IN QUESTO NUMERO Questo numero dell’Inserto “In Più – Storia e Ricerca” potrebbe apparire quasi “tematico” o perlomeno incentrato sul campo dell’“erudizione”, dell’approccio allo studio, alla trasmissione del sapere e delle conoscenze storiche. L’apprendimento nelle scuole dell’obbligo sta per subire, a partire dal 2006/2007 una miniriforma. Le istituzioni e i docenti sono pronti ad accogliere le nuove sfide della formazione? Se ne parlerà al seminario che il 4 e 5 aprile prossimi si terrà a Rovigno, al Centro di Ricerche Storiche. Da non dimenticare poi gli studiosi che hanno posto le basi della storiografia moderna sul territorio d’insediamento della Comunità Nazionale Italiana: Kristjan Knez propone l’opera del vescovo di Cittanova Giacomo Filippo Tommasini, i cui “Commenti storico geografici” hanno avuto recentemente una ristampa anastatica (pp. 2 e 3). E mentre sono ormai sfuocate atmosfere ed emozioni delle Olimpiadi invernali di Torino, compiendo un passo indietro nel tempo, nelle pagine centrali, si rievocano le caratteristiche e lo spirito dei primi Giochi Olimpici dell’Era Moderna, inaugurati il 6 aprile 1896 ad Atene. L’edizione di aprile si conclude con due schegge storiche: l’episodio del “tradimento” subito dal patriota Nazario Sauro, di cui Giacomo Scotti ricorda la tragica fine e una sbirciatina finale nelle stanze – recentemente restaurate – di villa Torlonia, dove alloggiò anche il duce. ATTUALITÀ Scuole CNI, la didattica modulare al seminario per docenti di Storia L’insegnamento del passato «sale» su un banco di prova di Ilaria Rocchi-Rukavina I DEL POPOLO storia e ricerca ce vo /la .hr dit w.e ww l Centro di Ricerche Storiche di Rovigno ospiterà nella settimana a venire, il 4 e 5 aprile, un seminario per i docenti di Storia delle scuole elementari e medie superiori della Comunità Nazionale Italiana. Organizzato dal Settore educazione e istruzione della Giunta esecutiva dell’Unione Italiana, nell’ambito delle iniziative promosse dalla collaborazione fra Unione Italiana e Università Popolare di Trieste, avrà quale tema centrale la didattica modulare. Il seminario intende così rispondere a due esigenze di fondo: una contingente, tesa a rispettare le direttive ministeriali stabilite dallo Standard formativo (HNOS) che entrerà in vigore nelle elementari in Croazia a partire dal prossimo anno scolastico; l’altra più profonda, mirata a superare forme di sapere storico legate unicamente al riconoscimento di successioni temporali rigide e di processi di causaeffetto. Infatti, il vecchio modello non consente agli alunni, nella misura auspicabile, di raggiungere abilità di collegamento profonde e persistenti tra un numero enorme di eventi e di concetti che la disciplina storica sicuramente comporta. Lo HNOS prevede pertanto un ridimensionamento del numero di informazioni e nozioni che si ritengono essenziali, puntando invece su metodologie che innestino abilità e conoscenze persistenti e che, soprattutto, forniscano ai ragazzi strumenti culturali per acquisire le conoscenze necessarie per lo studio, sviluppando capacità di apprendimento autonome. Cambia il procedimento metodologico: si riorganizza la progettazione didattica, si cerca di otti- mizzare il tempo scuole, si mette in discussione la struttura stessa dell’unità didattica, in modo che diventi più flessibile (anche con tempi diversi, a seconda delle tematiche e delle abilità da sviluppare), aperta a collegamenti con altre discipline (in modo da perseguire la interdisciplinarità), con approcci metodologici diversi e differenti stili di apprendimento, adeguati ai diversi gruppi di allievi (ciò comporterà una ridefinizione dell’impostazione finora adottata in classe dai docenti e all’incontro di Rovigno sarà avviato un breve laboratorio di esemplificazione). Dunque, l’”offerta” formativa dovrebbe essere tesa a valorizzare le potenzialità, a sviluppare la capacità di riflessione e il senso critico degli allievi, incoraggiando l’acquisizione di nuove conoscenze, nonché fornire varietà di esperienze per progettare e scegliere in modo efficace il proprio futuro, le strategie ed i comportamenti più adatti a padroneggiare la complessità dei sistemi e delle loro interazioni. Non solo: alla scuola del XXI secolo si chiede di innescare nei giovani sì processi di integrazione culturale e sociale, ma anche di stimolare il confronto con gli altri e – soprattutto – di conseguire e mantenere la propria identità (anche nazionale?). Sempre nel rispetto dell’altro, ovviamente. An no II • n. 4 6 • Sabato, 1 aprile 200 2 storia e ricerca Sabato, 1 aprile 2006 INIZIATIVE Volume riproposto, in edizione anastatica, a quasi 170 anni dalla prima La specifica situazione in Istria n di Kristjan Knez I n occasione del venticinquesimo anniversario della fondazione, il Circolo di cultura istro-veneta “Istria” ha realizzato la ristampa anastatica dell’opera “Commentari storico geografici della Provincia dell’Istria” del vescovo di Cittanova Giacomo Filippo Tommasini. L’opera, importante per le osservazioni e per i contenuti, viene riproposta dopo quasi centosettant’anni. Questo volume ci offre l’occasione per parlare di Tommasini e del suo lavoro, ancora oggi fonte di notevole importanza non solo per il ricercatore di storia bensì per ogni studioso che si occupa di argomenti istriani. Per quanto attiene le osservazioni sulla vita, l’economia, la cultura, gli aspetti religiosi, ecc., l’autore si riferisce alla prima metà del Seicento cioè all’epoca in cui visse (Padova 1595 – Venezia 1655). Il ‘600 in regione un secolo infausto Il XVII secolo fu un periodo infausto per l’Istria: i conflitti, le epidemie e l’endemico problema degli Uscocchi furono soltanto alcuni dei problemi che sconvolsero la penisola. Per tale motivo, in passato, questo periodo storico venne accantonato dagli studiosi oppure venne ricordato solo a grandi linee, evidenziando sempre che si era trattato di un secolo tra i più negativi per la regione. La storiografia istriana dell’Ottocento si occupò innanzitutto di storia municipale, ove la città rappresentava il simbolo dell’italianità della penisola e si intersecava idealmente con la storia della Serenissima. Le ricerche storiche mettevano in risalto le tradizioni della vita municipale, che rappresentava l’essere della componente italiana nonché una sorta di continuum, che a partire dall’età tardoantica arrivava sino alla nuova affermazione municipale avvenuta nel corso del XIX secolo. Di conseguenza non vi furono grandi interessi per l’età moderna, ed in particolare per i secoli XVII e XVIII, vale a dire per la fase in cui inizia la parabola discendente della Serenissima. Il Seicento istriano fu un periodo lugubre: guerre, attriti ai confini, incursioni degli Uscocchi, pestilenze, depauperamento demografico, ripopolamento delle terre, attraverso la politica demografica della Repubblica di San Marco sono alcuni degli aspetti di quel periodo. Questa realtà non aveva destato grande interesse agli studiosi di storia istriana, che preferirono sottrarsi alla trattazione di tali problemi o, se già lo fecero nelle loro opere, vi dedicarono poche pagine. Carlo De Franceschi, autore della prima monografia dedicata alla storia della penisola, a proposito dell’ultimo periodo veneziano intitola esplicitamente due dei suoi capitoli: il XXXVIII si riferisce alle “Infelici condizioni dell’Istria in conseguenza delle guerre e delle pestilenze”, mentre il successivo è intitolato “Trasporti di nuove genti avvenuti in diversi tempi per ripopolare quelle contrade dell’Istria, che le irruzioni di orde barbare, le guerre e le pesti avevano disertato di abitatori”. In tal modo lo storico di Moncalvo vuole presentare le pagine più funeste del passato istriano, contraddistinte dalla distruzione provocata dai conflitti, dalle morie dovute ai flagelli della peste nonché dall’arrivo di nuove genti che stravolsero la struttura etnica della penisola. Ed in un periodo di battaglie politiche, culturali ed economiche tra Italiani, Sloveni e Croati la colonizzazione del territorio, avvenuta per opera della Dominante – che interessò in buona parte popolazioni slave, ma non solo –, rappresentava niente meno che una sorta di calamità per la componente romanza (leggi