appunto - filosofiamo

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Prof. Monti – a.s. 2016/2017 - Filosofia IV cla / sci – Epoca ellenistica: epicureismo e stoicismo
BREVE INTRODUZIONE
ALL’EPOCA ELLENISTICA
Note generali
Con la morte di Alessandro Magno e di Aristotele, avvenute nel 323 e nel 322 ac, si
apre l’epoca denominata Ellenismo.
In questo periodo si assiste a un’enorme espansione del pensiero, della cultura e della
tradizione di origine Greca: ciò accade in prima battuta ad opera delle conquiste di
Alessandro Magno e, in seguito, della conquista della Grecia stessa da parte di Roma, che
ne mutuerà la superiore cultura.
Proprio quando il pensiero Greco maggiormente si diffonde, però, esso perde parte
della sua grande carica di originalità: l'epoca ellenistica non proporrà figure destinate
all'enorme fortuna toccata a Platone ed Aristotele, pur vedendo nascere interessanti scuole
di pensiero.
Alla morte di Alessandro il suo vasto e fragile impero si sgretola, rimangono tre grandi
regni: il regno di Siria, corrispondente grosso modo all'antico impero Persiano, il regno di
Macedonia, che comprendeva anche la Grecia, e il regno d’Egitto. I reggenti di tali stati
sono in perenne lotta fra loro.
In Grecia l’orizzonte politico delle polis, seppure offuscato, è ancora presente. Se
nell'epoca classica le città greche - in particolare quelle che erano state potenze marittime
e, quindi, commerciali - avevano goduto di una certa libertà e dinamismo, ora la struttura
sociale tende maggiormente a cristallizzarsi in una netta distinzione tra ricchi e
poveri, aristocrazia e popolo minuto.
Queste condizioni producono notevoli mutamenti dal punto di vista culturale. Date le
complesse e caotiche vicissitudini dei regni e delle città, gli uomini di cultura tendono a
considerare la politica con un distacco nuovo, come se essa non potesse in alcun modo
venire compresa e imbrigliata dalla ragione. Inoltre, con il superamento della limitata
prospettiva della polis, la politica si "allontana" dal cittadino.
Per contro, si sviluppano nuove tendenze, di tipo più intimistico e riflessivo, che
danno un’importanza inedita alla sfera del privato e alla ricerca di una felicità di tipo
più personale.
Ad accompagnare la disaffezione per la politica c’è il fatto che molti sono gli uomini
che scelgono la cultura come professione, uomini che spesso vivono alla corte di
importanti signori o che risiedono in grandi istituti di ricerca scientifica che, proprio in
questi anni, fioriscono in particolare in città fuori dalla Grecia.
Il più importante di questi centri culturali è sicuramente costituito dal Museo e dalla
celebre Biblioteca di Alessandria, istituti fondati da Tolomeo I su iniziativa dei
peripatetici Stratone di Lampsaco (allievo di Teofrasto) e Demetrio Falareo.
La Biblioteca è ricordata come la più ricca di volumi di tutto il mondo antico ed è
proprio lì che nasce un concetto di "libro" e di "edizione" più vicino a quelli cui oggi
siamo abituati.
Ambito del Museo, invece, è la ricerca scientifica, ricerca che già dalla morte di
Aristotele si era andata imponendo all’interno del Liceo nella varietà ed autonomia
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delle discipline. Il momento unificante-filosofico venne lasciato un po’ cadere a favore
delle scienze particolari.
La prospettiva platonica ormai, che vedeva tutte le scienze e le arti come
propedeutiche alla dialettica, la scienza delle Idee, è stata decisamente abbandonata.
Le filosofie ellenistiche che sorgono in questo contesto hanno, pur in tutti i loro
contrasti, alcuni elementi in comune.
Innanzitutto una forte tendenza pratica. L'etica, in particolare, ha un valore
assolutamente centrale perché è vista come l'unica disciplina che può garantire
all’uomo la felicità. Queste filosofie, insomma, sembrano propugnare più uno stile di
vita che una dottrina.
Anche Platone e Aristotele avevano dato grande importanza all’etica, come abbiamo visto,
ma l’avevano (soprattutto Platone) fondata su una metafisica ed una teologia, una
prospettive che gli intellettuali di epoca ellenistica tenderanno a considerare troppo lontane
e, per certi versi, astratte.
L'Epicureismo
1.1 EPICURO: LA VITA E LE OPERE
Epicuro nacque a Samo, nel 341 ac, da famiglia ateniese e morì ad Atene nel 270 ac
circa. Studiò prima alla scuola del platonico Panfilo e poi a quella di Nausifane, un
filosofo che si richiamava a Democrito. Ben presto elaborò una sua dottrina originale che
diffuse prima a Lampsaco e a Mitilene, poi ad Atene, dove si stabilisce definitivamente nel
306 ac. Qui fonda una scuola, il Giardino.
Secondo la testimonianza di Diogene Laerzio Epicuro scrisse moltissimo. Dei suoi
libri, però, ci rimane ben poco. Ci sono tre lettere dottrinali - A Erodoto, A Pitocle, A
Meneceo e una serie di Massime capitali. Ci sono poi molti frammenti, alcuni dei quali
assai interessanti, e la testimonianza del poeta romano Lucrezio, all’interno del suo De
rerum natura.
