FIR2002-7(2) - Centro della Famiglia

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SEZIONE DOCUMENTI: DA INTERNET
(a cura di Tommaso Franzoso)
Riprendiamo da internet due argomenti interessanti: il primo sulla droga e sulla terapia per la tossicodipendenza; l’altro sull’anoressia. Abbiamo raccolto contributi diversi, ma che permettono di mettere a
fuoco due problemi di grande attualità, con attinenza alle problematiche familiari.
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I PARADOSSI DELLA DROGA:
UNA INDAGINE PSICO-ANTROPOLOGICA
Filippo Sciacca: Psicologo, Psicoterapeuta presso l’AUSL n° 1 - Agrigento
La cultura è un sistema complesso - che include le regole scritte e non scritte, le usanze, le forme
organizzative, la religione, l’arte appartenenti ad un popolo - che determina nei singoli individui la
costruzione della loro visione della realtà e ne regola il loro comportamento appreso. Molti processi psicologici importanti dipendono dalla interazione fra individuo e contesto culturale di appartenenza. Utilizzando
in questo articolo il metodo psico-antropologico, che mira al confronto tra le differenti culture e alla comprensione delle azioni umane inserite nel contesto sociale più ampio, viene effettuata una indagine su come i
mutamenti della cultura e della società determinano effetti sia sui comportamenti sia sul modo di costruzione
della identità dei singoli individui. In particolare vengono analizzati gli stati di alterazione della coscienza
strutturati dalla cultura e vengono esemplificate due diverse modalità storico-culturali di uso di droghe, anche attraverso la descrizione personale raccontata da due differenti scrittori. A. Artaud che inserisce la propria esperienza con la droga all’interno dell’uso rituale di iniziazione. W. Burroughs che, a partire dal secondo dopoguerra, negli Stati Uniti determina la nascita della forma attuale di consumo di droga. Emerge
che l’uso recente si riallaccia al bisogno adolescenziale di iniziazione, di rinnovamento vitale, che fallisce,
diventa patologico e conduce all’autodistruzione.
Volume 7, Numero 2, 2002, pag. 133
Culture is a complex system - that includes written and unwritten rules, customs, organized
forms, religion and art belonging to a people - that determines in the individuals the construction of
their vision of reality and regulates their behaviour. A lot of important psychological processes depend
on the interaction between the individual and the cultural context in which he lives. In this article where
we make use of the psycho-anthropological method aiming at the confrontation among different cultures
and at the comprehension of human actions included in a wider social context, we carry out a survey of
how the changes of the culture and society determine some effects both on the behaviours and on the
way of constructing the identity of the individuals. In particular, we analyse the altered states of the
conscience structured by culture and illustrate two different historical-cultural methods about the use of
drugs, also by means of the personal account made by two different writers. A. Artaud who inserts his
own experience with drugs in the initiatory rites. W. Burroughs who, after the 2nd World War in the
United States, gave birth to the present form of drug abuse. It comes out that the recent use can be
linked to the adolescent need of initiation, of vital renewal, that fails, becomes pathologic and leads to
self-destruction.
“Allora pensò un’altra cosa Elena, nata da Zeus:
nel vino di cui essi bevevano gettò rapida un farmaco,
che fuga il dolore e l’ira, il ricordo di tutti i malanni.
Chi l’ingoiava, una volta mischiato dentro il cratere,
non avrebbe versato lacrime dalle guance, quel giorno,
neanche se gli avessero ucciso davanti, col bronzo,
il fratello o suo figlio, e lui avesse visto cogli occhi.
Tali rimedi efficaci possedeva la figlia di Zeus,
benigni, che a lei Polidamna diede, la sposa di Teone,
l’Egizia. La terra che dona le biade produce moltissimi
farmaci, lì: molti, mischiati, benigni; molti, funesti.
Ciascuno è medico esperto più d’ogni
uomo: sono infatti della stirpe di Asclepio”
Omero, Odissea, IV 219-2
La guerra dell’oppio
21 agosto 1842. Venne stipulato in questa data il Trattato di Nanchino, in assoluto il primo trattato politico-commerciale concluso dall’Impero cinese con una potenza marittima occidentale, la Gran Bretagna. Trattato sfavorevole per l’Impero cinese, che comportava la concessione della piena sovranità della Gran Bretagna sull’isola di Hong Kong per un secolo e mezzo
e l’apertura al commercio estero dei porti fluviali, oltre a quello di Canton, di Amoy, Fuchou,
Nigpo e Shangai. L’antecedente storico del Trattato di Nanchino era stato la Guerra dell’Oppio. I presupposti che avevano fatto insorgere questo conflitto sono da ricercare nel brusco impatto tra due mondi, fra due differenti sistemi culturali e politici. Da una parte l’isolazionismo
culturale, politico ed economico dell’Impero cinese; dall’altra la cultura e la politica economica liberista e coloniale del Regno Unito. “Il governo imperiale cinese non aveva una concezione dei rapporti internazionali corrispondente all’idea occidentale di relazioni diplomatiche permanenti nell’ambito di un sistema di stati sovrani eguali. Secondo la filosofia confuciana, la
Cina era l’unica fonte della vera civiltà e il suo imperatore era l’unico legittimo rappresentante
della divinità in terra: essendo teoricamente sovrano di tutto il mondo, i rapporti degli altri monarchi con lui potevano essere soltanto quelli tra vassalli e sovrano. Questa condizione di vassallaggio si esprimeva nel pagamento di un tributo e nel rispetto di un cerimoniale che implicava il riconoscimento della supremazia dell’imperatore cinese. Il tributo non era quantitativa-
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mente oneroso, ma la corte cinese vi attribuiva importanza non tanto per il suo valore economico quanto per il prestigio che esso conferiva alla dinastia regnante. Il tributario era compensato con la concessione di privilegi commerciali in Cina senza intervento diretto del governo
cinese nella politica interna del tributario stesso” (1). Incaricata di gestire i rapporti commerciali era il Co- hong, un’associazione di mercanti, poiché il governo cinese consentiva ai commercianti esteri di operare a Canton senza che fossero stabiliti rapporti diplomatici ufficiali con
gli stati di cui i commercianti erano sudditi. A tali regole di vassallaggio aderivano territori
come la Corea, il Siam o la Birmania. Pertanto, a differenza di quanto era accaduto in paesi
come l’India già colonia inglese, per molti secoli la Cina era rimasta “inaccessibile ai viaggiatori e ai commercianti dei paesi occidentali e, praticamente, impenetrabile alla loro influenza
culturale” (2). Solo i portoghesi, nel 1557, per primi erano riusciti ad ottenere un punto di appoggio sulle costa cinese a Macao attenendosi alle regole e al cerimoniale di vassallaggio. A
ciò si adeguò inizialmente anche la Gran Bretagna, riuscendo nel 1757 a controllare la maggiore percentuale degli scambi per il tramite del monopolio svolto dalla Compagnia delle Indie
Orientali. Ma ben presto la difficoltà che la Compagnia ebbe di trovare merci vendibili in Cina
per mezzo delle quali potere pagare il thè e altri prodotti ivi acquistati determinò il deficit economico. Quindi, al fine di ridurre il deficit, i commercianti britannici iniziarono ad esportarvi
l’oppio proveniente dall’India. Gli inglesi, per il tramite della Compagnia, fornivano l’oppio
dell’India ai commercianti francesi, olandesi, americani, nonché inglesi che lo esportavano in
Cina. L’oppio fumato immediatamente si diffuse tra i funzionari cinesi e fra gli strati della popolazione, ed insieme con esso anche la corruzione che fu determinata dal commercio clandestino sopraggiunto dopo le prime proibizioni e restrizioni governative cinesi. In particolare i
funzionari di Canton si arricchirono dal commercio clandestino non facendo aumentare gli introiti doganali e invertendo la bilancia commerciale ai danni dell’Impero cinese. Quest’ ultimo
reagì disperatamente chiudendo i porti commerciali ai traffici inglesi e facendosi consegnare
l’oppio. Nel frattempo, nel 1834, il parlamento britannico abrogava il monopolio della Compagnia delle Indie Orientali instaurando un regime di libera concorrenza e nominando un rappresentante ufficiale del governo come soprintendente del commercio in Cina.
Quest’ affronto e sfida alle regole e alle tradizioni cinesi portò, a partire dal 1839, a numerose azioni militari: la Guerra dell’Oppio. I cinesi che la combatterono erano perdenti fin
dall’inizio non solo perché i nemici inglesi erano imbattibili militarmente, ma perché proprio i
loro connazionali già erano assuefatti al fumo dell’oppio. Questo drammatico caso storico mette in evidenza come spesso la penetrazione di una droga e la lotta contro di essa spesso s’identificano con la ‘crisi’ di tutta una tradizione culturale e con il dilagare dell’efficientismo commerciale degli europei. Nel 1842 il Trattato di Nanchino oltre alla cessione dell’isola di Hong
Kong comporterà anche la “nomina di consoli britannici autorizzati ad avere rapporti con funzionari cinesi dello stesso grado, su basi di uguaglianza”.
I cambiamenti della cultura
Questa premessa vuol essere una esemplificazione di quanto è già stato rilevato dalle
ricerche storiche e di antropologia culturale, e cioè che una modalità di consumo di droghe è
sempre esistita e che in genere si accentua nei momenti di “crisi” attraversati da una determinata società. Spesso la crisi è coincisa con la penetrazione dei modelli culturali occidentali che
hanno spezzato quell’equilibrio culturale faticosamente costruito dalle popolazioni autoctone.
Ed inevitabilmente ogni innovazione o cambiamento socioculturale - secondo la psicoantropologa Erika Bourguignon - “implica processi psicologici di ogni specie, sia come cause
sia come effetti. Le innovazioni introdotte in una società richiedono l’apprendimento di moda(1)
(2)
Storia del mondo moderno, Cambridge University Press, Vol. X, Garzanti, Milano 1970, pp. 877- 878.
Ibidem, p.876.