italiana) dell’Istria. La recente storiografia istriana, a differenza di quanto fatto precedentemente, dimostra invece un particolare interesse per i fenomeni succedutisi nella penisola nei secoli che accompagnarono il declino della Repubblica di Venezia. Tra gli studiosi di problemi quali le pesti e lo spopolamento dei centri abitati e la successiva colonizzazione, gli aspetti demografici e la situazione venutasi a creare tra gli “habitanti vecchi e novi “ ricordiamo in modo particolare Miroslav Bertoša ed Egidio Ivetic. L’apporto della corografia La corografia “Commentari storico geografici della Provincia dell’Istria” venne pubblicata per la prima volta nel 1837 nel volume quarto de “L’Archeografo Triestino”, rivista voluta da Domenico Rossetti, che gettò le basi della moderna storiografia della regione. Sulla scia della grande erudizione – che nel XVIII secolo aveva visto operare un uomo di cultura come il capodistriano Gianrinaldo Carli –, il patrizio tergestino volle creare una realtà nuova, una rivista, appunto, che si giovasse del contributo di più persone, attraverso le quali raccogliere materiali sconosciuti o poco noti ed illustrarli. Il periodico avrebbe pertanto pubblicato “Quello che in autori di ogni tempo e di ogni nazione fu per incidenza detto della nostra città (e con questa comprendo sempre quanto al suo territorio ed alla sua provincia ed alle cose e persone loro appartiene) sarà raccolto, e fedelmente riferito colla giunta di quelle osservazioni ed illustrazioni che il relatore vi stimerà più opportuna” (p. 6) scrive Rossetti nella prefazione al primo tomo del 1829. Tra i materiali pubblicati ricordiamo le corografie, le quali, dato che non esisteva ancora una storia istriana, rappresentavano una fonte di notevole importanza, con dati ed informazioni utili per la ricostruzione del passato regionale. Nel 1830 Pietro Kandler pubblicava le prime “Corografie dell’Istria”, nell’introduzione l’erudito triestino scri- Da Flacio Illirico al Valvasor: una lunga tradizione, ecclesiastica Eruditi secenteschi nelle regioni L’ erudizione, sorta con l’Umanesimo, si sviluppò a seguito della Riforma luterana che scosse la Chiesa di Roma. La ricostruzione del passato divenne uno strumento di eccezionale importanza. In questa sede non possiano omettere la “Historia ecclesiastica” dei “centuriatori” di Magdeburgo, a cui faceva capo Mattia Flacio Illirico di Albona nonché gli “Annales ecclesiastici” di Cesare Baronio. Questa storiografia, ricordiamolo, era al servizio della teologia. Attraverso l’indagine la stessa doveva dimostrare o meno la frattura o la continuità tra la chiesa dei primi tempi, degli albori cristiani, e la chiesa di Roma. La tradizione erudita continuerà con risultati ancora maggiori nel corso del Seicento grazie agli ecclesiastici regolari che si dedicheranno a tali studi con particolare veemenza. Basti ricordare i maurini, i benedettini della congregazione di San Mauro, che si dedicarono alla stesura di una mastodontica edizione delle opere dei padri della chiesa, oppure i bollandisti, i gesuiti belgi, che negli anni ‘40 del XVII secolo iniziarono a pubblicare gli “Acta Sanctorum”. Nei territori dell’odierna Slovenia riscontriamo innumerevoli eruditi, laici ed ecclesiastici, che compilarono lavori fondamentali, ossia gettarono le basi di cui si giovarono gli storici successivi. Tra questi intellettuali citiamo Johann Ludvig Schönleten, con le sue genealogie sulla casata degli Asburgo ed altre famiglie patrizie. “Carniola antiqua et nova” (1681) è invece il primo tentativo volto ad illustrare la storia della Carniola sino all’anno Mille. L’opera intrapresa dal surricordato venne ripresa e continuata da Valvasor, la cui “Gloria” non ebbe eguali nelle altre regioni austriache. Ai primi del XVII secolo ricordiamo il gesuita goriziano Martin Baučer, ritenuto il primo storico sloveno, al quale si deve la stesura della “Historia rerum Noricarum et Foroiuliensium”. Vi è altresì Georg Matthäus Vischer, contemporaneo di Valvasor, che realizzò la “Topographia Ducatus Stiriae”, un album di immagini relative alla regione, ma senza testo. L’opera di Valvasor costituisce una fonte di non indifferente importanza poiché per la stesura della stessa l’autore consultò, e analizzò più o meno criticamente, documenti oggi non più disponibili allo studioso. Rammentiamo che i tomi contengono importanti sezioni dedicate alla storia, alla geografia, alla topografia, ecc., i cui contenuti riflettono, in parte, i risultati delle sue osservazioni dirette, effettuate nei territori storia e ricerca 3 Sabato, 1 aprile 2006 edizione, dal Circolo di cultura istro-veneta nel 25.esimo della sua fondazione nelle annotazioni del Tommasini ve: “sotto questo titolo andremo raccogliendo e pubblicando nel nostro Archeografo tutta l’antica e tutta la meno recente suppellettile corografica della nostra provincia, senza escludere quegli articoli che già fossero stati altre volte pubblicati purchè siano poco conosciuti o meno comuni” (p. 15). Nel 1831 anche Domenico Rossetti firmò un contributo nel quale presentava alcune corografie concernenti la vicina penisola. Società di Minerva di Trieste Cultura e storia ebraica Dopo il ciclo di conferenze dedicate all’Islam, la Società di Minerva di Trieste nel mese di aprile propone un ciclo di incontri concernenti la cultura e la storia ebraica. Gli appuntamenti si svolgono nella Sala “Silvio Benco” della Biblioteca Civica del capoluogo giuliano, con inizio alle ore 17.30. Oggi lo psicologo prof. Silvio Cusin, esperto di storia della Comunità Ebraica della nostra regione, parlerà sul tema “Come oggi possiamo immaginare il quartiere chiamato Ghetto”. Il 9 aprile la prof.ssa Silva Bon, Presidente dell’Istituto di Cultura ebraica, si soffermerà sull’”Interpretazione della Shoah (macrostoria e microstoria)”. Il 23 aprile il dr. Livio Vasieri tratterà un argomento particolare come “Bet Haolam la casa dell’eternità degli Ebrei”. L’ultimo incontro del mese si svolgerà sabato 29 aprile, la prof.ssa Cristina Benussi, studiosa e titolare della cattedra di Lettere dell’Università di Trieste, illustrerà il tema “Le donne ebree e la Scrittura”. Fonte di indubbia importanza La pubblicazione dell’opera del vescovo di Cittanova, rimasta manoscritta per quasi due secoli, rientrava, dunque, in quelli che erano gli obiettivi della rivista. Nella prefazione si legge: “Fu perciò intendimento dell’’‘Archeografo’ di farsi depositario di materiali pure rozzi od imperfetti, perchè l’ammasso di questi sproni qualche nobile ingegno, di cui privi mai saremo, a farsi architetto, ed ordinandoli e completandoli sorga quell’edifizio di cui andiamo privi e che attesterà quali fossero un tempo e l’Istria e gli Istriani; ed invogli pure ad aumentare questi materiali medesimi” (p. IV). I redattori erano consci che per iniziare la stesura della storia della regione, di Trieste e della penisola istriana, fosse necessario raccogliere le fonti grazie alle quali ricavare i dati e le informazioni utili per un lavoro di ricostruzione del passato. L’opera di Tommasini è una fonte di indubbia importanza, che, grazie alla sua mole di dati e di osservazioni, giova non poco alla comprensione della realtà istriana nel XVII secolo. Siffatto scritto venne ritenuto utile pubblicarlo e quindi renderlo fruibile agli studiosi. Si tratta, così nella prefazione, di “(...) opera di uno scienziato di non volgare fama, e perché sortì dalla penna di uno, che se non fu Istriano di nascita, lo fu per l’officio e per l’amore in che tenne questa provincia, e perché nessuno meglio di lui ci presenta la condizione ed i costumi di quei tempi, della cui verità pur troppo si scorgono tracce anche ai di nostri” (p. IV). Il manoscritto si conserva alla Biblioteca Marciana e fu donato da Apostolo Zeno; nella prefazio- ne all’edizione del 1837 si legge “Ei forse lo ebbe da quel suo consanguineo Zeno vescovo di Capodistria, il quale raccoglitore ei medesimo di notizie sulla sua diocesi, amico del Tommasini, cui anzi comunicò i propri scritti, lo ricuperò forse dagli eredi di lui che in altra terra l’avrebbero recato” (pp. V-VI). Le cinque «nazioni» Da ultimo non possiamo fare a meno di fornire una sommaria indicazione degli argomenti