Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti

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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
Giovedì 15 Settembre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
Il periodo storico da Tommaso D’Aquino a Cartesio lo salteremo completamente. Le querce della
filosofia moderna sono principalmente: Cartesio, prima metà del seicento; Kant, tedesco prussiano
degli ultimi tre decenni del settecento; Hegel, tedesco; Nietzsche; poi ci occuperemo della questione
del rapporto tra il cristianesimo e la modernità, che tipo di relazione, di lettura, costoro (due o tre
voci del novecento) hanno offerto della modernità. Con Cartesio il problema della modernità sarà
una sorta di pietra d’inciampo per il pensiero cristiano. Parleremo della frattura tra la ragione e la
fede, grande tema di questo corso, il filo conduttore, che in modo ricorrente ci si porrà parlando dei
vari autori. Abbiamo lasciato alle spalle la grande sintesi scolastica tra fede e ragione (Tommaso,
Duns Scoto etc.). Qui non si dubitava che tra la fede e la ragione vi fosse una parentela stretta,
distinte sì, ma come una mamma distingue i due figli, che sono fratelli. La scolastica non ha dubbi
rispetto all’esistenza di una vena comune tra fede e ragione. E’ una convinzione che regge anche la
vita quotidiana del medioevo. Tommaso si guarda bene dal considerare la fede un surrogato della
ragione, anzi da questo punto di vista è un autentico rivoluzionario, ha una posizione molto
spregiudicata, affermando che la fede non può sostituire l’opera della ragione. La pertinenza della
fede per la vita umana è sostenuta dalla ragione. Cartesio è considerato il padre della filosofia
moderna. Viene unanimemente considerato un pioniere, colui che inaugura una nuova stagione.
Viene considerato anche come il santo protettore del pensiero laico, riscattatosi finalmente dalla
tutela della chiesa, della religione. E’ il nume tutelare del pensiero razionale, l’emblema
dell’intellettuale moderno. Al principio del seicento nessuno si sogna di immaginare un Europa che
esca dai cardini della religione cattolica. Si comincia da evidenziare che esiste una risorsa
uniformemente distribuita che è la ragione. Per fare dei discorsi accessibili a tutti bisogna basarsi
sulla ragione. La fede non afferra fino in fondo la natura umana se non interviene la ragione, che a
sua volta non può fare a meno della fede, questo era il pensiero medievale. Al tempo di Cartesio si
erano appena fatti guerra cattolici e protestanti. Le guerre di religione avevano mutato radicalmente
il panorama culturale. La divisione religiosa aveva giustificato la guerra civile. Nascono i grandi
stati nazionali europei. I giuristi del tempo dicevano che il problema di uno stato non è stabilire
quale sia la vera religione, ma permettere la convivenza delle varie religioni. Cartesio quindi pensa
sulla base di esperienze storiche che hanno cambiato il rapporto degli europei con la religione.
L’unità religiosa è perduta. Si inizia a relegare la religione alla sfera privata. Altro grande passaggio
è la rivoluzione scientifica. Cartesio è quasi coetaneo di Galileo il quale è quasi coetaneo di
Copernico. Vengono demolite la fisica di Aristotele e l’astronomia di Tolomeo, sulle quali il
medioevo aveva poggiato la sua metafisica. Il pensiero moderno quindi approda alla convinzione
che niente possa più appoggiarsi su niente, è tutto da ridiscutere.
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
Ragione >< fede
Età moderna
---------------------------------X
Ragione + fede (Medioevo)
Il punto x è di difficile collocazione e ci si
chiede se questa deviazione sia stata un bene o un male
Oggi si pensa che ogni credenza religiosa sia degna di rispetto, e nessuno sarebbe disposto a
pretendere l’esistenza di una sola fede religiosa, inserendola nel proprio sistema di diritto.
Qualcuno sostiene che questa deviazione sia stata una catastrofe, e aspetta che la modernità
autodistrugga il suo pensiero per tornare a questa età dell’oro. Altri pensano che la modernità sia
come una medicina amara ma necessaria, serve al cristianesimo per purificare la propria fede dagli
agenti patogeni che si portava appresso inconsapevolmente. La secolarizzazione è quindi un
momento di grande purificazione della fede. Dice che ci sono buoni motivi per abbracciare l’una e
l’altra. Le due ipotesi sono in un certo senso entrambe rovinose, essendo speculari e contraddittorie
ma ugualmente nefaste per il futuro della fede nella modernità. Hanno entrambe delle conseguenze
devastanti per la vita del cristiano. Questo è il percorso che seguiremo, l’orizzonte a cui tenderemo
nel corso delle lezioni, il rapporto tra il cristianesimo e la modernità (stato di diritto – laicità dei
principi che governano la vita pubblica - , orientamenti morali che pesano sul diritto, come il diritto
debba limitare la morale, quando si debba considerare persona un individuo e quindi venga coperto
dal diritto (es. il feto), i diritti di handicappati, cerebrolesi, terminali).
Perché abbandonare il sicuro vascello della ragione per salire sull’incerta imbarcazione della fede?
Chi mi dice che potenziando la ragione io possa percorrere l’intero itinerario. Nel desiderio di
valorizzare la ragione come organo della conoscenza il rapporto con la fede diventa sempre più
arbitrario. Non è più chiaro il nesso intrinseco tra la dimensione razionale e la fede. Il nostro secolo
ha sconfessato la ragione come risorsa fondativa dello stato (vedi lager). La più importante orazione
riguardo la dignità dell’uomo è quella di Pico della Mirandola, ma anche il cardinale Nicolò
Cusano.
Con la modernità si apre un contenzioso tra verità e libertà, un contenzioso che non si è più
richiuso. Dopo il cristianesimo non è più sostenibile una riabilitazione del paganesimo dopo il
cristianesimo.
Il dono di sé è la massima espressione dell’autopossesso. La modernità evidenzia come queste due
dimensioni siano state giocate una contro l’altra (la verità, cioè il dono, contro l’autopossesso).
Giovedì 22 Settembre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
Cartesio è un uomo della prima metà del ‘600 ed è uno spartiacque del pensiero europeo di quel
periodo, una vera pietra miliare. Dopo di lui le cose non sono più state come prima, su questo vi è
un consenso omnium. La posizione cronologica che Cartesio ha occupato lo ha senz’altro aiutato a
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lasciare un segno. Vi sono infatti eventi che hanno spezzato la tradizione europea in un prima e un
dopo, tradizione in senso lato, morale, sociale e politica, creando due segmenti storici tra loro non
più compatibili. L’umanità stessa è stata divisa: gli uomini che sono rimasti sulla sponda della
tradizione e gli uomini che si sono ritrovati sulla sponda della modernità, che parlano due lingue
madri diverse. Secondo molti Cartesio ha partecipato alla frattura, anzi ne è il principale
responsabile. La sua opera non sarebbe stata possibile senza quei cambiamenti epocali. La divisione
religiosa tra cattolici e protestanti, la nascita dello stato nazionale moderno che trae la legittimità del
proprio potere da un compromesso tra i governanti e le classi sociali più influenti, classificandosi
così come stato laico (il riferimento alla religione resta formale e ci si va affrancando, cfr Ugo
Grozio: le norme morali su cui si basa la società moderna si fondano nella ragione, non nella
religione, quindi l’assenza di Dio non scalfirebbe la solidità di tali norme – iperbole) e la
rivoluzione scientifica che trova in Copernico e Galileo i suoi pionieri. L’uno riforma il cielo l’altro
la terra. La rivoluzione scientifica ha un particolare valore agli occhi di Cartesio perché Copernico e
Galileo hanno smontato la fisica di Aristotele (Aristotele viene raffigurato da Raffaello come colui
che indica la terra insieme a Platone che indica il cielo, stereotipo dello scienziato, ha scritto una
teoria del movimento che per secoli è stata l’autoritas indiscussa di tutti gli studi del campo; la
fisica di Aristotele in realtà non si può paragonare ad un trattato di fisica moderna perché contiene
degli argomenti che non vi entrerebbero. Evoca 4 tipi di cause: materiale, formale, efficiente e
finale – insieme di forze che operano dall’interno di un corpo spingendolo verso il suo scopo). Per
A all’interno dell’uomo ci sono delle forze che lo porteranno alla maturità. Accanto alla quantità A
parla anche di qualità (che non i può esprimere con valori matematici), questo non permette di
considerare la fisica di A come una scienza moderna. Aristotele ha attribuito aspetti finalistici non
solo all’essere umano ma a tutti gli elementi della natura (antropomorfismo). Per gli antichi era
naturale comprendere le cose infime a partire dalle cose più sublimi, per noi è stravagante perché
siamo abituati al percorso opposto. La fisica moderna delle dimensioni qualitative non sa più cosa
farsene. Tutte le dimensioni che non possono essere misurate ed espresse in valori matematici non
vengono prese in considerazione dalla fisica moderna. Quindi A viene messo da parte. E’ inutile
inseguire le dimensioni qualitative della realtà, dice Galileo. Dice che quelle dimensioni sono
competenza della teologia. Galileo: non si legge la Bibbia per sapere come va il cielo, ma come si
va in cielo. Giovanni Paolo II ha fatto riaprire il processo a Galileo per assolverlo. La causa finale e
quella formale lasciano A fuori dalla fisica moderna. Movimento dei libertini, personaggi
spregiudicati, intellettuali portati ad una critica corrosiva. I nuovi scettici. Sostengono che sia giusto
congedare la fisica aristotelica, ma con tutte le sue fondamenta? Si può archiviare la fisica e
conservare la metafisica? Rispondono che se crolla la fisica aristotelica crolla anche la metafisica
con tutto l’edificio teologico e morale annesso. Il vertice della metafisica di A è una teologia, un
discorso intorno a Dio. Cartesio ebbe una formazione del tutto coerente con gli standard del tempo,
la migliore possibile per il tempo, dove dominava ancora la cultura cattolica. Fu allievo di un
celebre collegio di gesuiti, qui apprese le arti liberali, le scienze insegnate secondo il canone
scolastico. Ma lui stesso ci dice che uscendo da lì si trovò radicalmente insoddisfatto, con la
consapevolezza che tutto il sapere accumulato era inservibile perché non era in grado di sostenere
uno scontro con i suoi rivali (Copernico, Galileo e gli appartenenti al nuovo ambito scientifico).
L’uscita dal collegio coincide quindi con una profonda crisi spirituale. Cartesio coglie il rischio che
questo sapere non è in grado di sostenere la rivalità con il nuovo sapere scientifico, e qui la partita è
persa. Ma non è tutto: Cartesio comprende che il crollo della fisica di A potrebbe mettere a
repentaglio anche gli articoli fondamentali della metafisica e quindi della fede che sono l’esistenza
di Dio e l’immortalità dell’anima (articoli fondamentali del’intera tradizione metafisica e religiosa).
Cartesio intuisce che la crisi della cultura scolastica potrebbe avere delle conseguenze devastanti, e
questa è la sua grandezza. Tra i suoi contemporanei C non fu mai considerato un dissacratore della
tradizione filosofica, infatti un grande cardinale (De Beroul) gli affidò il compito di difendere le
ragioni della fede in un momento culturale un cui serpeggiava un diffuso scetticismo. Questo
retaggio dei due articoli sopra citati non può più esser difeso sulla base della tradizione scolastica.
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Dunque la difesa di questo nucleo irrinunciabile deve essere condotta su basi completamente nuove.
