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Energia e Ambiente
IL GIOCO DI PECHINO NELLA PARTITA DEL CLIMA
di Alessandro Lanza 30.09.2009
Al summit sui cambiamenti climatici di New York la Cina si è impegnata a ridurre la propria intensità
carbonica, ovvero il rapporto emissioni-Pil, di un "margine notevole" entro il 2020. Una misura simile
porta solo in linea teorica a un calo delle emissioni. Perché gli incrementi del Pil possono
ampiamente compensare le riduzioni che derivano dai miglioramenti di efficienza. E se la crescita
economica è per i paesi in via di sviluppo una variabile incomprimibile, è chiaro che alla conferenza
di Copenaghen non si potrà trovare nessun accordo sui livelli di emissione.
I quotidiani nazionali e internazionali del 23 settembre hanno dedicato molto spazio al summit sui
cambiamenti climatici che si è svolto a New York. L’incontro rappresenta un ulteriore passo di
avvicinamento alla conferenza di Copenaghen, prevista per la fine dell’anno, in cui si cercherà di
raggiungere un nuovo accordo che fissi gli impegni di riduzione a partire dal 2013, data in cui si
esauriranno quelli connessi al Protocollo di Kyoto.
NOVITÀ DALLA CINA?
Tra le tante questioni aperte, l’incontro di Copenaghen dovrà chiarire la posizione dei paesi in via di
sviluppo: fino ad oggi non hanno preso alcun impegno vincolante in termini di riduzione delle
emissioni, creando nei paesi industrializzati - guidati dagli Stati Uniti - una sorta di alibi a non
assumerne a loro volta.
Molti giornali hanno sottolineato, pur con parole diverse, l’importanza di una nuova posizione cinese.
Il Sole 24Ore, per fare un solo esempio, completava il titolo “Sul clima entra in gioco Pechino” con
l’occhiello “Impegno a ridurre drasticamente le emissioni”.
È necessario accogliere questi annunci con molta prudenza, come peraltro l’articolo del Sole 24Ore
faceva, e riflettere con attenzione.
È senz’altro vero che durante la conferenza di New York il presidente cinese Hu Jintao ha fatto
alcuni importanti passi in avanti, da esaminare con cura per meglio capire le reali possibilità di
trovare prossimamente un’intesa più ampia e stringente.
Due i punti principali espressi dal leader cinese: sul piano internazionale ha chiarito quelli che sono
considerati gli elementi fondamentali di un prossimo possibile accordo; sul piano nazionale ha
descritto le misure interne che il governo cinese sta adottando con l’obiettivo di aumentare
l’efficienza promuovendo un uso sostenibile dell’energia.
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Sui principi negoziali, il presidente cinese non ha aggiunto molto rispetto a quello che già si
conosceva. In primo luogo, è stata ribadita la necessità di considerare il livello di sviluppo di un
paese come elemento determinante rispetto agli obblighi che deve assumere in tema di emissioni. È
la riproposizione di un vecchio cavallo di battaglia nella negoziazione internazionale. I paesi in via di
sviluppo tendono a sottolineare in ogni occasione le responsabilità storiche dei paesi
industrializzati. Quello che conta per il sistema climatico sono tutte le emissioni di GHG, non solo
quelle degli ultimi anni. E se si confronta l’immagine delle emissioni correnti, per esempio gli ultimi
tre anni, con quella del totale delle emissioni, per esempio negli ultimi cento anni, il quadro risulta
fortemente modificato: nel secondo caso le emissioni dei paesi industrializzati costituiscono buona
parte delle emissioni complessive.
Il presidente cinese ha poi ribadito ancora la necessità, per i paesi industrializzati, di provvedere con
risorse finanziarie “adeguate e certe” al finanziamento di tecnologie pulite per la crescita dei paesi
in via di sviluppo.
Questi due elementi non rappresentano segnali rilevanti di novità nella posizione cinese sebbene
nella frase “adeguate e certe” riferito alle risorse finanziarie si possa vedere un tentativo di
superamento dello schema del Cdm (Clean Develpment Mechanism) previsto nel Protocollo di
Kyoto, in cui il finanziamento di tecnologie pulite nei paesi in via di sviluppo dipende da una scelta
dei paesi industrializzati, e dunque non descrive risorse finanziarie “adeguate e certe”.
GLI IMPEGNI
Gli elementi di novità (non in senso assoluto, quanto nella persona, il luogo e le circostanze)
riguardano la politica cinese e i possibili impegni.
La Cina si è impegnata a
- ridurre ulteriormente la propria intensità carbonica, ovvero il rapporto emissioni-Pil, di un non
precisato “margine notevole” entro il 2020
- per fare questo intende aumentare considerevolmente le rinnovabili e il nucleare (ovvero
l’energia che non produce emissioni), con una previsione di copertura del 15 per cento del totale dei
consumi energetici, sempre entro il 2020
- incrementare la superficie boschiva di 40 milioni di ettari
- sviluppare una non meglio precisata “economia verde”.
