Il merito non è un quiz / di Giorgio Israel ROMA (25 giugno) – Il richiamo del Governatore della Banca d’Italia è un’ulteriore autorevole manifestazione della consapevolezza sempre più diffusa che occorre riavviare un sistema dell’istruzione inceppato. Ma una visione chiara dei rimedi non esiste ancora. È sorprendente la diffusa resistenza a verificare programmi e contenuti dell’insegnamento. Di recente, avendo proposto di esaminare a fondo i libri di testo mi sono sentito rispondere da un pulpito autorevole: «Non faremo mai i poliziotti e i delatori dei colleghi». È curioso che si ragioni in questo modo proprio mentre si parla da mattina a sera di valutazione. O piuttosto fa capire che è più comodo scegliere la valutazione che si nasconde dietro giudizi impersonali e “oggettivi”. Così tocchiamo il nodo dolente della questione. Tutti concordano sul fatto che un sistema così ingessato e burocratizzato deve essere reso più duttile. E allora le parole d’ordine sono “autonomia” e “valutazione”. Il sistema classico dell’istruzione statale va certamente riformato, anche se nessuna persona ragionevole può negare che ad esso dobbiamo la diffusione dell’istruzione di massa e che dal punto di vista storico esso, quantomeno a livello della scuola, si è rivelato superiore a qualsiasi sistema privatistico e liberista. Ma il problema è di evitare la tradizionale caduta dalla padella nella brace. Se tutto dovesse risolversi nel trasferire il potere dalle burocrazie ministeriali centraliste a gruppi di “esperti scolastici” che non hanno mai insegnato un minuto né mai pubblicato una riga se non relativamente alle loro tecniche gestionali, allora ci troveremmo esattamente in questa situazione. Difatti, è manifesto che l’interesse di questi “esperti” è di affermare la supremazia della loro specifica competenza gestionale-valutativa sulle competenze tipiche degli insegnanti e degli uomini di cultura. Difatti, da questi esperti proviene spesso un atteggiamento sprezzante nei confronti dei contenuti disciplinari, fino a proclamare che occorreranno ancora una decina di anni di “lotta militante”per frantumare definitivamente il sistema disciplinare. Allora ha ben ragione il celebre filologo Cesare Segre a osservare che, si finirà col «mettere la museruola ai competenti, i soli ad avere la capacità di giudicare», riducendo «le valutazioni, ormai affidabili a chiunque, a puro calcolo quantitativo. Alla faccia della meritocrazia». È altresì inquietante che un muro di silenzio assoluto si erga contro tutte le critiche che vengono mosse nei confronti dell’uso spesso acritico e sconsiderato vero esempio di mancanza di probità scientifica di metodi di valutazione numerica a dir poco discutibili. Non importa che tali critiche vengano mosse da organismi scientifici di primo livello, non importa che tutti sappiano che metodologie di valutazione della ricerca come il “citation index” siano delle assurdità totali, che le liste delle riviste scientifiche accreditate per le valutazioni contengano omissioni scandalose. E qui parlo di ricerca scientifica, ma anche l’esame delle statistiche internazionali sulla scuola fornisce una materia per esercitarsi a trovarne le numerose falle e a rivoltarne a piacere le conclusioni. Ci stiamo mettendo passivamente nelle mani di “esperti” il cui potere spesso deriva soltanto dal far parte di imprese e gruppi influenti. Agli inizi del Novecento, si svolse uno scambio di idee tra il fondatore dell’economia matematica, Léon Walras e il grande matematico Henri Poincaré sul significato e la portata di un concetto fondante della teoria, l’utilità. Nessuno dei due, neppure Walras, ardiva supporre che l’utilità potesse essere misurata: tutt’al più si discuteva se potesse essere oggetto di una speculazione matematica generica, senza applicazioni numeriche concrete. Ma oggi gli “esperti” si avventurano a misurare qualsiasi qualità umana senza provare neppure a chiedersi se ciò abbia il minimo senso e il minimo fondamento scientifico. Per misurare qualcosa occorre definirne l’unità di misura: qual è l’unità di misura della “competenza”? La questione è cruciale perché la presunzione di poter raggiungere una valutazione strettamente oggettiva e quantitativa si basa sulla distinzione ormai invalsa tra “conoscenze” e “competenze” che è ormai divenuta una filastrocca ripetuta senza sapere neppure bene di cosa si tratti. La competenza è ritenuta fondamentale in quanto su di essa si appuntano le speranze di una valutazione oggettiva e, in alcuni Paesi, ciò è stato tentato proprio in relazione alle prove del tipo “maturità”. Ma cos’è la competenza? Con questo termine si vorrebbe definire una dimensione soggettiva di capacità, risorse e attitudini, non soltanto professionali ma anche relazionali, acquisite nel processo formativo. Dietro certe affermazioni di facciata, gli addetti ai lavori ammettono che una definizione univoca di competenza non esiste. Anzi, una commissione mondiale istituita negli anni novanta per tentare di pervenire a una siffatta definizione ne ha prodotte un numero enorme senza concludere nulla. Non soltanto: si ammette che le definizioni che includono i fattori relazionali e affettivi sono assolutamente inadatte a essere misurate, mentre per altre definizioni “deboli” si è tentato qualcosa con poco costrutto. Ad ogni modo, se anche gli specialisti in materia ammettono, sia pure tra i denti, che per una valutazione delle competenze con test siamo ancora in alto mare, è saggio affidarsi mani e piedi legati a simili metodologie? Forse il tema della misurazione oggettiva dei fattori soggettivi è un tema scientifico (e filosofico) troppo complesso per qualche azienda di valutatori. Ma non è comunque un bel segnale che troppi ripetano parole come “conoscenze-competenze”, “valutazione” e “autonomia” solo perché fanno parte dei codici dell’eurocrazia. Dove muore lo spirito critico muore anche la cultura e l’istruzione. Cosa è più urgente fare? Proviamo a dirlo in pillole. Occorre riqualificare la funzione dell’insegnante introducendo una progressione di carriera e un sistema di formazione e reclutamento basati sul merito (ovvero su prove e verifiche). Occorre ricondurre gli attori della scuola ai loro ruoli: niente più famiglie sindacati dei figli e studenti che comandano a scuola (da questo punto di vista la vicenda dei tabelloni del Liceo Berchet di Milano con i voti dati dai docenti agli studenti accanto a quelli dati dagli studenti ai docenti è un episodio di squallida demagogia). La valutazione delle scuole va effettuata da commissioni ispettive “umane” composte da insegnanti esterni o anche in pensione. Occorre procedere a un riesame a fondo di curricula e programmi mettendo al bando fumisterie e metodologismi vacui e procedendo a una rigorosa riqualificazione disciplinare. Infine, occorre un esame della questione dei libri di testo: troppi e non sempre di buona qualità; davvero troppi e spesso pessimi alle elementari, probabilmente come conseguenza della loro gratuità. In generale, meno statistiche e più valutazioni di contenuto. Per l’università va fatto un discorso analogo. Appare ormai chiaro che il meccanismo di reclutamento basato sulle liste nazionali è l’unica scelta sensata, mentre una ristrutturazione della “governance” deve mantenere al corpo docente il ruolo di indirizzo scientifico-didattico. Anche qui, per la valutazione meno numeri e più “giudizi ponderati” per dirla con le parole della International Mathematical Union