SOCI ED AMMINISTRATORI NELLA CORPORATE GOVERNANCE DELLA RIFORMA DEL DIRITTO SOCIETARIO Sommario: Introduzione - 1. Impresa e costi di transazione – 2. I rapporti tra i diversi elementi costitutivi dell’impresa - 3. Le norme del nuovo diritto societario che incidono su questi rapporti - 3.1. Le nuove regole italiane di corporate governance - 3.2. I principi OCSE e il Codice di Autodisciplina 3.3. I soci e la tutela delle minoranze - 3.4. Il conflitto di interessi - 3.5. Principio di eguaglianza tra titolari di medesime categorie di azioni - 3.6. La partecipazione agli utili ed i piani di stock option per gli amministratori - 4. Considerazioni conclusive. INTRODUZIONE1 Negli ultimi anni si è sviluppato con crescente vivacità un dibattito inizialmente riservato ad economisti e giuristi e poi esteso anche ad un pubblico più ampio (basti leggere l’ampio numero di articoli apparsi sul Sole 24 Ore, ma anche su quotidiani generalisti come il Corriere della sera e Repubblica) sulla tematica della corporate governace. Certamente tale interesse è stato alimentato da fattori negativi, quali lo sgonfiarsi della bolla speculativa degli anni ’90, e gli scandali prima americani (Enron, WorldCom, Tyco, i mutual fund e le banche d’investimento) e poi italiani (Cirio, Parmalat) avvenuti a partire dal 2001. Tuttavia, una delle conseguenze inintenzionali di tali eventi negativi è stato proprio il diffondersi di una maggiore consapevolezza all’interno della business community italiana che una miglior qualità del governo societario sia diventata un’esigenza ineludibile affinchè i mercati finanziari e le società del nostro paese riacquistino un minimo di credibilità agli occhi degli investitori nazionali ed esteri. Lo scopo di questo breve articolo è di fornire una prima valutazione della recente riforma del diritto societario, entrata in vigore il 1 gennaio 2004, riguardo alla tematica dei diritti delle minoranze, fattore chiave nel valutare l’affidabilità delle regole societarie presenti all’interno di un particolare ordinamento. 1. IMPRESA E COSTI DI TRANSAZIONE L’approccio microeconomico neoclassico concepisce l’impresa come il luogo in cui i fattori produttivi vengono trasformati in un prodotto o in un servizio. Gli elementi presi in considerazione sono limitati all’imprenditore ed alla tecnologia da questo utilizzata. L’imprenditore acquista sul mercato i fattori produttivi e vende sul mercato il prodotto della trasformazione tecnologica. Questa teoria non considera il funzionamento interno delle imprese e ne spiega le differenze strutturali come conseguenza delle differenze e delle condizioni dei mercati in cui esse operano. A questa visione tradizionale dell’impresa si contrappone l’economia dei “costi di transazione”, che si avvale dei contributi iniziali di Commons (1934) e di Coase (1937) successivamente sviluppati da Williamson (1981). L’esistenza dell’impresa viene spiegata da questo diverso approccio come un modo per condurre un’attività economica riducendo al minimo i costi di transazione tipici dei rapporti contrattuali che si intrattengono sul mercato, intendendosi per costi di transazione il tempo, gli sforzi e le altre risorse necessari per individuare, negoziare ed eseguire uno scambio contrattuale. La direzione unitaria della produzione, mediante la nascita dell’impresa, consente, infatti, di limitare drasticamente detti costi, riducendo al minimo il numero dei contratti tra i diversi fattori produttivi. L’impresa in questo modo tenderà ad espandersi sino a quando i propri costi organizzativi supereranno i costi transattivi del mercato. L’articolo è un adattamento di un lavoro in pubblicazione per i tipi della casa Editrice Il Sole 24 Ore: La Governance dell’Impresa tra regole ed Etica a cura di F. Carotti – G. Schlitzer e G. Visentini, Milano, 2004. 1 L’esistenza dei costi di transazione è pertanto la principale ragione che incentiva le imprese ad “internalizzare” le attività, incluse quelle aventi carattere secondario rispetto all’attività economica principale2. Risulta, infatti, evidente che nel momento in cui i costi di transazione (che insorgono soprattutto in presenza di contratti di lungo termine più esposti ai comportamenti opportunistici delle parti) sono superiori ai costi che le imprese devono sostenere per gestire internamente le varie attività di cui hanno bisogno, il ricorso al mercato non risulta essere più conveniente. Da tale constatazione deriva l’esigenza di individuare dei meccanismi che consentano di ridurre i costi di transazione connessi all’esternalizzazione di attività non “core” che comportano ingenti costi organizzativi. In conclusione, la prima domanda che ci poniamo è se la riforma del diritto societario possa agevolare la riduzione di tali costi di transazione3. 2. I RAPPORTI TRA I DIVERSI ELEMENTI COSTITUTIVI DELL’IMPRESA Una seconda corrente teorica ha studiato il problema della separazione tra proprietà ed amministrazione. In tutte le imprese in cui non vi sia coincidenza tra proprietà ed amministrazione si pone, infatti, il problema di come la proprietà possa controllare l’amministrazione, ossia di come i soci possano indurre i soggetti che amministrano l’impresa ad effettuare le scelte più congrue con i propri interessi. Il problema della separazione tra proprietà e controllo è stato analizzato dalle teorie dell’impresa basate sui conflitti d’interesse. Tali teorie presuppongono l’esistenza di divergenze di obiettivi tra i diversi soggetti costitutivi dell’impresa e la necessità che tali divergenze siano regolate dagli accordi negoziali che legano tra loro questi soggetti. I rapporti tra soci ed amministratori, che si inquadrano all’interno del classico rapporto di “agenzia” nel quale l’amministratore è “agente” del socio, suo mandante (principal nella terminologia utilizzata dall’analisi economica del diritto), possono essere problematici proprio per tali divergenze di interessi. Al contempo, tali conflitti possono far sorgere un’alleanza tra amministratori e dipendenti. Infatti, se i soci aspirano alla massimizzazione dei profitti, gli amministratori ed i lavoratori tenderanno a perseguire i propri interessi personali e potranno essere motivati solo attraverso adeguati sistemi di incentivazione. Infine, un’altra divergenza di interessi può sorgere tra il socio di controllo e quelli di minoranza (che ne diventano i principal) quando il primo, anche attraverso l’azione degli