1.2 EPICURO: NOTE GENERALI
Quando Epicuro vi giunge, Atene è ancora il centro culturale più importante del
mondo greco. La scuola che Epicuro fonda, nonostante la concorrenza di Accademia e
Liceo peripatetico, è baciata da notevole successo e in poco tempo centinaia di persone la
frequentano, tanto che Epicuro può aprire filiali in altre città della Grecia. Essa si
configura come una sorta di "gruppo di amici" aperto anche agli schiavi e alle donne.
La figura di Epicuro, poi, doveva essere assai attraente in relazione al suo stile di vita, che
si sforzava di mettere in pratica le dottrine insegnate. Il maggior motivo del successo
della sua scuola però dovette essere questo: Epicuro fu il solo pensatore della sua
epoca a proporre una filosofia interamente basata sulla ricerca della felicità.
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La speculazione sulla felicità, sul bene, sulla virtù e sull’uomo è da farsi risalire ai sofisti,
per arrivare a Socrate, a Platone e ad Aristotele, ma con Epicuro si trovano novità molto
significative. In particolare, Epicuro critica la nozione di felicità platonica perché
basata su un ideale troppo astratto e lontano (come, in effetti, già aveva fatto Aristotele
prima di lui), l'Idea di Bene, qualcosa di incerto e invisibile, qualcosa su cui risulta ben
difficile fare reale affidamento.
Seguendo un autore come Platone e le sue idee relative alla morte e alla reincarnazione, la
vita diverrebbe un cammino ben periglioso, costellato da speranze lontane e da grandi
dubbi e paure (il timore dell’espiazione delle proprie colpe, per esempio).
Epicuro rinuncia del tutto all'idea di una vita felice dopo la morte, tornando alla
concezione tradizionale della finitezza della vita dell’uomo.
Se la tradizione, però, era di stampo fortemente pessimistico (ricordiamo la religione
olimpica, nella quale l'uomo è poco più che un burattino in balia del fato e degli dèi),
Epicuro sostiene che, nonostante la sua inevitabile finitudine, l’uomo ha la possibilità
di garantirsi una vita felice, tranquilla.
Ricordiamo che anche Aristotele aveva proposto un modello di felicità del tutto
mondano, ma tale modello era fortemente aristocratico, con il suo ideale della "pura
contemplazione". La felicità propugnata da Epicuro, invece, è alla portata di chiunque.
Epicuro mostra quella che potremmo chiamare una forte tendenza pratica, che da un lato
lo porta a formulazioni di carattere fortemente dogmatico (la felicità ha bisogno di
fondamenta solide, indubitabili) e, dall’altra, una semplificazione delle spiegazioni di
tipo fisico, limitandosi a dire quanto basta per tranquillizzare l’anima nei confronti di
paure irrazionali.
1.3 EPICURO: LA FILOSOFIA
Un’antica tradizione suddivide il pensiero di Epicuro secondo la seguente
tripartizione: logica, fisica, etica, anche se la cosa non è del tutto corretta.
Quella che Aristotele chiama “logica” è definita da Epicuro con il termine di canonica e si
occupa di problemi diversi da quelli sollevati dallo stagirita.
L’ontologia di Epicuro è, sostanzialmente, una fisica. Egli, infatti, afferma che non
esiste nulla che vada al di là della materia e questo nel chiaro tentativo di confutare e
superare le metafisiche di Platone e di Aristotele. Egli può essere considerato il primo
vero materialista della cultura occidentale.
In particolare, Epicuro riprende il modello democriteo degli atomi, nel quale
confluiscono anche elementi dall’eleatismo. In effetti Epicuro, nella Lettera ad Erodoto,
afferma chiaramente come nulla si crei dal nulla, e niente di ciò che è ricade nel nulla.
Ciò che esiste, del resto, si deve poter dividere in parti che spieghino la molteplicità,
né deve essere possibile una divisione all’infinito, perché in questo modo tutto si
perderebbe nel nulla. Devono dunque esistere gli atomi, e con essi il vuoto:
diversamente non vi sarebbe il movimento.
Se fin qui Epicuro si muove sulla scorta di Democrito, non mancano alcune novità.
Innanzitutto, se gli atomi non sono più fisicamente divisibili, lo sono però teoricamente, e
si giunge ai cosiddetti minimi.
Inoltre, gli atomi non si distinguono ed articolano solo per figura, ordine e posizione,
ma anche per grandezza e peso.
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Vi sono numerose tipologie differenti di atomi - seppure non infinite tipologie, ciò che
costringerebbe ad ammettere l'esistenza di atomi direttamente percepibili dai sensi, cosa
che Epicuro nega.
Se, poi, per Democrito gli atomi avevano in sé la fonte del movimento, per Epicuro
essi si muovono in virtù del loro peso, secondo un moto rettilineo dall’alto verso il
basso.
Epicuro introduce anche un’altra, grande differenza, la cosiddetta teoria del Clinamen
(deviazione), vediamo di cosa si tratta.
Visto che gli atomi cadono in linea retta e che la loro velocità non dipende dal peso, allora
non dovrebbero mai urtarsi e mai, quindi, si potrebbe generare un qualunque corpo
composto. Accade, però, che gli atomi possano - del tutto casualmente - operare delle
deviazioni nel loro moto.
