Popolazioni native del Sud America: biodiversità e

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Archivio per l’Antropologia e la Etnologia - Vol. CXLIV (2015)
Popolazioni native del Sud America:
biodiversità e antropologia museale
GIORGIA CAMPERIO CIANI *
Maria Gloria Roselli **
Corrado Dalmonego ***
Monica Zavattaro **
Francesca Bigoni **
Parole chiave: conservazione, patrimonio culturale, territori indigeni, collezioni etnografiche.
Riassunto — Questo articolo descrive una ricerca condotta sugli oggetti provenienti dal Sud America
che fanno parte delle collezioni del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, conservate
presso la sezione di Antropologia e Etnologia. L’iniziale obiettivo della ricerca era l’identificazione delle
popolazioni del Sud America da cui gli oggetti hanno avuto origine. Inoltre abbiamo tentato di tracciare
la storia di quegli stessi popoli indigeni raccogliendo dati storici e demografici passati e presenti. Queste
informazioni ci hanno permesso di riconnettere gli oggetti a drammatici eventi storici a cui essi sono
stati sottoposti e a problematiche ambientali. Per alcune popolazioni ancora esistenti è stato possibile
mettere in relazione le collezioni con le loro condizioni di vita attuali. Lo studio ha fatto parte di un
progetto più ampio: il rinnovamento della sala del Sud America. L’integrazione di queste nuove voci è
stata una tappa essenziale per impostare efficacemente il nuovo allestimento.
Key words: conservation, cultural heritage, indigenous territories, ethnographic collections.
Summary — This article describes a research on South American artifacts in the section of Anthropology and Ethnology of the Museum of Natural History, University of Florence. The initial objective of
our research was to identify the populations of South America from which the ethnological collections
of the museum originated. Then we attempted to trace the history of the indigenous populations and
collected past and the present historical and demographic data on each population. This information
allowed us to reconnect the objects with dramatic cultural events to which each population was subjected and to environmental issues. For some surviving population it was possible to connect the object to
current events. The study was part of a wider project: the renovation of the hall of South America. The
insights from this research were essential for planning effectively the renovation of the hall.
* Università di Firenze, Laboratori di Antropologia, Dipartimento di Biologia, via del Proconsolo 12,
50122 Firenze.
** Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Antropologia ed Etnologia, via del
Proconsolo 12, 50122 Firenze.
*** Pontifícia Universidade Católica de São Paulo (Brasile). Programa de Estudos Pós-Graduados em
Ciências Sociais.
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G. Camperio Ciani, M.G. Roselli, C. Dalmonego, M. Zavattaro, F. Bigoni
Introduzione
Viviamo un’epoca di riqualificazione del ruolo del museo che rende necessaria
la sua trasformazione da semplice luogo di esposizione dei cimeli esotici in uno
spazio dove sia sviluppata una nuova sensibilità nella rappresentazione delle culture
“altre”, consapevole delle problematiche sulla conservazione culturale e ambientale
che le coinvolgono. Il museo deve diventare un teatro di incontri dove costruire il
dialogo fra culture diverse divulgare una comprensione profonda del valore di questa
diversità. Si tratta di un processo complesso eppure necessario per restituire significato e vita ai manufatti delle collezioni. Gli studi scientifici recenti delineano sempre
più chiaramente quegli aspetti che legano la conservazione della biodiversità e della
varietà culturale alla sopravvivenza dei popoli nativi. La valenza di queste comunità
all’interno di programmi di tutela della biodiversità è doppia: da un lato esse sono da
considerarsi parte integrante della biodiversità locale, dall’altro numerose ricerche dimostrano anche come esse siano insostituibili garanti di una migliore conservazione
degli equilibri di ecosistemi profondamente antropizzati durante millenni (Danielsen
et al., 2013). Tuttavia vi è molta discussione su quali siano le conseguenze di politiche
conservative introdotte dall’esterno, anche da paesi europei, sulle popolazioni native
del Sud America e sui loro territori. I musei antropologici ed etnografici possono
giocare un ruolo fondamentale nella diffusione di queste conoscenze perché con
le loro collezioni fanno conoscere ed apprezzare ai visitatori la varietà di culture
tradizionali che ancora sopravvivono e i loro sistemi di valori legati ad una stretta
relazione con la natura, ricordando che sono proprio le popolazioni native a subire
per prime le conseguenze di una gestione sbagliata dell’ecosistema da parte delle
società industriali.
Il nuovo ruolo del Museo nell’Antropologia
Il museo diventa sempre più un luogo di conservazione non solo di oggetti ma,
attraverso la conoscenza delle culture che questi rappresentano, anche di biodiversità. Oggi più che mai è interessante studiare le popolazioni indigene dal punto di vista
culturale, soffermandosi sugli aspetti che mantegono la relazione fra le popolazioni
native e l’ambiente. Le popolazioni indigene sono da considerarsi parte integrante
della biodiversità, protagoniste nella lotta per la protezione dell’ambiente. In questo
contesto gli indigeni amazzonici Yanomami sono un esempio della lotta che molti di
questi popoli intraprendono per salvare la biodiversità dell’Amazzonia. La loro stessa esistenza è una sfida alla deforestazione (Fig. 1), allo sfruttamento minerario della
foresta, allo sviluppo incontrollato di crescita economica (Damioli e Saffirio, 1996).
Gli oggetti, i reperti, i manufatti o le intere collezioni provenienti da culture e
popolazioni diverse, sono portatori di numerosi messaggi che coinvolgono richiami
culturali, artistici, religiosi, scientifici, storici e tecnologici e, come tali, devono poter
essere comunicati attraverso la loro esposizione.