La scienza infette progredisce in virtù di un metodo e lungo questo itinerario il passo successivo è
sempre collegato in modo rigoroso a quello che lo precede. Questa è la forza del metodo scientifico.
Giudica quindi il metodo scolastico un sofisma. Si rende conto che ci potrebbe essere un uso di
questo metodo che mette a repentaglio quelle due verità fondamentali. La sua sfida è di riuscire a
mettere insieme il metodo scientifico con la salvaguardia di quei due principi fondamentali e lo
deve fare in modo assolutamente nuovo perché guardando al passato non trova nessun aiuto,
costruendo dalle fondamenta. Questa saldatura, in Cartesio, parte da una riflessione squisitamente
personale, ripartendo da sé nella ricerca di una motivazione abbastanza forte per operare questa
saldatura. La filosofia cartesiana è soprattutto una autoriflessione. La tradizione precedente aveva
un metodo che si basava sull’osservazione e il commento, sulla chiosa. Nel metodo scolastico la
dimensione puramente soggettiva tende ad essere relegata a margine, il punto di partenza è la voce
che arriva dal passato. L’unica voce da ascoltare è la voce della interiorità. Un precedente è Socrate,
ma con una osservazione, l’io di cui parla Socrate è una struttura psichica comune a tutti gli uomini
che lui chiama psychè (ragione) la cui voce è il daimon. L’analogia più appropriata è con Agostino
perché è il primo che pensa con la prima persona. Non si può professare la verità se non
liberamente, ciò vuol dire che il modus della ricerca vale tanto quanto lo scopo.
Giovedì 29 Settembre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
Cartesio è un sincero credente e tuttavia ormai ha maturato un giudizio sul background culturale del
suo tempo, di totale inservibilità. Non serve secondo lui a salvare nemmeno le verità elementari del
sistema metafisico e religioso. Vuole salvare il nocciolo della tradizione metafisica dal crollo cui è
destinata, l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. Per salvaguardare questi due articoli
fondamentali bisogna gettare alle ortiche il metodo della tradizione e crearne uno nuovo. Questo
nuovo metodo si presenta come una autoriflessione, perché per tagliare i ponti con il passato resta
solo una fonte cui attingere, da cui puoi trarre i materiali per la nuova costruzione. Il viaggio di
Cartesio inizia con una riflessione su di sé che ci rammenta l’approccio di Agostino, anche se molto
distante nel tempo. Abbiamo bisogno di un metodo che ci consenta un retto uso della nostra
intelligenza, questa è la prima necessità, dobbiamo usare correttamente la risorsa che ci distingue in
quanto uomini cioè la ragione. Ci sono usi scriteriati della ragione che conducono in vicoli ciechi.
Ci servono invece regole che ci preservino dall’errore, questo è l’assillo di Cartesio, trovare delle
regole che salvino la ragione umana dai vicoli ciechi. Infatti questo è il motivo per cui diviene una
pietra miliare, per avere posto la questione del metodo (etimo, strada, il metodo è la strada che porta
all’obiettivo). L’intelligenza finisce in dei vicoli ciechi che suscitano discordie perché noi abbiamo
l’abitudine di accogliere come verità indiscutibili delle nozioni che in realtà sono oscure. La prima
regola del metodo che permette un uso retto della ragione è la decisione ferma di non accogliere
niente come vero che non si presenti con il tratto della evidenza, cioè l’evidenza è qualcosa che si
impone alla nostra ragione/coscienza (intende la ragione in questo ambito come qualcosa che si
avvicina a come intendiamo noi la coscienza o meglio l’autocoscienza), è quel carattere di una
nozione che si impone con immediatezza, senza starci troppo a pensare intorno. Non accettare nulla
che non sia trasparente, cristallino, che abbia anche il minimo margine d’ombra. Poi aggiunge
anche regole che devono completare questa prima regola dell’evidenza. Ma sono soltanto espedienti
che integrano ma non cambiano il senso. Poi aggiunge che quando ci troviamo davanti ad un
problema di qualsiasi natura dovremmo avere l’accortezza di sciogliere il problema nelle sue parti
più semplici, analisi, scomposizione di un problema complesso in parti semplici, seconda regola.
Terza regola, sintesi. Quarta regola, enumerazione, prudenza con cui ad esempio un chirurgo al
termine dell’intervento enumera gli strumenti usati per verificare che non siano nel paziente! E’ un
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momento di verifica di controllo finale, per verificare di non avere commesso passi falsi. Evidenza > analisi -> sintesi -> enumerazione. Questo approccio suppone che i problemi siano scomponibili
in problemi più semplici. Qui vediamo all’opera un modello di conoscenza inedito, che potremmo
chiamare meccanicistico. I problemi sono visti come meccanismi e suddivisibili nei loro elementi
atomici e poi ricomposti. Il medioevo non conosceva l’approccio meccanicistico perché per il
medioevo non vi era una problema componibile e scomponibile. Tommaso aveva in mente il
fenomeno della vita, come prototipo dello studio, il vivente come fenomeno sui generis, perché
abbiamo a che fare con una realtà che non si può suddividere in parti più semplici, se non divenuto
cadavere. Il vivente infatti è un prototipo di problema diverso, perché si assiste al singolare prodigio
che molte parti collaborano tra loro in vista di uno scopo, che è la fisiologica salute del vivente. Se
si analizza il vivente nel senso cartesiano il vivente si perderebbe nel cadavere. Cartesio ha in mente
però qualcosa di diverso, fenomeni naturali che in quanto descrivibili in termini matematici,
quantitativi che quindi si prestano ad essere scomposti. Lo scopo di Cartesio non è descrivere la
nostra esperienza nel mondo. Girando le spalle alla realtà si perde l’aspetto qualitativo, il fine. Ma
questo è il prezzo della ricerca scientifica. Per Cartesio la dimensione qualitativa resta conservato
nell’ambito religioso. La scienza e la religione non sono in competizione per hanno due domini
differenti e ben distinti. Secondo Cartesio possono convivere senza conflitti, questa è la sua serena
certezza. Era convinto della descrizione dei corpi viventi come macchine. Ha scritto uno bellissimo
trattato sulla circolazione sanguigna in termini meccanicistici. Non ha conoscenze sperimentali, è
fondamentalmente un matematico, ha una brillante logica, non gli interessava l’aspetto pratico della
scienza. Cartesio ha fondato la matematica moderna. Crede di poter far convergere ciò che vede
divergere nel suo tempo. I suoi avversari sono gli scettici che pensano di mandare alle ortiche la
metafisica aristotelica e con questa anche la religione. Cerca una via per appoggiare i fondamenti
della metafisica e della religione su una base che resista alla critica scettica. Evidenza, cuore del
metodo cartesiano. L’evidenza è il carattere dell’oggetto che mi si fa incontro, l’intuizione è
l’accoglienza che io riservo ad una verità che mi viene incontro con i caratteri dell’evidenza.
Teoricamente è molto facile, ma nei fatti il pericolo è dietro l’angolo. Questo nuovo punto di
partenza deve vincere la sfida degli scettici. Anche gli atti spirituali potrebbero essere causati da
reazioni fisico chimiche. Cartesio che era un uomo consapevole, davanti allo scettico, al suo
ipotetico interlocutore scettico procede con l’argomento ad hominem, un argomento concepito in
funzione di un interlocutore: lo scettico dice che la ragione umana non può pervenire a nessuna
certezza, non può stabilire nessuna verità inoppugnabile; ammettiamo che abbia ragione, dice
Cartesio. La prima falda per attingere è la realtà e noi sappiamo che talvolta la testimonianza dei
nostri sensi si rivela ingannevole. E’ sufficiente che sia accaduto una volta per squalificare per
sempre la realtà come fonte di conoscenza vera, quindi fuori una. La seconda fonte di conoscenza
che da sempre ci nutre ed è la conoscenza indiretta, che otteniamo grazie all’intervento di altri
esseri umani. Molte delle informazioni di cui disponiamo le abbiamo grazie al racconto di altri, ma
quante volte le informazioni ricevute si sono rivelate scorrette? Fuori due. E’ inattendibile anche il
patrimonio che giunge dal passato. Cosa resta? La scienza, il sapere matematico. Ma potremmo
essere vittime di un genio malvagio che si diverte ad ingannarci, con sonni che ci appaiano reali,
che fanno apparire bene il male e male il bene. (cita poemetto di Calderon de la Barca “La vida es
sueno”). Anche questa fonte viene quindi coinvolta da Cartesio in questo processo di dubbio che
diventa iperbolico. Esaspera la posizione stessa dello scettico, ha radicalizzato il dubbio che lo
scettico avanza. Fa questo perché è una persona filosoficamente seria, prendendo sul serio le
obiezioni del proprio avversario, e va oltre a considerare anche le obiezioni potenziali, perché cerca
una risposta risolutiva. Non si limita a replicare alle obiezioni già formulate. Qui Cartesio assume
due maschere, per formulare una risposta che sia persuasiva e convincente. Cosa è dunque rimasto
sotto i piedi di Cartesio? C’è uno zoccolo duro, una base certa su cui ricostruire? Cogito ergo sum =
penso/dubito dunque esisto. Cosa ci garantisce che non saremo disturbati in questa certezza, che
nessuno ce la potrà togliere? Il pensiero cioè l’atto intellettuale è fatto di due parti, un contenuto che
descrive uno stato di fatto, contenuto proposizionale che ha l’ambizione di descrivere un aspetto
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della realtà che può essere anche mal riposta. Ogni volta che noi affermiamo qualcosa sulla realtà
sbagliamo, vittime del genio maligno. Ma c’è anche la presenza a se stessi, che è la coscienza di sé,
secondo elemento. La coscienza del fatto che chi ha emesso un certo giudizio sono io. Ogni atto
intellettuale ha due componenti, una proposizionale che rimanda all’oggetto e una psichica che
rimanda al soggetto. La coscienza di me è inattaccabile dal dubbio, se no si metterebbe in
discussione il dubbio stesso e si incorrerebbe in un paradosso. Per Cartesio io sono una res cogitans
che è una tesi che rimane al di fuori di qualsiasi obiezione scettica. Intende il pensiero come
coscienza di sé stessi. Anche sentimenti ed emozioni ne fanno parte. Assodato che descrivendo
l’uomo come una macchina ci troveremmo nella condizione di descrivere l’uomo come un essere
spirituale contenuto in una macchina. Ha quindi sostenuto che la mente è in grado di guidare il
corpo perché ha sede in una parte del corpo perché ne è collegata attraverso l’ipofisi (ghiandola
pineale).
Giovedì 06 Ottobre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
Cartesio è una figura ambivalente che giustifica sia una lettura discontinuità che una lettura di
difensore di una cultura che di lì a poco sarebbe stata messa fortemente in discussione. La sua
proposta filosofica inizia con un atto di discontinuità. D’altra parte egli interpreta la propria
missione filosofica come vota alla strenua difesa dei due principi base: l’esistenza di Dio e
Cogito ergo sum: ne parla nel Discorso sul metodo ma anche nelle Meditazioni di filosofia prima.
Per Cartesio la metafisica costituisce il fondamento della ricerca scientifica. Il suo metodo era di
vincere ogni possibile obiezione dello scettico che nega alla ragione umana la possibilità di
conoscere con certezza una qualche verità. Il cogito soddisfa il requisito di resistere alle obiezioni
degli scettici. Questo principio viene testato, il test avviene in modo singolare. Cartesio ipotizza che
le ragioni dello scettico siano fondate. Che ci sia vita intellettuale non lo può smentire nessuno.
