De Felice Fascismo 122 pp - Casa editrice Le Lettere

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Renzo De Felice
FASCISMO
Prefazione di
Sergio Romano
Introduzione e postfazione di
Francesco Perfetti
Le Lettere
A. JAMES GREGOR
Credo che per comprendere, anche solo in parte, un fenomeno
così complesso come il fascismo sia necessario avere un punto di
partenza ben definito, una prospettiva ed un orientamento precisi.
Lo storico, per esempio, che si trova di fronte ad un numero di fatti
singoli potenzialmente infinito, deve seguire un criterio selettivo
in base al quale sceglierne taluni e scartarne altri, poiché vi sono
fatti significativi e fatti che tali non sono. Naturalmente, lo storico
tenta di dare una «ricostruzione» del passato che sia il più possibile
vicina alla «verità» su quanto è accaduto. È chiaro, però, che non
esiste un’unica ricostruzione capace di offrirci la completa verità sul
passato; né esiste il «passato» al singolare. Abbiamo un groviglio di
accadimenti, semplici e complessi, e lo storico ce ne potrà fornire
una narrazione «vera» e significativa solo se il suo racconto sarà costruito su un numero intelligentemente selezionato di tali fatti. Per
scegliere bene i fatti veramente significativi, lo storico dovrà seguire dei criteri, espliciti od impliciti, di selezione. È in questa scelta
che il generalist – il sociologo – esercita la sua importante funzione.
I sociologi sostengono che loro compito specifico è quello di scoprile le leggi della vita sociale, capaci di spiegare il modo di comportarsi della collettività: in realtà, fino ad oggi, i sociologi non sono
riusciti a formulare neppure una di queste leggi, a meno che non
sia tautologica od intuitiva. La funzione della sociologia consiste
essenzialmente nella individuazione di una serie di termini generali, di concetti, di tipologie atti ad identificare le categorie in base
alle quali raggruppare e classificare questi fenomeni e quelli ad essi
affini. Sappiamo tutti che non esistono, al mondo, due cose perfettamente uguali. È ovvio, però, che non sarebbe possibile riuscire a
comprendere appieno qualcosa del mondo naturale o sociale se ci
ostinassimo a considerarlo come una collezione di fatti unici e singoli. Le limitazioni stesse del nostro linguaggio ce lo impediscono.
Il linguaggio è già una generalizzazione, un modo di comunicare
attraverso dei simboli. Se ogni fatto fosse unico, per ognuno sarebbe necessario un termine atto ad identificarlo: il nostro linguaggio
sarebbe così complesso da servire a ben poca cosa. Piuttosto, noi ci
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appendicI
serviamo della parola, partendo da talune distinzioni intuitive. La
maggior parte di esse, nel linguaggio comune, sono grezze e semplici. Ma nella misura in cui ci impegnamo in uno studio approfondito di un qualche fenomeno importante, il nostro linguaggio deve
essere sempre più specializzato.
Il profano può usare le parole fascismo o fascista – e lo fa assai
spesso – in senso ingiurioso. In questo caso ne fa un uso inesatto
(non-cognitive). Se utilizza gli stessi termini per finalità descrittive, egli probabilmente vuole riferirsi a qualcosa come «il partito
politico di Mussolini» e, così facendo, ha dato vita ad una categoria, ad una generalizzazione. Ha una idea di quali sono i fatti
che leve elencare per spiegare cosa intende per «fascismo» o per
«fascista». Dal canto suo, lo specialista può benissimo adoperare
gli stessi termini per indicare un effettivo o potenziale insieme di
fatti totalmente estranei a questi che sono soltanto di uso comune. Quale sia la migliore caratterizzazione del termine dipende da
molte considerazioni. Prima di tutto si deve stabilire a quale funzione il termine stesso deve servire. Se si vuole adoperarlo per ingiuriare un avversario politico, è allora sufficiente che esso esprima
una generica disapprovazione. Se invece si intende usarlo al fine di
scambiarsi delle cognizioni, di avere, immagazzinare e trasmettere
delle informazioni allora è necessario assegnare alla parola un significato specifico. In quest’ultimo caso, poi, bisogna decidere se
usarlo euristicamente, per giungere a scoprire qualcosa di nuovo, o
descrittivamente per riassumere le conoscenze del passato.