All’origine i musei etnografici hanno svolto un importante ruolo di conserva-
Popolazioni native del Sud America: biodiversità e antropologia museale
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Fig. 1. Foto della foresta secondaria scattata dal Mirador dell’isola di Independencia nel Rio delle Amazzoni. L’isola
si trova a poca distanza dalla principale città amazzonica del Perù, Iquitos. La foresta secondaria che si sviluppa tutta
intorno alla città è il risultato della tecnica utilizzata dagli agricoltori locali che consiste nello sfruttare il poco nutrimento presente nel terreno amazzonico tagliando la vegetazione presente e bruciandola per poi seminare (il cosiddetto “taglia
e brucia”). Una volta esaurite le risorse del suolo i campi vengono abbandonati e ricolonizzati dalla vegetazione formando così la foresta secondaria, tipico indicatore delle zone antropizzate. Foto di Giorgia Camperio Ciani, Maggio 2014.
zione della memoria delle culture allora definite come “primitive”, che rischiavano
l’estinzione a causa dell’avanzante modello occidentale. Questi musei, nonostante
tutte le ambiguità e le violenze che hanno contraddistinto l’impatto degli europei
con i nativi, hanno avuto il merito di salvare e conservare manufatti in molti casi
non più prodotti secondo le metodiche e i materiali originari, ma hanno creato uno
scollamento con le tradizioni culturali di provenienza e un distacco fra le persone e
gli oggetti. Questi ultimi, resi inutilizzabili dietro il vetro degli armadi espositivi all’interno di sale frequentate solo da occidentali, sono “morti”. Con la fine dell’epoca
coloniale, i musei hanno dovuto fare i conti con un contesto ideologico e culturale
mutato, che ha messo in discussione le modalità di rappresentazione delle culture
“altre” e i criteri di documentazione delle nuove raccolte. Anche l’atteggiamento di
gran parte dei visitatori è cambiato e il loro interesse di fronte alle vetrine va oltre
al valore estetico o al fascino della “stranezza”: essi, non più spinti da una semplice
curiosità per l’esotico, sentono l’esigenza di comprendere gli oggetti, le tradizioni
e le culture di cui i manufatti sono la testimonianza. Il museo diventa quindi uno
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G. Camperio Ciani, M.G. Roselli, C. Dalmonego, M. Zavattaro, F. Bigoni
strumento di diffusione di una nuova sensibilità, che vuole educare e incoraggiare al
superamento dello sguardo paternalista, colonialista e razzista che per secoli ha caratterizzato l’approccio alle culture altre in occidente. Il museo deve essere in grado
di offrire una visione molto più completa, che tenga conto dei diversi target di pubblico e che accompagni efficacemente l’esigenza di comprendere gli oggetti etnografici con la loro origine, funzione, storia. La grande forza che i musei delle culture
del mondo possiedono risiede nell’intrinseca potenzialità di essere collante fra paesi
e culture diverse, nell’ottica di una società sempre più multiculturale (Chiesa, 2009).
Un primo passo verso lo sviluppo di questa visione museale è l’analisi di quali siano
le popolazioni del Sud America rappresentate nelle collezioni e lo studio storico e
demografico sia del passato che del presente delle popolazioni indigene i cui oggetti
sono custoditi all’interno del Museo. Questo studio fornisce un valido supporto ai
criteri di riallestimento e rappresentazione nella sala del Sud America.
Gli indigeni e i loro territori
Il termine “indigeno”, secondo la definizione del vocabolario della lingua italiana,
indica sul piano antropologico ed etnologico un individuo che risulta essere sempre
appartenuto a un ambito geograficamente determinato; etimologicamente deriva dal
latino “indigena” derivato di “gignere”, generare, con prefisso “indu” equivalente di
“in” (Devoto e Oli, 2007).
Originariamente erano definite indigene quelle comunità che occupavano territori successivamente colonizzati (Penna, 2009). Oggi, nonostante le diverse caratteristiche di ciascun gruppo, sono stati riconosciuti i principali requisiti generali che
contraddistinguono un popolo indigeno. Infatti la sezione delle Nazioni Unite chiamata “United Nations’ Working Group on Indigenous Populations” ha adottato nel
1986 la seguente definizione: “Le comunità, persone o nazioni indigene sono quelle che hanno
continuità storica con le comunità che abitavano già prima le terre dove si sono sviluppate le società
coloniali e gli Stati moderni. Le popolazioni indigene si considerano diverse dagli altri settori della
società che prevalgono nei loro territori o in parte di essi. Sono una parte “non dominante” della
società, determinate a preservare, sviluppare e trasmettere alle future generazioni i loro territori
ancestrali e la loro identità etnica come base per la loro sopravvivenza come persone, in accordo con
i loro modelli culturali, istituzioni sociali e sistemi legali”.
L’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) ha svolto un ruolo di primo piano, per mezzo di una miriade d’istituzioni create al suo interno, come ad esempio
il sopracitato Gruppo di Lavoro sulle popolazioni indigene. Nel 1989, nell’ambito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL-WLO), è stata firmata la
Convenzione n. 169 dove si stabilivano diritti riconosciuti alle popolazioni indigene
(Colchester, 1996) che includevano la proprietà delle terre ancestrali, la gestione delle
risorse naturali, la libertà culturale attraverso l’espressione delle loro leggi e il divieto
di esproprio delle terre indigene, fatta eccezione per casi straordinari nei quali gli
indigeni hanno diritto ad abitare un’altra terra di uguali dimensioni. Il legame con
la terra è un fattore rilevante nella formulazione della nozione di “indigeni”, non
Popolazioni native del Sud America: biodiversità e antropologia museale
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solo perché è fonte della loro sopravvivenza materiale, ma anche per il profondo
significato spirituale che le è stato conferito (art. 25 dell’UNDRI, United Nations
Declaration on the Rights of Indigenous Peoples).