Operari sequitur esse. Per fare qualcosa bisogna esistere, anche per ingannarsi, caro scettico.
Agostino (Contra academicos, scettici del suo tempo, antecedenti dei libertini) dice: si fallo sum, se
mi sbaglio, sono. Se io che sono così predisposto all’errore sono però in grado di accedere ad una
tale certezza, posso esserne l’autore? Agostino risponde di no, quanto alla mia esistenza io beneficio
di un lume, è la luce del verbo interiore. L’atto finale della conoscenza termina con una preghiera,
nel senso del riconoscimento che quella luce viene dall’alto.
L’uomo si scopre res cogitans seguendo da sé il dinamismo della propria ragione. L’ipotesi di Dio
viene introdotta in un momento successivo, in cui il solo cogito non sarebbe in grado di risolvere da
solo. Questa staffetta filosofica di collegamento tra il cogito e Dio agli occhi dei suoi successori non
ha funzionato. Noi siamo certi della nostra esistenza come sostanze pensanti, ma non siamo
altrettanto certi dell’esistenza delle cose attorno a noi. Quando riflettiamo su noi stessi (atto
dell’autocoscienza) si dà quel bellissimo ma irripetibile caso in cui il soggetto coincide con
l’oggetto. Ciò significa che la coscienza ha una struttura duale. Ma quando si osserva il mondo e si
dà un giudizio sulla realtà non c’è più questa garanzia. Questa è l’obiezione degli scettici e sta in
piedi. E’ per vincere questa obiezione che Cartesio inserisce nelle meditazioni di filosofia prima la
questione di Dio. Non basta che siamo certi di noi stessi come sostanze pensanti, ma dobbiamo
esser ragionevolmente sicuri di essere inclinati alla verità piuttosto che all’errore. Bisogna
riconquistare la certezza del mondo oltre a quella di sé. La mente umana è gravida di nozioni
estrinseche alla mente umana che chiama avventizie. Altre le chiama fattizie, idee combinate da
nozioni che la mente ricava dall’esperienza. La mente umana ispirata dall’esperienza è in grado di
combinare dati rielaborandoli e producendo nuove idee. Le terze sono le idee innate, significa che
sono un corredo originale della nostra mente, sono un patrimonio sorgivo della mente umana. La
più imponente di queste idee è quella di Dio. On va preso il termine Dio nella sua valenza
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esclusivamente religiosa. Dio qui è l’infinito e può prendere diversi abiti, può avere ad esempio una
eco matematica. La mente umana ragiona in termini binari. Ricaviamo le nozioni per
contrapposizione. Conosciamo di essere finiti perché abbiamo idea dell’infinito. L’uomo dal punto
di vista intellettuale è un contenitore finito che ospita dentro di sé qualcosa che lo supera, lo
trascende, lo oltrepassa. E’ la condizione di un essere vulnerabile, ma egli si sa vulnerabile in virtù
di un riferimento primario che è Dio. L’uomo contiene una sporgenza, sporge oltre sé stesso dal
punto di vista intellettuale. Nell’uomo è quindi presente l’idea di Dio. La mente umana è
autoreferenziale ma scopre uno spiraglio, una fenditura che lo costringe a pensare ciò che lo
trascende. La mente umana quindi non è totalmente autoreferenziale. Il cogito sum non le basta.
Un’eco agostiniana sembra arrivare fino a Cartesio. La mente umana gira su schemi binari
ineluttabili. Il problema è capire se all’idea di Dio corrisponda un’esistenza. Questo passo si può
fare in due modi: affidarsi ad una rivelazione o sul piano puramente razionale. Cartesio sceglie la
seconda strada. C’è una rivelazione immanente che si chiama logica. La differenza tra l’intelligenza
umana e quella divina è solo quantitativa. Dal punto di vista qualitativo l’uomo emula la mente
divina. Per sostenere una cosa così bisogna dimenticare secoli di patristica. In questo modo di
ragionare non c’è traccia del peccato. E’ colpa della teologia cattolica del tempo se ragione e fede
sono separate e ben distinte (Tomas Da Molina).
Fede e ragione non vanno immaginate come un viaggio a due tappe (fino ad un certo punto la
ragione e poi la fede). Per Cartesio il fine della vita umana è uno ed è soprannaturale.
Giovedì 13 Ottobre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
Attraverso il cogito mi sono reso conto di esistere ma nello stesso tempo ho perduto ogni certezza
quanto al mondo che mi circonda. Il cogito da solo non mi guarisce da questo dubbio. Quando
penso me stesso sono certo di esistere ma quando mi rappresento il pianoforte non sono sicuro che
l’immagine corrisponda alla natura reale di quell’oggetto. Bisogna sanare questa discrasia, questa
distanza, tra la mia rappresentazione delle cose e le cose stesse. Ma per fare ciò devo uscire da me
stesso. Solo accertandomi di Dio mi potrò concepire come una sua creatura. Debbo accertarmi
dell’esistenza di Dio per potermi pensare come sua creatura. Se esiste Dio è senz’altro veritiero e
quindi l’essere umano avrà ereditato al medesima propensione alla verità. Abbiamo battuto gli
scettici sul terreno dell’autocoscienza ma non gli abbiamo ancora battuti sul terreno della
comprensione della realtà. Così, nella seconda parte delle meditazioni, Cartesio si impegna nella
dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio. Esistono delle nozioni che Cartesio chiama idee, di
tre tipi. Questa idea dell’infinito, da dove viene? Potrebbe essere una produzione della nostra
immaginazione. Ma Cartesio scarta questa possibilità, che noi siamo gli artefici dell’idea di Dio.
Tutta la critica dall’ottocento in poi farà leva su questo argomento. In un effetto (l’idea di Dio) la
causa deve avere almeno altrettanto realtà dell’effetto stesso. La prima caratteristica di un Dio che
meriti questo nome è di essere causa sui, la maestà, nel senso di essere padrone della propria
esistenza. Idea di Dio come essere sommamente perfetto, cui non manca nulla. Bisogna postulare
una congruenza tra la causa e l’effetto. Per quanto sia una giustificazione dell’esistenza di Dio un
po’ prosaica, bisogna tenere conto che Cartesio parlava a uomini che erano impregnati di questa
mentalità prosaica. L’idea di Dio è innata in noi, ma il sospetto è che ce la siamo creata da soli. Se
fosse così tra noi e quell’idea ci sarebbe congruenza, ma allora i conti non tornano, perché noi
siamo esseri finiti. Poi Cartesio elabora una prova ontologica. Di nuovo concentriamoci sull’idea di
Dio, quando lo pensiamo a un essere completo, perfetto, completo. Ma quando tu cominci a
dubitare di Dio, entri in contraddizione con te stesso. Violi il principio di non contraddizione perché
o pensi l’infinito e allora lo devi pensare come esistente oppure se lo vuoi negare non lo puoi
nemmeno nominare, perché se no nomini quell’ente con le caratteristiche di perfezione e
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
completezza. Se diciamo che l’idea di Dio è avventizia, compensando delle frustrazioni della vita
concreta, allora dobbiamo poi spiegare l’incongruenza della limitatezza umana e la sua capacità di
pensare l’infinito. L’idea di infinito è una pietra d’inciampo per il pensiero umano.
Per Cartesio senza l’idea dell’infinito il pensiero umano non funziona.
La certezza del cogito Cartesio la raggiunge sulla base del repertorio della propria intelligenza, Dio
non gioca nessun ruolo. Nella esplorazione del mio io Dio non ha giocato nessun ruolo. L’ateo non
ha bisogno di Dio per conquistare la certezza di sé stesso.
Giovedì 20 Ottobre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
Iniziamo a parlare del secondo grande filosofo moderno, la figura più notevole di tutta la storia
della filosofia moderna, Immanuel Kant. Presenta alcune difficoltà ulteriori rispetto a Cartesio.
Kant potremmo paragonarlo al regno di Carlo V su cui non tramontava mai il sole, così sulla sua
filosofia. Con Cartesio eravamo nella prima metà del ‘600 francese, con Kant siamo nella seconda
metà del settecento tedesco. Cartesio, contesto, stati assoluti, il sovrano è fonte della legge e al di
sopra della legge. Kant, contesto, rivoluzione francese, testimone di un cambiamento radicale nel
costume e nel pensiero politico, che consiste nel congedo traumatico in Europa dalla secolare teoria
dell’assolutismo, in cui colui che legifera sia sottratto a giudizio. Kant è figlio dell’illuminismo, uno
dei figli più eminenti. On a caso tra le moltissime cose che ha scritto c’è un piccolo saggio del 1784
intitolato “Che cos’è l’illuminismo?”. Era stato bandito un concorso con questa domanda e a
Berlino affluirono molte risposte, ma quella che ebbe più futuro fu quella di Kant, come una sorta di
canone cui ci si deve riferire quando si parla dell’illuminismo. L’illuminismo è l’uscita dell’uomo
da una secolare condizione di minorità intellettuale, dovuta alla sua colpevole incapacità di fare un
uso autonomo del proprio intelletto, così si apre il saggio di Kant. Perciò si potrebbe dire che lo
slogan dell’illuminismo sia SAPERE AUDE, abbi il coraggio di sapere. Già si intravede quali siano
gli obiettivi di tale affermazione. Tutte le auctoritates di carattere morale, politico e religioso che da
tempo pretendevano di guidare l’uomo e di condurlo evitandogli la fatica di pensare
autonomamente. Il senso che Kant dà al termine critica è moderato, significa vagliare con la
ragione. Voltaire era un demolitore, Kant no, assomiglia a Cartesio sotto questo aspetto.
L’illuminismo è il tempo della critica in cui la ragione umana divenuta adulta passa al vaglio i
messaggi, le ambizioni, le mete che la tradizione ci ha consegnato. Le tre opere salienti per le quali
Kant è conosciuto sono: 1781 Critica della ragion pura, 1784 Critica della ragion pratica, 1790
Critica del giudizio. La scelta dei titoli la dice lunga sul suo legame con l’illuminismo. Anche se,
come vedremo, l’illuminismo, dice Kant, ormai ha detto tutto quello che poteva dire. In un libretto
che scrive in tarda età riassume le 4 domande fondamentali del pensiero filosofico: che cosa posso
conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare? Che cosa è l’uomo? Kant ha scritto
un’antropologia ma dal punto di vista pragmatico, recita il sottotitolo. E’ una sorta di saggio sul
carattere dell’essere umano. Un conto per Kant è il carattere, cioè la forma empirica dell’essere
umano (condizionata dalle contingenze), un conto è un’antropologia nel senso forte del termine, che
si riferisca alla natura essenziale dell’essere umano, il nocciolo essenziale. Un libro intorno
all’uomo come nucleo irriducibile, Kant non l’ha mai scritto, né presumeva si potesse scrivere.
Partiamo da: cosa posso conoscere? A questa domanda risponde “La critica della ragion pura”. Alla
seconda domanda risponde “Critica della ragion pratica”, alla terza risponde “La religione nei limiti
della sola ragione”.
