rubriche recensioni live interviste - Figure B

NUMERO 47 | ESTATE 2014 | COPIA GRATUITA | WWW.BEAUTIFULFREAKS.ORG
INTERVISTE
LIVE
RECENSIONI
RUBRICHE
Sommario
INTERVISTE
4 Pierpaolo Capovilla
7 Samaris
CONCERTI
9 Deafheaven
RECENSIONI
10 Full Length
32 EP
RUBRICHE
34 L’opinione dell’incompetente
35 Trentatre giri di piacere
36 Chi l’ha visti?
LE RECENSIONI
The Gentlemen’s Agreement | Pierpaolo Capovilla | Med Free Orkestra | Moro & The Silent Revolution |
Egg Hell | Moheir | Eusebio Martinelli & The Gipsy Abarth Orkestar | Vessel | Jamie Saft, Steve Swallow,
Bobby Previte | Sin/Cos | I Quartieri | Nicola Sartori | Toxydoll | Katres | G-Fast | Niggaradio | Alessandro
Fiori | Luca Poletti Trio | Electric Litany | Medulla | Dan Sartian | Yellow Moor | Evacalls | Le Fate Sono
Morte | Rego Silenta | Fonokit | Alfabox | Alteria | Peculiaroso | The Nuv | Adam Carpet | Sj Esau | The
Gluts | Peregrines | Cosmic Box | Hartal! | Madaus ||| Il Rumore Della Tregua | L’Orso | Voltaicore |
Gambardellas //
BEAUTIFUL FREAKS
Sito web: www.beautifulfreaks.org E-mail: [email protected]
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Direttore editoriale: Andrea Piazza
Caporedattore: Agostino Melillo
Direttore responsabile: Mario De Gregorio
Redazione: Maruska Pesce, Marco Mazzinga, Marco Petrelli, Fabrizio Papitto, Vincenzo Pugliano,
Pablo Sfirri, Bernando Mattioni, Anthony Ettorre, Lorenzo Briotti, Rubby.
Hanno collaborato: Alesiton, Alberto Sartore, Ciceruacchio, Luca James, Marica Lancellotti, Antonia
Genco, G. Montag, Andrea Plasma, Piergiorgio Castaldi, Alesiton, Faber Pallotta, Zephyr Brüggen,
Marco Balzola, Daniela Fabozzi, Andrea Schirru, Giacomo Salis, Alberto Giusti, Francesco Angius. Un
ringraziamento particolare a Marco M. Le illustrazioni sono di Aenis (www.aenisart.com), a destra il
QR-Code per il suo sito, mentre infine i fotomontaggi calcistici sono di Andrea Piazza.
Beautiful Freaks è una testata edita da Associazione Culturale Hallercaul
registrazione al Roc n° 22995
editoriale
Beautiful Freaks lancia un appello ai mecenati inconsapevoli del proprio futuro.
Dopo tanti anni alla fine mi hanno convinto. Sì, i calciatori sono artisti.
Le traiettorie spettacolari che possono imprimere al pallone, la coralità dello schema di
un’azione pari alla coreografia di una danza, e gli stadi, a detta di qualcuno equiparabili a
teatri o cinema... E il seguito popolare, e le grida degli spettatori dal loggione (oggi curva sud
o nord) contro gli attori fra gli sguardi di disappunto della società bene in galleria centrale
(tribuna vip), e gli scambi di opinione a fine spettacolo nei bar... è il calcio-spettacolo.
Le Olimpiadi moderne di De Coubertin e i Mondiali di calcio sono datati soltanto 1906 e
1930. Prima l’intrattenimento popolare per eccellenza erano i teatri, con rappresentazioni
di fattacci e di sangue, di cappa e di spada. Ebbene, dobbiamo ammetterlo, il calcio è l’erede
dell’arte musicale e performativa in questo ruolo ludico per le masse.
Del resto anche i versamenti all’ex istituto previdenziale Enpals (Ente nazionale di previdenza
e assistenza per i lavoratori dello spettacolo) parlavano chiaro… Sono artisti anche i calciatori,
artisti che contano: con uno sponsor oculato possono non avere spese nel corso della loro
carriera e, impossibile non notarlo, hanno in molti casi stipendi milionari. Per non parlare dei
loro TFR! Così i calciatori al termine della loro carriera artistica si riscoprono imprenditori in
virtù dei loro guadagni, e per giunta imprenditori giovani e giovanili, ciò di cui lamentiamo
piangendone la mancanza in Italia. Il settore che prediligono è l’ abbigliamento, forse
reminescenza o consiglio di qualche showgirl frequentata in passato, dediti a riesumare
marchi famosi ma decaduti, come Buffon e il suo progetto di rilancio di Bassetti, oppure
la ristorazione, vedi il Rossopomodoro di Cannavaro e il ristorante stellato di Tassotti e
Donadoni, o come Gattuso e la sua pescheria di Gallarate.
Qualcuno di meno fantasioso ha cercato di reinvestire finanziando calciatori ancora in
attività, suggerendo loro, come il regista fa con i suoi attori, come dovesse svolgersi la
performance (o partita) calcistica, indicando loro esattamente l’happy ending (o risultato
finale)... operazione volgarmente detta combine, o truccare le partite... una grande recita
davanti a tanti spettatori ignari. Avanguardia teatrale, se fosse in teatro.. calcioscommesse,
su un campo di calcio. E come i più grandi artisti, qualcuno è finito in galera per aver
sperimentato un dispositivo narrativo fuori dalla norma, anzi fuori legge, ottenendo per
giunta il patrocinio della malavita di Singapore... Signori del coup de théatre a fini di lucro.
Eccoli dunque, gli imprenditori giovani, giovanili, orientati al trend (ultime tendenze, per
chi avesse letto il nostro precedente editoriale) e per di più con alle spalle una carriera
(sic!) totalmente artistica e la voglia di reinvestire il proprio gruzzolone, per dare senso al
precoce pensionamento, per nuova ambizione o per ripulirsi nelle acque della filantropia e
dell’imprenditoria illuminata la fama da sportivo incolto e compiere il salto dentro l’élite
nazionale. Ed è per questo che Beautiful Freaks lancia a loro questo appello.
A Pirlo aspirante turnista nei Marlene Kuntz - con quella barba -, a Florenzi e il suo taglio di
capelli in stile Till Lindermann dei Rammstein, o Balotelli accreditato cantante della Piccola
Orchestra di Tor Pignattara.
Ci rivolgiamo a questi imprenditori di oggi ma inconsapevoli del proprio futuro. Voi. Regalateci
una piattaforma di crowdfunding che funzioni! Finanziate i progetti artistici, musicali,
indipendenti.
Andrea Piazza
BF
PIERPAOLO CAPOVILLA
In concomitanza dell’uscita del suo ultimo lavoro ‘Obtorto Collo’, recensito su questo numero
di Beautiful Freaks, ne approfittiamo per fare il punto con il frontman del Teatro degli Orrori
su ciò che resiste e a che prezzo.
Vorrei ripartire dall’ultima volta che ti ho
visto: parco San Sebastiano, Roma, 25 Aprile.
Giornata in difesa e sostegno dell’Angelo Mai
e globalmente di molto altro. “È indispensabile
essere liberi’, recitava lo slogan dell’iniziativa,
ma quanta burocrazia e affanno ostacolano
la nostra ricerca di libertà? Perchè prevale
l’ostruzionismo delle autorità nei confronti di
luoghi come l’Angelo Mai?
PP: C’è un problema, serissimo, di distanza
fra società politica e società civile. Lessi che il
sindaco Marino neppure sapeva dell’esistenza
dell’Angelo Mai, o almeno così si giustificò… Da
non crederci. Nel Partito Democratico romano
serpeggia un sentimento di sufficienza e disprezzo anche nei confronti del Teatro Valle. I politici
non comprendono più la società, quasi come non
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li riguardasse. Angelo Mai e Teatro Valle sono
laboratori culturali e artistici, gestiti autonomamente, perfettamente e orgogliosamente al di
fuori dell’establisment. Qualsiasi amministrazione di una capitale europea si guarderebbe
bene dal non valorizzare le forze e i desideri di
artisti e attivisti capaci di fare cose belle e significative anche al di fuori delle anguste regole che
dominano la produzione culturale. Ma tant’è …
Siamo in Italia.
Di contro, per Casapound si paventavano, in
tempi non sospetti, finanziamenti e supporto
per il restyling degli stabili. La demagogia di
questo ‘partito’ non dovrebbe corrispondere a
qualcosa di anticostituzionale? Che succede?
PP: Di quale partito parli? Del PD? … Se fosse il
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BF PD non mi stupirei. Ma immagino fosse un’idea di
Alemanno, il campione degli “amici degli amici”,
dell’inadeguatezza, del fare tanto per fare, tanto
domani è un altro giorno … Temo non ci sia nulla
di anticostituzionale: c’è semplicemente una
grande, abnorme stupidità di fondo.
Ma cosa intendi per “egocentrismo domiciliare”?
Se parliamo di quel fenomeno sociale ormai così
ben osservabile, di ragazzi che si rinchiudono in
casa a chattare per ore e ore, credendosi in questo
modo al centro di qualcosa, allora la definizione è
davvero azzeccata.
Stop Politik. Mi voglio
collegare ad un frammento di un’intervista
di Salmo (rapper sardo,
se conosci): “internet ha
salvato noi provinciali
isolati”, il virgolettato
uscito su Repubblica. Tu
che uso fai di internet?
E soprattutto, questa
internet di social network e patine e apprezzamenti fasulli, disgrega o unisce le masse?
PP: Le disgrega, mi sembra evidente.
Non me ne voglia il buon
Salmo. È certamente
vero che i social network
possano essere uno strumento utile per uscire
dall’anonimato, per interloquire con più persone, per scambiarsi idee
e progetti, per “fare”
qualcosa di significativo.
Ma ormai è evidente
che FaceBook o Twitter
o quant’altro siano mezzi che coincidono con il
messaggio. È lo stesso identico problema di cui
scriveva Mcluhan negli anni sessanta. Sono mezzi
potenti di cooptazione, manipolazione politica,
eterodirezione e sovraordinamento sociale. Sono
più perigliosi della televisione degli anni ottanta.
Leggo ogni giorno pensieri ed intere esperienze
di vita postate senza
pudore sulle pagine di
Facebook, ma sono convinto che si scriva più per
l’influenza esercitata dal
mezzo, che per ispirazione. È un sistema stranamente meritocratico,
questo dà più visibilità a
chi più è attivo. Quanto
è importante essere attivi là sopra?
PP: Perdonami … Meritocratico in che senso?
Nel senso che più ci sono
e più mi si vede?
E che diavolo di merito
sarebbe questo?
Stiamo confondendo il
merito con il successo, la
visibilità sociale. Niente
di più sbagliato. Oggi
come oggi il successo,
nella società, nel lavoro,
persino nella famiglia,
non è che il frutto velenoso di un’ideologia del dominio che invade ogni
aspetto delle nostre vite: da quella pubblica (o
pretesa pubblica) a quella privata: entra nelle
nostre relazioni sociali più intime e ne condiziona
lo sviluppo, giorno dopo giorno. Pervade il nostro
presente e ci ruba il futuro.
Quindi era più o meno facile ‘salvarsi’ dalla provincia nel mondo 1.0?
PP: Si salvi chi può!
Che poi tutto si risolve in un chiacchiericcio
digitale, in un pettegolezzo a mezzo video. Ma
leggere libri è troppo poco social, si attinge
direttamente alla sintesi degli aforismi per
apparire alternativi. Quali sono le tue letture
preferite? Cosa pensi degli e-book?
PP: Secondo me il problema vero posto
dall’irrompere dei social network è inerente il
linguaggio e l’uso che facciamo delle parole. C’è
una impulsività-compulsività di fondo che rende
Perchè la provincia spaventa i giovani, è solo un
lamento occupazionale oppure è un altra mania
di egocentrismo, però domiciliare? In capitale
si è davvero più ‘al centro’ di qualcosa?
PP: La provincia italiana è sempre stata marginalizzante. Così come le periferie delle grandi città.
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l’interlocuzione così veloce da vanificarne il senso: ognuno desidera dire la propria nel modo più
rapido possibile. Eccolo qui il “mezzo” che domina
il “messaggio”: il soggetto desidera esserci, innanzitutto. La riflessione, l’analisi, e con esse la
dialettica, passano in secondo piano, nel segno
dell’apparizione, dello sfoggio di se. E per meglio “apparire”, tanto vale provocare … funziona,
altro ché!
Riavvolgo tutto alla prima volta che ti ho visto,
con il Teatro degli Orrori live all‘Orion. (http://
www.beautifulfreaks.org/online/2012/12/
teatro-orrori-orion/). Eri un diavolo, concedimelo, un’esibizione potente, che mi ha coinvolto, affascinato, stimolato alla riflessione.
Ascoltando il tuo nuovo disco “Obtorto Collo”
mi chiedo come ti approccerai alle nuove esibizioni, senza la ‘vis’ furiosa del tuo gruppo.
PP Il concerto di Obtorto Collo vede sul palcoscenico musicisti provenienti da esperienze diverse
e molto lontane fra loro. Dal jazz all’avanguardia,
dal rock all’afro-beat. È uno spettacolo intimo ed
avvolgente, molto diverso da quello de Il Teatro
degli Orrori. E non potrebbe essere altrimenti.
Sotto il punto di vista narrativo, invece, credo
di essere riuscito ad approfondire i temi che da
sempre mi stanno più a cuore. Le contraddizioni
sociali, le ingiustizie, gli emarginati, gli ultimi.
Di quella prima volta, ricordo con particolare
incanto l’introduzione/narrazione di ‘Ion’. Perchè parlare dei mister nessuno?
PP: Perché dietro alla storia dell’omicidio di quel
brav’uomo che era Ion Cazacu, ci siamo noi, c’è la
nostra indifferenza, vera e propria cifra del vivere
contemporaneo. In Obtorto Collo c’è una storia
simile, tragica e assurda come quella di Ion. La racconto nella canzone Ottantadue Ore, che narra
della morte di Francesco Mastrogiovanni, “crocefisso” ad un letto di contenzione dall’allucinante
indifferenza di medici e infermieri. È una storia
nera, scura, grottesca, e assolutamente vera, dolorosa e purtroppo paradigmatica.
Com’è stato viaggiare in maniera autonoma
ed indipendente dal gruppo verso “Obtorto
Collo”? Effettivamente è stata una navigazione autonoma ed indipendente, o era meglio
quando eri indipendente (dalle etichette)?
PP: Io sono un artista indipendente tout-court. Il
fatto che il mio disco solista esca per una major
non significa niente. È stato il gruppo stesso a spingermi verso quest’avventura! Per me Il Teatro
degli Orrori resta comunque prioritario.