Infatti il sistema di valori di molte comunità indigene è tradizionalmente basato sulla stretta relazione con l’ambiente in cui sono immerse. Questa relazione
attribuisce loro un ruolo speciale di garanti della tutela delle risorse naturali e della
biodiversità, secondo una tradizione che ha permesso di mantenere per secoli antichi equilibri con l’ambiente. Nonostante quanto scritto sopra è, tuttavia, difficile
disporre di una stima esatta del totale delle popolazioni indigene, a causa delle difficoltà incontrate nell’elaborazione di censimenti demografici. In primo luogo bisogna
comprendere chi sono gli indigeni, in quanto come è stato scritto nell’ambito dell’United Nation Development Program “no single accepted definition of Indigenous Peoples that
captures their diversity exists” (UNDP, 2003). Esistono inoltre ancora comunità native
che non sono attualmente in contatto diretto con le società nazionali, anche se in
molti casi è provato che hanno avuto contatti anteriori e che oggi, dopo passate
esperienze, li rifiutano. Si stima che le popolazioni indigene contino circa 370 milioni
di persone. Secondo dati UNESCO queste popolazioni vivono in almeno 70 Paesi
(Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, 2002),
differenziate in moltissimi gruppi e sottogruppi, che occupano territori molto diversi tra loro, distribuiti dal circolo polare artico fino alle foreste tropicali, passando
per ambienti e zone geografiche molto diverse. Anche se i popoli indigeni rappresentano solo il 4% della popolazione mondiale, rappresentano il 95% della diversità
culturale. I territori indigeni occupano il 22% della superficie mondiale, che coincide
con l’80% dei territori ad alto tasso di biodiversità. Le zone a più ampia diversità
culturale coincidono con le più grandi foreste tropicali in America (come ad esempio
la foresta Amazzonica), in Africa e in Asia. Questa significativa sovrapposizione dei
territori indigeni con aree ricche in biodiversità rappresenta una grande opportunità
per rivolgere gli sforzi di conservazione non solo all’ambiente, ma anche alle culture
(Sobrevila, 2008). Solo in America Latina ci sono almeno 400 differenti popoli indigeni, ciascuno con una propria lingua e cultura. In Sud America l’86% delle aree
protette è abitato da popolazioni indigene (Kemf, 1993).
Le popolazioni indigene sono portatrici di antiche conoscenze sulla gestione
dell’ambiente tramandate da generazioni e proprio in quest’ottica è importante la
loro partecipazione nei programmi di conservazione come esperti di biodiversità e
ambiente. È infatti dimostrato che le popolazioni indigene giocano un ruolo chiave
nel mitigare le conseguenze del cambiamento climatico: i territori abitati dagli indigeni sono meglio conservati rispetto ai territori confinanti (Fig. 2). Secondo Lauriola
(2012) le popolazioni locali permettono la conservazione della diversità biologica e
perfino tecniche in precedenza svalutate come l’agricoltura itinerante di tipo taglia e
brucia, sono talvolta presentate come sostenibili sui suoli poveri di nutrimento. Bisogna tuttavia tenere in considerazione che il sistema taglia e brucia fornisce al suolo i
nutrienti accumulati nelle ceneri per il primo anno e in seguito la terra si impoverisce
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G. Camperio Ciani, M.G. Roselli, C. Dalmonego, M. Zavattaro, F. Bigoni
Fig. 2. Foto della foresta primaria scattata da una barca dell’Istituto de Investigacion de la Amazonia Perunana
(IIAP) in navigazione sul rio Ucayali nella buffer zone ai confini con la Riserva Nazionale Pacaya-Samiria. In questa zona vivono molte comunità meticcie, coinvolte in una serie di progetti per la salvaguardia dell’ambiente attraverso
una gestione sostenibile delle risorse. Foto di Giorgia Camperio Ciani, Maggio 2014.
rapidamente. Per questo i popoli semi nomadi abbandonano il campo dopo tre anni.
Quello già sfruttato impiegherà circa 10/20 anni per recuperare la situazione iniziale:
sarà invaso da vegetazione secondaria e lentamente tornerà a vegetazione primaria
e foresta. Inoltre è dimostrato che, per avere successo, i progetti di gestione territoriale dovrebbero tenere conto dei diritti delle popolazioni indigene sulle loro terre
ancestrali. Tuttavia, alcuni ambientalisti sono convinti che in una terra dichiarata
protetta nessuno debba essere autorizzato a entrare, neppure i nativi (Colchester,
1996). Questo tipo di gestione ha drammatiche conseguenze per le popolazioni indigene poiché alimenta le divisioni tra governi e popolazioni locali ed inasprisce i
conflitti. Anche l’ambiente risente di questo tipo di gestione: le aree protette, infatti,
a seguito di programmi di evacuazione, perdono la protezione delle popolazioni indigene che vi risiedevano e che le avevano preservate fino a quel momento (Alcorn,
1993). Preservare estese porzioni di foresta non solo porta a migliorare gli effetti
relativi al cambiamento climatico ma, se associato ad un corretto programma di
conservazione, avrebbe un effetto positivo anche sui diritti dei popoli nativi e sulla
tutela della biodiversità. Gli indigeni appartengono alle popolazioni costantemente
più esposte agli effetti negativi dei cambiamenti climatici (alluvioni, siccità, etc.) e le
Popolazioni native del Sud America: biodiversità e antropologia museale
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loro conoscenze potrebbero portare a delle valide proposte per la gestione dell’ambiente: i territori indigeni sono ottimi esempi di una gestione ambientale che resiste
agli effetti negativi dei cambiamenti climatici (Sobrevila, 2008).
La foresta Amazzonica sta diminuendo e questa diminuzione è strettamente collegata allo sfruttamento del territorio introdotto dai non nativi. Le recenti mappe della foresta Amazzonica mostrano che territori abitati da popolazioni indigene
hanno un miglior stato di conservazione. Un esempio è dato dal Parco Indigeno
dello Xingu, situato nella parte meridionale della foresta Amazzonica brasiliana.
Questo parco ha dimostrato come i territori indigeni siano una forte barriera alla
deforestazione: mentre le zone circostanti il parco sono diventate territori sfruttati
dall’agricoltura, il parco indigeno e i suoi abitanti hanno mantenuto la foresta intatta
(Rainforest Foundation, 2012).