Kant aveva 57 anni (era nato nel 1724). Aveva scritto già altre cose, ma nessuna valeva un
centesimo della “Critica della ragion pura”, i dieci anni precedenti non fa altro che meditare su ciò,
e quando uscì questo testo tutta la filosofia europea deve riorientarsi su questo nuovo paradigma. Il
libro uscì in due edizioni, 1781 e poi nel 1787. tra le due edizioni vi sono alcune non indifferenti
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
differenze. Soprattutto una nel cuore del discorso. Noi prendiamo in considerazione quindi la
seconda edizione. Chi apre la “Critica della ragion pura” vede già dalla prefazione le grandi linee
del pensiero kantiano. Nelle primissime righe ci sono delle battute con le quali Kant rende giustizia
alla metafisica. Kant vuole sgombrare il campo dall’idea che la metafisica fosse una fisima di
Platone e compagni. No, alla metafisica la mente umana mira per costituzione, venendo così portata
a superare i limiti dell’esperienza. La ragione non si accontenta di stare nel perimetro del
condizionato ma vuole spaziare nell’incondizionato. Questo dinamismo però bisogna imparare a
tenerlo sotto controllo, dice Kant. La ragione ha una propensione naturale a oltrepassare i limiti
dell’esperienza, ma man mano che si allontana dal limite del sensibile, inizia a vaneggiare. Si vede
che la metafisica se la passa male dai dissensi. La metafisica, dice Kant, è un campo di lotte senza
fine, un dissenso che nessuno sembra in grado di arbitrare. Da un lato ci sono i dogmatici, dall’altro
ci sono gli scettici. I primi sono gli eredi di Cartesio, i razionalisti. Gli scettici sono Locke, Hume,
etc. inglesi tra ‘600 e ‘700, in una corrente nota come empirismo. La mente umana è gravida di
alcune idee innate. Gli empiristi hanno reagito in modo energico a questa tesi. La ragione umana
all’inizio è un puro raccoglitore vuoto, che recepisce poi i dati dall’esperienza, la mente organizza i
dati secondo analogie o relazioni di contiguità. Il nesso causa-effetto sarebbe frutto dell’abitudine,
la generalizzazione di una serie di osservazioni empiriche. Anche l’idea di Dio è frutto di
esperienza. Lo scontro tra dogmatici e scettici ha portato alla bancarotta la metafisica. Kant vuole
restaurare il prestigio della metafisica, in un’età dominata dalla scienza e dalla ragione. Ma si può in
questo contesto? Si può se la metafisica può rivendicare per sé gli stessi requisiti che la scienza
rivendica per sé. Primo, l’universalità, secondo, la necessità. Le conoscenza scientifiche sono tali
perché sono necessarie, incontrovertibili. Per Kant il carattere scientifico di una legge scientifica è
la sua incontrovertibilità. E’ possibile la metafisica come scienza? La metafisica è possibile come
disposizione naturale, questo è certo, ma come scienza? Può produrre delle conoscenze tali da
conseguire il canone di universalità e necessità. La parola “trascendentale” è l’epicentro del
pensiero kantiano. La ragion pura è un libro di 700 pagine circa che è ripartito in due grandi
polmoni, l’estetica trascendentale e la logica trascendentale. L’estetica è un blocco compatto,
monolitico, mentre ben più cospicuo è la parte dedicata alla logica che si biforca in analitica
trascendentale e dialettica trascendentale. L’analitica a sua volta si biforca in analitica dei concetti
puri e analitica dei principi. Questi elementi compongono la dottrina trascendentale degli elementi
(fonti della conoscenza umana che sono due, la sensibilità (di cui si occupa l’estetica – aistesis,
dottrina della percezione) attraverso la quale gli oggetti colpiscono i nostri sensi e li modificano e
l’intelletto, di cui si occupa la logica con una riflessione intorno al modo in cui pensiamo ciò che
abbiamo percepito). Quando parliamo di conoscenza parliamo di una sinergia tra esperienza
sensibile e riflessione intellettuale. L’intelletto per Kant è la facoltà del giudizio che ci permette di
collegare un soggetto e un predicato. L’intelletto è un potere di sintesi. Kant ribadisce più volte che
queste due facoltà (sensibilità e intelletto) sono tra loro ontologicamente diverse, eterogenee. La
sensibilità è passiva perché riceve mentre l’intelletto è spontaneo, perché elabora quel che riceve la
sensibilità. La massa delle intuizioni, cioè del nostro contatto immediato con le cose è una folla
disordinata. E’ l’intelletto che dà ordine e coerenza, organizzazione a questa folla. Kant conclude
così l’introduzione: le intuizioni senza i concetti sono cieche, i concetti a loro volta senza intuizioni
sono vuoti, non hanno il contenuto.
Giovedì 27 Ottobre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
La conoscenza umana per Kant nasce dal connubio tra la sensibilità e l’intelletto. Ma le considera
due facoltà eterogenee. La sensibilità ci dà gli oggetti, mentre l’intelletto li pensa. La sensibilità è
una facoltà di tipo ricettivo mentre l’intelletto è una facoltà di tipo spontaneo. La sensibilità subisce,
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
è paziente mentre l’intelletto prende iniziativa, secondo un principio organizzativo dei dati della
realtà che è suo. E’ dunque necessario un ponte tra le due. La domanda preliminare viene prima di
quella sussidiaria che è “cosa possiamo conoscere?” ed è: è possibile la metafisica come scienza?
Egli fa un bilancio della filosofia del suo tempo, che risulta penoso. Un campo di battaglia dove
nessuno dei contendenti ha la forza speculativa di prevalere sugli altri. Da un lato i dogmatici
dall’altro gli scettici, i primi eredi di Cartesio, i secondi di Locke e di Hume.
Dice Kant che la metafisica è una disposizione naturale della mente umana, che ha una propensione
originaria a oltrepassare i limiti del sensibile. Il campo della crisi è quindi soltanto la definizione di
metafisica come scienza, capace di emettere enunciati validi, come disposizione per Kant non c’è
discussione. E’ possibile quindi che la metafisica produca degli enunciati necessari e validi? A
questa domanda è sospeso l’intero cammino della ragion pura. Le premesse non sono favorevoli. Ci
sono delle contese in corso che non si riescono ad arbitrare. Kant crede di poter risolvere la
questione, facendo compiere a tutta la questione un balzo in avanti, cosa che i contendenti non si
sono mai sognati di fare. Si tratta della rivoluzione copernicana nel suo uso metaforico. Secondo
Kant occorre fare anche in filosofia una rivoluzione, che consiste nel rovesciare il modo consueto di
pensare la relazione tra il soggetto che conosce e l’oggetto da conoscere. Il punto di partenza
(terminus ab quo) è la dottrina della conoscenza aristotelica ripresa da Tommaso D’Aquino che
sarebbe frutto della conversione della mente umana agli oggetti per estrarre la sua specie impressa,
la sua forma intelligibile razionale. La mente umana ha il potere di chinarsi sulle cose e di estrarre
la specie impressa e farla diventare espressa. Secondo Kant si tratta proprio di rovesciare questo
modo di concepire l’intelletto e le cose. Immaginiamo che si dia il caso opposto: che siano gli
oggetti a doversi adattare alle strutture basilari della nostra soggettività. Tutte le volte che il
pensiero si sporge al di là dell’esperienza sensibile inizia a vaneggiare, quindi per Kant, su questa
base, la risposta alla sua domanda sarebbe NO. Succede ciò perché la ragione quando fluttua nella
dimora dell’incondizionato si trova al cospetto delle grandi questioni metafisiche pur avendo
portato con sé il repertorio concettuale con cui sta solitamente nel mondo sensibile, nella sfera del
condizionato. La metafisica dunque un apparato concettuale non adeguato agli oggetti di cui si
occupa. Produce quindi enunciati che anziché trovare consenso generano dissenso. La critica della
ragion pura è un’opera attraverso la quale k vuole chiarire quali siano i limiti di validità
dell’apparato concettuale di cui ci serviamo per conoscere per qualsiasi cosa, raggiunge il suo
obiettivo solo in alcune situazioni, altrimenti risulta inservibile, generando confusioni e
fraintendimenti. Non è più la mente umana a doversi adattare ma sono gli oggetti a doverlo fare. Ma
è un’arroganza solo apparente che ha uno scopo paradossalmente umile, sobrio. Facciamo l’ipotesi
che siano le cose a doversi adattare alla soggettività umana, la quale è dotata di sensibilità, che una
facoltà ricettiva e di intelletto, che elabora. Se si tolgono tutti gli oggetti dal campo visivo resta
l’intuizione di un piano dove ogni cosa trova posto. Un oggetto si vede perché ha un posto, una
posizione, occupa una porzione di spazio, una sorta di scenografia primitiva, di palcoscenico.
L’unico modo di entrare in contatto con un oggetto è una intuizione sensibile, un contatto
immediato, attraverso un senso. Non c’è altra possibilità se non quella fisica. Lo spazio illimitato, il
piano immaginario, che resta quando cancelliamo tutti gli oggetti, come facciamo a conoscerlo? E’
una intuizione altrettanto immediata. Noi siamo al corrente dell’esistenza dello spazio ancora prima
di essere al corrente dell’esistenza degli oggetti. Lo spazio è una intuizione diretta, immediata,
PURA, contrario di sensibile, è una notizia originaria che ho in quanto essere dotato di un corpo.
Kant la chiama intuizione PURA. Lo spazio non è una cosa, un elemento dell’arredo del mondo. Lo
spazio è una nozione del soggetto conoscente, è la forma con cui noi intuiamo tutta la realtà, tutte le
cose. Anche il tempo non è un corredo del mondo, ma è di nuovo una intuizione della successione,
del prima e del poi. Abbiamo memoria degli eventi perché li disponiamo secondo una sequenza
temporale. Anche il tempo è una INTUIZIONE PURA.
Giovedì 03 Novembre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
Prof. Nevio Genghini
La prima parte della Critica della ragion pura si chiama estetica trascendentale e la seconda logica
trascendentale. La conoscenza umana è data dal connubio tra sensibilità, di cui si occupa la prima
parte, e l’intelletto di cui si occupa la seconda parte. Si tratta di due facoltà eterogenee, la prima è
ricettiva e noi siamo pazienti. Per questo Kant dice che la sensibilità ci dà gli oggetti, perché viene
modificata dalla presenza degli oggetti. Ma non basta la sensibilità per conoscere. Veniamo inondati
da una grande massa di dati sensibili, i quali necessitano di una forma, e qui entra in causa
l’intelletto. L’intelletto ha la vocazione di intervenire, dice Kant, unificatrice. Quindi la massa di
dati viene sintetizzata, unificata dall’intelletto, grazie alle funzioni unificatrici, i concetti puri o le
categorie. Della sensibilità si occupa l’estetica, non intesa come dottrina del gusto, ma nel suo senso
letterale, come dottrina della sensibilità, della quale fanno parte anche le trattazioni dello spazio e
del tempo. Lo spazio per Kant è una intuizione pura, che fa da sfondo ad ogni oggetto possibile di
esperienza. Ma lo spazio non ci è dato come gli oggetti, è un presupposto, un antefatto. Idem per il
tempo. Sono struttura a priori. Noi non abbiamo mai a che fare con le cose come pensa
abitualmente il senso comune, con le cose in sé, perché tra noi e le cose c’è un filtro ineluttabile,
spazio e tempo. Le cose quindi non sono mai come sono ma come appaiono, noi non tocchiamo mai
le cos e a mani nude ma c’è sempre questo velo dello spazio e del tempo. La cosa che appare,
appare a noi, e sottostà alle condizioni dell’apparire che vengono poste dal soggetto. La soggettività
ha i caratteri della soggettività umana generale, per Kant. Si tratta di caratteri costanti e ricorrenti
della soggettività, non “tot capita tot sententiae”. Il punto di vista di cui stiamo parlando è fatto di
strutture trascendentali, ricorrenti in ogni individuo umano. E’ come un processore, su cui poi c’è il
software del temperamento individuale, ma il processore è quello. Si tratta di una oggettività
soggettiva. Avendo tutti lo stesso processore, cade la distinzione tra oggettivo e soggettivo. Ma
l’oggetto esiste anche al di fuori della nostra percezione, ma quell’esistenza noi la possiamo solo
pensare, non la possiamo conoscere. Restano Dio, il cosmo e l’anima (come sostanza spirituale
immortale), argomenti cari alla tradizione metafisica. Se noi siamo convinti di poter raggiungere
con il pensiero razionale, Dio, il mondo e l’anima, allora dobbiamo pensarli come oggetti che
appaiono, ma se li pensiamo come oggetti che appaiono vuol dire che sono sottoposti alle
condizioni dell’apparire, vale a dire spazio e tempo, forme trascendentali della soggettività umana.