trattati dall’erudito secentesco. I curatori del testo apparso sull’“Archeografo Triestino” scrivono “(...) chi dell’antica nostra topografia, e della storia nostra si diletta vi troverà materiali sufficienti, e ne saprà buon grado”. Effettivamente tale testo è fondamentale per comprendere un’epo- e laica, di respiro europeo contermini della corona asburgica, e diligentemente annotate. La “Gloria del Ducato di Carniola” racchiude nelle sue pagine una miriade di notizie attinenti l’etnografia, dati sulle abitazioni, sugli usi e costumi delle popolazioni, il tutto corredato da alcune centinaia di incisioni. Attraverso la descrizione della Carniola, intesa come regione centrale, che abbracciava anche una sezione dell’Istria (la Contea di Pisino) e del Litorale adriatico (Trieste e Fiume), la Carinzia e la fascia dei Confini Militari prospicienti le regioni dell’Impero ottomano, Valvasor ci offre una narrazione a tutto tondo di una buona parte dell’odierna Slovenia e delle terre contermini nella seconda metà del XVII secolo. Il lavoro è corredato pure da note che indicano i riferimenti bibliografici e archivistici consultati e analizzati dall’autore. Tali note sono generiche e presentano lacune, rappresentano comunque il segno di un cambiamento in atto. Con la morte di Valvasor l’erudizione non venne meno. A differenza della letteratura in lingua slovena che subì un duro colpo dalla controriforma della chiesa, guidata dal vescovo di Lubiana Tomaž Hren – dopo la fioritura avvenuta nel corso del XVI secolo con gli autori protestanti –, essa continuò imperterrita, esprimendosi in latino e in tedesco. Tra i degni continuatori ca caratterizzata da problemi e da metamorfosi, all’indomani della plumbea stagione delle guerre e della peste che falcidiarono la popolazione della penisola. L’autore visse nel periodo in cui si assiste al rafforzamento della parrocchia come istituzione, le pagine della sua corografia sono pertanto una fonte di notevole importanza per lo studio degli aspetti religiosi dell’Istria, al contempo ci fornisce non pochi elementi sulla persistenza di culti, di credenze “pagane” (dai nati con la camicia, ai licantropi, alle streghe) dimensione che anche il poligrafo Valvasor riprese nella sua opera “Die Ehre des Hertzogthums Crain”. Come osservatore attento non poteva fare a meno di non citare i gruppi etnici presenti nella penisola. Il vescovo di Cittanova annovera cinque nazioni: i nativi Italiani, gli Slavi istriani, i Morlacchi, i Gradesi immigrati, i Friulani uniti ai Carnielli. I “Commentari” racchiudono poi informazioni sulla vita quotidiana, gli usi e costumi, le attività economiche, le caratteristiche dei centri urbani, la flora, la fauna, il retaggio delle epoche passate, ecc. Per quanto attiene quest’ultimo aspetto Tommasini utilizzò come fonti le iscrizioni, i reperti archeologici e materiali vari, grazie ai quali fornisce una descrizione puntuale dell’argomento affrontato. Ancora alla fine del XVII secolo l’antiquario Franceso Bianchini esortava gli eruditi d’Italia a fare una “storia per simboli”, cioè sulla base delle testimonianze ar- degli autori secenteschi basti ricordare il giurista dell’Accademia degli Operosi di Lubiana Janez Gregor Dolničar, importante per i suoi lavori inerenti l’archeologia dell’antica Emona nonché la storia del capoluogo carniolano. Siffatti autori si inseriscono nell’alveo dell’erudizione europea, non sono esponenti isolati nel loro contesto provinciale, bensì collaborano e si scambiano informazioni ed idee. Nel 1611 Nicolò Manzioli dava alle stampe la “Nova descrittione della Provincia dell’Istria”. Prospero Petronio, alla fine del ‘600, vergò le “Memorie sacre e profane dell’Istria”, opera pubblicata solo nel 1968, nonostante il manoscritto fosse noto agli studiosi ed i suoi contenuti segnalati nella seconda metà del XIX secolo sulla rivista capodistriana “La Provincia dell’Istria”. Petronio compilò il suo lavoro attingendo in particolare proprio dalla corografia del Tommasini. In terra dalmata operò invece Giovanni Lucio di Traù autore della “Storia del Regno di Dalmazia e di Croazia” (Amsterdam 1666), raccolta di fonti documentarie concernenti l’Alto medioevo che ha trovato attuazione ed organica sistemazione in un volume che tuttoggi rappresenta un punto di riferimento per qualsiasi studioso che voglia affrontare la storia della Dalmazia nella “media aetas”. Nel 1698 Ireneo della Croce dette alle stampe l’opera “Istoria antica e moderna della città di Trieste”, mentre nel 1700 a Venezia uscì la “Corografia ecclesiastica o sia descrittione della città e della diocesi di Giustinopoli detto volgarmente Capo d’Istria” del vescovo capodistriano Paolo Naldini. (kk) cheologiche, in quanto rappresentano una base più solida rispetto alle fonti letterarie. Il vescovo di Cittanova fu pertanto un precursore, in quanto, circa mezzo secolo prima, aveva già intrapreso tale tipo di indagine. La ristampa anastatica dell’opera è un’iniziativa benemerita, utile sia agli studiosi, che così dispongono con maggiore facilità di un testo di fondamentale importanza, sia al lettore appassionato di cose istriane, in quanto grazie a queste pagine entra a contatto con la ricca storia della nostra terra, eterogenea, plurale nei suoi aspetti e affascinante nelle sue svariate ma-nifestazioni. 4 storia e ricerca Sabato, 1 aprile 2006 Sabato, 1 aprile 2006 5 SCHEGGE Vi parteciparono solo 13 paesi, anche perchè i Giochi non furono ben publicizzati. Gli atleti, dilettanti, vi giunsero anche a proprie spese Atene, 6 aprile 1896: si aprono i primi giochi olimpici moderni N ell’aprile di centodieci anni fa si aprivano le prime Olimpiade dell’Era Moderna. I festeggiamenti iniziarono il 5 aprile 1896 (24 marzo 1896 secondo il calendario giuliano allora in uso in Grecia e in altre poche parti del mondo) con l’inaugurazione della statua in marmo dell’importante benefattore, Georgios Averof, che era stata eretta davanti allo Stadio Panellenico. Questo avvenne nella domenica di Pasqua, e la giornata, per la sua importanza, fu conclusa da Pierre de Fredi barone di Coubertin. MacAloon annotò che il marchese aveva previsto che nel 1896 le Pasque dei cristiani e degli ortodossi orientali avrebbero coinciso, e pensando al significato della Resurrezione, egli programmò di inaugurare i rinati Giochi Olimpici nella domenica di Pasqua. Per di più, il primo giorno dei Giochi, lunedì, 6 aprile 1896 (25 marzo) era il giorno dell’indipendenza greca. Quel giorno vide l’apertura ufficiale dei Giochi della Prima Olimpiade dell’Era Moderna. Dopo l’arrivo di re Giorgio e della regina Olga di Grecia, il principe ereditario Costantino fece un discorso inspirato. Il sovrano ellenico subito dopo inaugurò i Giochi con le seguenti parole: “Dichiaro l’apertura dei primi Giochi Olimpici Internazionali in Atene. Lunga vita alla Nazione. Lunga vita al popolo greco.” Dopo venne suonato l’Inno Olimpico da nove bande e da 150 coristi. La musica era stata composta da Spyros Samaras, e le parole erano tratte da una poesia del poeta e romanziere nazionale greco Kostis Palams. Questo rimase l’Inno Olimpico ufficiale, sebbene esso non venisse dichiarato ufficialmente tale fino al Congresso del CIO del 1958. I Giochi e le competizioni sportive iniziarono alle 15.30. I Giochi stessi rimasero lontani dallo standar che uno si aspetterebbe dallo sport di oggi. Solo 13 paesi parteciparono e molti degli atleti migliori del mondo non gareggiarono, anche perchè i Giochi non furono ben publicizzati. Coubertin ebbe difficoltà a far suscitare interesse sui Giochi fra molte delle nazioni del mondo. Certamente le selezioni olimpiche furono disputate solo in Grecia, contrariamente agli auspici espressi al Congresso della Sorbona dalla Commissione olimpica. Ci furono molte differenze fra i Giochi Olimpici del 1896 e le olimpiadi che noi abbiamo conosciuto un secolo più tardi. Primo, si sarebbe notato che non c’erano alcune delle cose attuali come ad esempio una medaglia d’oro. I vincitori delle gare ricevevano un diploma, una medaglia d’argento, ed una corona fatta di ramoscelli d’ulivo. Il secondo classificato di ogni gara ricevette un diploma, una medaglia di bronzo ed una corona di alloro. Le medaglie erano state