Già gli antichi trovavano che questa teoria fosse la parte più debole della dottrina di
Epicuro e in effetti non c’è alcun accenno ad essa nei frammenti conservati. Le
testimonianze, comunque, non lasciano dubbi. Del resto, se è vero che Epicuro non voleva
lasciare spazio a déi che costringessero o anche solo influenzassero la vita degli uomini,
non voleva neppure cedere ad una rigida meccanica deterministica: il libero arbitrio è un
fondamento irrinunciabile per lui, da qui la teoria del clinamen.
In effetti appare difficile capire in che modo il clinamen possa sostituirsi al
determinismo meccanico in un’ottica più vicina al libero arbitrio: essa al più
introduce il casualismo, ma si tratta di una questione di cui non tratteremo.
La cosmologia di Epicuro è assai diversa da quella dei suoi grandi predecessori: a suo
avviso i mondi sono infiniti e si creano e distruggono grazie al moto e allo scontro
degli atomi. Anche il tempo è infinito, come con Aristotele, inoltre non esiste un Dio
creatore o ordinatore (come il demiurgo di Platone) né il mondo è ordinato, stabile e
finalisticamente orientato come quello di Aristotele. Non c’è alcun fine, alcuna meta, né
un tempo circolare.
In effetti, di fronte a tutti i fenomeni naturali, Epicuro suole ricorrere a cause e spiegazioni
verosimili, cioè che non contrastano con tali fenomeni, ed il suo interesse qui si ferma. La
meraviglia, la curiosità di cui parlavano Platone ed Aristotele come forza motrice
della filosofia in Epicuro paiono assenti.
Per lui il filosofo è, al contrario, colui che non si meraviglia di nulla, che non si lascia
prendere dalla “vana curiosità”. Quello che egli conosce lo conosce con certezza, di
tutto il resto sa che esiste una spiegazione plausibile e che questa non lo può in alcun
modo turbare.
Certo, come per i pluralisti, per Socrate, per Platone e Aristotele la realtà va spiegata e non
negata: anche per Epicuro, come per Platone e altri, la vera realtà sfugge ai sensi, ma solo
perché gli atomi sono troppo minuti, non certo perché la realtà vera è un’altra!
Diversamente da molti suoi predecessori, Epicuro dà piena fiducia alla percezione
sensibile, e lo fa per un motivo etico-psicologico. Semplicemente, il negare sicurezza alle
sensazioni potrebbe produrre un turbamento dell’anima, cosa che risulterebbe danno
per il conseguimento della felicità del filosofo.
Ora, data la conoscenza degli atomi, del vuoto e del clinamen, ottenuta per via
razionale, come si spiegano quelle che chiamiamo sensazioni? Epicuro, anche a questo
riguardo, riprende la teoria democritea degli effluvi, denominati anche "simulacri", i
quali sarebbero sottili emanazioni di atomi che dall’oggetto giungono sino all’organo
sensibile, stimolandolo. Certo nel tragitto si possono perdere degli atomi, oppure l’organo
ricettivo può essere in uno stato di temporanea alterazione, e queste cose possono produrre
una sensazione che non è perfettamente corrispondente all’oggetto. Questo, però, non
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mette in crisi l’attendibilità della sensazione. Essa, essendo di origine materiale, è per
forza vera. L’errore, caso mai, nasce in sede di giudizio, nel senso che noi possiamo
dare ad una sensazione un valore che essa non ha.
Non esistono solo la conoscenza razionale, con cui si arriva alla cosmologia, né la
conoscenza sensibile è sufficiente. Noi infatti ricordiamo degli oggetti anche quando essi
non sono attualmente sotto i nostri sensi, e siamo anche in grado di fare delle previsioni. A
questo proposito Epicuro parla di anticipazioni, o prolessi.
Epicuro spiega anche la memoria in termini puramente materiali: le sensazioni,
insistendo più volte sui nostri organi di senso, vi lasciano una sorta di "impronta", ed
è questo che ci permette il ricordo. I cosiddetti universali, poi, sono un comodo espediente
per non dover ripetere tutte le volte l’intero cammino percettivo.
Contro quanto si potrebbe credere, Epicuro non nega né l’esistenza dell’anima né
quella degli déi. In questo senso egli, anzi, si vede un po’ come il restauratore della parte
buona e giusta della tradizione. Sia l’anima che gli déi infatti esistono, ma hanno
carattere completamente materiale. L’anima, in particolare, è distinta in due parti: una
"fisiologica", fatta di atomi dei quattro elementi mischiati, ed una "razionale", fatta di
atomi “del tutto speciali”. Dalla materialità dell’anima discende, naturalmente, la sua
mortalità.
Come detto Epicuro non nega l’esistenza degli déi. Essi, però, non si occupano in nessun
modo degli uomini, ed abitano, eterni e beati, gli immensi spazi vuoti fra i mondi, i
cosiddetti intermundia. In questo modo Epicuro elimina le irrazionali paure legate
all’arbitrio degli déi o ad una loro possibile punizione nei nostri confronti. D’altro
canto, non negandoli, evita di doversi battere con le tradizioni di credenza dei vari
popoli.
Epicuro porta, in relazione all’indifferenza degli déi, un’argomentazione che diverrà
classica. Esiste il male e questo è un fatto chiaro ed evidente. Dunque, se gli déi si
interessano dell’uomo, questo significa che o non possono eliminare il male, e quindi sono
impotenti, oppure non vogliono, e quindi sono crudeli. Entrambe queste opzioni, però,
sono impossibili. Sia l'impotenza che la crudeltà sono caratteristiche che non possono in
alcun modo appartenere ad una divinità.