Diventano tutti oggetti condizionati. Dunque verrebbero a dipendere dalle condizioni della
soggettività umana. Il pensiero dell’incondizionato che buca la coltre dell’immanenza resta per
Kant problematico. Nella seconda parte della Logica, Kant si interroga sui fenomeni del cosmo. Se
ci guardiamo intorno possiamo dire che tutto quello che accade ha una ragione sufficiente, cioè una
causa. Ma se così fosse verrebbe negata la libertà. Dice Kant che il bello ci piace perché potenzia la
nostra vitalità, espande la nostra percezione di essere vivi e fa comprendere delle dimensioni che
altrimenti resterebbero precluse. Il bello, l’esperienza estetica, avrebbe quindi una valenza
cognitiva.
Giovedì 10 Novembre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
Con questa lezione chiudiamo Kant. Quale intenzione ha guidato tutta la riflessione kantiana dalla
ragion pura attraverso le opere successive. Ricordiamo con quale verdetto si chiude la ragion pura.
Eravamo partiti dal quesito: è possibile la metafisica come scienza? Per trovare risposta Kant ha
istituito un tribunale che doveva giudicare la pretesa della ragione di oltrepassare i limiti
dell’esperienza. Il problema era dimostrare la legittimità di questa pretesa oppure accertare che
questo scavalcamento produce delle conoscenze illusorie. Dunque il tribunale della ragion pura
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
conclude con un verdetto sfavorevole. Ogni volta che la ragion pura, come facoltà del conoscere,
scavalca il limite del sensibile incorre in conoscenze illusorie. Intendiamo per metafisica l’assoluto,
dice Kant, nella sua triplice versione, quello dei fenomeni esterni (cosmo, nel senso greco del
termine, la cornice di tutti i fenomeni della natura), quello dei fenomeni interiori (anima), quello dei
fenomeni sia interni che esterni (Dio). Si tratta di conoscenze illusorie perché la ragione quando
oltrepassa il limite della conoscenza sensibile per afferrare l’incondizionato, continua ad operare
con al stessa strategia con cui afferra i fenomeni mondani, la strategia della schematizzazione. Si
tenta di degradare l’incondizionato a condizionato. Il pensiero si trova così in una condizione di
scacco che non gli permette di andare avanti. Il verdetto della ragion pura sembra essere alquanto
severo. L’idea di Dio la possiamo mantenere sul piano cognitivo come un ideale (della completezza
della nostra conoscenza) a cui noi aspiriamo senza poterlo mai raggiungere. L’aspirazione
all’assoluto viene confermata come desiderio della mente ma negata come oggetto della
conoscenza. Se noi vogliamo conservare un posto all’incondizionato, dobbiamo sottrarlo alle
pretese del sapere e riservarlo alla fede. Qui la parola fede non va intesa in senso confessionale ma
quale fede morale, non religiosa dunque. La fede morale in Dio, nell’anima come sostanza
spirituale e negli articoli della metafisica è per Kant prerequisito dell’esperienza morale. Critica
della ragion pratica, opera fondamentale e in certo modo ancora più influente della ragion pura, la
quale è in qualche modo invecchiata. Il paradigma scientifico di Kant è la fisica di Newton, ma nel
frattempo la fisica ha subito delle autentiche metamorfosi che hanno reso obsoleto Newton. Mentre
la ragion pratica ha vissuto negli ultimi 50 anni una singolare rivalutazione. La domanda che ispira
questo secondo itinerario kantiano è : cosa devo fare? Quali sono i principi che devono guidare
l’agire umano. Non tutto l’agire umano soddisfa infatti i requisiti della moralità. Quando l’uomo
agisce sulla base di una fede religiosa sta ancora sulla soglia della moralità ma non ha ancora
pienamente varcato quella soglia. Quando dunque possiamo chiamare morale l’agire di un essere
umano? Quando quell’agire è guidato da una volontà buona. La sola cosa ad essere buona è per
Kant la volontà, non l’oggetto della volontà e qui c’è un grande salto rispetto alla tradizione etica.
L’agire è morale quando è guidato da norme razionali, dalla ragione. Può la ragione guidare a priori
l’agire morale? Se esiste un agire morale questo può dipendere solo dalla capacità della ragione di
farlo. Possiamo ricavare una norma vincolante per tutti gli esseri razionali finiti? No, perché i
moventi sono di carattere individuale, radicati nel temperamento. Questi moventi non ci vedono mai
pienamente responsabili perché li subiamo, in quanto esseri affettivi, passionali, emotivi,
sentimentali. Non siamo noi ad agire, ma queste passioni e sentimenti agiscono alle nostre spalle.
Non siamo veramente attori quando ci lasciamo trasportare da questi strati della nostra personalità.
L’obbligo morale è tale solo se io lo scelgo. Se non sono nella condizione dell’agente ma del
paziente. Una volontà è buona quando è determinata solo e unicamente dalla ragione. Tutte le etiche
costruite su concetto di fine o bene , sia religiose che laiche sono eteronome, dove la bontà del
dovere è decisa dalla bontà del fine. La ragione per Kant è la forma dell’universale. Imperativo
categorico detto anche legge morale non dice cosa si deve fare se non si ricadrebbe nel campo delle
etiche eteronome. La legge morale dice come devi volere quel che ti pare. Non prescrive un bene
cui aspirare, ma chiede ogni volta di fare un esame di coscienza: potresti volere che quella ragione
per agire diventasse il principio per una legislazione universale? Torniamo alla questione del
dovere, che è sicuramente lo snodo. Da cosa sappiamo che siamo liberi? La libertà, controversa sul
piano teorico, nella ragion pratica diviene una realtà solare. Noi sappiamo che siamo liberi (risposta
di Kant) in virtù dell’esperienza dell’obbligo, del dovere. Devo, dunque sono libero. Il dovere è la
ratio cognoscendi del nostro statuto di essere liberi. La libertà invece è la ratio essendi del dovere.
Formula dell’imperativo categorico più bello: (agisci sollevando ogni volta il tuo movente a legge
universale) tratta l’umanità in te stesso e nelle altre persone sempre come un fine e mai soltanto
come un mezzo.
Giovedì 17 Novembre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
Prof. Nevio Genghini
Tra le due opere di cui ci siamo occupati la seconda ha un’attualità che manca alla prima. Resta una
pietra miliare nella riflessione etica contemporanea. Anche il pensiero cattolico è largamente
debitore nei confronti di Kant. E’ un testo che continua a fare scuola. Tutta l’esperienza morale
viene posta sotto il concetto di dovere, e questa è una cesura rispetto all’etica precedente che era
tutta imperniata sul volere. Tutta l’esperienza morale ruota intorno alla questione dell’obbligo. Per
quale ragione Kant fa questa rivoluzione copernicana? Il problema di Kant è se sia possibile
costruire un’etica universale che valga per tutti gli esseri razionali, capace di obbligare qualsiasi
essere umano. Come può esistere un’etica universale? Può esistere solo se la ragione è in grado di
governare a priori l’agire umano escludendo qualsiasi movente di natura empirica. Una ragione
pura, affrancata da ogni condizionamento empirico. In caso contrario noi non abbiamo un’etica
universale, avremo se mai una molteplicità di costumi locali. Il costume è una realtà normativa, che
ha quindi una dimensione di obbligo, ma vige in una società specifica. Kant prende la ragione,
intesa come esigenza dell’universalità (istanza dell’universale), e si chiede se la ragione sia in grado
di guidare a priori l’agire umano. Perché Kant mette in alternativa la dimensione dell’universale con
i moventi che abitualmente condizionano l’agire umano? Perché quando ci si lascia condurre da un
passione, bassa o elevata che sia, ci si lascia portare da uno slancio, si è nella condizione paziente
non agente. Quando le passioni guidano le nostre azioni ci destituiscono dallo stato di razionali allo
stato di pazienti. La legge razionale è auto legislatore, è autonomo, dà a se stesso una legge
razionale. Respinge anche un’etica basata su di una credenza religiosa. Non respinge l’oggetto della
credenza, ma respinge la credenza come guida dell’etica, che si chiama eteronomia, sottomissione
ad una legge che qualcun altro ha promulgato. L’etica deve essere universale (razionale) ed
autonoma. L’uomo è l’unico ente ad essere legislatore di sé. Tutti gli altri viventi subiscono la legge
della loro costituzione affettiva, norma inscritta nella loro natura. La dignità dell’essere umano sta
nel poter essere legge a sé stesso. Rischio del soggettivismo, Kant reagisce con l’esigenza
dell’universalità. Prima minaccia è il relativismo, il localismo. La seconda è l’eteronomia. Etica
delle massime, che chiede di universalizzare le massime dell’agire, non va applicata ogni volta che
ci apprestiamo ad agire. Le massime dell’agire devono rispecchiare lo stile di vita complessiamo
che si è abbracciato. Posso universalizzare quello stile di vita? Posso immaginare che ogni altro
essere razionale finito possa immedesimarsi con la mia stessa prospettiva? Si tratta di uno stile di
vita, non di una lista di norme per ogni questione concreta. L’etica Kantiana è ambiziosa e
riconosce con grande acutezza quali sono le insidie che incombono. Il dovere per Kant è la ratio
cognoscendi della libertà, noi sappiamo che siamo liberi perché conosciamo l’obbligo. Kant si
chiede che cosa è buono senza limitazione alcuna, in modo incondizionato. La sua risposta è
provocatoria e suscita l’inquietudine del pensatore cristiano. Risponde: la buona volontà. E
chiarisce: non si può definire cosa sia il bene prima di avere definito in cosa consista una volontà
buona. Una volontà buona è una volontà che si conforma alla ragione, che si universalizza, a quel
punto è già nata la legge morale., che una volontà che si universalizza. Anche in Kant c’è una
definizione di buono che guida la volontà, ma il punto è che Kant si rifiuta di concepire il buono
come una grandezza esterna all’essere umano, perché sarebbe una lesione dell’autonomia
dell’uomo. Kant vuole trovare un bene immanente alla soggettività umana. Esiste un bene
immanente alla soggettività umana? La ragione. E’ una norma che egli tra da sé stesso. La normalità
è l’eteronomia e Kant si chiede come si può sfuggirle ed è la possibilità di farsi condurre dalla
ragione. Possibilità che per essere colta richiede un percorso di ascesi. Tratta l’umanità in te stesso e
negli altri sempre anche come un fine ma solo come un mezzo. In questo imperativo categorico
torna la distanza tra te come individuo empirico e la dignità trascendentale di cui è portatore. Noi
abbiamo un obbligo nei confronti dell’umanità, della sua dignità (in te stesso e negli altri)
comprensiva di sé stessi. Nella ragion pratica tratta degli argomenti contro il suicidio. L’uomo non
può disporre per Kant di sé a suo piacimento. Se esistono obblighi verso sé stessi significa che
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
esiste uno iato tra l’individuo empirico e la sua dignità trascendentale. L’uomo diventa degno di
rispetto e felicità quando conquista la libertà dalle proprie pulsioni, quando diventa cittadino del
regno dei fini (forma laicizzata del Regno di Dio). Quando diventa autonomo. Quest’uomo degno di
rispetto e di felicità, raramente è felice, nella pratica. Sembra invece che chi non assolve il precetto
sia più felice di chi lo assolve. Non dovrebbe succedere che chi è moralmente degno non sia felice.
