Q UADERNI di antropologia e scienze umane Semestrale del Laboratorio Antropologico Dipartimento di Scienze umane, filosofiche e della formazione dell’Università di Salerno del con la collaborazione de La Rete Associazione per l’integrazione dei saperi antropologici, letterari, filosofici e psicologici Quaderni Direttore Simona De Luna Direttore responsabile Mirella Armiero Condirettore Domenico Scafoglio Comitato Scientifico Annamaria Amitrano (Università di Palermo) Giulio Angioni (Università di Cagliari) Claudio Azzara (Università di Salerno) † Rocco Brienza (Università di Trieste) Antonino Buttitta (Università di Palermo) Giovanni Casadio (Università di Salerno) Alicia Castellanos Guerrero (Università Autonoma Metropolitana del Messico) Luigi M. Lombardi Satriani (Università La Sapienza di Roma) Gilberto Lopez y Rivas (Instituto de Antropología e Historia, Messico) Sebastiano Martelli (Università di Salerno) Pablo Palenzuela (Università di Siviglia) Gianfranca Ranisio (Università Federico II di Napoli) Luigi Reina (Università di Salerno) Domenico Scafoglio (Università di Salerno) Enzo Segre (Università Autonoma Metropolitana del Messico) Vito Teti (Università della Calabria) Redazione Caterina Camastra (UNAM, Città del Messico/ Morelia) Patrizia Del Barone (Laboratorio antropologico UNISA) La rivista si avvale della consulenza di referees che esaminano gli articoli in “doppio cieco” Laboratorio Antropologico – DISUFF Università degli Studi di Salerno Via Giovanni Paolo II, 84084 Fisciano (Sa) [email protected] La Rete – Associazione per l’integrazione dei Saperi Antropologici, Letterari, Filosofici e Psicologici Piazza Gerolomini n. 103, 80138 Napoli [email protected] ISSN 2282-2968 Autorizzazione richiesta al Tribunale di Nocera Inferiore (Ruolo Generale n. 2247 del 2015) Stampato per conto della Guida editori Q UADERNI anno COMICITÀ E POLITICA III • numero 2 – anno IV • numero 1 ANTROPOLOGIA E STORIA/2 DICEMBRE 2016 Editoriale, 7 ANT ROPOLOG I A D E L C O M I C O domenico scafoglio Comici politici al tempo di Grillo, 11 patrizia del barone Gli ossimori di Trump as trickster, 25 ANT ROPOLO G I A E S TO R I A simona piera de luna Per una riscrittura del brigantaggio postunitario. Il problema delle fonti, 29 helga finter L’opera lirica, la lingua e l‘unità nazionale: Appunti su Verdi e Wagner, 61 vincenzo m. spera La ricerca delle origini. L’invenzione delle feste dopo l’Unità, 69 anna maria musilli Voci strozzate. Nota sulla lingua dei migranti, 89 domenico scafoglio - simona piera de luna Antropologia del brigantaggio, 95 A N T ROPOLOGIA E L E T T E R AT U R A/ T E S T I rosa troiano L’antropologia poetica di Vincenzo Padula. Storia e testo della Notte di Natale, 153 A RCH IV IO DI ANT RO POL OG I A D E L C OM I C O domenico scafoglio Pulcinella come trickster, 177 COMMEMO R AZI O N I Perché ricordare Rocco Brienza, 195 R ASSEGNA D I S T U D I Pulcinella. L’eroe comico popolare nell’area euromediterranea (G. Ranisio), 201; G. Agamben, Pulcinella (D.S.), 204; D. De Masi, Mappa mundi (A.M. Musilli), 206; “Bruzio” di Padula, nuova ristampa anastatica (L. Imperato), 207. NOT IZIAR IO L I B R I / E V E N T I Reseña del V Congreso Internacional de Mitos Prehispánicos en la Literatura Latinoamericana (Q. Mata Trejo), 211 Presentazioni (A.M.), 215 Uscita della rivista “Inflexiones” (C.C.), 217 6 E DITORIALE D ei blocchi tematici di cui si compone questo numero doppio dei “Quaderni di antropopogia e scienze umane”, quello dedicato alla comicità forse appare più radicato nell’attualità, in un momento storico in cui un comico di professione, come Grillo, fonda un partito che ormai si candida a governare l’Italia e Trump, il politico miliardario da molti inserito tra i trickster contemporanei, diventa l’uomo più potente del mondo vincendo la corsa alla presidenza degli Stati Uniti. Quello che sembrava soltanto una questione di storia culturale, filologica, mitografica si è rivelato un problema politico fondamentale per il destino di Stati e di popoli. Per noi non si tratta di inseguire avvenimenti che corrono precipitosamente verso esiti imprevedibili né di tener dietro alle mode del momento, perché queste realtà sono state