Ma che cos’è la felicità, unico vero scopo della vita filosofica?
Essa ha, per Epicuro, un valore marcatamente edonistico, risolvendosi in una ricerca del
piacere. Per lui, però, il piacere non è un basso e volgare piacere materiale. Per Epicuro
invece il piacere è assenza di dolore, aponia, ed assenza di turbamento, atarassia.
Il vero piacere è , a suo avviso, uno stato di quiete e di serena tranquillità interiore.
Ora, occorre anche comprendere che il piacere è tale nell’esatto momento in cui lo si
prova, e ad esso non si aggiunge nulla prolungandolo all’infinito. Non ha dunque alcun
senso cercare di prolungare la durata della vita, né desiderarlo, è invece lecito cercare di
vivere bene, cioè felicemente, per tutto il tempo che abbiamo effettivamente a
disposizione.
La tranquillità dell'animo non è raggiungibile in presenza di preoccupazioni di ordine
psicologico o materiale, questo è evidente. Sin qui abbiamo eliminato la paura degli déi,
ma ce n’è un’altra, ancora più grande, ed è la paura della morte.
Si deve, innanzitutto, dire che la morte è la cessazione di ogni dolore e, da questo punto
di vista, sarebbe assurdo temerla! Inoltre, ci ricorda Epicuro, quando noi siamo
presenti essa non c’è, e quando la morte c’è, noi non ci siamo più... Quindi, di fatto,
non veniamo mai in contatto con essa! Perché mai, allora, temerla?
Rimangono, ancora, le preoccupazioni di ordine materiale. Permane, quindi il dolore, e
la vita ne è piena. Vi sono due tipi di dolore. Se il dolore è forte, allora è di breve durata e,
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nella peggiore delle ipotesi, la morte sopravviene a liberarcene. Se il dolore è debole
diventa possibile sopportarlo: il filosofo saprà ignorarlo, come se si trattasse di una cosa
che non lo riguarda.
- La tranquillità dell’anima richiede anche che si rifuggano i desideri smodati,
eccessivi. Epicuro distingue i desideri in tre categorie. Vi sono quelli NATURALI E
NECESSARI, per esempio la possibilità di nutrirsi e di proteggersi dalle intemperie. Vi sono,
poi, quelli NATURALI, MA NON NECESSARI: per esempio il vestire begli abiti, il mangiare
cibi raffinati... L’ultima categoria, quella assolutamente da evitare, riguarda i desideri NON
NATURALI E NON NECESSARI, quelli legati al denaro, al potere, al successo.
In effetti Epicuro non stabilisce quali siano con precisione i comportamenti da evitare,
perché questo dipende in parte anche dalle inclinazioni di ciascuno. Il punto fermo è che la
tranquillità dell’animo non venga turbata.
“Vivi nascosto!” ci esorta Epicuro, ma questo non vuol dire che l’uomo debba per forza
fuggire ogni attività di tipo politico o sociale. Significa invece che il filosofo deve
interessarsi a questioni sociali e politiche quel tanto che basta a garantire la propria
tranquillità, non di più.
Le leggi, la giustizia, hanno un valore puramente pratico e convenzionale. I concetti di
giustizia infatti emergono solo in relazione a date leggi. Ciò che oggi è giusto domani, in
mutate condizioni, può ben essere ingiusto.
Certo con questo Epicuro non vuole giustificare l’anarchia: di fatto, a suo parere, i filosofi
dovrebbero fondare delle piccole comunità in cui fondamentale sia la ricerca della
tranquillità e il rapporto di amicizia tra i membri.
L’epicureismo entrò anche nel mondo latino, ma non riuscì mai ad avere grande
diffusione a causa del suo forte dogmatismo, e quindi la sua incapacità a rinnovarsi, ed
anche a causa della sua prospettiva puramente terrena, che non si conciliava con il
rinascente bisogno di credenze religiose.
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Lo Stoicismo
2.1 NOTE INTRODUTTIVE
Grande fu l’influenza di questo indirizzo di pensiero in tutta la filosofia posteriore, sia
in epoca medievale che moderna. Lo stoicismo ebbe un grande sviluppo soprattutto in età
tardo ellenistica, in particolare presso il mondo romano.
Perché la cultura latina si mostrò tanto interessata allo stoicismo?
Innanzitutto, esso era caratterizzato da una forte carica morale e religiosa, che rispondeva
bene alle rinascenti esigenze di spiritualità che si fanno sentire a partire dal I secolo ac.
Inoltre esso conteneva nozioni intellettuali, morali e politiche tali da riuscire molto gradito
ai romani e alla loro mentalità.
- Data la lunga durata del movimento, gli storici tendono a dividerlo in tre periodi. La
Stoà antica, che occupa il III secolo ac, dominata dalle figure di Zenone, Cleante e
Crisippo. La Stoà di mezzo, che giunge fino al I secolo ac e i suoi esponenti più noti sono
Panezio e Posidonio. La Stoà nuova, che giunge fino al II secolo dc, in cui ricordiamo
Seneca, lo schiavo Epitteto, l’imperatore Marco Aurelio.
2.2 BREVE STORIA
Fondatore della scuola fu Zenone di Cizio (nell’isola di Cipro), uomo di probabili origini
fenice. Giunse ad Atene all’età di ventidue anni, Compì il suo apprendistato presso il
platonico Posidonio (lo stesso di Epicuro), il megarico Stilpone e il cinico Cratete, che lo
influenzò molto.
