La realtà è il sapere della realtà

PERCORSO 4/SCHEDA 1 COME POSSO CONOSCERE? COSA POSSO CONOSCERE?
1 La realtà è il sapere della realtà.
1 a. C’imbattiamo quindi subito nella veduta assai comune intorno alla storia della filosofia, secondo cui essa non dovrebbe
far altro che ritessere la narrazione delle opinioni filosofiche quali esse si sono presentate e sono state esposte nel corso dei
tempi. Quando si parla con urbanità, a questo materiale si dà il nome di opinioni; quelli invece che credono di poter dare un
giudizio più profondo, chiamano questa storia addirittura galleria delle pazzie, o almeno dei traviamenti dell’uomo che si
inabissa nel pensiero e nei puri concetti. Tale veduta la si può udir manifestare non soltanto da coloro che confessano la loro
ignoranza in fatto di filosofia (ed essi la confessano, perché secondo l’opinione comune l’ignoranza non può far loro ostacolo
a sentenziare su ciò che sia filosofia, anzi ognuno è sicuro di poter giudicare del valore e dell’essenza della filosofia senza
capirne un’acca), ma anche da persone che hanno scritto e scrivono storie della filosofia. Una storia, concepita in tal modo
come una filastrocca di opinioni diverse, diventa curiosità oziosa, o, se si vuole, interesse di semplice erudizione. Infatti
l’erudizione consiste principalmente nel sapere una quantità di cose inutili, che non hanno in sé alcun contenuto e alcun
interesse all’infuori di quello costituito appunto dal semplice fatto d’averne conoscenza. […]
Se la storia della filosofia fosse soltanto una galleria di opinioni — sia pure relative a Dio e all’essenza delle cose naturali e
spirituali — essa sarebbe una scienza superfluissima e noiosissima, per quante utilità si potessero mai addurre che si
ricaverebbero da siffatto movimento di pensiero e d’erudizione. Che vi può esser di più inutile che l’imparare una serie di
semplici opinioni? che cosa di più indifferente? Basta dare un’occhiata alle opere che espongono la storia della filosofia
come semplice serie di opinioni, per veder subito quanto siano aride e senza interesse.
Un’opinione è una rappresentazione soggettiva, un pensiero casuale, un’immaginazione, che io mi formo in questa o quella
maniera. e altri può avere in modo diverso: l’opinione è un pensiero mio, non già un pensiero in sé universale, che sia in sé e
per sé. Ma la filosofia non contiene opinioni, giacché non si danno opinioni filosofiche. Chi parla di opinioni filosofiche, anche
se ha scritto storie della filosofia. rivela subito la mancanza dei primi fondamenti. La filosofia è scienza oggettiva della verità,
scienza della necessità della verità, conoscenza concettuale, e non già opinare e filza di opinioni.
(G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, I, pp. 20-21)
1. b. Sebbene la storia della filosofia sia una vera storia, tuttavia non ha da fare con un mondo scomparso. Contenuto di
questa storia sono i prodotti scientifici della razionalità; ed essi non sono transitori. Ciò ch’è stato conseguito in questo
campo è il vero, ed esso è eterno, né può esistere in un tempo e in un altro no; è vero, non soltanto oggi o domani, ma fuori
di ogni tempo, e in quanto esiste nel tempo, è vero sempre ed in ogni tempo. Certamente [...] la vita temporale e i destini
esteriori dei filosofi non sono più, ma la loro opera, i pensieri, non li hanno seguiti nella tomba, giacché il contenuto
razionale delle loro opere non è stato loro immaginazione o sogno. La filosofia non è sonnambulismo; ma piuttosto la più
vigile coscienza; e l’opera di quegli eroi consiste appunto nell’aver tratto il razionale in sé dalle profondità dello spirito,
dov’esso si trova dapprima soltanto come sostanza, come essenza interiore, e nell’averlo recato alla luce, nell’averlo
sollevato alla coscienza, al sapere; consiste, insomma, in un progressivo risveglio. (HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, I,
p. 50)
