IN QUESTO NUMERO
Questo numero dell’Inserto “In Più – Storia e Ricerca” potrebbe apparire quasi “tematico” o perlomeno
incentrato sul campo dell’“erudizione”, dell’approccio
allo studio, alla trasmissione del sapere e delle conoscenze storiche. L’apprendimento nelle scuole dell’obbligo sta per subire, a partire dal 2006/2007 una miniriforma. Le istituzioni e i docenti sono pronti ad accogliere le nuove sfide della formazione? Se ne parlerà al
seminario che il 4 e 5 aprile prossimi si terrà a Rovigno,
al Centro di Ricerche Storiche. Da non dimenticare poi
gli studiosi che hanno posto le basi della storiografia
moderna sul territorio d’insediamento della Comunità
Nazionale Italiana: Kristjan Knez propone l’opera del
vescovo di Cittanova Giacomo Filippo Tommasini, i cui
“Commenti storico geografici” hanno avuto recentemente una ristampa anastatica (pp. 2 e 3).
E mentre sono ormai sfuocate atmosfere ed emozioni delle Olimpiadi invernali di Torino, compiendo
un passo indietro nel tempo, nelle pagine centrali, si
rievocano le caratteristiche e lo spirito dei primi Giochi Olimpici dell’Era Moderna, inaugurati il 6 aprile
1896 ad Atene. L’edizione di aprile si conclude con due
schegge storiche: l’episodio del “tradimento” subito dal
patriota Nazario Sauro, di cui Giacomo Scotti ricorda
la tragica fine e una sbirciatina finale nelle stanze – recentemente restaurate – di villa Torlonia, dove alloggiò
anche il duce.
ATTUALITÀ Scuole CNI, la didattica modulare al seminario per docenti di Storia
L’insegnamento del passato
«sale» su un banco di prova
di Ilaria Rocchi-Rukavina
I
DEL POPOLO
storia
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l Centro di Ricerche Storiche di Rovigno ospiterà nella settimana a venire, il 4 e 5 aprile, un
seminario per i docenti di Storia delle scuole
elementari e medie superiori della Comunità Nazionale Italiana. Organizzato dal Settore educazione e istruzione della Giunta esecutiva dell’Unione
Italiana, nell’ambito delle iniziative promosse dalla
collaborazione fra Unione Italiana e Università Popolare di Trieste, avrà quale tema centrale la didattica modulare.
Il seminario intende così rispondere a due esigenze di fondo: una contingente, tesa a rispettare le
direttive ministeriali stabilite dallo Standard formativo (HNOS) che entrerà in vigore nelle elementari
in Croazia a partire dal prossimo anno scolastico;
l’altra più profonda, mirata a superare forme di sapere storico legate unicamente al riconoscimento di
successioni temporali rigide e di processi di causaeffetto. Infatti, il vecchio modello non consente agli
alunni, nella misura auspicabile, di raggiungere abilità di collegamento profonde e persistenti tra un numero enorme di eventi e di concetti che la disciplina storica sicuramente comporta. Lo HNOS prevede
pertanto un ridimensionamento del numero di informazioni e nozioni che si ritengono essenziali, puntando invece su metodologie che innestino abilità e
conoscenze persistenti e che, soprattutto, forniscano
ai ragazzi strumenti culturali per acquisire le conoscenze necessarie per lo studio, sviluppando capacità di apprendimento autonome.
Cambia il procedimento metodologico: si riorganizza la progettazione didattica, si cerca di otti-
mizzare il tempo scuole, si mette in discussione la
struttura stessa dell’unità didattica, in modo che diventi più flessibile (anche con tempi diversi, a seconda delle tematiche e delle abilità da sviluppare),
aperta a collegamenti con altre discipline (in modo
da perseguire la interdisciplinarità), con approcci metodologici diversi e differenti stili di apprendimento, adeguati ai diversi gruppi di
allievi (ciò comporterà una ridefinizione
dell’impostazione finora adottata in classe dai docenti e all’incontro di Rovigno
sarà avviato un breve laboratorio di
esemplificazione).
Dunque, l’”offerta” formativa
dovrebbe essere tesa a valorizzare le potenzialità, a sviluppare la
capacità di riflessione e il senso
critico degli allievi, incoraggiando l’acquisizione di nuove conoscenze, nonché fornire varietà di
esperienze per progettare e scegliere in modo efficace il proprio
futuro, le strategie ed i comportamenti più adatti a padroneggiare
la complessità dei sistemi e delle loro interazioni. Non solo: alla
scuola del XXI secolo si chiede di
innescare nei giovani sì processi di
integrazione culturale e sociale, ma
anche di stimolare il confronto con
gli altri e – soprattutto – di conseguire e
mantenere la propria identità (anche nazionale?). Sempre nel rispetto dell’altro,
ovviamente.
An
no
II
• n. 4
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2 storia e ricerca
Sabato, 1 aprile 2006
INIZIATIVE Volume riproposto, in edizione anastatica, a quasi 170 anni dalla prima
La specifica situazione in Istria n
di Kristjan Knez
I
n occasione del venticinquesimo anniversario della fondazione, il Circolo di
cultura istro-veneta “Istria” ha
realizzato la ristampa anastatica
dell’opera “Commentari storico
geografici della Provincia dell’Istria” del vescovo di Cittanova Giacomo Filippo Tommasini.
L’opera, importante per le osservazioni e per i contenuti, viene riproposta dopo quasi centosettant’anni. Questo volume ci
offre l’occasione per parlare di
Tommasini e del suo lavoro, ancora oggi fonte di notevole importanza non solo per il ricercatore di storia bensì per ogni studioso che si occupa di argomenti istriani. Per quanto attiene le
osservazioni sulla vita, l’economia, la cultura, gli aspetti religiosi, ecc., l’autore si riferisce
alla prima metà del Seicento
cioè all’epoca in cui visse (Padova 1595 – Venezia 1655).
Il ‘600 in regione
un secolo infausto
Il XVII secolo fu un periodo
infausto per l’Istria: i conflitti, le
epidemie e l’endemico problema degli Uscocchi furono soltanto alcuni dei problemi che sconvolsero la penisola. Per tale motivo, in passato, questo periodo
storico venne accantonato dagli
studiosi oppure venne ricordato
solo a grandi linee, evidenziando sempre che si era trattato di
un secolo tra i più negativi per
la regione. La storiografia istriana dell’Ottocento si occupò innanzitutto di storia municipale,
ove la città rappresentava il simbolo dell’italianità della penisola
e si intersecava idealmente con la
storia della Serenissima. Le ricerche storiche mettevano in risalto
le tradizioni della vita municipale,
che rappresentava l’essere della
componente italiana nonché una
sorta di continuum, che a partire
dall’età tardoantica arrivava sino
alla nuova affermazione municipale avvenuta nel corso del XIX
secolo. Di conseguenza non vi
furono grandi interessi per l’età
moderna, ed in particolare per i
secoli XVII e XVIII, vale a dire
per la fase in cui inizia la parabola discendente della Serenissima.
Il Seicento istriano fu un periodo
lugubre: guerre, attriti ai confini,
incursioni degli Uscocchi, pestilenze, depauperamento demografico, ripopolamento delle terre,
attraverso la politica demografica della Repubblica di San Marco
sono alcuni degli aspetti di quel
periodo. Questa realtà non aveva
destato grande interesse agli studiosi di storia istriana, che preferirono sottrarsi alla trattazione
di tali problemi o, se già lo fecero nelle loro opere, vi dedicarono
poche pagine.
Carlo De Franceschi, autore della
prima monografia dedicata alla
storia della penisola, a proposito
dell’ultimo periodo veneziano intitola esplicitamente due dei suoi
capitoli: il XXXVIII si riferisce
alle “Infelici condizioni dell’Istria
in conseguenza delle guerre e delle pestilenze”, mentre il successivo è intitolato “Trasporti di nuove
genti avvenuti in diversi tempi per
ripopolare quelle contrade dell’Istria, che le irruzioni di orde
barbare, le guerre e le pesti avevano disertato di abitatori”. In tal
modo lo storico di Moncalvo vuole presentare le pagine più funeste
del passato istriano, contraddistinte dalla distruzione provocata
dai conflitti, dalle morie dovute ai
flagelli della peste nonché dall’arrivo di nuove genti che stravolsero la struttura etnica della penisola. Ed in un periodo di battaglie
politiche, culturali ed economiche
tra Italiani, Sloveni e Croati la colonizzazione del territorio, avvenuta per opera della Dominante –
che interessò in buona parte popolazioni slave, ma non solo –, rappresentava niente meno che una
sorta di calamità per la componente romanza (leggi italiana)
dell’Istria.
La recente storiografia istriana, a
differenza di quanto fatto precedentemente, dimostra invece un
particolare interesse per i fenomeni succedutisi nella penisola nei
secoli che accompagnarono il declino della Repubblica di Venezia.