disegnate dallo scultore francese Jules Chaplain. Ogni atleta che prese parte alle competizioni ricevette anche una medaglia commemorativa che era stata disegnata dall’artista greco Nikephoros Lytras. I diplomi erano stati disegnati dal famoso pittore greco Nikolaos Gyzis. Non ci furono cerimonie separate per la consegna delle medaglie. Infatti, tutti i premi furono consegnati da Re Giorgio nel corso di una speciale cerimonia prima della cerimonia di chiusura nell’ultimo giorno dei Giochi. Senza donne! Alle Olimpiadi c’erano anche maggiori assenze perchè fu la sola volta nell’era moderna che non ci furono concorrenti donne. Coubertin non approvava l’idea dello sport femminile e fece a meno delle competizioni femminili per tutta la sua vita. Nel 1896, lo sport delle donne aveva una piccola organizzazione e non c’era alcuna spinta per includere gare femminili nel programma. Queste erano ufficialmente escluse. Solo nella maratona si sarebbe potuto dire di aver avuto una presenza femminile. Due donne corsero non ufficialmente la gara di maratona all’incirca nel tempo della gara ufficiale, ma nè Melpomene nè Stamata Revithi gareggiarono ufficialmente. I vincitori La prima gara delle Olimpiadi moderne fu la prima batteria dei 100 metri, vinta da Francis Lane, uno studente di Princeton. Ma la prima gara che si concluse fu quel- la del salto triplo vinta da James Connolly, uno studente di Harvard. Egli divenne il primo campione olimpico conosciuto dal tempo di Zopyros di Atene che aveva vinto nella specialità del pugilato riservato ai ragazzi e nel pancrazio nell’edizione 291 dei Giochi Olimpici nel 385 a.C. La finale dei 100 metri fu vinta dal’americano Thomas Burke, l’unico concorrente americano ad aver vinto un titolo nazionale. Egli alla fine vinse ad Atene i 100 ed i 400 metri. Gli americani presentarono altri due atleti vincitori di un doppio titolo nelle gare di atletica, come Robert Garrett che vinse il lancio del peso e quello del disco, mentre Ellery Clark vinse il salto in alto ed il salto in lungo. Il miglior ciclista ai Giochi Olimpici del 1896 fu il francese Paul Masson. Masson era poco conosciuto prima delle Olimpiadi, ma ad Atene vinse tre competizioni, trionfando nel giro a cronometro, nei 2.000 metri di velocità e nei 10.000 metri in pista. L’atleta pluridecorato (secondo i criteri moderni) ai Giochi del 1896 fu il ginnasta tedesco Hermann Weingärtner. Il 32enne Weingärtner vinse tre titoli (sbarra orizzontale individuale e sbarra orizzontale e parallele nel torneo per squadre), fu due volte secondo (anelli e cavallo con maniglie) e conquistò anche un terzo posto nella specialità individuale delle parallele. Ai giorni nostri sarebbero state sei medaglie vinte. L’atleta che vinse molto nelle gare del 1896 fu pure il tedesco Carl Schuhmann. Il versatile Schuhmann vinse tre gare nella ginnastica (volteggio al cavallo individuale e nelle due gare a squadre della sbarra orizzontale e nelle parallele), e trionfò anche nella lotta greco-romana, categoria libera. Schuhmann gareggiò anche in atletica (in tre gare - salto in lungo, salto triplo e lancio del peso) e nel sollevamento pesi. dove finì a pari merito al quarto posto nel sollevamento della sbarra a due mani. Oltre a Weingärtner, Schuhmann e Masson, un altro atleta che vinse almeno tre gare ai Giochi Olimpici del 1896 fu un altro tedesco, Alfred Flatow. Flatow era un ginnasta che vinse il titolo delle parallele e collaborò con la Germania a vincere entrambe le competizioni ginniche a squadre nella sbarra orizzontale e nelle parallele. Anche suo cugino, Gustav “Felix” Flatow, gareggiò ad Atene per la Germania nella ginnastica, vincendo due titoli a squadre. Entrambe i Flatow, di fede ebraica, avrebbero più tardi perso le loro vite in campi di concentramento nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Gareggiò solo un italiano, sebbene diversi fossero gli iscritti ed un altro in realtà si presentò in Atene sperando di poter gareggiare. Carlo Airoldi era un corridore sulle lunghe distanze che desiderava gareggiare nella prova di maratona. Airoldi arrivò ad Atene da Milano coprendo una parte del viaggio a piedi. Egli fu festeggiato in Atene per questa impresa e ricevuto dal Principe Costantino a Palazzo reale. Quì, Airoldi ammise che egli aveva ricevuto soldi per correre e quindi, come professionista, fu squalificato. Un reclamo presentato dal suo club (la Società Pro-Italia di Milano) fu respinto, ed egli, dopo il lungo, faticoso e Louis Spiridon, emulo di Filippide? In senso orario: un dipinto sulla corsa dei 100 metri in cui vinse l’americano Thomas Burke, il manifesto di Atene 1896, il diploma assegnato ai vincitori, un biglietto d’ingresso e (sotto) una foto del barone de Coubertin. Nel riquadro, il maratoneta greco Louis Spiridon che ebbe il grande onore di essere il portabandiera della Grecia nella cerimonia di chiusura dei Giochi Il cuore di Pierre Fredi de Coubertin sepolto ad Olimpia Dopo 2672 anni dalla celebrazione della prima edizione dei giochi olimpici dell’antica Grecia, il 6 Aprile 1896 si celebrarono ad Atene i “Giochi della I° Olimpiade dell’Era Moderna”. Riaprire i giochi non fu certo un’impresa facile, resa possibile solo dall’impegno e dalla perseveranza di un giovane barone francese Pierre Fredi de Coubertin grande appassionato di sport. Coubertin nacque a Parigi il 1.mo gennaio 1863 da una famiglia della media nobiltà francese. La madre era una fervente cattolica e sognava per il figlio una carriera ecclesiastica, mentre il padre, uomo probo che coltivava la passione per la pittura, voleva per lui una divisa militare o la professione legale. Dopo la soppressione dei giochi olimpici nel 393 d.C. da parte dell’imperatore Teodosio su esplicita richiesta del vescovo di Milano a causa della corruzione in cui erano caduti, in molti cercarono di organizzare una nuova edizione ma i diversi tentativi del 1859 e poi del 1870 e del 1875 erano stati fallimentari soprattutto per la mancanza di strutture adeguate che degradarono i giochi ad una gara rionale. A differenza dei suoi predecessori però de Coubertin non si arrese tanto facilmente e spese gran parte del suo patrimonio in viaggi in tutto il mondo, compresa l’America, per ottenere consensi al suo progetto. Riuscì così nel 1892 ad ottenere l’approvazione dell’Unione francese per gli sport atletici e successivamente l’approvazione della I° Olimpiade dell’era moderna da parte del Congresso internazionale di Parigi del 1894. Non restava che stabilire la data ed il luogo in cui si sarebbero tenuti i nuovi giochi olimpici: de Coubertin li avrebbe voluti a Parigi, ma la scelta cadde su Atene. Il futuro inventore delle Olimpiadi attraversò più volte la Manica per studiare il sistema scolastico inglese: ne auspicava l’adozione in Francia. Grazie a questa esperienza ebbe l’ispirazione per elaborare i principi dello sport moderno e dell’Olimpismo che secondo lui dovevano essere prima di tutto strumenti di crescita fisica e morale dei giovani. Principi che il barone francese vedeva esaltati in quello che definiva Da signor nessuno a eroe nazionale titanico viaggio non fu ammesso alla competizione. Gli americani dominarono le gare di atletica vincendo tutto con l’eccezione degli 800 metri, i 1.500 metri e la maratona. Gli 800 e 1.500 metri furono vinti da Edwin Flack, un australiano, contabile presso Price-Waterhouse, che viveva e lavorava in Gran Bretagna ed era tesserato per l’Amateur Athletic Association. Egli provò anche a correre la maratona ma non terminò la gara. La corsa olimpica di maratona fu proposta dal francese Michael Bréal, un amico di Coubertin, che lo aveva accompagnato ad Atene per programmare le Olimpiadi del 1896. Bréal, scrisse perciò a Coubertin: “Se il Comitato Organizzatore delle Olimpiadi di Atene desidererà far rivivere la famosa corsa del soldato di Maratona, inserendola come parte del programma dei Giochi, io sarò lieto di offrire un premio per questa nuova corsa di maratona”. L’idea fu immediatamente accettata. Rivive la corsa del soldato di Maratona atletismo, e che si può identificare nello sport di matrice anglosassone che educa al sacrificio, alla disciplina e alla responsabilità, senza togliere nulla all’autonomia e alle