V Conversazione - Archiviabsentia

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V Conversazione
24 settembre 2007
Paolo Ferrari: A te la parola.
Luciano Eletti: A parte il fatto che ricominciamo senza ricordare, almeno da parte mia, il punto
in cui eravamo arrivati a luglio. Forse non è importante.
P.: La governance.
L.: Di cosa?
P.: Governance, economia, teologia, trinità…
L.: Il tema da cui far sorgere la domanda devo proprio cavarlo fuori dalle profondità perché non
mi è chiaro per niente.
Quindi provo a girarci attorno, perché non mi è facile. E neanche in tutti questi mesi o addirittura
anni mi è mai riuscito di tirar fuori la domanda in maniera esplicita, però ci provo, partendo un po’
personalizzando.
Quindi cercherò di attivare la mia fenomenologia personale in rapporto all’Assenza per vedere se
riesco a tirar fuori una domanda, che secondo me è implicita qui dentro - se non più di una.
Anche perché è rimasta sepolta per molti anni, tirarla fuori da lì sotto non è per niente facile. Si è
un po’ mimetizzata, un po’ è scomparsa, un po’ è riapparsa, ma ancora adesso non ha forse
possibilità di esprimersi in forma di domanda.
Quindi devo partire un po’ da me, anche se in realtà vorrei far domande a Paolo.
P.: Ma questo è un dialogo, quindi va bene che tu imposti…
L.: Allora, io sono un italiano medio, nato alla metà degli anni Cinquanta.
L’italiano medio, nipote e di coltivatori diretti e di artigiani cittadini, ha una formazione cattolica,
tra Pio XII e Paolo VI. C’è ancora questo incompiuto.
Nel corso della mia lotta col divino, partita già verso i quattordici anni o giù di lì…
P.: Il XIV secolo, mi sembrava.
L.: Può darsi. Filogeneticamente risale agli anni Sessanta, Settanta; forse storicamente ha già
dentro un altrove.
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Io ho tentato una forma di evoluzione dallo spirito, per cui quindi bisognava venissi a cazzotti col
divino; quindi anche tutto il mio cammino universitario - studi in filosofia - sempre con un occhio
di riguardo a questo aspetto - che nessun altro vedeva, tra l’altro, in me.
P.: L’aspetto è lo spirito? L’evoluzione dello spirito, fenomenologia dello spirito?
L.: No, la lotta col divino.
E nonostante tutte le indagini fatte, in maniera istituzionale e no, ai tempi dell’università e subito
dopo, tutte le argomentazioni allora di moda, culturalmente di moda intendo dire, non mi avevano
mai convinto, in fondo. Il problema era molto più complesso. Come quella frase di ieri a
Belgioioso, frase feuerbachiana, sì interessante, notevole, ma pur semplicistica.
P.: Quella sul muro?
L.: Sì, quella sul muro, sul senso della vita.
P.: Be’, ripetila, perché gli altri non la sanno.
L.: La banalizzazione feuerbachiana, cioè che l’uomo ha inventato Dio per dare un senso alla sua
esistenza. Che però, in realtà, è un’interpretazione che da un lato, dal punto di vista razionale,
funziona, ma dal punto di vista fenomenologico non funziona, nel senso che non è sufficiente. Non
che non sia vera, può essere benissimo vera, ma non è sufficiente.
Quindi all’epoca dell’università, o anche dopo, cercavo di trovare un modo per farla finita con
Dio, come diceva Artaud.
Dopo di che ho cominciato a cercare di arrampicarmi sugli specchi dell’Assenza; per vari anni,
boccheggiando, traccheggiando, tentando le metafore e le analogie possibili per l’aspetto
semiteologico dell’Assenza.
Ricordo che a un certo punto – non ricordo più in che fase, comunque ormai parecchi anni fa –
ero rimasto colpito non so esattamente da che cosa – forse non era niente di particolare perché non
c’era bisogno di qualcosa di particolare -, e mi ero detto: va bene, ma qual è la differenza? Perché
c’era un aspetto fenomenologico che mi entrava in dissonanza con qualcos’altro di vago che avevo
vissuto in precedenza, ma anche in maniera non sufficientemente fondata dal punto di vista
teologico, diciamo. Mi ero comunque accorto che era ormai evidente che non era un fatto di
nozione, nel senso del concetto che era in gioco, ma di qualcosa che poi fondava il concetto e gli
dava sostanza: quel qualcosa cui non ero mai riuscito ad attingere, a cacciare dentro le radici; ragion
per cui le argomentazioni, per quanto razionalmente fondate, erano dei bei disegni, ma non
servivano a vivere.
Mi sono detto: ma guarda un po’, qui c’è un sostrato che da un lato non può essere comune, e
dall’altro però è indiscutibilmente comune perché è un fatto fenomenologico, è ciò che uno sente,
un’intuizione; ma non un’intuizione sentimentale, un’intuizione…
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P.: … alla Husserl.
L.: Sì, esatto: un’intuizione eidetica; adesso non esageriamo, però simile, che non ha a che fare
col sentimento.
P.: E neanche con l’elemento emotivo.
L.: No, no, per niente, certo.
E il bello è che l’elemento emotivo può anche avere gioco, ma è comunque epifenomenico: può
esserci, non esserci, ma non è la parte più importante; e poi si impara che si può anche farne a
meno, perché comunque ciò che può star sotto…
P.: Dell’emozione dopo ne parliamo.