Tra gli studiosi di problemi quali
le pesti e lo spopolamento dei
centri abitati e la successiva colonizzazione, gli aspetti demografici e la situazione venutasi a creare
tra gli “habitanti vecchi e novi “
ricordiamo in modo particolare
Miroslav Bertoša ed Egidio Ivetic.
L’apporto
della corografia
La corografia “Commentari
storico geografici della Provincia
dell’Istria” venne pubblicata per
la prima volta nel 1837 nel volume quarto de “L’Archeografo
Triestino”, rivista voluta da Domenico Rossetti, che gettò le basi
della moderna storiografia della
regione. Sulla scia della grande
erudizione – che nel XVIII secolo aveva visto operare un uomo
di cultura come il capodistriano
Gianrinaldo Carli –, il patrizio
tergestino volle creare una realtà
nuova, una rivista, appunto, che
si giovasse del contributo di più
persone, attraverso le quali raccogliere materiali sconosciuti o
poco noti ed illustrarli. Il periodico avrebbe pertanto pubblicato “Quello che in autori di ogni
tempo e di ogni nazione fu per
incidenza detto della nostra città
(e con questa comprendo sempre
quanto al suo territorio ed alla
sua provincia ed alle cose e persone loro appartiene) sarà raccolto, e fedelmente riferito colla
giunta di quelle osservazioni ed
illustrazioni che il relatore vi stimerà più opportuna” (p. 6) scrive
Rossetti nella prefazione al primo tomo del 1829. Tra i materiali
pubblicati ricordiamo le corografie, le quali, dato che non esisteva
ancora una storia istriana, rappresentavano una fonte di notevole
importanza, con dati ed informazioni utili per la ricostruzione del
passato regionale. Nel 1830 Pietro Kandler pubblicava le prime
“Corografie dell’Istria”, nell’introduzione l’erudito triestino scri-
Da Flacio Illirico al Valvasor: una lunga tradizione, ecclesiastica
Eruditi secenteschi nelle regioni
L’
erudizione, sorta con l’Umanesimo, si sviluppò a seguito della Riforma luterana che scosse la Chiesa di Roma.
La ricostruzione del passato divenne uno strumento di eccezionale importanza. In questa sede non possiano omettere la
“Historia ecclesiastica” dei “centuriatori” di Magdeburgo, a
cui faceva capo Mattia Flacio Illirico di Albona nonché gli
“Annales ecclesiastici” di Cesare Baronio. Questa storiografia, ricordiamolo, era al servizio della teologia. Attraverso
l’indagine la stessa doveva dimostrare o meno la frattura o la
continuità tra la chiesa dei primi tempi, degli albori cristiani,
e la chiesa di Roma.
La tradizione erudita continuerà con risultati ancora
maggiori nel corso del Seicento grazie agli ecclesiastici regolari che si dedicheranno a tali studi con particolare veemenza. Basti ricordare i maurini, i benedettini della congregazione di San Mauro, che si dedicarono alla stesura di una mastodontica edizione delle opere dei padri della chiesa, oppure
i bollandisti, i gesuiti belgi, che negli anni ‘40 del XVII secolo
iniziarono a pubblicare gli “Acta Sanctorum”. Nei territori dell’odierna Slovenia riscontriamo innumerevoli eruditi,
laici ed ecclesiastici, che compilarono lavori fondamentali,
ossia gettarono le basi di cui si giovarono gli storici successivi. Tra questi intellettuali citiamo Johann Ludvig Schönleten, con le sue genealogie sulla casata degli Asburgo ed altre
famiglie patrizie. “Carniola antiqua et nova” (1681) è invece
il primo tentativo volto ad illustrare la storia della Carniola
sino all’anno Mille. L’opera intrapresa dal surricordato venne ripresa e continuata da Valvasor, la cui “Gloria” non ebbe
eguali nelle altre regioni austriache.
Ai primi del XVII secolo ricordiamo il gesuita goriziano
Martin Baučer, ritenuto il primo storico sloveno, al quale si
deve la stesura della “Historia rerum Noricarum et Foroiuliensium”. Vi è altresì Georg Matthäus Vischer, contemporaneo di Valvasor, che realizzò la “Topographia Ducatus Stiriae”, un album di immagini relative alla regione, ma senza
testo. L’opera di Valvasor costituisce una fonte di non indifferente importanza poiché per la stesura della stessa l’autore
consultò, e analizzò più o meno criticamente, documenti oggi
non più disponibili allo studioso. Rammentiamo che i tomi
contengono importanti sezioni dedicate alla storia, alla geografia, alla topografia, ecc., i cui contenuti riflettono, in parte,
i risultati delle sue osservazioni dirette, effettuate nei territori
storia e ricerca 3
Sabato, 1 aprile 2006
edizione, dal Circolo di cultura istro-veneta nel 25.esimo della sua fondazione
nelle annotazioni del Tommasini
ve: “sotto questo titolo andremo
raccogliendo e pubblicando nel
nostro Archeografo tutta l’antica e
tutta la meno recente suppellettile
corografica della nostra provincia,
senza escludere quegli articoli che
già fossero stati altre volte pubblicati purchè siano poco conosciuti
o meno comuni” (p. 15). Nel 1831
anche Domenico Rossetti firmò un
contributo nel quale presentava alcune corografie concernenti la vicina penisola.
Società di Minerva di Trieste
Cultura e storia ebraica
Dopo il ciclo di conferenze dedicate all’Islam, la Società di
Minerva di Trieste nel mese di aprile propone un ciclo di incontri concernenti la cultura e la storia ebraica. Gli appuntamenti
si svolgono nella Sala “Silvio Benco” della Biblioteca Civica del
capoluogo giuliano, con inizio alle ore 17.30. Oggi lo psicologo
prof. Silvio Cusin, esperto di storia della Comunità Ebraica della nostra regione, parlerà sul tema “Come oggi possiamo immaginare il quartiere chiamato Ghetto”. Il 9 aprile la prof.ssa Silva
Bon, Presidente dell’Istituto di Cultura ebraica, si soffermerà sull’”Interpretazione della Shoah (macrostoria e microstoria)”. Il 23
aprile il dr. Livio Vasieri tratterà un argomento particolare come
“Bet Haolam la casa dell’eternità degli Ebrei”. L’ultimo incontro
del mese si svolgerà sabato 29 aprile, la prof.ssa Cristina Benussi,
studiosa e titolare della cattedra di Lettere dell’Università di Trieste, illustrerà il tema “Le donne ebree e la Scrittura”.
Fonte di indubbia
importanza
La pubblicazione dell’opera del
vescovo di Cittanova, rimasta manoscritta per quasi due secoli, rientrava, dunque, in quelli che erano
gli obiettivi della rivista. Nella
prefazione si legge: “Fu perciò intendimento dell’’‘Archeografo’ di
farsi depositario di materiali pure
rozzi od imperfetti, perchè l’ammasso di questi sproni qualche nobile ingegno, di cui privi mai saremo, a farsi architetto, ed ordinandoli e completandoli sorga quell’edifizio di cui andiamo privi e
che attesterà quali fossero un tempo e l’Istria e gli Istriani; ed invogli pure ad aumentare questi materiali medesimi” (p. IV). I redattori erano consci che per iniziare la
stesura della storia della regione,
di Trieste e della penisola istriana,
fosse necessario raccogliere le fonti grazie alle quali ricavare i dati e
le informazioni utili per un lavoro
di ricostruzione del passato. L’opera di Tommasini è una fonte di indubbia importanza, che, grazie alla
sua mole di dati e di osservazioni,
giova non poco alla comprensione
della realtà istriana nel XVII secolo. Siffatto scritto venne ritenuto
utile pubblicarlo e quindi renderlo fruibile agli studiosi. Si tratta,
così nella prefazione, di “(...) opera di uno scienziato di non volgare fama, e perché sortì dalla penna di uno, che se non fu Istriano
di nascita, lo fu per l’officio e per
l’amore in che tenne questa provincia, e perché nessuno meglio di
lui ci presenta la condizione ed i
costumi di quei tempi, della cui verità pur troppo si scorgono tracce
anche ai di nostri” (p. IV).
Il manoscritto si conserva alla
Biblioteca Marciana e fu donato
da Apostolo Zeno; nella prefazio-
ne all’edizione del 1837 si legge
“Ei forse lo ebbe da quel suo consanguineo Zeno vescovo di Capodistria, il quale raccoglitore ei medesimo di notizie sulla sua diocesi,
amico del Tommasini, cui anzi comunicò i propri scritti, lo ricuperò
forse dagli eredi di lui che in altra terra l’avrebbero recato” (pp.
V-VI).
Le cinque «nazioni»
Da ultimo non possiamo fare
a meno di fornire una sommaria indicazione degli argomenti trattati dall’erudito secentesco.
I curatori del testo apparso sull’“Archeografo Triestino” scrivono “(...) chi dell’antica nostra
topografia, e della storia nostra
si diletta vi troverà materiali sufficienti, e ne saprà buon grado”.