capacità decisionali del singolo. In ciò l’atletismo si differenziava dalla ginnastica tedesca che, per l’inventore delle Olimpiadi, rappresentava invece uno strumento del nazionalismo e del militarismo. Proprio alla luce di queste considerazioni, deve essere stata per de Coubertin un’amara beffa dover assistere all’undicesima edizione dei Giochi olimpici, quella organizzata con spirito nazionalista, militarista e razzista dal regime nazista, a Berlino, nel ‘36. Pierre Fredi de Coubertin morì a Losanna il 2 settembre 1937. Il barone francese chiese che il suo cuore fosse seppellito ad Olimpia. Così è stato fatto. Maratona era basata sulla leggenda di Euclide o Filippide, un soldato greco che, a quanto si dice, corse dalla città di Maratona ad Atene nel 490 dopo Cristo per annunciare la notizia della vittoria dei Greci nella battaglia di Maratona. Al suo arrivo in Atene, egli presumibilmente annunciò: “Rallegratevi, abbiamo vinto!” e dopo cadde morto. La leggenda è ora provato essere apocrifa, ma questa fu la ragione della creazione di una corsa da Maratona ad Atene. Nella maratona, c’erano inizialmente diversi favoriti, specialmente Flack. Ma appena passata la metà gara, Spiridon Louis, un greco portatore d’acqua, prese la testa e la mantenne fino alla fine. Quando egli fu nelle vicinanze dello stadio, messaggeri entrarono nell’antico stadio gridando: “Un Greco, un Greco!” mandando la folla in delirio. L’orgoglio olimpico basato su tradizioni millenarie, fu allora riscoperto dalla folla di casa, che prima di allora era rimasta piuttosto delusa dai risultati degli atleti greci. Louis vinse la corsa e divenne un eroe, ricevette doni e regali preziosi da molti mercanti greci. Ma egli chiese solo un carro per aiutarlo a portare la sua acqua, e tornò nella sua piccola città di Amarousi. I Giochi Olimpici del 1896 terminarono con le due maggiori festività. Nel pomeriggio di domenica 12 aprile (31 marzo), nella sala da ballo del palazzo reale, il re dette un banchetto riservato agli atleti ed a molti degli altri dignitari accreditati. Egli ringraziò tutti i responsabili per aver fatto dei primi Giochi Olimpici Moderni un successo, con sensibilità omise entrambi i nomi di Pierre de Coubertin e di Demetrios Vike- las. Al termine del suo discorso egli espresse il suo desiderio affinchè i Giochi Olimpici potessero rimanere sempre in Grecia: “La Grecia, la madre e la culla delle competizioni atletiche nella antichità Panellenica, impegnata ad effettuare questi oggi con coraggio sotto gli occhi dell’Europa e del Nuovo Mondo, può, ora che il successo è stato generalmente riconosciuto, sperare che gli stranieri che l’hanno onorata con la loro presenza, vogliano scegliere la nostra terra come un luogo di pace per l’incontro delle nazioni, quale sede continua e permanente dei Giochi Olimpici. Con questo desiderio, Signori, io brindo in modo particolare a tutti quelli che hanno contribuito al successo di questa Prima Olimpiade.” Le cerimonie finali del 1896 erano programmate per martedì 14 aprile (2 aprile), ma piovve ed i festeggiamenti furono spazzati via. segue a pagina 6 Un signor nessuno che in quasi tre ore divenne un eroe popolare: Spiridon Louis. Non si hanno notizie certe su di lui, a cominciare dalla grafia del nome: Spiridon Louis è quella prevalente, ma, a seconda delle traslitterazioni dal greco, il cognome diventa Spyridon, Spyros, Spiros o Spiro, mentre il nome è reso anche come Loues o Luis. Era nato sicuramente nel villaggio di Maroussi (o Amarousi), sobborgo di Atene, da una povera famiglia. Secondo la tradizione, Louis Spiridon era un pastore mentre altre fonti lo descrivono come portatore d’acqua. Carlo Airoldi, un italiano giunto ad Atene per partecipare ai Giochi (ma non ammesso alle competizioni perché ritenuto atleta professionista), scrisse invece che era un militare dell’esercito greco che da tempo aveva abbandonato la pastorizia. Oggi lo si considera un pastore che faceva anche lo stesso lavoro del padre che consisteva nel trasportare acqua minerale comprata ad Atene. L’ipotesi del militare appare veritiera, ma probabilmente è dovuta al fatto che egli svolse il servizio militare tra il 1893-1895, quindi pochi anni prima. Inoltre l’anno successivo alle Olimpiadi la Grecia entrò nelle Guerre Balcaniche contro la Turchia per cui non è difficile che il campione olimpico venisse precettato. Partecipò alla maratona probabilmente convinto dal colonnello Papadiamantopoulos che era organizzatore della gara ed era stato suo ufficiale, per cui ne conosceva il talento. Gli organizzatori greci erano molto interessati alla maratona ed era loro desiderio vincerla per cui organizzarono una sorta di “eliminatorie” per buttare nella gara i migliori atleti. Queste furono vinte il 22 marzo dal super-favorito Harilaos Vassilakos. Tuttavia la stampa e i politici, che volevano necessariamente un greco come vincitore, non erano contenti della squadra messa insieme e fu organizzata una seconda gara. Si disse che chi avesse migliorato il tempo di 3h 18’ (tempo di Vassilakos alla prima eliminatoria), avrebbe poi partecipato alle Olimpiadi. La gara fu vinta da un certo Lavrentis in 3h 11’27” ma anche Spiridon scese sotto il tempo limite, arrivando quinto, per cui rientrò nel gruppo dei Greci prescelto per la maratona olimpica. Spiridon Louis aveva solo 23 anni e si presentò alla partenza della maratona indossando le scarpe che i suoi compaesani gli avevano regalato. I partecipanti, nemmeno una ventina, erano in prevalenza greci, più un ungherese, un francese, uno statunitense ed un australiano. Parecchi atleti, tuttavia, si erano ritirati prima della partenza perché non si sentirono in grado di competere. Il colonnello Papadiamantopoulos dette il segnale di partenza e i quattro stranieri andarono al comando della corsa subito dopo la partenza. Il loro ritmo erano molto sostenuto, e i greci facevano fatica a tenere il passo. Alla testa prima si mise il francese Albin Lermusiaux poi l’australiano Edwin Teddy Flack. La cronaca della maratona è spesso condita di aneddoti forse inventati. Si dice, ad esempio, che verso Pikermi parecchi atleti si fossero già ritirati sfiniti, al contrario Spiridon si era fermato in un punto di ristoro a bere addirittura un bicchiere di vino. Dopo aver chiesto a quanto ammontava il vantaggio degli altri corridori, dichiarò che avrebbe avuto il tempo di riprenderli prima della fine della gara. Così Spiridon Louis descrisse, dopo quarant’anni, i festeggiamenti subito dopo l’arrivo: “Quell’ora fu qualcosa di incredibile e ancora oggi mi sembra un sogno... da tutte le parti mi lanciavano fiori e ramoscelli d’ulivo. Tutti urlavano il mio nome e lanciavano in aria i cappelli...” Dopo la vittoria ritornò nel suo villaggio di Maroussi con un cavallo e un carretto regalati dal re di Grecia e qui continuò la sua vita normale, la sua attività di pastore e di agricoltore prima e di poliziotto locale poi. Diventato un eroe nazionale. A lui venne riservato il grande onore di essere il portabandiera della Grecia nella cerimonia di chiusura dei Giochi. Ricevette onori e regali, alcuni a dir poco bizzarri. Un oste gli regalò addirittura dieci anni di pasti, un calzolaio e un barbiere gli offrirono i propri servigi per tutta la vita, dalla comunità greca di stanza in Inghilterra gli arrivò in dote un vasto appezzamento di terreno, al re di Grecia potè chiedere un regalo a sua scelta: Spiridon chiese un cavallo e un carro, per trasportare l’acqua con più facilità da Amaroussion ad Atene. Dopo l’Olimpiade, Louis si ritirò nel suo villaggio e non ebbe più modo di partecipare a nessuna corsa. Continuò a fare la vita di sempre fino all’ultimo dei suoi giorni: morì il 26 marzo 1940, dopo che il mondo dello sport lo aveva rivisto solo una volta, quattro anni prima ai Giochi di Berlino, dove Hitler lo aveva invitato in qualità di ospite d’onore. Sabato, 1 aprile 2006 Atene 1896 i primi Giochi moderni continua dalla pagina 5 L e cerimonie finali del 1896 erano programmate per martedì 14 aprile (2 aprile, secondo il calendario giuliano), ma piovve ed i festeggiamenti furono spazzati via. La prima delle cerimonie di chiusura ufficialmente iniziò alle 10.30 di mercoledì 15 aprile 1896, quando la famiglia