Intorno al 300 ac fondò la sua scuola, che prese il nome di “Stoica” dal luogo dove i
suoi membri si ritrovarono, ovvero sotto un portico (stoà). In effetti Zenone, essendo
straniero, non poteva possedere beni immobili in Atene.
- Alla morte di Zenone, nel 262 ac, alla guida della scuola gli succedette Cleante di Asso,
attratto dalla stoà per la sua forte componente religiosa. Questi, però, non aveva una grande
originalità filosofica e, di fatto, durante i circa trent’anni del suo scolarcato il pensiero
stoico attraversò un momento di crisi. Gli Succede Crisippo di Soli, in Cilicia, che riuscì a
ridare slancio alla scuola, sistemandone il complesso dottrinale.
In effetti noi conosciamo lo stoicismo proprie nella sistemazione di Crisippo.
2.3 CARATTERI GENERALI
Nonostante le opere degli stoici antichi siano in gran parte andate perse, ci sono
numerosi frammenti e testimonianze, grazie alle vaste simpatie di cui godette il
movimento. Inoltre è assai difficile distinguere i contributi dei singoli maestri. Crisippo,
per esempio, introdusse diverse novità rispetto a Zenone pur protestando un’assoluta
fedeltà al maestro.
Anche per i filosofi del portico, compito della filosofia è di assicurare all’uomo una
vita felice.
Di fatto, anche la filosofia stoica è essenzialmente di carattere immanentistico e
materialistico.
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Zenone rifiuta il dualismo di Platone (mondo sensibile vs mondo delle Idee) e anche ciò
che di esso rimaneva in Aristotele. Pur non negando del tutto la sopravvivenza dell’anima
dopo la morte, la filosofia stoica si muove in un orizzonte mondano. È in questo mondo ed
in questa vita che l’uomo deve trovare la sua felicità, rifuggendo sia le speranze di tipo
escatologico sia il totale disimpegno e disinteresse propugnato da Epicuro.
- Zenone mostra una sincera avversione per l’epicureismo e giunge ad accusare questa
scuola di preoccuparsi solo di procurare all'individuo una "felicità privata" nella forma di
un mero appagamento dei sensi. Egli, nel complesso, condanna fermamente
l’individualismo epicureo.
2.4 LA FILOSOFIA DELLA STOÀ ANTICA
Lo stoicismo accetta la divisione della filosofia in logica, fisica ed etica, inaugurata da
Senocrate (allievo di Platone). Se è vero che l’etica è la parte più importante, bisogna
però dire che essa si fonda sulle altre due. Gli stoici inventano numerose immagini per
illustrare questo rapporto, interessante è l’immagine del frutteto: il muro di cinta
corrisponde alla logica, gli alberi alla fisica e i frutti l’etica.
La fisica stoica è fortemente materialistica. In questo, la scuola stoica prende le mosse
dal Sofista di Platone, dove il filosofo afferma che veramente reale è solo ciò che agisce e
patisce. Ma, aggiungono gli stoici, solo ciò che è materiale può agire e patire.
Per gli stoici tutto ha una natura materiale, non solo quanto noi definiremmo “sostanze
chimiche” o “elementi”: anche i concetti astratti come quelli di “giustizia”, “virtù”, ecc.
hanno una dimensione assolutamente concreta.
La giustizia, per esempio, è l’insieme delle forme che essa assume nelle persone e nelle
cose giuste: comportamenti giusti, cose giuste: tutto è concreto!
Per gli stoici la distinzione fra forma e materia, operata da Platone e Aristotele, non è
da negare, ma va intesa in questo modo: tutto l'universo è costituito da una sola e
identica materia la quale, di volta in volta, si specifica (diciamo: si "specializza") nei ruoli
e nelle funzioni più varie. La forma stessa, dunque, è sempre qualcosa di materiale.
Quello degli stoici è una forma di monismo: uno solo è il principio della realtà, di ogni
realtà, la materia!
In relazione alla fisica stoica, l'epicureismo ci fornisce un utile contraltare: si tratta, infatti,
di dottrine radicalmente opposte.
La “materia” per gli stoici non è qualcosa di inerte, di morto (come, tendenzialmente, noi
la vediamo), invece è "viva", attiva, compatta (il vuoto non esiste!) e divisibile all'infinito.
Esiste un unico mondo guidato da una provvidenza divina, provvidenza che crea un
destino che gli uomini non possono mutare nella sostanza.
Epicuro, come ricorderete, ammetteva infiniti e piccolissimi "mattoni", gli atomi, che
esistono nel vuoto e che creano le cose unendosi e disfacendosi senza obbedire ad
alcuna regola di tipo provvidenziale. Gli stoici invece indicano una materia unica ed
infinitamente divisibile, che è in grado di mutare e di determinarsi in modi diversi
senza però ammettere né salti né buchi.
Gli stoici danno a questa materia numerosi appellativi: physis, fuoco, pneuma, logos...
Per spiegare le diversità fra le cose individuali essi non ricorrono a diverse forme, come
Platone ed Aristotele, ma parlano di un diverso “temperamento” o diversa “tensione”
dell’unico principio materiale-formale.
Gli stoici erano d’accordo con Platone nel considerare il cosmo come un grande
"essere vivente", una sorta di organismo orientato verso un fine. Questo principio è,
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naturalmente, anche Dio. La filosofia degli Stoici ha i caratteri di un panteismo: la
divinità sostanzialmente si identifica con il mondo.