Risponde Kant che esiste una sola possibilità che soddisfi a questo grido della ragione: che esista un
Dio e che l’anima dell’uomo sia immortale. Solo l’esistenza di Dio può sanare la dolorosa frattura
tra la virtù e la mancanza di felicità (scacco della ragion pratica). Dio e l’anima sarebbero dei
postulati.
Giovedì 24 Novembre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
Oggi parliamo di Hegel. Giorgio Federico Guglielmo. Siamo in Germania, qualche tempo dopo
l’epilogo dell’avventura kantiana, nato nel 1770, morto a Berlino nel 1831, attivo proprio una
generazione dopo quella kantiana. Nei trenta anni che separano la loro attività molte cose sono
cambiate nell’aria, quello che Hegel chiamerà lo spirito dei tempi. Si era esaurito l’illuminismo e si
era instaurato il romanticismo. Nel 1789 era scoppiata la rivoluzione francese e durò circa 5 anni e
quando la Francia riuscì ad assorbire i postumi della rivoluzione iniziò a brillare l’astro di
Napoleone che cambierà la storia politica della Francia e a seguire di tutto il continente. Vengono a
galla due esigenze che sembrano all’inizio concordi poi si distanzieranno: l’idea di cittadinanza
(idea secondo la quale ogni essere umano è naturalmente portatore di alcuni diritti fondamentali,
che ha diritto di vedere protetti e tutelati, e gli Stati sono degli ordinamenti artificiali devono
tutelare questi diritti e garantirne l’esercizio) e l’idea di nazione come un vincolo, un elemento
unificante, tale da sostituire nell’immaginario degli uomini moderni il vincolo religioso, il vincolo
nazionale quale surrogato del vincolo religioso. Si tratta di due concetti fratelli all’inizio, sembra
evidente a tutti che la lealtà ai diritti fondamentali e la lealtà alla nazione facciano parte di una unica
identità politica. Stiamo enunciando un ideale universalistico, che per sua natura trascende i confini
nazionali. Ben presto però si capì che queste due istanze non solo erano diverse ma potevano anche
entrare in conflitto le une con le altre. Sembra che le comunità umane senza una coesione di tipo
simbolico, di natura diversa, nell’immaginario, non possano sussistere. Questo almeno è stato il
fondamento della rivoluzione francese. Una costituzione per unire deve racchiudere un orizzonte
molto più vasto della semplice dimensione organizzativa, legislativa. Già nel 1792 quando l’esercito
francese attacca la Germania al grido di “esportiamo i valori della rivoluzione”, una volta occupato
il campo avversario questo non avviene, ma la Francia si pone subito in posizione di dominio e
sfruttamento. Il bisogno della filosofia per Hegel nasce dall’esperienza di una lacerazione, quella tra
l’universale e il particolare. L’ideale cosmopolita deve soddisfare il bisogno di radicamento ed
appartenenza degli esseri umani, non può imporsi contro questo bisogno. Senza il bisogno di
appartenenza comune il loro sistema di valori comincia a vacillare. L’universalità non può essere
affermata a scapito del particolarismo, di avere una patria. C’è per H un bisogno insoddisfatto che
rende acuto il bisogno di filosofare. Il primo passo per afferrare il senso della risposta hegeliana
riguarda la sua biografia intellettuale, in cui vi è un passo decisivo. Seminario di Tubinga, scuola di
teologia tra le più rinomate della Germania, dove Hegel fece i suoi primi passi, aveva infatti
intenzione di intraprendere la carriera ecclesiastica. Suoi compagni di stanza furono Schelling e un
eccelso poeta, Holderlin. Scritti teologici non omogenei, il suo pensiero muta anche sensibilmente
da un saggio all’altro. Al centro del pensiero di Hegel c’è Gesù, che viene presentato da principio in
termini piuttosto severi. Era un rivoluzionario dal punto di vista del messaggio, Gesù, ma accettò
dei disastrosi compromessi con la mentalità ebraica del suo tempo.
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
Man mano che ci si avvicina alla maturità di H il suo pensiero si modifica, e da una posizione di
contestazione nei cfr di Gesù passa ad una rivalutazione, definendolo “genio della riconciliazione”.
Il succo infatti della predicazione di Gesù è stato “ama il prossimo tuo come te stesso”. Per H
l’amore è la forza riunificatrice per eccellenza, è la potenza che sana, è ciò che vince l’estraneità fra
gli uomini, generando fra loro un sodalizio che si lascia alle spalle dissidi e fratture. Gesù viene
descritto come un eversore dell’ebraismo, perché Gesù insegna agli uomini come seguire gli
imperativi che nascono dalla loro stessa ragione. C’è una norma interna all’uomo, si tratta solo di
adattare il proprio comportamento a questa. Il messaggio di Gesù si realizza completamente nel
miracolo della pentecoste (diffusione dello Spirito Santo sugli Apostoli). L’epifania suprema di Dio
ha il suo specchio nella storia. Questo travaso di spirito avviene da parte di Gesù senza riserve nei
suoi, perciò non c’è più la necessità di distinguere tra l’uno e gli altri. E’ una epifania che non lascia
in ombra nulla del divino. Il divino rovescia nella realtà mondana tutti i propri misteri, così,
comprendere la realtà mondana significa comprendere la sua origine divina, il movimento di Dio
verso il mondo, che non lascia dunque zone d’ombra. Questo è il primo fondamentale caposaldo del
pensiero hegeliano, nel rapporto tra l’umano e il divino. Gesù come colui che rivela la vita del
mondo come vita di Dio e viceversa in una perfetta relazione speculare che non lascia in ombra
nessun elemento. Per poter dire che il mondo sia una completa epifania di Dio senza zone d’ombra,
bisogna che anche quello che Hegel chiama il negativo, cioè il male, la corruzione, la rovina, abbia
parte a questo processo epifanico. Se sosteniamo che il mondo è il testo in cui Dio racconta sé
stesso dobbiamo dimostrare che anche la rovina è parte dello stesso disegno provvidenziale, che
anche il negativo svolge una funzione positiva, provvidenziale. Anche dove le civiltà vanno in
rovina, dove le vite sono spezzate, anche lì bisogna trovare la manifestazione della gloria di Dio. La
prima grande esperienza religiosa in Europa è stata quella greca, dove si realizza un autentico
prodigio, l’armonia tra l’istanza dell’universale e le aspirazioni dell’individuo. Per un greco
l’appartenenza alla città era tutto. L’offerta che Socrate fa di sé alla città è l’esempio ideale di
questa armonia. Ma nella esperienza ebraica questa simbiosi va perduta, perché nell’esperienza
ebraica Dio si presenta al cospetto dell’uomo come un giudice, come una autorità estrinseca alla
coscienza dell’uomo. Il divino è uscito dal perimetro dell’interiorità e torna al cospetto dell’uomo
come autorità superiore, espressa con il decalogo. Gesù ha riportato Dio nel cuore dell’uomo. E in
questo modo Gesù ha nuovamente sanato la lacerazione tra divino e umano, universale particolare.
Gesù però è più grande dei greci perché porta in sé la memoria del contrasto che ha sanato. Perciò la
conciliazione cristiana tra universale e particolare è superiore all’armonia del mondo greco. Le
figure della dialettica hegeliana sono: l’unità iniziale tra universale e particolare, un legame
simbiotico che si spezza, erompe la diversità nell’esperienza degli ebrei quando Dio si presenta
come un giudice inflessibile. Poi la riconciliazione cristiana che è una negazione della negazione,
una sintesi che procura l’unità di ciò che prima era diviso, che è un amore vittorioso sulla divisione.
Nel pensiero di Hegel c’è un sapiente uso di categorie teologiche. Tutta la sua filosofia è una
teologia ma nello stesso tempo ci sono dei passi di questa teologia che sono spregiudicati.
Cristianesimo senza mistero, è questo l’obiettivo di Hegel, recuperare le verità del cristianesimo
senza l’involucro dogmatico.
Giovedì 01 Dicembre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
Tre tipi di esperienza religiosa per Hegel, legate a storia ebraica, storia greca, storia cristiana. Presso
i greci l’esperienza religiosa si è espressa con una mirabile unità tra elemento soggettivo e
oggettivo, tra finito e infinito, tra individuale e universale. L’eticità dei greci era una comunione tra
l’istanza individuale e i valori che ispirano la vita pubblica. In una sequenza concettuale segue
l’ebraismo, dove il momento soggettivo e quello oggettivo o universale, si sono disgiunti, sono
andati ciascuno per la propria strada. Questa lacerazione è documentata dal fatto che Dio si presenta
al cospetto del singolo come un giudice inflessibile e severo, come una istanza estranea, mentre
presso i greci questa istanza era radicata nel cuore dell’individuo. Per gli ebrei Dio era una autorità
cui obbedire. Va perduta l’unità sperimentata dai greci, è una religione della separazione tra
l’umano e il divino. Il giudizio di Hegel sull’esperienza ebraica era dunque alquanto severo, dove si
individua una perdita. In un primo momento Hegel estende questo severo giudizio anche al
cristianesimo. Fa un paragone tra la figura di Gesù e quella di Socrate. Il messaggio di Gesù infatti
viene presentato come totalmente conforme alla morale kantiana. Gesù aveva esordito come un
rivoluzionario che contestava il legalismo della religione ebraica, di coloro che presentavano Dio
come una presenza esteriore all’interiorità umana, cercando di risvegliare il sentimento religioso del
cuore dell’uomo. Poi però ha fatto un passo disastroso, secondo Hegel, perché ha collegato il
bisogno di infinito che aveva ridestato con la fede nella sua persona. Esattamente quello che non
aveva fatto Socrate, il quale non aveva mai proposto se stesso come una autorità. Nei saggi
successivi la posizione di Hegel nei confronti del cristianesimo e di Gesù cambia. Più avanti Gesù
verrà chiamato “il genio della riconciliazione”, perché riconcilia il creatore e le creature, il finito e
l’infinito, prendendo seriamente una delle più importanti categorie cristiane, quella del mediatore.