reale fece il suo ingresso nello Stadio Panatenaico. La cerimonia iniziò con il suono dell’inno nazionale greco, seguito dall’ode in greco antico “Pindarica” che fu recitata dall’atleta inglese George Stuart Robertson, studente di Oxford, che l’aveva appositamente composta per questa occasione. Dopo l’intervento di Robertson, il re procedette a consegnare i premi agli atleti vincitori di tutte le competizioni. Ad un certo punto furono consegnati premi speciali per alcune gare. Per primi ricevettero i loro premi i vincitori; Spiridon Louis fu l’ultimo dei campioni a ricevere i suoi premi. In aggiunta alla sua medaglia d’argento, al suo diploma, ed alla sua corona di ramoscelli d’ulivo, a Louis vennero consegnate due coppe speciali, una donata da Michel Bréal. Nell’occasione vennero resi noti anche gli atleti che avevano occupato il secondo posto. Dopo la consegna dei premi, gli atleti vincitori-premiati marciarono intorno allo stadio, fra gli applausi della folla. In testa a loro Spiridon Louis. L’Inno Olimpico fu allora suonato per l’ultima volta, dopo che Re Giorgio abbe chiuso i festeggiamenti con questo pronunciamento: “Dichiaro chiusi i Primi Giochi Olimpici Internazionali.” I concorrenti del 1896 furono unanimi nelle loro approvazioni sulla riuscita dei Primi Giochi Olimpici, in particolare gli atleti americani si dichiararono d’accordo con re Giorgio sul fatto che Atene fosse dichiarata sede stabile dei Giochi. La squadra il 14 aprile 1896 scrisse al Principe ereditario Costantino una lettera, che fu pubblicata sul “The New York Times” del 3 maggio, proponendo che tutti i futuri Giochi Olimpici fossero ospitati da Atene. Questo il suo testo: “Atene, 14 aprile 1896. A Sua Altezza Reale Costantino, Principe ereditario di Grecia. Noi, americani partecipanti ai Giochi Olimpici Internazionali di Atene, desideriamo esprimerle, ed attraverso Lei al comitato ed al popolo di Grecia, il nostro ringraziamento di cuore per la grande gentilezza e calda ospitalità della quale siamo stati oggetto durante il nostro soggiorno. Noi desideriamo anche esternare la nostra piena soddisfazione per la condotta dei Giochi. L’esistenza dello Stadio, struttura così unicamente adatta a questo scopo, la provata abilità dei greci ad amministrare con competenza i Giochi e, sopratutto, il fatto che la Grecia è in origine la casa dei Giochi Olimpici, tutte queste considerazioni rafforzano la no- Sangue e sudore fonte di energia per il defunto Le Olimpiadi nascono nel mondo greco. Quattro erano i giochi grandi che si svolgevano (non solo nell’Ellade, ma in tutte le regioni vicine e le colonie). Erano riservati ai cittadini di cultura greca: OLIMPICI (dedicati a Zeus/Giove); PITICI o DELFICI (dedicati ad Apollo); NEMEI (dedicati a Zeus/Giove); ISTMICI (dedicati a Poseidone/ Nettuno). La loro importanza era tale che gli anni cominciarono a contarsi a partire dalle Olimpiadi. In questo modo il 776 a.c. era chiamato il 1° anno dei primi giochi olimpici; il 775 a.C. secondo anno dopo i primi giochi olimpici e così via. Il premio per questi giochi era solo simbolico, costituito da un ramoscello intrecciato a mo’ di corona, con il quale si cingeva il vincitore. Ma la vittoria aveva un enorme valore per l’atleta che, tornato a casa, era trattato da eroe e poteva rivestire importanti cariche nella vita sociale della città Stato di appartenenza. Moderni, ma così diversi La prima Olimpiade, come alcune successive, si svolse secondo dettami assolutamente diversi da quelli attuali. Innanzitutto, erano ammessi solo i dilettanti, per cui parteciparono soprattutto studenti, marinai, impiegati, e persone che praticavano lo sport come hobby per questo motivo alcune figure restano nella leggenda e di loro si perde traccia nelle successive Olimpiadi. La maggior parte degli atleti pagò di tasca propria il viaggio ed in alcuni casi parteciparono alle gare anche dei turisti che in quel momento stavano visitando la Grecia. L’appartenenza alle varie nazionalità era molto ambigua in quanto gli atleti si presentavano sotto le effige del proprio club sportivo o della propria università. La stessa premiazione era totalmente differente: solo il primo e il secondo atleta venivano premiati e annotati nelle cronache dell’epoca. Inoltre, nel 1896 non vennero distribuite medaglie d’oro e solo i primi due classificati ricevevano un premio: una medaglia d’argento e una corona d’ulivo per il vincitore, una medaglia di bronzo e una corona d’alloro per il secondo. Gli atleti iscritti all’edizione inaugurale furono 249, di cui ben 168 greci ed altri 81 atleti in rappresentanza di 13 paesi (17 secondo l’odierna suddivisione politica), che gareggiarono in 43 competizioni ossia in nove discipline: atletica, ciclismo, ginnastica, lotta, nuoto, scherma, sollevamento pesi, tennis e tiro (le gare di canottaggio e vela, che pure erano previste, non vennero svolte a causa del cattivo tempo). PAGINE DI STORIA Uomini Nazario di Giacomo Scotti L stra convinzione che questi Giochi non dovranno mai essere rimossi dalla loro sede naturale.” Firmato da John Graham, W.Welles Hoyt, Ellery H.Clark, James B. Connolly, Gardner B. Williams, Thomas P. Curtis, Thomas E. Burke, Arthur Blake, Robert Garrett Jr., Albert C. Tyler, Francis A. Lane, H.B. Jamison. I prossimi Giochi Olimpici sarebbero trasferiti a Parigi come da programma a suo tempo stilato. Essi si sarebbero svolti contemporaneamente alla Esposizione di Parigi del 1900, ed avrebbero avuto parte secondaria nel programma della Esposizione Universale. Un’edizione intermedia dei Giochi Olimpici fu disputata in Atene nel 1906. Questa edizione non è mai stata considerata dal C.I.O. come una vera Olimpiade. (Brano tratto dal Rapporto Ufficiale dei Giochi Olimpici di Atene 1896) L’olimpionico mancato: l’italiano Carlo Airoldi L’italiano Carlo Airoldi cercò di partecipare alla I Olimpiade di Atene nel 1896 e lo faceva con ottime possibilità di vittoria. Tuttavia aveva bisogno di denaro per arrivare nella capitale greca. I soldi vennero cercati presso il direttore del giornale “La Bicicletta”, uno dei più noti dell’epoca, e Airoldi gli propose di partecipare economicamente al suo viaggio che si sarebbe svolto a piedi passando per l’Austria, la Turchia e la Grecia. Un viaggio avventuroso che avrebbe obbligato l’Airoldi a percorrere 70 chilometri al giorno per trovarsi in tempo ad Atene. Il giornale avrebbe documentato tutte le tappe del suo viaggio e lo avrebbe aiutato fornendogli il necessario nelle tappe strategiche del suo viaggio. Il giornale milanese accettò e il viaggio si svolse effettivamente. Le tappe da Milano a Spalato, passando per Trieste e Fiume, passarono senza problemi. L’Airoldi era intenzionato a dirigersi lungo le coste dalmate per passare da Cattaro e poi da Corfù. Tuttavia, prima di giungere a Ragusa, cadde e si ferì una mano, ma soprattutto era stato costretto a trascorrere due giorni all’addiaccio. Gli fu sconsigliato di attraversare l’Albania a piedi per giungere a Corfù, motivo per cui si imbarcò su una nave austriaca che lo fece sbarcare a Patrasso da dove giunse ad Atene a piedi seguendo i binari della ferrovia in quanto non esisteva altra strada. Dopo questo viaggio avventuroso di 28 giorni, Airoldi, tuttavia, non poté partecipare alla maratona. La vicenda è paradossale: andato a Palazzo Reale per iscriversi ai Giochi, venne interrogato dal principe Costantino, presidente del Comitato Olimpico. Qui trasparì il premio in denaro ricevuto dalla gara Milano-Barcellona e venne considerato un professionista e quindi non accettabile come atleta olimpico. A niente servirono i telegrammi giunti dall’Italia da parte di associazioni e comitati sportivi: Airoldi non poteva partecipare e, già allora, non erano celati i dubbi della mancanza di volontà da parte degli organizzatori di consentire ad un corridore così forte di prendere parte ad una gara a cui i Greci tenevano molto. Airoldi non accettò mai la decisione e lanciò una sfida al vincitore della maratona che non fu mai raccolta. e vicende della cattura e della condanna a morte del capodistriano Nazario Sauro nel 1916 sono ben note. Ricorrendo il novantesimo anniversario della morte dell’eroe riteniamo comunque utile ricapitolarle. L’irredentista