L.: …ciò che sta sotto è incentrato su sé stesso, è autonomo, quindi può anche farne a meno, può
anche accettarlo; dipende dall’economia, appunto, se in un punto si esprime, in un altro no, e che
non abbia nessuna rilevanza. Poi questa cosa è rientrata sotto traccia: più o meno saliva. E’ una cosa
che ho sempre tenuto di vista perché ci sono sempre vari piani che ho seguito.
P.: Adesso puoi arrivare al primo punto? perché altrimenti si dilata troppo.
Adesso tocca a me fare…
L.: Poi mi domandavi: ma dal punto di vista filosofico come può essere vista questa indagine?
E questa è un’ulteriore complicazione, perché dal punto di vista filosofico si può dire – come ti
avevo anche detto – che se uno ritiene di avere certe esperienze, deve trovare il modo perché
qualcun altro le abbia per poterle piantare su una base scientifica, come quella da Galileo in avanti.
Questo da un punto di vista scientifico.
Da un punto di vista filosofico, uno può dire: va be’, se queste cose le senti tu ma io non le sento,
non ci posso fare niente.
E allora dal punto di vista filosofico può dire: il discorso sull’Assenza…
P.: Non solo se le senti, ma se le pensi; se il pensiero arriva a determinare queste cose e a poterle
pensare dall’interno, e non soltanto come elemento argomentativo; e la parola può imparare a
poterle dire dal loro interno, e non soltanto in modo argomentativo.
L.: Infatti questo è anche il limite che trovavo quando mi capitava di andare a qualche convegno
filosofico dove si avvertiva che grattando sotto diversi strati, anche di notevole erudizione cui
facevo tanto di cappello, non si capiva che cosa guidasse tutto quell’ammasso di conoscenze
pazzescamente dettagliate.
Da un punto di vista filosofico, uno può dire: il discorso sull’Assenza non ha a che fare con la
filosofia, ha a che fare con la saggezza.
Qui si entra in un’ulteriore complicazione nella storia della filosofia per cui in alcune epoche della
storia del pensiero in Occidente le cose si sono intersecate più o meno pesantemente - basti pensare
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a Socrate -; e non è un’intersezione banale, è un punto in cui - e in Platone lo si vede ancora di più c’è una continua frizione o attrazione o repulsione, c’è un’oscillazione tra la filosofia come
argomentazione e la filosofia come saggezza. Che è poi quella storica, ellenistica. Che poi è quella
che prevale in Oriente. E non è una filosofia, è una saggezza, perché non pretende che ci si arrivi
attraverso argomentazioni formalizzate.
Quando poi si è cominciato a indagare il discorso dell’Assenza dal punto di vista buddista – ci
sono stati anni in cui l’abbiamo fatto -, le cose si sono rese ancora più complesse. Finché,
nell’ultimo anno e mezzo o due, siamo andati finalmente a toccare ciò che sta nel logos
dell’Occidente, cioè l’aspetto teologico; che è basilare, senza il quale il logos non si capisce che
cosa sia, per lo meno in quella strana conformazione che ha preso in Europa a partire dal distacco
dall’Oriente attraverso l’invasione musulmana.
Per cui l’Europa ha dovuto far conto per sé stessa e cavare tutte quante le necessità da ciò che le
rimaneva dal suo passato e far fruttare al massimo la novità del cristianesimo in cui il logos viene
riattivato, in cui c’è una relazione antinomica, antitetica: insomma, rimette in gioco un’oscillazione
mostruosa in tutto l’Occidente che costruisce l’Europa.
Adesso come faccio a porre una domanda a proposito di questo caos?
P.: Niente, parlo io.
L.: Il pathos dell’Europa è la distinzione: il concetto va per distinzione, per separazione; si cerca
di arrivare alla verità, l’altra grande passione dell’Occidente, per gradi, per approssimazioni, per
dialettica, appunto, come insegnava la filosofia greca.
Dopo di che, attraverso questo discorso, siamo arrivati all’Assenza per indagare questo piano di
esperienza, tra parentesi, in cui convergono aspetti di tutta la storia dell’Occidente, e non solo. Con
cui si riesce probabilmente a fare i conti anche con ciò che in Occidente si è lasciato indietro: per
esempio l’Illuminismo è stato una grande frattura, forse la prima grande frattura consapevole nella
storia dell’Occidente. Gli illuministi erano convinti che la storia iniziata nel Settecento fosse per
definizione diversa da quella precedente, e hanno ipotizzato la possibilità di costruire un mondo
razionale dall’uomo. Per cui hanno visto poi tutto il resto dell’umanità come…
P.: Arriva al primo scalino, altrimenti qui…
Dobbiamo procedere a scalini.
L.: Appunto, l’approssimazione.
P.: Sì, è un’approssimazione.
L.: A questo punto incominciamo a toccare i gangli dell’Occidente e a provare a vedere che cos’è
l’Assenza, che cosa c’è di già implicito e perché il pensiero occidentale non l’ha pensato.
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O, ecco, forse è questa la domanda: come possiamo definire il procedere per Assenza: per
differenza o per diversità?
P.: Devo fare alcuni passi indietro. Perché il problema cui mi sono esposto è che da un certo
punto di vista, per me o per quanto riguarda questa tematica, l’indagine è finita.