La discussione sui diritti degli indigeni e la conservazione della biodiversità ha
assunto negli ultimi anni un ruolo primario in settori politici, biologici, culturali, economici a livello di organizzazioni internazionali e non. La diretta conseguenza è stata
l’aumento di organizzazioni non governative che difendono la natura e i diritti delle
popolazioni indigene (Sobrebvila, 2008). Tuttavia ancora oggi molte popolazioni indigene rischiano di non essere considerate in decisioni coinvolte nella progettazione,
l’attuazione o la valutazione di attività che riguardano direttamente i loro diritti ed
interessi. Il più delle volte i progetti che vengono realizzati senza il consenso delle
comunità locali hanno effetti devastanti (Amnesty International, 2009). Altre volte
rischiano di essere strumentalizzati politicamente.
Il Museo di Antropologia ed Etnologia e le collezioni del Sud America
Il 28 novembre 1869 fu istituito, con Regio Decreto, il Museo Nazionale di Antropologia e Etnologia di Firenze, ideato e diretto da Paolo Mantegazza, che nello
stesso anno fu chiamato a ricoprire la prima Cattedra italiana di Antropologia presso
l’Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento. Nel 1875, dalla sua prima
sede in via Ricasoli, il museo fu trasferito nella nuova sede in via Gino Capponi, dove
rimase fino al 1924, quando fu riallestito nell’attuale sede di Palazzo Nonfinito. Oggi
fa parte del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze.
Le collezioni annoverano più di 25.000 oggetti etnografici provenienti da tutto
il mondo, 7.000 reperti osteologici dalla preistoria all’epoca odierna, 26.000 stampe
fotografiche e 7.000 negativi, 800 calchi anatomici in gesso, una collezione di circa
80 antichi strumenti scientifici (Zavattaro e Roselli, 2009). Inoltre, il Museo possiede
un archivio di 545 unità, tra lettere, documenti e manoscritti, preziosa testimonianza
dell’attività e del pensiero di Paolo Mantegazza e della sua scuola (Frati, 1991). Per
la loro storia e per gli aspetti scientifici e metodologici che ne hanno determinato
la formazione, le collezioni della Sezione di Antropologia e Etnologia costituiscono
oggi un importante documento delle culture dei popoli del mondo e dell’evoluzione
del pensiero antropologico in Europa.
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G. Camperio Ciani, M.G. Roselli, C. Dalmonego, M. Zavattaro, F. Bigoni
Collezioni del Sud America
Il flusso di oggetti e reperti di varia natura verso il Museo iniziò nell’intenso
periodo Mantegazziano e il veloce accrescimento delle collezioni, facilitato sia dal
prestigio del fondatore che dal ruolo di Firenze durante il periodo in cui fu capitale
del neonato Regno d’Italia, è documentato dai cataloghi originali compilati dallo
stesso Mantegazza. Nel Museo confluirono inizialmente oggetti già presenti a Firenze, perché collezionati dalla famiglia De Medici ed altri acquisiti ed esposti dal
Granduca Pietro Leopoldo di Lorena come “utensili delle nazioni barbare” nel suo
Imperiale e Reale Museo di Fisica e Storia Naturale. Si tratta di un prezioso nucleo
di oggetti antichi che ancora oggi testimoniano la cultura materiale di popoli segnati
irreparabilmente dalla violenza del contatto e dallo scontro con il potere economico
e militare dei regni europei. Fra essi hanno un importante ruolo oggetti provenienti
da popoli nativi del Sud America, un soggetto di studio a cui Mantegazza, anche per
ragioni biografiche, teneva molto, avendo trascorso un lungo e produttivo periodo di formazione giovanile in quelle regioni. Numerosi suoi scritti testimoniano un
profondo interesse per quei popoli indigeni. Grazie alla passione di Mantegazza, e
per le vie più disparate arrivò al museo una grande varietà di oggetti provenienti da
differenti zone geografiche del Sud America che costituiscono oggi una documentazione ricchissima.
Nei cataloghi accanto alla descrizione degli oggetti sono annotati i nomi delle
persone che li vendettero al museo (e spesso troviamo anche il costo dell’acquisto),
in altri casi gli oggetti fanno parte di donazioni. Non rare furono infatti quelle provenienti da personaggi di diversa estrazione sociale, in alcuni casi appartenenti alle
classi sociali più elevate come il signor “Lopes Netto Barone Comm. Felipe, Consigliere Imperiale del Brasile a Firenze”, noto diplomatico dell’epoca, ma anche quelle provenienti
da personaggi meno conosciuti.
Altre collezioni del Sud America provengono dalle relazioni con le missioni, da
sempre avamposti del contatto con i popoli indigeni (Bigoni e Roselli, 2014).
Accanto ad oggetti antichi si sono aggiunte donazioni più recenti. La collezione
di artefatti della cultura Yanomami dell’Amazzonia Brasiliana, acquisita nel 1997
dal Museo, è interessante perché segue criteri antropologici moderni. Il patrimonio antropologico del Museo di Firenze, accumulato durante gli ultimi 4 secoli di
collezionismo, offre ancora oggi la possibilità di essere studiato partendo da nuove
concezioni scientifiche e nell’ottica della mutata sensibilità antropologica moderna.
Si tratta di una ricchezza straordinaria che apre grandi prospettive e futuri sviluppi.
Le collezioni del museo, giunte a noi nel corso di oltre quattro secoli, dalle origini del
collezionismo europeo di reperti sudamericani fino a testimonianze più recenti, oltre
che di grande valore per la loro rarità e bellezza, testimoniano problemi di drammatica attualità come la salvaguardia dell’ambiente e la sopravvivenza delle popolazioni
native attraverso la difesa dei loro territori.
