La tredicesima Battaglia

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Simone Aspidi
La tredicesima Battaglia
Finito di stampare il 06 Marzo 2012
Da Bcsmedia - Via F. Consoli, 5 - Roma
I° Edizione - Marzo 2012.
Tutti i diritti sono di proprietà dell’autore
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa senza il
suo consenso.
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Prologo
Sarajevo 28 giugno 1914
Un giovane smilzo e dall’aria trascurata si aggirava nei pressi
del percorso che il corteo, composto da due autovetture, con
a bordo l’arciduca d’Austria avrebbe presto seguito. Tanta era
la folla incuriosita che fin dalla mattina riempì le strade della
ridente cittadina bosniaca, la visita di Ferdinando unico erede
della corona d’Austria era molto importante, forse troppo.
Intanto quel giovane di nome Gavrilo Princip si confondeva
tra la gente, un grande pastrano la mano destra in tasca che
stringeva la pistola, tutto era pronto e persino le poche guardie presenti invitavano all’agire. Non che ce ne fosse bisogno,
lui era deciso da tempo, come tutti i terroristi degni di rispetto; si sentiva un predestinato un combattente per la libertà del
suo popolo. Quello che credeva lui importava poco, per coloro che lo avevano diretto si trattava solo di una operazione
politica, tendente a condizionare le scelte della Serbia nella
crisi balcanica. Il servizio segreto serbo armò la mano di
Princip, lo fece per eliminare ogni possibile accordo con
l’Austria riguardo la crisi. L’operazione fu diretta dal capo dei
servizi, acceso sostenitore del nazionalismo serbo attraverso
l’organizzazione segreta narodna odbradna; composta da ufficiali ed alti dirigenti dello stato. Anche l’Austria non voleva
accordi, e segretamente lavorava per trovare un pretesto per
saldare il conto con Belgrado; forse l’unico che non la pensava
cosi era l’arciduca, fu la sua condanna. Con lui perì anche la
moglie Sophie, con loro morì anche l’ultima speranza di pace;
il mondo intero espresse il suo cordoglio per il vile attentato;
l’impero austroungarico si preparò alla guerra trascinandosi
dietro l’Europa.
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I due contendenti
I primi anni del ventesimo secolo videro morire alleanze consacrate dal tempo, e nascerne di nuove più vicine alle reali esigenze politiche; la vecchia Europa di Metternich lasciò il posto
alla nuova. I regimi monarchici erano alla fine del loro cammino, e le nuove entità democratiche vivevano la loro prima gioventù, la Francia ne era la suprema madrina e l’Inghilterra
andò sempre più avvicinandosi alla sua storica nemica; per
effetto dell’allontanamento di quest’ultima dalla Germania. La
crisi delle relazioni anglo tedesche la si doveva a due fattori
principali: il primo di carattere personale, mentre il secondo e
più importante di stampo politico. Il kaiser Guglielmo di
Germania era infatti disprezzato dal re inglese, e lo stretto rapporto di parentela, i due erano cugini, non favoriva riavvicinamenti. Nello stesso tempo i due paesi erano rivali nell’espansionismo coloniale; la Germania vedeva nel controllo inglese
dei mari una seria minaccia alle sue recenti conquiste africane,
per contro la forte spinta alla produzione tedesca di moderne
corazzate metteva gli inglesi di fronte ad uno spinoso problema. La reazione a tanta aggressività marinaresca portò Londra
vicino a Parigi; la Francia aveva anch’essa interessi coloniali la
loro comune difesa nei confronti dei tedeschi fu la base dell’entente. Ciò che accellerò questo nuovo scenario diplomatico
fu la crisi marocchina, e per vie traverse la più importante crisi
dei Balcani. L’Impero austroungarico era da tempo interessato
a mettere le mani sui possedimenti turchi in Europa, e quando
il gigante malato finalmente morì, causa rivoluzione, si apprestò all’azione; ma trovò un gigante ben più grande del primo a
sbarrargli la strada: la Russia. Anche lì si vide la fine di una
storica alleanza tra le ultime due potenze sovrannazionali
europee; e questo a mio giudizio segnò la fine per entrambe.