amministratori da questi strettamente controllati e l’influenza esercitata sugli organi di controllo (revisori e sindaci), storni a suo favore opportunità e risorse aziendali, con possibili effetti negativi nei confronti dei creditori. Secondo l’analisi economica del diritto, uno degli scopi precipui del diritto societario dovrebbe essere proprio quello di favorire un allineamento di questi interessi. Naturalmente, in tema di regole di corporate governance, uno degli argomenti di maggiore interesse affrontati dagli studiosi riguarda l’efficienza delle regole che disciplinano il rapporto soci / amministratori. Essendo però l’efficienza un concetto piuttosto ampio e di difficile valutazione pratica, la verifica di tale requisito non è sempre di immediata portata. Ad esempio, per ciò che riguarda le regole che concernano il funzionamento dell’organo di governo societario, l’accertamento dell’efficienza o meno delle regole che ne disciplinano il funzionamento, è realizzabile attraverso un metodo teorico piuttosto semplice: poste determinate finalità ed obiettivi riconducibili allo scopo insito nella creazione di un organo amministrativo (collegiale), quale può essere il consiglio di amministrazione nelle società per azioni del diritto italiano, 2 Cfr. G. Fiori, Società a responsabilità limitata e costi di transazione, in Analisi Giuridica dell’Economia, Bologna, 2003, p. 267. Non si vogliono qui dimenticare alcuni contributi fondamentali per la comprensione del fenomeno societario (e prima ancora di impresa) tra cui quelli di Alchian e Demsetz (1972) i quali hanno posto l’accento sulla necessità dell’impresa per gestire al meglio l’attività di cooperazione tra più soggetti, e di Rajan e Zingales (1998) i quali pongono l’accento sulla necessità di preservare l’investimento in capitale umano. Ai fini della presente indagine, tuttavia, l’ipotesi basata sulla teoria dei costi di transazione può essere presa come paradigma di misura dell’efficienza della norma. 3 l’efficienza delle norme che ne regolano il funzionamento è data dalla misura del raggiungimento o meno di tali obiettivi. In particolare, se si conviene che obiettivi funzionali del consiglio di amministrazione siano la funzione di indirizzo e consiglio nonché di sorveglianza dell’attività del management in un’ottica di massimizzazione del valore sociale (Ferrarini 2002, Jaeger 2000), saranno efficienti quelle norme che ne consentano il più alto grado possibile di raggiungimento. Appare il caso però di segnalare che sebbene in linea teorica tale tipo di analisi appaia quanto meno nei suoi presupposti e scopi facilmente conducibile, gli studi finora condotti non concordano sulla definizione di un modello ottimale di regolamentazione, presentando le diverse scelte possibili diversi gradi di efficienza sotto profili diversi. 3. LE NORME DEL NUOVO DIRITTO SOCIETARIO CHE INCIDONO SU QUESTI RAPPORTI 3.1 LE NUOVE REGOLE ITALI ANE DI CORPORATE GOVERNANCE Il complesso di norme che si occupano dei rapporti tra “agenti” e “principal” all’interno della società per azioni, va sotto il nome di corporate governance. Prima di passare ad una disamina della normativa italiana rilevante è bene notare come nella prospettiva economica del diritto la società per azioni non sia altro che un “fascio” (“nexus”) di contratti che lega tra di loro i vari partecipanti: soci, amministratori, manager, dipendenti, creditori. Si tratta di contratti espliciti (ad es. lo statuto) o impliciti (in quanto siano alcune clausole generali del diritto o norme ad hoc che determinano i comportamenti) che secondo molti autori sono sufficienti a regolare al meglio il fenomeno societario senza bisogno di interventi a carattere imperativo del legislatore. Altri, pur concordando sul fatto che lo scopo del diritto societario sia di minimizzare i costi di transazione, ritengono che la legge possa contribuire a questo scopo fissando alcune regole inderogabili. Come è noto, il legislatore italiano è recentemente intervenuto in materia in modo organico, con il D.lgs. n. 6 del 2003 che ha riformato il diritto delle società di capitali (la “Riforma”). Sotto questo profilo, è interessante notare come il filo conduttore principale della Riforma, così come era stato espresso nella legge delega n. 366/2001, sia quello di migliorare l’efficienza delle regole avendo il legislatore adottato un approccio ispirato ai principi della Law & Economics. In particolare, l’art. 2 (principi generali sulle società di capitali) impone di: - valorizzare il carattere imprenditoriale della società (art. 2 lett. b); - ampliare gli ambiti dell’autonomia statutaria tenendo conto delle esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti (art. 2, lett. d). L’art. 4 (società per azioni), tratta la disciplina dell’amministrazione e controllo stabilendo, tra l’altro, che le nuove regole dovranno: - garantire un equilibrio nella tutela degli interessi dei soci, dei creditori, degli investitori, dei risparmiatori e dei terzi (art. 4, comma 1); - prevedere un assetto organizzativo idoneo a promuovere efficienza e correttezza nella gestione (art.4, comma 2, lett. b); - attribuire adeguato spazio all’autonomia statutaria (art. 4, comma 8, lett. a); - definire le competenze dell’organo amministrativo con riguardo alla responsabilità esclusiva di gestione (art. 4, comma 8, lett. c), disciplinando i doveri di fedeltà degli amministratori. In buona sostanza emergono quattro concetti fondamentali: a) efficienza (che si estrinseca nel carattere di imprenditorialità); b) autoregolamentazione, intesa come sovranità accentuata del socio nel porre le regole di funzionamento; c) separazione dei ruoli tra management e proprietà; d) contemperamento degli interessi tra i diversi stakeholders (azionisti, creditori, terzi). Se non teniamo in conto la “correttezza” (cui si fa cenno nell’art. 4 comma 2, lett. b) come elemento qualificante della nuova normativa – quale legge potrebbe non avere come fine quello della correttezza dei comportamenti?4-, tre dei quattro concetti elencati rientrano nelle tipica concezione di massimizzazione del valore della società (a vantaggio degli azionisti) propugnato dagli studiosi di analisi economica del diritto (il cosiddetto shareholders’ value), mentre solo il quarto, sembra aderire in via residuale alla contrapposta visione che vede la società per azioni come un ente che ha responsabilità più estese nei confronti