblico dell’uomo fatto ad immagine di Dio, ma l’approccio neoscolastico risultò comunque prevalente: il tema dell’immagine fu così legato al solo AT, salvo venire definito di nuovo in termini metafisici come un essere dotati di intelletto e volontà, cosicché poi era di nuovo necessaria “un’elevazione” all’ordine soprannaturale, mentre Cristo interveniva solamente in un secondo momento per restaurare tale immagine, sfigurata dal peccato. Nella discussione in aula la bozza fu molto criticata dai padri conciliari, ma i suggerimenti di revisione risultarono difficilmente compatibili tra loro. Infatti c’era anzitutto chi chiedeva di rafforzare la distinzione tra i due ordini, a suo avviso troppo indebolita dallo schema. “Sarebbe necessario anche distinguere meglio l’ordine naturale dall’ordine soprannaturale. È vero che nella volontà di Dio sono inseparabilmente uniti e l’uomo, elevato al di sopra della dignità della creatura razionale alla gloria dei figli di Dio, in Cristo Gesù Verbo incarnato di Dio, è condotto a pienezza. Ma la grazia non toglie la natura, bensì la perfeziona, e l’esistenza dell’ordine soprannaturale non estingue l’ordine naturale. Entrambi sono opera di Dio e conservano il loro valore, quindi si tratti in modo distinto dell’ordine naturale” (A. Liénard, AS III-V, 215-217; cfr. anche A. Mathias, AS III-V, 280-282; C. Wojtyla, AS III-V, 298-300; S. Garcia de Sierra y Mendez, AS III-V, 417-419; I. Prou, AS III-V, 519-520; F. Gómez Léon, AS III-VII, 267; L.J. Shehan, IV-II, 268-370). Al contrario, c’era chi rimproverava allo schema di essere troppo timido e chiedeva un chiaro riconoscimento del primato dell’ordine soprannaturale: “Sarebbe necessario che il suo primato appaia più chiaramente…che fin dall’inizio del capitolo si dicesse apertamente che gli uomini hanno una vocazione eterna e divina” (P. Léger, AS III-V, 516-518; cfr. anche J. Malula, AS III-V, 737-739; J. Döpfner, AS IV-II, 28-33). C’era poi chi chiedeva un linguaggio più biblico-teologico e meno metafisico, ponendo però Cristo ancora in un ruolo solo riparatore rispetto al peccato. “Il mondo, non essendo fatto solo di cose, ma di uomini che interagiscono con esse, deve essere determinato non dalla sola essenza astratta, ma insieme con cinque determinazioni teologiche, che sono l’essere creato, l’aver ricevuto in dono la grazia, l’essere segnato dal peccato, l’essere redento da Cristo e l’essere elevato escatologicamente” (H. Volk, AS III-V, 504-506; cfr. anche A. Bea, AS III-V, 272-275; Ch. de Provenchères, AS III-V, 627-634; H. Volk, AS IV-II, 406-408). Infine c’era chi, invocando un approccio più biblico e patristico, chiedeva di imboccare in modo deciso un approccio chiaramente incentrato su Cristo. “Il nostro schema manca di una dottrina sull’antropologia cristiana fondata nella Scrittura e nella Tradizione. Quando infatti il nostro testo parla da cristiano, se ne serve come di un Deus ex machina, in modo giuridico e forense… Manca quindi a questo schema il fondamento teologico. La ragione della pienezza dei tempi e di ogni creatura nel Corpo glorioso di Cristo, quella anakephalaiosis o ricapitolazione di tutte le cose in Cristo, di cui parla Sant’Ireneo, qui non c’è” (P.P. Meouchi, AS III-V, 277-279; cfr. anche R. Silva Enriquez, AS III-V, 235-238; E. de Araújo Sales, AS III-V, 450; G. Garrone, AS IV-I, 553-558; D.S. Lourdusamy, AS IV-II, 380383; A.Ch. Renard, AS IV-II, 384-385; E. Schick, AS IV-II, 636-639; H. Jenny, AS IV-II, 774-775; Vescovi francesi, AS IV-II, 914-916). Davanti ad una tale difformità di valutazioni, la Commissione incaricata di rivedere questo schema decise di imboccare una via intermedia: “L’accordo non era unanime sulla questione seguente: bisognava privilegiare il kérigma o partire dall’ordine naturale per giungere a Cristo? ... La commissione dopo una deliberazione e non senza difficoltà ha scelto un terzo termine: si partirà non da quanto si è convenuto chiamare ‘ordine naturale’, ma dalle verità esposte più comunemente ammesse, ogni volta che sarà possibile in maniera biblica” (P. Haubtmann, Diario, 1821). Attenendosi a questo criterio di massima, la Commissione quindi decise di eliminare ogni riferimento ai due ordini, senza però partire subito da Cristo: così il cap.1 della futura Gaudium et Spes, quello che delinea per sommi capi l’antropologia cristiana, venne strutturato “dalla Genesi al Vangelo, per cui si possa dire, fin dall’inizio, chi sia l’uomo, fatto ad immagine di Dio”, tenendo però presente che “dire uomo è evocare Cristo, origine e fonte della perfezione umana” (G. Garrone). Ricevuto un consenso confortante da parte dei padri conciliari, la Commissione mantenne questa direzione, respingendo le ultime contrapposte obiezioni. 