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lità nuove e non di rado l’abbandono (o la trasformazione) di quelle vecchie” (3). Le innovazioni consistono, infatti, nella trasformazione dell’utilizzo di oggetti, di pratiche o di idee preesistenti. Pertanto le trasformazioni della cultura e della società possono imprimere cambiamenti importanti e spesso drammatici degli atteggiamenti e dei comportamenti degli individui, del
loro senso di appartenenza e della loro identità. Queste trasformazioni culturali hanno implicazioni psico-antropologiche. E proprio la psico-antropologia è quella specialità che si occupa
dei rapporti e delle interazioni tra cultura e personalità. “L’emergere dell’apparato psichico è
possibile solo grazie alla presenza del contenitore culturale che non solo dà una forma alle manifestazioni dello psichico ma le rende possibili e riconoscibili come tali, ovvero come proprietà peculiari ed esclusive di ogni soggetto umano. La cultura non è dunque una sorta di ‘capriccio’
o un accessorio secondario dell’evoluzione umana. Essa non è un abito, né un colore, ma rappresenta il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano. Non vi può essere infatti alcun
funzionamento psichico senza struttura culturale, così come non vi può essere fenomeno culturale
che non sia alimentato e in una certa misura determinato dallo psichico” (4).
Pertanto si può affermare che per molte società tradizionali il processo di occidentalizzazione o di modernizzazione ha impresso una forzata ricerca adattiva al fine di trovare modalità
di venire a patti con le nuove idee, o integrandole nella loro visione del mondo, cercando di
mantenere la propria continuità psico-culturale o addirittura rielaborando questa loro visione
del mondo attraverso nuove strategie di adattamento che permettessero la conciliazione con le
nuove idee. Un altro esempio della conseguenza del drammatico impatto che il contatto con le
società occidentali ha avuto sui popoli tradizionali è l’insorgere di culti di crisi o di movimenti
di rivitalizzazione come la Ghost Dance Religion (La Religione della Danza dei Fantasmi).
“La Danza dei Fantasmi rappresenta una reazione degli Indiani delle Pianure, e di regioni ancora più a occidente, alla distruzione del loro modo di vivere conseguente all’insediamento dei
Bianchi in quella regione. La religione della Danza dei Fantasmi, propagata nel 1890 dal profeta Wovoka, sosteneva che gli Indiani morti sarebbero tornati e avrebbero restaurato l’antico
modo di vivere, mentre i Bianchi e la loro cultura sarebbero stati distrutti. Per porre fine allo
stato di cose attuale, gli Indiani dovevano intraprendere vari rituali, soprattutto danze rituali.
Durante queste danze, le persone entravano in uno stato di trance durante il quale vivevano
l’esperienza di parlare con i parenti defunti. A mano a mano che questa religione si andò diffondendo tra le tribù più distanti, nuovi aspetti ed elaborazioni si aggiunsero allo schema fondamentale. Anche dopo la sconfitta dei Sioux a Wounded Knee, la Danza dei Fantasmi sopravvisse in forma modificata in vari gruppi di indiani e dette origine a una serie di movimenti successivi” (5). Questa forma di resistenza dei pellerossa alla sempre più intensa penetrazione dei
bianchi segnala la contrapposizione tra il mondo euro-americano desacralizzato ed il mondo
indiano centrato sulla iniziazione. Analizzando invece le trasformazioni psico-antropologiche
avvenute nell’ambito della nostra società attuale, lo psicanalista giapponese Keigo Okonogi
riprende la definizione di ‘moratoria psicosocialÉ, indicante il periodo della giovinezza, utilizzata dallo psicanalista americano Erik Erikson per la sua teoria sull’identità. Come ben si sa
‘moratoria’ è un termine preso a prestito, e, comunemente, sta ad indicare un’autorizzazione
legale a pagare i debiti in ritardo. E pertanto nella psicologia dello sviluppo intende significare
che “ la società concede ai giovani in fase di formazione e di studio un periodo di grazia: consente cioè di rimandare l’assolvimento dei doveri e dei debiti… una volta la moratoria aveva
termine quando il giovane arrivava ad una certa età. Diventare adulto, nello sviluppo di un individuo, significava interrompere il gioco, il temporaneo periodo di prova, ed acquistare una
precisa identità sociale… In pratica il concetto di moratoria psicosociale è complementare a
(3) E. Bourguignon, Antropologia Psicologica, Laterza, Bari 1983, p. 385.
(4) S. Inglese, Introduzione a T. Nathan, Principi di etnopsicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 15.
(5) E. Bourguignon, cit., p. 412.
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quello di ‘definizione di sé’, ‘scelta di sé’ o ‘identità’… Invece, oggi, la posizione dei giovani
nella società è diversa.
E questo ha fatto cambiare anche la psicologia moratoria tradizionale e ne ha trasformato i contenuti. Due ne sono i segnali. Uno è la comparsa di una nuova cultura dei giovani, che
afferma il diritto all’esistenza della giovinezza, l’altro è il fatto che il periodo della giovinezza
si è allungato” (6). “In una società che cambia rapidamente, i giovani reagiscono subito alle
novità e le fanno proprie, che si tratti di scienza, tecnologia, arte, moda. Dato che oggi la caratteristica tipica della moratoria non è più quella di ereditare le ‘cose vecchie’ dalla generazione
precedente, ma di scoprire e inventare ‘cose nuove’, la vecchia generazione ha relativamente
perso la propria autorità, mentre la sensazione di immaturità che avevano i giovani (il loro senso di inferiorità) si è trasformato in senso di onnipotenza” (7). Quindi, secondo K. Okonogi, se
nel passato i giovani tendevano ad assimilare e ad adeguarsi ai valori, agli ideali e agli schemi
di comportamento del sistema culturale, oggi essi criticano la società così com’è e ne prendono
le distanze. Di conseguenza ciò ha determinato il paradosso della ‘dissociazione’ dei giovani i
quali pur rifiutando il sistema (e la preesistente o predefinita identità psicosociale) di fatto si
trovano nello stato moratorio, dipendendo pienamente dal sistema. “Pur essendo dipendenti,
non sentono un vero e proprio desiderio di autonomia, perché si credono onnipotenti. E, pur
vivendo in una situazione per cui dipendono dalla buona volontà e dalla generosità degli altri,
non hanno mentalità da dipendenti. Di conseguenza c’è in loro una forte dissociazione tra l’essere inferiori nella pratica, visto che dipendono dai genitori e dagli adulti in genere, e il sentirsi
sicuri in teoria” (8). La loro voglia di indipendenza si trasforma in un atteggiamento apatico e
la ricerca di una identità scivola verso la depressione e i comportamenti anomici. “L’inclinazione psicologica appena descritta, a contatto di fenomeni sociali quali l’estendersi della
classe media, la trasformazione dei valori, l’assenza di ideologie o prospettive storiche, ha fatto gradualmente perdere alla gioventù moratoria i suoi desideri tradizionali: coltivare un’ambizione, discutere di politica, aspirare a un ideale e essere indipendenti. Oggi prevale tra i giovani l’apatia caratterizzata da mancanza di vitalità, di interessi, di responsabilità ed essi non riescono a trovare significato in nulla, né ad avere valori stabili. Si impegnano soltanto casualmente in cose di breve durata. Sono capricciosi e stravaganti; non hanno aspirazioni né ambizioni, né ideali, né tanto meno la voglia di diventare indipendenti. Però, nonostante tutti questi
cambiamenti, rimane il fatto che i giovani si trovano ancora nello schema della psicologia moratoria e nello stato moratorio. Non hanno ancora conquistato un ruolo.
K. Okonogi ipotizza quindi che tale condizione giovanile paradossale ha origine nella
struttura stessa del sistema e ne individua alcune importanti caratteristiche:
1.
Carattere di provvisorietà: sono i rapidi cambiamenti sociali che hanno svuotato dei contenuti fissi e precisi i ruoli e le professioni e che non sono più in grado di dare alle persone
un’identità definita;
2.
Divisione delle responsabilità: questa provvisorietà di vita coincide con gli interessi del
sistema di evitare che qualcuno abbia del potere personale;
3.
Essere sempre ‘su richiesta’: il sistema ha un preciso corso di promozioni basato sul merito o sull’anzianità, ma tale per cui la gente non può mai trovare la sua identità nel presente,
vissuto come provvisorio, ma proietta la sua identità in qualcosa che sta nel futuro restando
sempre in attesa della vera identità;
4.
Una struttura che controlla e protegge: se le persone accettano tutto questo, il sistema si
prende cura di loro e le protegge. In pratica, se un individuo osserva certe regole, “se si trattiene dal mettersi troppo in evidenza, se evita di assumersi gravi responsabilità, fa una vita tran(6)
K. Okonogi, Il mito di Ajasé e la famiglia giapponese, Spirali, Milano 1986, p. 10.
(7)
(8)
Ibidem, p. 14.
Ibidem, pp. 15 - 16.
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quilla. Il modo migliore di adattarsi alla società è quello di rimanerne ‘ospiti’. Tutto questo
dimostra che è la struttura stessa del sistema a costringere i suoi membri ad adottare una psicologia simile a quella moratoria” (9).
K. Okonogi conclude la sua analisi affermando che l’atteggiamento di fuga dalle responsabilità è presente in molti aspetti interni al sistema e la mutata psicologia moratoria tradizionale è indotta dal sistema divenendo un “carattere sociale”.
C’era una volta l’iniziazione
Un’altra importante trasformazione psico-antropologica avvenuta nella società occidentale moderna è il fenomeno della scomparsa della iniziazione. Mircea Eliade sostiene che una
delle grandi differenze tra il mondo tradizionale e il mondo moderno ed industrializzato sta
proprio nella scomparsa della iniziazione. Tale scomparsa è un fenomeno relativamente recente, portato avanti per la prima volta proprio dalla società occidentale moderna. L’iniziazione ha
svolto un ruolo istituzionale presso tutti i popoli primitivi o nella nostra antichità classica e lo
svolge ancora in certe società. Il giovane, attraverso i riti di entrata o di passaggio, era promosso a una classe di età o di raggruppamento sociale valutato come superiore. L’iniziazione, attraverso il passaggio rituale in due fasi di morte simbolica e rinascita, metteva fine all’uomo
naturale e introduceva l’iniziato alla cultura della propria società di appartenenza. “La società
in cui l’iniziazione aveva un ruolo istituzionale era anche una società in cui la morte aveva un
posto ufficiale” (10). La morte indicava un’esperienza di trasformazione psico-antropologica.
Infatti l’iniziato, rinascendo, ‘iniziava’ (in un nuovo stato nascente) a vivere pur sempre nel
mondo.