Il problema che ho io e che questo campo ha è come, quali elementi, quali gangli, quali diritture,
quali perdite, quali manifestazioni, quali vite e quali morti seguire per poter dire qualche cosa
relativamente a questo, tale per cui questo assuma le caratteristiche di un concetto, e dal concetto
diventi un concetto, diciamo, vivente: non è più soltanto l’elemento metafisico, concettuale, ma
diventa l’elemento tale per cui qualche cosa di questa particolare condizione, che a mio avviso è la
condizione fondamentale di tutti i cervelli umani consapevoli ma della quale i cervelli non sono
capaci, non sono capaci di fare questo passo indietro perché questo implica che il cervello accetti di
essere morto su un certo piano, [sia conoscibile? vivibile?]
E quindi andare a indagare l’evoluzione: perché l’evoluzione ha preso una certa strada? Perché
l’evoluzione non può dire questa cosa?
E allora cominciare a indagare tutti questi campi, riducendo, delimitando in un certo senso la
potenza di questo processo, il quale ha una potenza straordinaria perché se no non può dire.
Da questo punto di vista è vicino a quello che l’Occidente ha detto essere il pensiero divino, nel
senso della potenza, l’onnipotenza, il fatto che può spostarsi avanti e indietro nel tempo e nello
spazio: può fare tutta una serie di attività alle quali il cervello umano di Homo sapiens non è
capacitato ancora, pur avendole alla base, altrimenti non potrebbe produrre il suo pensierino.
Allora il problema è cercare - e queste conversazioni vanno in tale direzione - di dare un limite,
una limitazione a questo, e attraverso la limitazione o il limite o il vincolo scoprire la possibilità di
una parola che possa parlare e dire qualche cosa circa questa cosa la quale invece è vuota al suo
centro; ma è potentissima, pur essendo nel suo vuoto.
Quindi non si discosta da quello - come sto leggendo, ma ho letto anche nel passato - che si dice
circa la teologia dell’Occidente, la teologia orientale - che non è una teologia, ma comunque è una
concezione della divinità.
Io tante volte dico: guarda tutto il caos che fanno gli uomini - il sacro e così via - per arrivare a
questo tipo di pensiero che è implicito. Quindi non è che si sono inventati Dio appunto per dare un
senso a questo; si sono inventati Dio perché hanno buttato fuori questa cosa che hanno nel cervello;
ma perché non riescono a riceverla. Perché riceverla vuol dire un processo che in un certo senso è
spaventoso - e qui passiamo all’esperienza personale, se vogliamo passare dall’esperienza
personale; ma perché è stato il primo passaggio che, credo, sia stato vissuto -: si vive la cessazione
del mondo, l’esperienza della cessazione del mondo; l’esperienza in generale, non soltanto
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attraverso un io, ma in generale. Ed è una cosa inammissibile, in un cervello è inammissibile. Ha in
sé tutti gli elementi della schizofrenia, tutta la psicopatologia di questo mondo, però ha alla sua
radice questo che è la sanità.
Lo svuotamento del cervello si porta appresso tutta la gravità di cosa significhi la cessazione del
mondo, perché deve passare attraverso la cessazione del mondo - perché soltanto la cessazione del
mondo ingenerato, a questo punto… che in un certo senso una parte della teologia ha anche
ingenerato attraverso… mica per niente mi sono messo a studiare la Genesi e tutte queste questioni non avendo alla sua base un altro processo che è questo tipo di processo, che è questa cessazione.
Ma perché una cessazione in un certo senso è una cosa inammissibile per la specie: è terrificante; è
l’abisso, come dice Nietzsche; o come certi mistici hanno detto, e però poi si sono rifugiati nell’idea
di Dio il quale a mio avviso non esiste: è una proiezione di questo elemento che è stato buttato
fuori, che è stato messo lì perché non può essere messo dentro, perché questo implica una rotazione,
una rivoluzione totale dell’essere, lo svuotamento dell’essere, e la perdita: significa che uno si
perde. Artaud: la lotta con Dio è tentare di vincere Dio, vuol dire vincere l’io, tutte queste questioni;
ci ha tentato, è impazzito, non ce l’ha fatta. Ma tante storie umane ci sono dietro a questa vicenda.
Quel che si vedeva, anche, è che occorrono tutti i processi di estinzione nella storia
dell’evoluzione per dare un processo più complesso, più capace di vuoto alle spalle. Occorrono
delle cessazioni, occorrono dei passaggi in cui questo mondo, generato o ingenerato, porti con sé le
sue ferite, porti con sé almeno in parte questo tipo di cessazione.
Io insegno ai miei allievi a imparare ad accettare; infatti secondo me la guarigione, la sanità è
quando imparano a mano a mano la cessazione; ma di cui si vede soltanto una parte parziale,
relativamente a che cosa sta succedendo dentro di loro. In un certo senso, se uno ci pensa bene, lo
può intuire su altri piani; uno lo vede dal fatto che è capace di maggiore affettività, è capace di
diversi tipi di emozionalità, di riconoscere l’altro, di avere più distacco. Ma sottostante a questo
processo viene innescato un catalizzatore il quale ha una complessità straordinaria.
A mio avviso, la Trinità o altri tipi di elementi teologici sono stati inventati dall’uomo - perché
per me non esistono - per spiegare in un certo senso la complessità di questo pensiero. L’Assenza ha
dentro una complessità pazzesca, la quale però è semplicissima perché è naturale. Ma se l’Assenza
ci pensa e pensa sé stessa, in tutti questi anni, come vediamo, continuiamo a spiegare sempre la
stessa cosa, sempre lo stesso oggetto, e potremmo andare avanti tutta la vita, tutte le vite. Come per
il pensiero si è partiti duemila, tremila anni fa a raccontare la storia, ma non si è mica ancora
arrivati; e il pensiero è una piccola parte dell’elemento dell’Assenza.