Il tuo vino preferito e perchè. Ti stimo, a presto.
PP: Amo i vini bianchi del Collio, un fazzoletto di
terra carsica nel Friuli. In particolare il Sauvignon.
È un vino “luminoso”, perfetto per un’ebrezza
scanzonata e conviviale.
Nel buon vino c’è la storia e il lavoro della gente,
l’amore per la terra, per le cose buone, per la
voglia di stare insieme.
A cura di Pablo Sfirri
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BF Samaris
Mentre il gruppo sta mangiando una pizza pre-concerto a Roma, Beautiful Freaks sfrutta
l’occasione di parlare dell’ italo-disco, ‘emotional techno’, scogliere di seta, e la loro bella
Islanda.
Samaris, un gruppo con un arrangiamento
strumentale interessante, è composto
dal cantante Jófríður Ákadóttir, il clarinettista Aslaug Magnúsdóttir e Þórður
Kári Steinþórsson alla parte elettronica.
Il gruppo, che esiste da 2011, è giovane,
come i suoi membri. Aslaug e Þórður si conoscono da quando avevano sei anni. Aslaug
e Jófríður, invece, si sono incontrati alla
scuola di musica. Le due ragazze, ci dicono,
volevano fare ‘qualcosa di diverso’ invece
di studiare Mozart, e iniziare a creare.
“Allora abbiamo contattato Þórður, perché
sapevamo che lui era bravo a fare i remix.”
Þórður: “Io in quel periodo ascoltavo soltanto rock – soprattutto
The Doors. E sarei
diventato
omosessuale per Jim Morrison. Però, ad un certo
punto, il mio periodo
rock si è sviluppato
in un fase italo-disco,
che, a proposito, non
ho ancora sentito qui
in Italia!”
Aslaug: “Oh, ma allora che era quella
musica di ieri sera?”
Þórður: “Beh, eravamo in discoteca, ed
eravamo in Italia, ma
non era italo-disco”.
Aslaug dice che è “probabilmente solo grazie alla fortuna” che fanno già così tanti
tour in Europa.
“Abbiamo firmato un buon contratto discografico, con la One Little Indian Records a
Londra.”
Jófríður non è d’accordo, con aria sognante: “No... penso che sia perché facciamo quello che ci piace, perché lo vogliamo
condividere con gli altri. Siamo dove siamo
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perché vogliamo farlo.”
Che cosa ci possono raccontare su Silkidrangar (che significa ‘Scogliere di seta’), il
loro nuovo e secondo album che è uscito
questo maggio?
“Il primo album è stato ‘solo’ una combinazione di due EP che abbiamo registrato allo
studio di Sigur Rós e che abbiamo rilasciato
dopo aver vinto il concorso musicale Músíktilraunir nel 2011. Silkidrangar è un album più ‘composto’. Ciò che rende diverso
quest’album rispetto al primo è il fatto che
le canzoni su Silkidrangar erano già registrate l’anno scorso.
Il gruppo non era
soddisfatto. Sono
tre
perfezionisti, potete starne
certi!
“Abbiamo trascorso
un anno facendo le
ri-registrazioni fino
a quando siamo finalmente rimasti
soddisfatti,”
ci dice Þórður.
Naturalmente,
vogliamo
anche
sentire
tutti
i
dettagli piccanti
della loro vita
all’interno
della
band. Come funziona la trialettica del
gruppo?
Jófríður: “Ovviamente abbiamo tutti diversi
background, diverse preferenze musicali,
quindi ciascuno porta la propria influenza
sulla nostra musica. Non c’è assolutamente
un leader del gruppo. Questa è una band,
una conversazione, una cosa che cresce continuamente. Ci vuole un pò di fine-tuning,
alcuni esperimenti, ma alla fine siamo tutti
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uguali.”
Þórður: “Penso che sia questa la magia. Io
non avrei mai fatto questo tipo di musica, se
non fosse per gli altri.”
“Ed io sicuramente non avrei suonato il clarinetto elettronico!” esclama Áslaug.
I testi di Jófríður, manipolati sul palco in
un processo creativo diretto dal pannello
di controllo dell’Ableton di Þórður, hanno
un suono ancora più inquietante. Tutti i
testi dei Samaris sono poesie romantiche
islandesi del 19° secolo.
Jófríður: “Parlano della natura, il dramma,
sono descrizioni di cose belle! Noi descriviamo il nostro proprio ‘genre’ sempre come
‘emotional techno’ per questo.”
Utilizzando la poesia del 19° secolo, la
giovane band ha trovato un ottimo modo
di piacere a tutte le generazioni.
“I nostri nonni conoscono tutte le poesie islandesi di cuore. E i giovani si sono, a quanto
pare, affascinati alla nostra musica. Queste
poesie sono sempre state cantate da cori
maschili. È così strano sentire la versione
originale delle poesie dopo che le abbiamo
usate nella nostra musica! Assumono un significato completamente diverso nelle due
diverse situazioni!”
Se si sentono molto islandese nella loro
musica?
Jófríður dice che le piace cantare nella
propria lingua. “L’Islandese è una lingua con
molta enfasi sui suoni, come per esempio
‘rrr’ e ‘’hhh’. Penso che questo si adatti molto
alla nostra musica, perché la lingua, come la
nostra musica, può essere molto ruvida.”
Þórður aggiunge che crede “Che il leitmotiv
della natura nella nostra musica è probabilmente nella nostra natura interna”,
ma Aslaug risponde con un sarcastico “Oh
dai, non esageriamo! Non stiamo suonando
sui geyser come le streghe.”
Quindi, Samaris, volevate fare ‘qualcosa di
diverso’ eh? Ci siete riusciti. Il vostro sound
è straordinario, per non dire altro. La vostra
musica atmosferica e misteriosa mi ricorda
d’immagini di elfi nelle foreste e ninfe che
giocano sulle rive del mare nei pressi della
vostra Reykjavik. Direi che non sono ninfe e
folletti molto simpatici. Forse la parola ‘sirene’ sarebbe più appropriata.
Questi tre giovani dovrebbero essere presi
veramente sul serio nella scena musicale
d’atmosfera. Hanno già un suono molto
autentico e raffinato: l’unica cosa a cui devono stare attenti è di non diventare semplicemente noiosi. Il loro sentimento di nostalgia
e di magia può sembrare un po’ artificiale,
e dopo un po’ tutte le canzoni sembrano le
stesse, un fenomeno diffuso nella musica
d’atmosfera. Adesso tutti e tre dicono che
vogliono volare più in alto: la loro amata
Islanda è un’isola abbastanza ristretta. Si
spanderanno le ali, diventeranno delle sirene e incanteranno il mondo!
a cura di Zephyr Brüggen
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BF DEAFHEAVEN + DREARINESS
+ TOMYDEEPESTEGO
Live @ TRAFFIC, Roma 04/06/2014
Ogni superlativo cambiamento di rotta di qualsivoglia sonorità ha sempre provocato inebrianti corto
circuiti tanto da creare sperimentali isole di creatività, troppo spesso oscurate da un’asfittica e prolifica
realtà produttiva.
I Deafheaven provengono dagli Stati Uniti, più precisamente da San Francisco in California. I Deafheaven
non sono una black metal band e non suonano neanche post-rock o shoegaze. Non sono quello che si
legge in giro.
O meglio: non sono solo tutto questo. Sono qualcos’altro.
Quasi un anno prima della mia presenza al live dei Deafheaven al Traffic ricordo di essere rimasto
inchiodato all’ascolto di “Sunbather”, il loro secondo album uscito per la Deathwish nel 2013, per
quasi due settimane ininterrotte. La sensazione era quella di essere stato illuminato da un ascolto
non solo innovativo, ma straziante in modo vibrante e perpetuo nella sua oscura bellezza. Lo credo
sobriamente. I Deafheaven sono tra le rock band contemporanee più significative.
Ritrovarmi catapultato davanti al palcoscenico di uno dei più indipendenti e puri spazi live della capitale,
ad aspettare l’arrivo dei Deafheaven è stato come recarmi alla mia mia personale mecca. In generale
è stata la riprova della straordinaria efficacia del sound della band. Ma per essere analitico direi che
l’attitudine live del quartetto è, di fatto, straordinariamente insolita. O meglio la propensione è postpunk e il carisma “epilettico” del vocalist George Clarke ne è la prova (performer a metà strada tra Ian
Curtis e Milan Fras dei Laibach). Parlo della performance “fisica”... perché la graffiante e stridula voce di
oscurissimo stampo nordico completa le peculiarità del cantante che, nonostante richiami la principale
espressione vocale del black metal più oscuro, richiama piuttosto un’esasperazione “screamo” più
vicina a certo post hardcore... Ma l’analisi del “centro vocale” (anima e corpo) dei Deafheaven è solo
una piccola parte della loro essenza. (Un preludio a questa riflessione è anche la scelta grafica del loro
ultimo album dai gusto smaccatamente post-punk... da primi anni ottanta!)
I Deafheaven suonano quindi un incendiario (post)post-rock, avvolgente anche nella saturazione
dei momenti più epici. L’impatto è contro un muro di suono che sin dal brano di apertura del live
cattura e stordisce con la superlativa “Dreamhouse”, che efficacemente apre anche il loro lavoro in
studio. Estrema maturità espressiva priva di sbavature, emozionalità che penetra attraverso dilatati
sentieri strumentali. Tra melodiosi arpeggi e sinuosi arrangiamenti l’abisso assume nuove sfumature.
La “drammaturgia” dei loro brani resta nei toni di una voce esasperata e, grazie al supremo lavoro di
Daniel Tracy alla batteria, il miracolo della dannazione ha luogo. Imponente il suono dei Deafheaven,
dirompente e magistralmente violento ma allo stesso tempo una sorta di mantra infernale da cui, una
volta avvinghiati, è impossibile liberarsi. Un’esperienza intensa non difficile da dimenticare. Sognanti,
malinconici, introspettivi, i Deafheaven si rivelano anche attraverso il loro pubblico, quanto mai
eterogeneo a riconferma che qualsiasi etichetta va stretta ai nuovi poeti dell’apocalisse interiore.
A scaldare il palcoscenico prima del “paradiso assordante”, ci hanno pensato prima i romani Dreariness,
convincente Blackgaze Black Metal crepuscolare, fronteggiata da una giovane ma matura voce
femminile. A seguire i grandi Tomydeepestego che con il loro universo post-rock/metal/hardcore
hanno scandito il tempo fino al rigoroso arrivo dei magniloquenti headliner.
A cura di Anthony Ettorre
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The Gentlemen’s Agreement
APOCALYPSE TOWN
Subcava Sonora, 2014
I napoletani Gentlemen’s Agreement ci hanno in passato sorpreso con
poetica country di racconti rurali (Let me be a child) e una personalissima
interiorizzazione della cultura brasiliana (Carcarà). Ora condensano
l’eclettismo e il talento dimostrato al servizio di un progetto ampio e
articolato, ben compiuto in tutte le sue fasi. Partiamo dalla fisicità del
prodotto discografico. Una vite con un bullone tiene chiusa la bianca
custodia di cartone pesante. “Un oggetto di arredamento unico che
contiene un disco eccezionale”. Non certo un lavoro fine a se stesso. Il concept grafico è l’involucro
esterno di una narrazione testuale e musicale che scorre lungo le 14 tracce delineando una visione
unica, omogenea: la liberazione dal sistema fabbrica per un ritmo di vita più armonico nel mondo. Un
concept-album che racconta del passaggio da un sistema produttivo economico mortificante, innaturale,
soffocante in favore di stili di vita più lenti, armonici, de-urbanizzati; parliamo di decrescita serena della
produttività e sostenibilità. L’album è strutturato in 4 parti, ciascuna introdotta da una breve traccia
denominata “Leitmotiv” a rappresentare l’inizio di ogni capitolo (Incubo, Consapevolezza, Risveglio,
Evoluzione). In apertura uno scenario industriale di reiterazioni cicliche alienanti da cui la mente cerca
riparo nella distrazione o nel sogno, implacabilmente interrotto dalla sveglia dell’operaio che “esplode”
ogni mattina. Il coro di Moloch! ci colloca subito fra luci al neon e “la voce da gigante” dell’apparato
coercitivo della fabbrica, poi lascia spazio al lamento lirico. Testi e arrangiamenti curati, di vocazione
visuale, come fossero scritti per un musical. Rimandi suggestivi e uso raffinato di un repertorio culturale
globale; nel caleidoscopio musicale, fra rumori industriali, ottoni graffianti, ritmi samba (spesso usati da
Piero Piccioni per il cinema italiano del boom industriale), compaiono anche il rock e i Velvet Underground
(Mordi! Prendi! Vivi!). Cambio di scenario. Un’esplosione utopica (Kaboom! Chiude la fabbrica) raggiunge
il culmine fra tamburelli e ritmi del folk festoso del sud Italia. “L’autostrada è tutta fiorita e piantiamo
gli orti in città / Sai, questo è un tempo un po’ anormale, si regredisce per creare / Ci serve un sogno da
inventare, una campagna da occupare!”. “I piedi lo sanno” commuove. La consapevolezza giunge come
in sogno e porta al terzo capitolo, il Risveglio, di cui Adeus contiene il manifesto (“Se vivo più lento,
decido il mio tempo, ora io ho tempo / Sacra più di Dio sei terra mia sacra più di Dio”) con richiami a
scenari tropicalisti (e mi fermo qui, ché gettare un ponte con la ricerca della poesia concreta brasiliana
sarebbe un azzardo). È tutta un’utopia, un sogno, ma non scevra di intento politico: “I sogni addestrano
al mondo” (Il tempo del sogno). Unica nota sanzionatoria: il titolo. Per il gusto del gioco di parole e
della citazione si è persa la possibilità di trovarne uno più rappresentativo e originale. Le registrazioni
sono state pagate tramite baratto, i musicisti hanno offerto al Sud Est Studio di Guagnano di pagare
ristrutturando i loro locali e hanno realizzato un video di questi lavori, e infine il disco è stato diffuso con
licenza Creative Commons, in aperta opposizione al sistema di gestione monopolistico della SIAE. Due
operazioni che portano lo storytelling fuori dall’opera, adeguando al concept dell’opera tutte le fasi
della produzione e distribuzione. Forse la prima volta che questa operazione viene effettuata in Italia
con efficacia, coerenza e correttezza. [9/10] • Alberto Sartore
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BF 11
Pierpaolo Capovilla
OBTORTO COLLO
Virgin / La Tempesta per Universal Music, 2014
Non aspettatevi il Teatro degli Orrori. Questo è il principale avviso
da tenere a mente prima di ascoltare. Spoglio di tutta l’elettricità
del gruppo rimane un oratore solo, che parla e cammina con
disincanto tra le nebbie un po’ sue, un po’ ambientali, di cui ormai è
intriso anche il suo sguardo. Un risultato etereo presentato come
vicino alla canzone francese, della quale non tutti abbiamo avuto
un assaggio. Melodie lievi e massima importanza alla voce, più che
mai strumento. Con un incipit-reading, tema di ordinarie routine, il nostro Capovilla denuda la sua
indole e procede a sondare altre tematiche fragili, che rischiavano la distruzione nel furore del
Teatro. Passato e futuro collassano in una malinconia presente, che sebbene francese, ricorda anche
la depressione di Tenco e fa la spola tra amori, situazioni, città e persone disponendo una sottile
trama d’anima. Non si può ‘sentire’, va ascoltato al pari d’una persona, perché è intima confidenza
e nessun brano di questo disco tormenterà la nostra estate; ma anzi predispone al dialogo con
il lungo autunno italiano e, per molti, personale. Tuttavia la sua pesantezza lo porta a cercare più
credito dalla poesia che dalla musica, perciò leggetelo e giudicate quanto a fondo potete scavare.