Oggi al contrario, se si eccettuano le chiese, le istituzioni sono orientate sempre di più
all’ottenimento di risultati pragmatici, lasciando al singolo individuo il problema del suo sviluppo interiore. Tuttavia, proprio nella nostra cultura occidentale, l’esigenza di iniziazione ritorna come rimosso culturale, non ufficiale, attraverso la nascita di numerose sette segrete che
esercitano rituali altrettanto segreti. Il bisogno di iniziazione, un tempo soddisfatto ma negato
dalla cultura ufficiale, si ripropone in termini occulti e inconsapevoli. Le società tradizionali
durante il rito della morte simbolica facevano, ed in parte ancora fanno, ricorso alla induzione
di stati di alterazione della coscienza, spesso attraverso l’uso di droghe. Tuttavia questi stati di
alterazione della coscienza sono sempre stati strutturati dalla cultura (rientrano in uno schema
culturale ed il soggetto è consapevole di ciò che l’aspetta) ed hanno una persistente aspettativa
di rigenerazione. Sono preceduti da purificazioni, addestramenti, rinunce, delimitati da rituali
che ne assicurano continuamente l’appartenenza a un contesto. Esistono alcune droghe estratte
da piante come il Peyote, la Banisteria Caapi, la Coca che tradizionalmente sono state usate da
alcune tribù del Messico e del Sud America per scopi rituali, in particolare nei riti di iniziazione. Ad esempio la Banisteria Caapi, che viene chiamata anche Yage e che è una specie di vite,
è un narcotico allucinatorio che produce un profondo turbamento dei sensi. Questa vite è usata
dai giovani iniziandi della tribù degli Jivaro, che abitano nella zona compresa tra il nord del
Perù e l’Ecuador meridionale, per mettersi in contatto con gli spiriti dei loro antenati ed essere
dettagliatamente istruiti riguardo alla loro vita futura. Lo Yage produce in questi iniziandi uno
stato di anestesia cosciente perché devono subire prove dolorose come l’essere frustati con
viticci arrotolati o venire esposti ai morsi delle formiche. Inoltre ancora lo Yage viene usato
come guarisci-tutto nel trattamento di varie malattie. E. Bourguignon riporta un interessante
resoconto di una ricerca sperimentale effettuata con due gruppi di soggetti appartenenti a due
distinte culture: “Nel 1959 A.F.C. Wallace ha fatto un confronto particolareggiato tra le reazio(9) K. Okonogi, Il mito di Ajasé e la famiglia giapponese, cit., p. 24.
(10) M. Eliade, Initiations, rites, sociétés secrètes, Gallimard, Paris 1959, p. 12.
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ni degli Indiani dell’America del nord che prendono il peyote nell’ambito dei loro rituali religiosi, e i soggetti bianchi che lo prendono nell’ambito di un esperimento clinico. Sia il comportamento che le esperienze soggettive dei due gruppi presentavano differenze sorprendenti.
Gli Indiani partecipavano a un rituale religioso e sperimentavano sentimenti di riverenza e
spesso anche di sollievo da qualche malattia fisica. I Bianchi si trovavano in un assetto sperimentale senza alcuna preparazione culturale che impartisse un particolare significato alla cosa.
Sperimentarono forti sbalzi di umore, che andavano da una depressione agitata all’euforia. I
Bianchi mostravano inoltre un crollo delle inibizioni sociali e adottavano comportamenti che la
società disapprova, laddove gli Indiani conservavano il dovuto decoro. I cambiamenti della
percezione del sé e degli altri spaventavano i Bianchi, mentre per gli Indiani coincidevano con
le loro aspettative religiose. Analogamente, gli Indiani avevano visioni che corrispondevano
alle loro credenze e che seguivano uno schema culturale, laddove le ‘visioni’ o allucinazioni
dei Bianchi, che si formavano senza alcun modello culturale, variavano da un individuo all’altro. Inoltre, mentre negli Indiani l’esperienza con il Peyote provocava cambiamenti sia nel
comportamento che nell’equilibrio psichico, i Bianchi, stando a quello che la ricerca riuscì a
stabilire, non sperimentarono né cambiamenti di lunga durata né benefici terapeutici” (11). Le
conclusioni date da Wallace alla sua ricerca furono che la droga non ha un suo proprio
‘contenuto’ ma si limita a modificare per un certo tempo la coscienza umana e che i differenti
risultati ottenuti sono da mettere in relazione con le differenze culturali dei due gruppi e cioè
con la formazione mentale con la quale hanno affrontato l’esperienza, il contesto del gruppo e
il significato simbolico dell’evento. L’esperienza degli stati di alterazione della coscienza incide sull’ulteriore sviluppo dell’individuo, sulla posizione nella società e sulla sua visione del
mondo ispirata all’esperienza di eventi straordinari legati al sé e agli spiriti. Secondo Wallace
l’essenza del rituale è la comunicazione tra gli esseri umani e gli spiriti degli antenati, e in
particolare parla di una riorganizzazione rituale dell’esperienza, “una sorta di apprendimento
attraverso il quale il mondo risulta semplificato agli occhi dell’individuo: il mondo complesso
dell’esperienza si trasforma in un mondo ordinato di simboli. Contemporaneamente accade
una trasformazione dell’individuo, il quale acquisisce nuove strutture cognitive e una nuova
identità trasformata” (12).
La droga ieri e oggi: due esperienze a confronto
L’esperienza di Antonin Artaud con la droga, specificatamente col Peyote, che è un cactus i cui germogli contengono mescalina, si può collocare all’interno di quest’uso rituale delle
sostanze allucinogene, esperienza compiuta presso la tribù dei Tarahumara del Messico nel
1936. Presso questa tribù egli era andato non da curioso ma per ritrovare una ‘Verità’ che sfugge al mondo europeo e che la razza Tarahumara ha conservato. Questa verità è racchiusa nel
Rito del Peyote (che i Tarahumara chiamano Ciguri) che sta alla sommità della religione Tarahumara e che consiste in una danza del Peyote per l’appunto. Ecco la descrizione che Artaud fa
di questa tribù: “Con i Tarahumara si entra in un mondo terribilmente anacronistico e che è
una sfida a questi tempi. Ma oserei dire che è tanto peggio per questi tempi e non per i Tarahumara. Ed è così che per usare un termine oggi totalmente in disuso i Tarahumara si dicono, si
sentono, si credono una Razza-Principio e lo provano in tutti i modi… In questa razza vi è una
incontestabile iniziazione: colui che è vicino alle forze della natura partecipa dei suoi segreti…
É falso dire che i Tarahumara non hanno civiltà, quando si riduce la civiltà a pure facilitazioni
fisiche, a comodità materiali che la razza Tarahumara ha da sempre disprezzato” (13). C’è da
(11) E. Bourguignon, Antropologia psicologica, cit., pp. 306 - 307.
(12) Ibidem, p. 310.
(13) A. Artaud, Viaggio al paese dei Tarahumara, in A. Artaud, Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano
1981, p. 91.
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dire che Artaud, scrittore e uomo di teatro francese appartenuto al movimento surrealista, abbandona nel ‘36 il suo impegno teatrale e va alla ricerca dei Tarahumara perché attraverso l’iniziazione al rito del Peyote vuol guarire da un suo profondo malessere che gli si manifesta
come cataclisma corporeo ogniqualvolta si sente vicinissimo a una fase capitale della propria
esistenza. Così nel suo libro “Viaggio al paese dei Tarahumara” egli descrive questa volontà di
guarigione: “Ormai bisognava che quel qualcosa di sepolto dietro quella pesante triturazione
(del proprio corpo) e che uguaglia l’alba alla notte, quel qualcosa venisse tirato fuori, e servisse, servisse appunto con la mia crocifissione.
E sapevo che il mio destino fisico era irrimediabilmente legato a quello. Ero pronto a
tutte le bruciature, e aspettavo la primizia della bruciatura, in previsione d’una combustione
presto generalizzata” (14). Dai Tarahumara egli sa che troverà la danza di guarigione con il
Peyote. Ma presso di loro, perché sia agente di guarigione, il Peyote occorre saperlo prendere
nella giusta dose senza abusarne perché ogni abuso provoca un’ebbrezza disordinata, ma soprattutto si disubbidisce a Ciguri stesso che è “il dio della prescienza del giusto, dell’equilibrio
e del controllo di sé. Chi ha bevuto il metro e la misura vera di Ciguri è un ‘Uomo’ e non un
‘Fantasma indeterminato’, sa come sono fatte le cose e non può più perdere la ragione perché
dio è nei suoi nervi, e da qui li dirige” (15). Il mistero dell’azione terapeutica del Peyote è legato alla proporzione che si prende. Dice Artaud che: “Superare il necessario è saccheggiare
l’azione” (16). Il rito di Ciguri è un rito di creazione. Le radici ermafrodite del Peyote raffigurano l’immagine d’un sesso di uomo e di donna uniti. Esse rappresentano i Principi Maschio e
Femmina della Natura. Dunque Artaud parteciperà al Rito di Ciguri che è appunto la Danza
del Peyote e avrà una ‘visione’ alla quale giunge dopo essere passato attraverso un laceramento e un’angoscia forti, dopodiché si sentirà come riversato dall’altra parte delle cose tanto da
non capire più il mondo che ha appena lasciato. Ed egli vive questo riversamento come una
forza che consente di essere ‘restituiti’ a quel che esiste dall’altra parte. Artaud descrive ciò
come un momento in cui non si sentono più i limiti del corpo, ma ci si sente molto più felici di
appartenere all’illimitato che non a se stessi perché ciò che si è, è provenuto dalla ‘testa dell’illimitato’. Artaud conclude quest’esperienza iniziatica affermando che il Peyote riconduce l’Io
alle sue vere sorgenti e, dopo essere usciti da un tale stato di visione, non si può più confondere la menzogna con la verità. Da quanto finora detto, si può affermare che l’uso tradizionale di
queste sostanze segnala un passaggio all’interno dei riti di iniziazione e dei riti di guarigione.
Questo passaggio è segnato dalla morte simbolica del soggetto, dalla ‘visione’ consentita dalla
droga portatrice di un altro mondo, dalla costruzione della nuova personalità del soggetto. L’uso di droghe compiuto da Antonin Artaud, e descritto nei suoi libri, rappresenta ancora una
modalità che storicamente si inserisce nel contesto culturale della iniziazione rituale. Al contrario l’utilizzo di droghe fatta e descritta da William Burroughs rappresenta, a partire dal secondo dopoguerra negli Stati Uniti, la nascita della forma attuale del consumo di droga. Nella
forma attuale la ‘visione’, se ancora ricercata, perde la sua importanza, la sua sacralità ed il suo
significato collettivo di funzione innovatrice. Anch’egli, nei suoi libri, descrive le implicazioni
soggettive relative all’uso delle sostanze stupefacenti.