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Quel che pensavo oggi è: come si fa a descrivere questa cosa per cui vedo questo spazio in una
maniera così complessa, straordinariamente complessa, straordinariamente ricca? Ma non ricca di
chissà che cosa, perché è semplicemente ricca, ricchissima.
Si potrebbe pensare all’elemento trinitario che nel suo insieme logico, per come viene spiegato,
raccontato è un elemento molto ricco, molto complesso: la prima persona da cui si stacca la
seconda, e poi la terza. Ma tutto questo per poter dire che lo spazio è molto complesso, che lo
spazio e il tempo sono elementi straordinari. Oppure, nell’ambito dell’ebraismo, il problema se Dio
è nato col tempo. Probabilmente nell’ebraismo Dio è il tempo, per cui non si può parlare di quello
che è venuto prima perché Dio è nato con il tempo, è lui stesso che genera il tempo, è lui stesso il
tempo.
Tutte queste questioni sono dell’ordine teologico, ma anche dell’ordine filosofico. Perché mi
interessa l’ordine filosofico? Perché è l’ordine concettuale; ma lo è quando la metafisica diventa di
un certo tipo, si buca al suo interno e può dire una parola altamente complessa, ma anche altamente
capace di produrre una mutazione, di produrre delle trasformazioni.
Io sono per lo spazio che si trasforma. Ma si trasforma in che cosa? In niente: c’è una storia che
continua a evolversi, ma alla sua base c’è questa nientità che a sua volta è una cosa di grande
complessità.
Io la chiamo nientità perché non so come chiamarla…
L.: Mi viene in mente il caso di Heidegger.
Heidegger non è né Kierkegaard né Nietzsche né Artaud. La sua vita di uomo è assolutamente
banale: più lo si legge più ci si accorge che…
P.: E’ anche un poveretto.
L.: Ma non per il nazismo su cui si perde tanto tempo.
P.: Ma anche per quello.
L.: Però, per esempio, lui è quello che mette a barrare l’essere, ogni discorso è agganciato a
questa metafisica per cui continuiamo a parlarne finché non ci rimaniamo impigliati dentro.
Il caso di Heidegger mette in luce la frattura che c’è appunto tra un’intuizione eidetica…
paradossalmente è parlando di lui che Husserl diceva: la fenomenologia siamo io e Heidegger e
nessun altro. E’ paradossale questo.
Invece l’esperienza umana di Heidegger indica una frattura profondissima, un’incapacità opposta
al suo nume Hölderlin, di cui è il contrario. Mentre Hölderlin forse riesce a passare per un pezzetto
nella sua vita, fratturandosi, Heidegger, invece, dal punto di vista umano rimane assolutamente
indenne. E il suo pensare rimane comunque bloccato nell’intuire la Lichtung, la radura dell’essere in
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cui l’essere va barrato e il discorso cambia completamente, però rimane lì perché gli manca una
saggezza: occorre che il filosofo abbia una saggezza che sostenga il discorso filosofico.
P.: Io però la chiamerei con un altro nome: la saggezza mi rompe un po’ le scatole, perché
comunque quello che pongo è un discorso metafisico. Se noi chiamiamo saggezza il fatto che
questo passi attraverso il corpo, d’accordo, allora chiamiamola saggezza, ma è un nome troppo
limitato perché questo discorso è una metafisica all’ennesima potenza, realmente; la quale
metafisica fonda un certo tipo di spazio, fonda il tempo e fonda una ragione. Io ritengo che Assenza
sia il processo razionale più complesso che ci sia, ma di tipo razionale. E’ un’intuizione husserliana,
ma a me interessa invece che sia un fatto proprio della conoscenza razionale non argomentativa.
L.: Il mondo della vita.
P.: Il mondo della vita.
Ma il saggio comunque non può liberarsi di tutti questi elementi… il saggio non ha
continuamente la perdita, la mancanza, questi assoluti che permettono che questo pensiero continui
a rigenerarsi, possa generare: io sto parlando, so che si sta generando qualche cosa, passo attraverso
questa cosa; ma perché è una mancanza continua, è continuamente una perdita. E tutti quanti noi qui
stiamo perdendo qualche cosa, e in questa perdita nascono altri processi, che magari non nascono in
questo momento ma nasceranno fra cinque giorni, fra dieci giorni.
Questo mi viene in mente perché ho trovato, riportata su un giornale, una frase sulla parola di Dio,
da Isaia.
Dice: “Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato
la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare perché dia il seme al seminatore e pane da
mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver
operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”.
Isaia, 55,11.
E questa è la parola di Dio.
Io, in Assenza, non direi “non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero”
perché non me ne importa niente, non desidero niente. Siamo qui a parlare, non desidero niente,
però so che questa parola esce, va a modificare, non è una parola soltanto argomentativa. Però è
profondamente razionale, ha una potenza altamente razionale, perché è un pensare, è una struttura,
anche, si porta appreso la struttura, non è una parola poetica, ha dentro la poesia però ha anche la
struttura.
Però tutti questi processi, io dico, tutto quello che è stato detto, che si dice della divinità ha tanti
elementi molto similari all’Assenza, soltanto che la divinità non è bucata, non si è ancora bucata, e
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quindi la divinità deve fare ancora un passettino. Sarò un bestemmiatore, ma dico che la divinità
deve fare ancora un passettino.