[6.5/10] • Pablo Sfirri
Med Free Orkestra
BACKGROUND
CNI – Compagnia Nuova Indye, 2014
La Med Free Orkestra nasce nel 2010 a Roma, nel quartiere Testaccio,
e costituisce una interessante ed originale fusione fra tradizioni
musicali differenti: cinque paesi e tre continenti sono degnamente
rappresentanti in questa compagine multietnica.
Se le fonti di ispirazione principali di questa band sono sicuramente il
folclore e le sonorità dell’area mediterranea (dalla Spagna alla Grecia,
dai Balcani al Sud Italia), anche i ritmi orientali, africani e irlandesi
contribuiscono alla creazione di una gustosa contaminazione di suoni e sapori, derivante dall’incontro
di culture diverse ma facenti comunque parte dell’unica ed irripetibile esperienza umana.
La Med Free Orkestra prosegue con coerenza il suo progetto con il nuovo album Background, guidata
stavolta dal maestro Angelo Olivieri; il repertorio musicale che ispira i dieci brani che lo compongono
è piuttosto vario e spazia dal folk al funk-rock, abbracciando ancora una volta sia i ritmi del bacino del
Mediterraneo che quelli del continente africano.
La varietà dei timbri e delle sonorità dal punto di vista strumentale si coniugano perfettamente
con testi impegnati e di denuncia sociale, che impreziosiscono il valore intrinseco di questo lavoro
discografico.
Ci permettiamo di segnalare in particolare il testo di BackGround, un vero e proprio grido di
indignazione contro l’incapacità di accogliere gli immigrati (sia dal punto di vista del migrante che
dell’italiano non “insensibile” a questo dramma).
La perfetta fusione tra testo e musica culmina, a nostro giudizio, in due brani: Afrikan Move, viaggio di
un veliero immaginario dal Sud dell’Africa alla Sardegna (impreziosito dal contributo del griot Madya
Diebate), e la Pizzica dello scafista, una fusione tra taranta e afro-beat che denuncia la figura degli
scafisti nonché l’indifferenza e l’ipocrisia della comunità internazionale.
Da ascoltare con l’animo predisposto a cogliere tutti i rimandi alle tradizioni musicali del mondo ma
con la giusta dose di sensibilità, pronta a cogliere tutte le sfaccettature di un testo “impegnato”.
[8/10] • Daniele Bello
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12 BF
Moro & The Silent Revolution
HOME PASTORALS
Gamma Pop, 2014
Spesso viaggiare ci mette nelle condizioni di permetterci lussi che
quotidianamente non possiamo permetterci. Come per esempio
scollegare il cervello, infilarci un paio di cuffie e guardare fuori dal
finestrino di un pullman, lasciando per un momento il mondo al di fuori di
noi stessi. La semplicità di un tale gesto è la stessa – forse – con la quale
un cantautore al suo terzo disco imbraccia una chitarra, chiama un paio
di amici e, un accordo dietro l’altro, tira fuori un album tenue e raffinato,
dove la frenesia elettrica e le distorsioni lasciano spazio a ritmi più naturali. La scelta di operare in maniera
acustica, giocando sugli arpeggi delle chitarre, risulta in questo senso molto azzeccata, visto che una
più “ortodossa” sezione ritmica avrebbe sicuramente appesantito le tracce, che proprio grazie alla loro
ariosità contribuiscono a creare un clima disteso e bucolico – o pastorale, per citare il titolo. Ma un disco,
benché rigorosamente acustico, per definirsi folk non può certo tralasciare due aspetti fondamentali:
la presenza dell’armonica, che garantisce quel tocco di colore e vivacità, e la lingua inglese, l’unica che
può rifarsi a quella tradizione “On the run” che ha contribuito a creare il mito del viaggio. Che poi sia
esso spirituale interno a noi stessi, o più concreto e spensierato, poco importa; l’importante è partire. E
partire – ritornare da un concerto, nel mio caso specifico – con in testa una colonna sonora rilassante ed
emozionale come questa, sicuramente aiuta.
[7/10] • Alberto Giusti
Egg Hell
ONCE PART OF A WHOLE SHIP
Inner Ear Records, 2014
Inizio dal titolo, Once Part Of A Whole Ship, e dalla copertina ispirati
dal naufragio della Medusa (battello francese affondato lungo le coste
africane all’inizio del XIX secolo) e dalla zattera che accolse i superstiti.
Essi non sono soltanto la presentazione del cd, ne colgono l’essenza tra
alienazione e viaggio, tra vicenda individuale ed esperienza collettiva.
La biografia di Jef Maarawi, leader e voce del gruppo, brasiliano di
origine siriana, trapiantato ad Atene è esemplare. Il mare è la metafora
di questi tempi popolati da cannibali disperati (per sopravvivere i naufraghi della Medusa divorarono
i loro compagni deceduti), ascoltate gli effetti sonori “marinareschi” all’inizio di Never Sailed e quelli
sparsi qua e là nel disco. Un concept album, il racconto di un viaggio anche musicale, dunque, colmo di
atmosfere e richiami dall’indie pop al folk rock statunitense, dai Pavement ai Calexico, passando magari
per il songwriter Leonard Cohen; colpiscono gli ambienti polverosi e disincantati di Pandemic Blues, le
suggestioni elettriche, più vibranti di chitarre e batteria di Suffering, gli arpeggi delicatamente folk di
Porto Madero che sorprendentemente si schiudono verso orizzonti e sonorità tex mex, di frontiera,
trascinanti quante inattese. La voce calda e dolente di Maarawi la fa da padrone in Particles, pezzo pop
rock arrivato direttamente dagli anni Novanta. Ma il clou arriva con Napoleon e i suoi effetti elettronici
che ne dilatano le atmosfere malinconiche in una dimensione decisamente new wave. Questo non è
un album pessimista, esprime ancora il desiderio di raccontare e condividere storie, Useless Captain.
Once Part Of A Whole Ship è un lavoro decisamente riuscito, forse non innovativo dal punto di vista
compositivo, ma forte e coinvolgente, dal suono pulito e vario che non lascerà indifferente chi ha amato
le atmosfere indie dei lontani anni Novanta. Concludo citando quanto scritto all’interno della copertina
‘à os sem rumo’, al senza meta, più o meno. Buon viaggio.
[8/10] • Vincenzo Pugliano
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BF 13
Moheir
A ROUGH SOUNDTRACK
Autoprodotto,2014
La matrice è quella del prog-rock strumentale , tuttavia si guarda verso
altri orizzonti. L’intento dichiarato dalla stessa band è quella di creare
un’esperienza sonora, nei live si utilizza la formula delle proiezioni,
eppure su disco la carica istintiva e d’impatto viene fuori ben salda.
Un EP all’attivo dal titolo “Miss Tavor “, partecipazioni ad importanti
festival tra cui Nolebol, dove presentano la sonorizzazione dal vivo
del film di Russ Meyer “Motorpsycho!” Le coordinate son chiare e
già da questi pochi elementi la curiosità diventa forte. Con la partenza di Wave Pressure, e ancora
di più in Cinemon, il riferimento a Fripp e soci è ben manifesto, e la qualità esecutiva è davvero
impeccabile. Sembra di essere finiti dentro Lizard o In the court of…, ma ci si sposta ben presto su
territori più moderni e solari con l’indie rock di Hammer Serenade. Heisenberg con le sue continue
divagazioni, rappresenta certamente uno degli apici del disco, efficace nelle esplosioni chitarristiche
e nei continui cambi ritmici. La loro forza consiste certamente nell’invasione, nell’assalto totale che
colpisce l’ascoltatore complice certamente l’azzeccata tracklist, che fornisce stimoli continui, e non
lascia il tempo di respirare. Un flusso fatto di continue aperture, scatole cinesi, gli ascolti ripetuti son
davvero necessari per cogliere le sfumature compositive costruite dal combo. Il tutto ben funziona
alla costruzione di quell’immaginario sonoro verso cui la band guarda. Una musica per l’ascolto, come
era appunto il prog, un unicum nella storia. E’ sicuramente nei ritmi serrati, nelle continue e repentine
svolte che il gruppo funziona meglio, meno incisivi invece nei brani come Need a Gun, An 80’s Italian
Sunny Sunday. L’immaginario di jam band strumentale di vecchio stampo si fonde con quella crossover
anni ‘90 e ciò che emerge in maniera evidente è il suono compatto di una band, in cui le singole parti
sono in funzione del tutto, senza inutili ed eccessivi manierismi di cui è spesso vittima questo genere.
La conclusione ci riserva un inaspettato finale morriconiano di impronta desertica e suggestioni alla
Calexico, dopo tutto siamo di fronte ad una colonna sonora, immaginaria. [7,5/10] • Giacomo Salis
Eusebio Martinelli & The Gipsy Abarth Orkestar
APOLIDE
Eusebio Martinelli, 2014
Secondo quanto si legge nel sito ufficiale, “l’idea musicale della Gipsy
Abarth Orkestar è di proporre concerti in cui i musicisti e gli spettatori
non siano in alcun modo separati da un dislivello dovuto al palcoscenico,
ma si uniscano in una festa che veda sullo stesso piano gente ballare,
suonare e cantare liberamente”.
Se questo è l’obiettivo dichiarato di Eusebio Martinelli e della Gipsy
Abarth Orkestar, possiamo tranquillamente affermare che, in questo
album, esso è stato pienamente raggiunto: la band attinge a piene mani dal patrimonio della musica
popolare, con una particolare predilezione per ritmi e sonorità di derivazione balcanica e gitana.
Forte della esperienza acquisita con collaborazioni importanti (Vinicio Capossela, Mau Mau,
Negramaro, Modena City Ramblers e molti altri musicisti internazionali), Eusebio Martinelli ci regala
una esplosione di festa e di energia, con un pizzico di malinconia a fare da sottofondo; un vero e
proprio miscuglio di voci che provengono da tutte le parti del mondo senza appartenere ad alcun
posto, in particolare: tanto che a volte si ha l’impressione di trovarsi all’interno di una festa paesana,
in tutta la sua semplicità e spontaneità.
Particolarmente suggestivi sono i brani interamente strumentali, come Apolide, Sinfonia e l’irresistibile
remix di Gazpacho (che appartiene all’album precedente).
Da ascoltare con la giusta dose di leggerezza e spensieratezza.
[7,5/10] • Daniele Bello
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14 BF
Vessel
LE DIFESE
Santeria, 2014
Corrado Nuccini mi ha sempre sorpreso nelle sue produzioni al di fuori dei
Giardini di Mirò. Sia nel suo spinoff in solitaria come Nuccini! di matrice
hip hop sia, come in questo caso, nei Vessel in qualità di autore dei testi
dove invece la produzione musicale è affidata a Emanuele Reverberi, altra
conoscenza dei GDM in qualità di polistrumentista. E’ un album di rara
intensità, di un folk che prende delicatamente spunto sia dalla tradizione
italiana che quella di altri paesi, mediterranei e oltreoceano. Nuccini si
avvale invece, nel traccia dopo traccia, di un pantheon di voci femminili a fargli da contrappunto con
varie note di colore, impossibile non notare per esempio l’intensità di Angela Baraldi, su Nudisti Su
Marte per esempio dove, nel tracciare gli ultimi scambi di una relazione d’amore ha annichilito anche me,
che non c’entravo niente con la storia..! Un cd che ti culla tra il De Andrè e impossibile non pensare alle
ballad in stile Nick Cave, un cd che ti prende dal primo ascolto, nonostante sia figlio di una gestazione
lunga anni, e che non fa che confermare il livello sempre alto delle produzioni di ciò che gira intorno ai
Giardini di Mirò.
[8/10] • Andrea Plasma
Jamie Saft, Steve Swallow, Bobby Previte
THE NEW STANDARD
RareNoiseRecords, 2014
A pochi giorni dalla morte di Horace Silver mi trovo a dire la mia su un
lavoro dal titolo emblematico. Jamie Saft (piano e organo in questo
disco): nativo del Queens, NY, accreditato in un’infinità di progetti
tra i quali figura Electric Masada del co-pazzoide John Zorn. Stavolta
da vita ad un trio inedito per la session di questo album, avvalendosi
della collaborazione della blasonata, ma che dico, pluripremiata coppia
Previte (batteria) – Swallow (basso). Il batterista ha definito questo
lavoro il più chill della sua carriera e pare che per incidere tutte le composizioni del barbuto ed eclettico
compositore-pianista newyorkese il trio abbia impiegato non più di tre ore, creando i fill di batteria e
gli appoggi necessari sul momento. Che il bisogno di un “nuovo standard” sia figlio di una necessità di
eterno ritorno ai fasti della golden age (o magari di un mezzo secolo più tardi) non è un problema di cui
possiamo discutere in queste poche righe. Saft pare intendere questo new standard in excellence come
un nuovo punto di massimo nell’improvvisazione jazzistica, per come è nato questo lavoro. Fatto sta che
il jazz è ormai diffuso, condiviso, liquefatto e riassorbito in tutti i linguaggi musicali del globo terracqueo,
non lo scopriamo ora. The New Standard è un disco la cui intelaiatura è costituita da strutture semplici,
piuttosto lontano dai lavori che caratterizzano le produzioni recenti ECM più in evidenza, per fare un
esempio. Un lavoro molto fruibile già nelle intenzioni del trio, ma dove l’improvvisazione è molto più
vivida di quanto non possa sembrare. Perciò, se Clarissa potrebbe essere uno standard senza tempo
alla Bill Evans, la sacrale Clearing vede Saft accomodarsi all’Hammond, lasciando aleggiare intenzioni
più marcate che accarezzano uno dei miti di Saft: la band The Band. Nella title track tocca a Swallow
dare dimostrazione della sua educazione melodica alle corde del basso, mentre I See No Leader è uno
swing veloce dove il trio sembra divertirsi durante l’ora di ricreazione. La registrazione hi-fi, infine, è il
fiore all’occhiello di quest’opera, incisa su vinile direttamente dai master analogici e registrata sotto la
magistrale guida del guru Joe Ferla. [7,5/10] • Bernardo Mattioni
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BF 15
Sin/Cos
PARALLELOGRAMS
Anemic Dracula, Sangue Disken, Collettivo HMCF, 2014
Nuovo impegno musicale per Paolo “Maolo” Torreggiani che, in
collaborazione con Vittorio Marchetti, dà vita al progetto Sin/Cos,
escursione meditata e attenta nel cosiddetto nu soul, nella sua
componente emotiva, malinconica e più inquieta. L’uso dell’elettronica
congiunto a quello di armonizzatori, vocoder e altri filtri vocali creano
un effetto straniante trasformando brani elettro pop, venati di groove
e sentimento in piccole pietre grezze, in componimenti sghembi e
dolorosi che pulsano al ritmo delle percussioni. Un lavoro in downtempo che traspira introspezione,
ma senza lasciare spazio all’autocompiacimento o al solipsismo. La scelta di sonorità soulful, venate
di funky e r’n’b’ rende l’ascolto più immediato e alleggerisce il registro generale. Non mancano
influenze dubstep e addirittura trip hop (Armanian e Dropping, brani più oscuri e avvolgenti, tra i
migliori dell’intero lavoro), così come si nota la citazione di Moby in Coulors, altro brano rimarchevole,
anche questo soffuso, sospeso tra mondi contrastanti. Ma l’equilibrio perfetto tra suggestioni e
impulsi diversi si ha con al conclusiva Summer Ends, pezzo forte del disco, evocativa e vibrante su linee
ritmiche decise, quasi dark wave. La compattezza del disco dà quasi l’idea di una certa ripetitività, ma le
sfumature e i riflessi sono sempre diversi e meritano un ascolto attento per essere apprezzati appieno.