Logica vuole che lo zar Nicola cercasse nuovi appoggi in
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Europa; li trovò con l’Inghilterra e, attraverso di essa, con la
democratica Francia. Nacque l’Intesa, un’alleanza eterogenea
tra tre stati di cui: uno era una democrazia ormai affermata la
Francia, un altro una monarchia costituzionale l’Inghilterra,
mentre il terzo rappresentava la più reazionaria visione del
mondo conosciuta: la Russia degli onnipotenti zar. Dall’altra
parte sia la Germania che l’Impero asburgico si accordarono
per prepararsi a rispondere per le rime ai loro rivali, convinti
che la loro sempre più stretta alleanza avrebbe loro assicurato
una valida speranza di vittoria in caso di conflitto. L’Europa si
stava preparando, ovunque si affilavano le spade; il riarmo fu
la scelta che molti stati attuarono di fronte all’imminente
minaccia; si vis pacem para bellum. Fu così che incominciò il
primo conflitto mondiale, ciò che accadde a Sarajevo fu soltanto un’occasione servita su di un piatto d’argento, e una tranquilla giornata d’agosto portò con se l’inizio di un lungo e sanguinoso conflitto. Logico domandarsi ora quale fosse la posizione dell’Italia di fronte a tutto questo, semplice noi fummo
spettatori e l’inizio della guerra ci vide schierati in una neutralità ipocrita; eravamo alleati con il blocco austro tedesco ma
guardavamo con interesse alle offerte dell’Intesa, ciò ci concesse otto mesi di tempo per organizzare la nostra entrata nel conflitto. Fu il nostro ministro degli esteri Sidney Sonnino che da
Londra, luogo scelto dallo stesso per contrattare l’appoggio
sicuramente decisivo, così almeno credevamo, del nostro
paese, ci portò la buona notizia. Il 24 maggio 1915 vide l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, fu un mezzo tradimento, visto che ci eravamo accordati precedentemente con
coloro i quali erano ora i nostri nemici, per una supposta neutralità. Questo ci permise di mobilitare l’esercito con tutta tranquillità, perché l’Austria era impegnata da mesi contro la
Russia, i nostri confini alpini erano al sicuro, potevamo approfittarne non fu così. La preparazione della nostra entrata in
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guerra non ci fu, perché sia l’esercito sia il paese non erano
pronti; il primo carente nei rifornimenti, il secondo nell’accumulo delle materie prime necessarie alla produzione degli
stessi. L’unica cosa che non mancava era il materiale umano, e
lente interminabili file di giovani italiani si snodarono verso i
confini, il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei
primi fanti il 24 maggio.
Piani di guerra
Dopo otto mesi di guerra tutti i piani offensivi creati dai diversi contendenti per una rapida conclusione del conflitto erano
naufragati nella guerra di trincea, i tedeschi fallirono nell’attuazione del famoso piano Schlieffen, Parigi non fu presa e la
Marna fermò gli Unni. Dall’altra parte lo slancio dei francesi
fu fermato dal canto mortale delle mitraglitrici tedesche, gli
inglesi persero in un solo giorno d’assalti tutto il loro esercito
di volontari, così inutilmente ben curato da anni, fu una ecatombe; e non rimase che il ricorso alla chiamata di leva per
rimpiazzare le perdite. La situazione di stallo sorprese un po’
tutti, ma furono i tedeschi a far tesoro dei tanto dolorosi errori di strategia, fallita l’offensiva rimaneva la difesa, e si misero
a costruir trincee; anche l’Intesa seguì l’esempio nemico e dalla
frontiera svizzera si snodò un lungo serpente che trovò sbocco
nel mare del nord. Lo stallo in occidente non trovò eguale
affermazione in oriente, la guerra di movimento si trasferì in
Prussia orientale dove la superiorità manovriera dei tedeschi
si impose sulla farraginosa macchina militare russa, ma ciò che
nel nord guadagnavano i tedeschi veniva perso dai loro alleati austriaci a sud. All’epoca della nostra entrata in guerra
appunto un’offensiva dei russi travolse gli austriaci, che quindi non riuscirono a mobilitare risorse per rispondere adegua14
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tamente all’attacco italiano, fu la lentezza del nostro movimento, dovuta anche alla particolare conformazione del terreno di
lotta a salvare l’Impero. Se si prendono in esame alcuni scritti
di ufficiali austriaci pubblicati dopo la fine della guerra, non