Gli storici tendono ad usare le parole in senso descrittivo. Il
discorso sul fascismo ce ne offre un esempio chiaro. Nolte, per
esempio, parla di una isolata «epoca fascista» e De Felice tende
anch’egli ad usare la parola fascismo nello stesso modo, sempre
però con riferimento descrittivo ad un certo gruppo di eventi del
passato. Non voglio dire che questo modo ci procedere sia errato.
Ritengo, però, che sia ingannevole. A mio avviso non può esistere
un «fascismo» che possa essere isolato in un tempo od in un luogo
particolari. Quando ha avuto inizio, per esempio, il «fascismo»?
Quando Mussolini diventò «fascista»? Quando è finito il «fascismo»? È ancora vivo il «fascismo»?
Ho fatto questa lunga premessa di tipo metodologico proprio
per spiegare come io sia giunto ad una concezione del fascismo
che mi sembra euristicamente feconda. Vi sono, infatti, pervenuto
attraverso un largo uso di generalizzazioni sociologiche e di cate-
dibattito sulla natura del fascismo
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gorie come quelle di «totalitarismo» e di «modernizzazione», che
mi hanno suggerito l’idea di stabilire connessioni tra il fascismo
paradigmatico, quello di Mussolini, ed i fenomeni che si manifestano, con sempre maggior evidenza, nel «terzo mondo». Nel mondo
di lingua anglosassone il fascismo storico è stato spesso travisato,
proprio perché affrontato partendo da preconcetti e da posizioni
acritiche. Il Mussolini che emerge dalla letteratura angloamericana
(od almeno dalla maggior parte di essa) è soltanto una caricatura
del Mussolini storico e politico, di quello realmente esistito. Sono
convinto che (l’ho già detto), con tutti i limiti che queste indagini
comportano, la sociologia possa aiutarci a comprendere il fascismo.
Ma che cosa è dunque il fascismo? Io sono arrivato alla conclusione che esso possa venire definito come un tipo estremo di movimento rivoluzionario di massa, che aspiri ad impegnare la totalità
delle risorse umane e naturali di una comunità storica per lo sviluppo nazionale. In altre parole, se l’intenzione palese del fascismo
era quella di restaurare la posizione di grande potenza dell’Italia
nel mondo, esso poteva conseguire questo obiettivo soltanto attraverso finalità di tipo produttivistico e di sviluppo.
Sotto questo profilo mi sembra che si possa stabilire un collegamento tra fascismo e movimento di modernizzazione. Un movimento di modernizzazione, per raggiungere i suoi obiettivi, ha
bisogno di un organismo centralizzato per la mobilitazione, la dislocazione e la direzione delle risorse. Ed ecco che compaiono lo
Stato totalitario ed il partito unico autoritario. Non è un caso che
avversari dichiarati del fascismo fossero le nazioni ricche, o, come
si diceva allora, «plutocratiche».
Il carattere rivoluzionario, e rivoluzionario progressista, del fascismo non può essere messo in dubbio. Andrei addirittura oltre:
il fascismo è stato il primo rappresentante di quelle rivoluzioni che
oggi vengono definite «rivoluzioni progressiste». Anche l’Unione
Sovietica, più o meno nello stesso periodo, assunse caratteri simili.
Gli aspetti internazionalistici, libertari, distributivi e democratici
del marxismo classico si risolsero in aspetti nazionalisti, autoritari, produttivistici ed elitistici di un fascismo incoerente ed incongruente. Tanto nella Russia di Stalin quanto nell’Italia fascista
vennero eliminati esponenti politici di opposizione legati alla socialdemocrazia ed al bolscevismo.