della collettività ( i cosiddetti stakeholders, coloro i quali per un motivo od un altro hanno un rapporto, per quanto mediato, con essa)5. Tuttavia, a ben guardare, l’elemento di maggior novità consiste nel superamento (non completo) della visione istituzionalistica della società, visto come soggetto meritevole in sé di considerazione e protezione dall’ordinamento giuridico in nome di un più elevato interesse pubblico, come istituzione che interagisce nel traffico giuridico attraverso una serie ben delineata di norme inderogabili, a favore di una concezione contrattualista, per la quale la società altro non è che un fascio di accordi tra i vari attori (teoria del nexus of contracts) che meglio e più efficientemente del legislatore possono regolare gli interessi in gioco con risvolti positivi anche per il benessere generale6. Tali considerazioni, lungi dall’essere meramente teoriche, forniscono in realtà una chiave interpretativa fondamentale di quelle norme contenute nella riforma del 2003 che lasciano spazio ad una visione più o meno restrittiva dell’ambito di libertà delle parti (in particolare soci e amministratori) del contratto di società e dell’estensione della loro responsabilità. 3.2. I PRINCIPI OCSE E IL CODICE DI AUTODISCIPLINA Poiché come si è detto, non è sempre agevole rintracciare in vitro il raggiungimento dell’obiettivo di efficienza (gli studi empirici sono uno strumento essenziale per tale tipo di ricerca, ma attualmente non sono, per ovvi motivi, disponibili), un ulteriore elemento di misurazione dell’efficacia delle nuove regole di diritto societario può essere costituito dai codici di autodisciplina. Questi ultimi hanno la caratteristica di essere adottati dalle società quotate su base volontaria e di essere redatti con il contributo degli operatori del mercato, gli stakeholder. La loro tecnica di redazione, insomma, si avvicina molto a quella “mimica” del mercato che dovrebbe ispirare il legislatore. In questa sede si è scelto di selezionare due di questi codici, quello a carattere più universale e quello più specificamente italiano. Come è noto l’OCSE ha emanato nel 1999 una serie di principi per il governo societario, i c.d. “Principles of Corporate Governance” volti a costituire una sorta di Linee-guida per le rilevanti scelte di politica legislativa da adottarsi da parte degli stati membri. Alla luce della loro vocazione “universale” tali principi costituiscono un evidente punto di riferimento, quale benchmark internazionale, per un’indagine comparatistica delle novità introdotte dalla riforma del diritto societario e saranno costantemente utilizzati a tal fine nel corso questo breve studio. La versione più attuale degli stessi emanata nel Gennaio 2004, anche se non ancora in versione definitiva, è quella qui utilizzata. Un ulteriore utile parametro di riferimento, alla luce dell’esperienza nazionale precedente l’emanazione della Riforma, è inoltre costituito dal c.d. “Codice di Autodisciplina” emanato dal Comitato per la Corporate Governance delle Società Quotate di Borsa Italiana, nell’edizione rivisitata del Luglio 2002. Le norme ivi contenute saranno utilizzate a commento dei principi di corporate governance fatti propri dalla riforma. Sotto questo profilo, ed anche in considerazione del fatto che recenti scandali stanno a dimostrare che la scorrettezza si può rivelare catastroficamente inefficiente, non mi sembra convincente il presunto possibile conflitto tra efficienza e correttezza nella gestione paventato da V. Calandra Buonaura,(2003). 5 Sul punto si veda P.G. Jaeger, (2000); G. Ferrarini, (2002). 6 P.G. Jaeger (2000) in cui la teoria dello shareholder value viene inquadrata tra le concezioni contrattualistiche pur costituendone un superamento che recepisce alcuni elementi della teoria istituzionalistica; si veda, per un inquadramento generale, C. Marchetti, (2002) e F. Easterbrook - D. Fischel, (1991). Di questa scelta del legislatore paiono dolersi , L .Nazzicone – S. Providenti, (2003), p. 6, allorché parlano di “preferenza eccessiva alla contrattazione tra soci”. 4 3.3 I SOCI E LA TUTELA DELLE MINORANZE a) I codici di autodisciplina . I Principi OCSE contengono in merito il seguente principio fondamentale: La struttura delle regole di Corporate Governance deve assicurare un trattamento paritario di tutti i soci, inclusi quelli di minoranza e stranieri. Tutti i soci devono avere l’opportunità di ottenere un risarcimento effettivo del danno derivante dalla violazione dei loro diritti. Tale principio generale trova poi riscontro in alcune regole specifiche che prevedono tra l’altro che “gli azionisti di minoranza devono essere protetti dai comportamenti abusivi eseguiti da o nell’interesse degli azionisti di controllo e devono disporre di adeguati strumenti legali risarcitori”. Inoltre, i Principi OCSE dettano un serie di norme particolari a protezione degli azionisti. Tra questi vanno ricordati il diritto ad esprimere il loro voto nel caso di cessione di asset rilevanti (principio I B); la possibilità di porre domande al consiglio di amministrazione e ai revisori esterni, inserire nuovi punti all’ordine del giorno dell’assemblea e a proporre risoluzioni, nonché di render noto il loro punto di vista sulla remunerazione degli amministratori (I C). Il Codice di Autodisciplina è meno dettagliato rispetto alle prerogative dei soci (ivi inclusi quelli di minoranza), anche se dedica due paragrafi a questo tema. Il para 12 (“Rapporti con gli investitori istituzionali e con gli altri soci”) raccomanda semplicemente un fattivo dialogo con gli investitori istituzionali, mentre il paragrafo 13 non va oltre alcune raccomandazioni affinché sia assicurata la trasparenza nel corso dell’assemblea e la possibilità di intervento per tutti i soci. Un accenno generale, ma importante, è contenuto nel paragrafo 1.3, ove si afferma che gli amministratori operano “perseguendo l’obiettivo della creazione di valore per gli azionisti”, sancendo così in modo inequivocabile che viene adottata una prospettiva di massimizzazione dello shareholders’ value, senza concessioni alla teoria degli interessi degli stakeholders o alle concezioni istituzionalistiche della società7. b) La riforma del diritto societario. Riesce la riforma societaria a recepire gli spunti di questi codici di comportamento e a centrare gli obiettivi di efficienza che si era proposta? La risposta è: solo in parte. Il D.lgs n. 6 del 