istriano, nato nel 1880, capitano di lungo corso della marina mercantile austriaca, si rifugiò in Italia allo scoppio della prima guerra mondiale. Nel maggio del 1915, quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria e le sue truppe passarono il Piave, Sauro si arruolò volontario nella Marina da guerra italiana. Per sedici mesi svolse “importanti operazioni lungo le coste dell’Adriatico”, come si legge nel “Dizionario storico politico italiano” (1971) diretto da Ernesto Sestan, ottenendo nel 1916 una medaglia d’argento al valor militare e la promozione a tenente di vascello. Che cosa av- venne, dunque, novant’anni fa e quali furono i “retroscena” che portarono all’impiccagione dell’eroe capodistriano? Occorre risalire alla notte fra il 30 e il 31 luglio del 1916, in cui, durante una missione nelle acque di Fiume, il capitano si incagliò, col proprio sommergibile – il “Giacinto Pullino” –, sugli scogli dell’isolotto Galiola nel canale della Faresina che divide l’Istria dall’isola di Cherso. Fatto prigioniero, venne riconosciuto e il 16 agosto condannato a morte mediante impiccagione, pena inflitta dal codice militare austriaco ai traditori. La sentenza fu eseguita nel cortile del carcere militare di Pola. Identificato anche da amici e parenti Il viaggio compiuto da Airoldi L’episodio dell’identificazione è importante. Dai documenti accessibili agli storiografi risulta che a riconoscerlo furono ben ventisette testimoni, compresi numerosi marittimi che erano stati suoi compagni sulle navi mercantili, dei quali quindici istriani di nazionalità italiana, amici e perfino qualche parente dell’eroe. Nel suo libro di memorie “Puna je Pula”, edito a Zagabria nel 1960, lo scrittore e poeta istriano Mate Balota, che nel 1916 era giovane marinaio nell’Arsenale militare di Pola, così ha scritto a proposito dell’accertamento dell’identità di Sauro: “Essi storia e ricerca 7 Sabato, 1 aprile 2006 A novant’anni dall’impiccagione dell’irredentista LIBRI Studio di Daniele Ceschin che denunciarono Sauro: i 27 «testimoni» Prima, grande tragedia collettiva che travolse la popolazione civile italiana «L sapevano che, identificandolo, appendevano quel combattente alla forca austriaca. Ciononostante, quegli uomini che in precedenza si erano seduti insieme a lui a tavola bevendo insieme il caffé, che avevano abitato nella stessa casa, che avevano navigato sulla stessa nave, o erano suoi parenti, agirono più da leccapiedi austriaci che da uomini e da italiani”. Balota fa seguire i nomi: Giovanni Riccobon, capitano marittimo e collega di Sauro; Pietro Dellavalle che con Sauro si era imbarcato nel 1914 sulla stessa nave mercantile; il marinaio Antonio Pozzetto che lo riconobbe per primo e lo denunciò; il pilota Pietro Degrassi. E Ancora: Andrea Colucci, Antonio Battisti, Giovanni Schiavon (costui abitava nella stessa casa dei Sauro), Oscar Camus, Bartolomeo Perini, Giovanni Deponte, due Verzier, un Galas, un Poletti ed altri. A puntare il dito su Nazario, dichiarando “È lui!”, fu anche il fratello della moglie dell’eroe. Ne parla Carlo Pignatti Morano ne “La vita di Nazario Sauro” (Milano 1922, pp. 109-110). Sopra e a sinistra, la tomba di Nazario Sauro a Pola. Nelle altre immagini, alcune foto del capitano capodistriano, che D’Annunzio definì “vertice spirituale della piccola patria che domani sarà franca” capo di gabinetto dell’ammiraglio del Porto di guerra, fu nominato presidente della Commissione d’inchiesta che il 1.mo agosto e nel giorno successivo interrogò gli uomini d’equipaggio del “Pullino”. Il La crudeltà delBalota ha scritto in proposito nell’«oberstabsprofoz» le sue memorie: “Senza che Prica insistesse, ma su intervento di un Subito dopo il trasferimento a membro della commissione, il caPola dei prigionieri, il capitano di pitano Josip Debelich di Capodivascello Dragutin Prica, croato, stria, quello stesso 2 agosto ven- ne appurata l’identità di Nazario Sauro, che il 9 agosto venne consegnato alla Corte marziale”. Il verdetto della corte fu: impiccagione per Sauro, campi di internamento per gli altri prigionieri. Rievocando i giorni in cui alcuni suoi commilitoni erano in servizio nel carcere militare di Pola, Mate Balota ci offre un profilo del comandante in capo delle guardie carcerarie, l’“oberstabsprofoz” Stijepan von Ozegovich, un ufficiale croato nominato Cavaliere della Croce d’argento con corona e Collana di bronzo. Era un uomo robustissimo e crudele, età 59 anni, dei quali ventotto trascorsi a maltrattare i detenuti di quel carcere. Soleva colpire i prigionieri con un vigoroso pugno sulla nuca o sul capo, scaraventandoli dall’alto delle scale fino al pianoterra. Ancora più crudele di lui era un sottufficiale ceco, tale Zrunek. Furono loro due ad accompagnare Nazario Sauro fino ai piedi della forca innalzata nel cortile del penitenziario. Il terribile spettacolo al quale avevano il privilegio di assistere era il premio per il loro zelo di aguzzini. a vicenda dei profughi seguita alla rotta di Caporetto rappresenta la prima, grande tragedia collettiva che investe la popolazione civile italiana durante la Grande Guerra e, in termini assoluti, la più vasta fino al periodo 19401945”. È quanto si legge nel prologo del volume “Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra” , pubblicato da Laterza (RomaBari 2006, pagine 314, euro 18), in cui Daniele Ceschin, ricercatore all’Università di Venezia, ha ricostruito quell’esodo di massa, avvenuto in pochi giorni dopo la disfatta dell’esercito italiano, di quasi 250mila persone – che nelle settimane successive sarebbero diventate oltre 600mila – dalle province del Friuli e del Veneto, poi occupate dall’esercito austrogermanico. Donne, vecchi e bambini, provenienti prevalentemente da città come Udine, Treviso e Venezia: dopo la rotta di Caporetto dell’ottobre 1917, seicentomila civili furono costretti ad abbandonare improvvisamente il territorio invaso o minacciato da vicino dall’esercito austro-ungarico, dando vita alla più grande tragedia collettiva che interessò la popolazione durante la Grande Guerra. “La folla pazza, in fuga, in tumulto. Carri, bambini, soldati, vecchi, donne, cavalli, materassi alti ondeggianti, gruppi d’inferociti, turbe di bruti; un urlare, un incalzare, un rigurgitare; la gente, nella ressa, rovesciata sulle spallette del ponte, il capo e le braccia penzoloni, come morti sui davanzali; cavalli impennati sul risucchio, pugni in aria, facce livide, occhi sbarrati, bocche dure, e qualche viso innocente di bambina”. Tragico è lo spettacolo dei profughi di Caporetto che cercano di attraversare un ponte sul Piave. La voce fuori campo è quella di Kurt Suckert, poi Curzio Malaparte. E una volta tanto, Malaparte non sta inventando nulla. Eppure, quasi incredibilmente, fino a oggi gli sfollati di Caporetto hanno atteso invano il loro storico. Da quel drammatico 24 ottobre 1917, mille volte sono state ricostruite le circostanze militari che provocarono il brusco cedimento delle linee italiane sotto la spinta dei reparti austro-germanici: lo sfondamento sull’Isonzo, l’accerchiamento di interi corpi d’armata e poi – in pochi giorni – la fuga del Comando supremo da Udine, l’impossibile difesa del Tagliamento, l’inutile battaglia sul Livenza, infine l’ordine di arretrare sino al Piave. Gli scaffali delle biblioteche italiane traboccano inoltre di volumi sulle responsabilità militari e politiche della “rotta”, variamente attribuite al comandante Cadorna, ai suoi generali, a soldati più o meno “disfattisti”. Ma si è dovuto attendere lo studio di Daniele Ceschin – che ha scritto un libro basato su fonti inedite, che ricostruisce le dinamiche di questa fuga di massa parallela alla ritirata dell’esercito e le condizio- ni di vita, le immagini e le autorappresentazioni degli “esuli in patria” – perché il nostro sguardo retrospettivo potesse muovere dagli sbandati della società militare agli sbandati della società civile. Nella sola città e provincia di Milano si rifugiarono cinquantamila persone. Ma l’impatto della fuga di massa dal Nord-Est fu anche maggiore in certe paesini o in certi paesoni del Centro-Sud, dove a qualche decina o a qualche centinaia di profughi facevano riscontro poche centinaia o poche migliaia di autoctoni. Per