Questo scrittore drogato, o meglio prima drogato e poi scrittore, appartiene a quella che
è stata definita ‘beat generation’ (generazione bruciata), che è stata da una parte una tendenza,
uno stile di vita dei giovani americani del secondo dopoguerra e, da un’altra parte un fenomeno letterario e di poesia. I critici letterari Fernanda Pivano (17), Vito Amoruso (18), Gérard
(14) A. Artaud, Viaggio al paese dei Tarahumara, cit., p. 86.
(15) A. Artaud, Il rito del peyotl presso i Tarahumara, in A. Artaud, Al paese dei Tarahumara, Adelphi,
Milano 1981, pp. 138 - 139.
(16) A. Artaud, Viaggio al paese dei Tarahumara, cit., p. 86.
(17) V. Amoruso, La letteratura beat americana, Laterza, Bari 1969.
(18) G. G. Lemaire, William Burroughs: una biografia. La mappa di una scrittura, Sugarco, Milano 1983.
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Georges Lemaire (19), che di questo fenomeno generazionale si sono occupati, sono tutti concordi nel trovare una intima relazione tra i comportamenti dei giovani americani e gli scrittori e
i poeti della beat generation. Parlare di questi scrittori equivale a parlare di un modo di vita e di
costume della gioventù bruciata americana. Questo fenomeno beat è costituito da un vertiginoso equilibrio tra i giovani ribelli del dopoguerra, mistici, vagabondi, apolitici, emarginati e l’avventura letteraria, la trascrizione letteraria della loro anarchia disorientata e della tumultuosa
e generica affermazione di una nuova moda (fino a dei limiti folkloristici).Secondo la Pivano il
dramma di questi giovani è un dramma morale, definendo questi giovani come degli
‘incompresi’ che si sono trovati a vivere in una società alla quale non credevano e che hanno
ritenuto incapace di rispondere alle loro domande. Spesso la sfuggivano e vivevano in piccole
bande più o meno segrete secondo un codice primordiale basato sulla inviolabilità dell’amicizia e delle confidenze. A volte passavano a stadi di violenza e di teppismo, di cui qualche vecchio film di M. Brando in motocicletta o J. Dean ne era il prototipo. Questi due personaggi
rappresentavano il prototipo e non l’ideale perché erano l’esatto ritratto di quello che questi
adolescenti erano e non di quello che volevano diventare. La caratteristica di queste bande era
quella di non volere compiere gesti di rivolta verso la società, ma di estraniarsene. Erano bande
anticollettivistiche. I genitori li consideravano degli amorali, irresponsabili, viziosi, criminali,
capaci di fare tutto quello che un genitore darebbe la propria vita pur di non vedere fare al proprio figlio. A questa dilagante massa di ragazzi reticenti e scontrosi, tristi e freddi, appartenevano appunto gli scrittori della beat generation. Risulta utile fare, a questo punto, delle necessarie distinzioni fra alcune generazioni letterarie. Innanzi tutto bisogna distinguere tre generazioni letterarie negli Stati Uniti:
1) La ‘Lost generation’ o generazione perduta;
2) La Generazione ribelle;
3) La ‘Beat generation’ o generazione bruciata.
La ‘Lost generation’ è quella generazione di artisti americani che nel primo dopoguerra
si rivoltò contro il conformismo borghese. Ad essa appartengono scrittori come E. Hemingway, F.S. Fitzgerald, W. Faulkner e altri. Questi scrittori erano scrittori di denuncia e di violenza. Svelavano, ad esempio, alle madri inorridite che spesso le cosiddette fanciulle al momento del matrimonio avevano esperienze sessuali più cospicue di quelle materne. Secondo la
Pivano questi artisti hanno combattuto una battaglia estetica per affermare un nuovo stile.
La ‘Generazione ribelle’ invece, nel ventennio seguito alla crisi economica americana
del ‘29, ha combattuto una battaglia sociale, ad esempio contro il razzismo. Vi appartengono
scrittori come R. Wright, I. Show e altri. Al contrario, i giovani scrittori della beat generation,
della gioventù bruciata, non avevano nessuna battaglia estetica da combattere poiché la battaglia dell’arte moderna aveva ormai vinto su tutti i fronti. Il dramma della beat generation non è
estetico , ma è un dramma morale. Questi giovani sono perlopiù disperati e inquieti, respingono i sistemi morali e sociali precostituiti e vogliono scoprirne da sé degli altri nuovi. Questi
giovani irrequieti bevono molto, fumano molto, hanno girato l’America in autostop, si sono
esaltati ascoltando o improvvisando jazz. Si potrebbe fare un parallelo con i giovani francesi
nati dal nulla creati da Sartre, ma essi si muovono nel nulla, in una nausea che non è neanche
più disperazione. Gli scrittori beat questo nulla che hanno scoperto da sé si sforzano di vincerlo come possono. Pur restando i portavoce dei delinquenti minorili e dei drogati è un fatto che
una delle loro caratteristiche è il misticismo o le pratiche pseudo-religiose. E il misticismo crea
la grande differenza con la ‘Lost generation’, è una caratteristica di scrittori come J. Kerouac o
A. Ginsberg che rivelano gli aspetti più segreti della misteriosa vita degli adolescenti sempre
(19) G. G. Lemaire, William Burroughs: una biografia. La mappa di una scrittura, Sugarco, Milano 1983.
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più lontani e sempre più sconosciuti ai genitori. La loro fuga nell’individualismo, secondo un
altro critico, Vito Amoruso, non descrive una parabola esistenziale perché non implica una
ricerca conoscitiva che ristabilisca il posto dell’individuo nella società, ma rimuove la società e
nullifica l’individuo. Compiono l’elisione mistica della storia, di ogni storia, anche di quella
più strettamente individuale. I mezzi di cui si servono cercano sempre di svincolare il soggetto
dalle leggi morali e intellettuali: la droga, il jazz, la velocità folle, o la totale inazione, l’anarchia o il buddismo Zen. Secondo la Pivano, questi giovani esercitano una violenza su se stessi
“per svincolarsi da un impianto morale che a loro è estraneo… cercano di distruggere in se
stessi quanto rimane di immesso dagli ‘altri’” (20). La droga e l’alcool, la promiscuità sessuale
o il rock and roll viscerale sono mezzi per riscoprire una identità smarrita. É utile citare la definizione di beat che ne ha dato J. Kerouac in un’intervista: “Entrai un pomeriggio (nel 1954)
nella chiesa della mia fanciullezza, S. Giovanna D’Arco a Lowell nel Massachusetts, e improvvisamente con le lacrime agli occhi ebbi la visione di quello che dovevo realmente intendere per ‘beat’ allorché percepivo nel silenzio santo della chiesa (ero solo lì dentro, erano le 5
del pomeriggio, i cani abbaiavano fuori, i ragazzi gridavano, le foglie cadevano, le candele
sfarfallavano per me), la visione della parola Beat che doveva significare beatifico” (21). William Burroughs è uno di questi scrittori beat. Anche se non è affatto mistico, però ha introdotto
gli altri suoi amici scrittori all’uso delle droghe. Era nato il 5 febbraio 1914 a St. Louis, nel
Missouri, ed è recentemente scomparso il 2 agosto 1997. Nel ‘42 , all’età di 28 anni, andò ad
abitare a New York e qui cominciò a fare uso di morfina.
Visse insieme a Kerouac fino al luglio del ‘45. Dal 1942 al 1957 farà uso di svariate droghe, per complessivi 15 anni. Durante questi anni farà anche ripetuti tentativi di disintossicazione, ma vi riuscirà solo nel ‘57 con una cura di apomorfina a Londra. Dopodiché si dedicherà alla scrittura. Ma ancor prima di interrompere l’abuso di droghe aveva già pubblicato il suo
primo libro autobiografico ‘Junkie’ (tradotto in italiano con il titolo ‘La scimmia sulla schiena’) cui sottotitolo è ‘Confessioni di un drogato non pentito’. In questo suo libro parla sia della
sua infanzia, ma soprattutto di come ha incominciato a prendere droga e a diventare morfinomane. Tramite il lavoro di ricettazione, un suo amico ladro una volta gli aveva procurato, insieme a un mitra da vendere, anche una scatola piena di fiale di morfina. Burroughs all’inizio
vendette alcune di queste fiale, ma successivamente cominciò a provarle anche lui. A quell’
epoca chi consumava droga erano i musicisti jazz che usavano prevalentemente la marijuana.
Ma stavano cominciando a prendere piede gli stupefacenti pesanti: l’eroina, la morfina, ecc.
Questi stupefacenti fino ad allora erano stati usati solo dagli anarchici o dai discendenti del
dadaismo e della ‘Lost generation’. Ma per queste ultime generazioni la vera grande droga era
stata l’alcool. Pertanto se questi gruppi rappresentavano un certo stile di vita, Burroughs è stato
senz’altro colui che ha rappresentato la sostituzione della droga all’alcool consolatore e polemizzatore del primo dopoguerra. C’è una domanda che si ripresenta spesso in questo libro:
“Perché si diviene tossicomani?” oppure “Perché si sente il bisogno dei narcotici?” (22). Queste domande vengono poste da qualcuno, da un ipotetico interlocutore o da un medico. Innanzitutto Burroughs dice che l’uomo che pone questa domanda al tossicodipendente non capisce
nulla in fatto di droga. A queste domande egli risponde che “si scivola nel vizio degli stupefacenti perché non si hanno forti moventi in alcun’altra direzione. La droga trionfa per difetto. Io
la sperimentai a titolo di curiosità… Non si decide di diventare tossicomani. Un mattino ci si
desta in preda al ‘malessere’ e lo si è” (23). “Di solito l’individuo non intende divenire dedito
(20) F. Pivano, Prefazione, cit., p. 5.
(21) V. Amoruso, La letteratura beat americana, cit., p. 4.
(22) W. Burroughs, La scimmia sulla schiena, Rizzoli, Milano 1976, p. 32.
(23)
Ibidem, p. 33.
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al vizio. Non ci si sveglia un mattino decidendo di darsi alla droga. Occorrono almeno tre mesi
di punture praticate due volte al giorno per scivolare nel vizio degli stupefacenti. Non si sa realmente che cosa sia la smania della droga fino a quando le assuefazioni non siano divenute
numerose. Mi occorsero quasi sei mesi per divenire affetto dalla mia prima tossicomania” (24).
“La droga è un’equazione cellulare che insegna al tossicomane verità di validità generale. Io
ho imparato molto ricorrendo alla droga: ho veduto la vita misurata in pompette contagocce di
morfina in soluzione. Ho provato la straziante privazione che è il desiderio della droga e la
gioia del sollievo quando le cellule assetate di droga la bevono dall’ago. Forse ogni piacere è
sollievo. Ho appreso lo stoicismo cellulare che la droga insegna al tossicomane. Ho veduto una
cella di prigione piena di tossicomani in preda alle sofferenze per la privazione della droga,
silenziosi e immobili ciascuno nella sua individuale infelicità.