Popolazioni native del Sud America: biodiversità e antropologia museale
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Materiali e metodi
L’affermarsi di nuove concezioni museografiche nell’allestimento delle collezioni
del Sudamerica presuppone lo studio di aspetti storici e demografici e delle specificità culturali delle popolazioni indigene dalle quali provengono i manufatti. Perciò,
l’analisi è partita dalla consultazione dei cataloghi cartacei e delle schede museali
manoscritte, relative agli oggetti provenienti dal Sud America esposti nelle sale del
Museo e conservati nei suoi magazzini.
È stato stilato un elenco delle popolazioni rappresentate dalle collezioni del museo ed è iniziata la fase di ricerca di notizie su queste popolazioni, sia utilizzando
documenti scritti che fonti elettroniche on-line. Una ricerca bibliografica è stata effettuata presso la Biblioteca di Antropologia dell’Università di Firenze, attraverso la
consultazione di volumi storici.
Molte informazioni bibliografiche sono state trovate sul data base on line di “Human relations area files” (HRAF), un’organizzazione riconosciuta internazionalmente nel campo dell’antropologia culturale fondata nel 1949 presso la Yale University
(USA). Le informazioni demografiche sono state ottenute consultando dati di censimenti nazionali, siti gestiti direttamente da associazioni indigene e da precedenti
studi demografici pubblicati in letteratura.
Risultati
Il primo risultato è stata la costruzione della tabella che comprende tutti i nomi
trovati nella parte delle schede dedicate all’indicazione della provenienza etnica
dell’oggetto. Abbiamo estratto da schede e cataloghi i 45 termini utilizzati per indicare la provenienza di oggetti provenienti dal Sud America (Tab. 1). Fra questi 45
termini abbiamo individuato: 27 nomi rintracciabili come riferiti a popoli ancora
esistenti o esistiti nel passato (Tab. 2), 9 nomi di significato etnologico incerto o puro
riferimento geografico (Tab. 4) e 9 termini per cui non si è potuto ancora trovare un
riferimento (Tab. 3)
Abbiamo trovato alcune possibili spiegazioni dei termini incerti che proponiamo
nella Tabella 4. Inoltre 8 nomi si riferiscono a fiumi o località geografiche del Sud
America (Tab. 4). In effetti, gli etnonimi sono stati spesso attribuiti alle comunità da
altri popoli, da viaggiatori e colonizzatori, facendo riferimento alla toponomastica
dei territori.
Preparazione delle schede
Sono state compilate schede informative sulle popolazioni del Sud America rappresentate nel Museo. Fra queste sono state scelte dieci popolazioni provenienti da zone
geografiche molto diverse, di diversa rilevanza numerica e in grado di rappresentare
ogni tipo di ambiente (vedi mappa Fig. 3). Le popolazioni sono state poi organizzate
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G. Camperio Ciani, M.G. Roselli, C. Dalmonego, M. Zavattaro, F. Bigoni
Tab. 1. Elenco dei nomi totali trovati nelle schede museali
Tab. 2. Elenco dei nomi trovati nelle schede museali che
sono riferiti a popoli
Totale nomi trovati nelle schede = 45
Popoli esistenti o esistiti (inclusi termini
derogatori), tot. 27
Autis
Surutas
Bachiavis
Turumai
Coicurus
Varaus/Yarasus
Manya
Zvia
Quichnos
Jivaros
Angaitè
Karayà
Araucanì
Lenguas
Arawak
Angaitè
Jivaros
Araucanì
Karayà
Arawak
Lenguas
Bororos
Matacos
Botocudos
Mundurukù
Caduvei
Patamona
Cainguà
Patamone
Matacos
Calapalos
Payaguà
Bororos
Mundurukù
Chamacoco
Sanapanà
Botocudos
Patamona
Chiriguanos
Ticunas
Caduvei
Patamone
Chuncos
Tobas
Cainguà
Payaguà
Cobbeu
Tupinambà
Calapalos
Sanapanà
Conibos
Yanomami
Chamacoco
Ticunas
Guaycurù
Chiriguanos
Tobas
Chuncos
Tupinambà
Cobbeu
Yanomami
Conibos
Copiapò
Guaycurù
Guayaquà
Araucania
Maranka
Auras
Namalapiti/
Navalapiti
Caraguatà
Nokovutos
Cayuroco
Pisagua
Chambos
Uaupè/Uaupes/
Uaupos
Chancanaju
Tab. 3. Elenco dei nomi trovati nelle schede museali
su cui non è stata ritrovata informazione
Nessuna informazione, tot. 9
Autis
Surutas
Bachiavis
Turumai
Coicurus
Varaus/Yarasus
Manya
Zvia
Quichnos
in base alla famiglia linguistica di appartenenza. Questa scelta è stata effettuata perché recentemente uno studio pubblicato su PNAS (Gorenflo et al., 2012) ha messo
in evidenza come le zone con alta biodiversità siano anche regioni in cui è presente
una maggiore varietà linguistica prevalentemente di lingue endemiche e a rischio di
estinzione. Una classificazione linguistica generale (Ruhlen, 1987) ha fornito un elenco
di 4.736 lingue nel mondo intero di cui solo poche parlate da centinaia di milioni di
Popolazioni native del Sud America: biodiversità e antropologia museale
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Tab. 4. Elenco dei nomi trovati nelle schede museali che non sono direttamente riferiti a popoli, di significato incerto o
di riferimento puramente geografico
Nomi trovati nei cataloghi non appartenenti a popoli indigeni con altro significato
o significato incerto, tot. 9
Possibili interpretazioni
Araucania
regione del Cile centro meridionale in cui vivono i
Mapuche, anche chiamati araucani
Auras
possibile abbreviazione di araucanos
Caraguatà
fiume del Paraguay
Cayuroco
confuso con Chamacoco?