La materia, che occupa l’intero mondo e che non lascia vuoti, è costituita dagli ormai
tradizionali quattro elementi e, fra questi, il fuoco è quello da cui gli altri tre
derivano. In effetti i cieli sono costituiti non di etere, come voleva Aristotele, ma di fuoco.
L’unicità e l’unione della materia hanno anche un’altra importante conseguenza: il
più piccolo e remoto accadimento influenza tutto il mondo. Gli stoici, in questo senso,
giustificano le credenze astrologiche. Essi riabilitano anche il politeismo tradizionale,
identificando questi déi con gli elementi e le forze della natura.
Dato che la materia è unica ed onnicomprensiva, in che modo da essa si generano e si
corrompono i molteplici oggetti dell’esperie nza? Gli stoici parlano a riguardo di
ragioni seminali, le quali costituiscono la struttura di ogni singolo oggetto, struttura da
sempre presente in potenza nella materia (si noti il debito con Aristotele).
Tutto ciò che esiste si genera, evolve e si distrugge in accordo con l’immutabile
destino che governa il mondo, destino che coincide con la provvidenza divina, la quale
tutto guida verso un buon fine.
Il destino degli stoici, dunque, non ha l’accezione pessimistica di cui era intrisa l’idea
tradizionale del fato.
- Da quanto abbiamo visto, è evidente che per gli stoici ogni pur piccolo avvenimento, data
l'intrinseca unità del tutto, ha la dignità e l’importanza di ciò che discende direttamente dal
logos.
Il continuo mutamento, le infinite trasformazioni che possiamo osservare nel mondo
naturale non rendono questo mondo in qualche modo carente (come in effetti era, di
fatto, per Platone): esso è, invece, perfetto.
Come sostenere che, nella mutazione continua, vi è perfezione? Abbiamo visto come assai
spesso il divenire, la trasformazione, sia stata vista in termini piuttosto negativi... Zenone
propone questa risposta: tutto ciò che accade nel mondo si ripete ciclicamente ed
esattamente nello stesso modo!
Nasceranno un altro Platone e un altro Aristotele, agiranno e penseranno nella stessa
identica maniera e questo vale per tutto e per tutti. In questo modo il mondo - anche se,
come vediamo, è in continuo divenire - ha una sua perfezione e immutabilità.
Una sola è la materia, come abbiamo visto: uno solo è il logos. Le sue diverse
manifestazioni, però, si possono mettere in scala gerarchica. Si parte dal gradino più
basso, quello degli oggetti inanimati, si sale verso gli essere viventi più semplici, le piante,
si giunge agli animali e infine, nel punto culminante, vi è l'uomo, la più elevata
manifestazione e concretizzazione del logos.
Per quale motivo gli esseri umani sono in cima a questa “classifica”? Solo l’uomo,
nell’insieme di tutto ciò che esiste, possiede il giudizio etico, morale; solo l’uomo
possiede il pensiero razionale.
L’anima umana, anch’essa materiale, è uno pneuma particolarmente sottile e puro.
Anche gli stoici ammettono una divisione interna all’anima in una parte fisiologica ed in
un nucleo che sovrintende alla razionalità ed al giudizio morale.
2.5 LA LOGICA DEGLI STOICI
La logica stoica si può dividere in due parti. La prima corrisponde all’incirca alla canonica
degli epicurei, e si occupa della teoria della conoscenza; la seconda invece si occupa di
analizzare i fondamenti funzionali del ragionamento e del linguaggio e prende qui il nome
di dialettica (la logica in senso aristotelico, insomma).
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Anche gli stoici, proprio come gli epicurei, pongono la sensazione alla base di ogni
possibile conoscenza. L’oggetto conosciuto lascia una vera e propria "impronta"
sull’organo di senso, impronta causata dal contatto materiale, e l'impronta, a sua volta,
produce una "impressione psicologica" che gli stoici chiamano fantasia.
Ma, dato il continuo divenire del mondo e la palese esistenza di esperienze ingannevoli,
come si può distinguere la sensazione vera dalla falsa? Questo problema per noi non è
certo nuovo...
Gli stoici ritengono che l’anima umana, la sua parte intellettuale, dato che deriva dal logos
in modo eminente è in grado di distinguere tra le due possibilità. Ci sono sensazioni che
per la loro stessa evidenza si impongono come vere, sono le cosiddette rappresentazioni
comprensive. Le altre sensazioni, più dubbie e incerte, richiedono una sospensione del
giudizio, e sono le rappresentazioni non comprensive.
Questa distinzione provoca una polemica. Quale sarebbe il citato criterio di evidenza?
Detto con maggior chiarezza: quando possiamo affermare che una certa sensazione è
evidente?
Per gli stoici è "evidente" quella sensazione (visiva, uditiva, ecc.) che si riferisce ad un
oggetto che, in quel momento, è presente. La presenza dell'oggetto però, di per sé, pare
insufficiente: infatti è solo la sensazione che ho di un oggetto (per esempio il fatto che lo
vedo davanti a me) ad attestare la presenza: quindi la presenza parrebbe logicamente
inadatta a dimostrare l'affidabilità, l'evidenza, della sensazione stessa!
C’è "evidenza", di fatto, quando l’impressione psicologica della presenza risulti così forte
da costringerci a credere alla verità di quanto la sensazione ci dice.