Sapevo che fondamentalmente nessuno è in grado di aiutare il prossimo suo: non esiste
chiave, non esiste segreto in possesso di qualcuno e che possono essere ceduti. Ho imparato
l’equazione della droga. La droga non è, come l’alcool o come la marijuana, un mezzo per intensificare il godimento della vita. La droga non è euforia. É un modo di vivere” (25). Da questi brani traspare innanzitutto che Burroughs dà un’importanza decisiva alla questione metabolica e chimica cellulare della tossicodipendenza. É una spiegazione costante che egli dà sia in
‘Junkie’ ma che ripropone anche in altri libri successivi. Si stabilisce nell’organismo del tossicomane quella che egli chiama l’Algebra del bisogno, una equazione cellulare. L’importanza
della droga per il tossicomane sta nel fatto che essa dà assuefazione. Nessuno sa che cosa sia
la droga finché non prova il ‘malessere’ ed inoltre la dipendenza è assoluta anche tra il tossicomane e colui che gli fornisce la droga, come il palombaro dipende dal tubo che gli fornisce
l’aria. Questa situazione, secondo Burroughs, non esisteva prima che egli cominciasse a usare
la droga e prima della conseguente assuefazione. L’organismo del tossicodipendente funziona
grazie alla droga. Il malessere da mancanza di droga, di cui egli parla e che distingue dall’euforia, equivale alla nascita del bisogno. E il bisogno diviene la ‘brama’. “Il tossicomane senza
la droga è impotente come un pesce fuor d’acqua, fuori del suo mezzo, ‘boccheggiante’ dice
chi ha il vizio degli stupefacenti” (26). Per chiarire meglio questo paragone egli fa un altro esempio. La morfina è, come la tenia , un agente parassita che penetra e si stabilisce nell’organismo. Questo agente chimico parassita, la morfina, vive nel medium della morfina e grazie a
esso, e gli occorre il medium della morfina per esistere. Poi dice: “E l’agente invasore può potenziare tale necessità nel suo ospite mediante uno sbarramento di sintomi invalidanti allorché
la morfina grazie alla quale esso agente vive viene sottratta. Questi sintomi sono i fenomeni di
astinenza noti a tutti gli intossicati: sbadigli e boccheggiamenti, occhi lacrimosi e brucianti,
diarrea, insonnia, debolezza, lieve febbre, crampi alle gambe e allo stomaco, talora la morte
per collasso cardiocircolatorio e choc. E soprattutto la ‘brama’ dell’intossicato nei periodi di
astinenza, una brama assoluta, irresistibile, di droga. Una necessità che equivale al soggiogamento totale. Il tossicomane è letteralmente un ‘maniaco della droga’, e la ‘mania’ è precisamente uno stato di assoluta necessità, che conosce, e può conoscere soltanto, il proprio bisogno” (27). Si può affermare pertanto che lo svariato abuso di droghe introdotto e sperimentato
in prima persona da Burroughs segnala la attuale e diversa modalità di consumo ansioso, impaziente, distruttivo di sostanze stupefacenti. Si tratta, oggi, di un consumo che ha luogo nella
fretta, nell’avidità, nell’ansia, senza alcuna integrazione nell’ambito del contesto culturale di
appartenenza. Ciò che con il tempo viene a connotarsi di tinte sempre più negative è il rapporto
(24)
Ibidem, p. 32.
(25)
W. Burroughs, La scimmia sulla schiena, cit. p. 34.
(26)
Ibidem, p. 231.
(27)
Ibidem, pp. 232-233.
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che c’è tra il soggetto e la sostanza.
Se nell’uso rituale l’uso di droghe segnava il passaggio all’interno dei riti di pubertà o di
iniziazione, con la morte simbolica del soggetto e la costruzione ‘ex novo’ della nuova personalità dell’iniziato (e la ‘visione’ consentita dalla droga era portatrice di un Altro mondo) l’uso
recente sembra un’esperienza adolescenziale di iniziazione, di rinnovamento vitale, fallita e
divenuta patologica: una esigenza che, morta la mitologia, persegue il risultato innovativo, l’euforia maniacale, rovesciando le due tappe del modello iniziatico: rinascita come fase immediata ed esperienza di morte come fase conclusiva.
Una iniziazione al contrario
Sono interessanti le affermazioni dello psicanalista junghiano Luigi Zoja, secondo il
quale analizzare il bisogno di iniziazione nella società attuale è “particolarmente interessante
per la comprensione della tossicodipendenza” (28). Egli distingue tre elementi costitutivi della
tossicodipendenza:
1) una assuefazione organica;
2) una abitudine psicologica, che tende ad assumere la forma di condizionamento
(soprattutto di gruppo);
3)
un motivo para-religioso, responsabile della formazione spontanea di rituali,
della tendenza all’esoterismo, al fanatismo e alla ideologizzazione del ricorso alla sostanza
stupefacente.
In particolare Zoja approfondisce l’analisi del terzo elemento. La tossicodipendenza
odierna sarebbe la corruzione finale dell’uso di sostanze verso le quali le popolazioni tradizionali si erano rivolte con aspettative in origine iniziatiche, archetipiche, magiche, rituali. In effetti tali sostanze hanno portato con sé speranze antiche che includevano sia il risanamento e la
liberazione, sia l’ottenimento di esperienze psicologiche nuove e più complesse. La prima tappa di ogni iniziazione è costituita dalla morte simbolica del soggetto, dall’annullamento della
personalità fino ad allora esistente. La seconda tappa iniziatica, infatti, la costruzione della
nuova personalità, non è una semplice aggiunta alla personalità di prima, ma è il sorgere di una
identità e di un ruolo nuovi. L’iniziazione fa nascere l’uomo secondo un modello mitico, gli
conferisce un nuovo potere, una sorta di sicurezza e di intoccabilità. All’interno di ciò la
‘visione’ è ottenuta con la droga ha la funzione di far accedere a una saggezza che non poteva
essere descritta o rivelata perché andava al di là delle parole che si usano per comunicare. Zoja
suppone che anche negli adolescenti della cultura occidentale esista un generale bisogno latente di eventi iniziatici, ma più che di iniziazioni puberali generalizzate in occidente si vedono
nascere surrogati di sette segrete, di gruppi culto-esoterici. Ma la differenza sostanziale fra l’iniziazione primitiva ed il settarismo attuale sta nel rapporto con la droga. Mentre nelle società
primitive si ha a che fare con l’elemento rigeneratore e individuante della ‘visione, al contrario
il tipico abuso attuale del tossicomane avviene nell’ambito del modello consumista occidentale.
“La nuova visione che la droga può favorire non trova, in generale, integrazione nella
cultura circostante. Ma contemporaneamente non ha modo di inserirsi neppure nella personalità del singolo e tende a svanire con la scomparsa del semplice effetto chimico. Si ha dunque il
bisogno di nuove assunzioni e il rischio che questa necessità si presenti a cadenze sempre più
ravvicinate. Il consumo non procede a un passo volontariamente stabilito. Inizialmente (il tossicomane) tenta forse di farlo, ma è difficile marciare da soli, senza ritmo, cadenze e accompagnamenti esterni. Presto più che marciare, rotola per inerzia… Il consumo precipita verso il
fondo, crescendo costantemente di velocità e di mole” (29). Dunque gli impulsi distruttivi, la
ricerca della morte, nel tossicomane potrebbero essere ancora interni ad una ricerca di rinascita
(28)
(29)
L. Zoja, Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza, Raffaello Cortina, Milano 1985, p. 7. )
Op cit., p. 126.
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collettiva ma che, in mancanza di sbocchi concreti e di una mitologia paradigmatica per la costruzione di una nuova personalità, è costretta a manifestare solo la fase preparatoria, quella
distruttiva. La ricerca di un’esperienza trascendente, sempre sfiorata, non è mai raggiunta e
impone un inseguimento sempre più frenetico e maniacale. L’esigenza di iniziazione, di rinnovamento vitale, fallisce e non riconoscendo più il rituale la rinuncia preparatoria, persegue immediatamente il risultato innovativo: l’euforia maniacale. In tal modo viene rovesciato il modello iniziatico: rinascita come fase immediata; esperienza di morte come fase conclusiva. Si
ha così il rischio che la necessità di nuove assunzioni si presenti ad intervalli sempre più ravvicinati, decadendo così nella spirale della dipendenza. Così Zoja definisce quest’iniziazione
negativa: “Un’iniziazione distruttiva e inconscia che tende, come unico rinnovamento, alla
perdita della condizione o della personalità fino allora sussistenti; che non ne inaugura di nuove e nella pura perdita trova la sua realizzazione e il suo completamento” (30). L’errore del
tossicodipendente sta nella fretta “ricalcata sugli schemi consumistici, che gli fa rovesciare
questo modello: il quale principia con il rinnovamento e termina con l’esperienza di morte” (31). Quindi il tradizionale modello culturale iniziatico decade nel modello consumistico.
Ed il ‘sacrificio’ del tossicodipendente diventa un sacrificio deritualizzato e improduttivo. Il
soggetto, che lottava par la conquista della identità e dell’affermazione di un ruolo nella società, assume una identità in negativo e - tramite la fuga, la rinuncia, l’indisponibilità - si dissocia
dalle leggi sociali e morali, vissute come arbitrarie e prive di senso. Nel nostro attuale contesto
sociale la tossicomania è un fenomeno giovanile. E proprio i giovani, gli adolescenti, vivono
uno dei problemi cruciali che li caratterizza: la ricerca dell’identità e della identificazione soddisfacente con i modelli culturali. Da quanto ho esposto in questa indagine psico-antropologica
si può dunque affermare che, da una parte, la sopraffazione di tipo coloniale ha determinato
l’incontro/scontro tra due diverse culture, con la conseguente penetrazione di nuovi modelli
culturali che hanno prodotto notevoli mutamenti sociali e psicologici, creando ampi squarci
nella tela culturale tradizionale, intesa come rete di senso.