E’ una visione conforme al dogma, ma fino a che punto? Questa riconciliazione è superiore per H
all’unità sperimentata dai greci. Ora l’unità è portata ad un livello estremamente superiore. Non si
tratta più della bella eticità dei greci, perché conserva una memoria della lacerazione, vittoriosa sul
contrasto, mentre l’unità dei greci era ignara del contrasto. Questa è la superiorità della
conciliazione cristiana. C’è un ritmo ternario nell’approccio di Hegel. C’è un primo momento di
consonanza dei due lembi dell’esperienza religiosa dove volontà di Dio e dell’uomo sono unite, poi
c’è la separazione nell’esperienza ebraica, il terzo momento è quello cristiano, della riconciliazione,
si restaura l’unità che era andata perduta. L’ebraismo era negazione del’unità greca, Gesù
rappresenta la negazione della negazione. Ogni amore riconquistato è più forte di un amore mai
lacerato. Il diventare l’uomo di Dio per Hegel è la questione decisiva. Il valore sommo per l’etica
kantiana è l’autonomia il disvalore da evitare è l’eteronomia. Questo era il contesto in cui si era
formato Hegel. Con l’incarnazione Dio entra nel mondo, e chi è dunque Gesù? Nella coscienza che
Gesù ha di se stesso vi è l’autocoscienza del genere umano nel suo momento più alto. Nei primi
saggi viene Gesù a volte esaltato e a volte contestato. Il movimento dell’umano con il divino è un
movimento che si perpetua nella storia al di là di Gesù, che ha rappresentato l’alba di un movimento
del divino verso l’umano. Egli è stato il mediatore della riconciliazione, ma questa procede al di là
di Gesù. Per H il neo di Gesù è di essersi considerato mediatore unico e insuperabile. Gesù è l’alba
di questo processo di unificazione ma non lo esaurisce. La mediazione è infatti più grande del
mediatore. La mediazione non coincide con la riconciliazione. Il processo tra momento unitario
originario, momento di perdita della comunione primitiva e momento di riconquista dell’unità sono
i tre poli di una dialettica. La dialettica è il movimento a salti in cui la figura successiva nega la
precedente ma ne conserva una traccia. Tutto il pensiero hegeliano maturo, dopo il 1081 (passaggio
dalla teologia alla filosofia) ruota intorno alla categoria di spirito, geist, lo spirito divino, che è lo
spirito divino che si irradia di generazione in generazione. E’ lo spirito di Cristo, il mediatore. H
negherebbe che quello spirito sia quello di Gesù, perché non è possibile che un fatto contingente
(agli occhi di un illuminista) possa racchiudere in sé il senso del mondo. La storia non è estrinseca
rispetto a Dio, è la natura di Dio dinamizzata. E’ una chiara rappresentazione gnostica. Il testo di
Dio, in cui si rivela, è la storia. Solo in un ambiente cristiano si può vedere la storia in modo lineare,
con un telos, per un greco è circolare. La storia è l’epifania dello spirito. Per H la storia si presenta
come un cumulo di macerie fumanti, il Golgota dello spirito, è la storia dell’ostilità tra gli uomini.
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
Come si può pensare che la storia sia governata dalla razionalità? Il negativo, per H, ha una
funzione salvifica. Il cammino dello spirito nel mondo passa anche attraverso la rovina. Quello che
ad un osservatore ingenuo sembra delegittimare ogni discorso provvidenzialistico, al contrario per
Hegel, è parte del cammino dello spirito nel mondo.
Mercoledì 07 Dicembre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
1806, Fenomenologia dello spirito. E’ l’opus magnum di H, e ricapitola in un lessico filosofico le
conquiste che H aveva fatto mentre studiava teologia. Si prefigura una singolare e inedita
combinazione tra la riflessione filosofica e la comprensione della storia. Connessione circolare tra
teoresi (riflessione teologica) e sguardo storico. Qui emerge insieme la classicità e la sua
eccezionale novità e modernità. Momento greco, ebraico e cristiano, in ordine logico, in questo
vediamo l’intreccio tra teoresi e storia, tra particolare e universale. La polis greca tocca il suo
apogeo nel V sec a.C. in età Periclea. H coglie in un momento storico un particolare tipo di rapporto
tra umano e divino, che trascende quella fattispecie storica. Il testo intorno al quale speculare per
estrarne un messaggio di valore universale non è tanto la natura quanto la storia, come luogo
epifanico dell’assoluto di Dio, là dove nessun antico si sarebbe mai aspettato di trovarlo (invece
nella natura). Particolare e universale stanno in un rapporto di identità, di rispecchiamento
immediato. L’individuo cerca l’etos della sua città. Non c’è una felicità al di fuori della vita civile,
che soddisfa tutte le più profonde aspirazioni dell’animo individuale. Poi individua una seconda
esemplare esperienza religiosa nel mondo ebraico: veniamo a contatto con una diversa esperienza
del divino, un rapporto diverso tra particolare e universale. All’identità subentra la categoria della
lacerazione. Lì, umano e divino, particolare e universale si sono separati e si contrappongono l’uno
all’altro come signore e suddito, come padrone servo. Il divino si erge al cospetto dell’uomo come
una norma inflessibile e rigorosa cui ciascun ebreo deve sottoporsi. Il divino è uscito dal perimetro
dell’interiorità e gli si contrappone in modo autoritario. L’universale non è più radicato nel
particolare, ma è una potenza estranea. Momento di lacerazione, di frattura tra umano e divino.
Questi primi due prototipi, greco ed ebraico, si contraddicono a vicenda. Da ultimo c’è la questione
del cristianesimo che viene giudicata in modo diverso all’inizio e alla fine di questo percorso.
All’inizio attraverso il concetto di positività (da PORRE, far valere), la religione cristiana è positiva
perché c’è un’autorità che detiene il monopolio della dottrina e che ha posto le regole di adesione a
quella dottrina. Una religione autoritaria, posta da qualcuno che ha inopinatamente conquistato la
gestione della dottrina e del culto. Il cristianesimo viene molto apparentato con l’ebraismo e quindi
giudicato negativamente. Poi nota la differenza saliente nella persona di Gesù, che rappresenta al
cospetto degli uomini la volontà riconciliatrice di Dio nei loro confronti. E’ il conciliatore, colui che
sana la frattura. Quindi si ha una sostanziale riabilitazione della figura di Gesù e del cristianesimo.
Ma resta un rilievo critico, nel legame che Gesù ha stabilito tra sé e il messaggio che Gesù ha
portato. Questo per H è inaccettabile. Dice H che l’uomo è libero quando si sa oggetto e scopo
dell’amore di Dio. La libertà entra per la prima volta nel mondo quando accade questo. Ci sono
state intere epoche storiche che hanno ignorato che cosa fosse la libertà, che significa anche dignità.
Questa dignità l’uomo occidentale la deve al cristianesimo e a Gesù. Gesù però non chiude la catena
delle epifanie di Dio nel mondo, perché la libertà da dimensione dell’interiorità deve realizzarsi
come dimensione pubblica, sociale, economica e politica. Questo è il messaggio intero del
cristianesimo secondo H. Deve diventare una realtà di tipo collettivo. Un modello in cui la frattura
viene superata, come quello cristiano, è superiore qualitativamente al modello greco in cui
l’armonia identitaria non è mai stata compromessa. La filosofia è il proprio tempo colto nel
pensiero. Qui si vede all’opera quella singolare circolarità tra teoresi e manifestazione storica. Il
vero punto di partenza della riflessione filosofica è il proprio tempo, il primo oggetto sono le
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
urgenze, i dilemmi, le ansie del tempo a cui si appartiene. Non si realizza quindi nello sfogliare un
manuale, ma il primo passo di una autentica riflessione filosofica sta nel comprendere il proprio
tempo. Se c’è un qualche assoluto infatti, lo si troverà lì. Lo spirito, il geist. L’assoluto non vive una
vita disgiunta dal mondo, dalla storia, perché la storia del mondo è il suo corpo. Se cerchi l’assoluto
devi coglierne le tracce nella sua conquista del mondo. Bisogna sprofondarsi nella storia che ci è
stata concessa. L’assoluto è una forza che opera nel mondo e attraverso il mondo, inteso come storia
umana. L’approccio Aristotelico è ab origine, causale, mentre quello hegeliano è teleologico,
finalistico. La filosofia ha lo scopo di rendere esplicito ciò che è implicito, di svelare un telos già
raggiunto. Per i greci l’assoluto è l’ousia, la sostanza eternamente uguale a sé stessa, per H invece
l’assoluto va inteso non solo e non tanto come sostanza, qualcosa di marmoreo che resta uguale a sé
stesso, bensì come soggetto. E chi è il soggetto? E’ uno che agisce e che cambia sé stesso attraverso
la propria azione. Affermazione impossibile da fare se non sullo sfondo del cristianesimo. H poi
farà un passo spericolato che lo porterà verso lo gnosticismo ma che ha avuto le sue basi nel solco
della dottrina cristiana. Hegel non ha una teologia della creazione, tipico di una mens protestante. Il
peccato ha sfigurato l’imago dei nell’uomo, non vi è più traccia della sua discendenza divina, quindi
l’incontro con Cristo avviene nella più assoluta gratuità, che vuol dire arbitrarietà. Non c’è
nell’umano alcuna domanda genuina di Dio. Quindi in problema dell’origine non si pone. Dice H
che il suo tempo è il tempo della scissione, dove perdura la frattura tra universale e particolare. La
filosofia nasce sempre dal bisogno di conciliare quello che è diviso. Ma la conciliazione non può
essere operata dalla filosofia, solo portata alla coscienza. La filosofia svela una unità che è già
presente nei fatti senza avere una consapevolezza pubblica.
Giovedì 15 Dicembre 2011
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
1. Hegel guarda alla storia come epifania del divino. 2. Il termine specifico che H usa per indicare la
ragione di tutta l’umanità non è logos ma spirito. H sostiene che lo spirito guida il corso del mondo,
ma chi la pensa così deve dimostrare che le catastrofi e le tragedie giocano tuttavia una parte
decisiva nel piano provvidenziale. Questa è la sfida di H, conferire a ciò che nella storia sembra
negativo, contro la presenza di una mano provvidenziale, un significato positivo. Chi vede nella
rovina solo una perdita non si accorge di come quella rovina abbia rappresentato un momento di
rigenerazione. Energie ormai esangui ed esaurite. 3. riguarda la religione.
Il luogo comune, il topos, nella cultura classica è un sistema di credenze in cui ciascuno “cade”
quando viene al mondo
La verità noi dobbiamo intenderla non solo come facevano gli antichi, come sostanza, ma anche
come soggetto, che è spirito, Dio, che opera (da La fenomenologia dello spirito).
Giovedì 12 Gennaio 2012
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
La fenomenologia dello spirito rappresenta il suo massimo contributo da un punto di vista
filosofico. Sotto le mentite spoglie del discorso razionale continua ad occuparsi dello spirito, di Dio.
Gli uomini hanno bisogno di immagini per mettersi in relazione con Dio, ma questo in una fase
ancora immatura. Il proposito di H è quello di salvare il depositum fidei rispetto allo scetticismo
del suo tempo. E’ venuta meno la percezione della persistenza dell’evento prodigioso nel tempo.