Effettivamente tale testo è fondamentale per comprendere un’epo-
e laica, di respiro europeo
contermini
della corona asburgica, e diligentemente annotate. La “Gloria
del Ducato di Carniola” racchiude nelle sue pagine una miriade di notizie attinenti l’etnografia, dati sulle abitazioni, sugli usi e costumi delle popolazioni, il tutto corredato da alcune
centinaia di incisioni. Attraverso la descrizione della Carniola,
intesa come regione centrale, che abbracciava anche una sezione dell’Istria (la Contea di Pisino) e del Litorale adriatico
(Trieste e Fiume), la Carinzia e la fascia dei Confini Militari
prospicienti le regioni dell’Impero ottomano, Valvasor ci offre
una narrazione a tutto tondo di una buona parte dell’odierna
Slovenia e delle terre contermini nella seconda metà del XVII
secolo. Il lavoro è corredato pure da note che indicano i riferimenti bibliografici e archivistici consultati e analizzati dall’autore. Tali note sono generiche e presentano lacune, rappresentano comunque il segno di un cambiamento in atto. Con la
morte di Valvasor l’erudizione non venne meno. A differenza
della letteratura in lingua slovena che subì un duro colpo dalla controriforma della chiesa, guidata dal vescovo di Lubiana
Tomaž Hren – dopo la fioritura avvenuta nel corso del XVI
secolo con gli autori protestanti –, essa continuò imperterrita, esprimendosi in latino e in tedesco. Tra i degni continuatori
ca caratterizzata da problemi e da
metamorfosi, all’indomani della
plumbea stagione delle guerre e
della peste che falcidiarono la popolazione della penisola. L’autore
visse nel periodo in cui si assiste
al rafforzamento della parrocchia
come istituzione, le pagine della sua corografia sono pertanto
una fonte di notevole importanza
per lo studio degli aspetti religiosi dell’Istria, al contempo ci fornisce non pochi elementi sulla persistenza di culti, di credenze “pagane” (dai nati con la camicia, ai
licantropi, alle streghe) dimensione che anche il poligrafo Valvasor
riprese nella sua opera “Die Ehre
des Hertzogthums Crain”. Come
osservatore attento non poteva fare
a meno di non citare i gruppi etnici presenti nella penisola. Il vescovo di Cittanova annovera cinque
nazioni: i nativi Italiani, gli Slavi
istriani, i Morlacchi, i Gradesi immigrati, i Friulani uniti ai Carnielli. I “Commentari” racchiudono
poi informazioni sulla vita quotidiana, gli usi e costumi, le attività economiche, le caratteristiche
dei centri urbani, la flora, la fauna,
il retaggio delle epoche passate,
ecc. Per quanto attiene quest’ultimo aspetto Tommasini utilizzò
come fonti le iscrizioni, i reperti
archeologici e materiali vari, grazie ai quali fornisce una descrizione puntuale dell’argomento affrontato. Ancora alla fine del XVII
secolo l’antiquario Franceso Bianchini esortava gli eruditi d’Italia a
fare una “storia per simboli”, cioè
sulla base delle testimonianze ar-
degli autori secenteschi basti ricordare il giurista dell’Accademia degli Operosi di Lubiana Janez Gregor Dolničar,
importante per i suoi lavori inerenti l’archeologia dell’antica Emona nonché la storia del capoluogo carniolano. Siffatti autori si inseriscono nell’alveo dell’erudizione europea, non sono esponenti isolati nel loro contesto provinciale,
bensì collaborano e si scambiano informazioni ed idee. Nel
1611 Nicolò Manzioli dava alle stampe la “Nova descrittione
della Provincia dell’Istria”. Prospero Petronio, alla fine del
‘600, vergò le “Memorie sacre e profane dell’Istria”, opera pubblicata solo nel 1968, nonostante il manoscritto fosse
noto agli studiosi ed i suoi contenuti segnalati nella seconda
metà del XIX secolo sulla rivista capodistriana “La Provincia dell’Istria”. Petronio compilò il suo lavoro attingendo in
particolare proprio dalla corografia del Tommasini.
In terra dalmata operò invece Giovanni Lucio di Traù
autore della “Storia del Regno di Dalmazia e di Croazia”
(Amsterdam 1666), raccolta di fonti documentarie concernenti l’Alto medioevo che ha trovato attuazione ed organica
sistemazione in un volume che tuttoggi rappresenta un punto di riferimento per qualsiasi studioso che voglia affrontare la storia della Dalmazia nella “media aetas”. Nel 1698
Ireneo della Croce dette alle stampe l’opera “Istoria antica
e moderna della città di Trieste”, mentre nel 1700 a Venezia uscì la “Corografia ecclesiastica o sia descrittione della
città e della diocesi di Giustinopoli detto volgarmente Capo
d’Istria” del vescovo capodistriano Paolo Naldini. (kk)
cheologiche, in quanto rappresentano una base più solida rispetto
alle fonti letterarie. Il vescovo di
Cittanova fu pertanto un precursore, in quanto, circa mezzo secolo prima, aveva già intrapreso tale
tipo di indagine.
La ristampa anastatica dell’opera è un’iniziativa benemerita, utile sia agli studiosi, che così
dispongono con maggiore facilità
di un testo di fondamentale importanza, sia al lettore appassionato
di cose istriane, in quanto grazie a
queste pagine entra a contatto con
la ricca storia della nostra terra,
eterogenea, plurale nei suoi aspetti e affascinante nelle sue svariate
ma-nifestazioni.
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storia e ricerca
Sabato, 1 aprile 2006
Sabato, 1 aprile 2006
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SCHEGGE Vi parteciparono solo 13 paesi, anche perchè i Giochi non furono ben publicizzati. Gli atleti, dilettanti, vi giunsero anche a proprie spese
Atene, 6 aprile 1896: si aprono i primi giochi olimpici moderni
N
ell’aprile di centodieci anni
fa si aprivano le prime
Olimpiade dell’Era Moderna. I festeggiamenti iniziarono il 5
aprile 1896 (24 marzo 1896 secondo il calendario giuliano allora in
uso in Grecia e in altre poche parti del mondo) con l’inaugurazione
della statua in marmo dell’importante benefattore, Georgios Averof,
che era stata eretta davanti allo Stadio Panellenico. Questo avvenne
nella domenica di Pasqua, e la giornata, per la sua importanza, fu conclusa da Pierre de Fredi barone di
Coubertin. MacAloon annotò che
il marchese aveva previsto che nel
1896 le Pasque dei cristiani e degli
ortodossi orientali avrebbero coinciso, e pensando al significato della Resurrezione, egli programmò di
inaugurare i rinati Giochi Olimpici nella domenica di Pasqua. Per di
più, il primo giorno dei Giochi, lunedì, 6 aprile 1896 (25 marzo) era
il giorno dell’indipendenza greca.
Quel giorno vide l’apertura ufficiale dei Giochi della Prima Olimpiade dell’Era Moderna.
Dopo l’arrivo di re Giorgio e
della regina Olga di Grecia, il principe ereditario Costantino fece un
discorso inspirato. Il sovrano ellenico subito dopo inaugurò i Giochi
con le seguenti parole: “Dichiaro
l’apertura dei primi Giochi Olimpici Internazionali in Atene. Lunga vita alla Nazione. Lunga vita al
popolo greco.” Dopo venne suonato l’Inno Olimpico da nove bande
e da 150 coristi. La musica era stata composta da Spyros Samaras, e
le parole erano tratte da una poesia del poeta e romanziere nazionale greco Kostis Palams. Questo
rimase l’Inno Olimpico ufficiale,
sebbene esso non venisse dichiarato ufficialmente tale fino al Congresso del CIO del 1958. I Giochi e
le competizioni sportive iniziarono
alle 15.30. I Giochi stessi rimasero lontani dallo standar che uno si
aspetterebbe dallo sport di oggi.
Solo 13 paesi parteciparono e
molti degli atleti migliori del mondo non gareggiarono, anche perchè
i Giochi non furono ben publicizzati. Coubertin ebbe difficoltà a
far suscitare interesse sui Giochi
fra molte delle nazioni del mondo.
Certamente le selezioni olimpiche
furono disputate solo in Grecia,
contrariamente agli auspici espressi al Congresso della Sorbona dalla
Commissione olimpica. Ci furono
molte differenze fra i Giochi Olimpici del 1896 e le olimpiadi che
noi abbiamo conosciuto un secolo
più tardi. Primo, si sarebbe notato
che non c’erano alcune delle cose
attuali come ad esempio una medaglia d’oro. I vincitori delle gare
ricevevano un diploma, una medaglia d’argento, ed una corona
fatta di ramoscelli d’ulivo. Il secondo classificato di ogni gara ricevette un diploma, una medaglia
di bronzo ed una corona di alloro.
Le medaglie erano state disegnate
dallo scultore francese Jules Chaplain. Ogni atleta che prese parte
alle competizioni ricevette anche
una medaglia commemorativa che
era stata disegnata dall’artista greco Nikephoros Lytras. I diplomi
erano stati disegnati dal famoso
pittore greco Nikolaos Gyzis. Non
ci furono cerimonie separate per la
consegna delle medaglie. Infatti,
tutti i premi furono consegnati da
Re Giorgio nel corso di una speciale cerimonia prima della cerimonia
di chiusura nell’ultimo giorno dei
Giochi.