L.: E’ l’uomo che non l’ha bucata.
P.: Ma è anche la divinità che non si è ancora bucata; infatti dice: io desidero, io faccio; c’è
sempre questo io tra i piedi. La divinità deve ancora bucarsi.
Il Dio ebraico è quello che si ritira, si ritrae e fa il mondo; il Dio ebraico è quello che fa il sabato,
e cessa. Nella Cabala c’è il ritirarsi della divinità, e quindi il bucarsi, quindi il mancare. Ed è quello
che troviamo, che trovo nel Romanico: in certi passaggi delle grandi culture si trova questo
mancare, mancare anche della divinità, della proiezione umana della divinità.
La differenza fondamentale tra l’elemento teologico e l’elemento dell’Assenza io direi che è
questo: all’Assenza non gliene importa niente. Ma non perché si disinteressi degli uomini; gli
interessa; dico: ma toh, guarda, siamo in compagnia, stiamo parlando bene, mi piace parlare, se
tutto questo genera qualche cosa di affettivo, di emozionale, produce un senso alla vita.
Non lo produce in Assenza: in Assenza non c’è senso, l’Assenza non ha problemi di senso, non
esiste il senso, anzi, c’è la perdita di senso, per cui quello che io tento di costruire è una
decostruzione continua, una mancanza di senso, tutte queste mancanze.
L.: Di senso e di sensi.
P.: Di senso e di sensi.
Allora è una bella responsabilità. Ma d’altra parte è così, non so che farci. Il problema è che dopo
tutti questi vari passaggi che mi hanno attraversato è successo questo; ma io non so cosa farci, non è
mica colpa mia. Adesso mi tocca fare questa cosa. Però so benissimo che è una cosa che mi
attraversa, e allora chiedo agli altri e dico: toh, guarda, c’è un filosofo che può fare un discorso
filosofico, ci sono due architetti che possono fare il loro discorso, pigliamo un musicista, pigliamo
tutte queste persone e vediamo.
Per esempio, un altro concetto che è diverso è quello della perfezione, della perfezione divina.
Qui non c’è perfezione. C’è il fatto, strano ma molto interessante, che ho notato negli ultimi anni e
che arrivo poi a capire nella descrizione, che ogni cosa che viene fatta secondo questa modalità quindi in ogni secondo, per quanto mi riguarda; quando esso riguarda me, perché non mi riguarda
neanche: esso riguarda me - non potrebbe essere diversamente, cioè che non ho da correggere
qualche cosa; stiamo parlando, non ho da correggere qualcosa, non perché sia perfetto, ma perché in
quanto è, è così, punto e basta. Perché è compiuto, ha dentro la compiutezza e la perdita. Per cui è e
non è, nello stesso tempo. Ma nel senso che non potrei desiderare di meglio, e non lo posso
desiderare né per me né per gli altri, non me ne importa niente. Ma questo non significa
disinteressarsi.
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E nello stesso tempo non può avvenire qualcosa di più perché Assenza significa già tutto
l’universo; ma più di un universo: sono tutti gli universi che dico svuotati. Ma non so, li chiamo
così perché abbiamo preso la convenzione di chiamarli in questo modo, perché non so in quali altri
modi chiamarli, perché questa parola mi serve, l’altro capisce, e questo serve a svuotare un
pochettino, cioè uso anche le parole che servono a produrre anche dei mancamenti.
Quindi mi interessa il campo teologico perché vedo che si avvicina alla tematica che mi sta a
cuore; ma non per una ricerca, per un’indagine, non me ne importa niente: è avvenuto e adesso
vediamo che discorso fargli intorno, e gli altri che discorso possono fargli intorno. E mi interessa
molto perché è la parte umana, è la parte storica che c’è in questo momento, storicizzabile.
Allora mi interessa, per esempio, come suona Carlo Balzaretti per il quale scrivo la musica, e
meglio di così non potrebbe suonare nessuno. Un altro potrebbe suonare in un altro modo,
altrettanto bene, ma non c’è un migliorare; per me non c’è un miglioramento: ci sono delle varie
fasi, dei vari punti si costituiscono, e vediamo poi che cosa succede. Nel senso che tutto questo è già
compiuto nella sua perdita, nel suo andare altrove. Ma non c’è linearità storica, non c’è la semplice
freccia del tempo: il tempo fa così, poi va così, poi va così, e si instaura un altro tipo di vincolo
nell’universo.
Allora mi interessa discutere: facciamo questa lotta con Dio, vediamo la Trinità come è stata
pensata, tutte queste questioni. Perché vedevo ultimamente come era descritto il distacco: Cristo che
si incarna e muore sulla croce e ha questo distacco dal Padre; la parola distacco…
L.: Una frase interessante che ho trovato in questo libro è, appunto: “In principio era la relazione”.
P.: Ecco, sì.
L.: Che poi è uno dei principi di non so quale libro che hai scritto.
P.: Sì: “In principio era la relazione (in-Assenza)”.
L.: “Logos è relazione. Infatti – dice - serve che il principio sia relazione e, in quanto relazione,
sia in relazione all’altro”.
P.: In relazione all’alterità, che è il mancante, che è il mancamento.
L.: Ma in coda mette anche in luce un altro aspetto carino, quando traduce la famosa frase
dell’Esodo: “Io sono colui che è”.