In generale, i brani che più mi hanno colpito sono quelli più distanti dalla sensibilità nu soul, quelli in cui
la sovrapposizione di stili lascia emergere degli spunti e un’emotività più oscura e inquieta. Ma devo
riconoscere che brani come Orchid e Corpses sono ben costruiti e possono essere apprezzati anche da
chi, come il sottoscritto, non è un appassionato del genere, rimanendo impressi nella memoria.
[7/10] • Vincenzo Pugliano
I Quartieri
ZENO
42 Records, 2013
Nostalgia. Che in brasiliano – visto che siamo in piena febbre da
mondiale – si dice “Saudade”, termine che abbiamo imparato a usare
a partire dagli anni Ottanta, con l’arrivo in Italia degli Dei del Futebol
Bailado. Quegli stessi Dei che Paolo Rossi fece piangere tre volte. In
questo disco la Saudade, la voglia di ritornare a quelle notti passate
a fare impennate con la Vespa truccata, appare come un’immagine
dall’alto, sfuocata e sbiadita, alla quale si guarda con ironia; quella
stessa ironia di cui, nella letteratura italiana, il personaggio di Zeno Cosini è emblema. La scelta de
I Quartieri di intitolare il loro primo album a un antieroe per eccellenza trova giustificazioni in pezzi
dove emerge questa visione tragicomica e al tempo stesso distaccata del mondo, il quale è “soltanto
un posto come gli altri dentro il cosmo” (Il Mondo), in cui si cerca un senso che spesso e volentieri
sfugge. Un distacco che viene espresso benissimo attraverso le atmosfere dilatate dell’organo, che
sembra a tratti provenire dalle profondità dell’universo. Organo, dicevamo, che va inteso in maniera
duplice: in primo luogo come strumento creatore di una quiete spaziale, dalla quale è piacevole farsi
cullare per tutto l’album; e successivamente il riferimento va al cuore, il muscolo ormai spompato
delle nuove generazioni, che vedono il proprio futuro sempre più lontano e perduto. “Hai vent’anni
o forse cento? Non ti accorgi che sei morto dentro?”, recita l’omonima traccia, cogliendo a pieno una
condizione giovanile forse disorientata e nostalgica di un passato glorioso, come quello dell’Italia del
Mundial spagnolo, che i nostri padri ci hanno dipinto in maniera meravigliosa. Ma la malinconia di
fondo non intacca minimamente la bellezza e la ricercatezza sonora del disco, in perfetto equilibrio tra
placidità elettroniche e leggerezze acustiche quali Spiaggia Bianca, dove la voce di Fabio Grande rivela
tutta la sua delicatezza.
[7,5/10] • Alberto Giusti
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16 BF
Nicola Sartori
CANTATTORE
Cabezon Records, 2014
Dopo la breve parentesi con i Rosillusa che aveva portato nel 2004 ad un
lavoro autoprodotto, Nicola Sartori esordisce stavolta con un progetto
solista in bilico tra corda lirica e piglio critico, con una decisa preferenza
per il secondo. Quella del cantattore, neologismo non di prima mano,
diventa allora una figura rivisitata in chiave polemica perfettamente
funzionale al messaggio. Figlio spurio di una scena musicale che non
esiste senza telecamere, il cantattore è il frutto marcio dell’Italia bruciata
dei talent e dei poser impegnati, il ritmo catchy e il pop bubblegum gonfiato al millimetro col quale viene
misurato e calcolato ogni show. Essere senza essente, è il ‘Nullauomo’ (come titola un brano dalla pieghe
tiromancine); ‘Niente’ è il suo regno, suo mezzo di trasporto, con scaltra intuizione verbale, «l’arca di
non è». Un album tutto di parole questo del songwriter veronese, il cui unico limite è quello di non aver
avuto altrettanta fiducia nello spartito musicale. Nonostante l’ottimo lavoro di arrangiamento di Nicola
Bisciu Righetti e di Tommaso Franco - gli altri due partner in questo progetto - nel creare un ambiente
musicale elegante ed accurato (si ascolti il trumpet jazz di ‘Il vicolo dei ciechi’) , le liriche rimangono
sempre un passo avanti al resto. A darne prova sono testi che si spericolano spesso in costruzioni
complesse senza trovare (o cercare) appigli di rima o altre consonanze, con dinamiche vocali irrigidite
tra il passo indietro della canzone parlata e la spinta in avanti di un falsetto etereo e sottopelle. Ma
bastano la qualità delle riflessioni, la grazia degna di un Rosalino Cellamare in una splendida ‘Incontro’
(cui il romanzo “Maddalena” di Enzo Lauretta presta la suggestione tematica del sacerdozio femminile),
le considerazioni amare in ‘L’uomo che avrai’ per ripagare ampiamente l’ascolto di questo disco.
[7/10] • Fabrizio Papitto
Toxydoll
LIVE AT THE LOOPHOLE
Aut Records, 2013
Uscito per l’etichettata bolognese Aut Records, specializzata in
sperimentazione e musica di ricerca, si tratta di un live registrato al
Loophole locale di Neukölln, Berlino.
L’apertura del disco è affidata a Mantis Dance, andamento frenetico, echi
di Prime Time e Lounge Lizards, dove il drumming compulsivo di Olga
Nosova si sposa con l’elettronica suonata da Bob Meanza, pseudonimo
di Michele Pedrazzi artista multimediale e musicista elettronico. Tra i
momenti migliori Castellana, un incessante crescendo di 9 minuti e 50 caratterizzato da una costante
cellula ritmica in continua destrutturazione, con dei flussi elettronici a sottolineare la sensazione
di tensione emotiva che pervade tutto il brano. A seguire Loopaholic, oscuri tappeti sonori di fender
rhodes, sax tagliente e chitarra convulsa. Il disco colpisce per la sua omogeneità e fruibilità. Brevi temi
reiterati alternati a momenti totalmente aperti di free impro, utilizzati come pretesto per partire in
territori sconosciuti, in cui si alternano ritmiche nervose, unisoni e escursioni noise. I Toxydoll fanno
confluire il free, il rock - prog, l’attitudine punk graffiante, la musica contemporanea, con una buona
dose di sfacciataggine.
I brani sono spesso strutturati su lunghi crescendo, come il bellissimo finale Toxydoll, flussi sonori
in continua espansione, dove un acido fender rhodes e la ritmica spezzata determinano un sound
claustrofobico, non lasciando alcuno spiraglio di luce.
[8/10] • Giacomo Salis
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BF 17
Katres
FARFALLA A VALVOLE
Full Heads, 2013
Primo album della partenopea Teresa Capuano, in arte Katres, un viaggio
nell’universo femminile raccontato attraverso la sua fedele chitarra
dal suono corposo e avvolgente accompagnata da una voce calda e
raffinata. Il sound regala richiami di un caldo Sud (in particolare della
Sicilia in Madre Terra) e la sua voce rimanda a delle venature delle collega
e concittadina Meg. Le nove tracce dell’album rappresentano le tappe
di un viaggio intrapreso da una donna che ha voglia di cambiamento e la
partenza di questo viaggio è in Coiffeur (“Il cambiamento di una donna
parte sempre dalla testa”) arrivando poi ad acquisire maturità e consapevolezza (Non Ho Bisogno). Il
tema del ricordo, dei rimpianti e del sogno sono sempre presenti e contribuiscono a dare un’immagine
completa della vita e dei sentimenti di una donna. In Via Dalla Mia Vita la nostra donna tronca la
relazione con il suo compagno mandandolo via di casa, liberandosi delle sue brutte abitudini e dei
suoi calzini sporchi. Ovviamente, come per quasi tutte le azioni drastiche e sentite, il pugno di ferro
non coincide con le miriadi di sensazioni in lotta tra loro che si provano in fondo. E così, dopo le urla
e le esortazioni a farlo uscire di casa (e dalla sua vita), le insicurezze e i rimpianti hanno la meglio e
Katres rincorre l’uomo invitandolo a ritornare a casa. La chitarra la fa da padrona assoluta, è la chiave
di volta dell’album, tant’è vero che in un certo senso ne costituisce proprio il titolo richiamando un
tipo di amplificatore chiamato “valvola a farfalla”. Per Katres è l’amplificatore in grado di creare il
sound da lei voluto, caldo e importante ma allo stesso tempo pulito e raffinato, delicato, piacevole da
ascoltare, proprio come la sua voce (d’altronde lo strumento deve rispecchiare l’artista o no?). Katres
si cimenta molto bene anche nel coverizzare Gli Occhi Dei Bambini di Stefano Rosso (cantata poi da
Alex Britti). Il mondo visto con gli occhi dei bambini, cioè immagini semplici ma sincere e genuine.
Bianco Elettrico è disarmante, il sound è viscerale, intenso e suggestivo e comunica l’agognata ricerca
di motivazioni e spinte dopo la perdita di una persona cara. La canzone e l’intero album sono infatti
dedicati a Bianca d’Aponte, cantautrice scomparsa prematuramente e a cui Katres era molto legata.
Che Farfalla a Valvole possa essere come il Coiffeur per la donna: un punto di partenza per un viaggio
discografico ricco e fiorito.
[8/10] • Daniela Fabozzi
G-Fast
GO TO M.A.R.S.
La Fabbrica, 2014
Il viaggio di G-Fast parte dal blues dei pionieri con un biglietto di solo
slide verso un’attualità avara di rock, un fast forward accolto all’arrivo
da una fanfara essenziale composta da chitarra, batteria e la voce
graffiante del comandante, che vi parla. La One Man Band, barra
Power Duo per le esibizioni live, del cantautore milanese, scivola su
tappeti pentatonici con ispirazione e forza e dimostra come il numero,
uno, non incida sul preziosismo della melodia. Grazie al piccolo aiuto
dell’elettronica G-Fast sovrascrive se stesso su se stesso e su se stesso, per dare profondità alla sua
solitudine tutta americana ed ecco che dal bluesman ha clonato un tutto e la nostalgia del basso, e
della compagnia, viene lasciata ad altri. Un disco rock fatto e finito, ciò includendo l’accezione più
esteta e LennyKravitziana, ma anche la suggestione di un country vintage rivistato, vedi John Butler.
Coraggio e spiccata musicalità, evoluzioni con un equipaggio immaginato in un’orbita con un sacco di
roba, un po’ simile un po’ no. Ma delle stelle (e strisce), per ora, conserva solo la polvere.
[6/10] • Pablo Sfirri
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18 BF
Niggaradio
‘NA STORIA
DCave Records, 2014
Niggaradio suona musica per il corpo e per la mente, scrivono sul
comunicato stampa. Azzeccatissimo, basta premere play per avere
esattamente una sensazione fisica delle note che scorrono dagli
altoparlanti direttamente alle orecchie. The Real Southern Sound, anche
qui, d’accordissimo con quello che la band dichiara. Un po’ perché c’è un
innegabile sapore di radice in questi pezzi. Un po’ perché mescolare blues
(che è musica del sud, nonostante siano più radicati nell’immaginario
collettivo i Blues Brothers che i cappelli di paglia bucata e i coltellini usati come bottleneck improvvisati)
e siciliano suona come un abbraccio che va dal Mali all’Etna. E poi, questa roba è calda. Sarà che oggi
a Roma ci saranno ottanta gradi, ma più vado avanti nell’ascolto, più sudo. Grondano di scivolamenti
sensuali e demoniaci, ballatine rhythm’n’blues lontane mezzo secolo, avvitamenti dub e un po’ di quel
sano, sanissimo rock’n’roll rude e primitivo (primitivo è una qualità, occhio), i Niggaradio. E la sensazione
di fare girare il sintonizzatore di una vecchia Philco con l’antenna mezza scassata tra scrosci statici e
stazioni disturbate è assolutamente vivida. Un campionario di musica nera sciolta nella lava che cola,
lenta e vagamente minacciosa, verso chi ascolta. Ma non è tanto il mix curioso di mille influenze tutte
meridionali (Sicilia, ma perché no, pure Louisiana e Caraibi, il sole fa miracoli, lo dicono tutti i medici),
ma l’intensità di un suono che è chiaramente strappato agli strumenti col sangue e coi denti, senza
educazione e senza imbellettamenti. Seminale come un gospel, però suonato alle tre del mattino
davanti alla folla danzante e seminuda (e sudata, sì, resta sempre la mia impressione più forte e fisica)
del peggior juke joint della palude più umida e infestata di zanzare. Mi pareva giusto tributargli questo
flusso di coscienza, quando il corpo freme e la mente vaga, non si può essere scientifici. “When people act
like niggers, no matter who they are the only thing to do is treat them like a nigger.” (William Faulkner).
Spero nessuno equivochi.