Senza donne!
Alle Olimpiadi c’erano anche
maggiori assenze perchè fu la sola
volta nell’era moderna che non ci
furono concorrenti donne. Coubertin non approvava l’idea dello sport
femminile e fece a meno delle competizioni femminili per tutta la sua
vita. Nel 1896, lo sport delle donne
aveva una piccola organizzazione e
non c’era alcuna spinta per includere gare femminili nel programma.
Queste erano ufficialmente escluse. Solo nella maratona si sarebbe
potuto dire di aver avuto una presenza femminile. Due donne corsero non ufficialmente la gara di maratona all’incirca nel tempo della
gara ufficiale, ma nè Melpomene
nè Stamata Revithi gareggiarono
ufficialmente.
I vincitori
La prima gara delle Olimpiadi
moderne fu la prima batteria dei
100 metri, vinta da Francis Lane,
uno studente di Princeton. Ma la
prima gara che si concluse fu quel-
la del salto triplo vinta da James
Connolly, uno studente di Harvard.
Egli divenne il primo campione
olimpico conosciuto dal tempo di
Zopyros di Atene che aveva vinto
nella specialità del pugilato riservato ai ragazzi e nel pancrazio nell’edizione 291 dei Giochi Olimpici
nel 385 a.C. La finale dei 100 metri
fu vinta dal’americano Thomas Burke, l’unico concorrente americano
ad aver vinto un titolo nazionale.
Egli alla fine vinse ad Atene i 100
ed i 400 metri. Gli americani presentarono altri due atleti vincitori di
un doppio titolo nelle gare di atletica, come Robert Garrett che vinse
il lancio del peso e quello del disco,
mentre Ellery Clark vinse il salto in
alto ed il salto in lungo. Il miglior
ciclista ai Giochi Olimpici del 1896
fu il francese Paul Masson.
Masson era poco conosciuto prima delle Olimpiadi, ma ad Atene
vinse tre competizioni, trionfando
nel giro a cronometro, nei 2.000 metri di velocità e nei 10.000 metri in
pista. L’atleta pluridecorato (secondo i criteri moderni) ai Giochi del
1896 fu il ginnasta tedesco Hermann
Weingärtner. Il 32enne Weingärtner
vinse tre titoli (sbarra orizzontale individuale e sbarra orizzontale e parallele nel torneo per squadre), fu
due volte secondo (anelli e cavallo con maniglie) e conquistò anche
un terzo posto nella specialità individuale delle parallele. Ai giorni
nostri sarebbero state sei medaglie
vinte. L’atleta che vinse molto nelle
gare del 1896 fu pure il tedesco Carl
Schuhmann. Il versatile Schuhmann
vinse tre gare nella ginnastica (volteggio al cavallo individuale e nelle
due gare a squadre della sbarra orizzontale e nelle parallele), e trionfò
anche nella lotta greco-romana, categoria libera. Schuhmann gareggiò
anche in atletica (in tre gare - salto in
lungo, salto triplo e lancio del peso)
e nel sollevamento pesi. dove finì a
pari merito al quarto posto nel sollevamento della sbarra a due mani.
Oltre a Weingärtner, Schuhmann e
Masson, un altro atleta che vinse
almeno tre gare ai Giochi Olimpici
del 1896 fu un altro tedesco, Alfred
Flatow. Flatow era un ginnasta che
vinse il titolo delle parallele e collaborò con la Germania a vincere
entrambe le competizioni ginniche
a squadre nella sbarra orizzontale e
nelle parallele. Anche suo cugino,
Gustav “Felix” Flatow, gareggiò ad
Atene per la Germania nella ginnastica, vincendo due titoli a squadre.
Entrambe i Flatow, di fede ebraica,
avrebbero più tardi perso le loro vite
in campi di concentramento nazisti
durante la Seconda Guerra Mondiale. Gareggiò solo un italiano, sebbene diversi fossero gli iscritti ed un
altro in realtà si presentò in Atene
sperando di poter gareggiare. Carlo
Airoldi era un corridore sulle lunghe distanze che desiderava gareggiare nella prova di maratona. Airoldi arrivò ad Atene da Milano coprendo una parte del viaggio a piedi.
Egli fu festeggiato in Atene per questa impresa e ricevuto dal Principe
Costantino a Palazzo reale. Quì, Airoldi ammise che egli aveva ricevuto
soldi per correre e quindi, come professionista, fu squalificato. Un reclamo presentato dal suo club (la Società Pro-Italia di Milano) fu respinto, ed egli, dopo il lungo, faticoso e
Louis Spiridon, emulo di Filippide?
In senso orario: un dipinto sulla corsa
dei 100 metri
in cui vinse
l’americano
Thomas Burke, il manifesto di Atene
1896, il diploma assegnato ai vincitori,
un biglietto
d’ingresso e
(sotto) una
foto del barone de Coubertin.
Nel riquadro,
il maratoneta
greco Louis
Spiridon che
ebbe il grande onore di
essere il portabandiera
della Grecia
nella cerimonia di chiusura dei Giochi
Il cuore di Pierre Fredi de Coubertin
sepolto ad Olimpia
Dopo 2672 anni dalla celebrazione della prima
edizione dei giochi olimpici dell’antica Grecia, il 6
Aprile 1896 si celebrarono ad Atene i “Giochi della I° Olimpiade dell’Era Moderna”. Riaprire i giochi non fu certo un’impresa facile, resa possibile solo
dall’impegno e dalla perseveranza di un giovane barone francese Pierre Fredi de Coubertin grande appassionato di sport. Coubertin nacque a Parigi il 1.mo
gennaio 1863 da una famiglia della media nobiltà
francese. La madre era una fervente cattolica e sognava per il figlio una carriera ecclesiastica, mentre
il padre, uomo probo che coltivava la passione per la
pittura, voleva per lui una divisa militare o la professione legale. Dopo la soppressione dei giochi olimpici nel 393 d.C. da parte dell’imperatore Teodosio su
esplicita richiesta del vescovo di Milano a causa della
corruzione in cui erano caduti, in molti cercarono di
organizzare una nuova edizione ma i diversi tentativi
del 1859 e poi del 1870 e del 1875 erano stati fallimentari soprattutto per la mancanza di strutture adeguate che degradarono i giochi ad una gara rionale.
A differenza dei suoi predecessori però de Coubertin non si arrese tanto facilmente e spese gran parte
del suo patrimonio in viaggi in tutto il mondo, compresa l’America, per ottenere consensi al suo progetto. Riuscì così nel 1892 ad ottenere l’approvazione
dell’Unione francese per gli sport atletici e successivamente l’approvazione della I° Olimpiade dell’era
moderna da parte del Congresso internazionale di Parigi del 1894. Non restava che stabilire la data ed il
luogo in cui si sarebbero tenuti i nuovi giochi olimpici: de Coubertin li avrebbe voluti a Parigi, ma la scelta cadde su Atene.
Il futuro inventore delle Olimpiadi attraversò più
volte la Manica per studiare il sistema scolastico inglese: ne auspicava l’adozione in Francia. Grazie a
questa esperienza ebbe l’ispirazione per elaborare i
principi dello sport moderno e dell’Olimpismo che
secondo lui dovevano essere prima di tutto strumenti
di crescita fisica e morale dei giovani. Principi che il
barone francese vedeva esaltati in quello che definiva
Da signor nessuno
a eroe nazionale
titanico viaggio non fu ammesso
alla competizione.
Gli americani dominarono le
gare di atletica vincendo tutto con
l’eccezione degli 800 metri, i 1.500
metri e la maratona. Gli 800 e 1.500
metri furono vinti da Edwin Flack,
un australiano, contabile presso Price-Waterhouse, che viveva e lavorava in Gran Bretagna ed era tesserato
per l’Amateur Athletic Association.
Egli provò anche a correre la maratona ma non terminò la gara. La corsa olimpica di maratona fu proposta
dal francese Michael Bréal, un amico di Coubertin, che lo aveva accompagnato ad Atene per programmare le Olimpiadi del 1896.
Bréal, scrisse perciò a Coubertin:
“Se il Comitato Organizzatore delle
Olimpiadi di Atene desidererà far rivivere la famosa corsa del soldato di
Maratona, inserendola come parte
del programma dei Giochi, io sarò
lieto di offrire un premio per questa
nuova corsa di maratona”. L’idea fu
immediatamente accettata.
Rivive la corsa del
soldato di Maratona
atletismo, e che si può identificare nello sport di matrice anglosassone che educa al sacrificio, alla disciplina e alla responsabilità, senza togliere nulla all’autonomia e alle capacità decisionali del singolo. In ciò
l’atletismo si differenziava dalla ginnastica tedesca
che, per l’inventore delle Olimpiadi, rappresentava
invece uno strumento del nazionalismo e del militarismo. Proprio alla luce di queste considerazioni, deve
essere stata per de Coubertin un’amara beffa dover
assistere all’undicesima edizione dei Giochi olimpici, quella organizzata con spirito nazionalista, militarista e razzista dal regime nazista, a Berlino, nel ‘36.