Altresì all’interno della nostra società moderna, fondata sull’economia del consumo, si
sono attuate profonde trasformazioni psico-antropologiche che hanno prodotto numerosi fenomeni paradossali. Un acuto testimone della trasformazione antropologica avvenuta nella specifica società italiana è stato Pier Paolo Pasolini che - tra gli anni ‘60 e ‘70 - ha intravisto nel
cosiddetto ‘sviluppo’ radicale quello che lui stesso ha definito: “un fenomeno di ‘mutazione
antropologica” (32). In un altro articolo, del luglio ‘75, intitolato “La droga: una vera tragedia
italiana” osserva: “Per quanto riguarda la mia personale, e assai scarsa esperienza, ciò che mi
par di sapere intorno al fenomeno della droga, è il seguente dato di fatto: la droga è sempre un
surrogato. E precisamente un surrogato della cultura. Detta così la cosa è certo troppo lineare,
semplice e anche generica. Ma le complicazioni realizzanti vengono quando si esaminano le
cose da vicino. A un livello medio - riguardante ‘tanti’ - la droga viene a riempire un vuoto
causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura….Dunque noi oggi
viviamo in un periodo storico in cui lo ‘spazio’ (o ‘vuoto’) per la droga è enormemente aumentato. E perché? Perché la cultura in senso antropologico, ‘totale, in Italia è andata distrutta.
Quindi i suoi valori e i suoi modelli tradizionali (uso qui questa parola nel senso migliore) o
non contano più o cominciano a non contare più” (33). E ancora più avanti aggiunge: “Si tratta, insisto, della perdita dei valori di una intera cultura: valori che però non sono stati sostituiti
da quelli di una nuova cultura (a meno che non ci si debba ‘adattare, come del resto sarebbe
tragicamente corretto, a considerare una ‘cultura’ il consumismo”) (34). Nell’attuale contesto
(30) Ibid, p. 126.
(31) Ibidem, p. 37.
(32) P. P. Pasolini, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari, Garzanti, Milano
1975, p. 49.
(33) P. P. Pasolini, La droga: una vera tragedia italiana, in Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 8689.
(34) Ibid., p. 90.
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sociale gli adolescenti, quindi, hanno percepito e vissuto la rottura della rete di senso, in quanto proprio la stessa realtà sociale produce paradossi. L’ideale ricerca della propria autonomia e
della propria libertà si scontra con la profonda dipendenza dal sistema culturale di appartenenza, con le sue moderne regole, con la sua nuova organizzazione. La ricerca di identità si trasforma in comportamenti caratterizzati da irresponsabile appartenenza sociale, disimpegno
morale, disincanto affettivo: un epilogo dalle conseguenze imprevedibili e, a volte, irreparabili.
Riferimenti bibliografici
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LA TERAPIA FAMILIARE NELLE TOSSICODIPENDENZE:
QUALE MODELLO UTILIZZARE IN UN CONTESTO PUBBLICO. SERT A.S.L. 4 CHIAVARESE
Dott. Giannino Ulivi,
Responsabile “Centro di Consulenza e Terapia Familiare” Sert A.S.L. 4 Chiavarese
Dott. Barbara Corrado
Psicologa volontaria Sert A.S.L. 4 Chiavarese
La popolazione di soggetti con problemi di abuso di sostanze che si rivolgono ad un servizio
pubblico è molto varia per storia, tentativi di risoluzione precedenti, livello motivazionale e risorse del
contesto attivabili. Inoltre spesso chi chiede aiuto è diverso da chi lo necessita e i bisogni presentati
sono diversi a seconda del livello motivazionale presentato. Un Centro di Consulenza e Terapia Familiare di un SerT. deve quindi impostare un lavoro flessibile, attento alla domanda presentata e alla sua
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modificazione e integrato con le altre attività del servizio e avendo come riferimento quanto, da un punto di vista teorico, oggi la terapia familiare mette a disposizione. Il lavoro presentato è la modalità operativa del nostro Centro di Consulenza e terapia Familiare inserito presso il nostro SerT. e attivo da
circa un anno.
The population of subjects substance abusers that address to a public service is very varied for
history, attempts of resolution precedents, motivational level and facilities of the context. Additionally
often who asks help is different from who necessitates it and the presented needs are different according to the motivational presented level. A Center of Consulence and Family Therapy of a SerT. is obligates to plan a flexible work, attentive to the presented question and to his modification and integrate
with the other activity of the service and having like reference as, from a point of theorist view, today
the family therapy puts to disposition. The presented work is the operational formality of our Center of
Consulence and Family therapy inserted by our SerT active now from around a year.
Il movimento di terapia familiare, nel vasto universo degli orientamenti terapeutici, ha
avuto una sua precisazione sempre più documentata riguardo a quei fenomeni di sofferenza
che interessano giovani figli in quella fase delicata dell’individuazione e autonomizzazione
dalla famiglia di origine che chiamiamo adolescenza (Gurman e Kniskern, 1978). Tali situazioni sono frequenti, secondo la lettura sistemica, sia in chi presenta esordi nevrotici o psicotici
o disturbi alimentari di tipo anoressico o bulimico o inizia il consumo di sostanze stupefacenti
(Todd e Selekman, 1991). I modelli di terapia familiare sono ormai numerosi e si prefiggono
obiettivi diversi :
a. I cultori della terapia breve del M.R.I. si prefiggono la risoluzione del sintomo
b. I terapeuti trigenerazionali o contestuali, pensano di dover approfondire la storia e i
vissuti della famiglia,
c. Gli operatori orientati in termini strategico-strutturale ritengono importante mutare le
regole che governano la famiglia
d. I sistemici puri ragionano in termini “ costruttivi” e pensano utile e necessario, attraverso un corretto uso del linguaggio, lavorare sull’area dei significati, oltre che sui pregiudizi
del terapeuta, della famiglia e del contesto allargato (Cecchin G, Lane G., Roy A., 1994 ).
Nonostante questa grande messe di contributi ormai verificati con ricerche sui processi e
sui risultati, continua ad essere predominante una lettura moralistica e individuale del problema tossicodipendenza (o alcooldipendenza) con conseguente proposta di intervento prevalentemente “da stigmatizzare socialmente o medicalizzare”. Tutti gli studi sui risultati dei trattamenti con pazienti tossicodipendenti hanno dimostrato l’utilità di un trattamento integrato dove
l’intervento farmacologico viene affiancato con una presa in carico della storia del cliente e del
contesto familiare. La ricerca recente ha rivelato che i trattamenti e interventi sistemici sulla
droga sono efficaci nel far uscire dal consumo i pazienti e soprattutto nel mantenerli in trattamento. L’indice di ritenzione in trattamento, vale a dire la percentuale di pazienti incontrati
che persistono ad essere seguiti dal servizio nel tempo, è l’indice più altamente correlato col
buon esito. Inoltre, i pazienti trattati soltanto individualmente o in mantenimento metadonico o
in psicoterapia o in una esperienza comunitaria, se il loro sistema familiare non cambia, hanno
alte probabilità di riassumere gli stessi ruoli che precedentemente hanno favorito l’instaurarsi
della tossicodipendenza. Vi sono ancora troppi casi in cui i trattamenti sono limitati al paziente, senza una lettura sistemica della tossicodipendenza con conseguente presa in carico della
storia familiare. Da ciò consegue che il cambiamento di un solo elemento del sistema, il tossicodipendente, avviene spesso in superficie come decondizionamento dal sintomo . Tale modificazione, però, non è sempre sufficiente a mettere in crisi i vecchi equilibri che hanno creato
quella sofferenza che ha consentito alla droga di assumere un significato fortemente anestetico
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(Lewis R., Piercy F., Sprenkle D., Treppert., 1991). Le stesse ricerche hanno ipotizzato che
l’abuso di droga può servire a mantenere insieme i genitori o a raggiungere l’obiettivo di far
interrompere un litigio tra loro, oppure a rimandare nel tempo la fase dolorosa e delicata dell’autonomizzazione e dell’individuazione adolescenziale. Allo stato delle conoscenze attuali
esistono quattro ben definite terapie familiari con importanti fondamenti sperimentali nel campo delle tossicodipendenze che sono :la terapia strutturale, strategica, funzionale e comportamentale. (Cirillo S., Berrini R., Cambiaso G., Mazza R., 1996 ) Esistono però evidenze cliniche che testimoniano che i tradizionali interventi strategico-strutturali e comportamentali sono
insufficienti qualora esistano serie difficoltà coniugali con comportamenti devianti dei figli
(Karoly e Rosenthal, 1977). Tali interventi infatti si limitano a realizzare modifiche che non
toccano la profondità dei significati e a dare senso ad avvenimenti storici come invece permettono il modello trigenerazionale, quello sistemico-cibernetico di M. White, il modello sistemico-costruttivista di Milano e l’approccio del “Reflecting team” (Cirillo S., Berrini r., Cambiaso G., Mazza R., 1996; Todd C., Selekman M., 1991; Parry A., Doan E.R., 1994).
MODELLO DI INTERVENTO
In merito all’efficacia degli interventi di terapia familiare si è passati da un tentativo di
confrontare i diversi modelli ,all’interesse di sapere non tanto “quale terapia è migliore delle
altre” in assoluto, ma piuttosto alla ricerca di modelli terapeutici più adatti e utili per un certo
contesto familiare in rapporto al suo stato motivazionale. L’integrazione del modello sistemico
con quello motivazionale che crea differenze in base al modo con cui la famiglia e il paziente
designato si posizionano in merito al problema della tossicodipendenza, appare una variabile
importante, specie in un contesto pubblico, per definire quali modelli di intervento possono
essere appropriati (Ulivi G., 1996). L’intento del nostro lavoro clinico è anche una ricercaintervento al fine di individuare quale tipo di modello è più appropriato, non solo in base alle
risorse della famiglia, ma anche in base alle problematiche diverse che si pongono a seconda
del problema presentato. La nostra ipotesi di partenza è che gli interventi strutturali strategici,
per esempio, siano utili per un rapido controllo del sintomo, mentre gli interventi sistemicocostruttivisti siano più adeguati in caso di ricadute o in storie cronicizzate ,mentre un lavoro
trigenerazionale sia più utile per elaborare una sofferenza su cui si può innestare un processo di
ricaduta. I nostri assunti di base li possiamo elencare così :
1.
Accento posto sul presente e sul futuro oltre che al passato.
In una fase iniziale di ingaggio della famiglia, il controllo del sintomo assume un significato
importante al fine di costruire un’ alleanza terapeutica che consenta in un secondo tempo, di
intervenire sulla storia familiare e arrivare pertanto alle radici della sofferenza. Gli orientamenti che leggono i giochi familiari e quelli che ipotizzano scenari futuri sono più utili per creare una motivazione del contesto.
2.
Scarsa importanza attribuita all’insight ; si ricorre invece a una ristrutturazione positiva
Anche questo assunto è importante per l’aggancio e le prime sedute. La ristrutturazione positiva consiste nel dare valore al sintomo e connotare positivamente il contesto come risorsa.