Man mano che ci si allontana da quell’evento, la fede nel suo potere salvifico diminuisce fintanto
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
che la distanza è tale da rendere incredibile ciò che di miracoloso è successo allora. Per questo agli
occhi di H la fede non è sufficiente perché non è in grado di ricreare la forza salvifica di
quell’evento. La chiesa collega l’evento prodigioso con le generazioni temporalmente lontane. La
posizione di H oscilla tra un’ambizione formidabile e un subire il retaggio (protestante) dal quale
proviene, che si evidenzia nel rovesciamento di priorità tra teologia e filosofia. Questo libro viene
pubblicato a Jena nel 1906 ed è un manifesto del pensiero hegeliano più maturo. Fenomenologia
significa un discorso intorno alle diverse figure, come apparizioni, epifanie, che lo spirito assume
nel mondo. La fenomenologia dello spirito è un testo molto complicato e articolato perché si muove
su piani diversi: epistemologico, ontologico/teologico (oggetto della conoscenza), storico. Bisogna
penetrare i fenomeni storici per avere un idea attendibile di chi sia Dio e di quale sia il suo modus
operandi. Non si potrebbe comprendere un rovesciamento così radicale del rapporto fra l’uomo e
Dio senza tenere conto del cristianesimo, senza mettere H sullo sfondo della teologia cristiana. Dice
H: la filosofia vuole conoscere la verità, ma la verità bisogna concepirla allo stesso tempo come
sostanza e come soggetto. La verità come sostanza era stata concepita dal pensiero greco come Dio.
Le creature si distinguono dal creatore per la loro mutevolezza. Gli antichi hanno voluto qualificare
il divino con l’attributo della stabilità, ma non avevano visto l’essenziale che non è solo sostanza
ma anche soggetto. Chi è un soggetto? E’ uno che agisce, e agendo ineluttabilmente cambia non
solo la realtà intorno a sé ma anche sé stesso. L’agire ha sempre un duplice effetto, uno transitivo
ma anche e soprattutto un effetto intransitivo. Una sostanza è un agente che operando cambia sé
stesso. L’attributo supremo del divino non è dunque la stabilità ma l’agire. H delinea delle figure
che sono le diverse epifanie di Dio nel mondo. La prima epifania dello Spirito nel mondo è la
coscienza, come atto del conoscere. H ha voluto mettere in chiaro che esiste una dimensione
del’interiorità ancora più profonda di quella che si manifesta nell’atto del conoscere: il desiderio.
Tutti i pensatori moderni hanno pensato l’io cogito come una coscienza conoscitiva senza
accorgersi che il suo nervo più profondo non ha a che fare con la conoscenza ma con il desiderio.
Per H la coscienza è il desiderio di possedere. Ma qual è la realtà, si domanda H, che la coscienza
appetisce più di ogni altra? La realtà che incuriosisce di più la coscienza di un uomo è un’altra
coscienza. Ma come si fa a conoscere un’altra coscienza? A vincere l’estraneità che mi distanzia da
un’altra coscienza? Se si trattasse di un oggetto sarebbe molto semplice. Nel gioco delle coscienza
che si cercano a vicenda scatta il dinamismo del riconoscimento. Cosa voglio io dall’altra
coscienza? Essere riconosciuto. E’ un bisogno talmente vitale che spesso gli uomini si abbandonano
alla violenza. La radice della violenza all’interno dei rapporti umani sta in questo bisogno di essere
riconosciuti perché ci mette in una posizione vulnerabile, in cui possiamo ricevere l’attenzione
altrui ma anche vedercela negare. In questo caso succede che siccome è rischiosa la domanda del
riconoscimento gli uomini prendono delle scorciatoie e la scorciatoia saliente è la violenza.
Giovedì 19 Gennaio 2012
Storia della filosofia moderna e contemporanea
Prof. Nevio Genghini
Nietzsche rappresenta un nuovo inizio apertamente polemico nei confronti di ciò che lo ha
preceduto. Fa storia a sé. Non occorre indagare molto per accorgersi di questa posizione anomala di
N nella storia della filosofia. Il tono di qualsiasi suo discorso è assolutamente eretico rispetto alla
strada che la filosofia aveva seguito fino lì. Questa strada maestra si chiama razionalismo, che
aveva attratto come un magnete tutti i pensatori precedenti. Anche Marx fa parte a pieno titolo del
razionalismo moderno. Il principio che anche la storia, così come la natura, è dominato da un logos.
Non solo si può prevedere la logica della natura se si penetra nel suo logos, ma si può anche
prevedere lo sviluppo della storia se si coglie il suo logos. Rispetto a questo solco del pensiero
moderno N è l’eretico per eccellenza, è il dissacratore come mai ce ne furono, per questa ambizione
di mettere sotto il controllo del logos anche la storia. Marx prefigura una meta , un telos della storia
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
non in termini speculativi come N ma in termini pratici. Gli uomini possono affrettare l’avvento di
una società riconciliata, hanno questa possibilità. Una sorta di messianismo secolarizzato, almeno
nel suo versante pratico, o hegelo-marxiano. Il razionalismo moderno è un messianismo
secolarizzato. N ha tracciato una linea di demarcazione chirurgica tra sé e questo razionalismo
denunciandola come una metafisica camuffata, che si vergogna di sé medesima. Per l’uomo
moderno la scienza, l’arte, etc, sono valori che esistono solo convenzionalmente. I valori hanno
smesso di essere parte dell’arredo primitivo del mondo. Ma continuiamo ad inchinarci ad essi
perché non vogliamo accettare la cruda realtà. Che giriamo in un mondo incurante della nostra
sorte. Ma gli uomini non sopportano questa verità, che il mondo non ha nessuna struttura
teleologica. Ogni visione finalistica della storia è una metafora rassicurante x l’essere umano. Ci
troviamo dall’altra parte rispetto al solco del razionalismo. Ha esordito nel 1872 con un libro sulla
tragedia greca. Entrato in cattedra a 25 anni all’università di Basilea. Non aveva ancora pubblicato
niente ma il suo prof di filologia classica ne aveva riconosciuto il genio e si era adoperato per
trovargli una cattedra. Grande sensibilità, anche musicale. Proviene da una famiglia devota, il padre
è un ministro protestante, luterano che sperava che ereditasse la vocazione paterna. Non è
sprovveduto nemmeno dal punto di vista delle conoscenze teologiche. La sua solidarietà con la
vocazione paterna si rompe ben presto. E’ non ancora maggiorenne quando scrive alla sorella,
dicendo: si separano le vie dell’umanità, se vuoi raggiungere la felicità e la pace dell’anima abbi pur
fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga. Il suo grande ispiratore è il filosofo
tedesco Schopenhauer. E’ precursore di N nella polemica contro il razionalismo. Tuttavia S e di
conseguenza N rispetto al cristianesimo sono meno soli di quel che vorrebbero apparire, vi è un
atteggiamento generalizzato in questo senso. Aforisma di S sull’idea di creaturalità. E’ libera una
creatura? No. Se noi siamo creature allora non siamo liberi. Se siamo liberi non siamo creature, e la
conseguenza ovvia è che non solo Dio non esiste, ma non deve esistere. Qui la negazione di Dio
non compare alla fine di una ricerca, ma è postulatoria. Essere una creatura significa avere ricevuto
un limite, un confine. Avere ricevuto un marchio dal creatore, limite da non superarsi. Se è così
l’uomo deve rinunciare a considerarsi autodeterminabile, come padrone della propria esistenza. S
aveva insegnato che se gli uomini vogliono essere liberi devono affrancarsi da qualunque
rappresentazione religiosa. Ma questo ci rivela che la condizione umana procede senza meta. Manca
il carattere della sensatezza. Restano le due costanti, che ogni generazione impara ben presto a
conoscere come esperienze costitutive della vita umana il desiderio e la noia, il dolore è una
conseguenza di questa diarchia. Il bene che avevo vagheggiato, che avrebbe dissetato il mio
desiderio, una volta raggiunto ecco la noia. Perché quel bene è assolutamente incapace di saziare il
mio desiderio. Si oscilla tra la vampata del desiderio e la quiete mortale quando si raggiunge la meta
agognata. Quindi bisogna fuggire da questo dolore, creando una barriera difensiva. Bisogna
imparare a non desiderare. Se il desiderio ci porta irrimediabilmente alla noia, l’unico rimedio è la
cessazione dl desiderio, una specie di ascesi che spenga dentro di noi il desiderio. S è il primo ad
avere portato nella nostra cultura la spiritualità orientale, buddista. N segue il maestro fino ad un
certo punto, condivide con lui il rifiuto di qualunque rappresentazione provvidenziale della storia,
ma non segue S nell’antidoto. S raccomandava l’annientamento dello spirito vitale come rimedio al
dolore, N fa esattamente il contrario. Quella volontà che urge dentro di noi, deve essere assecondato
piuttosto che censurato. Il desiderio umano ha un carattere trascendente, insaziabile. Ciò che l’uomo
vuole veramente è di essere considerato/desiderato da un altro uomo, per questo è insaziabile. Il
vertice del desiderio umano è un altro desiderio, è l’essere desiderati da un altro. Il desiderio umano
è quindi sempre sospeso alla libertà altrui. N si ricorda che questo desiderio che sorge dal sottosuolo
ha una natura incomparabile con gli altri esseri viventi perché tende al di là di sé stesso. Il desiderio
non comprende i bisogni, perché il desiderio ignora ciò che desidera. Il desiderio o la volontà (N
preferisce parlare di volontà) sa cosa vuole. Mira ad una realtà che si trova al di là di noi. N rompe
con la caratterizzazione intenzionale del desiderio, in base alla quale il desiderio tende al di là di sé
stesso. Questa volontà tende, trascende, ma non vuole niente. Vuole sé stessa. Questo desiderio
semplicemente vuole desiderare. Non vuole un oggetto specifico o immenso. Secondo N tutta la
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Elaborazione a cura di Giorgia Borghi. Appunti non rivisti dal professore
storia giudaico cristiana è una storia destinata ad un pubblico non particolarmente evoluto dal punto
di vista intellettuale. La storia più sofisticata è quella raccontata da Platone per un popolo più colto.
Il suo problema, di N, è demitizzare Platone. Nella nascita della tragedia, di N, i protagonisti sono
Eschilo, Sofocle ed Euripide. Agli occhi di N la tragedia attica costituisce il vertice della civiltà
greca. Attraverso una sofisticata analisi stilistica della tragedia N dimostra che in quelle opere che
erano delle vere liturgie pubbliche, viene resa giustizia alla doppia vocazione degli esseri umani. In
Edipo Re vi è il progetto degli esseri umani che cercano di indirizzare le cose verso lo scopo, ad
esempio cercando di controllare le conseguenze delle proprie scelte, vocazione alla ragione, ma
nelle tragedie, questa volontà di calcolare gli effetti delle proprie azioni, si scontra sistematicamente
con un’altra logica, quella degli Dei. In questo scontro i progetti dei primi vanno immancabilmente
in pezzi. La voce degli Dei compare generalmente in una istituzione della tragedia che è il coro. Nel
coro tra tutte le voci si fa sentire con particolare insistenza la voce di un Dio, Dioniso. La tragedia
ha il merito di rendere giustizia ad entrambe le forze che muovono l’animo umano
(disordine/ordine). Socrate è il grande corruttore perché ha esaltato in modo unilaterale una della
vocazioni (serenità, armonia) censurando l’altra, che ci ricorda la nostra provenienza dalla terra.
Socrate ci ha illusi di provenire dal cielo. Ha indotto gli uomini a concepirsi come esseri celesti, con
la devastante conseguenza che questo ha agli occhi di N. Quando ti pensi come un essere disceso
dal cielo ti pensi come uno che recita nell’ambito di un copione scritto da un altro. Questo è il
devastante effetto del platonismo, l’averci insegnato a stare dentro ad un copione, senza poter essere
sovrano della propria esistenza.
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