LABIRINTO l’apparizione del mondo è la partecipazione del nume a ciò che non è…… ancora la partecipazione è essa stessa nel nume, perché egli è tutto l’aria, inspirata, si congiunge al sangue rendendosi irriconoscibile; così i numi che sono il tutto, nell’aria si congiungono agli uomini e compiono e subiscono il male, l’infelicità, l’invidia; gli uomini, invece si mischierebbero ai numi solo per cercare la felicità; i numi sono copulando con gli uomini, perché da essi nulla è escluso minotauro è estraneo alla città degli uomini ed estraneo ai numi, è nello stadio di mezzo: fuori dal mondo dei numi e dal mondo degli uomini, ma interno ad entrambi i mondi da nume ha bisogno del sacrificio degli uomini, da uomo ha bisogno di sentirsi un dio, perciò vuole sacrifici; gli offrono fanciulle, mai efebi per vivere da dio deve essere fuori della città, per vivere da uomo deve esserci dentro; quale città, dunque dedalo, il solito architetto del cazzo, ha fatto fare una cinta bassa di malta rossa che chiude un’altra cinta di pietre tagliate e poi un’altra di rumori e un’altra di visceri formicolanti e fremiti rappresi e convulsioni finchè non viene lo sconcerto; su tutto si levano in fuga stormi di idee ansiose di prender forma e desideranti incarnamenti qui le statue trasudano ed emettono oracoli, soffi, sospiri, forse di qualche dio che non ha capito che il suo mestiere è di mostrarsi nel cielo e non nelle pietre dedalo è certo di aver trovato, qui, una soluzione, ma questo è un labirinto di spazio e non un labirinto di tempo, perché solo nel labirinto di spazio ci sono luoghi dove è possibile incontrarsi ed incastrare i presenti …… o perché solo qui sono possibili eventi che coinvolgano i corpi, che si incarnino nella realtà…… o perché il labirinto è, in fondo, una fuga o, forse, a disegnare il labirinto sono stati i numi che, soli, possono costruire confusioni e meraviglie di pietre, pomposità di graniti e marmi neri, follie simmetriche, scale e stanze sempre uguali, contaminazioni fra passati e futuri i numi sono irrazionali o, se si vuole, tanto intelligenti da non credere in imprese che non siano vane e senza scopo e non trovano piacere maggiore di questo, che è quello di vagare confusi dove ogni luogo è altro, non ha un ordine, li possiede tutti e nessun ordine, può imporsi come principio, dove ogni cosa cospira con un’altra o forse è stato minotauro stesso a costruire quel labirinto di basole segrete e di sere mute, quei cunicoli, quelle pareti sorde sui percorsi deformati, per andare lontano da sé, dal proprio volto, un posto dove cambiare o nascondersi ad ogni visita di quelle fanciulle lubriche e giovani di fermento con il sole nero fra le cosce bianche, quella stella che ora gli si apre davanti agli occhi tondi e nebbiosi nella luce raminga del tramonto e a lui gli viene la nirbusa e strammìa vomitando grumi di dolore davanti alle bocche rosse e allippate che diventano vagine cantrici di un canto lascivo e acquietaserpi davanti alla parlata sua chiusa di bove fatta di fiati d’aglio e avanzo di terzane maligne e spasimi a serraglio e fiotti scuri di schiuma che finalmente finisce d’aggramignare la gola per acquagliarsi agli angoli della bocca implorante quando mille mani lubriche gli cercano l’inguine trepidanti come stessero rubando un nido e sciamanti come api impazzite e vogliose di sbranargli il pudore o forse il labirinto è lì fin dall’inizio perché non ci può essere storia senza un teatro e quello è il teatro del possibile poco lontano, dove le statue degli dèi vegliano atone fra cipressi, lauri e rose rampigne, c’è il cortile del banchetto: trenta metri per trenta, è il doppio di una casa segnata da molte vite, dove tutto è ormai quasi solo un sentimento bagnato dalla pioggia delle memorie: legni, incunaboli, lucerne sempre pronte ad agitati duelli con un’oscurità alla lunga vittoriosa la corte protegge dai rumori della via, ma sembra essa stessa sopraffatta dalle voci provenienti dalle finestrucole delle costruzioni che la chiudono ogni finestra si specchia sulla parete di fronte, bucata da altre finestre, da cui non si differenzia in nulla salvo che per l’intensità delle luci che animano di tremori gli interni ai lumi precoci dell’albe, come al vesperare, i muri sembrano maschere, con le orbite