2003 ha certamente semplificato la partecipazione degli azionisti all’attività sociale. Basti ricordare , a titolo di esempio, il nuovo articolo 2370 c.c. che ha abolito l’obbligo di deposito presso la sede sociale o un istituto di credito, almeno 5 giorni prima dell’assemblea delle azioni, dei titoli azionari dei soci che intendono partecipare all’assemblea. Inoltre, è stato istituzionalizzato per tutte le società (e non solo per quelle quotate, come in precedenza) il diritto della minoranza che rappresenti il 10% del capitale sociale a richiedere la convocazione dell’assemblea nonché la possibilità di inserire negli statuti il voto per corrispondenza. Alcune restrizioni sono state peraltro introdotte in tema di impugnabilità delle delibere assembleari (uno per mille nelle quotate e 5% per tutte le altre) ed introducendo la possibilità per gli amministratori di opporsi alla convocazione dell’assemblea da parte della minoranza. D’altronde, il socio di minoranza si ritrova con due armi in più di una certa rilevanza. La prima, già prevista dal Testo Unico della Finanza (T.U.F., D.lgs n. 58 del 1998) per le società quotate, è l’azione sociale di responsabilità delle minoranze prevista dal nuovo articolo 2393bis. Essa è ora esperibile con la stessa percentuale di capitale sociale previgente (5%) da tutte le società che fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio8 e dal 20% del capitale sociale delle società “chiuse” Per la prima teoria, la società deve tenere in conto anche gli interessi degli altri attori legati in qualche modo alla società (creditori, dipendenti, comunità circostanti, ambiente, ecc.); per la seconda, la società ha un valore in sè meritevole di protezione al di là dei interessi dei soci (Ferrarini 2002, Jaeger 2000). 8 Nella categoria delle società che fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio rientrano, oltre alle società quotate, anche le società aventi le caratteristiche individuate dall’art. 2-bis del Regolamento concernente la disciplina degli emittenti, adottato dalla Consob con delibera n. 11971 del 14 maggio 1999. In riferimento agli emittenti azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante l’art. 2-bis Reg. 11971/1999 recita: 7 (percentuale elevabile dallo statuto fino ad un 1/3). Rispetto all’art. 129 T.U.F. ora abrogato, l’art. 2393 bis ha eliminato l’obbligo dell’iscrizione da almeno 6 mesi nel libro soci come requisito per l’esercizio dell’azione stessa facilitandone quindi l’esperimento. Inoltre, l’art. 2388 c.c. è stato modificato nel senso di introdurre il potere per i soci di impugnare “le deliberazioni” del consiglio di amministrazione “lesive dei loro diritti”, frase che, per l’ampiezza della sua portata, non tarderà a suscitare contrapposte visioni relativamente all’estensione del termine diritto. Infine, non è irrilevante la novità introdotta dall’ art. 2497 c.c. che stabilisce la diretta responsabilità di chi (ente o società) esercita la direzione o controllo di gruppo nei confronti dei soci delle società controllate per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, salvo che non si possa dimostrare un cosiddetto vantaggio compensativo (in buona sostanza un vantaggio di medio lungo termine derivante dall’appartenenza al gruppo) e solo se i soci danneggiati non siano stati soddisfatti dalla società soggetta a direzione o coordinamento. c) Spunti comparatistici ed economici. Come si vede dalla rapidissima e non esaustiva panoramica testé effettuata, la novella legislativa ha certamente introdotto una serie di tutele aggiuntive per gli azionisti di minoranza, anche se non si è allineata completamente alle indicazioni previste dai codici e ad alcune postulati della teoria economica. La mancanza più rilevante che si nota rispetto ai Principi OCSE consiste nell’assenza di quelle regole che facilitano una partecipazione più attiva dei soci all’attività assembleare. Tale soluzione è probabilmente figlia della storica diffidenza del legislatore e della dottrina italiana verso i “disturbatori di assemblea”. Tuttavia, alcune delle soluzioni proposte in ambito OCSE servono solamente ad allineare più strettamente gli interessi di agenti e mandanti all’interno della società. Si pensi alla possibilità di porre domande alla società di revisione esterna da parte degli azionisti: il problema che si è sempre individuato rispetto alla funzione degli auditor esterni è quello del conflitto d’interessi. Non tanto e non solo il conflitto di interessi tra le funzioni di certificatore del bilancio e fornitore di servizi di consulenza, ma anche e soprattutto di agente fiduciario dei soci, ma effettivamente dipendente per retribuzione ed incarico dalle scelte degli amministratori il cui operato i revisori dovrebbero in primis controllare. La possibilità di dover rispondere direttamente alle domande poste dai propri “principal”, gli azionisti, è un certo incentivo per gli auditor ad allineare i propri comportamenti alle esigenze di questi ultimi. La possibilità di “render noto il proprio punto di vista sulla remunerazione degli amministratori” (con più o meno intensità: si potrebbe arrivare al punto che l’assemblea determina il compenso anche degli amministratori delegati) è un incentivo per gli amministratori a stabilire remunerazioni credibili, laddove gli azionisti hanno già la consapevolezza che compensi inferiori a quelli di mercato risulterebbero in una composizione del proprio management di scarsa qualità (sotto questo profilo, l’ultimo comma dell’art. 2389 costituisce una già positiva innovazione, prevedendo che lo statuto possa stabilire la possibilità di deliberare un tetto massimo al compenso dell’intero consiglio, compresi i delegati). Se ci soffermiamo sulle soluzioni avanzate dal Codice di Autodisciplina della Borsa Italiana, invece, l’inserimento da parte del legislatore di una clausola generale quale quella del paragrafo 1.3. (gli amministratori operano perseguendo l’obiettivo della creazione di valore per gli azionisti) avrebbe potuto “1. Sono emittenti azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante gli emittenti italiani i quali, contestualmente: a) abbiano azionisti diversi dai soci di controllo in numero superiore a 200 che detengano complessivamente una percentuale di capitale sociale almeno pari al 5%; b) non abbiano la possibilità di redigere il bilancio in forma abbreviata ai sensi dell'articolo 2435-bis, primo comma, del codice civile. 