Attenzione: la conoscenza intellettuale non aggiunge nulla a quella sensibile, ma si
limita ad organizzare schematicamente le rappresentazioni comprensive. Vi sono, in
effetti, delle prolessi, o nozioni comuni, che si sviluppano nell’uomo in modo naturale e
sin dall’infanzia, ma anche queste hanno origine sensibile. Non vi è conoscenza alcuna,
dunque, che non parta dai sensi.
- Come abbiamo avuto modo di vedere, Platone e Aristotele, seppure in modo diverso
l'uno dall'altro, hanno sottolineato la distinzione fra oggetto e concetto (o significato).
A questi due termini gli stoici ne aggiungono un terzo.
C'è infatti:
1) L'oggetto materiale
2) Il concetto o significato (di quell'oggetto)
3) La parola, scritta o orale, che indica l'oggetto.
La seconda parte della logica stoica, l’analisi del ragionamento, è portata avanti
soprattutto da Crisippo.
Mentre Aristotele si era occupato delle principalmente asserzioni, Crisippo punta
l’indice sulle proposizioni ipotetiche (del tipo: "Se ti fossi impegnato nello studio, allora
saresti stato promosso") e sulle disgiuntive (del tipo "Puoi andare o al cinema o in
discoteca con gli amici").
- Mentre la logica aristotelica aveva nel suo carattere formale la maggior sottolineatura,
Crisippo voleva elaborare una logica che fosse maggiormente legata alla realtà dei fatti.
Crisippo, dunque, non lega fra loro dei concetti ("uomo" e "mortale" per esempio) per
verificarne verità e falsità, ma si concentra su intere proposizioni (al giorno d'oggi, una
logica come quella stoica prende il nome di logica proposizionale, dove la funzione di
soggetto è assegnata non ad un termine ma ad un’intera proposizione; la logica aristotelica,
invece, prende il nome di logica predicativa) della cui verità e falsità bisogna interrogare
l’esperienza. Le premesse, dunque, non esprimono più un rapporto tra concetti, ma
enunciati su dati di fatto reali.
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Esempio:
se è vero che è giorno
allora è vero che c’è luce
-----------------------(esperienza)------------------------
c’è luce
Dall’esempio si capisce chiaramente che le premesse sono valutate in relazione a un dato
di fatto esterno: guardo fuori dalla finestra e verifico se effettivamente è giorno...
2.6 L'ETICA STOICA
Abbiamo già detto di come, anche per gli stoici, l’etica sia la parte più importante della
filosofia: la sapienza ha il compito fondamentale di rendere felice la vita dell’uomo.
Anche per gli stoici, come per gli epicurei, la felicità è assenza di turbamenti,
atarassia, e di passioni, apatia. La vita pratica è privilegiata rispetto alla conoscenza
intellettuale, come per gli epicurei, ma gli stoici ritengono di dover fondare questa vita
proprio sulla retta conoscenza, diversamente da Epicuro.
Epicuro identificava la felicità con il piacere individuale. Certo, bisogna poi, caso per
caso, vedere in che cosa consistano tali piaceri, ma alla fine ognuno decide per se stesso,
pur scartando a priori i più bassi piaceri della materia. Questo per gli stoici non funziona.
Prima di sapere che cosa veramente costituisca la vera felicità dell’uomo, bisogna
indagare a fondo la natura umana e comprenderla appieno.
Tutte le creature tendono alla propria conservazione, ovvero a realizzare in pieno le proprie
peculiari inclinazioni. Se il seguire la naturale inclinazione per Epicuro poteva
direttamente coincidere con il piacere, per gli stoici non è così. Basta, del resto,
osservare gli animali: si vede che molti di essi sono disposti persino a perdere la vita pur
di salvare la propria prole. Oppure si pensi a un bambino: quanti sforzi compie, sforzi certo
non orientati al semplice piacere, per imparare a camminare!
Qual è l’inclinazione propria dell’uomo? È il logos o, per dir meglio, l’obbedienza ad
esso. Vivere in accordo con il logos non vuol dire isolarsi nel privato, ricercando una
felicità "privata", ma, al contrario, bisogna cercare una vita comunitaria ed
armoniosa.
La giustizia e la virtù non sono affatto convenzioni, come con Epicuro, ma derivano
direttamente dal logos che è in noi. L’uomo è per natura animale sociale e, sempre per
natura, deve perseguire gli ideali di giustizia e di rispetto reciproco. Solo il saggio conosce
la natura dell’uomo, ovvero il logos, e solo questi sa che seguire il logos, la virtù,
rende felici. Lo stoico agisce per obbedire al logos e, di conseguenza, è felice. L’epicureo,
invece, se obbedisce al logos è perché sa che non facendolo ne ricaverebbe infelicità.
Possiamo dire che alla base dell’agire dell’epicureo non c’è un saldo principio morale,
ma solo l’individuale ricerca del piacere. Per gli stoici, come per Socrate e Platone,
l’azione per essere morale deve essere governata da una ragione più alta e certa. In questa
prospettiva, per gli stoici la felicità stessa è in secondo piano, perché la sottolineatura
maggiore sta sul conformarsi al logos, dunque sulla virtù in sé e per sé.
È così che è quel comportamento dettato solo dal logos e che non ha alcun secondo
fine, per esempio la riconoscenza di qualcuno.