fatte oggetto di analisi già da qualche lustro negli studi di alcuni collaboratori legati alle tematiche e agli interessi scientifici e culturali della nostra rivista, che abbiamo cominciato a riproporre nel nostro archivio di antropologia del comico. Basterebbe pensare agli studi sui trickster del mondo, presentati nel ponderoso volume recensito in questo numero, che contiene i testi con cui una quarantina di studiosi italiani e stranieri di diversa provenienza (Corea, Brasile, Portogallo, Messico, Germania, Iran) si sono incontrati a Napoli per restituire in una luce diversa, partendo da Pulcinella, le figure comiche che godono di un grande successo popolare, che le trasforma in eroi culturali, incarnazione del genius loci, del lato solare e di quello oscuro dei loro popoli, insomma i trickster (Pulcinella. L’eroe comico nell’area euromediterranea, Collana Scientifica dell’Università di Salerno, 2015). Questo giro tra i carnevali e i buffoni del mondo per un verso ha rafforzato l’idea del carattere universale del trickster, o per lo meno di un trickster particolare, identificabile con l’eroe comico popolare delle narrazioni, del teatro, del cinema, dei carnevali, per un altro ha consentito di avviare un discorso , su basi antropologiche e transdisciplinari, su un fenomeno nuovo, quello delle figure contemporanee che contaminano comicità e politica. Su questo fenomeno, che sembra configurarsi come un ritorno e una metamorfosi del trickster tradizionale, erano già stati spesi giudizi che non uscivano quasi mai dal reticolo categoriale della politica o, al più, della storia del costume. Categorie come “populismo” sono servite soltanto per cercare di superare il disorientamento prodotto da un fenomeno radicalmente nuovo e dirompente e per liquidare con 7 Q uaderni disinvolta leggerezza eventi che non si riescono ancora a controllare e nemmeno a capire del tutto. Ancora una volta è la politica a prestare o imporre le sue cifre alle scienze socili, quando dovrebbero essere le scienze sociali a fornire o suggerire alla politiche strumenti nuovi di conoscenza e di critica. Questo rende ragione del nostro interesse a tentare di approfondire, in quest’ultimo numero doppio dei “Quaderni”, la natura e la funzione del trickster nella strutturazione delle istituzioni fondamentali della società. Un discorso antropologico, che parte da alcune intuizioni brillanti di Yeats, per disegnare forse troppo laconicamente una bozza dell’evoluzione del tipo comico in esame, per arrivare nell’età contemporanea alle figure del comico che fa politica e/o del politico che si fa comico: una metamorfosi tutta postmoderna, che non solo sconvolge radicalmente il modo tradizionale di fare comicità, ma introduce nella vita politica, civile e nel costume elementi di innovazione e di rischio prima insospettati. Insomma si tratta di aprire più che concludere una visione non ideologica sul tema, che, rifiutando la tendenza politicamente diffusa a condannare il fenomeno come forma dannosa e pericolosa di populismo, dischiuda la possibilità di dimostrare, al di là di ogni indulgente compiacimento, che gli eroi comici continuano ad esistere nel mondo contemporaneo, perché sono una necessità della cultura, e possono contribuire a modificare la realtà, riscrivendo le regole dello scambio sociale: era questa la funzione del trickster mitologico e storico, che nelle trasformazioni postmoderne riacquista la forza dirompente di dare voce ad alcuni lati dei desideri e della coscienza collettiva, per dare vita a una nuova rappresentanza capace di congiungere ciò che era stato tradizionalmente disgiunto, unificando pubblico e privato, politica e morale. La politica dovrà fare i conti con questa realtà, al di là delle buffonerie e delle trasgressioni linguistiche e culturali, almeno in queste sue istanze più sane e realistiche. Anche il brigantaggio viene qui riproposto come uno degli interessi dei “Quaderni” che coprono l’area dell’antropologia nei rapporti con la storia. I modi di concepire e scrivere la storia in maniera diversa riescono utili, quando ricerca e scrittura portano i segni di un lavoro solido e competente, che li rendano degni di rispetto. Tuttavia chi