EMISSIONI E INTENSITÀ CARBONICA
Di questi diversi punti i primi due meritano una particolare attenzione. La riduzione dell’intensità
carbonica può essere considerata con semplicità considerando la relazione
(1)
L’intensità carbonica della Cina si è ridotta costantemente a partire dalla fine degli anni Settanta e
oggi il rapporto è circa un terzo di quello che si registrava nel 1980. Il risultato, comune a molti altri
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paesi in via di sviluppo, deriva fondamentalmente da nuovi e più efficienti vintage di capitale, più che
da una riduzione della carbonizzazione dell’offerta energetica complessiva. La rapida riduzione si è
tuttavia arrestata nel 2003 in presenza di un boom economico e produttivo, tanto da obbligare il
governo a un intervento correttivo teso a indicare un livello di efficienza-obiettivo secondo un piano
quinquennale 2005-2010.
La riduzione di questo rapporto, ovvero il conseguimento di obiettivi sempre più sfidanti in termini di
intensità carbonica, non deve essere confuso con la riduzione delle emissioni. Isolandoci dal resto
del contesto e guardando la sola relazione (1), risulta evidente che gli incrementi del prodotto
interno lordo possono ampiamente compensare le riduzioni che derivano dai miglioramenti di
efficienza.
La politica degli annunci non basati sulla riduzione delle emissioni, ma sulla riduzione dell’intensità
carbonica hanno un precedente interessante nei vari piani energetici elaborati durante l’
amministrazione Bush e in particolare nell’Energy Plan 2002. In quel piano, la riduzione
dell’intensità carbonica del 18 per cento nel periodo 2002-2012 si accompagnava a un aumento
delle emissioni del 12 per cento nello stesso arco di tempo.
In linea teorica, una riduzione del rapporto emissioni-Pil può dare luogo a una riduzione delle
emissioni ma, evidentemente, questa deve essere tanto più stringente quanto maggiore è il tasso di
crescita dell’economia.
Un esempio permette di chiarire questo elemento. Tre scenari di riduzione del rapporto: il primo,
proseguendo il trend degli ultimi venti anni, realizza una riduzione pari all’1,8 per cento per anno.
Nel secondo scenario si raddoppia lo sforzo (3,6 per cento) e nel terzo lo si triplica (5,4 per cento).
La riduzione di questo rapporto va letta insieme a un’ipotesi di incremento del Pil. Seguendo le
indicazioni che provengono da numerosi previsori è stato adottato un incremento annuo pari al 7,5
per cento. Si tratta di un incremento inferiore a quello realizzato negli ultimi anni.
I risultati di questo esercizio sono illustrati nella tabella.
Anni
2006
2010
2020
2030
(A)
-1,8% per
anno
15,4
20,96
35,7
60,78
Emissioni corrispondenti a una riduzione (E-PIL) pari a:
(B)
(C)
-3,6% per
-5,4% per
(A-B)
(A-C)
anno
anno
15,4
15,4
0
0
19,47
18,06
1,49
1,41
27,55
21,16
8,15
6,39
38,99
24,8
21,79
14,19
La colonna (A) mostra che le emissioni complessive (misurate in miliardi di tonnellate) continuano a
salire, passando da 15,4Mt del 2006 a 35,7Mt nel 2020, anche in presenza di una riduzione ulteriore
del rapporto emissioni-Pil che si ipotizza proseguire lungo la tendenza degli ultimi anni. Nella
colonna (B) le emissioni complessive aumentano, passando da 15,4 Mt del 2006 a 27,55 Mt nel
2020, pur in presenza di uno sforzo, i cui costi sono difficilmente quantificabili, teso a raddoppiare la
velocità di riduzione del rapporto emissioni-Pil. Ulteriori considerazioni sulla colonna (C) sono del
tutto ovvie.
Il punto fondamentale è che un paese delle dimensioni della Cina, con tassi di crescita del Pil
spesso a due cifre e una dinamica della popolazione non particolarmente accentuata, non può
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ridurre le emissioni anche in presenza di una politica attiva sul rapporto emissioni-Pil. Il punto
negoziale per Copenaghen risulta, se ce ne fosse stato bisogno, ancora più chiaro. L’obiettivo
massimo che si potrà ottenere da parte dei paesi in via di sviluppo sarà un accordo generico sulla
riduzione dell’intensità energetica e di quella carbonica. Nessuna chance invece di impegni sui livelli
di emissione.
I ragionamenti del presidente cinese Hu Jintao aiutano meglio a comprendere un fatto spesso
sottovalutato. Se si assume – come fa la Cina, ma non solo – che la crescita economica
rappresenti per questi paesi una variabile incomprimibile, gli sforzi che dovrebbero essere
compiuti per bilanciare, attraverso un incremento dell’efficienza, l’aumento delle emissioni che ne
deriva, non potranno mai raggiungere l’obiettivo della riduzione delle emissioni.
Con queste premesse in gioco ci sarebbe da augurarsi che il cambiamento climatico fosse un bluff e
l’Ipcc un organismo di incompetenti. E temo non sia così.
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