almeno un anno dopo Caporetto, fino ai giorni gloriosi di Vittorio Veneto, un’Italia dovette quindi convivere gomito a gomito con un’altra Italia. Letteralmente convivere, poiché gli edifici pubblici requisiti allo scopo di alloggiare gli sfollati – scuole e monasteri, alberghi e magazzini, colonie estive e stabilimenti dismessi – non bastarono per ricoverarne neppure la metà. Gli altri dovettero sistemarsi in affitto, a prezzi spesso proibitivi per le famiglie meno che agiate. La propaganda del governo Orlando trattava i rifugiati come gli eroi di un’Italia una e indivisibile, che andavano tanto meglio accolti e accuditi in quanto avevano preferito l’“esilio” al “servaggio”. Ma la realtà era più prosaica: non sempre l’accoglienza riservata agli “esuli” (una voce vicentina sfollata a Montesarchio, in provincia di Benevento, umilmente si rivolgeva ai parlamentari di Montecitorio: “Siamo postati come i animali e mal visti dal popolo mi dice che siamo austriachi ma paziensa dio provedera”) corrispose agli slogan dei ministri e dei giornalisti. Per parte loro, gli sfollati si contentavano di arrabattarsi fra la burocrazia, la politica, la polizia. Riempivano i formulari per le domande di sussidio. Supplicavano l’aiuto di questo o quel deputato veneto o friulano. Rassicuravano la Pubblica sicurezza sull’onestà delle loro intenzioni di lavoratori e di cittadini. Il racconto di Ceschin restituisce fin nel dettaglio la quotidiana routine di questo straordinario episodio di convivenza forzata tra gli esuli di Caporetto e il resto degli italiani. 8 storia e ricerca CURIOSITÀ Sabato, 1 aprile 2006 Nel 1925 divenne residenza di Mussolini, che la dotò di due bunker A Roma restaurata villa Torlonia, dimora di principi e dittatori V enti mesi di lavori e più di cinque milioni e mezzo di euro per far tornare il Casino Nobile di villa Torlonia ai suoi antichi fasti. Tra i più bei palazzi ottocenteschi della capitale italiana, fu acquistato dai principi Torlonia nel 1797, e fatto subito ristrutturare e ampliare. Nel 1830 la famiglia fece anche realizzare un ipogeo in stile etrusco che gli storici dell’architettura pensano fosse destinato ad incontri massonici organizzati dai principi. Nel 1925 divenne la residenza del duce che vi fece costruire due bunker: uno antigas e il secondo antiaereo. Il suo degrado iniziò prima con l’occupazione americana: rimangono perfino alcuni disegni a pastello fatti dai soldati sui muri del palazzo. E continuò con la rimozione storica: il casino fu oggetto di saccheggi e atti di vandalismo. Villa Torlonia fu a lungo chiusa, il casino è rimasto in rovina anche dopo la riapertura del parco. “Ci sono luoghi in cui la storia si accanisce, e questo è uno di quelli. Ma non bisogna aver paura del passato”, ha commentato il sindaco di Roma Walter Veltroni durante l’inaugurazione. “Questa fu l’abitazione di Mussolini, e credo che si sia verificata la stessa voglia di oblio che ha coinvolto anche Palazzo Venezia”. Un segno di “immaturià” ha continuato il sindaco, felice di ridare vita al casino nel primo giorno di primavera, “perché la storia va vissuta senza imbarazzi”. L’edificio sarà aperto al pubblico fino al 15 giugno, poi diventerà “Il museo della Villa”: saranno ricollocati i mobili originari, al pianterreno la storia e la memoria del luogo sarà raccontata attraverso i documenti; l’ultimo piano ospiterà un’esposizione permanente degli artisti della Scuola romana. Una potentissima famiglia romana Nel 1806 il principe Giovanni Torlonia, per eguagliare le grandi famiglie di principi romani decide di acquistare villa Torlonia. I Torlonia, potentissima famiglia romana dovevano le loro fortune all’attività di banchieri ed aspiravano all’ascesa nobilare attraverso acquisto di titoli. Valadier viene incaricato di eseguire dei complessi lavori di restauro che saranno completati dal successore di Giovanni, Alessandro Torlonia. La decorazione centrale della villa è costituita da due obelischi di granito trasportati dal lago Maggiore ed eretti sul luogo per volere di Alessandro Torlonia nel 1842 in memoria dei genitori. All’interno della villa si trovano anche due colonne onorarie, statue ed una tribuna per le feste. La villa è caratterizzata da 13 edifici che vogliono rappresentare differenti aspetti e periodi del mondo. Il parco venne progettato secondo il gusto romantico dell’epoca con ruderi e vegetazione esotica, con allusioni all’antichità e all’oriente, e mescolanza di stile so- Torlonia, tra il 1840 e il 1857, come edificio destinato all’agricoltura e come serra per i fiori. Dell’interno non si ha più nulla, ma le strutture architettoniche sono salve. Il teatro fu costruito da Q. Raimondi nel 1841 e fu terminato soltanto nel lontano 1874 su richiesta di Alessandro Torlonia brio e fasto principesco. Sparsi all’interno vi sono molte specie di alberi: dal Pino domestico alla Palma Californiana, dal Pino americano alla Palma nana, dal Cedro all’Oleandro, dalla Quercia verde al Fico. Nel sottosuolo del parco vi sono le catacombe ebraiche che si estendono per oltre 9 km costituite da due cimiteri risalenti al III e IV secolo e ornati da pitture con simboli ebraici. Durante la II Guerra Mondiale Mussolini e i Torlonia costruirono un rifugio contro i bombardamenti in uno dei due cimiteri sotterrani. Le Scuderie furono uno dei primi edifici ai quali Valadier mise mano dando loro un aspetto di loggia ornata con statue. L’Aranceto fu costruito per Giovanni per sua moglie Teresa Colonna. Il fabbricato ha un corpo centrale che somiglia al Pantheon e l’interno è riccamente decorato. Delle pitture nelle stanze del Casino non sopravvive molto, neppure lo splendido pavimento con decorazione musiva. Dal 2 marzo il Casino dei Principi è diventato un museo, aperto al pubblico: sono visibili marmi antichi della Collezione Torlonia, copie, parte dei rilievi realizzati in stile rinascimentale per una cappella andata distrutta… un piccolo itinerario che va dalle prospettive del Golfo di Napoli dipinte nella Sala da Pranzo ad uno dei tre rilievi in gesso di Antonio Canova: quello con la Danza dei Feaci. Nel 1906 su richiesta di Anna Maria Torlonia, figlia di Alessandro fu aggiunto al complesso il Villino medioevale. L’affitto per il duce: una lira al mese Dopo 25 anni di abbandono totale, la famiglia Mussolini sceglie la Villa come residenza privata con un contratto di affitto assolutamente vantaggioso: una lira mensile da corrispondere alla famiglia Torlonia! Sicuramente l’edificio più interessante è la Casina delle Civette, che sembra appartenere al mondo delle fiabe. Il primo nucleo della Casina risale al 1840 quando fu progettata da Giuseppe Jappelli in forma di capanna svizzera; nel 1908 Giovanni Torlonia la fece ampliare e trasformare dall’architetto Gennari che le diede un aspetto medioevale; nel 1916-20 l’architetto Vincenzo Fasolo vi aggiunse logge e porticati e arricchendo di elementi decorativi le strutture architettoniche. La presenza nelle decorazioni di elementi riferiti alla civetta ne determinò la denominazione con la quale l’edificio è tutt’ora noto. Alla morte del principe, nel 1939, la Casina venne abbandonata e pochi anni dopo, dal 1944 al 1947, Villa Torlonia fu occupata dal comando militare anglo-americano che vi produsse danni incalcolabili. Quando nel 1978 la villa fu acquistata dal Comune di Roma, la Casina delle Civette era ridotta ad un rudere. Nell’edificio recuperato è oggi ospitato un museo dell’eclettismo romano. La sua caratteristica però sono le vetrate, eseguite tra il 1908 ed il 1930 e che offrono un campionario unico dell’arte della vetrata a Roma in quegli anni, con i contributi di artisti quali Duilio Cambellotti, Paolo Paschetto, Vittorio Grassi, Umberto Bottazzi; la Sovraintendenza comunale in questi anni ha acquistato sul mercato altre vetrate degli stessi autori, disegni e bozzetti, alcuni dei quali predisposti proprio per le vetrate della Casina delle Civette. Anno II / n. 4 1 aprile 2006 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: STORIA E RICERCA Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi Rukavina / Impaginazione: Saša Dubravčić Collaboratori: Kristjan Knez, Giacomo Scotti Foto: Kristjan Knez, Graziella Tatalović, Goran Žiković