frequenta il confine, in cui la storia aspira a saldarsi con l’antropologia, difficilmente condividerà l’idea che il ricercatore debba, occupandosi, per esempio, di storia del Mezzogiorno – lo diciamo con le parole di Rosario Romeo, in riferimento a quella che fu la capitale del Reame – “tenersi sul filo di una mai raggiunta adeguatezza a ciò che si faceva ‘altrove’, fosse questo un altrove nordico e italiano o straniero”, col risultato di schiacciare l’immagine della storia del Mezzogiorno dei secoli XVIII-XIX “su quella dell’Europa avanzata e moderna”, e condannare “i suoi momenti più alti a un ruolo irrimediabilmente arretrato e inferiore”. Parole sacrosante, che denotano una sensibilità già antropologica, almeno nel proposito di oggettivamente demolire la scala etnocentrica che forzatamente unifica e confonde le storie e le culture, in nome di una sola storia e di un’unica cultura, all’interno delle quali esistono livelli avanzati e arretrati, sviluppati e sottosviluppati, superiori e inferiori. Ma basta, per chiudere il problema, sostenere che le culture rimaste a un “livello inferiore” hanno comunque “una funzione a sé stante”? Forse non basta del tutto, anche se siamo a un solido punto di partenza: il funzionalismo antropologico lo ha pensato prima degli storici. Ma le culture non vivono da sole: soprattutto nel mondo globalizzato, guardano alle altre, interagiscono, comparano, mettono in discussione il loro modo di stare al mondo. 8 antropologia e storia / 2 – comicità e politica Nell’ottica funzionalista la scala della discriminazione in qualche modo permane, e permarrà finché non si prenderà in considerazione quanto una qualsiasi cultura, indipendentemente dai rapporti di forza e di dominio, abbia contribuito a restituire all’umanità il suo diritto alla vita, alla libertà, alla creatività, indipendentemente dal modo, ogni volta diverso, in cui è riuscita a farlo; e quanto ancora avrebbe contribuito a restituire, se fosse sopravvissuta al destino della dominazione e all’asservimento. Sposare l’idea della multilinearità storiografica comporta l’assunzione di una serie di problemi complessi e di non facile soluzione. La certezza da cui partire è che la direzione, che ha preso la Storia, non è stata sempre quella giusta, e sicuramente non era inevitabile. In molti casi avremmo potuto sostenere che “poteva andare diversamente” o “si poteva fare meglio”. I discorsi, che la rivista va facendo in più occasioni sull’unificazione nazionale, sulla guerra civile denominata brigantaggio e sulla costruzione culturale dei valori patriottici e identitari vanno in questa direzione. Sui rapporti tra l’antropologia e la letteratura i nostri “Quaderni” si sono già impegnati sia lungo il versante della teoria che dei testi. Tra le ascendenze della teoria avevamo trascurato l’antropologo Clide Kluckhohn, che, dopo avere brevemente spiegato, già nel 1949, le diverse metodologie con cui gli studi umanistici e quelli antropologici indagano gli stessi problemi, concludeva che “l’antropologia tratta i particolari nell’ambito degli universali”, tuttavia “bisogna subito riconoscere che i grandi romanzieri e drammaturghi, basandosi sulle lunghe tradizioni della loro arte, sono assai più abili degli antropologi nel mettere a nudo la causa prima delle azioni umane. Se un mio amico volesse conoscere in breve tempo la mentalità dei contadini polacchi, io gli manderei certo il romanzo I contadini di Ladislao Reymont e non il classico di scienze sociali Il contadino polacco di Thomas e Znaniecki. Le migliori monografie di Malinowski sui Trobrianders non sono all’altezza di La mia Antonia di Willa Carther o Black Lamb and Gray Falcon di Rebecca West, quando si tratta di comunicare con realtà immaginativa i meccanismi interiori di una società e le motivazioni degli agenti individuali al suo interno”. Il discorso si sposta allora sui testi. Dopo decennali chiusure nei confronti della letteratura, non pochi antropologi sono ritornati a Kluckhohn, con altra consapevolezza e diversa sapienza argomentativa, e non trovano più eccenrico o impertinente l’uso delle opere letterarie nella ricerca sociale e culturale, fino ad ammettere la legittimità (se