Pierre Fredi de Coubertin morì a Losanna il 2 settembre 1937. Il barone francese chiese che il suo cuore
fosse seppellito ad Olimpia. Così è stato fatto.
Maratona era basata sulla leggenda di Euclide o Filippide, un soldato greco che, a quanto si dice, corse dalla città di Maratona ad Atene
nel 490 dopo Cristo per annunciare la notizia della vittoria dei Greci
nella battaglia di Maratona. Al suo
arrivo in Atene, egli presumibilmente annunciò: “Rallegratevi, abbiamo
vinto!” e dopo cadde morto. La leggenda è ora provato essere apocrifa,
ma questa fu la ragione della creazione di una corsa da Maratona ad
Atene. Nella maratona, c’erano inizialmente diversi favoriti, specialmente Flack. Ma appena passata la
metà gara, Spiridon Louis, un greco
portatore d’acqua, prese la testa e la
mantenne fino alla fine. Quando egli
fu nelle vicinanze dello stadio, messaggeri entrarono nell’antico stadio
gridando: “Un Greco, un Greco!”
mandando la folla in delirio. L’orgoglio olimpico basato su tradizioni
millenarie, fu allora riscoperto dalla
folla di casa, che prima di allora era
rimasta piuttosto delusa dai risultati
degli atleti greci. Louis vinse la corsa e divenne un eroe, ricevette doni
e regali preziosi da molti mercanti
greci. Ma egli chiese solo un carro per aiutarlo a portare la sua acqua, e tornò nella sua piccola città
di Amarousi.
I Giochi Olimpici del 1896 terminarono con le due maggiori festività. Nel pomeriggio di domenica 12 aprile (31 marzo), nella
sala da ballo del palazzo reale,
il re dette un banchetto riservato
agli atleti ed a molti degli altri dignitari accreditati. Egli ringraziò
tutti i responsabili per aver fatto
dei primi Giochi Olimpici Moderni un successo, con sensibilità omise entrambi i nomi di Pierre
de Coubertin e di Demetrios Vike-
las. Al termine del suo discorso
egli espresse il suo desiderio affinchè i Giochi Olimpici potessero rimanere sempre in Grecia: “La
Grecia, la madre e la culla delle
competizioni atletiche nella antichità Panellenica, impegnata ad
effettuare questi oggi con coraggio sotto gli occhi dell’Europa e
del Nuovo Mondo, può, ora che il
successo è stato generalmente riconosciuto, sperare che gli stranieri che l’hanno onorata con la
loro presenza, vogliano scegliere
la nostra terra come un luogo di
pace per l’incontro delle nazioni,
quale sede continua e permanente dei Giochi Olimpici. Con questo desiderio, Signori, io brindo in
modo particolare a tutti quelli che
hanno contribuito al successo di
questa Prima Olimpiade.”
Le cerimonie finali del 1896
erano programmate per martedì 14
aprile (2 aprile), ma piovve ed i festeggiamenti furono spazzati via.
segue a pagina 6
Un signor nessuno che in quasi tre ore divenne un eroe popolare: Spiridon Louis. Non si hanno
notizie certe su di lui, a cominciare dalla grafia del nome: Spiridon
Louis è quella prevalente, ma, a
seconda delle traslitterazioni dal
greco, il cognome diventa Spyridon, Spyros, Spiros o Spiro, mentre il nome è reso anche come
Loues o Luis.
Era nato sicuramente nel villaggio di Maroussi (o Amarousi),
sobborgo di Atene, da una povera famiglia. Secondo la tradizione, Louis Spiridon era un pastore mentre altre fonti lo descrivono come portatore d’acqua. Carlo Airoldi, un italiano giunto ad
Atene per partecipare ai Giochi
(ma non ammesso alle competizioni perché ritenuto atleta professionista), scrisse invece che
era un militare dell’esercito greco che da tempo aveva abbandonato la pastorizia. Oggi lo si
considera un pastore che faceva
anche lo stesso lavoro del padre
che consisteva nel trasportare acqua minerale comprata ad Atene.
L’ipotesi del militare appare veritiera, ma probabilmente è dovuta
al fatto che egli svolse il servizio
militare tra il 1893-1895, quindi
pochi anni prima. Inoltre l’anno
successivo alle Olimpiadi la Grecia entrò nelle Guerre Balcaniche
contro la Turchia per cui non è
difficile che il campione olimpico venisse precettato. Partecipò alla maratona probabilmente
convinto dal colonnello Papadiamantopoulos che era organizzatore della gara ed era stato suo
ufficiale, per cui ne conosceva il
talento. Gli organizzatori greci
erano molto interessati alla maratona ed era loro desiderio vincerla per cui organizzarono una
sorta di “eliminatorie” per buttare
nella gara i migliori atleti. Queste
furono vinte il 22 marzo dal super-favorito Harilaos Vassilakos.
Tuttavia la stampa e i politici,
che volevano necessariamente un
greco come vincitore, non erano
contenti della squadra messa insieme e fu organizzata una seconda gara. Si disse che chi avesse migliorato il tempo di 3h 18’
(tempo di Vassilakos alla prima
eliminatoria), avrebbe poi partecipato alle Olimpiadi. La gara fu
vinta da un certo Lavrentis in 3h
11’27” ma anche Spiridon scese
sotto il tempo limite, arrivando
quinto, per cui rientrò nel gruppo
dei Greci prescelto per la maratona olimpica.
Spiridon Louis aveva solo 23
anni e si presentò alla partenza della maratona indossando le
scarpe che i suoi compaesani gli
avevano regalato. I partecipanti,
nemmeno una ventina, erano in
prevalenza greci, più un ungherese, un francese, uno statunitense
ed un australiano. Parecchi atleti, tuttavia, si erano ritirati prima della partenza perché non si
sentirono in grado di competere.
Il colonnello Papadiamantopoulos dette il segnale di partenza e
i quattro stranieri andarono al comando della corsa subito dopo la
partenza. Il loro ritmo erano molto sostenuto, e i greci facevano
fatica a tenere il passo. Alla testa prima si mise il francese Albin Lermusiaux poi l’australiano
Edwin Teddy Flack.
La cronaca della maratona è
spesso condita di aneddoti forse
inventati. Si dice, ad esempio,
che verso Pikermi parecchi atleti si fossero già ritirati sfiniti, al
contrario Spiridon si era fermato in un punto di ristoro a bere
addirittura un bicchiere di vino.
Dopo aver chiesto a quanto ammontava il vantaggio degli altri
corridori, dichiarò che avrebbe
avuto il tempo di riprenderli prima della fine della gara. Così Spiridon Louis descrisse, dopo quarant’anni, i festeggiamenti subito dopo l’arrivo: “Quell’ora fu
qualcosa di incredibile e ancora
oggi mi sembra un sogno... da
tutte le parti mi lanciavano fiori e
ramoscelli d’ulivo. Tutti urlavano
il mio nome e lanciavano in aria
i cappelli...”
Dopo la vittoria ritornò nel
suo villaggio di Maroussi con un
cavallo e un carretto regalati dal
re di Grecia e qui continuò la sua
vita normale, la sua attività di pastore e di agricoltore prima e di
poliziotto locale poi. Diventato
un eroe nazionale. A lui venne riservato il grande onore di essere
il portabandiera della Grecia nella cerimonia di chiusura dei Giochi. Ricevette onori e regali, alcuni a dir poco bizzarri. Un oste
gli regalò addirittura dieci anni di
pasti, un calzolaio e un barbiere
gli offrirono i propri servigi per
tutta la vita, dalla comunità greca
di stanza in Inghilterra gli arrivò
in dote un vasto appezzamento di
terreno, al re di Grecia potè chiedere un regalo a sua scelta: Spiridon chiese un cavallo e un carro,
per trasportare l’acqua con più facilità da Amaroussion ad Atene.
Dopo l’Olimpiade, Louis si ritirò nel suo villaggio e non ebbe
più modo di partecipare a nessuna corsa. Continuò a fare la vita
di sempre fino all’ultimo dei suoi
giorni: morì il 26 marzo 1940,
dopo che il mondo dello sport lo
aveva rivisto solo una volta, quattro anni prima ai Giochi di Berlino, dove Hitler lo aveva invitato
in qualità di ospite d’onore.
Sabato, 1 aprile 2006
Atene 1896 i primi
Giochi moderni
continua dalla pagina 5
L
e cerimonie finali del 1896 erano programmate per martedì 14 aprile (2 aprile,
secondo il calendario giuliano), ma piovve ed i festeggiamenti furono spazzati via. La
prima delle cerimonie di chiusura ufficialmente iniziò alle 10.30 di mercoledì 15 aprile 1896,
quando la famiglia reale fece il suo ingresso
nello Stadio Panatenaico. La cerimonia iniziò
con il suono dell’inno nazionale greco, seguito
dall’ode in greco antico “Pindarica” che fu recitata dall’atleta inglese George Stuart Robertson,
studente di Oxford, che l’aveva appositamente
composta per questa occasione. Dopo l’intervento di Robertson, il re procedette a consegnare i premi agli atleti vincitori di tutte le competizioni. Ad un certo punto furono consegnati
premi speciali per alcune gare. Per primi ricevettero i loro premi i vincitori; Spiridon Louis
fu l’ultimo dei campioni a ricevere i suoi premi.