È vero che il fascismo italiano fu, storicamente, un fenomeno
unico, ma, se teniamo presente le considerazioni metodologiche
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appendicI
che ho fatto all’inizio, mi sembra indubbio che, interpretandolo
come una possibile risposta ai problemi politici e sociali che accompagnano gli sforzi di una nazione sottosviluppata per uscire
dalla sua situazione e conquistare un «posto al sole», esso acquisti
una importanza di gran lunga più vasta di quella che la sua esistenza storica lascerebbe supporre. Nei paesi europei parzialmente
o marginalmente industrializzati il fascismo poté attecchire e fu
tanto più forte quanto più il prodotto nazionale lordo ed il reddito pro-capite erano bassi. Se diamo uno sguardo alla situazione
dei paesi sottosviluppati che, oggi, affrontano problemi analoghi a
quelli dell’Italia di un cinquantennio fa, possiamo concludere che
in questi paesi si hanno, o probabilmente, si avranno regimi di tipo
fascista o fascistoide, nel senso che si proporranno obiettivi analoghi e si forniranno giustificazioni analoghe a quelle del fascismo
paradigmatico. Il caso del socialismo africano mi sembra probante.
Nello schema che ho proposto sembrerebbe non rientrare il caso
della Germania nazionalsocialista. Non era forse la Germania un
paese industriale? Se è vera la mia tesi, perché allora la Germania
finì per schierarsi al fianco di potenze rivoluzionarie con le quali
ben poco aveva in comune? A questa domanda si può subito rispondere che l’esperienza traumatica succeduta alla prima guerra
mondiale e la sua forzata riduzione a potenza di seconda categoria,
quando esistevano tutte le premesse perché essa potesse aspirare ad
un ruolo di prim’ordine, offre una spiegazione già di per sé sufficiente. D’altro canto, come potenza «fascista», il nazionalsocialismo
è certamente qualcosa di anomalo. Per i nazisti l’oggetto di lealtà
carismatica non era la nazione – come era per i fascisti – ma una non
ben definita comunità e confraternita razziale. Il nazional-socialismo, anzi, accentuò, con il tempo, l’aspetto internazionalistico. Non
esiterei a dire che il nazismo fu più lontano dal fascismo di Mussolini di quanto non lo sia stato il socialismo dell’Unione Sovietica.
AUGUSTO DEL NOCE
Anch’io sono sostanzialmente d’accordo sul fatto che esiste una
differenza di fondo tra fascismo e nazismo. Per molti versi, i due
movimenti non sono soltanto dissimili, sono addirittura opposti.
In questi due fenomeni bisogna vedere, a mio avviso, due differenti tipi di risposta alla Rivoluzione bolscevica. Da una parte
dibattito sulla natura del fascismo
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abbiamo il nazismo che si caratterizza come rifiuto totale del bolscevismo. Dall’altra parte abbiamo il fascismo che può essere visto come tentativo di rivoluzione ulteriore a quella russa. In altre
parole il fascismo sarebbe la posizione rivoluzionaria, di origine
marxista, quale doveva diventare dopo aver accettato i risultati
della critica al marxismo teorico svolta in Italia negli ultimi anni
del secolo scorso e di cui l’attualismo gentiliano è la conclusione
filosofica. È infatti proprio fra il 1895 ed il 1900 che, in Italia,
si sviluppa la prima grande disputa sul marxismo teorico che ha
una importanza decisiva per comprendere il fascismo e che segna l’europeizzarsi della cultura italiana. Ora il fascismo accoglie
i risultati critici di quella discussione presentandosi come superamento rivoluzionario del leninismo e tentativo di sganciare l’idea di rivoluzione dal materialismo. È qui la chiave per intendere
anche l’incontro fra Gentile e Mussolini, poiché anche l’attualismo vorrebbe essere un marxismo separato dal materialismo (che
coinciderebbe poi, come ho dimostrato altrove, con il giobertismo separato da platonismo).
Se vogliamo cercare nel passato le radici del fascismo, sono tentato di dire che il suo inizio teorico deve essere ritrovato nel primo
studio, nel mondo, che riguardi la filosofia giovanile di Marx, cioè
nel commento di Gentile alle Tesi su Feuerbach di Marx che è del
1899. Con esso ha inizio quella posizione che potremmo dire di
inveramento del marxismo e che si differenzia da quella revisionistica, nella misura in cui tende ad eliminare dalla filosofia marxiana
quel che c’è in essa di metafisicistico e di materialistico. Insomma,
comincia con Giovanni Gentile, proprio sul piano teorico, quella
posizione dell’inveramento che sarà propria e del fascismo e del
successivo progressismo antifascista. L’incontro tra Mussolini e
Gentile era necessario, nonostante la diversità delle formazioni,
perché l’irrazionalizzazione dell’hegelismo compiuta da Gentile
corrispondeva all’irrazionalizzazione del socialismo rivoluzionario operata da Mussolini. Certo: quello Gentile-Mussolini è più
un incontro di impotenze che un incontro positivo. Ma, Gentile
che, a partire dalla critica speculativa del marxismo, ha incontrato
il pensiero risorgimentale, pensa che lo stesso dovrebbe avvenire
per Mussolini, il quale, muovendo da una critica politico-pratica di
Marx, dovrebbe giungere a «compiere» il risorgimento.
