Copenaghen e il nuovo ordine mondiale Umberto Bertelè 21/12/2009 L’accordo raggiunto al termine della conferenza di Copenaghen sul clima può essere giudicato deludente per diverse ragioni. Lo conferma il fatto che le Nazioni Unite, organizzatrici del summit, hanno scelto di prendere nota dell’accordo di Copenaghen, invece che di approvarlo formalmente, e di lasciare quindi la decisione sull’adesione ai singoli paesi. Ciò è avvenuto dopo che l’Unione europea, estremamente delusa per i risultati di una conferenza su cui aveva scommesso molto e probabilmente umiliata per l’esclusione dai colloqui conclusivi, ha accettato l’accordo in ritardo e con riluttanza. Anche una serie di paesi in via di sviluppo, capeggiati da Venezuela e Bolivia, si sono rifiutati di sottoscrivere l’accordo a causa della vaghezza delle promesse di aiuto finanziario e tecnologico da parte dei paesi più ricchi. La lista dei punti dove Copenaghen ha fallito può essere sintetizzata rapidamente: - l’accordo cui si è arrivati, anche se fosse sottoscritto da tutti i paesi, non è legalmente vincolante: i paesi esprimono cioè delle intenzioni, ma non si impegnano formalmente a rispettarle; - l’accordo non prevede controlli (soprattutto per la ferma opposizione della Cina): con la conseguenza che molti paesi, e tra questi forse gli stessi Stati Uniti, avranno difficoltà a far accettare al loro interno misure ambientali potenzialmente dannose per la competitività mondiale delle proprie imprese; - l’accordo esprime in maniera vaga l’obiettivo da conseguire entro il 2050 - “non più di due gradi di aumento della temperatura rispetto all’era preindustriale” invece che “dimezzare le emissioni dei gasserra” - e non stabilisce alcun obiettivo intermedio (ad esempio al 2020) che funga da momento di verifica dello stato di avanzamento; - l’accordo parla di un impegno dei paesi ricchi a iniziare a corrispondere a quelli più poveri - prima del 2020 - una cifra complessiva annua dell’ordine dei 100 miliardi di dollari, ma è molto vago sulle modalità con cui questi soldi potranno essere reperiti. Impegni da mantenere Rimangono le promesse della vigilia. Gli Stati Uniti si sono impegnati (anche se l’American Clean Energy and Security Act (Aces), approvato sul filo di lana dalla Camera, giace senza grandi prospettive al Senato) a ridurre le emissioni dei gas-serra del 17 per cento entro il 2020, ma assumendo come base il livello di emissioni del 2005 invece di quello del 1990, cui faceva riferimento il protocollo di Kyoto. Per questo gli Usa sono stati accusati di scorrettezza dagli europei, in quanto la riduzione - riportata al 1990 sarebbe solo del 4 per cento. L’Unione europea si è impegnata formalmente (a differenza degli Stati Uniti) a ridurre le emissioni del 20 per cento rispetto al 1990: con una controaccusa però da parte degli Stati Uniti che - riportata al 2005 la riduzione sarebbe solo del 13 per cento (contro il loro 17), a causa dei rilevanti miglioramenti nei paesi est-europei dopo l’uscita dai regimi filosovietici. La Cina si è impegnata a sua volta a ridurre del 40-45 per cento - entro il 2020 e assumendo come base il 2005 - l’intensità delle emissioni rispetto al Pil (la cosiddetta carbon-intensity): più di quanto faranno gli Stati Uniti nello stesso periodo (come da loro evidenziato), ma senza con questo riuscire a bilanciare l’incremento delle emissioni legato all’elevatissimo tasso di crescita della loro economia. L’assenza di accordi legalmente vincolanti lascia ampi margini alle lobbies dei comparti potenzialmente più danneggiati dall’accordo (prima di tutto quelli che hanno a che fare con l’energia di origine fossile) per cercare di bloccare la formalizzazione degli impegni o per spingere verso una loro dilazione. Queste lobbies saranno tuttavia contrastate da quelle che invece dall’economia verde hanno tutto da guadagnare: perché operanti nel settore delle energie alternative (l’energia eolica, l’energia solare nelle sue diverse configurazioni e l’energia da biomasse) o dell’energia nucleare o dei beni (quali le auto di nuova concezione) e dei servizi orientati all’efficienza e al risparmio energetico. Si opporranno le aree industrializzate che più temono la delocalizzazione degli impianti in paesi tolleranti, mentre saranno favorevoli quelle per cui l’ambiente può rappresentare un fattore di sviluppo. Potranno nascere pericolose tentazioni di porre limiti al commercio internazionale, in presenza di forti squilibri - fra le diverse aree nei costi imputabili all’ambiente. Un nuovo patto Era realistico aspettarsi molto di più? Guardando alle posizioni assunte dai vari paesi all’approssimarsi della conferenza di Copenaghen, probabilmente no. Così come è poco realistico pensare che a breve si possa giungere ad un nuovo accordo organico. Da quando il mondo si è convinto che siano i cosiddetti gas-serra (la maggior parte dei quali originati nei processi di trasformazione e utilizzo dell’energia) e non la natura i principali responsabili del riscaldamento terrestre in atto, l’ambiente e l’energia sono diventati la principale risorsa scarsa su scala globale. Una risorsa intimamente legata allo sviluppo, per cui il rispetto di un tetto alle emissioni globali potrebbe verificarsi solo a fronte di un patto che stabilisca, in assenza di un governo mondiale, come distribuire i doveri di ridurre le emissioni e i diritti di far crescere le economie. Soprattutto in un momento di impetuosa crescita economica di paesi popolosi come la Cina e l’India, rispettivamente al primo e al quinto posto mondiale nelle emissioni dei gas-serra. Alcuni paesi - quelli che stanno crescendo e aspirano a un ruolo mondiale più proporzionato alla loro consistenza economica e demografica, ma anche quelli, come il Venezuela, che aspirano a più potere grazie al petrolio - hanno usato la conferenza di Copenaghen come occasione per mettere alla corda i paesi occidentali e puntare a un nuovo ordine internazionale in cui anche la soluzione dei problemi ambientali non possa fare a meno del loro consenso. In questo Copenaghen ricorda gli Stati Generali riunitisi a Versailles nel 1789, quando le classi dominanti del tempo, la nobiltà e il clero, non più in grado di gestire la voragine finanziaria della Francia, dovettero chiedere al terzo stato - e quindi alla borghesia emergente - di cooperare alla soluzione dei problemi, dando inizio ad un nuovo assetto dei poteri. Umberto Bertelè è ordinario di Strategia e sistemi di pianificazione al Politecnico di Milano.