In aggiunta alla sua medaglia d’argento, al suo
diploma, ed alla sua corona di ramoscelli d’ulivo, a Louis vennero consegnate due coppe speciali, una donata da Michel Bréal. Nell’occasione vennero resi noti anche gli atleti che avevano
occupato il secondo posto.
Dopo la consegna dei premi, gli atleti vincitori-premiati marciarono intorno allo stadio, fra
gli applausi della folla. In testa a loro Spiridon
Louis. L’Inno Olimpico fu allora suonato per
l’ultima volta, dopo che Re Giorgio abbe chiuso i festeggiamenti con questo pronunciamento:
“Dichiaro chiusi i Primi Giochi Olimpici Internazionali.” I concorrenti del 1896 furono unanimi nelle loro approvazioni sulla riuscita dei Primi Giochi Olimpici, in particolare gli atleti americani si dichiararono d’accordo con re Giorgio
sul fatto che Atene fosse dichiarata sede stabile
dei Giochi. La squadra il 14 aprile 1896 scrisse al Principe ereditario Costantino una lettera,
che fu pubblicata sul “The New York Times”
del 3 maggio, proponendo che tutti i futuri Giochi Olimpici fossero ospitati da Atene. Questo
il suo testo: “Atene, 14 aprile 1896. A Sua Altezza Reale Costantino, Principe ereditario di
Grecia. Noi, americani partecipanti ai Giochi
Olimpici Internazionali di Atene, desideriamo
esprimerle, ed attraverso Lei al comitato ed al
popolo di Grecia, il nostro ringraziamento di
cuore per la grande gentilezza e calda ospitalità della quale siamo stati oggetto durante il
nostro soggiorno. Noi desideriamo anche esternare la nostra piena soddisfazione per la condotta dei Giochi. L’esistenza dello Stadio, struttura così unicamente adatta a questo scopo, la
provata abilità dei greci ad amministrare con
competenza i Giochi e, sopratutto, il fatto che la
Grecia è in origine la casa dei Giochi Olimpici, tutte queste considerazioni rafforzano la no-
Sangue e sudore fonte
di energia per il defunto
Le Olimpiadi nascono nel mondo greco. Quattro erano i giochi grandi che si svolgevano (non
solo nell’Ellade, ma in tutte le regioni vicine e le
colonie). Erano riservati ai cittadini di cultura greca: OLIMPICI (dedicati a Zeus/Giove); PITICI o
DELFICI (dedicati ad Apollo); NEMEI (dedicati a Zeus/Giove); ISTMICI (dedicati a Poseidone/
Nettuno). La loro importanza era tale che gli anni
cominciarono a contarsi a partire dalle Olimpiadi.
In questo modo il 776 a.c. era chiamato il 1° anno
dei primi giochi olimpici; il 775 a.C. secondo anno
dopo i primi giochi olimpici e così via. Il premio per
questi giochi era solo simbolico, costituito da un ramoscello intrecciato a mo’ di corona, con il quale si
cingeva il vincitore. Ma la vittoria aveva un enorme
valore per l’atleta che, tornato a casa, era trattato da
eroe e poteva rivestire importanti cariche nella vita
sociale della città Stato di appartenenza.
Moderni, ma così diversi
La prima Olimpiade, come alcune successive,
si svolse secondo dettami assolutamente diversi da
quelli attuali. Innanzitutto, erano ammessi solo i
dilettanti, per cui parteciparono soprattutto studenti, marinai, impiegati, e persone che praticavano lo
sport come hobby per questo motivo alcune figure
restano nella leggenda e di loro si perde traccia nelle
successive Olimpiadi. La maggior parte degli atleti
pagò di tasca propria il viaggio ed in alcuni casi parteciparono alle gare anche dei turisti che in quel momento stavano visitando la Grecia. L’appartenenza
alle varie nazionalità era molto ambigua in quanto gli
atleti si presentavano sotto le effige del proprio club
sportivo o della propria università. La stessa premiazione era totalmente differente: solo il primo e il secondo atleta venivano premiati e annotati nelle cronache dell’epoca. Inoltre, nel 1896 non vennero distribuite medaglie d’oro e solo i primi due classificati
ricevevano un premio: una medaglia d’argento e una
corona d’ulivo per il vincitore, una medaglia di bronzo e una corona d’alloro per il secondo.
Gli atleti iscritti all’edizione inaugurale furono
249, di cui ben 168 greci ed altri 81 atleti in rappresentanza di 13 paesi (17 secondo l’odierna suddivisione politica), che gareggiarono in 43 competizioni
ossia in nove discipline: atletica, ciclismo, ginnastica, lotta, nuoto, scherma, sollevamento pesi, tennis e
tiro (le gare di canottaggio e vela, che pure erano previste, non vennero svolte a causa del cattivo tempo).
PAGINE DI STORIA
Uomini
Nazario
di Giacomo Scotti
L
stra convinzione che questi Giochi non dovranno mai essere rimossi dalla loro sede naturale.” Firmato da John Graham, W.Welles Hoyt,
Ellery H.Clark, James B. Connolly, Gardner B.
Williams, Thomas P. Curtis, Thomas E. Burke,
Arthur Blake, Robert Garrett Jr., Albert C. Tyler, Francis A. Lane, H.B. Jamison.
I prossimi Giochi Olimpici sarebbero trasferiti a Parigi come da programma a suo tempo
stilato. Essi si sarebbero svolti contemporaneamente alla Esposizione di Parigi del 1900, ed
avrebbero avuto parte secondaria nel programma della Esposizione Universale. Un’edizione
intermedia dei Giochi Olimpici fu disputata in
Atene nel 1906. Questa edizione non è mai stata considerata dal C.I.O. come una vera Olimpiade.
(Brano tratto dal Rapporto Ufficiale dei Giochi Olimpici di Atene 1896)
L’olimpionico mancato:
l’italiano Carlo Airoldi
L’italiano Carlo Airoldi cercò di partecipare alla I Olimpiade di Atene nel
1896 e lo faceva con ottime possibilità di vittoria. Tuttavia aveva bisogno di
denaro per arrivare nella capitale greca. I soldi vennero cercati presso il direttore del giornale “La Bicicletta”, uno dei più noti dell’epoca, e Airoldi gli
propose di partecipare economicamente al suo viaggio che si sarebbe svolto a
piedi passando per l’Austria, la Turchia e la Grecia. Un viaggio avventuroso
che avrebbe obbligato l’Airoldi a percorrere 70 chilometri al giorno per trovarsi in tempo ad Atene. Il giornale avrebbe documentato tutte le tappe del
suo viaggio e lo avrebbe aiutato fornendogli il necessario nelle tappe strategiche del suo viaggio.
Il giornale milanese accettò e il viaggio si svolse effettivamente. Le tappe
da Milano a Spalato, passando per Trieste e Fiume, passarono senza problemi. L’Airoldi era intenzionato a dirigersi lungo le coste dalmate per passare
da Cattaro e poi da Corfù. Tuttavia, prima di giungere a Ragusa, cadde e si
ferì una mano, ma soprattutto era stato costretto a trascorrere due giorni all’addiaccio. Gli fu sconsigliato di attraversare l’Albania a piedi per giungere
a Corfù, motivo per cui si imbarcò su una nave austriaca che lo fece sbarcare
a Patrasso da dove giunse ad Atene a piedi seguendo i binari della ferrovia in
quanto non esisteva altra strada.
Dopo questo viaggio avventuroso di 28 giorni, Airoldi, tuttavia, non poté
partecipare alla maratona. La vicenda è paradossale: andato a Palazzo Reale
per iscriversi ai Giochi, venne interrogato dal principe Costantino, presidente
del Comitato Olimpico. Qui trasparì il premio in denaro ricevuto dalla gara
Milano-Barcellona e venne considerato un professionista e quindi non accettabile come atleta olimpico. A niente servirono i telegrammi giunti dall’Italia
da parte di associazioni e comitati sportivi: Airoldi non poteva partecipare e,
già allora, non erano celati i dubbi della mancanza di volontà da parte degli
organizzatori di consentire ad un corridore così forte di prendere parte ad una
gara a cui i Greci tenevano molto. Airoldi non accettò mai la decisione e lanciò una sfida al vincitore della maratona che non fu mai raccolta.
e vicende della cattura e
della condanna a morte
del capodistriano Nazario
Sauro nel 1916 sono ben note.