3.
Il miglioramento deriva da mutamenti interpersonali
La scomparsa del sintomo è breve e non definitiva se non si accompagna a mutamenti nel relazionarsi e percepirsi dei componenti del sistema familiare.
4.
I piccoli cambiamenti sono positivi. Nel procedere nel trattamento è importante enfatizzare i segnali di cambiamento anche se piccoli e gli ostacoli che vi si frappongono anche pregiudiziali.
5.
Sfruttare le risorse familiari
La famiglia è una risorsa, ogni presenza è importante per la raccolta di informazioni e per l’intervento che è mirato non solo sul paziente designato.
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6.
Sfruttare ciò che pragmaticamente dimostra di funzionare
É importante analizzare precedenti tentativi di soluzione al fine di non percorrere strade già
provate e inconcludenti, ogni storia ha un suo percorso che va costruito insieme alla famiglia e
all’équipe di supervisione sapendo cogliere i risultati pratici di certi interventi non sottovalutando la creatività della famiglia.
7.
Diminuire la complessità; sbrogliare la rete di figure assistenziali
Spesso esiste una confusione tra l’inviante, il committente e il cliente. Talvolta al servizio pubblico viene chiesta una funzione di controllo che rischia, se non riconosciuta e tenuta in considerazione, di invalidare od ostacolare il trattamento. Diversi servizi spesso lavorano sullo stesso caso, S.S.M., consultorio, SerT con compiti e obiettivi diversi. É importante quindi ripetutamente ridefinire le aspettative del cliente e della sua famiglia: compito cui deve assolvere la
terapia familiare al fine di tener chiari e distinti i diversi livelli in cui si opera.
8.
La terapia è relativamente a breve termine
La durata di un intervento è in media di dieci, dodici sedute a cadenza mensile. La risoluzione
del sintomo non determina la cessazione dell’intervento: occorre anzi continuare a seguire nel
tempo la famiglia con sedute bi o trimestrali per mantenere in trattamento il caso e per stabilizzare i cambiamenti avvenuti.
9.
Il terapeuta gioca un ruolo attivo
Si intende per “terapeuta “ tutta l’équipe che segue il caso e per “attività “ il terapeuta che,con
il suo stile particolare, conduce le sedute avendo in testa un progetto o ipotesi che fa da traccia
o matrice all’intervento. L’attività è più facilmente mantenuta con l’utilizzo dello specchio
unidirezionale e la supervisione diretta da parte di altri operatori.
10. Ogni soluzione è specifica per ciascuna famiglia
Intendiamo dire con questo che ogni percorso terapeutico costruisce una storia singolare
e unica che richiede la capacità di non fossilizzarsi dietro ad un’unica teoria ma la flessibilità
di usare quanto oggi abbiamo a disposizione che sia utile in quel momento specifico per quella
particolare famiglia. Riteniamo che tale approccio possa essere sufficiente come protocollo di
base per la generalità delle famiglie (senza una lunga storia di trattamenti falliti)che si presentano al nostro SerT, in quanto estremamente pragmatico, orientato al sintomo e in grado di attivare le risorse presenti piuttosto che indugiare sulla patologia con effetti di riduzione del rischio di cronicizzazione. Appare quindi il trattamento di elezione per i nuovi casi e per le situazioni in cui un adolescente consuma non solo eroina, ma anche le cosiddette “nuove droghe” tipo ecstasi e stimolanti dai minori (cannabis) ai maggiori (cocaina). Per le storie più
compromesse e con numerosi fallimenti e conseguente cronicizzazione (che sono quelle più
numerose e che appesantiscono i servizi pubblici) appaiono più indicati trattamenti di tipo sistemico-costruttivista e di tipo trigenerazionale. La popolazione che afferisce ad un servizio
pubblico che può avvalersi di una consulenza o una terapia familiare è estremamente variegata
e richiede quindi un intervento diversificato e il più adeguato possibile a seconda della storia,
dei tentativi di risoluzione precedentemente intrapresi, delle risorse familiari e della motivazione del paziente e della famiglia a mettersi in gioco. In linea di massima ipotizziamo di poter
distinguere i seguenti sottogruppi:
1.
Nuovi accessi col problema della cessazione del sintomo;
2.
Storie cronicizzate in trattamento col metadone;
3.
Storie che presentano una ricaduta dopo un periodo discreto di drug-free;
4.
Storie che, superato il sintomo, presentano problematiche relazionali e di reinserimento
sociale;
5.
Storie con adolescenti non ancora tossicodipendenti ma con comportamenti a rischio
(abbandono scolastico, fughe da casa, utilizzo occasionale di droghe minori, storie di abuso
sessuale o violenze);
6.
Coppie di genitori tossicodipendenti.
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É nostra convinzione che il lavoro avviato col contesto del paziente, sia utile se non è
avulso da quanto effettuato da altri operatori o servizi, in quanto è una risorsa in più
(diagnostica e di intervento) da offrire a tutti ,sia operatori che membri significativi della famiglia, che circondano il paziente secondo una visione sistemica del problema che crea il sistema. (Goolishian. H,Anderson H., Winderman L.,1986).
STRUMENTI E RISORSE UTILIZZATE
Il suddetto lavoro di ricerca -intervento si svolge presso la sede del SerT A.S.L. 4 Chiavarese di Sestri Levante ,dotata di Centro di Consulenza e Terapia Familiare con specchio unidirezionale e possibilità di videoregistrazione. L’équipe è formata dallo scrivente in qualità di
responsabile e da una équipe di psicologi e psicoterapeuti tra cui alcuni tirocinanti della Scuola
del Centro di Terapia della Famiglia di Milano di Boscolo L. e Cecchin G. e una volontaria con
formazione presso “ Il Nuovo Centro di Terapia della Famiglia” di Mara Selvini Palazzoni.
CONCLUSIONI
Considerata la variegata popolazione (per problematiche, motivazioni e risorse presentate) che si rivolge ad un servizio pubblico, ci sembra necessario che il primo compito di una
équipe di intervento familiare sia valutare le modalità più appropriate di attivazione delle risorse familiari e di aggancio terapeutico del paziente e del suo contesto (Ray A.W., KeeneY B.,
1993).
É anche importante riuscire a costruire un modello di intervento che permetta di definire
quali tecniche di conduzione delle sedute siano più adeguate alle diverse storie familiari, ai
precedenti tentativi di risoluzione e al ciclo vitale della famiglia: ciò servirebbe ad evitare la
cronicizzazione del problema e a superare il clima di rassegnazione e di sconfitta che le storie
con numerosi precedenti fallimenti ingenera nei pazienti e nei terapeuti stessi.
BIBLIOGRAFIA
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Karnac Books, London 1994.
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OBESITÀ, ANORESSIA, BULIMIA:
FACCE DIVERSE DI UN DISAGIO PSICOSOCIALE.
COME POSSONO I PENSIERI FAR INGRASSARE O DIMAGRIRE?
Si parla di obesità quando il sovrappeso supera di almeno il 20% il peso normale. Nella
società moderna è sempre più frequente vedere persone che superano abbondantemente il loro
peso forma, basti pensare agli Stati Uniti, dove lo slogan “grasso è bello” fa da triste consolazione a statistiche preoccupanti sulla diffusione del fenomeno. Non si tratta, infatti, solamente
di un problema estetico, ma piuttosto di una vera e propria malattia, che se non viene curata
può danneggiare cuore, arterie (soprattutto cerebrali), fegato, articolazioni, sistema endocrino e
respiratorio. Le conseguenze sono pesanti: aumenta fino al 70% rispetto alla popolazione normale il rischio di contrarre malattie come il diabete e la gotta, o di subire un infarto miocardico, di avere un ictus cerebrale, o lesioni articolari per il sovraccarico di peso. Ci rendiamo conto che queste notizie possono spaventare qualcuno, o sembrare eccessive esagerazioni per altri.
Non vogliamo fare né allarmismo, né rovinare il sapore della cena al buongustaio, ma solo evidenziare che l’obesità può diventare un problema serio. Purtroppo, spesso trascuriamo ciò che
sappiamo positivo e salutare per noi, e allo stesso tempo non evitiamo le cattive abitudini. Il
paradosso è che chi dovrebbe maggiormente ridurre il loro soprappeso, cioè le donne in menopausa e gli uomini di età matura, non se ne curano, considerandolo solo un inestetismo, mentre
i giovani possono problematizzare a tal punto la questione della loro immagine da farsene un’ossessione. Iniziano così le “diete fai da te”, con perdita - aumento continuo di peso, cosa che
aggrava il problema obesità su un piano strutturale, con diminuzione della massa proteica.
Quali le cause? Si tratta sicuramente di un fenomeno dove le cause genetiche ed ambientali si
intrecciano e si avvitano con modalità complesse, che coinvolgono aspetti sociali, fattori familiari, abitudini di vita, motivazioni psicologiche, stress situazionali, ecc. Sul piano psicologico,
va evidenziata la confusione tra bisogni diversi, dove stanchezza, malessere ed altre esigenze
vengono erroneamente sedate con il cibo, come se l’alimentazione potesse soddisfare ogni bisogno. Il cibo è associato, infatti, a sensazioni di sicurezza, soddisfazione, amore e piacere.
Vanno ricordate le cattive abitudini familiari, per cui la madre impara a rispondere col cibo ad
ogni pianto del bambino. Oppure, le reazioni individuali agli stress, per cui mangiare può compensare una affettività repressa, sostituire un’aggressività che non può essere espressa, consolare le piccole delusioni, fino a placare l’angoscia o la depressione. Su un piano sociale, è interessante evidenziare le differenze tra diverse culture. Se pensiamo alle civiltà orientali, storicamente sottoposte a lunghi periodi di povertà e carestia, possiamo trovare come perfetta rappre-
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sentazione del benessere e della felicità immagini come quella del Buddha, col suo aspetto solido e solenne. Al contrario, nella società occidentale, caratterizzata dall’abbondanza e dalla
ricchezza di ogni bene, l’immagine della perfezione è associata alla magrezza, che contiene
messaggi fuorvianti e ambigui, quali l’invito all’anoressia. Il Buddha, inoltre, è una trasfigurazione positiva della religione, “un grasso dell’animo”, mentre il magro del corpo nella nostra
società laica d’oggi è privo di connotazioni valoriali. Fino al dopo guerra, il magro e il grasso
avevano però significati diversi anche nel nostro vivere quotidiano: l’abbondanza era associata
ad un vero benessere, in contrasto con la fame sofferta negli anni precedenti. La modernizzazione nella nostra società ha portato ad abitudini nocive e talvolta autolesive. La terapia, viste
le cause multifattoriali, deve prevedere un trattamento multidisciplinare integrato, includendo
un dietologo, uno psicoterapeuta, un medico, nonché un aumento dell’attività fisica. La terapia
farmacologica può essere un aiuto temporaneo, un facilitatore, che certo non può cambiare le
abitudini e i “pensieri” che fanno ingrassare. Va segnalato inoltre l’importanza di un’attività di
terapia gruppale, che permette ai singoli di confrontarsi con altre persone aventi lo stesso problema, e che può dare un sostegno al progetto individuale, alleviando il peso dei sensi di colpa
e l’ansia connessa al difficile compito di modificare abitudini amate/odiate. Un compito difficile ma possibile.