[7,5/10] • Marco Petrelli
Alessandro Fiori
CASCATA
Viceversa Records, 2013
Alessandro Fiori torna in grande stile, attraversalo stivale per dar voce
alle sue nuove canzoni e le raccoglie in un vinile, la quinta essenza di una
rosa di vinili editi da Viceversa Records. Tempi creativi e tecnici ridotti
all’osso, uno studio di registrazione e tanta musica, arrivano così le 9
perle che compongono questo gioiello. Arrangiamenti minimalisti e
tanta poesia nei racconti che portano l’impronta a cui siamo abituati,
ormai da decenni Alessandro Fiori è uno dei cantautori più importanti
della penisola, classe ’76, alle spalle una formazione che ha fatto molto parlare di se nel panorama
alternativo italiano, i Mariposa, e poi centinaia di concerti e dischi di enorme spessore qualitativo. Tutto
questo è racchiuso in un disco tecnicamente “old stile” semplicemente, in un epoca in cui già è difficile
vendere e acquistare cd. “Cascata” è però da ascoltare obbligatoriamente, tracce bellissime, preziose, si
susseguono una dopo l’altra, senza stancare mai, creando un sound continuo e un sottofondo incantato.
La dialettica di Fiori viene particolarmente esaltata dall’assenza di artefizi e di “troppi” suoni, ogni
traccia, assolutamente inedita, è spogliata di ogni nota superflua, il tappeto musicale è sofisticato ma
essenziale. E poi una canzone che ha come titolo Dei nei la mappa precisa non può essere altro che
incantevole. Naturalmente il disco era disponibile in tiratura limitatissima, come d’altronde tutti gli altri
della stessa collana, ed è inutile dire che questo è sicuramente uno di quelli imperdibili, da tenere in bella
vista ma soprattutto da ascoltare e riascoltare, da consumare letteralmente, come si faceva una volta
con i vecchi vinili. [8/10] • Maruska Pesce
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BF 19
Luca Poletti Trio
COLORS
Autoprodotto, 2013
Ecco il primo Lp del bellunese Luca Poletti che possiamo definire una
sorta di concept album variopinto sebbene non siano presenti dei testi.
L’atmosfera del disco non ci appare immediatamente ma segue un
suo percorso che nasce dall’originale idea di creare uno zapping tra le
stazioni radio che va a costituire il Prologo. Percepiamo varie melodie
(da Monteverdi, Chopin, Petrucciani e Bernstein a Sinatra) e tra uno
spezzone e l’altro si sentono delle onde radio disturbate alla ricerca del
sound desiderato. La frequenza giusta è Strolling Around, vivace e spensierata, trasmette la piacevole
sensazione di vagare senza una meta e incarna appieno il sound delle altre tracce del disco, intervallate
da sei preludi (di cui due scritti dal trombettista Paolo Fresu). Il Preludio #1 sembra preannunciare
qualcosa dal sound epico, e introduce quindi Raining Gray, un pezzo dall’atmosfera inizialmente piovosa
che potrebbe benissimo evocare una New York in ottobre stile Miles Davis anche se in realtà Poletti
l’ha composto pensando a una realtà un po’ meno metropolitana (cioè Trento) e ispirandosi al sound di
Luciano Berio. Preludio #2 dà un senso di inabissamento degli strumenti lasciando spazio alla cullante
armonia di Sirene, che non possiede un leitmotiv ma trasmette comunque un senso di evoluzione della
melodia. Con Preludio #3 ci si inabissa ancora di più e si sentono suoni simili al canto delle sirene che
ci trasportano al ritmo piacevole e allegro di Bastian oirartnoC, dove pianoforte e sax si alternano la
parte solista per poi terminare con un crescendo molto free. Ed ecco This Is For You, prima ed unica
traccia cantata (in inglese) del disco; ha il potere di trasportare e coinvolgere percorrendo ricordi
piacevoli da dedicare. In Preludio #4 sentiamo la voce di un bambino felice che introduce un brano
dedicato proprio a se stesso cioè Leo. Brano solare e vivace dedicato al piccolo nipote di Poletti. Con
Preludio #5 ci spostiamo su suoni decisamente elettronici che ci conducono a Preludio e fuga (dalla
verità), un duo con Fresu dal sound avvolgente e fumante. Preludio #6 è l’ultimo preludio, in netto
contrasto con tutti quelli precedenti perché sincopato e poliritmico, un sound un po’ più moderno che
anticipa infatti Sold 20% con un basso in apertura mirato a ricreare un’atmosfera pseudo-funk alla
‘James Brown’ o alla ‘Tower of Power’ a tratti vivace. Ed eccoci alla fine di questo viaggio radiofonico
con Epilogo che propone altri cambi di stazione radio per poi concludere con lo spegnimento. Dopo
aver ascoltato tutti i brani alla radio, il pianista tenta di riprodurne degli sprazzi dando vita ad un mix
di sound variegati che si traduce con Colors che si conclude con tanto di applausi (più che meritati) nel
finale. Disco piacevolissimo, perfetto da gustare la sera, magari accompagnandolo con un bicchiere di
rosso.
[8,5/10] • Daniela Fabozzi
Cosa sta proponendo
Andrea Pirlo ai
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20 BF
Electric Litany
ENDURING DAYS YOU WILL OVERCOME
Inner Ear Records, 2014
Enduring Days You Will Overcome è il secondo lavoro, a distanza di
quattro anni dal precedente, di questo gruppo anglo‑greco composto
da Alexandros Miaris (voce, chitarra, piano, synths, violoncello), Richard
Simic (batterie, percussioni, percussioni elettroniche), Benjamin Prince
(synths, percussioni, vocoder, campionatore) e Alex Deligiannidis
(basso). Vanta inoltre la collaborazione alla produzione, attraverso
l’ausilio di sofisticati programmi di remote recording in tempo reale,
di Alan Parsons. E che sia un disco di alta qualità lo capisce fin dal primo ascolto, per la ricchezza e la
varietà dei suoni e delle atmosfere, per la miscela suggestiva di influenze e suggestioni, dalla psichedelia
alla dark wave, dall’elettro pop al neofolk orientaleggiante. Ma a colpire immediatamente è la voce di
Miaris: ieratica, languida, ironica, il suo timbro baritonale che lo rende ora crooner malinconico, come
in Farewell (To Setting Flowers), ora salmodiante interprete di odi misticheggianti e psichedeliche,
Enduring Days You Will Overcome. Intorno a questa voce si dischiudono le armonie e le atmosfere create
dal resto del gruppo, inquiete, malinconiche suonate magistralmente. Momenti più intensi, decisi e vicini
a sonorità dark e synth pop eighties (Bauhaus, Clan Of Xymox, i primi Ultravox) Silence, Feather of Ectasy
o Empty Sea,vero inno contro il potere mercificante del denaro, si alternano ad attimi di malinconia e
delicatezza, Vanish o You Make Me Feel, brani eterei e misteriosi. La scelta compositiva di modificare e
alternare le linee melodiche e i registri si avverte anche nei singoli pezzi, In The Morning e soprattutto
nella trascinante e fascinosa Name. Il compendio della loro musica si manifesta nella lunga cavalcata
psichedelica che dà il nome all’album. Una magmatica e avvolgente litania che vibra verso lo space
rock classico dei Pink Floyd, degli Hawkwind e dei Gong. Questo è un lavoro colto, evocativo, in cui le
sonorità wave e quelle elettroniche si coniugano perfettamente. Un lavoro non di facile fruizione dove
alle suggestioni dei maestri della psichedelia sopraccitati, si aggiunge una sensibilità dark wave dilatata,
profonda, pulsante ma non priva di ironia e di momenti emotivi e soffusi. Da ascoltare con attenzione.
[8,5/10] • Vincenzo Pugliano
Medulla
CAMERA OSCURA
Autoprodotto, 2014
Secondo album per la formazione milanese dei Medulla d’impostazione
dark new wave anni 80, al cui panorama attinge musicalmente quel che
c’è da attingere nella forma ma che rende poco dal punto di vista del
significato. L’idea è di un concept album d’introspettiva personale dove
sensazioni, pensieri e stati d’animo sono per lo più impersonificati in
personaggi letterari. In una sorta di contaminazione tra teatro e canzone
ritroviamo tracce su Peter Pan, Cenerentola, Alice, Otello, dottor Jekyll
e Mr Hyde, ce ne sarebbe per tutte le fiabe, con testi barocchi e stati d’animo aggettivati all’eccesso
rendendoli di difficile immedesimazione o in alcuni casi descritti troppo artificiosamente, con sbalzi
d’umore descritti da semplici e non molto convinti cambi di tonalità nello voce narrante. L’intento sarebbe
buono, ma forse ci si è soffermati troppo sull’analisi introspettiva, perchè il resto non convince appieno.
Musicalmente l’album risulta più appagante, dove il compito di far da scenografia viene lasciato a
tastiere e synth in maniera più preponderante nell’arrangiamento rispetto alla chitarra e anche il cantato
appare sempre soddisfacente nelle diverse tracce. Testi e musica, due mezze mele a cui l’amalgama non
è riuscita completamente in questo album dei Medulla.
[5,5/10] • Andrea Plasma
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BF 21
Dan Sartain
DUDESBLOOD
One Little Indian Records, 2014
Preparate le vostre orecchie ad essere molto elastiche! Questa
formazione offre nel suo nuovo lavoro un ricco e movimentato
canovaccio musicale suddiviso in 11 tracce, aperto dal brano che intitola
l’album, Dudesblood appunto. Questo primo pezzo, ricorda per lo spirito anarchico e il tiro importanti
gruppi americani punk della vecchia leva, come Dead Kennedys, Black
Flag, Bad Brains e possiede inoltre un’interessante aggiunta elettronica
nella sezione ritmica che si percepisce distintamente nei primi secondi e
rimane in sottofondo, scandendo e dando profondità ai riff distorti di chitarra in tutto il brano. La seconda traccia dimostra la vera poliedricità del gruppo e le sue contaminazioni più soft, Pass This
On. Suona ed è cantata come una ballata malinconica (molto efficace e suggestiva la scelta dello
xilofono come cardine melodico del pezzo) e rompe completamente con l’isteria di Dudesblood,
introducendo l’atmosfera slow bluegrass, trotterellante e orientaleggiante di Marfa Lights. Da qui in poi rinizia la vena prettamente punk del gruppo che affronta diverse sonorità del genere
in Smash The Tesco, You Don’t Know Anything at All e Love Is Suicide, la prima più in chiave hardcore
americano, la seconda con sonorità più british punk e infine la terza, più diretta e provocatoria, a
partire dal titolo, traccia per eccellenza emblematica dello stile punk rock nell’album (non a caso vanta
la collaborazione di Richie Ramone alla batteria). Ed ecco che quell’andatura vagamente bluegrass percepita per alcuni attimi nella terza traccia si
ricollega molto bene con la chiave country e la ritmica quasi rock ‘n’ roll di HPV Cowboy.
You Gotta Get Mad To Get Things Done, l’ottava traccia, è il pezzo meno sofisticato dell’album. Un
giusto momento di garage rock per acquietare l’animo disorientato di un comune ascoltatore. Quest’album, fatto di continui ritorni, variazioni e riproposizioni, volge quasi al termine con Rawhide
Moon, un brano country psichedelico, in cui si sentono urla e colpi di frusta come in un film Western,
ma con un ritornello quasi rock ‘n’ roll, per non farsi mancare nulla. Quest’ultimo nuovo lavoro dei Dan
Sartain termina con una cover di Anthony Perkins, Moonlight Swim,il cui pezzo originale è una celebre
hit americana del 1957, ed una versione strumentale di Marfa Lights. I generi all’interno di quest’album sono abilmente miscelati, a volte quasi trasfigurati (come nel caso
della terza traccia del disco, Marfa Lights, per l’appunto), ma comunque ben cadenzati e complessivamente il lavoro ha una sua unità pur rimanendo per molti aspetti forse sempre
troppo eterogeneo.
[8/10] • Francesco Angius
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22 BF
Yellow Moor
YELLOW MOOR
Prismopaco Records, 2014
Non tutti abbiamo una storia da raccontare. Gli Yellow Moor ne hanno
anche vissuta una di storia, e la cosa non è così frequente. Le menti ed il
sangue da cui è nato il progetto sono di Silvia Afei e Andrea Viti. La prima
è artista visiva, performer e song-writer, il secondo è il bassista degli
Afterhours di Hai Paura Del Buio, fondatore dei Karma ed altre cose. Silvia
e Andrea fuggono da Milano, rimettono in piedi un vecchio casale con un
campo di fiori gialli nelle vicinanze: ne nasce un disco. Questa ode alla
sintesi mi serve per parlare dell’album, cosa molto più importante. Le collaborazioni che Viti ha avuto la
fortuna di intrattenere con capofila di vari generi del calibro di Greg Dulli e Mark Lanegan fanno capolino
sin dalla prima nota di basso di Castle Burned, singolo distopico e prima traccia dell’album, che ricorda
molto gli Screaming Trees, soprattutto a livello strumentale. Di Dulli risuonano le atmosfere dei Twilight
Singers, più che altro, mentre le voci di Silvia e Andrea rimangono più laid-back, accompagnandosi l’un
l’altra, rincorrendosi tra un orecchio e l’altro. La genesi del disco ruota attorno ad una concezione di vita,
che rifugge ironicamente il fumo gettato negli occhi dalla società dei consumi (Superstar), o piuttosto
della solitudine che tutti conosciamo meglio di quanto ci piaccia dare a vedere (Ghost). Siccome ci siamo
rotti i coglioni di parlare di originalità, valore che viene inevitabilmente a decadere soprattutto in un
genere che si è diffuso come forma di emulazione, vi parliamo bene di questo disco che ricorda un sacco
di cose, tutte fighe (Nick Cave, Einstürzende Neubauten) senza assomigliare a nessuna di esse. Il fatto
di partire da lontano, a mio modo di vedere, non è altro che un ulteriore pregio di questo disco, la cui
scelta dei suoni vale da sola l’acquisto dell’album. E non ci sono fuochi d’artificio, ma semplicemente
voci, chitarre, batteria, basso e un organo sporco come via Zamboni alle 4 di domenica mattina. In tal
senso Yellow Flowers, che probabilmente non sarebbe il brano di punta che la band sceglierebbe per la
pubblicità della nuova Fiat Duna, è veramente una piccola perla a livello di post-produzione (missaggio
ammmericano, andatevi a vedere chi è Carl Saff). Ogni piccolo dettaglio è al posto giusto. Bravi.