Ricorrendo il novantesimo anniversario della morte dell’eroe
riteniamo comunque utile ricapitolarle. L’irredentista istriano,
nato nel 1880, capitano di lungo corso della marina mercantile austriaca, si rifugiò in Italia
allo scoppio della prima guerra
mondiale. Nel maggio del 1915,
quando l’Italia dichiarò guerra
all’Austria e le sue truppe passarono il Piave, Sauro si arruolò
volontario nella Marina da guerra italiana. Per sedici mesi svolse “importanti operazioni lungo
le coste dell’Adriatico”, come
si legge nel “Dizionario storico
politico italiano” (1971) diretto
da Ernesto Sestan, ottenendo nel
1916 una medaglia d’argento al
valor militare e la promozione a
tenente di vascello. Che cosa av-
venne, dunque, novant’anni fa e
quali furono i “retroscena” che
portarono all’impiccagione dell’eroe capodistriano?
Occorre risalire alla notte fra
il 30 e il 31 luglio del 1916, in
cui, durante una missione nelle acque di Fiume, il capitano si
incagliò, col proprio sommergibile – il “Giacinto Pullino” –, sugli scogli dell’isolotto Galiola nel
canale della Faresina che divide
l’Istria dall’isola di Cherso. Fatto
prigioniero, venne riconosciuto e
il 16 agosto condannato a morte
mediante impiccagione, pena inflitta dal codice militare austriaco
ai traditori. La sentenza fu eseguita nel cortile del carcere militare
di Pola.
Identificato anche
da amici e parenti
Il viaggio compiuto da Airoldi
L’episodio dell’identificazione è importante. Dai documenti
accessibili agli storiografi risulta
che a riconoscerlo furono ben ventisette testimoni, compresi numerosi marittimi che erano stati suoi
compagni sulle navi mercantili,
dei quali quindici istriani di nazionalità italiana, amici e perfino
qualche parente dell’eroe. Nel suo
libro di memorie “Puna je Pula”,
edito a Zagabria nel 1960, lo scrittore e poeta istriano Mate Balota,
che nel 1916 era giovane marinaio
nell’Arsenale militare di Pola, così
ha scritto a proposito dell’accertamento dell’identità di Sauro: “Essi
storia e ricerca 7
Sabato, 1 aprile 2006
A novant’anni dall’impiccagione dell’irredentista
LIBRI Studio di Daniele Ceschin
che denunciarono
Sauro: i 27 «testimoni»
Prima, grande tragedia
collettiva che travolse
la popolazione civile italiana
«L
sapevano che, identificandolo, appendevano quel combattente alla
forca austriaca. Ciononostante,
quegli uomini che in precedenza
si erano seduti insieme a lui a tavola bevendo insieme il caffé, che
avevano abitato nella stessa casa,
che avevano navigato sulla stessa
nave, o erano suoi parenti, agirono più da leccapiedi austriaci che
da uomini e da italiani”. Balota fa
seguire i nomi: Giovanni Riccobon, capitano marittimo e collega
di Sauro; Pietro Dellavalle che con
Sauro si era imbarcato nel 1914
sulla stessa nave mercantile; il marinaio Antonio Pozzetto che lo riconobbe per primo e lo denunciò;
il pilota Pietro Degrassi. E Ancora: Andrea Colucci, Antonio Battisti, Giovanni Schiavon (costui abitava nella stessa casa dei Sauro),
Oscar Camus, Bartolomeo Perini,
Giovanni Deponte, due Verzier, un
Galas, un Poletti ed altri. A puntare il dito su Nazario, dichiarando
“È lui!”, fu anche il fratello della moglie dell’eroe. Ne parla Carlo Pignatti Morano ne “La vita di
Nazario Sauro” (Milano 1922, pp.
109-110).
Sopra e a
sinistra,
la tomba
di Nazario Sauro a Pola.
Nelle altre
immagini,
alcune foto
del capitano capodistriano,
che D’Annunzio definì “vertice
spirituale
della piccola patria
che domani
sarà
franca”
capo di gabinetto dell’ammiraglio
del Porto di guerra, fu nominato presidente della Commissione
d’inchiesta che il 1.mo agosto e nel
giorno successivo interrogò gli uomini d’equipaggio del “Pullino”. Il
La crudeltà delBalota ha scritto in proposito nell’«oberstabsprofoz» le sue memorie: “Senza che Prica
insistesse, ma su intervento di un
Subito dopo il trasferimento a membro della commissione, il caPola dei prigionieri, il capitano di pitano Josip Debelich di Capodivascello Dragutin Prica, croato, stria, quello stesso 2 agosto ven-
ne appurata l’identità di Nazario
Sauro, che il 9 agosto venne consegnato alla Corte marziale”. Il verdetto della corte fu: impiccagione
per Sauro, campi di internamento
per gli altri prigionieri.
Rievocando i giorni in cui alcuni suoi commilitoni erano in servizio nel carcere militare di Pola,
Mate Balota ci offre un profilo del
comandante in capo delle guardie
carcerarie,
l’“oberstabsprofoz”
Stijepan von Ozegovich, un ufficiale croato nominato Cavaliere
della Croce d’argento con corona
e Collana di bronzo. Era un uomo
robustissimo e crudele, età 59 anni,
dei quali ventotto trascorsi a maltrattare i detenuti di quel carcere.
Soleva colpire i prigionieri con
un vigoroso pugno sulla nuca o
sul capo, scaraventandoli dall’alto
delle scale fino al pianoterra. Ancora più crudele di lui era un sottufficiale ceco, tale Zrunek. Furono
loro due ad accompagnare Nazario
Sauro fino ai piedi della forca innalzata nel cortile del penitenziario. Il terribile spettacolo al quale avevano il privilegio di assistere era il premio per il loro zelo di
aguzzini.
a vicenda dei profughi seguita alla rotta di
Caporetto rappresenta la prima, grande tragedia collettiva
che investe la popolazione civile italiana durante la Grande
Guerra e, in termini assoluti, la
più vasta fino al periodo 19401945”. È quanto si legge nel
prologo del volume “Gli esuli
di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra” ,
pubblicato da Laterza (RomaBari 2006, pagine 314, euro
18), in cui Daniele Ceschin, ricercatore all’Università di Venezia, ha ricostruito quell’esodo di massa, avvenuto in pochi
giorni dopo la disfatta dell’esercito italiano, di quasi 250mila
persone – che nelle settimane
successive sarebbero diventate
oltre 600mila – dalle province del Friuli e del Veneto, poi
occupate dall’esercito austrogermanico. Donne, vecchi e
bambini, provenienti prevalentemente da città come Udine,
Treviso e Venezia: dopo la rotta
di Caporetto dell’ottobre 1917,
seicentomila civili furono costretti ad abbandonare improvvisamente il territorio invaso o
minacciato da vicino dall’esercito austro-ungarico, dando vita
alla più grande tragedia collettiva che interessò la popolazione
durante la Grande Guerra.
“La folla pazza, in fuga, in
tumulto. Carri, bambini, soldati,
vecchi, donne, cavalli, materassi alti ondeggianti, gruppi d’inferociti, turbe di bruti; un urlare, un incalzare, un rigurgitare;
la gente, nella ressa, rovesciata
sulle spallette del ponte, il capo
e le braccia penzoloni, come
morti sui davanzali; cavalli impennati sul risucchio, pugni in
aria, facce livide, occhi sbarrati, bocche dure, e qualche viso
innocente di bambina”. Tragico
è lo spettacolo dei profughi di
Caporetto che cercano di attraversare un ponte sul Piave. La
voce fuori campo è quella di
Kurt Suckert, poi Curzio Malaparte. E una volta tanto, Malaparte non sta inventando nulla.
Eppure, quasi incredibilmente,
fino a oggi gli sfollati di Caporetto hanno atteso invano il loro
storico. Da quel drammatico 24
ottobre 1917, mille volte sono
state ricostruite le circostanze
militari che provocarono il brusco cedimento delle linee italiane sotto la spinta dei reparti austro-germanici: lo sfondamento
sull’Isonzo, l’accerchiamento
di interi corpi d’armata e poi –
in pochi giorni – la fuga del Comando supremo da Udine, l’impossibile difesa del Tagliamento, l’inutile battaglia sul Livenza, infine l’ordine di arretrare
sino al Piave. Gli scaffali delle
biblioteche italiane traboccano
inoltre di volumi sulle responsabilità militari e politiche della “rotta”, variamente attribuite
al comandante Cadorna, ai suoi
generali, a soldati più o meno
“disfattisti”. Ma si è dovuto attendere lo studio di Daniele Ceschin – che ha scritto un libro
basato su fonti inedite, che ricostruisce le dinamiche di questa
fuga di massa parallela alla ritirata dell’esercito e le condizio-
ni di vita, le immagini e le autorappresentazioni degli “esuli in patria” – perché il nostro
sguardo retrospettivo potesse
muovere dagli sbandati della
società militare agli sbandati
della società civile. Nella sola
città e provincia di Milano si
rifugiarono cinquantamila persone. Ma l’impatto della fuga
di massa dal Nord-Est fu anche maggiore in certe paesini o
in certi paesoni del Centro-Sud,
dove a qualche decina o a qualche centinaia di profughi facevano riscontro poche centinaia
o poche migliaia di autoctoni.