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Di fatto solo il saggio può realizzare un KATHORTOMA, perché solo lui si lascia
completamente guidare dal logos. Non c’è l’eudamonia socratica, ma altri punti comuni.
La virtù è una sola, e la virtù è conoscenza. Il saggio non ha precetti morali:
conoscendo il logos sa sempre cosa deve fare. Il malvagio invece è ignorante, e dunque
agisce male.
Va anche detto che, al di fuori di tutte quelle situazioni che richiedono una scelta
morale, bene e male non esistono. Gli oggetti, per esempio, non sono di per se stessi né
bene né male, ma indifferenti. Anche cose come la bellezza o la bruttezza, la ricchezza o la
povertà, la salute e la malattia sono indifferenti proprio perché non prevedono una scelta
morale (questo contro quanto aveva affermato Aristotele).
- Questo così ferreo rigorismo avrebbe impedito allo stoicismo di avere la grande
diffusione che di fatto poi ebbe: i suoi fondatori se ne resero ben conto.
Ecco quindi che il saggio che compie i KATHORTOMA è una figura limite, ideale, e che
anche le cose indifferenti lo sono solo dal punto di vista morale. In effetti, anche il saggio
preferirà essere bello e ricco che non brutto e povero. In questo senso vi sono anche azioni
che risultano convenienti, perché migliorano le condizioni di ordine sociale o individuale.
Queste azioni non sono dei KATHORTOMA, ma è giusto e doveroso compierle.
Da quanto detto, capiamo che l’etica stoica si fonda sul libero arbitrio, sulla libera
scelta di chi compie l’azione virtuosa. Ma come accordare questo libero arbitrio con il
destino incoercibile e la teoria della ripetizione ciclica? È Crisippo, più di tutti, che si
occupa di tali questioni. Egli individua delle cause remote, o meccaniche, e delle cause
prossime.
Facciamo un esempio: alcune delle cause per le quali io posso alzarmi dal letto - come il
fatto di non essere malato o infermo, il fatto di avere gambe che funzionano a dovere, ecc.
- non dipendono da me, ma dal destino: sono cause remote, appunto. Il fatto poi di alzarmi
effettivamente, una volta che le cause remote me lo consentono, dipende da me, dalla mia
volontà di farlo: queste sono le cause prossime.
Altro esempio: un pallone ha in se stesso, nella sua sfericità, la causa remota del suo poter
rotolare. Ma perché questo avvenga di fatto esso deve essere spinto giù per la china. Nella
vita dell’uomo ci sono cose, lo si vede chiaramente, che spesso non vanno secondo i
nostri desideri e aspirazioni, nonostante tutti i nostri sforzi. Gli stoici vedono bene
come questo possa turbare l’animo, ma rassicurano: il destino non ha nulla di
arbitrario o crudele, ma è regolato secondo un ordine provvidenziale!
Per tutto ciò che non è alla portata della nostra influenza, dunque, possiamo
tranquillamente affidarci alla provvidenza. In effetti l’uomo è libero non tanto nel senso
che può scegliere fra bene e male, ma è tanto più libero quanto maggiormente accetta
il primato del logos e quindi l’agire retto e morale. È come se fossimo legati ad un
carro: un conto è seguirlo controvoglia, un conto è assecondarne il movimento. Questa
seconda è l’opzione degli stoici.
Nel mondo greco erano però riconosciuti anche impulsi irrazionali interni all’uomo,
come ad esempio l’ira, che ne limitano la libertà di scelta. Gli stoici non se la sentono
di negare tali impulsi, seppure non vogliono ammettere l’esistenza dell’irrazionalità
nell’uomo. Essi allora dicono che tali passioni sono generate da un assenso eccessivo e
frettoloso a rappresentazioni di particolare violenza, come ad esempio il vedere qualcuno
che fa del male ad un proprio amico. Compito del saggio sarà allora rafforzare la sua
visione del logos, in modo da rimanere imperturbato anche davanti agli avvenimenti
più gravi. Persino la morte deve essere vista con sereno distacco e, anzi, alcune
testimonianze affermano (non sappiamo se la cosa sia vera) che lo stesso Zenone si suicidò
quando ebbe l’impressione che fosse giunta la sua ora. La storia romana sarà ricca di
personaggi che si tolgono la vita con stoica tranquillità.
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Prof. Monti – a.s. 2016/2017 - Filosofia IV cla / sci – Epoca ellenistica: epicureismo e stoicismo
- Come ultima cosa, va sottolineata la grandissima importanza che viene data alla
partecipazione alla vita politica e civile. Gli stoici rifiutano l’idea epicurea (e di alcuni
socratici minori) secondo cui si debba cercare una felicità privata, o al massimo con
alcuni amici. Essi, infatti, ritengono che la legge sia diretta emanazione del logos: le leggi
sono insite nella natura stessa e per questo è compito del saggio fare in modo che queste
emergano e vengano rispettate, solo così il mondo sarà più civile e vicino alla razionalità
del logos. Lo stoico, proprio perché conosce il logos e se ne lascia governare, deve
consigliare i governanti o governare lui stesso. Nei primi stoici questo rimase un ideale
irrealizzato, ma in figure come Marco Aurelio la figura dello stoico politico si realizzò in
pieno. È assai importante ricordare anche che la visione politica degli stoici aveva
ormai superato il limitato orizzonte della polis. Tutti gli uomini, per loro, formano
un’unica società governata da un unico principio.
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