C’è un capitoletto in cui va a spaccare le parole ebraiche per tirar fuori il suo significato teologico
efficace in rapporto alla relazione. “Io sono colui che è” non è un’affermazione d’identità. E discute
di come sia in ebraico, in greco, poi in latino, dove questo aspetto prende una luce più filosofica,
ontologica di quanto non abbia nel testo ebraico, per cui andrebbe tradotto come: “Io sono colui che
è qui con e per te”. Quindi: “sono qui in relazione col popolo ebraico”. Quindi è il vero nesso con
l’umano, con la salvezza di Israele.
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P.: Con l’alleanza.
L.: Con l’alleanza.
“Io sono qui per questo, perché io sono colui che è”.
E’ divertente vedere, per esempio, sul nome di Dio, la traduzione greca di Settanta: “Io sono
l’essente”. L’ha già trasformato nella filosofia ellenistica.
“Ego sum qui sum”, nella vulgata, “a tradire un significato a lungo ritenuto determinante sin quasi
a essere esclusivo nella tradizione cristiana, come è espresso nella traduzione greca del Settanta”.
Quindi, anche, il nome di Dio, Jahvè, ricollegato a una forma arcaica del verbo hayha, essere, vicina
per radice e significato al verbo hayha, con la prima acca dura: vivere, esistere, mostrarsi, operare;
quindi nel senso di “si fa presente”, “si mostra efficace”. Quindi è la parola che si fa efficace, nel
senso di un saggio taoista: l’efficacia della parola.
P.: Quindi esce per fare qualche cosa. Perché altrimenti non esce; che gliene importa!
L.: Che poi è messo in luce anche nella dialettica: esce dal logos di Giovanni, dal Prologo di
Giovanni in cui il logos è già entrato, il problema è già entrato nella filosofia antica. Ed è un
problema di relazione all’interno delle persone. Quindi viene fuori tutta quella confusione di cui
egli risulta solo una rappresentazione.
Per cui molte delle cose di cui noi parliamo possono essere in realtà il contrario. Perché c’è
rappresentazione altrimenti di un discorso teologico, che si mostra molto più alla radice, come si
vede quando si va a scoprire questo genere di cose in cui alcuni aspetti apparentemente ossidati
della teologia in realtà sono un’oscillazione continua.
Ventimiglia in realtà mette in luce - non mi è piaciuto moltissimo questo capitolo -, esprime
quello che intendo dire.
“Alla luce del mistero della Trinità si rivela l’autentico significato originario di molti concetti, la
cui giusta comprensione può influire sulla nostra esistenza”.
Dal punto di vista della originarietà del discorso, che sta alla base anche del concetto che usa
l’Occidente dopo la filosofia antica, che ha costruito il pensiero occidentale nel Medioevo, a volte
ha più aspetti di quanti potesse averne la saggezza nella filosofia antica.
Quindi, andare a dipanare queste cose è più fondamentale di quanto invece si colga quando si
vede l’aspetto teologico come una rappresentazione di qualcos’altro. In realtà è il contrario, molto
spesso.
P.: Comunque, ritornando al problema teologico, filosofico, mi sembra che tutto quello di cui
stiamo parlando possa essere ben rappresentato, o non rappresentato, dalla parola filosofica,
teologica, nel senso che ha comunque questi tipi di analogie, ma è profondamente diverso. Quindi è
interessante andare a trovare questi tipi di differenza, di diversità, o comunque di distacco perché,
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dato il distacco, allora generi un discorso che non è neanche più teologico né filosofico, ma che
riassume i due aspetti e li colloca in un altro luogo.
L.: Io penso che questa sia la ricchezza del pensiero occidentale. Nonostante non lo si noti,
quando si vanno a toccare i punti chiave si vede che in realtà è stato castrato in gran parte questo
intrinseco rapportarsi e distanziarsi tra i vari piani che l’Occidente ha affrontato - quello teologico,
quello filosofico. E come poi rapportare questo all’esperienza: altro tema fondamentale
dell’Occidente.
In altri mondi questo non è un problema: si tratta solo di applicare delle cose… mentre qui la
traduzione è molto più complicata perché bisogna che il logos si incarni, che metta le tende nel
mondo. Questo crea un’oscillazione continua; non c’è nessun punto in cui il pensiero possa fermarsi
e ritenersi compiuto, a meno che, arrivati a questa tappa - che può essere appunto di tipo
economico, come diceva Agamben… oppure si raggiunga una tappa che però mantiene dentro di sé
tutto questo, se no si sfrangia.
Ed è quello che secondo me sta sperimentando l’Europa al momento: non riuscire a tenere
insieme questi pezzi che in effetti sono molto difficili da tenere insieme, perché l’Occidente ha
dovuto fare molta fatica a mettere insieme pezzi così eterogenei. Però il pensare dell’Occidente è
costituito da questo. Quindi, una volta che viene meno questa missione husserliana della ragione e
della fides – anche Husserl ne parla, paradossalmente, proprio alla fine di quel libro che forse è il
più saggio di Husserl, tra virgolette, in cui si sveste di tanti altri panni…
P.: Poni un’ultima questione, un po’ precisa, se ce l’hai.
L.: Vorrei trovarla.
Mi sembra che sia fondamentale il discorso in-Assenza, perché può aiutare a fare in modo che
nelle distinzioni all’interno del pensiero dell’Occidente l’una non escluda l’altra, che possano stare
insieme anche nella loro eterogeneità.