Per almeno un anno dopo Caporetto, fino ai giorni gloriosi
di Vittorio Veneto, un’Italia dovette quindi convivere gomito a
gomito con un’altra Italia. Letteralmente convivere, poiché
gli edifici pubblici requisiti allo
scopo di alloggiare gli sfollati
– scuole e monasteri, alberghi e
magazzini, colonie estive e stabilimenti dismessi – non bastarono per ricoverarne neppure la
metà. Gli altri dovettero sistemarsi in affitto, a prezzi spesso
proibitivi per le famiglie meno
che agiate.
La propaganda del governo Orlando trattava i rifugiati
come gli eroi di un’Italia una
e indivisibile, che andavano
tanto meglio accolti e accuditi in quanto avevano preferito
l’“esilio” al “servaggio”. Ma
la realtà era più prosaica: non
sempre l’accoglienza riservata
agli “esuli” (una voce vicentina
sfollata a Montesarchio, in provincia di Benevento, umilmente
si rivolgeva ai parlamentari di
Montecitorio: “Siamo postati
come i animali e mal visti dal
popolo mi dice che siamo austriachi ma paziensa dio provedera”) corrispose agli slogan
dei ministri e dei giornalisti. Per
parte loro, gli sfollati si contentavano di arrabattarsi fra la burocrazia, la politica, la polizia.
Riempivano i formulari per le
domande di sussidio. Supplicavano l’aiuto di questo o quel deputato veneto o friulano. Rassicuravano la Pubblica sicurezza
sull’onestà delle loro intenzioni di lavoratori e di cittadini. Il
racconto di Ceschin restituisce
fin nel dettaglio la quotidiana
routine di questo straordinario
episodio di convivenza forzata
tra gli esuli di Caporetto e il resto degli italiani.
8 storia e ricerca
CURIOSITÀ
Sabato, 1 aprile 2006
Nel 1925 divenne residenza di Mussolini, che la dotò di due bunker
A Roma restaurata villa Torlonia, dimora
di principi e dittatori
V
enti mesi di lavori e più di cinque
milioni e mezzo di euro per far tornare il Casino Nobile di villa Torlonia ai suoi antichi fasti. Tra i più bei palazzi ottocenteschi della capitale italiana, fu
acquistato dai principi Torlonia nel 1797,
e fatto subito ristrutturare e ampliare. Nel
1830 la famiglia fece anche realizzare un
ipogeo in stile etrusco che gli storici dell’architettura pensano fosse destinato ad
incontri massonici organizzati dai principi.
Nel 1925 divenne la residenza del duce
che vi fece costruire due bunker: uno antigas e il secondo antiaereo. Il suo degrado
iniziò prima con l’occupazione americana:
rimangono perfino alcuni disegni a pastello fatti dai soldati sui muri del palazzo. E
continuò con la rimozione storica: il casino fu oggetto di saccheggi e atti di vandalismo. Villa Torlonia fu a lungo chiusa, il casino è rimasto in rovina anche dopo la riapertura del parco. “Ci sono luoghi in cui la
storia si accanisce, e questo è uno di quelli.
Ma non bisogna aver paura del passato”,
ha commentato il sindaco di Roma Walter
Veltroni durante l’inaugurazione. “Questa
fu l’abitazione di Mussolini, e credo che si
sia verificata la stessa voglia di oblio che
ha coinvolto anche Palazzo Venezia”. Un
segno di “immaturià” ha continuato il sindaco, felice di ridare vita al casino nel primo giorno di primavera, “perché la storia
va vissuta senza imbarazzi”. L’edificio
sarà aperto al pubblico fino al 15 giugno,
poi diventerà “Il museo della Villa”: saranno ricollocati i mobili originari, al pianterreno la storia e la memoria del luogo sarà
raccontata attraverso i documenti; l’ultimo
piano ospiterà un’esposizione permanente
degli artisti della Scuola romana.
Una potentissima
famiglia romana
Nel 1806 il principe Giovanni Torlonia,
per eguagliare le grandi famiglie di principi romani decide di acquistare villa Torlonia. I Torlonia, potentissima famiglia romana dovevano le loro fortune all’attività di
banchieri ed aspiravano all’ascesa nobilare
attraverso acquisto di titoli. Valadier viene
incaricato di eseguire dei complessi lavori
di restauro che saranno completati dal successore di Giovanni, Alessandro Torlonia.
La decorazione centrale della villa è costituita da due obelischi di granito trasportati dal lago Maggiore ed eretti sul luogo
per volere di Alessandro Torlonia nel 1842
in memoria dei genitori. All’interno della
villa si trovano anche due colonne onorarie,
statue ed una tribuna per le feste. La villa
è caratterizzata da 13 edifici che vogliono
rappresentare differenti aspetti e periodi del
mondo. Il parco venne progettato secondo
il gusto romantico dell’epoca con ruderi e
vegetazione esotica, con allusioni all’antichità e all’oriente, e mescolanza di stile so-
Torlonia, tra il 1840 e il 1857, come edificio destinato all’agricoltura e come serra
per i fiori. Dell’interno non si ha più nulla,
ma le strutture architettoniche sono salve.
Il teatro fu costruito da Q. Raimondi nel
1841 e fu terminato soltanto nel lontano
1874 su richiesta di Alessandro Torlonia
brio e fasto principesco. Sparsi all’interno
vi sono molte specie di alberi: dal Pino domestico alla Palma Californiana, dal Pino
americano alla Palma nana, dal Cedro all’Oleandro, dalla Quercia verde al Fico.
Nel sottosuolo del parco vi sono le catacombe ebraiche che si estendono per oltre
9 km costituite da due cimiteri risalenti al
III e IV secolo e ornati da pitture con simboli ebraici. Durante la II Guerra Mondiale
Mussolini e i Torlonia costruirono un rifugio contro i bombardamenti in uno dei due
cimiteri sotterrani.
Le Scuderie furono uno dei primi edifici ai quali Valadier mise mano dando
loro un aspetto di loggia ornata con statue. L’Aranceto fu costruito per Giovanni
per sua moglie Teresa Colonna. Il fabbricato ha un corpo centrale che somiglia al
Pantheon e l’interno è riccamente decorato. Delle pitture nelle stanze del Casino
non sopravvive molto, neppure lo splendido pavimento con decorazione musiva. Dal 2 marzo il Casino dei Principi è
diventato un museo, aperto al pubblico:
sono visibili marmi antichi della Collezione Torlonia, copie, parte dei rilievi
realizzati in stile rinascimentale per una
cappella andata distrutta… un piccolo itinerario che va dalle prospettive del Golfo
di Napoli dipinte nella Sala da Pranzo ad
uno dei tre rilievi in gesso di Antonio Canova: quello con la Danza dei Feaci. Nel
1906 su richiesta di Anna Maria Torlonia,
figlia di Alessandro fu aggiunto al complesso il Villino medioevale.
L’affitto per il duce:
una lira al mese
Dopo 25 anni di abbandono totale, la famiglia Mussolini sceglie la Villa come residenza privata con un contratto di affitto
assolutamente vantaggioso: una lira mensile da corrispondere alla famiglia Torlonia!
Sicuramente l’edificio più interessante è la
Casina delle Civette, che sembra appartenere al mondo delle fiabe. Il primo nucleo
della Casina risale al 1840 quando fu progettata da Giuseppe Jappelli in forma di capanna svizzera; nel 1908 Giovanni Torlonia la fece ampliare e trasformare dall’architetto Gennari che le diede un aspetto
medioevale; nel 1916-20 l’architetto Vincenzo Fasolo vi aggiunse logge e porticati e arricchendo di elementi decorativi le
strutture architettoniche. La presenza nelle
decorazioni di elementi riferiti alla civetta
ne determinò la denominazione con la quale l’edificio è tutt’ora noto.
Alla morte del principe, nel 1939, la Casina venne abbandonata e pochi anni dopo,
dal 1944 al 1947, Villa Torlonia fu occupata dal comando militare anglo-americano
che vi produsse danni incalcolabili. Quando nel 1978 la villa fu acquistata dal Comune di Roma, la Casina delle Civette era
ridotta ad un rudere. Nell’edificio recuperato è oggi ospitato un museo dell’eclettismo
romano. La sua caratteristica però sono le
vetrate, eseguite tra il 1908 ed il 1930 e che
offrono un campionario unico dell’arte della vetrata a Roma in quegli anni, con i contributi di artisti quali Duilio Cambellotti,
Paolo Paschetto, Vittorio Grassi, Umberto
Bottazzi; la Sovraintendenza comunale in
questi anni ha acquistato sul mercato altre
vetrate degli stessi autori, disegni e bozzetti, alcuni dei quali predisposti proprio per le
vetrate della Casina delle Civette.
Anno II / n. 4 1 aprile 2006
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
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Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: STORIA E RICERCA
Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi Rukavina / Impaginazione: Saša Dubravčić
Collaboratori: Kristjan Knez, Giacomo Scotti
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