[8/10] • Bernardo Mattioni
Evacalls
SEASONS
Autoprodotto, 2014
Gli Evacalls acchitano una scenografia noir per il loro album d’esordio e
la stagione non è certo quella dei bagni, la release a marzo è appropriata;
il suono del prodotto mi ricorda, in un’impennata di metereopatismo,
una pioggerella primaverile, freddina ed insistente. L’elettronica bagna
una base rock piuttosto riciclata, con una sgrullata di synth d’annata, di
un paio di decadi fa, come-quando-fuori andavano i capelli cotonati (o i
Joy Division), tutto ricamato però in chiave post-moderna. Appunto, la
verve tipica degli ’80 non viene assecondata nella totalità della sua gaiezza né della sua depressione,
tantomeno parliamo di un’elettronica da matinèe, pertanto l’effetto finale risulta umido di pop e di
quei suoni che agli uffici stampa piace molto definire ‘noise’. Nonostante la tenacia nel ripetere l’ascolto
spesso non sono in grado di distinguere una traccia e l’altra, sento un continuum di distaccata raffinatezza
che interseca, con bei passaggi, squilli strumentali e non, ma non recupera mai del tutto una dimensione,
su o giù, prima od ora. Hanno tutto il tempo per scegliere come vestirsi.
[5,5/10] • Pablo Sfirri
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BF 23
Le Fate Sono Morte
LA NOSTRA PICCOLA RIVOLUZIONE
Autoprodotto, 2014
Questi anni zero ci hanno lasciato in eredità un bel po’ di sorda
depressione mista a frustrazione color cemento. Le Fate Sono Morte
non fanno eccezione, già dal nome mettono in chiaro il seme di
desolazione che nutre i dieci pezzi de La Nostra Piccola Rivoluzione.
Mi hanno discretamente depresso, a dire la verità. Cantano del calore
dell’estate contro il gelo dell’inverno, ma per me lo spleen estivo è
sempre stato il peggiore. Sarà che, come loro, mi tocca fare i conti con
una città rovente, bidoni maleodoranti e una chitarra acustica sempre un po’ scordaticcia. Scrivono
per immagini, nello stile ormai più diffuso nel cantautorato italiano (Brondi, Mannarino, tanti altri,
tutti in fondo diversi), e per questo sono diretti e sognanti, anche se duramente disillusi e spesso
crudamente amari nel parlare di amori infelici, amori mica-tanto-felici, disavventure metropolitane e
così via. Hanno un suono che esce dal grunge più morbido (non meno incazzoso, però), con cavalcate
veloci di distorsioni grezze e aperture acustiche ariosissime in cui s’incastonano i rantoli malinconici
del cantante/compositore Di Iago. “Tutto passerà per poi tornare ancora”, ogni tanto, nonostante i
miei sforzi di positive-thinking non riesco a non farmi colpire da queste piccole frustate che più che
essere semplicistiche sono seminali (e poi, settembre è sempre il mese più delicatamente triste
dell’anno, no?). Non restano indifferenti, forse proprio perché stuzzicano quell’angolo grigioscuro che
ci portiamo tutti dietro dall’adolescenza, anche se non mettono sul tavolo nulla di nuovo (che non è
una colpa, sia chiaro). A Milano l’amore è un’illusione, non fatico a crederlo, pure quaggiù a Roma non
è tanto più tangibile, in fondo. Musica per masse di giovani depressi senza saperlo, o che sperano di
esserlo per avere qualcosa da provare nella vuotezza totale dei nostri anni aperitivosocialselfie. Si
[6,5/10] • Marco Petrelli
fanno ascoltare, si fanno volere bene.
Rego Silenta
LA NOTTE È A SUO AGIO
Autoprodotto, 2013
Dopo l’E.p. “Meccanismi”, risalente al 2009, nato in collaborazione con
l’etichetta milanese Dartin Music e prodotto da Diego Galeri (Timoria
- Miura), ritornano con questo La notte è a suo agio, disco lungo e
variegato. Al suo interno confluiscono il rock, lo stoner, il cantautorato
italiano di “nuova fattura”, Marta sui Tubi e Nobraino in primis, cenni
hardcore, psichedelia dei 60’s di chiara impronta floydiana.
Il tutto è suonato con notevole capacità e consapevolezza, ben
impreziosito dall’ accattivante timbro vocale di Luca Borin, cantante e interprete versatile , profondo e
coinvolgente nella teatrale “Un pretesto”. Ma sin da subito l’impressione è quella di prendere fin troppe
direzioni senza effettivamente percorrerne una. Singolarmente i brani suonano in modo efficace,
diversi i potenziali singoli, ciò che manca è un concetto/ sostrato che renda il tutto omogeneo, e dia
forma al “disco”. Album dalle infinite sfaccettature e dai repentini cambi di umore, siamo di fronte a
un opera scissa in 14 capitoli, forse troppo ambiziosa nel suo articolato svolgersi che trova certamente
i suoi momenti migliori nell’azzeccatissimo duetto di “Un purgatorio di più”, brano che potrebbe
essere uscito dalla penna di Bianconi, perfetta la pasta sonora nel fondersi delle due voci. Nella
strumentale dal titolo esplicativo “Guardando in terra mentre defecavo”, nella breve e altrettanto
varia sino alla bulimia di ” Il mio divertimento estremo”, in cui il cantato raggiunge una delle massime
vette di intensità interpretativa e infine nella stoneriana “C’è una menzogna” finiamo dentro la loro
personale visione del genere. Nelle parole ci si muove tra beni primari, ombre,danze, temporali, elogi
alla banalità, alternando come da loro stessi dichiarato vocazione intimista e metaforica tipica del rock
anni 90 e la ricercatezza propria della musica d’autore. [6,5/10] • Giacomo Salis
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24 BF
Fonokit
FANGO E BUGIE
La Rivolta Records, 2014
Fango e bugie è il secondo album della band salentina Fonokit, che aveva
esordito nel 2010 con il disco Amore e Purgatorio. Uscito il 29 aprile per
conto dell’etichetta La Rivolta Records, Fango e bugie si articola in nove
tracce, caratterizzate da un sound decisamente modern rock, impreziosito
da ballate dal gusto pop/grunge in stile Verdena (Da un inverno lontano
è un ottimo esempio in questo senso) e da sperimentazione beckiane
(Lo specchio è un uomo solo). In un certo senso, i punti di forza di
questo Fango e Bugie stanno nelle sue “eccezioni”: infatti, quando ci si attiene ai banali pezzi rock che,
purtroppo, compongono più della metà del disco, la piattezza di sonorità trite e ritrite e la mancanza
di particolari qualità interpretative in grado di sublimare il “già sentito” condannano l’ascolto a una
monotonia insapore. Eppure, in modo quasi schizofrenico e all’improvviso, i Fonokit riescono comunque
a sfornare tracce assolutamente buone, originali e personali, assolutamente non in linea con il tono
generale dell’album, come le due sopracitate e E’ una sfida, arricchita da un inatteso quanto gradito
featuring del buon Caparezza. La sensazione (assolutamente soggettiva) è che la personalità espressiva
e i guizzi creativi si siano concentrati tutti in quelle poche, atipiche e belle tracce: suona quasi come un
paradosso, che un disco generalmente piatto riesca al tempo stesso ad avere picchi di assoluta qualità,
creatività e originalità, ma tantè, quasi stessimo parlando di due lavori estranei l’uno dall’altro. Chi scrive
non ha ascoltato il primo album della band salentina, e quindi non è in grado di fare un paragone, ma
limitandosi a questo Fango e Bugie, la speranza è che i Fonokit smettano di “andare sul sicuro” con un
rock innocuo (che, se lo si fallisce, conduce inevitabilmente nel baratro della noia), ma si dedichino più
a un espressione libera e creativa, visto che in questo senso il talento c’è, e i segnali sono decisamente
incoraggianti.
[6/10] • Marco Balzola
Alfabox
ALFABOX
Matteite, 2014
Graffianti. Incazzati, pure. Dichiarano di voler umanizzare la loro città,
Udine, e ci riescono senza dubbio, anche se quest’umanità sembra
sempre declinata al negativo. Sempre distorti e veloci, trattengono
a malapena la rabbia, giusto arrotondata da un uso parco ma efficace
di elettronica minimale. Sono catchy, ma ti mettono anche un po’ a
disagio, che è una sensazione strana. Provate voi ad accennare, quasi
inconsciamente, qualche balletto per poi rendervi conto che, in fondo,
non è che ci sia tutta ‘sta gioiaeliberazione nella canzone che v’ha fatto scuotere la testa. Incazzati, sì,
ma anche agrodolci qui e là, una sensazione che tutti noi vittime urbane del nuovo millennio conosciamo
bene. A patto di avere una coscienza, ovvio, che è già una cosa rara e complicata di questi tempi.
Onestissimi, mai troppo complicati, decisamente orecchiabili, assolutamente adatti come colonna
sonora dei moderni, vuotissimi flâneurs di cui, seppur a malincuore, facciamo parte, con bevute protratte
fino all’alba e tempoperso in giro per quartieri vari alla ricerca di qualcosa che renda la notte giusto un
po’ più memorabile delle altre. Magari mi sbaglio, ma non posso evitare di sentire un recidivo germe
d’insoddisfazione dietro le distorsioni degli Alfabox. C’è chi risponde ai tempi col silenzio, chi ascolta
sperando di capire, e chi, come loro, urla. E fanno bene, sia chiaro. “Il mal di testa che mi assale è il
frutto amaro del rimpianto” (da “Ghiaccioli”). Magari non mi sbaglio poi così tanto. Del resto, chi registra
in presa diretta ha poco da nascondere, e questa è una cosa decisamente apprezzabile, perché (come
ho scritto altrove) è nell’imprecisione che si vede il rigore. Ognuno si difende come può, gli Alfabox si
difendono decisamente bene.
[6,5/10] • Marco Petrelli
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BF 25
Alteria
ENCORE
AlterHead Productions, 2013
Quanta follia ci può essere in una persona sola ci si chiede sin dalle
prime note…è un disco forte, intenso, molto veloce e se al rock si
potesse dare una precisa collocazione musicale Encore è sicuramente
da prendere bene in considerazione. Le leggi universali del buon stile
sono tutte rispettate, forse pure un po’ troppo, non sgarra mai e per
quanto lei stessa lo abbia definito un disco “tamarro” non risulta tale
nemmeno per un attimo, il bonus rimane sempre lei, Alteria, voce
e unica personalità di rilievo del progetto, protagonista incontrastata e assoluta, è un marchio di
fabbrica consolidato. E’ graffiante e esageratamente grunge, poi intensa e lucida interprete e poi
ancora romantica sognatrice capace di lasciarsi andare in versioni unplugged più che credibili. Encore
è un disco ben calibrato, che suona esattamente come deve suonare, che trae insegnamento e
ispirazione da molte realtà concrete del panorama mondiale (anche i Lacuna Coil fanno parte della
schiera e paragonare la voce di Alteria al graffio vocale della Cristina nazionale non è tanto difficile,
soprattutto quando i toni si alzano). Scorrono ininterrottamente 10 tracce, dieci mani al collo che
tentano di strangolare chi ascolta, dieci campanelli d’allarme… una chitarra esageratamente distorta
e il caos di sottofondo, semplice e maleducato caos, quello che ci piace sentire quando si deve far del
rock e una voce che non lascia spazio ad inutili e superficiali giudizi. Solo così ci si conferma dei vincenti
e non molti in Italia possono vantarsi di esser degni di coverizzare i Led Zeppelin, anzi diciamo pure che
forse in questo è unica. Grande disco, grande personalità. Aspettiamo con ansia la prossima mossa.
[7,5/10] • Maruska Pesce
Peculiaroso
MANIMAL
Autoprodotto, 2014
Cristoforo Giuseppe Spoto, in arte Peculiaroso, è un one man band
italiano che ha esordito nel 2014 con questo Manimal, disco lofi a metà fra Lou Reed/David Bowie e old schoold blues. Venendo
subito al problema principale, l’album risente di una produzione
decisamente mediocre, che limita pesantemente la godibilità
delle canzoni: la dicitura “lo- fi”, indica si una qualità decisamente
casalinga del prodotto, ma non può essere una giustificazione per
realizzare un disco “inascoltabile” (nel senso più letterale della parola). Se è vero infatti che non è
necessario registrare ad Abbey Road sotto la supervisione di Rick Rubin per sfornare qualcosa di
buono, è altrettanto vero che una voce a malapena udibile, dei suoni ovattati e delle percussioni
“lontanissime” possono diventare un ostacolo (quasi) insormontabile per la riuscita di un disco.
Dico quasi, perchè Manimal, se si riesce a superare l’impatto negativo con la qualità della registrazione,
è comunque un buon disco d’esordio. Nonostante l’ombra di Reed e Bowie a volte rischi di essere
un po’ troppo ingombrante (come in Something bout you take), le canzoni che attraversano l’album
sono piacevoli, eseguite con passione e arricchite da sonorità e percussioni africane, e caratterizzate
da un buon gusto generale. Dal rude blues di On the rush alle atmosfere quasi grunge di Stinky &
wet water, si avvertono le qualità di Peculiaroso, inclusa quella genuina attitudine rock che distingue
l’interpretazione di una canzone dalla scimmiottatura. In conclusione, questo Manimal ha le qualità
per essere il diamante grezzo, il punto di partenza per la realizzazione di qualcosa di decisamente
migliore. Perchè, conviene ripeterselo sempre, registrare col nokia 3310 alla “buona la prima, tanto
sono rock”, va bene solo se sei John Frusciante uscito dal gruppo, o Kurt Cobain in un garage. Per i
comuni mortali, esprimersi artisticamente coincide sempre con il faticare, ad esempio lavorando su
un singolo suono o su un arrangiamento per giorni, con l’obbiettivo di mettere in musica davvero se
stessi.
[6/10] • Marco Balzola
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26 BF
BF 27
28 BF
The Nuv
SUCKS (NO, REALLY)
Moquette Records, 2014
Il secondo album dei milanesi The Nuv si presenta come un mix molto
omogeneo, scuro e ben prodotto di alternative rock, stoner, grunge, punk
e noise. È indubbio che la band sia in debito nei confronti quantomeno
dei Queens of The Sone Age sotto l’aspetto compositivo, sia per quanto
riguarda le ritmiche che gli arrangiamenti, ma nonostante questo il
lavoro possiede sicuramente una sua dimensione personale abbastanza
definita e risulta ben contestualizzato nel panorama musicale odierno
d’oltreoceano. Le 11 tracce cantate esclusivamente in inglese, anche solamente attraverso la lettura dei
titoli, tradiscono ispirazioni dei testi molto diversificate fra loro a dispetto della già citata linea musicale
invece molto ben definita. L’ascolto, tutt’altro che accomodante e rilassato, risulta invece abbastanza
fluido nonostante l’ascoltatore non venga risparmiato da distorsioni e cambi di registro (si ascolti per
esempio lo sfogo hard core-punk di Capitan Fisting) e mette in luce un ottima padronanza dei propri
mezzi da parte di tutti i membri della band. Fra le punte più alte citiamo per una particolare cura dei
suoni e del dettaglio l’ottima ballad Lazy lover.