P.: Ma questo discorso, questo logos – che non è un logos, che è un a-logos – ti serve per questa
lotta contro Dio, di liberazione da Dio? Ti è servito in questi anni? Ti può servire per disporlo in
altro modo, perché il cervello pensi più liberamente rispetto a questa entità che viene posta alla
nascita a ogni individuo, e che, secondo la mia ipotesi, viene posta fuori perché uno non ce la fa a
portarla dietro, portarla dentro in quanto dovrebbe rivoluzionare il proprio cervello e passare da
un’altra parte dove non ha ancora posto le tende - ritornando appunto al discorso della lotta con
Dio?
Ed è per questo che è interessante porlo, e porlo in maniera sufficientemente compiuta dal punto
di vista filosofico, dal punto di vista teologico. Perché io mi sono rimesso sulla questione da cui sei
partito.
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L.: La lotta col divino non mi interessa più perché è una battaglia persa, assolutamente persa in
partenza.
Però quello in cui il discorso in-Assenza più mostra la sua efficacia è il poter tenere insieme questi
vari elementi all’apparenza antinomici; e non c’è bisogno di assorbirli l’uno nell’altro o escludere
l’uno dall’altro, ma il fatto che siano incommensurabili ci può essere, anzi, spesso i più sono
incommensurabili: non se ne verrebbe mai a capo, da un punto di vista razionale, di logica formale;
non ha senso; è una perdita di tempo il solo pensare a questa ipotesi.
E però è molto produttivo lasciare attivi tutti questi elementi eterogenei che stanno nel pensiero
dell’Occidente, che invece si cerca o di eliminare o di portare da una parte o di semplificare dall’una o dall’altra parte. Ormai ci sono più punti, è un fatto poliedrico ormai, per cui ci sono
rimandi non più semplicemente antinomici. E però la possibilità di tenere vivi tutti questi elementi è
molto produttiva e molto saggia. Per che cosa poi non lo so perché non posso dire di poter mostrare
chissà che cosa da questa attività semi invisibile.
P.: Sono dischiusure continue, è come se fosse una raggiera di dischiusure: non vengono neanche
posti i punti, ma vengono dischiusi.
L.: Non è neanche necessario che siano a contatto tra di loro, anzi, da un lato sembrano
eterogenei, dall’altro hanno dei rapporti, ma rapporti che comunque si sfrangiano di continuo, si
rimodificano, si ristrutturano, prendono forme nuove, possono prendere forme diverse da quelle che
uno può pensare. Ed è quello il bello, cioè che a un certo punto non è la parola che viene parlata, ma
la senti parlare in quanto si intessono relazioni dal punto di vista logico tra mondi eterogenei, o
incompatibili addirittura; e sembra che se c’è l’uno non c’è l’altro: tertium non datur.
P:. Il che è simile, ad esempio, al problema della Trinità, in cui c’è distacco senza esclusione: ci
sono tutti questi elementi aporetici in cui però uno non esclude l’altro.
Ma comunque qui mi fermerei.
A me interessa adesso sapere dagli altri presenti come è andata per loro questa conversazione, se
ci sono dei barlumi di ricezione, di conoscenza, di possibilità, di elaborazione, di attività.
Secondo me doveva essere più stretta, stare più stretta, come altre volte più incisive, con una
dialettica più indirizzata, perché in certi momenti si sfrangiava un po’.
Allora, che ne dite?
L.: Però si consideri che appunto si sfrangiava perché significava far passare in un canale stretto
quello che finora è rimasto in maniera abbastanza indistinta, priva di logos.
P.: Sì, perché questo implica molto anche le singole persone, la persona.
L.: Sì. Ed è un’altra invenzione occidentale.
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Patrizia Brighi: Io ho vissuto un essere implicata profondamente, però nello stesso tempo avevo
una grande difficoltà a capire, a seguire.
P.: Per te, Simona?
Simona Riboni: Anche per me è stato difficile da capire, credo anche proprio per una mancanza
culturale.
E forse, effettivamente, per il fatto che le altre volte fosse più stretto il confronto, mi risultava più
facile seguire.
P.: C’era più dialettica, era più a forma di intervista.
Però si apriva un capitolo importante.
P. B.: Sì, come se si fosse aperto un grande campo.
S. R.: Molto intenso, anche.
Nausicaa Pezzoni: Secondo me comunque sono stati disegnati tanti punti di barlumi possibili. Mi
venivano in mente anche quando tu dicevi che ogni cosa fatta in ogni istante, in qualunque campo è
quella, non può essere diversamente. Il fondamento filosofico mi sembra che attraversi una sapienza
scientifica. Perché tu dicevi: non la saggezza, perché dentro non ha il mancamento; però è tutta una
stratificazione di sapienza per cui quella degli antichi viene abbandonata.
Per cui secondo me era molto interessante il discorso filosofico, anche se non è sotto forma di
intervista, perché comunque disegna un quadro su cui c’è il tuo discorso del pensiero in-Assenza.
P.: Sì, sì, si è aperto un capitolo che era delicato, tra divinità, assenza, queste questioni che sono
molto delicate, difficili. Nella storia si sono misurate diverse persone su questa questione.
L.: Pensa solo a quanti cervelli si sono spremuti su questi temi; come le piante che hanno prodotto
l’ossigeno dal metano iniziale.
P.: Soprattutto io oso dire che questa alterità in questo modo non l’ha mai sperimentata nessuno.