Chambos
citati come indios da una sola fonte del 1618
Chancanaju
probabilmente termine modificato per indicare la
località Chancanì, in Argentina
Copiapò
città situata nel Cile del nord, nella regione di
Atacama
Guayaquà
potrebbe derivare dal fiume Guayas, in Ecuador o
dalla provincia dove quest’ultimo si trova, Guayaquil
Maranka
probabilmente riferito alla parola “Maranki” che in
lingua Ashaninka, popolazione del Perù del Brasile,
significa serpente
Namalapiti/Navalapiti
confuso con Yawalapiti indigeni del Brazile
Nokovutos
confuso con Botocudos
Pisagua
frazione del comune cileno Huara, nella regione
Tarapacà
Uaupè/Uaupes/Uaupos
fiume che attraversa la Colombia ed il Brasile nella
regione amazzonica
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G. Camperio Ciani, M.G. Roselli, C. Dalmonego, M. Zavattaro, F. Bigoni
Fig. 3. Mappa del Sud America, rappresentate le popolazioni scelte per l’elaborazione delle schede. In grigio scuro è rappresentata la distribuzione territoriale attuale ed in grigio chiaro la distribuzione stimata al periodo dei primi contatti.
Popolazioni native del Sud America: biodiversità e antropologia museale
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persone, la maggior parte parlata solo da qualche decina di migliaia di persone e molte
da poche centinaia o addirittura da meno di cento persone. Le lingue di quest’ultimo
gruppo sono a rischio di estinzione, come storicamente già accaduto a molte altre. I
dati raccolti negli ultimi decenni hanno elevato significativamente il numero totale di
lingue parlate sul pianeta a 7.102 (Lewis et al., 2015). Fatta eccezione per le pochissime
lingue ad ampia diffusione, tende ad esservi una corrispondenza biunivoca tra i nomi
delle popolazioni e quelle delle lingue. Così, diversamente che nel caso delle grandi
nazioni moderne, nelle quali si è persa spesso l’identità delle tribù originarie, le lingue
costituiscono un’ottima guida etnica molto più completa delle tradizionali informazioni etnografiche (Cavalli-Sforza et al., 2009). Sarebbe molto interessante tener conto
delle identificazioni e differenziazioni che gli stessi popoli indigeni fanno, ma studi
comprensivi su questo argomento sono appena in stadio iniziale.
Le informazioni riguardanti le popolazioni sono state compilate secondo uno
schema temporale. Riferiti al passato: periodo di contatto, originale distribuzione geografica e originale zona ecologica, coordinate geografiche, stima della dimensione
originale della popolazione, adattamento e regime di sussistenza. Riferito al presente:
distribuzione geografica attuale, coordinate geografiche, stima attuale del numero di
individui, livello di acculturazione, lingua parlata, eventuali note aggiuntive e fonti.
Per alcune popolazioni non tutte le informazioni erano disponibili.
Riportiamo qui di seguito una scheda in versione sintetica scelta per illustrare
il lavoro fatto sul popolo Tupinamba rappresentato in Museo da due straordinari
mantelli di piume di epoca medicea.
Tupinamba
Nel XVI secolo l’etnonimo Tupinamba veniva indistintamente attribuito a tutte
le popolazioni di indigeni che parlavano una delle lingue del ceppo Tupì-Guaranì,
distribuite nei territori compresi tra la foce del Rio delle Amazzoni e lo stato di Sao
Paolo (1). Queste popolazioni accomunate dalla lingua, occupavano aree molto distanti ed erano divise in numerosi gruppi locali, spesso in guerra tra loro. Nel 1948
Métraux stilò una nuova classificazione delle popolazioni facenti parte del grande
gruppo Tupinamba, prima dividendole in costiere e dell’entroterra, poi attribuendo
il nome Tupinamba solamente a tre gruppi costieri e definendo gli altri con etnonimi differenti (Potiguara, Tupinikin, Timimino, Ararape, Tupinakin). Carlo Fausto
(1992) mostrerebbe come le ricerche piú attuali superino le ipotesi di Métraux in
quanto i denominati “Tupinambá” erano gruppi numerosi e divisi che si alternavano ad altri gruppi - accomunati dal fatto di non essere Tupi (i Charrua, Goitacá,
Aimoré, Tremembé) - lungo tutta la costa. L’attuale popolo Tupinamba si è formato
dalla progressiva fusione di gruppi costieri e oggi vive nello stato di Alagoas, più
precisamente nella cittadina di Olivença, da cui la denominazione di Tupinamba
de Olivenca (3). Ai Tupinamba, fra le collezioni museali, si devono gli splendidi
mantelli piumati provenienti dalla collezione Medicea. Etnonimi: Otiguara, Caeté,
Tupinambá, Tupinikin, Guaraní Timimino, Ararape, Potiguara. Di questi nomi sono
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G. Camperio Ciani, M.G. Roselli, C. Dalmonego, M. Zavattaro, F. Bigoni
riconosciuti come popoli attuali: Tupinambá, Tupiniquim, Guaraní con attualmente
tre denominazioni particolari Guaraní Kaiowá, G. Ñandéva e G. M´byá (ISA. Povos
Indígenas no Brasil. 2001-2005).
Periodo di contatto
Essendo state riunite sotto questo nome varie comunità distinte e lontane geograficamente, la data del contatto è approssimativa: si stima che i primi contatti con
le tribù costiere del Brasile risalgano al XVI secolo (1).
Originale distribuzione geografica e zona ecologica
Occupavano l’intera costa compresa tra i fiumi Parnaiba e Parà, parte del bacino
del Parnaiba e l’isola di Maranhao in Brasile (1) Fausto scrive, rifacendosi a fonti dei
cronisti, che i Tupinamba avevano occupato la costa a Nord della foce del Rio delle
Amazzoni solo dopo la conquista coloniale fuggendo dalla violenza dei portoghesi (3).
Coordinate geografiche
Lat. 1°- 4°S, Long. 42°- 48° W (1).
Stima della dimensione originale della popolazione
I gruppi locali indicati specificatamente come Tupinamba da Metraux (1948)
sono tre e solo per una di queste è indicato il numero approssimativo di indigeni:
29.000 (1).