2. I limiti di cui al comma precedente si considerano superati soltanto se le azioni alternativamente: (i) abbiano costituito oggetto di una sollecitazione all'investimento o corrispettivo di un'offerta pubblica di scambio; (ii) abbiano costituito oggetto di un collocamento, in qualsiasi forma realizzato, anche rivolto a soli investitori professionali come definiti ai sensi dell'articolo 100 del TUF; (iii) siano negoziate su sistemi di scambi organizzati con il consenso dell'emittente o del socio di controllo; (iv) siano emesse da banche e siano acquistate o sottoscritte presso le loro sedi o dipendenze. 3. Non si considerano emittenti diffusi quegli emittenti le cui azioni sono soggette a limiti legali alla circolazione riguardanti anche l'esercizio dei diritti aventi contenuto patrimoniale, ovvero il cui oggetto sociale prevede esclusivamente lo svolgimento di attività non lucrative di utilità sociale o volte al godimento da parte dei soci di un bene o di un servizio. utilmente fungere da principio interpretativo generale cui far ricorso negli inevitabili casi dubbi che si sono venuti a creare nelle pieghe della Riforma. E per le altre novità legislative effettivamente introdotte? In generale si può affermare che i rivisitati articoli del codice civile tendono a allineare gli interessi di amministratori e soci rendendo i primi più responsabili nei confronti dei secondi senza peraltro, grazie alla permanenza della business judgement rule italiana (art. 2392 c.c., per il quale sono responsabili solo gli amministratori che agiscono con negligenza, mentre ne vanno esenti quelli diligenti anche in caso di risultati societari negativi) inibire troppo l’azione degli organi di direzione della società. In certi casi si è forse peccato di timidezza. Per quel che riguarda l’azione sociale di responsabilità delle minoranze, è pur vero che si è tolto il requisito dell’iscrizione per almeno 6 mesi a libro soci, ma si è tenuto il limite del 5% che ha dimostrato di non funzionare: a circa 6 anni dall’entrata in vigore del T.U.F., grazie al troppo alto limite non è stata finora iniziata una sola causa di questo tipo. E’ pur vero che la derivative suit americana (consanguinea della nostra azione sociale di responsabilità) è stata sottoposta negli USA a vivaci critiche da chi ritiene che essa venga utilizzata per frivolous suit e che non accresca lo shareholders’ value (Easterbrook-Fischel, 1996). Tuttavia, se si vuole che l’istituto svolga una pur limitata funzione deterrente, è altrettanto vero che non lo si può lasciare completamente inoperante. In altri casi, l’intervento del legislatore ha violato quei principi di liberta di contratto che secondo la teoria economica assicurano l’efficienza della norma. Nello stabilire la responsabilità di gruppo, ad esempio, per le società quotate si sarebbe potuta disporre la possibilità di approvare una clausola statutaria di esenzione di responsabilità (salvo che per dolo o colpa grave) di chi esercita la direzione o il controllo. Il mercato avrebbe poi deciso, in una logica di concorrenza tra statuti, quale società premiare. In conclusione, la Riforma del 2003 ha certamente inciso in modo positivo sulla tematica dei diritti degli azionisti di minoranza: pur tuttavia, è doveroso segnalare come l’impianto legislativo soffra di alcune incoerenze e timidezze cui in futuro sarà opportuno porre rimedio. 3.4. IL CONFLITTO DI INTERESSI a) I codici di autodisciplina La tematica degli obblighi dell’amministratore in conflitto di interessi è ampiamente affrontata sia in ambito OCSE sia nelle regole del Codice di Autodisciplina. I principi OCSE nell’enunciare il ruolo del Consiglio di Amministrazione affermano il principio generale per cui: “La struttura delle regole di Corporate Governance deve assicurare la guida strategica della società, l’effettivo controllo del management da parte del Consiglio e l’affidabilità e lealtà alla società ed ai soci”. Sempre secondo i principi OCSE, inoltre: “Il Consiglio deve considerare di stabilire un numero sufficiente di consiglieri non esecutivi che siano in grado di assicurare l’esercizio del diritto di voto in maniera indipendente in caso di materie dove ci sia un potenziale conflitto di interesse. Esempi di tali responsabilità fondamentali sono assicurare l’integrità di reporting finanziari e non finanziari, il controllo delle operazioni con parti correlate, designazioni in Consiglio e determinazione delle remunerazioni degli amministratori e dell’amministratore delegato”9. Si tratta di una tematica affrontata anche dal Codice di Autodisciplina delle società quotate il quale, in maniera del tutto analoga a quanto previsto dal legislatore della Riforma, richiede che le operazioni con parti correlate rispettino criteri di correttezza sostanziale e procedurale. In particolare l’art. 11.2 prevede che: Nelle operazioni con parti correlate gli amministratori che hanno un interesse, anche potenziale Si legge nell’annotazione relative al principio OCSE 5.E.1 che “The board may also consider establishing specific committees to consider questions where there is a potential for conflict of interest. These committees may require a minimum number or be composed entirely of non-executive members”. 9 o indiretto, nell’operazione: a) informano tempestivamente ed in modo esauriente il consiglio sull’esistenza dell’interesse e sulle circostanze del medesimo; b) si allontanano dalla riunione consiliare al momento della deliberazione.10 b) La riforma del diritto societario La Riforma ha affrontato la delicata materia della concorrenza tra gli interessi della società e quelli degli amministratori con una più rigorosa disciplina dei doveri di fedeltà che l’amministratore, quale gestore di patrimonio altrui, ha nei confronti della società, allineandosi decisamente all’indirizzo rigoroso suggerito dai codici di autodisciplina. Questa tendenza di maggior rigore è seguita dai principali ordinamenti giuridici, primo fra tutti quello nord americano (ove il duty of loyalty è uno dei doveri tipici dell’amministratore), e giustificata da quelle teorie dell’analisi economica del diritto che attribuiscono alle norme imperative il compito di ridurre i “costi di agenzia”; costi che gli azionisti devono sostenere per vigilare l’obbligo degli amministratori di non perseguire interessi in conflitto con quello sociale. Il riformulato art. 2391 c.c. tutela in primo