3. Gesù Cristo prototipo e modello dell’uomo Il testo definitivo della Gaudium et Spes, pur con le difficoltà appena accennate, presenta un chiaro superamento dell’impostazione dei due ordini e un robusto cristocentrismo. Infatti nel testo si parla sempre di un unico fine dell’uomo, spesso legato al tema della “vocazione” (GS 20, 24, 29, 76, 92), mentre sono scomparsi l’espressione “fine soprannaturale”, la nozione di natura in quanto contrapposta al soprannaturale e l’idea di “elevazione” della natura. Inoltre Cristo è collocato al centro dell’antropologia – GS 10: fine dell’introduzione; GS 22: fine cap.1; GS 32: fine cap.2; GS 38, fine cap.3; GS 41, inizio cap.4; GS 45, fine del cap.4 e della prima parte –, mentre il tema dell’immagine è utilizzato con abbondanza, anche se con riferimento al solo AT (GS 12, 17, 24, 29, 34, 41, 52, 68). In questo contesto si colloca il passo cruciale di GS 22. In realtà solo nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Infatti Adamo, primo uomo, era figura di quello futuro, cioè di Cristo Signore (cfr. Rom 5,14; Tertulliano, de Resurrectione. V,3: “in ciò che si esprimeva nel fango si pensava a Cristo, che si sarebbe incarnato”). Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli rende nota la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia quindi che tutte le verità sopra esposte trovino in lui la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è “l’immagine dell’invisibile Dio” (Col 1,15; cfr. 2 Cor 4,4), Egli è l’uomo perfetto, che ha restituito ai figli d’Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme fin dal primo peccato. Poiché in Lui la natura umana è stata assunta, senza con ciò essere annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime [...] Il cristiano, poi, reso conforme all’immagine del Figlio, che è il primogenito tra molti fratelli (cfr. Rom 8,29; Col 1,18), riceve “le primizie dello Spirito” (Rom 8,23), per cui diventa capace di adempiere la legge nuova dell’amore. [...] E ciò non vale solo per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia (cfr. LG 16). Essendo infatti Cristo morto per tutti (cfr. Rom 8,32) ed essendo effettivamente una sola la vocazione ultima dell’uomo, quella divina, dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo offra a tutti la possibilità di essere consociati a questo mistero pasquale, nel modo conosciuto da Dio. Si noti anzitutto il cristocentrismo, visto che la centralità di Cristo non dipende più dal problema del peccato: Cristo, mentre viene a rivelare il volto del Padre, “svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”, cioè il suo essere fatto per Dio, per cui anche il suo restituire la somiglianza con Dio, resa deforme dal peccato, segnala il progetto che Dio ha avuto fin dalla creazione, progetto che è ben espresso dalla citazione di Tertulliano, aggiunta all’ultimo momento. Così si comprende perché l’uomo è chiamato a conformarsi a Cristo: perché è in Lui che l’uomo trova il proprio intimo compimento, inscritto da Dio fin dalla creazione. Allora dicendo che Cristo è “l’uomo perfetto”, GS va oltre Calcedonia: se là ci si limitava a dire che Cristo era davvero uomo, qui in più si dice che è il modello di ciò che l’uomo è chiamato ad essere. Rimane tuttavia un limite, dato dal fatto che GS non approfondisce il ruolo di Cristo nella stessa creazione dell’uomo, tema a cui accennava la citazione di Tertulliano, non affrontato per evitare che in aula si riaprisse lo scontro sul soprannaturale. In questo modo il Vaticano II, pur non approfondendo ulteriormente il tema, ha chiesto però alla teologia post-conciliare di mettere Cristo al centro dell’antropologia teologica, compito che poi i vari teologi hanno svolto in modi diversi, come si vedrà dalle due relazioni che seguono. don Daniele Moretto Bibliografia essenziale sul paragrafo 1 P. 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