A questo punto vorrei fare una osservazione ed una proposta.
Si tratta di questo. Noi continuiamo a parlare di fascismo e spesso
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appendicI
in senso improprio. Io credo che sarebbe bene, al fine di evitare
equivoci e speculazioni, ed anche al fine di comprendere meglio la
storia contemporanea, sostituire addirittura al termine «fascismo»
il termine più comprensivo di «interventismo rivoluzionario». È
dall’interventismo rivoluzionario, infatti, che nasce il fascismo di
Mussolini, ma anche l’azionismo e, in certa misura, il comunismo
gramsciano, il tema comune restando sempre quello di una rivoluzione postbolscevica.
Finora ho fatto cenno all’esito fascista dell’interventismo rivoluzionario. Il secondo sbocco, l’azionismo, che si riallaccia alla
tematica gobettiana, svolge un ruolo di accusatore del fascismo,
poiché vede in Mussolini e nella sua politica, che si è conciliata
con la monarchia e con la Chiesa, un tradimento della rivoluzione.
Non a caso quello che potremmo chiamare l’iniziatore dell’antifascismo, Piero Gobetti, che si forma, al pari di Mussolini, nel clima
gentiliano de «La Voce», ha molti temi in comune con Mussolini
stesso pur essendone oppositore irriducibile. In comune Mussolini
e Gobetti hanno la convinzione che la guerra debba sfociare in una
rivoluzione e in un rinnovamento radicale, quello con la rottura
con l’Italia prebellica; entrambi, poi, pensano ad una rivoluzione
che vada oltre la forma marxista-leninista, e ciò perché concordano
nella accettazione della critica idealistica del marxismo. Che cosa
li oppone? Mussolini, per Gobetti, è il rivoluzionario che tradisce,
perché viene a compromesso con quei mali che sono radicati nella tradizione italiana dalla Controriforma in poi. Cioè, Mussolini
rinuncia alla virtù che più apprezza Gobetti, ossia l’intransigenza.
Mussolini appare a Gobetti come l’uomo che si inserisce nella scia
del giolittismo, coprendosi con una maschera eroica mutuata da
d’Annunzio. In altre parole, per il salveminiano Gobetti si può dire
che esista una unità Giolitti-Mussolini, nel senso che Mussolini
porterebbe al limite, attraverso la mistificazione del volontarismo
eroico, i lati peggiori del giolittismo. A sua volta il fascismo appare come una continuazione del più deteriore giolittismo, mentre
Giovanni Gentile finisca per essere considerato (di qui gli attacchi
ed i giudizi negativi di Gobetti successivamente, però, alla marcia su Roma) il filosofo retore che copre ideologicamente questa
operazione.
Antifascista è anche il comunismo gramsciano, che si fonda però
su una diversa interpretazione del risorgimento. Una interpretazione non positiva, nel senso che al moto risorgimentale abbiano
dibattito sulla natura del fascismo
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partecipato le masse popolari, ma negativa, nel senso che in esso
hanno finito per trionfarvi i moderati, anche per le imperdonabili
insufficienze degli azionisti di allora (da cui il radicale antimazzinianesimo di Gramsci). La parte moderata deve poi far ricorso alla
forza per resistere alla pressione popolare: così il fascismo, secondo Gramsci, è antipopolare perché si collega al risorgimento e non
cerca di trasformare il risorgimento in rivoluzione. Detto questo,
è necessario sottolineare che anche Gramsci rientra nella linea di
rivoluzione ulteriore al marxismo, nella misura in cui, accortosi
che Lenin è diverso da Marx, vorrebbe costruire una filosofia che
impedisca al leninismo di dare luogo ai due fenomeni degenerativi
dello stalinismo e del trotskismo, che si oppongono senza che uno
riesca a prevalere sull’altro (anche se poi, chiamato ad una scelta,
Gramsci sarebbe piuttosto stalinista che trotskista). Per concludere e riassumere direi dunque che il fascismo rientra nella più vasta
categoria di una rivoluzione ulteriore al marxismo. Una rivoluzione tuttora in corso, tanto che si potrebbe affermare una sostanziale
continuità tra fascismo e postfascismo. In questo senso il fascismo
ha certamente un profondo carattere rivoluzionario ed antitradizionale che potrebbe anche giustificare la definizione di movimento collegato ad un «processo di modernizzazione», data da Gregor.