Adattamento e regime di sussistenza
La fonte principale di sostentamento
era la coltivazione, soprattutto di manioca e mais, esclusivamente a carico delle
donne, mentre gli uomini si occupavano
della caccia e della pesca, anche organizzando vere e proprie “battute” della durata di alcune settimane dopo la stagione
delle piogge (1).
Troppo piccola
Distribuzione geografica attuale
Gli unici Tupinamba che si considerano tali sono i Tupinamba de Olivença
che vivono nella regione di Mata Atlantica nel sud dello stato di Bahia. Il loro
territorio è localizzato 10 km a nord della città di Ilheus (2).
Coordinate geografiche
Lat. 14°S, Long. 39° W
Stima attuale del numero di individui
Oggi sono rimasti 4.729 discendenti del popolo dei Tupinamba (4).
Popolazioni native del Sud America: biodiversità e antropologia museale
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Lingua parlata
Estinta. La lingua indigena era parlata fino alla fine del XIX secolo ma, a causa
dei numerosi contatti con i bianchi, il portoghese è diventato la lingua prevalente (2).
Note aggiuntive
1. Tra le attività svolte in passato dal popolo Tupinamba spicca la produzione di
ornamenti di piume variamente colorate ottenute con la tecnica detta “tapirage” che
consiste nello strofinare con secrezioni vegetali, secrezioni animali, grasso di pesci o
mammiferi acquatici o col sangue di una rana (Rana tinctoria) la pelle di un pappagallo
vivo spennato in precedenza, che dopo questo trattamento si copre di nuove penne
con colori sgargianti e screziati (1).
Fonti
(1) Metraux, A., 1948, Handbook of South American Indians, Vol. 3:The Tropical Forest
Tribes, Bulletin 143, Bureau of American Ethnology, Steward Editor
(2) http://www.socioambiental.org/
(3) Fausto, C. (1992) Fragmentos de história e cultura Tupinambá. História dos Índios no Brasil. A cura di Emanuela Carneiro da Cunha.
(4) http://www.funasa.gov.br/site/
Riflessioni sui risultati e conclusioni
Questo studio si inserisce nelle recenti rivisitazioni degli allestimenti permanenti
del Museo, tese a valorizzare le potenzialità del museo come luogo di riflessione,
dialogo, e riscoperta identitaria e occasione di collaborazione con i popoli indigeni
da cui provengono gli oggetti delle collezioni (Forni, 2007).
Dall’analisi delle schede e dei cataloghi originali è emerso chiaramente che molte
delle collezioni, prima di essere esposte al pubblico o conservate nei magazzini,
sono passate attraverso più persone durante scambi, vendite, donazioni. I nomi dei
popoli a cui appartenevano gli oggetti a volte erano assenti o riportati in modo errato, spesso confondendo i nomi di luoghi geografici con nomi di popolazioni. In
altri casi, l’interpretazione della grafia degli antichi cataloghi, su cui poi si è basata la
schedatura, può essere difficile. Inoltre, sono venute alla luce numerose eterogeneità
temporali e geografiche delle collezioni. Nonostante il contesto positivista ottocentesco in cui è nato il museo, questo ha fatto da collettore di oggetti che provenivano
dalle fonti più disparate: missionari, viaggiatori, diplomatici o appassionati che, non
essendo antropologi e non avendo chiare metodologie di riferimento nell’approccio
con i nativi e la loro cultura, non sempre erano in grado di formare una collezione di
manufatti secondo criteri scientifici e documentari corretti.
È inoltre importante riconoscere le ambiguità e le contraddizioni dell’ostensione
di oggetti etnologici. Gli Yanomami, per esempio, bruciano tutti gli oggetti quando
il loro proprietario muore e ci definiscono, per il nostro attaccamento a proprietà
materiali e per il nostro evidente desiderio di accumulo, “the merchandise people”
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G. Camperio Ciani, M.G. Roselli, C. Dalmonego, M. Zavattaro, F. Bigoni
(Kopenawa e Albert, 2013). Non possiamo inoltre ignorare il problema dell’ostensione di oggetti con profondo valore rituale per le popolazioni di origine e allontanati dal loro contesto di riferimento, né dimenticare le modalità con cui in passato
si acquisivano i manufatti, in particolare durante le conquiste e in periodi coloniali.
Difficoltà della nomenclatura e termini derogatori
Durante lo studio dei cataloghi del Museo di Antropologia ed Etnologia di Firenze relativi alle collezioni del Sud America, ci si è resi conto che molte delle indicazioni relative ai nomi delle comunità di indigeni rappresentate risultavano inesatte, e si
è quindi riscontrata la necessità di una precisa identificazione di queste popolazioni.
Oltre ai problemi legati a vari passaggi nelle catalogazioni e dalle vicissitudini delle
collezioni più antiche, la questione della nomenclatura dei popoli del Sud America è
resa più complicata da altri fattori. In passato molte popolazioni venivano identificate con i nomi attribuiti prima dai nemici, e in seguito dai colonizzatori spesso con
significato dispregiativo (Bigoni, 2011). Tra le popolazioni catalogate le seguenti presentano questo genere di problematica, riportiamo qui alcuni casi da noi identificati
nel corso dello studio sulle collezioni:
a) Botocudos: termine generico che indicava tutte le popolazioni indigene con lobi e
labbra forati. Oggi considerati gli antenati dei Krenak.
b) Chiriguanos: termine dispregiativo utilizzato dagli Inca e poi dai colonizzatori
spagnoli, l’etimologia è discussa, potrebbe derivare da “escremento” o da una
parola che indica “il popolo che muore”. Oggi sono considerati gli antenati dei
Guaranì.
c) Mataco: nome dispregiativo attribuito dalla popolazione Quechua, a coloro che
oggi si autodefiniscono Wichi.
d) Jivaro: jibaros, xebaros, termine dispregiativo che significa” barbaro”. Oggi si
autodefiniscono Shuar.
e) Araucani: termine riferito agli indigeni Mapuche che vivevano nella località di
Arauco, è poi diventato un etnonimo per indicare l’intera popolazione. Oggi si
autodefiniscono Mapuche e sono una delle più numerose popolazioni indigene
del Sud America, distribuite tra il Cile e l’Argentina. Il termine Mapuche nella
loro lingua significa “popolo della terra”. In passato sono anche stati chiamati
con il termine dispregiativo della lingua quechua “Auca” che significa ribelle e
con il termine “Promauca”, termine quechua che significa “nemico ribelle”.