Si può forse ravvisare la mancanza di un singolo efficace e a tratti una certa monotonia nel cantato
che spesso non dà modo di sfogare al meglio la tensione energetica prodotta dalla musica, ma tutto
sommato Sucks (no, really) è un disco degno di attenzione, interessante e ben suonato.
[7/10] • Andrea Schirru
Adam Carpet
ADAM CARPET
Rude Records , 2014
Gruppo di base a Milano, gli Adam Carpet presentano, con l’album che
porta lo stesso nome della band, il loro primo lavoro, ma fin dal primo
ascolto si capisce che sono tutt’altro che inesperti. I membri del gruppo
provengono infatti da precedenti esperienze musicali e mostrano una
cura maniacale per la qualità del loro suono che riflette la particolare
composizione della band stessa. Due batterie, Diego Galeri (Timoria) e
Alessandro Deidda (Le Vibrazioni), due bassi elettrici, Edoardo Barbosa
e Silvia Ottanà, synth e chitarra, Giovanni Calella(Kalweit and The Spokes) creano un tappeto musicale
stratificato, vigoroso, ricco di sfumature e suggestioni, ma al tempo stesso pulito e privo di sbavature.
Siamo nel campo della psichedelia, del krautrock, del prog, della new wave elettronica che si dipana dai
Porcupine Tree, si rivolge ai Pink Floyd e dialoga con Tortoise e Mogwai. Insomma parliamo di post rock,
di dissolvenze, di paesaggi e trame sonore ora più vibranti ed incombenti, ora più oniriche e distese, a
tratti rabbiose e malinconiche. Tuttavia gli Adam Carpet non perdono il controllo del loro flusso musicale
e, questo a mio parere è un gran pregio, non risultano algidi e distaccati nelle loro composizioni. Non
elucubrazioni cervellotiche ma energia pulsante che cresce e si irradia negli accordi e nelle decise linee
ritmiche, ascoltate Babi Yar per farvi un’idea. O l’intrusione no wave di Jazz Hammerhead con tanto
di sax abrasivo e distorto, su un tappeto di percussioni ossessive e impulsi elettronici. A questo fuoco
segue Krokus Magnet Store, cavalcata psichedelica, inquinata da campionature elettroniche con tanto
di effetti da videogioco. Questo breve elenco si conclude con l’irrisolta The Charge puramente post
rock nel suo incedere emotivo toccante ed energico. La scelta di rinunciare al cantato rende il lavoro
ancora più libero di sperimentare soluzioni e accostamenti di stili, senza abbandonare la compattezza
pur nell’abbondanza di riferimenti e richiami. E se alcuni passaggi danno l’impressione del già sentito (si
poteva forse osare ancora di più, nei primi pezzi soprattutto), la qualità complessiva dell’album resta alta
e lascia intendere le potenzialità del gruppo.
[7/10] • Vincenzo Pugliano
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BF 29
Sj Esau
EXPLODING VIEWS
fromSCRATCH, 2014
Dopo la doppietta pubblicata con Anticon nel 2007 (Wrong Faced Cat
Feed Collapse) e nel 2008 (Small Vessel), Sj Esau decide di rivolgersi
alla concorrenza. Passa alla semileggendaria fromSCRATCH e ci riprova
con questo Exploding Views, undici tracce e una quantità di materiale
sonoro tale che i Fugazi ci avrebbero riempito 12 dischi. Il paragone con
i mostri sacri del post HC è abbastanza campato per aria, lo ammetto,
ma almeno nelle intenzioni c’è una cosa che accomuna i due progetti,
ovvero la fede nel DIY. I primi due album hanno ricevuto una stroncatura talmente sonora da Pitchfork
che mi sono sentito in obbligo di documentarmi, per trovarmi così di fronte ad una dolorosissima
verità: gli americani avevano ragione. Però animo eh, perché il cambio di etichetta ha giovato non
poco alle sorti del giovine producer di Bristol. Il passo avanti compiuto da Sj Esau (al secolo Sam
Wisternoff) rispetto a quanto fatto finora è incarnabile in una sorta di mamma-producer che si è
insinuata nella fase di preproduzione per mettere ordine tra i calzini, le drum machines, i samples e
gli avanzi di pizza dello scapestrato, promettente figliolo. Pur mantenendo viva una buona parte del
genoma indie che ne caratterizzava la vita dopo la morte dello MC che fu (mi sa tanto che quando
le tue molecole vengono sottoposte ad una vibrazione per il tempo che ci vuole, poi continuano a
vibrare sulle stesse frequenze da sole), Sj continua ad esplorare le selve oscure del pop sperimentale,
innalzando a regola benedettina una grande frase dei nostri tempi: “ma anche meno”. Ergo, nel disco
ritroviamo un macello di suggestioni, che vanno a comporre un grande esperimento, a sua volta fatto
di esperimenti. Exploding Views possiede numerose note sorprendenti, più (Remotely) o meno (Make
Space) destrutturate. Che a noi piaccia o meno, Sj non si lascia mai imborghesire da esigenze patinate,
conferendo al proprio lavoro una qual certa ammirevole coerenza (non si direbbe per un disco del
genere, ma vi giuro che è così). A metà tra 4AD e scena di Canterbury, provaci ancora Sam.
[6/10] • Bernardo Mattioni
The Gluts
WARSAW
Autoprodotto, 2014
Dopo aver stampato un EP i milanesi The Gluts danno alla luce Warsaw,
un album letteralmente martellante sin dalle prime note. Dalla prima
canzone Rag Doll pensi che l’album si assesterà col passare delle tracce
e invece i nostri picchiano da inizio a fine. Tutto il lavoro oscuro delle
atmosfere plumbee e dei relativi cambi è diretto dalla chitarra ispirata
di Marco Campana con basso e batteria a fare da punteggiatura.
Nonostante l’evidente debito di riconoscenza con i Joy Division,
nelle loro sonorità anni 80 tra post-punk, shoegaze e cavalcate noise, i The Gluts riescono ad essere
consistenti per tutta la durata dell’album dando la certezza a scatola chiusa di riservare le cose migliori
nelle esibizioni live. Le sensazioni che ti lasciano album come questo le riconosci dall’assordante
silenzio e quella scarica di elettricità nell’aria che va a zero ogni volta che finisce una traccia... Se è
questo quello che cercate i The Gluts saranno musica per le vostre orecchie.[7,5/10] • Andrea Plasma
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30 BF
Peregrines
PROXIMI LUCES
Autoproduzione, 2014
Il disco che mi rigiro per le mani ha una copertina rassicurante, come un
maglione che conservi negli anni: ovunque lo lasci, sai perfettamente
dove si trova. La sensazione non mi abbandona, mentre Proximi Luces
si svolge, ascolto dopo ascolto. Questo lavoro, il primo della band
comasca, è definito, maturo, seppur non privo di alcune flessioni, o
meglio idiosincrasie, le quali, tenendo in considerazione l’intero percorso
dell’album, potrebbero anche rappresentarne la cifra stilistica. Togliamoci
il dente: tali lacune, se vogliamo considerarle tali, risiedono nel rapporto tra minutaggio e sviluppo dei
brani, che nella gran parte dei casi superano i 5 minuti di lunghezza. Mentre in alcuni casi la canzone si
concede il tempo necessario per crescere o decrescere (Mary Celeste), in qualche punto la musica dei
Peregrines si sofferma su fasi interlocutorie che rischiano di non conferire alla canzone il valore sperato.
L’esempio più lampante di quanto detto emerge nel singolo Little Dancer, ottimo brano del quale è stato
realizzato un video girato benissimo e molto carino (carino non è una parola scelta a caso, vedere per
credere). La canzone sembrerebbe finita a 3:30, ma segue un minuto di special, per poi tornare ad un
ultimo chorus più outro/assolo di violino. Il risultato è comunque buono ma perde in radio-friendliness,
cosa che per una band del genere non è un aspetto da sottovalutare (la lunghezza del video è “album
version”). Mi dispiace di essermi così puntigliosamente soffermato su questioni di secondi, ma mi preme
veramente sottolineare l’ottima caratura di un prodotto suonato (e registrato) in maniera superiore
alla media, con idee, digressioni, arrangiamenti e moods davvero interessanti, affiancati ad aspetti che
potrebbero funzionare meglio. Proximi Luces è un disco che affonda le proprie radici nell’indie-folk
(Fleet Foxes, Kodaline, Mumford and Sons, Andrew Bird), mantenendo sempre un forte legame con la
live session (The Wood/Superstition). La chitarra acustica fa da colonna portante, la voce principale è
spesso caratterizzata da riverberi lunghi e coralità avvolgenti. Gli arrangiamenti sono piuttosto scarni
ma l’ascolto in cuffia è praticamente imprescindibile per un album del genere (cfr. l’interplay tra basso e
timpano che ti perderesti nella strofa di The Boats & The Waves). I testi sono essenziali ma non melliflui,
organici ed equilibrati. Un buon disco nel suo genere, che meriterà tutta la vostra attenzione, se saprete
apprezzarne la lucentezza.
[7/10] • Bernardo Mattioni
Cosmic Box
L.B.S. (Last Broadcasting Station)
Alka Record Label, 2014
Ben fatto, ben detto e diretto, eppure la giustezza delle dosi è una
chimera non garante del finale. Di immediata catalogazione nel
grandioso scaffale ‘rock generico’, il disco si incunea senza grandi velleità
in un solco lungo un trentennio e lascia trapelare l’onestà esecutiva di un
gruppo che vuole che tutto fili liscio. Linearità e pulizia contribuiscono
al suono,un pelo scolastico, della band, sebbene non manchino, tra dejavu di altri britannici, delle buone proprie intenzioni da lustrare meglio.
Il campionario sonoro si dispiega senza increspature tra questo rock ‘onesto’, ballad poco pomiciata e
qualche accordo proveniente da qualche gruppo non meglio precisato di Seattle. Troppo impersonale,
sono buoni, dico solo che dovrebbero abbandonare gli studi e lavorare seriamente su loro stessi e
sull’audacia alla greca.
[5/10] • Pablo Sfirri
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BF 31
Hartal!
HARTAL!
V4V, Di Notte Records, Indastria Records, 2013.
Un pensiero ricorrente, che aumenta d’intensità man mano che gli si
dà ascolto, monopolizzando il cervello: questo è Hartal!, album di
un omonimo quintetto dagli influssi e dalle provenienze disparate.
Si comincia con una lenta, quasi malinconica introspezione, la
quale gradatamente lascia spazio alla profondità sepolcrale della
sezione ritmica, la quale aumenta la sua intensità fino al limite di una
pesantezza industrial, divenendo struttura portante dei brani. Un
aspetto rilevante è la scelta – forse dovuta anche alla registrazione in presa diretta del disco – di
lasciare la voce in secondo piano, quasi fosse un eco suggestivo che filtra a tratti, in maniera faticosa,
dalla strumentazione: le parole qui assumono infatti uno spessore inconsistente, fondendosi con i
loop ossessivi e asfittici della chitarra, e divenendo così parte di quell’onda ripetitiva ma lontana che
è la melodia. La lunghezza media delle tracce permetterebbe forse di lasciare maggior spazio agli
organi, a volte relegati a semplici tappeti su cui agiscono le potentissime – e a mio avviso azzeccate
– dinamiche del basso elettrico, che contribuiscono a conferire al disco compattezza e ossessività. Agli
Hartal! va comunque riconosciuta una certa coerenza stilistica, in questo loro sperimentare la fusione
di psichedelia, ritmi tribali e sonorità elettriche post rock; tuttavia questa ossessività di fondo, che
costituisce il leitmotiv dell’album, forse frena un po’ troppo le dinamiche stesse, le quali “accelerano”
– per così dire – solo nei pezzi finali, dove il sax e i suoni sintetici dell’organo prendono più slancio e
vigore, donando respiro e luce a colui che si è infilato in questo tunnel rumoroso e lisergico.
[6,5/10] • Alberto Giusti
Madaus
LA MACCHINA DEL TEMPO
Cento Cani, 2014
Prese di danza e addii al pianoforte, batarre e diamoniche, notti di
luna alabastrina e malinconie dove anche il pianto atterra sulla seta di
arrangiamenti che un refolo trascina dalla tradizione classica al jazz. Ci
si emoziona tante volte nel disco d’esordio di questo quartetto toscano.
Madaus, cioè mad house, l’ospedale psichiatrico della loro Volterra in
cui il degente Ferdinando Oreste Nanetti incise il suo visionario ciclo
di graffiti, ritenuto oggi un’importante testimonianza di Art brut.
A quest’opera si ispira il brano che dà il titolo all’album, simbolo di una testualità che si costruisce,
qui e altrove, in una prospettiva inconsueta dove le immagini velano le trame fino a cifrarle, come
nell’incubo romantico dell’iniziale ‘100 cani’. È la prima di una serie di pagine musicali splendide cui la
voce-strumento di Aurora Pacchi dona corde, diaframma e cuore. Se ‘Il profumo della notte’ potrebbe
essere stata scritta a quattro mani con Capossela, una nascosta ‘Ti porto via’ è però apice lirico del
disco e momento di rapita bellezza. Il resto lo fa una sezione ritmica esperta e creativa (David Dainelli,
Marzio Del Testa, Antonella Gualandri, tutti provenienti dall’Accademia) con strumenti che sanno
correre soli tra i generi (‘Invitango’) anche quando restano senza voce e rischiano di perdersi tra le
‘Ombre cinesi’ (i Goblin incontrano Mike Oldfield ma non sanno bene cosa dirsi). E così tra un episodio
e un altro si balla sul tempo che passa (‘Temp0’), si combatte la propria fragilità dandole battaglia
(‘Pre-potente’), si scende dalla giostra dell’oggi per riprendere un contatto universale con la natura (‘Io
non so’). Nelle foto del booklet che accompagna il disco ogni membro del gruppo stringe tra le mani
un oggetto: una clessidra a sabbia, un metronomo, un orologio sveglia e un foglio pentagrammato.
Perché ogni canzone è, in fondo, una ‘macchina del tempo’, e in queste dieci tracce le lancette si
sincronizzano benissimo, anche quando rivendicano il diritto di restare ferme.
[7,5/10] • Fabrizio Papitto
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32 BF
EP
Il Rumore della Tregua
LA GUARIGIONE EP
Autoprodotto, 2013
Con La Guarigione, il loro primo lavoro ufficiale, la band milanese Il
Rumore della Tregua si sforza di trovare un modo personale di fare
del cantautorato ed attraverso testi mai scontati sforna 5 canzoni che
raccontano storie surreali e si adagiano su di un caldo tappeto sonoro
che oscilla fra l’Indie più scuro e un Folk Rock velato di nostalgia.