A patto, però, di precisare che il processo di modernizzazione si
risolve in un processo dissolutivo.
RENZO DE FELICE
Secondo me un eventuale discorso sulla modernizzazione deve tenere adeguatamente conto della realtà nazionale su cui il fascismo
si innesta. Questa realtà nazionale rende il fascismo italiano assolutamente diverso non soltanto dal nazismo, ma anche dalle dittature
del «terzo mondo», dal peronismo e persino dagli stessi fenomeni
contemporanei come il codreanismo rumeno che non è affatto fascista. Parlare di «fascismi» mi sembra perciò inesatto. Per avere
una visione adeguata del fascismo vanno battuti due sentieri: la
distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime e la ricerca di
ciò che sta a monte sia del movimento, sia del regime. Il fascismo
movimento è l’autoproiezione di ciò che da varie e diverse parti si
sarebbe voluto che il fascismo fosse; ed è una realtà che cambia
continuamente, che non si lascia racchiudere negli schemi di una
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appendicI
definizione precisa. È un agglomerato di elementi culturali (consapevoli od inconsapevoli) e psicologici che sono in parte quelli
del fascismo intransigente, quello pre-marcia su Roma, ed in parte
sono qualcosa di nuovo e di diverso, che vuole costituire l’autorappresentazione del fascismo proiettato nel futuro al di là, perciò, di
condizionamenti, di paure, della vita di Mussolini. C’è poi il fascismo regime, la realizzazione politica del movimento che tiene conto
della realtà sociopolitica con i suoi problemi e con le sue difficoltà.
Esso è la politica di Mussolini, il risultato di una politica che tende
a fare del fatto fascismo la sovrastruttura di un potere personale,
finisce per edificare una costruzione in cui non sempre e non tutto il movimento si riconosce e si ritrova. In questa prospettiva un
Giovanni Gentile, od anche, per altri versi, un Gioacchino Volpe,
appartengono piuttosto al fascismo regime, mentre il movimento
rimane sostanzialmente antigentiliano.
Ma quali sono le radici, le origini storiche, culturali e morali
del fascismo? Mi rifarei, come punto di partenza, al discorso sviluppato dallo storico israeliano Jacob L. Talmon sulle origini della
«democrazia totalitaria», per dire che il fascismo sarebbe il punto
di arrivo di un filone – spurio quanto si vuole – di un certo radicalismo di stampo borghese, in una linea caratterizzata da una determinata accezione della Rivoluzione francese, che va da Rousseau
a Babeuf e poi a Blanqui ed a Proudhon. Del resto, se pensiamo
al dibattito che suscitò nel 1923 la pubblicazione del Nazionalfascismo di Luigi Salvatorelli e se pensiamo a quello che scrivevano
allora personaggi dell’antifascismo, del giro gobettiano, per dirla
con Del Noce, come Augusto Monti o Camillo Bellieni ed anche
altri, non mi sembra che abbiamo motivo di scandalizzarci. Essi
sviluppano un concetto, a mio parere, fondamentalmente giusto:
il nazionalfascismo, come dice Salvatorelli, o radicalfascismo è
espressione di un certo radicalismo di stampo democratico che ha
le sue origini nella Rivoluzione francese. Direi, poi, che se andiamo
a vedere le cose in particolare ci accorgiamo che il fascismo ha in
sé una certa idea di progresso, si fonda sul concetto di progresso
storico, pensa addirittura di creare un uomo nuovo. Queste idee –
quella del progresso e quella della creazione di un uomo nuovo – le
troviamo, insomma, in tutti gli illuministi. Per quanto riguarda il
nazionalsocialismo, tanto per cominciare il discorso, farei riferimento – così come prima ho fatto con il Talmon – al recente libro
di George Mosse sulla nazionalizzazione delle masse. Nel nazismo
dibattito sulla natura del fascismo
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non troviamo assolutamente l’idea di progresso. L’uomo nuovo, i
nazisti non lo pensano neppure lontanamente: c’è, nella loro concezione, un uomo ariano tedesco che va riscoperto. Non si deve
creare, perciò, un uomo nuovo, poiché già esiste e non può essere
modificato in alcun modo, ma va preso, liberato da tutte le incrostazioni che dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese in poi
gli si sono appiccicate sopra e va realizzato. Su questo punto esiste, dunque, una differenza radicale tra fascismo e nazismo. Ecco.