Quindi mi trovo in una situazione tale per cui questa non sperimentazione, quindi questo tipo di
attività del pensiero, io dico, ed è veramente quello che io sento – ritornando a quella frase che mi
sembrava interessante, scritta da un wrighter su un muro, che diceva che Dio è stato inventato per
dare un senso all’uomo -, questa Assenza, questo tipo di attività è quella che l’uomo ha: ha investito
la divinità, per alcuni aspetti. Ma anche, io dico, a cui manca il mancamento. Mancamento che
invece il buddismo porta, oppure alcuni teologi occidentali portano. La teologia negativa anche si
porta appresso questo elemento: Dio non è questo, non è questo, non è questo, e in realtà arriva a
dire che non è nulla.
Perché dico che la realtà non è nulla? Perché non è nulla di quello che abbiamo pensato finora.
Potremmo dire che è qualche cosa, ma questo qualche cosa non è nulla. Chi se ne importa che sia
qualche cosa.
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Il discorso dell’essere, il logos è un discorso troppo vecchio: la mente ha una possibilità
volumetrica di pensare, c’è un volume, mentre il logos io lo vedo bidimensionale.
Una delle ragioni per cui adesso sto facendo una serie di dipinti producendo le tre dimensioni mi
sembra sia questa: dare un logos alla tela oppure al plotter, cioè dare la terza dimensione, proiettare
la terza dimensione su una superficie. Io ritengo il logos, per come è stato in Occidente fino adesso,
un elemento bidimensionale. Secondo me deve diventare un elemento volumetrico, cioè deve avere
più direzioni. Ed è quello che sto facendo e sto pensando in questo momento, in questi giorni:
proiettare su due piani dei bassorilievi, altorilievi, sculture, quasi che la superficie debba introdurre
una distanza.
A proposito, è Hans Blumenberg quello che io dicevo, un allievo di Husserl.
L.: E’ un bel po’ più giovane.
P.: E’ morto nel ’97.
Su il manifesto c’è un articolo molto interessante di Blumenberg, un filosofo antropologo. Prima
era ritenuto soltanto un filosofo, poi sono stati trovati i suoi ultimi scritti - una quantità immensa di
scritti di tipo filosofico-antropologico, sulle vie di Gelen e di altri autori di cui abbiamo già parlato sull’umano come animale errato o comunque punto dell’evoluzione in cui c’è stato un errore. C’è
stata all’apparenza una perdita, un errore, dice proprio Blumenberg, una perdita di finalizzazione:
l’umano non ha prodotto o perfezionato ulteriori elementi istintuali, non ha perfezionato gli
elementi corporali per l’adattamento all’ambiente - come tutta l’evoluzione porta, a mano a mano -,
per quel tipo di adattamento che si osserva a posteriori rispetto all’ambiente.
L’umano è una specie di regressione di quel tipo di adattamento: c‘è una fetalizzazione molto
lunga, la madre deve portarsi in pancia per nove mesi il feto, che se ne sta lì, deve maturare; il
cervello ci mette un mucchio di tempo per maturare; passa anche la pubertà. Sono tutti elementi di
debolezza di questo essere, che poi probabilmente hanno portato allo sviluppo di protesi, non più
nel corpo ma dell’attività mentale; quindi la scoperta della mente, della ragione, superando gli
elementi istintuali.
Blumenberg fa una serie di osservazioni molto interessanti. Per esempio, dice, l’animale si è
alzato in piedi non tanto per vedere gli orizzonti, la savana, per guardarsi intorno, ma per prendere
in mano una pietra per difendersi dagli altri animali perché non poteva fuggire, essendo più lento.
Quindi, un animale a quattro zampe ha preso una pietra e per lanciarla si è alzato in piedi, e quindi
ha accettato il rischio della lotta con l’altro animale, ha accettato lo scambio di aggressività – che
Blumenberg non prende come elemento di aggressività, in particolare della specie ominide -, non
più direttamente ma attraverso il lancio della pietra. E quindi il fatto di alzarsi in piedi e poi
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rimettersi a quattro zampe, alzarsi in piedi e poi rimettersi a quattro zampe, questo andirivieni l’ha
poi messo in piedi - e qui bisogna leggere i testi, per vedere come ben ha funzionato la questione.
L’altro elemento interessante è - come diceva Luciano: “l’apologia del teppista” – che alzandosi
in piedi, tirando la pietra ha imparato ad attendere a lanciare la pietra, perché poi sarebbe rimasto
disarmato, e quindi a esitare, a misurare la distanza. E tutto ciò, dice Blumenberg, ha prodotto una
distanza nella quale ha scoperto lo spazio della distanza, e quindi in un certo senso lo spazio. E in
tale scoperta ha messo la ragione, la capacità di pensare.
Io dico: probabilmente l’Assenza è passata attraverso un’ulteriore fase di dematerializzazione, di
regressione, in un certo senso, di perdita di capacità di specializzazione, di perdita della capacità di
spazializzazione, di temporalità, come la specie aveva. Per cui ha dovuto inventarsene un’altra,
inventarsi il tempo zero - che ho portato in musica, ho portato nella pittura, ho portato in tutte
queste varie parti -, perché c’è stata un’ulteriore perdita, un’ulteriore despecializzazione che ho
chiamato dematerializzazione; e quindi un’ulteriore entrata nella spazialità, ma una spazialità che
diventa infinita, e diventando infinità diventa zero, diventa nulla.
E tutti questi sono temi che si distanziano all’infinito; anche quello della divinità che ha tale
distanza, tale incommensurabilità.
Va be’, ci fermiamo qua.
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