vuote ed offrono echi degli spropositi fatali e dei grilleggìi che hanno animato la giornata fra la poca vegetazione che diffonde il profumo di mille gelsomini d’oriente, ma non copre l’odore del sangue delle mani di non si sa chi, come palpitante davanti all’uniformità delle pareti, una kore con le orbite vuote riflette il niente e fa pensare ad antichi languori o allo sguardo del tempo sempre uguale a se stesso e sempre fisso sull’eternità le labbra della kore tacciono pene e l’aroma dell’assenza penetra nelle ombre sul muro bianco come il colore di una speranza infinita e vana farfalle vaghe di luce accarezzano le illusioni cresciute nel cuore di penombre dissipative e, di notte, qui, la luna piccola vibra nel pozzo degli echi fuori trombette, pianole e tamburelli vagano, per il piacere di bocche slabbrate, fra relitti coi segni delle notti e dei mattini, puzzolenti di risse da vino, erbe odorose di fermenti; quando la sera, poi, brilla della morbida incandescenza dei sessi delle lucciole, tutto appare disseminato da scritture bizzarre e a doppio senso e bellezze antiche e silenziose, con la tristezza negli occhi scuriti da generazioni di soli, da esilii, da erranze per geografie meticce sfidano, fra miasmi sacri e singhiozzi di amori arroganti, barbari occhi nomadi al banchetto, nella corte, c’è, di tutto perché la condizione umana richiede che l’individuo si conservi attraverso una continua trasmutazione del mangiare e del bere; dicono, finananche, che sia saggio nutrirsi della stessa natura del nostro corpo, homo homini salus, ma ora sembra eccessivo peraltro anche mangiare, bere, succhiare un corpo estraneo è un atto d’amore verso il sé, come succhiare un seno, o una vulva, ma quando il sole, sudato di mestiere, china sull’orizzonte e la stella del tramonto brilla nel cielo ritagliato dal cortile, arianna, non può stare lì a succhiare: la sera le si scarica tutta addosso e lei lascia il banchetto con tutta la folla di scialanti scolabicchieri, lascia gli sguardi alla ricerca di chi c’è e chi non c’è e con chi è chi c’è e di chi, all’inutilità dell’utile, preferisce il diletto dell’inutile la forza di un’ossessione la trascina fuori: forse la donna è il mostro dell’uomo, forse l’uomo è il mostro della donna, ma di chi è mostro minotauro? ha paura, ma non sa di cosa ed entra nel labirinto con gli occhi incantesimati sui muri cariati e scalcinati, come d’ossa in disfacimento, ma dove ancora luce ed ombra si baciano sosta sulla soglia che non sa di cosa sia soglia, poi a destra, lungo il muro senza fuori, ancora a destra, sotto gli alberi turchese, sul tavolato, ecco, il pozzo con tre piedi, la tavola pitagorica, a sinistra, l’aria è ferma, scende la scala, la stanza dei cuori, sigillata di basole nere, il prato della valle, il viale del tramonto imita il mare, una parete di pietra, un prato d’erba folle, ancora una parete, ma parete di calce,il lupanare solo, il giardino dei bulbi, la porta, l’incrocio, carni insanguate di capretto scannato sulla soglia, poi la pioggia, lo gnomone, il ponte, a destra c’è l’equazione di giano, a sinistra, sempre avanti, soprattutto non si vede come tornare indietro: è un labirinto minotauro le appare in una costellazione di zoccoli e corna, si mastica la bava, fa un verso come il sorriso di un capro, si alza sulle zampe di dietro, le va incontro, avanza e indietreggia, confonde i sensi del tempo, confonde l’accaduto col che accadrà, viso di biacca ed orecchie mozze gli sovrastano orpelli osceni, gli ballonzolano trippe e mammelle, chiappe flaccide, fandi e nefandi lacerti di carne grifagna, putrida, famelica, mistica, oscena; la lingua viola gli sbava sotto le froge larghe e sbilenche, ha gli occhi piccoli e rossi di sangue, nella verga ha un pozzo nero, ma di cielo, freme come una capra - chissà quale vento lo ha spinto nella vita - annuncia panici, ebrezze e stupri con quei mimi malati che sembrano un rito; arianna ce l’ha negli occhi, l’immagine di lui glieli invade come fosse quella di un dio, le si insinua nelle vene, si fa fuoco, rapimento, vortice immobile, senza tempo: non capisce se a cercarlo sia lei o se la cerchi lui quando si leva, tende, piroetta nelle polveri di calce ed inizia la danza fra le pietre del labirinto che li guardano immobili, come fossero dèi