Si passa dalle tetre dissonanze di Haiku in cui grande spazio è lasciato alla
chitarra distorta di Marco Torresan e la malinconica tromba di Lorenzo
Monesi, proseguendo con le graffianti ed a tratti grottesche L’odore dei cani e Confessa il peccato Henry
o la pessimistica La Ballata del pignoramento per poi finire con Revival, in cui si palesano più chiaramente
le doti canore di Federico Anelli.
Musicalmente parlando il disco presenta arrangiamenti semplici ma efficaci dove però si può ravvisare,
soprattutto nei finali, l’abuso di soluzioni troppo simili fra di loro; ma nonostante questo è davvero
[7,5/10] • Andrea Schirru
piacevole perdersi nei testi allucinati di queste canzoni.
L’Orso
IL TEMPO PASSA EP
Garrincha dischi, 2013
Se avessimo dovuto scrivere adesso tutte le favole storiche per bambini
sicuramente avremmo preso spunto da qualche stampalato pezzo di
questa band poliedrica. L’Orso, un mucchietto di ep, tanta concretezza
in così poco tempo e sebbene non veda di buon occhio la “nuova” leva
cantautorale del panorama emergente italiano, questo disco per lo
meno mi ha fatto molto sorridere. Scritto nelle musiche e nei testi con la
naturale freschezza di chi dice le cose per come stanno, pur rivestendole
di mille sfumature. La band nasce dall’incontro di componenti provenienti da parti diverse della penisola
tutta, con background musicali diversi e diversi modi di vivere la musica, con una caratteristica in
comune: un’innata forza comunicativa. Come per dire che una cosa piacevole può comunque essere
“noiosamente bella” senza per forza risultare stucchevole. Alla fine delle tracce ci si sente come alla fine
di una lunga filastrocca, di cui abbiamo capito il senso ma che comunque non ricorderemo facilmente.
A volte è proprio un disco apparentemente disimpegnato come questo che ci fa capire molte più cose
rispetto a cosiddette opere musicali che nascondono dietro decine e decine di paroloni un significato
banale e assolutamente scontato. Ma in merito a ciò l’errore è paradossalmente di chi ascolta perché
anche in questo caso il pregiudizio la fa da padrone. Quindi ben venga L’Orso con le sue imperfezioni
vocali e quegli arrangiamenti minimalisti e vivaci ad insegnarci come vivono gli uomini comuni, perché
fondamentalmente questo siamo…comuni.
[7/10] • Maruska Pesce
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BF 33
Voltaicore
LOVER’S DIGEST 1993 EP
Voltaicore, 2014
Dell’autore di questo breve ep conosco poco, probabilmente
statunitense di base nel New Jersey, al secondo lavoro pubblicato,
ma di sicuro grande frequentatore degli ambienti indie ed elettronici
dell’attuale scena musicale americana. Gli Animal Collective annegati
in un flusso elettronico di breakbeat, ora downtempo, ora più serrato,
con un uso distorto della voce, batterie in primo piano, campionature di
dialoghi televisivi. Così se Downton Tabby appare un serenata stralunata
ed sbronza, E.Brokehart frantuma la forma canzone in brevi frammenti, trasformando l’iniziale marcia
militare in un oggetto oscuro e corrosivo. Suoni industriali, stordenti e spiazzanti che riverberano in
Jessican’t con accenni hip hop e divagazioni rumoristiche. Certo non un brano da canticchiare sotto
la doccia. Ma non sembra una provocazione, quanto un modo personale di esprimersi ricorrendo allo
sconfinato mondo della campionatura e della citazione. Così a mostrarsi fuori tema è la delicata e
malinconica Cassienova, sentimentale e semplice con le sue tastiere quasi elettro pop, i rullanti e
i piatti a rincorrersi e a scandire il ritmo. Forse troppa carne al fuoco, ma il risultato è interessante.
Aspetto Voltaicore ad una prova più completa.
[6/10] • Vincenzo Pugliano
Che ci fa Alessandro Florenzi, tra gli EP,
che canta i Rammstein??
Forse bisogna andare veramente a leggere
l’editoriale a pagina tre...
Gambardellas
ASHES EP
Big Wave Records, 2014
Perché di Gambardella non c’è solo Jep. One man band dal nome
collettivo all’altezza dell’esordio Sloppy Sounds (2013), lo stesso Marco
Gambardella che ha sostituito Gaetano Polignano nella line up dei
bravissimi The R’s (ex The Record’s) è ora alla testa – batteria e voce – di
una formazione autentica che include anche le sorelle Glenda (chitarra,
cori) e Grethel Frassi (tastiere, cori), già attive nel progetto tutto al
femminile Chelsea Hotel. Un fruscio di vinile e un organo mortifero ci
introducono all’ascolto di questo solido ep in cui influenze garage trovano accoglienza in una robusta
vocazione stoner. ‘Ashes’ è una cavalcata in pieno stile QOTSA, ‘One in a milllion’ ha imparato bene
la lezione d’oltremanica e ricorda il meglio degli Ocean Colour Scene, ‘Devil’ è quello che sarebbe
successo se i Led Zeppelin avessero incontrato gli Scissor Sisters. E se ancora non vi siete orientati, la
cover dai Black Keys di ‘I Got Mine’ che chiude il disco chiarisce definitivamente in che zona ci troviamo
(peccato per un assolo del tutto fuori fuoco, unica ingenuità del disco). Ceneri, ‘ashes’, sotto cui cova
brace sufficiente a scaldarvi per numerosi e ripetuti ascolti. [7/10] • Fabrizio Papitto
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34 BF
l’opinione
dell’incompetente
ROB ZOMBIE, Hellbilly Deluxe
Al tg storie di ordinaria follia. Assurde uccisioni,
massacri e tragedie. Sul mio tavolo c’è il disco da
recensire: Hellbilly Deluxe di tal Rob Zombie la cui
immagine inquietante giganteggia in copertina.
Rob Zombie altro non è che il nome d’”arte” del
signor Robert Bartleh Cummings .
So che non è giusto avere dei preconcetti, che
sono sicuramente prevenuto e che anche se uno
decide di farsi chiamare Zombie potrebbe non
essere quello che io penso che sia … ma tant’è!
Mi viene in mente il ritornello (mai così tristemente
attuale ) di “bandiera bianca“
di Battiato, “in quest’epoca di
pazzi ci mancavano gli idioti
dell’orrore”. Non è infrequente
infatti che, per fare soldi,
certi pseudo-artisti non si
fanno scrupoli nell’intrigare il
pubblico con i delitti, il sangue,
la carneficina; addomesticando
la morte e l’efferatezza senza
spiegarle, senza affrontarle
veramente. È una sottocultura. Eppure ci sono dei
veri appassionati del genere che spesso hanno
anche su temi così delicati dell’ironia da vendere.
Che dire poi dei tizi che organizzano “cene con
delitto” o roba simile?
Le notizie che trovo in rete su Rob Zombie non
migliorano di certo l’idea che me ne sono fatto:
Rob Zombie (ex-cantante dei White Zombie
nonché regista cinematografico di, fra gli altri, “
Le streghe di Salem (The Lords of Salem) che è un
film del 2012 da lui scritto, prodotto, sceneggiato
e diretto.
Il film (genere horror ovviamente) non l’ho
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“La suprema felicità della vita è
essere amati per quello che si è o,
meglio, essere amati a dispetto di
quello che si è.” Victor Hugo
visto personalmente ma, considerando che era
stato inizialmente vietato ai minori di 18 anni
per la “truculenza di alcune scene, il contenuto
di carattere blasfemo, l’atmosfera altamente
ansiogena ed il pericolo di emulazione per
sette sataniche” non me lo immagino un gran
capolavoro.
Lasciamo ora da parte però la testa ed usiamo
le orecchie (notoriamente prive di etica): cd nel
player! Sorpresona: il disco è piacevole!
Si apre con una “intro” di 30 secondi “Call of
the Zombie” con tanto di suono
bitono (din-don) a mo’ di antica
pendola, poi vocine di bambine
che echeggiano e poi risatine,
tuoni, porte che scricchiolano, poi
.... folata di vento... e parte il primo
brano “Superbeast” (3:40) con le
chitarre al galoppo e la rauca voce
solista alternata al coro di profonde
voci maschili in controcanto. Il terzo
pezzo, che è il più bello (secondo
me), è dedicato al principe degli inferi “Dragula”
(3:42): batteria bum-bum-bum e voce a ritmo, via
la voce e dentro le chitarre + coro, via le chitarre
e dentro la voce in un alternarsi che crea una
atmosfera molto trascinante. Tra gli altri brani
segnalo anche il quinto pezzo “Perversion99”
(1:43) strumentale e paranoico. Ultima nota: il
titolo è una parodia dell’album Hillbilly Deluxe
di Dwight Yoakam (cantautore statunitense del
genere country). Il remix della canzone “Dragula”
è presente nella colonna sonora del film The
Matrix. Felice vita a tutti!
Rubby
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BF 35
33 giri di piacere
POPPEES “POP GOES THE ANTHOLOGY!”
Negli anni Settanta, sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna, ci sono stati diversi tentativi di riproporre
la musica dei Beatles nella loro versione iniziale, quella cosiddetta Merseybeat. Non si tratta di semplici
cloni ma di veri e propri cultori dei Fab Four che provano a riportare indietro nel tempo le lancette della
storia della musica. Si tratta di un movimento trasversale e difficile
da etichettare (oggi molti questi gruppi vengono inseriti più o
meno giustamente nella categoria power pop). Oltre alla musica
quasi fedele, anche il look torna ad essere quello delle origini:
cravatte finissime, beatle boots, capelli a caschetto. Gli esponenti
di punta sono i Rocking Horse, Liverpool Echo, (i componenti di
queste band avevano militato in gruppi degli anni Sessanta di
Liverpool) gli Spongestones, i Pleasers per citare i più importanti, a
cui vanno aggiunti i Rutles, riuscita parodia dei Beatles finita anche
per diversi anni sulla tv britannica.
A questo genere appartengono anche i Poppees, band di New York che registrò due sette pollici per
la mitica Bomp Records. Quel che resta dell’etichetta che fu di Greg Show, nel 2010 ha realizzato “Pop
goes the anthology” che ripercorre tutta la storia discografica dei Poppees (singoli e live al CBGB’s e
in altri club della Grande Mela) tra il 1975 e il 1978. Ai cultori della scena proto-punk americana basta
citare pezzi come “Jealousy” “If She Cries” o “Love of The Loved”, quest’ultimo un vero e proprio
omaggio a Lennon e compagni. Il gruppo al CBGB’S ci suonò molto partecipando anche alla pellicola
commemorativa”Blank Generation”. Oltre ai Beatles, la musica dei Poppees è influenzata dal punkrock di New York (gli Heartbreakers di Johhny Thunders su tutti). Non a caso, dopo i singoli per la
Bomp i Poppees si divideranno in due formando due band di tutto rispetto: Boyfriends e Sorrows, due
piccoli classici del power pop.
MICHAEL FENNELLY “LOVE CAN CHANGE EVERYTHING”
Nel numero precedente di BF abbiamo parlato di Tandyn Almer, autore poco conosciuto che lavorò
con Curt Boettcher, figura leggendaria nella California pop-psichedelica della fine degli anni Sessanta.
A Curt è legato musIcalmente anche Michael Fennelly, produttore di Begin, l’album dei Millenium, il
gruppo più importante in cui ha suonato Boettcher. “Love Can Change
Everything” è una raccolta di demo registrate tra il 1967 e il 1972 che
racchiude tutta la produzione di questo cantante che ama il folkrock della California e la chitarra acustica. I brani sono accompagnati
da una voce cristallina e sono composti strizzando l’occhio anche
in questo caso ai Beach Boys di Pet Sounds. Parte della produzione
presentata qui è poi legata ai Crabby Appleton, band molto ispirata
che realizzò due dischi per l’Elektra Records in cui Fennelly miltava.
Su tutti il demo semi acustico di Go Back, il pezzo più famoso degli
Appleton. Ovviamente i brani presentati qui (il cd e lp in 180 grammi
sono prodotti dalla Sundazed) non sono mai usciti all’epoca e come
scritto per Tandlyn Almer meritano di essere ascoltati.
a cura di Lorenzo Briotti
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“CHI L’HA VISTI?”
Ovvero: Breve scheda di identità di gruppi inutili
scomparsi nel nulla e che (per ora) ci hanno risparmiato una reunion ancora più inutile.
a cura di Mazzinga M.
SHIVAREE
GENERE: Indie Pop/Rock..
NAZIONALITÀ: Americana.
FORMAZIONE: Ambrosia Parsley (voce); Danny McGough (tastiere); Duke McVinnie (chitarra).
Discografia: I Oughtta Give You a Shot in the Head for Making Me Live in this Dump (1999, Lp); Corrupt
and Immoral Transmissions (2000, Ep); Rough Dreams (2002, Lp - mai uscito negli USA); Breach (2004,
Ep); Who’s Got Trouble? (2005, Lp); Tainted Love: Mating Calls and Fight Songs (2007, Lp di cover).
Segni particolari: Un brano; una carriera.
Data e luogo della scomparsa: Fine anno 2007, al termine del tour promozionale per l’uscita del disco
Tainted Love: Mating Calls and Fight Songs.
Motivo per cui saranno (forse) ricordati: Quentin Tarantino e il singolo Goodnight Moon.
Motivo per cui dovrebbero essere dimenticati e mai più riesumati: Perché alla fine Bill viene ucciso
per davvero e così Volume 3 non verrà mai girato, vero Quentin?
JULIETTE AND THE LICKS
Genere: Garage Rock.
Nazionalità: Americana.
Formazione: Juliette Lewis (voce); Todd Morse (chitarra dal 2003 al 2008); Emilio Cueto (chitarra dal 2007
al 2009); Craig Fairbaugh (chitarra dal 2008 al 2009); Paul III (basso dal 2003 al 2006 e polistrumentista
dal 2006 al 2007); Jason Womack (basso dal 2006 al 2009); Patty Schemel (batteria dal 2003 al 2004);
Jason Morris (batteria dal 2004 al 2006); Ed Davis (batteria dal 2006 al 2009); Dave Grohl (batteria per la
registrazione di Four on the Floor).
Discografia: …Like a Bolt of Lightning (2004, Ep); You’re Speaking my Language (2005, Lp); Four on the
Floor (2006, Lp).
Segni particolari: Juliette Lewis.
Data e luogo della scomparsa: 2009 all’interno di un blog MySpace della Lewis.
Motivo per cui saranno (forse) ricordati: Juliette Lewis.