luogo la trasparenza, imponendo agli amministratori di dare notizia di ogni interesse che essi abbiano, anche per conto di terzi, in operazioni della società, indipendentemente dall’esistenza di una situazione di conflitto e dall’esistenza di un possibile danno a carico della società. Pertanto l’obbligo di disclosure dovrebbe essere rispettato anche nel caso in cui, per le condizioni dell’operazione (ad esempio compiuta a prezzi di mercato) si escluda comunque un contrasto od un disallineamento tra gli interessi dell’amministratore e quelli della società. Si tratta di una norma particolarmente innovativa, considerando che la disciplina previgente obbligava l’amministratore a dare notizia solo dell’interesse in conflitto senza specificare che ogni interesse andasse comunicato e spiegato. In secondo luogo, viene imposto agli amministratori delegati interessati di astenersi dal compiere l’operazione, investendone l’organo collegiale e obbligando a motivare la deliberazione adottata nella situazione prevista dalla norma. In terzo luogo, si persegue la prevenzione del danno consentendo l’impugnativa della deliberazione dell’organo non solo agli amministratori assenti, ma anche a quelli consenzienti e al collegio sindacale quando non siano stati debitamente informati del conflitto. Da ultimo, si prevede che il risarcimento integrale del danno sia dovuto, oltre che nei casi di violazione dei doveri di informazione e di astensione dal voto, anche nei casi in cui un amministratore abbia utilizzato a vantaggio proprio o di terzi, o abbia comunicato a terzi, dati, notizie od opportunità di affari appresi nell’esercizio delle proprie funzioni. Il maggior rigore di questa disciplina vuole così affermare i principi di trasparenza e di correttezza della corporate governance dal punto di vista gestionale specialmente sotto il profilo della prevenzione del danno. Resta salva, in ogni caso, l’applicazione della disciplina generale dell’art. 1394 c.c. in tema di conflitti di interesse del rappresentante, nell’ipotesi in cui l’attività dell’amministratore non sia preceduta da una deliberazione collegiale, come può avvenire in caso di amministratore unico o di amministratore delegato con poteri di rappresentanza.11 Alla luce della disciplina sopra esposta appare evidente, pertanto, come esista una sostanziale coerenza delle norme riformate rispetto agli standard di corporate governance definiti a livello nazionale ed internazionale. Un’ultima notazione: si è preferito non creare ex lege (salvo che per il cosiddetto modello monistico) la figura dell’amministratore indipendente, previsto dai codici di autodisciplina e da molti ordinamenti stranieri (basti pensare a quello USA) come presidio rispetto alla valutazione dei conflitti di interesse. Nonostante gli studi empirici non raggiungano risultati unanimi sull’utilità di tale figura (salvo in determinati casi come la valutazione di OPA ostili o la sostituzione di manager inadeguati) sarebbe stato Si legge di seguito nel Codice di Autodisciplina che il Comitato ritiene opportuno che il consiglio, sia preventivamente e adeguatamente informato degli eventuali interessi che taluni amministratori possono avere nell’operazione, in modo che gli altri amministratori possano avere piena contezza dell’estensione e rilevanza di tali interessi, indipendentemente dall’esistenza di una situazione di conflitto. 11 Secondo D.U. Santosuosso, La riforma del diritto societario, Milano 2003, p. 146, sebbene non sia prevista una disciplina esplicita per il caso di conflitto di interessi dell’amministratore unico, in questa ipotesi lo stesso dovrebbe darne circostanziata notizia al collegio sindacale e astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa l’assemblea. 10 ciò nonostante opportuno inserire e delineare i tratti essenziali di tale figura nel codice civile anche per le società che adottano il modello di amministrazione tradizionale. In primo luogo, gli indizi della letteratura rimangono lievemente positivi rispetto all’utilità dei consiglieri indipendenti. inoltre, lasciando la possibilità di limitarne il numero statutariamente, si sarebbe ancora una volta stimolata quella concorrenza tra statuti che serve al mercato degli investitori per compiere delle scelte informate. 3.5 PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA TRA TITOLARI DI MEDESIME CATEGORIE DI AZIONI a) I codici di Autodisciplina Uno dei principi fondamentali inseriti nei Principi OCSE è sicuramente quello concernente la parità di trattamento tra soci appartenenti alla medesima categoria di azioni. Infatti si prevede che “Tutti gli azionisti della stessa categoria devono essere trattati equamente”. Inoltre, al Principio A.I, è stabilito che: “all’interno di ciascuna categoria tutti gli azionisti devono avere gli stessi diritti di voto. Tutti gli investitori devono essere in grado di ottenere informazioni circa i diritti di voto connessi a tutte le categorie di azioni prima del loro acquisto. Ogni cambiamento nei diritti di voto dovrebbe essere sottoposto all’approvazione di quelle categorie di azionisti che ne subiscano le conseguenze”. Tali indicazioni rivestono sicuramente un ruolo significativo nell’ambito della struttura di corporate governance indicata dall’OCSE e, sebbene non sia possibile trovare un riscontro diretto delle stesse nell’ambito delle disposizioni contenute nel Codice di Autodisciplina, offrono un sicuro spunto per una riflessione sulle novità introdotte in merito dalla Riforma. b) La Riforma del diritto societario Il legislatore è intervenuto in quest’ambito seguendo un indirizzo generale teso, da un lato, attraverso il riconoscimento di un’ampia autonomia statutaria, a prevedere in favore dei soci una notevole e rinnovata libertà nella emissione di diverse categorie di azioni e strumenti finanziari, anche dotati di diritti diversi; dall’altro, garantendo ed assicurando una eguaglianza di tutti gli azionisti appartenenti alla medesima categoria di azioni. Sotto questo profilo la portata innovativa della riforma è certamente di limitata rilevanza visto che il principio di uguaglianza e di parità di trattamento di tutti gli azionisti titolari della medesima classe di azioni era una regola di diritto già codificata nel testo previgente. Il legislatore della riforma ha quindi mantenuto inalterato il sistema dei principi posti a presidio dell’autonomia statutaria dei soci. Molto maggiore è