In questo senso, io dico, appunto, che bisognerebbe, secondo me,
cercare di approfondire un certo tipo di discorso. Anche la polemica antiborghese del fascismo, a parte i tatticismi del momento,
rientra in questo quadro. Il fascismo non rifiuta totalmente il borghese, pensa piuttosto di acquisirlo e superarlo. Per i nazisti, ovviamente, il discorso non vale: se andate a parlar loro di acquisire, sia
pure per superarlo, il borghese, beh, vi infornano.
Quindi, in conclusione: c’è un radicalismo di sinistra che sta a
monte del fascismo; c’è un radicalismo di destra che sta a monte del nazismo. Sono due cose ben diverse. Tutte ciò a livello di
movimento. Certo, a livello di regime, le cose in parte cambiano,
perché è evidente che certi motivi di tipo tradizionalista, di tipo
conservatore, di tipo cattolico, anche clericale, che sono peculiari
di un’altra logica che non è quella del movimento, politicamente
diventano manifestazioni e realtà in atto del fascismo.
Ho parlato per battute e formulette. Però, secondo me, si tratta
di battute e formulette che possono servire ad indirizzare verso
ciò che intendo dire. Molto brevemente: io il discorso sul fascismo
cercherei di portarlo avanti essenzialmente su un piano di acquisizione dei fatti, di ricostruzione degli avvenimenti, del sapere un
po’ bene, insomma, come stanno le cose. L’interpretazione complessiva verrà ad un certo punto. Via via si costruirà da sola. Ce
la troveremo, alla fine, davanti quasi senza accorgercene. Rimane
il fatto che se non cerchiamo di servirci di certi strumenti – ed io
credo che, sul piano pratico, uno di questi possa essere proprio
quello della distinzione tra movimento e regime, ed un altro possa
essere quello della ricerca, a monte, di certe radici remote – continueremo a pestare acqua nel mortaio. Rimane certo un fatto (e,
anche qui, non vorrei che, detto come l’ho detto, si perdesse) e cioè
che tutte le radici sono vere, che tutte le radici sono da ritrovare,
che tutte le radici sono da valorizzare. Però c’è di mezzo la guerra
mondiale: senza la guerra tutte queste radici non avrebbero germo-
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appendicI
gliato e non avrebbero fatto spuntare una foglia. Fin qui ho voluto
cercare di mettere in chiaro alcune cose a cui credo e che possono
essere anche sbagliate; perché io sono convinto che la storiografia
italiana soffre principalmente di un male: soffre di sicurezza. Tutti
sono sicurissimi. Io, personalmente, dico che non sono sicuro affatto. Vorrei riuscire via via a capire le cose. Gli altri invece sono
tutti sicuri. Beati loro!
A. JAMES GREGOR
So bene che esiste una differenza tra la posizione di De Felice e la
mia. Credo però che, se si tien conto della diversa prospettiva e del
diverso punto di partenza, non si tratti di differenze sostanziali.