può non risaltare la disperazione dello stato maggiore
austroungarico di fronte alla entrata in guerra dell’Italia, erano
convinti di non poter fronteggiare entrambe le minacce: i russi
da una parte e noi dall’altra. Chiesero aiuto ai tedeschi ma non
ottennero che vaghe promesse, anche perché ufficialmente noi
eravamo entrati in guerra soltanto contro l’Austria, e non contro entrambe; quindi dovevano vedersela coi loro mezzi soltanto. Bastarono comunque pochi battaglioni di territoriali a
raffreddare i nostri propositi guerreschi, e risultò da subito più
facile difendere una montagna controllandone la cima, che
conquistarla dal basso, se poi si era costretti a mollare era la
prossima cima a diventare un caposaldo. Quante montagne
c’erano prima di arrivare a Vienna? Molte, troppe per un esercito privo di mezzi com’era quello italiano, di tempo ce n’era
per poter rispondere a dovere, per ora era gioco forza rispondere con l’astuzia allo strapotere italico. L’astuzia era semplice da usare e costava poco, per impensierire Cadorna il
comando austriaco fece sfilare nelle retrovie lo stesso battaglione per giorni interi, la mattina verso il fronte e la sera, di
nascosto indietro verso le retrovie; le nostre spie riferirono di
continuo afflusso di truppe. Cadorna abboccò all’amo e perse
tempo nello schieramento, questo permise al nemico di occuparsi prima dei russi in Galizia, fu una vittoria completa. I
piani di guerra del nostro comando erano stilati da tempo, essi
prevedevano la difensiva sul fronte trentino e l’offensiva sul
fronte isontino, era giocoforza, perché il saliente trentino
sarebbe stato un osso troppo duro da rosicchiare, e poi troppo
vicino alla temibilissima Germania. No meglio attaccare sul
Carso, prendere Gorizia e poi Trieste. Infatti questi piani erano
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corretti, sulla carta, ma lasciare il Trentino in mano nemica
voleva dire scoprire il fianco, questo a lungo andare avrebbe
causato non pochi grattacapi al nostro comando. Del resto vi
fu un altro avvenimento nefasto che provocò una crisi di
comando nel regio esercito italiano, pochi mesi prima dell’inizio delle operazioni morì il nostro capo di stato maggiore: il
generale Pollio, sostituito appunto dal Cadorna, non fu di
buon augurio: ma ciò venne visto da alcuni come un segno del
destino, essendo il Pollio filo austriaco. Il governo dell’allora
primo ministro Salandra scelse Cadorna pensando che fosse
da loro più facilmente manovrabile, ciò forse suggerito dalla
sua innata timidezza: ma dietro questa qualità si celava una
volontà di ferro nel perseguire i propri reconditi convincimenti. Del resto la famosa libretta rossa, un manuale sull’uso della
fanteria scritto dal generalissimo, esprimeva assai bene quali
fossero i suoi pensieri: l’offensiva ad oltranza con assalti alla
baionetta, le famigerate ondate. Cosa già provata a loro spese
dai francesi, fu fatta subire per più di due anni anche ai nostri
soldati; che prima dell’assalto avevano solo da scegliere se
morire per la mitraglia nemica, oppure per il plotone d’esecuzione dei nostri carabinieri. L’uso delle artiglierie era a noi sconosciuto, almeno per l’importantissimo supporto che esse possono offrire alla fanteria, si sparava col cannone fin quando
partiva l’assalto, in modo da avvertire bene il nemico prima di
colpirlo, il fuoco di preparazione poteva durare giorni , scorte
permettendo; poi il resto toccava ai fanti seguendo una tabella
precisa, quasi si trattasse di un’esercitazione. Con queste premesse c’era da stare poco allegri, ma per molto tempo nessuno
disse nulla, il morale era sempre alto e il rancio ottimo; tutto
per compiacere il capo. Per assurdo, dall’altra parte della collina, i problemi dovuti alla mancanza iniziale di truppe favorirono la gestione delle stesse; e costrinsero il nemico alla difensiva, con un notevole risparmio di vite. Certo non era facile per
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il soldato austroungarico subire la netta superiorità della dotazione dell’artiglierie, ma vedendo gli italiani avere perdite
ancora maggiori, faceva credere con più sicurezza nei propri
mezzi. La scarsa artiglieria nemica suppliva al rapporto negativo dei pezzi in dotazione con una migliore qualità degli stessi, ed un utilizzo più razionale. Ciò che condannò i nostri soldati ad una lenta agonia di morte fu anche l’atteggiamento che