Museologia e antropologia collaborativa
Nel nuovo allestimento inaugurato nel settembre 2014, uno spazio considerevole
è dedicato agli oggetti provenienti dagli Yanomami del Catrimani (foresta Amazzonica, Brasile), esposti per la prima volta al pubblico. La collezione è un esempio di
come oggi la visione dell’indigeno sia cambiata e l’importanza della collezione non
venga definita limitatamente al suo valore estetico. I manufatti degli Yanomami costituiscono il terreno di ricerca per un progetto di antropologia collaborativa con le
Popolazioni native del Sud America: biodiversità e antropologia museale
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comunità di provenienza degli oggetti (Bigoni et al., 2012). Si tratta di un percorso
tutt’altro che facile o scontato, di cui non ci è nota a priori la direzione. La possibilità stessa di coinvolgere le comunità indigene è infatti determinata dalle condizioni
sociali, politiche ed economiche dei paesi in cui vivono: le esigenze legate alla sussistenza, alla salute, alla difesa del proprio territorio e alla sopravvivenza sono per loro
certamente molto più pressanti rispetto alla comunicazione museale.
Secondo uno studio condotto dall’Unesco nel 2002 i governi nei Paesi in via di
sviluppo si trovano a fare i conti con un costante dilemma: da un lato la necessità di
proteggere le risorse naturali che sono alla base della sopravvivenza delle comunità
tribali, dall’altro quella di sfruttare tali risorse per riuscire a far fronte gli enormi
debiti accumulati negli anni. È sempre più evidente lo scontro fra istanze di conservazione e gli interessi economici di colossi internazionali che premono, con varie
strategie, sugli organi politici per attuare sfrenati piani di sfruttamento dell’ambiente,
senza alcuna preoccupazione sulle devastazioni, spesso irreparabili che causano. Un
esempio di proporzioni sempre più drammatiche è quello della produzione dell’olio
di palma e il suo impiego su larga scala nell’industria alimentare, a scapito dell’ambiente di foresta e dei suoi abitanti, ma non bisogna dimenticare anche le molteplici
implicazioni dello sfruttamento minerario. Riuscire ad integrare le collezioni storiche
con materiale e proposte che emergono dal coinvolgimento delle comunità native,
è un passo indispensabile per rendere il museo un agente efficace di comunicazione
interculturale. ma è anche l’opportunità per le stesse comunità di recuperare il tradizionale significato di questi oggetti. Queste collaborazioni hanno un grande potenziale e possono stimolare nei nativi che si trovano immersi in un contesto interetnico, la percezione della propria cultura e dei propri valori favorendo, specialmente
nelle giovani generazioni, consapevoli scelte identitarie.
Soprattutto, questi scambi devono essere motivo di riflessione sulla nostra concezione tradizionale occidentale dello “sviluppo”, su come concepiamo la natura
dell’uomo e i suoi rapporti con l’ambiente. Come scriveva nel suo stile incisivo Gregory Bateson, uno dei pensatori e scienziati più innovativi dello scorso secolo:
“…le idee che dominano oggi la nostra civiltà risalgono nella loro forma più virulenta alla
rivoluzione industriale. Esse si possono così riassumere:
a) Noi contro l’ambiente.
b) Noi contro altri uomini.
c) È il singolo (o la singola compagnia, o la singola nazione) che conta.
d) Possiamo avere un controllo unilaterale sull’ambiente e dobbiamo sforzarci di raggiungerlo.
e) Viviamo all’interno di una ‘frontiera’ che si espande all’infinito.
f) Il determinismo economico è cosa ovvia e sensata.
g) La tecnica ci permetterà di attuarlo.
Noi sosteniamo che queste idee si sono semplicemente dimostrate false alla luce delle grandi, ma
in definitiva distruttive, conquiste della nostra tecnica negli ultimi centocinquant’anni. Allo stesso
modo esse si rivelano false alla luce della moderna storia ecologica. La creatura che la spunta contro
il suo ambiente distrugge se stessa.
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G. Camperio Ciani, M.G. Roselli, C. Dalmonego, M. Zavattaro, F. Bigoni
(…) Atteggiamenti e premesse diverse -altri sistemi di ‘valori’ umani- hanno retto i rapporti
tra l’uomo e il suo ambiente o il suo prossimo in altre civiltà e in altri tempi. (…) In altre parole,
la nostra non è l’unica maniera di essere uomini…” (Bateson, 1976, 514).
Continuare ad utilizzare i vecchi stereotipi per rappresentare gli indigeni come
popoli “primitivi”, violenti e in antitesi al “progresso” e comunicare a vari livelli
questa visione distorta è certamente strumentale a coloro che sono determinati a
sfruttare l’ambiente amazzonico in modo sconsiderato (Bigoni, 2012). Le più approfondite osservazioni e riflessioni dell’antropologia attuale ci forniscono nuovi elementi e sono tutti in favore dei popoli indigeni, perché oggi abbiamo una conoscenza migliore dei valori culturali di cui sono portatori e difensori come la dimensione
collettiva della loro vita sociale, la relazione con l’ambiente, la prospettiva spirituale
(Dalmonego & Bigoni, 2013).
La storia ci insegna che la cosiddetta società “civilizzata” ha causato, con le più
grandi violenze, lo sterminio dei popoli nativi in diversi continenti, un fenomeno
che sembra ripetersi, seppure talvolta con forme più sottili e subdole, ancora oggi.
Autore corrispondente: [email protected]
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