Per esempio De Felice ha ricordato che gli storici debbono cominciare con l’acquisizione di dati per ricostruire un periodo specifico
di storia, ma suppongo che egli non voglia sostenere che una delle
caratteristiche del fascismo sia quella che esso è un fenomeno italiano e soltanto italiano…
RENZO DE FELICE
Io, invece, questo, lo vorrei quasi dire. Come pure un’altra cosa
vorrei dire. Credo che sia piuttosto pericoloso parlare, allo stesso
titolo, di fascismi arrivati al potere e di fascismi che non sono mai
giunti al potere. Bene o male, di fascismi giunti al potere sul serio,
ce ne sono due soltanto, perché, per esempio, tutti i fascismi della
seconda guerra mondiale sono giunti al potere in circostanze tali
ed in un clima tale che andare a vedere il loro vero volto diventa, secondo me, pressoché impossibile. Quindi, di veri fascismi,
semmai, ce ne sono due. E poi c’è da vedere se tutti e due sono
fascismi!
A. JAMES GREGOR
Non si può sostenere che, siccome geograficamente l’Italia è una,
di fascismo ce n’è stato uno solo; che, siccome Mussolini era Mussolini, non poteva esistere un altro duce; che, siccome l’Italia ha la
dibattito sulla natura del fascismo
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forma di uno stivale e le altre nazioni hanno forme diverse, il fascismo, come fenomeno storico, è una produzione esclusivamente
italiana etc. Per la sociologia – mi rifaccio a quello che ho sostenuto
prima – non si può dire che il fascismo, come del resto ogni altra
cosa, sia unico, non abbia legami, od almeno rapporti di affinità o
somiglianza con altri tipi di regimi. Certo. Non si può sostenere che
sia identico ad altre forme di regime politico. Però non è possibile
negare l’esistenza di somiglianze. Per esempio, quando qui in Italia
si diceva: «Mussolini ha sempre ragione», in Germania si esprimeva un concetto simile. Questo sta ad indicare l’esistenza di un certo
tipo di rapporto fra i capi e le masse, che, per esempio, può essere
preso in considerazione a livello paradigmatico con il concorso di
altre circostanze. Non so, se io, negli Stati Uniti, dicessi: «Ragazzi,
il presidente Ford ha sempre ragione», loro si butterebbero sul
pavimento e si sbellicherebbero dalle risa, ma se, durante la seconda guerra mondiale, avessi detto: «President Roosevelt is a man
indispensable» si sarebbero comportati diversamente. Che cosa
prova questo? Vediamo il fatto: quando una popolazione si trova
in una condizione di pericolo, reale od immaginario, cerca una via
di uscita o di salvezza in un uomo-guida. Ecco: così può forse essere schematizzato un primo tentativo di spiegare questi movimenti
di massa; però ci troviamo di fronte ad un comportamento che
non è esclusivo di un tipo di regime, che è comune anche ai regimi
poliarchici occidentali. Di esempi se ne potrebbero portare molti.
Il problema, dal punto di vista delle scienze sociali, è quello di
individuare dei fatti paradigmatici.
Ma torniamo al punto. Guardiamo al XIX secolo ed agli inizi
del XX. Certe nazioni avanzate avevano imboccato la strada della industrializzazione, o, più in generale, della modernizzazione,
per creare quell’uomo nuovo, quella società progredita di cui si è
detto. Su questa strada si trovavano, però, bloccate da nazioni che
avevano, come l’Inghilterra, mezzo mondo sotto di sé. Ed anche
come gli Stati Uniti, che avevano creato un impero nell’America
del Nord. Ed è proprio questo sviluppo che ha consentito loro di
creare un sistema pluripartitico, una poliarchia. Quando, però, ci
troviamo di fronte a nazioni che imboccano questa strada dello
sviluppo, osserviamo che esse, sotto la spinta di pericoli reali od
immaginari, tendono a cercare una via che li porti ad uno stadio
di sviluppo, ma sotto la guida di sistemi autoritari. È quanto è accaduto in Italia. È quanto è accaduto nella stessa Russia. Per la
INDICE GENERALE
Prefazione di Sergio Romano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p.
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Introduzione di Francesco Perfetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
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FASCISMO
I. Origini del fascismo italiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
II. Il regime fascista italiano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
III. La Repubblica sociale italiana . . . . . . . . . . . . . . . . .
IV. Il fenomeno fascista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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APPENDICI
Fascismo e fascismi di Renzo De Felice con una
presentazione di Rudolf Lill . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
Dibattito sulla natura del fascismo di A. James Gregor,
Augusto Del Noce, Renzo De Felice . . . . . . . . . . . . . . . »
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Postfazione di Francesco Perfetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 105
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