il governo mantenne fin dai primi giorni di guerra; era forse
troppo chiedere una maggior attenzione ai bisogni dell’esercito; ma l’assoluta mancanza della stessa non può essere accettata. Il paese fu da subito diviso in due: tra coloro che furono
mandati a combattere al fronte e quelli che rimasero a casa,
non vi fu mai una comunione d’intenti, uno slancio unitario,
che facesse sentire colui che in fabbrica costruiva le armi e chi
, poi, avrebbe dovuto usarle al fronte parte di un unico disegno. Mors tua vita mea, questo era l’andazzo e si protrasse fino
alla ritirata sulla Piave, quando il pericolo d’imminente sconfitta unì l’Italia, in un solo ed unico obbiettivo, la cacciata dell’invasore. Un discorso a parte va fatto per quanto riguardava
la raccolta d’informazioni, attività tanto vitale quanto poco
riconosciuta in tutti gli eserciti del tempo, perché si presupponeva secondaria e svolta da militari il più delle volte atipici. Lo
stesso incarico perpetuato nel tempo faceva nascere il sospetto
che l’incaricato fosse inabile al comando, altrimenti perché
sprecare un valente ufficiale nella raccolta delle informazioni,
quando al fronte c’era bisogno assoluto di validi comandanti?
A nessuno veniva in mente che la corretta gestione di una notizia potesse influire sulla riuscita di un attacco, o alla difesa di
una determinata posizione. Era più comodo addossare la non
riuscita di un’operazione alla scarsa combattività delle truppe
impiegate, oppure all’incapacità dei comandi inferiori, piuttosto che lamentare una mancanza di informazioni sul modo
migliore di condurla; anche perché questa critica sarebbe stata
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rivolta verso gli alti gradi dell’esercito vicini allo stesso comando, rischio non facile da correre, meglio scaricare le responsabiltà sui comandi inferiori; semplice. Eppure il nostro servizio
informazioni non era poi male, anzi in alcune sue particolarità
era efficiente e preciso, mi riferisco specialmente all’ottimo
lavoro svolto in Svizzera dove si poteva contare su una fonte
sicura, nella figura di un militare addetto all’ambasciata
austriaca, le cui informazioni sui movimenti di truppe nemiche all’interno furono molto precise. Oppure i vari servizi
informativi d’armata, anch’essi efficienti nella raccolta di notizie da parte dei disertori interrogati; non mancavano le informazioni, mancava piuttosto una corretta valutazione delle
stesse da parte del comando. Infatti se una era l’attività di raccolta, diversa era l’attività di vaglio ed interpretazione, addirittura svolta in diversa sede e da diverso ufficio, questa divisione fu deleteria; infatti, mentre si sapeva qualcosa, subito si
trovavano diverse opinioni interpretative; man mano che la
notizia saliva nella scala di grado gerarchica. Era logico per
l’ufficio situazione, così veniva chiamato il settore del comando supremo dedito all’interpretazione delle varie fonti, assecondare i desideri del capo, piuttosto che fungere da guastafeste passando notizie negative su eventuali operazioni in progetto. Strano però: l’estremo coraggio richiesto alla truppa
dagli alti comandi, era contrapposto alla pavidità degli stessi;
bell’esempio di dare l’esempio, se mi è permesso il gioco di
parole. Ma diamo ora un’occhiata al terreno su cui per tre anni
si svolsero le operazioni, con particolare attenzione al fronte
isontino; fronte principale dove a parer mio poco si poteva fare
per far risultare vincente una strategia offensiva. Mentre, sempre a mio modesto parere, il fronte secondario offriva più possibilità, visto che esso formava un saliente che avrebbe potuto
essere tagliato alla sua base. In più era il possesso del Trentino
che ci aveva fatto entrare in guerra, quindi perché attaccare
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sull’Isonzo? Vi erano motivi seri per preferire Trieste a Trento,
oppure l’offensiva ad oltranza mascherava la paura che se noi
non avessimo attaccato per primi ci avrebbe pensato il nemico;
favorito dalla posizione dominante la pianura veneta. Tutto
questo fu chiaro dopo più di due anni di inutili assalti da parte
nostra, quando il 24 ottobre 1917 un pugno di alpini bavaresi
poté, in un sol giorno, far crollare tutto il nostro schieramento
difensivo; e si che ne avevamo avuto di tempo per scavar trincee.