però il peso che la possibilità di creare una molteplicità di azioni con diritti amministrativi e patrimoniali differenziati potrà avere sulle chance delle società per azioni di reperire capitale di rischio tra il pubblico, pur nel rispetto del principio paritario sopra enunciato. L’estrema sensibilità dimostrata in quest’ambito dal legislatore della Riforma è testimoniata dal fatto che, ad esempio, sia adesso esplicitamente riconosciuta la possibilità di emettere azioni correlate (tracking stocks o targeted stocks), come anche quella di emettere categorie di azioni con incidenza differenziata sulle perdite ovvero azioni c.d. riscattabili. Le norme in materia appaiono comunque coerenti con i principi OCSE i quali ribadiscono come si è visto sia, implicitamente, la possibilità che la società si doti di strumenti finanziari di partecipazione differenziati per tipologia sia, soprattutto ed esplicitamente, il principio che all’interno di ciascun tipo debba esistere un’eguaglianza di trattamento. 3.6 LA PARTECIPAZIONE AGLI UTILI ED I PIANI DI STOCK OPTION PER GLI AMMINISTRATORI Una delle soluzioni individuate dalla maggioranza degli economisti per ridurre le divergenze di interessi tra proprietà e management consiste nell’uso delle stock option quale strumento di remunerazione complementare o alternativo alla retribuzione in misura fissa. Si tratta dell’attribuzione agli amministratori del diritto di acquistare un determinato numero di azioni entro una data stabilita ad un prezzo prefissato. In questo modo il manager sarebbe incentivato ad aumentare il valore di mercato delle azioni, per rivenderle magari ad un prezzo più elevato, con la garanzia di poter rinunciare al loro eventuale acquisto. a) I codici di Autodisciplina Tale forma di remunerazione intrinsecamente legata ai risultati economici della società era già stato suggerito dal Codice di Autodisciplina per le società quotate al fine di perseguire l’allineamento degli interessi degli amministratori delegati con quelli degli azionisti. Al fine di scongiurare il rischio dell’adozione di sistemi di remunerazione contrastanti con gli interessi sociali, il Codice di Autodisciplina raccomanda la costituzione all’interno del consiglio di amministrazione di un comitato per la remunerazione e per gli eventuali piani di stock option o di assegnazione di azioni, composto prevalentemente di amministratori non esecutivi, il quale formula proposte al consiglio, in assenza dei diretti interessati, per la remunerazione degli amministratori delegati e di quelli che ricoprono particolari cariche, nonché su indicazione degli amministratori delegati, per la determinazione dei criteri per la remunerazione dell’alta direzione della società . I principi OCSE prevedono numerosi obblighi di disclosure a carico degli amministratori in maniera tale da consentire agli azionisti di verificare l’esistenza e la persistenza di un corretto legame tra performance societaria e remunerazione dei membri del Consiglio. Inoltre, il principio I.C.3 stabilisce che la componente azionaria del compenso per i membri del CdA e i manager più importanti deve essere soggetta all’approvazione degli azionisti. Di particolare interesse il principio V.D.4 che tra i compiti del CdA elenca l’allineamento della remunerazione di manager e amministratori con gli interessi di lungo termine della società, fissando così dei paletti cui devono attenersi anche i piani di stock-option. b) La riforma del diritto societario La Riforma ha prestato attenzione ai temi connessi alla definizione di misure alternative di corresponsione del compenso degli amministratori introducendo significative novità. Innanzitutto è stato confermato che il compenso dei consiglieri possa essere costituito in tutto o in parte da una partecipazione agli utili, prevedendo poi un disciplina che istituzionalizza la prassi dei piani di stock option, precisando all’art. 2389, comma 2 c.c. che è possibile attribuire agli amministratori, a titolo di compenso, il diritto di sottoscrivere a prezzo predeterminato azioni di futura emissione. La determinazione del compenso spetta all’assemblea all’atto della nomina ovvero, in caso di amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto (amministratori delegati o presidente del consiglio di amministrazione), allo stesso consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale. In caso però di approvazione di piani di stock option la competenza dovrebbe sempre spettare all’assemblea, comportando gli stessi una rinunzia al diritto di opzione spettante ai singoli soci. Quale meccanismo di difesa da possibili abusi, la Riforma prevede la possibilità che l’assemblea fissi un tetto massimo di spesa per la remunerazione di tutti gli amministratori, compreso l’amministratore delegato ed il Presidente. Le deliberazioni assembleari in questa materia richiederanno una congrua motivazione alla luce dell’interesse sociale richiamato dall’art. 2441, comma 5, c.c., e l’applicazione delle maggioranze rafforzate ivi richieste. Appare evidente come le regole stabilite dal Codice di Autodisciplina trovino allo stato soltanto una parziale corrispondenza nelle norme riformate, rimanendo facoltativa per le società quotate la procedura ivi prevista attraverso la creazione di un apposito comitato consultivo. c) Spunti economici Malgrado gli indiscussi effetti incentivanti che queste modalità alternative di remunerazione presentano a vantaggio della società e la loro importante diffusione nella prassi, studi empirici hanno dimostrato come la remunerazione media dei manager sia scarsamente ancorata alle performance della società12. Un’importante ricerca condotta nei primi anni ’90 ha dimostrato come la remunerazione dei manager americani catturi in media solo lo 0,3% della performance d’impresa. 