2. Che cosa significa conoscere?
Si può mangiare senza conoscere le leggi della digestione, respirare senza conoscere le leggi della respirazione,
pensare senza conoscere le leggi e la natura del pensiero, conoscere senza conoscere la conoscenza. Ma, mentre l'asfissia e
l'intossicazione si fanno immediatamente sentire in quanto tali nella respirazione e nella digestione, l'errore e l'illusione
hanno questo di caratteristico, che non si manifestano appunto come errore e illusione. "L'errore consiste semplicemente
nel fatto che non sembra esser tale" (Cartesio). [...]
Quando il pensiero scopre il gigantesco problema degli errori e delle illusioni che non hanno mai cessato (e non
cessano) di imporsi come verità nel corso della storia umana, quando scopre, correlativamente, di racchiudere in se stesso il
rischio permanente di errore e di illusione, è allora che deve cercare di conoscersi.
E tanto più deve farlo in quanto non possiamo più oggi attribuire le illusioni e gli errori soltanto ai miti, alle
credenze, alle religioni, alle tradizioni ereditate dal passato oppure anche semplicemente all'insufficiente sviluppo delle
scienze, della ragione e dell'educazione.
La nostra scienza ha compiuto giganteschi progressi nell'ambito della conoscenza, ma gli stessi progressi della
scienza più avanzata, la fisica, ci avvicinano a un incognito che sfida i nostri concetti, la nostra logica, la nostra intelligenza, e
ci pongono il problema dell'inconoscibile. La nostra ragione, che ci sembrava il mezzo di conoscenza più sicuro, scopre
dentro di sé una macchia cieca. Che cos'è la nostra ragione? È universale? razionale? Non può trasformarsi nel suo contrario
senza rendersene conto? [...] Abbiamo un bisogno vitale di situare, riflettere, reinterrogare la nostra conoscenza, cioè di
conoscere le condizioni, le possibilità e i limiti della sua capacità di giungere a quella verità cui mira. [...]
La ricerca della verità è ormai legata a una ricerca sulla possibilità della verità. Essa racchiude quindi in sé la
necessità di interrogare la natura della conoscenza per esaminarne la validità. Noi non sappiamo se dovremo abbandonare
l'idea di verità, se cioè dovremo riconoscere come verità l'assenza di verità. Noi non cercheremo di salvare la verità ad ogni
costo, cioè a costo della verità. Tenteremo piuttosto di situare la lotta per la verità nel nodo strategico della conoscenza
della conoscenza.
La nozione di conoscenza ci sembra una ed evidente. Ma, non appena la si interroga, ecco che esplode, si
diversifica, si moltiplica in innumerevoli nozioni, ognuna delle quali pone un nuovo interrogativo. [...] Così già a un primo
sguardo superficiale, la nozione di conoscenza va a pezzi. Se si vuole, piuttosto, tentar di considerarla in profondità, essa
diviene sempre più enigmatica. È forse un riflesso delle cose? Una costruzione della mente? Un disvelamento? Una
traduzione? E quale? Qual è la natura di ciò che noi traduciamo in rappresentazioni, nozioni, idee, teorie? Cogliamo il reale o
soltanto la sua ombra?
Noi capiamo, ma capiamo cosa vuol dire capire? Captiamo o attribuiamo delle significazioni, ma cosa significa il
termine "significazione"?
Noi pensiamo, ma sappiamo pensare cosa vuol dire pensare?
Ignoranza, incognito ombra, ecco quel che troviamo nell’idea di conoscenza. La nostra conoscenza pur così intima e
familiare dentro di noi, ci diviene strana ed estranea non appena vogliamo conoscerla.