Dott.ssa B. Rossi, psicologa e psicoterapeuta
Dott. E. Coppola, psichiatra e psicoterapeuta
QUANDO LA TAVOLA DIVENTA UNA TRINCEA: L’ANORESSIA
“Ho iniziato a dimagrire, poi ho visto che era facile, che ci riuscivo e ho continuato. Sono arrivata a pesare 35 kg., e stavo bene…. Io non me ne rendevo conto, ma ho rischiato di
perdere il mio ragazzo, che per me era importante. Lui diceva che ero troppo magra, che stavo
male. É allora che ho deciso di farmi curare”. Peccato che non sia ancora consapevole che stava per perdere la vita! É una delle tante storie di ragazze che sta cercando di uscire dal tunnel
dell’anoressia, una malattia di cui si parla tanto al giorno d’oggi. Una malattia moderna tra
l’altro, influenzata dai mass media, che propongono un’immagine di ragazza sempre giovane,
magra, bellissima e affascinante. Una malattia della nostra società, inoltre, perché in Africa o
in Asia, ad esempio, è troppo magro chi non ha da mangiare, richiamando così l’idea della
morte. Un’immagine sconcertante quindi quella dell’anoressica, che rimanda a vari conflitti e
contraddizioni difficili da conciliare e talora impossibili, nonché ad un’origine che si perde
nella notte dei tempi, nell’origine della giovinezza. Quel che si vede di lei è il conflitto che si
gioca sul tavolo della cucina, divenuto trincea, per un chicco di riso. In gioco c’è ben altro, che
non si vede. Il risultato della lotta clandestina è un corpo vuoto, piatto, senza forme e senza
emozioni, ma che si espande terribilmente nello specchio interno deformante, diventando un
corpo troppo vasto per i parametri soggettivi. La magrezza non è mai “sufficientemente adeguata” alle aspettative di chi ha questo problema, non basta mai. “Sono troppo grassa!”,
“guarda che pancia che ho!”, “come mi tira la pancia!” sono i commenti delle ragazze anoressiche di fronte a un corpo visibilmente ormai appiattito. Inutili sono anche i commenti abituali
che si fanno: “ma dov’è la pancia, che non si vede?!”, affermazioni che vengono vissute come
formali, come un gesto di convenienza senza grandi significati. L’unica emozione che esce è la
rabbia, ma senza la possibilità di capire ciò che fa davvero arrabbiare, che resta misterioso. Per
ragazze che non hanno una chiara immagine di sé, l’immagine proposta dai mass media diven-
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ta uno scenario importante, che sembra vincente: la conquista di un corpo splendidamente magro che diventa però una larva. Il cibo viene così sacrificato per uscire da una situazione di
impotenza con un senso eroico di vittoria. Ma l’anoressia finisce per rendere passivi, impotenti
e colpevoli gli altri. Il conflitto invisibile che si gioca dentro di lei, infatti, è un conflitto educativo, tra genitori / coi genitori / dei genitori coi nonni / del senso delle regole / tra dovere e piacere, lasciando segreto il luogo dei desideri e della sofferenza. Non ci sono nelle ragazze/i anoressiche sogni, desideri, speranze proprie, se non i sogni e le speranze prese a prestito dagli
altri. É importante sapere che questo problema va curato, che non va lasciato morire. L’anoressica, con questo suo corpo asciutto segnala una grande solitaria sofferenza, che può comunicare solo tramite il corpo, potendo esplicitare solo il suo desiderio di compiacere gli altri. Tutti
hanno il diritto al benessere della psiche e del corpo. Ricordiamo a questo proposito che in
trincea ci sono già professionisti che insieme ai genitori stanno affrontando il problema. Un
percorso già presente, in particolare è il gruppo DCA di Reggio Emilia. Essendo un problema
complesso, quello dell’anoressia, può essere risolto solo se affrontato nella sua complessità. É
per questo che i genitori vengono invitati a partecipare ad un gruppo di lavoro, parallelo al
gruppo terapeutico delle ragazze/i anoressiche, e/o alla psicoterapia individuale. La terapia non
può che essere integrata, tra medico e psicologo, tra farmaci e lavoro psicologico, tra mente e
corpo, tra ambiente interno ed esterno. Tutto è finalizzato ad una rinascita dell’uno e dell’altro,
mente e corpo, in un sé completo. Restiamo comunque disponibili a riparlarne.
Dott.ssa B. Rossi, psicologa e psicoterapeuta
Dott. E. Coppola, psichiatra e psicoterapeuta
Bellezza e dieta sì, ma…
Non solo con l’avvicinarsi della bella stagione, ma ormai durante tutto l’anno, si presenta insistente su giornali e riviste, in trasmissioni televisive e conversazioni salottiere, il “problema”
del corpo, questo involucro, più o meno interessante, che tante soddisfazioni – ma anche tanti
grattacapi – può darci, almeno a quelli tra noi ben consapevoli di non essere costituiti solo da
puro spirito. Si susseguono, in genere nella solitudine discreta delle camere da letto, masochistici e spietati esami davanti allo specchio di signorine, signore (ed anche signori!), alla continua ricerca di quel rotolino, di quel cuscinetto, ben nascosti e mimetizzati sotto i pesanti abiti
invernali, ma pronti a balzare fuori dal costume da bagno o da un abito più leggero e aderente.
Se la ricerca ha un esito infausto, nella maggior parte dei casi è sufficiente, superato lo shock,
mettersi di buona lena a pedalare un po’ sulla cyclette, rinunciare a qualche dolce o a qualche
aperitivo, spalmarsi con una piacevole e profumata crema di bellezza, e… aspettare il miracolo! Chi ha qualche problema un po’ più serio, farebbe bene ad evitare il fai-da-te e ad affidarsi
ad un buon dietologo. Dimagrirà forse più lentamente, ma ne guadagnerà in salute e… buonumore. Senza contare il fatto che ad un dimagrimento troppo rapido, segue immancabilmente il
recupero altrettanto rapido dei chili perduti. Quindi, un po’ di pazienza, e i risultati saranno
ottimi. Tutto questo però non ha nulla a che fare con l’anoressia. Tra il naturale desiderio di
essere - e apparire! - in piena forma, e la pervadente idea che il proprio corpo non sia mai abbastanza bello, magro, filiforme, c’è di mezzo quella sottilissima, a volte difficilmente percepibile, linea che separa la normalità dalla patologia. Ma proprio questa somiglianza con comportamenti molto diffusi e in definitiva sani, fa sì che l’anoressia venga spesso sottovalutata o misconosciuta. L’anoressia nervosa è un disturbo del comportamento alimentare che insorge in
modo subdolo e, se non curata correttamente, può gradualmente portare a conseguenze anche
gravissime. Colpisce adolescenti e preadolescenti (più raramente interessa gli adulti) in preva-
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lenza femmine, ma i maschi non ne sono esenti ed il loro numero è in aumento. É necessario
pertanto saperne cogliere i primissimi segnali. Ed ovviamente sono i genitori chiamati a porre
attenzione a questi segnali; ma anche i nonni, gli insegnanti, e tutti gli adulti che ruotano intorno ai giovanissimi, dovrebbero essere capaci di riconoscere, e segnalare, alcuni comportamenti
che potrebbero preludere all’anoressia. Spesso è il pediatra o il medico di famiglia il primo ad
interpretare correttamente certi segnali, sempre che ne sia messo al corrente - il medico di famiglia non vive a casa nostra - e consultato (la buona medicina si fonda sulla collaborazione
medico-paziente). Quindi, se vostra figlia (o figlio), o nipote, o studente:
• presenta un crescente interesse ed un’eccessiva attenzione al proprio peso, alla propria figura,
alla propria alimentazione,
• se, pur avendo un peso adeguato all’età e all’altezza, comincia a lamentarsi di essere grassa/
o, e a parlare della necessità di mettersi a dieta,
• se comincia ad eliminare dai propri pasti alcuni alimenti, ritenuti particolarmente calorici, o
comincia a saltare i pasti, o ad evitare di mangiare insieme agli altri,
• se il suo umore, e le sue attività dipendono troppo da come percepisce il suo aspetto fisico,
• se dedica troppo tempo ad attività fisiche molto stancanti, al fine di consumare calorie…:
è il momento di porsi in uno stato di osservazione attenta e discreta, che non significa allarme,
ed essere pronti, se questi segnali peggiorano o persistono più di qualche settimana, a consultare degli specialisti per chiedere consigli sul comportamento da adottare. É bene non aspettare
troppo, ma neppure fare passi avventati. L’anoressia nervosa è una malattia seria che, una volta
instaurata, richiede l’intervento di équipe multidisciplinari, ed esistono ormai numerosi centri
specializzati, pubblici e privati, in quasi tutte le città principali, a cui è consigliabile rivolgersi
fin dall’inizio, anche solo per ottenere informazioni o rassicurazioni. Esistono inoltre numerose
associazioni (reperibili anche su Internet) la cui finalità è appunto quella di sensibilizzare e
allertare i genitori – ma non solo loro - su questo problema. Un ultimo avvertimento riguarda
quei comportamenti opposti al rifiuto di mangiare in modo sufficiente, rappresentati da un’eccessiva attrazione per il cibo o per alcuni cibi, grandi abbuffate, incapacità di limitarsi, con un
apparente disinteresse per le conseguenze sull’estetica o sulla salute - bulimia - o ancora un’alternanza tra i due opposti comportamenti. Anche questi possono essere segnali dello stesso
problema, l’altra faccia di una stessa medaglia.
Vale la pena di ripetere che è importante non minimizzare: per questi, come per altri
disturbi, la possibilità di venirne fuori è tanto più grande, quanto più precocemente si inizia un
intervento.
Dott.ssa Paola Locci
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