12 M. Jensen, K. Murphy, Performance Pay and Top Management Incentives, in Journal of Political Economy , 1998, p. 225. Le motivazioni che limitano l’uso di tali modalità alternative di remunerazione sono molteplici. Innanzitutto la volatilità di questa forma di compenso che potrebbe non essere gradita dai manager. In secondo luogo l’ancoraggio della remunerazione ai corsi azionari si presta a manovre speculative, tendendo a favorire la divulgazione strategica di informazioni aziendali in prossimità della data di riscatto dei titoli azionari o la manipolazione dei dati contabili13. Da un punto di vista teorico bisogna anche considerare che, sebbene lo strumento dei piani di stock option sia rivolto, in un’ottica premiale e di fidelizzazione del dipendente, a creare un legame tra la performance societaria e la retribuzione degli amministratori e dei manager, riconoscendo a questi una frazione del valore aggiunto creato in favore della società dalla loro azione di gestione e governo societario, è anche vero che, di fatto, tale legame potrebbe rivelarsi significativamente influenzato e distorto da cause di natura esterna (ad esempio, fluttuazioni del titolo dovute a fattori esogeni quali speculazioni borsistiche o a cattive congiunture internazionali). È evidente, pertanto, come, in ultima analisi, uno dei limiti all’efficienza dello strumento in esame risieda proprio nel fatto che il valore aggiunto eventualmente creato dall’azione del manager non si traduca necessariamente in un apprezzamento del titolo, per lo meno nel breve-medio termine. Tale non necessaria corrispondenza potrebbe provocare comportamenti opportunistici da parte del management (vendita dei titoli in anticipazione a determinati eventi o politiche aziendali di “pompaggio” del titolo a discapito del valore di medio-lungo termine) se l’assegnazione di stock option non fosse parametrata a criteri obiettivi e che scoraggino azioni devianti. Da non sottovalutare infine le problematiche commesse ai conflitti di interesse (specialmente in caso di azioni di altra società del gruppo) e di insider trading. La tendenza a introdurre requisiti di trasparenza più severi per l’utilizzo di tale strumento sembra in linea con esigenze di efficienza, proprio per evitare i comportamenti opportunistici o devianti sopra evidenziati e costringere gli amministratori ad una riflessione più approfondita su quale formula di stock-option allinei di più gli interessi tra manager ed azionisti. 4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Il presente breve contributo non ha pretese di esaustività e vuole soltanto servire quale riflessione introduttiva sugli effetti che le norme riformate del diritto societario possono avere sul rapporto soci - amministratori e, più in generale, sui principali temi della corporate governance. Molti altri istituiti potrebbero essere esaminati e sicuramente saranno oggetto di altri e più approfonditi studi. Si pensi ad esempio ai temi inerenti le regole sul funzionamento del consiglio di amministrazione e, soprattutto, alle nuove opportunità ed ai rischi connessi con l’introduzione di due differenti sistemi di amministrazione e controllo (quello monistico, di derivazione anglosassone, e dualistico, di matrice tedesca) in alternativa a quello tradizionale o “latino”. Ciononostante, le riflessioni sopra compiute costituiscono uno spunto per operare un primo bilancio e rendere alcune considerazioni conclusive. Sicuramente il legislatore della Riforma è stato spesso guidato nella redazione delle nuove norme da considerazioni di matrice economica. Spesso la commissione di riforma è giunta ad individuare soluzioni che, in ossequio agli obiettivi posti nella legge delega, consentissero di ottenere un risultato di efficienza delle regole per le imprese. Ciò è di tutta evidenza con riguardo ad una molteplicità di scelte quali ad esempio l’introduzione di nuovi strumenti di finanziamento, la nuova disciplina della remunerazione degli amministratori e dei piani di stock option, le norme sul conflitto di interesse, le regole sulla partecipazione all’assemblea da parte dei soci e, almeno in parte, l’azione di responsabilità dei soci di minoranza. Questa linea di tendenza ha portato, come si è visto, ad una complessiva maggiore coerenza del nostro diritto societario rispetto agli standard di corporate governance proposti dall’OCSE e dal Comitato per la Corporate Governance delle Società Quotate di Borsa Italiana. 13 F. Rordorf, “Stock options” ed informazione del mercato, in Società, 2001, p. 147. Tuttavia, forse, qualche occasione è andata perduta. Il caso è quello della tutela dei soci di minoranza dove, ad esempio, le soglie del 5% e del 20% poste per l’esercizio dell’azione di responsabilità dei soci di minoranza, si riveleranno con tutta probabilità troppo elevate per avere un impatto significativo nella nostra realtà economica. Un altro esempio potrebbe essere quello della mancata definizione legale della figura degli amministratori indipendenti, dove si dovrà ancora fare ricorso, per espressa volontà del legislatore, ai principi concordati in sede di autoregolamentazione. Altre volte, infine, le scelte del legislatore, anche se evidentemente dettate da propositi di efficienza, destano sincere perplessità, come nel caso della nuova disciplina della responsabilità di gruppo, i cui dettami si pongono a mio avviso in contrasto con i principi di efficienza delle regole propugnati dalla dottrina economica. Infine, un’evidente incognita nel raggiungimento degli obiettivi voluti dal legislatore è sicuramente costituita dall’interpretazione che del complesso delle nuove regole sarà fatta dagli operatori del diritto quali, in primo luogo, i magistrati, gli avvocati e, non ultime, le imprese. Sarà compito dei primi interpretare e rendere “vive” le norme societarie alla luce dei principi di razionalità ed efficienza derivanti dall’ausilio degli studi di analisi economica. Agli avvocati, alle imprese ad agli altri operatori economici spetterà il fondamentale compito di cogliere le significative novità ed opportunità che si prospettano. Gli studiosi del diritto potranno, infine, trovare nuova linfa dall’impronta giuseconomica che connota molti aspetti delle regole riformate. Alessandro De Nicola Avvocato in Milano, professore a contratto Università Bocconi e Presidente The Adam Smith Society BIBLIOGRAFIA A. Alchian - H. Demsetz, Production, Information Cost and Economic Organization, in Am. Econ. Rev., 1972, pp. 777 e ss. T. Baums – K. E. Scott, Taking shreholder Protection seriously?, Corporate Governance in the United States and Germany, Frankfurt – Standford, 2003. M. Belcredi, La riforma del diritto societario. La corporate governance delle società non quotate, in Mercato concorrenza regole, 2000, pp. 384 e ss. M. Belcredi – L. Caprio, Struttura ed efficienza della “corporate governance”, in Analisi Giuridica dell’economia, 1, 2003, pp. 61 e ss. M. Bennedsen, Why do firms have boards?, WP n. 3, 2003, pp. 1 e ss. L. A. 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