E. Morin, La conoscenza della conoscenza, in Il Metodo, tomo 3 Feltrinelli, Milano, 1989
3. Il labirinto. Conoscibilità o inconoscibilità della realtà?
Nella poetica di Jorge Luis Borges (1899-1986) svolge un ruolo centrale il tema del labirinto. Fin dai più antichi miti greci, esso
ha sempre simboleggiato l'incomprensibilità del mondo, la sua impenetrabilità per la ragione umana. Ma nelle opere dello
scrittore argentino assume una connotazione più complessa e ambigua: se da un lato può rappresentare la mancanza di
senso al di sotto dell'ordine e della regolarità apparenti, dall'altro può anche suggerire l'esistenza di un misterioso significato,
nascosto nell'inestricabile intreccio in cui sembrano smarrirsi i fili della realtà. Borges utilizza un apparato concettuale
derivato dalle più disparate concezioni metafisiche, quasi un magazzino di idee bizzarre e spesso fra loro incoerenti, a cui
attingere per creare le invenzioni della sua letteratura fantastica. Così egli descrive un mondo che a volte appare il parto
delirante di una mente demiurgica malata, mentre in altre occasioni sembra manifestare un ordine ossessivamente preciso,
in cui tutti i singoli componenti, anche quelli che potrebbero apparire trascurabili, hanno una loro collocazione e un loro
significato unici e insostituibili. Ma, in fondo, per l'uomo la realtà resta un labirinto in cui è fin troppo facile smarrire la via e
anche se stessi.
Questo è il labirinto di Creta. Questo è il labirinto di Creta il cui centro fu il Minotauro. Questo è il labirinto di Creta il cui
centro fu il Minotauro che Dante immaginò come un toro con testa di uomo e nella cui rete di pietra si persero tante
generazioni. Questo è il labirinto di Creta il cui centro fu il Minotauro che Dante immaginò come un toro con testa di uomo e
nella cui rete di pietra si persero tante generazioni come Maria Kodama ed io ci perdemmo. Questo è il labirinto di Creta il
cui centro fu il Minotauro che Dante immaginò come un toro con testa di uomo e nella cui rete di pietra si persero tante
generazioni come Maria Kodama ed io ci perdemmo quel mattino e seguitiamo a perderci nel tempo, quest'altro labirinto.
J. L. Borges, Il labirinto, trad it. di D. Porzio, in Tutte le opere, Mondadori, Milano 1998, p. 1385
Borges ha sempre insistito sul fatto di essere incapace di percepire la realtà se non attraverso la mediazione delle
interpretazioni letterarie: una volta che venne accompagnato sull'antica rocca incaica del Machu Picchu, che tanta
impressione desta comunemente nei visitatori, dichiarò di non aver provato alcuna particolare sensazione, perché non
ricordava nessun testo in cui vi fosse una descrizione di quelle rovine. Tale atteggiamento si venne accentuando nell'ultima
parte della sua esistenza, in cui sprofondò progressivamente nella più completa cecità: questa menomazione sensoriale
venne interpretata dallo scrittore quasi come una benedizione, che gli consentiva di vivere in un mondo di pura elaborazione
intellettuale e fantastica. Il labirinto di cui si parla in questo breve componimento non è tanto un edificio reale, quanto un
archetipo culturale elaborato e rielaborato all'infinito, simbolo eterno dell'assurdità e incomprensibilità del reale. Il punto di
partenza è sì il labirinto minoico, ma non tanto quello storico e materiale che l'archeologia ha creduto di poter identificare
nell'intricata architettura del palazzo di Cnosso, quanto il luogo attorno al quale si articolava il mito cretese, già esso frutto di
una produzione culturale che le successive riletture non hanno fatto che rendere sempre più complesso e impenetrabile, il
labirinto è una delle immagini preferite di Borges, che la utilizza in particolare per esprimere la natura del tempo: non certo il
tempo lineare e unidirezionale della scienza, ma quello infinitamente complesso dell'esperienza interiore, che la memoria
consente di percorrere in tutte le direzioni. In questo labirinto del mondo e del tempo «si persero tante generazioni», così
come il poeta stesso e Maria Kodama, compagna di molti anni della sua esistenza.