non la necessità) di contaminazioni controllate, che arricchiscano e allarghino, senza mettere in crisi i fondamenti teorici della identità delle diverse aree della ricerca scientifica. I “Quaderni di antropologia e scienze umane” anche in questo numero ribadiscono la loro fedeltà al dialogo interdisciplinare, con nuovi contributi, oltre il campo, sopra evocato, che da tempo denominiamo antropologia del comico. In questa direzione va la pubblicazione del testo dell’antropologo e scrittore Vincenzo Padula, con rigore filologico per la prima volta presentato nelle sue varianti e con cura amorosa commentato linguisticamente e stilisticamente, col risultato di accrescere notevolmente l’intellegibilità di un capolavoro che apparttiene sia alla letteratura che all’antropologia. Potremmo parlare di “antropologia in versi” o “antropologia poetica” e inserirlo tra i precedenti più significativi delle sperimentazioni poetiche degli scienziati sociali, alle quali abbiamo dedicato il secondo numero dei nostri “Quaderni”. Siamo d’accordo con Lacan, quando sostiene che i testi letterari possono essere assunti, per la loro “effervescenza” e “sovradeterminazione”, 9 Q uaderni come luogo privilegiato e irrinunciabile dell’indagine conoscitiva, che per Lacan è la psicoanalisi e per noi è soprattutto la ricerca antropologica. Vincenzo Padula percepiva i limiti delle scienze sociali, proprio mentre contribuiva a fondarle nell’Italia meridionale della metà del secolo XIX, e, mentre faceva il suo lavoro di antropologo, non rinunciava a quello di scrittore, e contaminava con molta frequenza l’attività antropologica con l’arte del poeta, per rimediare a quello che, nella rappresentazione scientifica della cultura, della religione, del mito, irrimediabilmente si perde, ossia – lo diciamo con la complicità di un grande antropologo storico, quale è E.P. Thompson – “una parte del significato e tutta la sua forza psichica coercitiva”. 10 Comici politici al tempo di Grillo Domenico Scafoglio Metamorfosi del trickster nel mondo globalizzato D elle molteplici forme della comicità, assumiamo qui come oggetto del nostro interesse quella dell’eroe comico presente nella varietà delle culture umane. Gli antichisti hanno adoperato la prima volta la denominazione di “eroe comico” per indicare i personaggi ribelli delle commedie di Aristofane, noi lo accostiamo al termine trickster, inizialmente usato dagli etnologi per indicare una figura mitologica delle culture primitive, il “burlone divino”, il demiurgo del mito amerindo dal comportamento gioiosamente trasgressivo, intelligente e stolido, cultore degli eccessi e insieme provvido ordinatore della vita e benefattore degli uomini. Da qualche decennio questo termine è diventato nel linguaggio comune l’appellativo del personaggio comico con caratteristiche a lui affini, presente su scala planetaria, lungo l’asse diacronico e quello sincronico, in una molteplicità di versioni somiglianti e insieme dissimili, segnato dalle caratteristiche dell’universalità e dell’etnicità, della differenza culturale e del fondo comune che unifica le culture. Una carta di identità, quella del trickster, etnica e cosmopolitica al tempo stesso. La stessa ricerca etnologica, che alla figura mitica del trickster primordiale ha de- dicato approfondimenti importanti, sembra suggerire la sua straordinaria analogia di comportamenti e funzioni con una tipologia di figure comiche di epoca storica (salvando ovviamente differenze di significati, valori, linguaggi, narrazioni), che godono di ampia popolarità e sono fatte oggetto di un investimento emotivo e fantasmatico, che le trasforma in miti di identificazione collettiva. Le conferme, che la comparazione interculturale fornisce in merito alla presenza su scala planetaria di personaggi comici di natura tricksterica, ossia dotati di caratteristiche inequivocabilmente simili a quelle dei “burloni divini”, risultano troppo importanti per resistere alla tentazione di riconoscere in esse l’eterno riproporsi di immagini archetipiche profondamente radicate nella esperienza degli uomini, come una necessità della cultura, istituzionalmente legate all’organizzazione culturale che rende possibile