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Dall’inizio delle operazioni erano passati già più di due anni,
il fronte italiano aveva preso la forma di una esse sdraiata con
il saliente trentino in mano austriaca, mentre l’altro quello
isontino era in mano italiana. Il problema era semplice: più la
lenta avanzata italiana si inoltrava in territorio carsico, più scoprivamo il fianco sinistro ad un attacco, che partendo dal
Trentino, poteva tagliare in due l’intero nostro schieramento.
Il primo segnale d’allarme arrivò verso la fine del 1916, allorquando il maresciallo Conrad lanciò un’offensiva denominata
Strafexpedition (spedizione punitiva) contro il nostro fianco.
Essa mirava appunto a tagliare in due tronconi l’intero regio
esercito, ma data la scarsità di truppe disponibili, si esaurì man
mano che l’attacco incontrava sempre più resistenza; Cadorna
riuscì a parare il colpo grazie all’ottima rete ferroviaria esistente, che permetteva un rapido spostamento di truppe da un
fronte all’altro. Ma fu l’inizio del dubbio che tormentò la
mente del generalissimo, egli sapeva che il Trentino in mano
nemica avrebbe sempre rappresentato una seria minaccia; la
classica spina nel fianco. Di conseguenza fu deciso uno schieramento più equilibrato: molti battaglioni di truppe alpine
vennero destinati a presidiare il nostro fianco sinistro, e così la
coperta fu sempre troppo corta, ogni qual volta decidevamo di
premere sul Carso. All’inizio del 1917 lo schieramento aveva
conservato la stessa forma, nonostante la tanto esaltata presa
di Gorizia, e la lenta avanzata nel Carso, il nemico era sempre
al sicuro mentre quei pochi progressi avevano paurosamente
segnato il morale dei nostri soldati. Le battaglie si trasformavano: via via sempre più terribili e grandiose la nostra superiorità, sia nel numero e sia ne mezzi, illuse Cadorna nel convincimento di una strategia offensiva, che portò si alla presa
di Gorizia, pagata però assai cara. Il continuo indebolimento
morale di un esercito lanciato in assalti molte volte inutili al
fine del risultato, inficiò l’efficenza dello stesso istrumento,
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come scalfire una lancia nella dura pietra. Dall’altra parte
della collina, il nemico aveva il suo bel da fare per limitare l’ardore italico, l’Isonzo armee però aveva un comandante altrettanto deciso nel contrastare la nostra lenta e dispendiosa avanzata: il maresciallo generale Boroevic. Questo generale era un
convinto assertore del metodo offensivo, ma si trovò suo malgrado ad adottare la tattica difensiva; diceva che non poteva
visitare le truppe al fronte, perché questo gli avrebbe impedito poi di emanare i suoi consueti ordini di resistere ad ogni
costo. La scarsezza dei mezzi condannava il nemico alla strenua difesa, ma Boroevic riuscì a gestire meglio le sue scarse
truppe, attuando un sistema di rotazione più consono alla
bisogna. I battaglioni ruotavano settimanalmente tra retrovie e
prima linea, noi invece tenevamo in linea per mesi le stesse
unità, logorandone troppo il morale ed il numero, poi si andava all’assalto magari dopo un mese di trincea. Risultato: le
ondate si infrangevano sui capisaldi nemici fatti di mitragliatrici interrate con torrette in blindatura, quando poi si riusciva
a conquistare qualche lembo di trincea, le riserve fresche del
nemico ricacciavano i nostri decimati sulle linee di partenza.
Poi non rimaneva che il conto delle perdite, sempre a nostro
svantaggio, quasi fosse naturale sacrificare vite , vista l’abbondanza delle stesse. Lenti passarono i mesi, lentissimi i progressi e gravi le perdite; ma Cadorna voleva sfondare e quasi
vi riuscì. Fu durante l’undicesima battaglia chiamata anche la
battaglia della Bainsizza, un altipiano situato sul medio Isonzo
che conservava tutte la caratteristiche del Carso: doline e strapiombi in un terreno arido ed impraticabile se non dai muli.
Lì, in quella terra dimenticata da Dio, il fante italiano colse la
sua più grande vittoria, ci furono vari motivi che contribuirono all’impresa, ma il più importante fu l’azione di comando.
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