l’esistenza e il funzionamento delle società. Sono stati psicoanalisti come Jung e mitologi influenzati dalla psicoanalisi come Kerényi, i primi a riconoscere l’universalità del trickster o per lo meno la sua persistenza nella storia, al di là delle fasi di obsolescenza, come sintomo nevrotico sempre pronto a svilupparsi nelle forme di un’esperienza fondamentale della cultura, soprattutto in momenti particolari segnati dalla crisi della società e dal diffuso disagio esistenziale, che 11 Q uaderni spinge a dilatare i limiti della coscienza, ad appropriarsi delll’esperienza delle culture “altre” e delle classi inferiori. Dopo l’esperienza, per noi fondamentale, della pubblicazione del volume del 1992 su Pulcinella1, di questi aspetti si è tornato a discutere nel Convegno napoletano del 2008, da noi voluto e dedicato all’eroe comico popolare nell’area euromediterranea, con risultati che si possono leggere in alcuni saggi del volume degli Atti, da poco pubblicati2. In quell’incontro, denso di contributi internazionali, si produssero e confrontarono per la prima volta riflessioni e materiali nuovi sulla presenza delle figure tricksteriche nelle più lontane aree del pianeta, e per un altro verso si consolidò la rappresentazione del trickster come l’eroe comico popolare, sua reincarnazione ogni volta similare e diversa nella storia delle culture del pianeta. Già in alcune relazioni di quel convegno venivano colte alcune sorprendenti trasformazioni del “briccone” originario nel mondo moderno e nella postmodernità, quali il suo assumere la forma imprevista del comico prestato alla politica o, viceversa, del politico che mima i modi se non il mestiere dei comici per fare politica oltre che per puro divertimento. Abbiamo fatto tesoro di quella esperienza per rileggere in questa chiave, con gli approfondimenti di metodo suggeriti dalle situazioni più recenti, il fenomeno dei comici contemporanei che ci sono sembrati più vicini al modello delle figure tricksteriche tradizionali e dei mondi che essi rappresentano, secondo percorsi quali la riflessio- 1 2 12 ne sui tratti “arcaici” e le forme nuove del fenomeno dei comici politici, la grammatica culturale dei nuovi linguaggi comici, la trasgressione comica al tempo della censura e in un mondo detabuizzato, per tentare alla fine di dare qualche risposta alla domanda: cosa sommerge, realisticamente, la risata? Prudenza suggeriva nel convegno sopra ricordato di non spingere l’entusiasmo della ricerca e della riflessione oltre un certo segno, dal momento che ci trovavamo, sì, nel momento culminante in cui Grillo, Berlusconi e Bossi riscrivevano in chiave radicalmente nuova i modi e le forme della comunicazione politica, ma al tempo stesso su questa inedita contaminazione di comicità e politica gravava un senso di irrealtà, che faceva pensare a un rapido esaurimento della fiammata. Invece la storia questa volta è andata dalla parte più inconsueta e il modello politico del burlesco violatore di tabù continua a segnare fortemente della sua presenza la vita politica, con nuove, impreviste trasformazioni, come quelle che hanno segnato il passaggio da Bossi a Salvini o da Berlusconi a Renzi, e come, fuori dell’Italia, l’apparizione del fenomeno Trump. I comici politici e i politici comici sembrano effettivamente aspirare a reiterare parte delle funzioni che si ritrovano nel mitico trickster, il divino burlone, ordinatore della vita e al tempo stesso trasgressore, vittima e salvatore, eroe culturale capace di incarnare i lati luminosi e quelli oscuri della realtà, senza mettere a rischio la tenuta complessiva del sistema culturale. D. Scafoglio - L.M. Lombardi Satriani, Pulcinella. Il mito e la storia, Milano, Leonardo, 1992. Ved. gli approfondimenti successivi di D. Scafoglio, Per una antropologia del comico a partire dal Carnevale in Il Carnevale e il Mediterraneo, Atti convegno, Bari, Progredit, 2010, pp. 1-11; Pulcinella, Roma, Newton Compton, 1996. D. Scafoglio (a cura di), Pulcinella. L’eroe comico nell’area euromediterranea, Università di Salerno 2015. antropologia e storia La struttura archetipica In quanto necessità della cultura, il buffone si ritrova, come abbiamo anticipato, nella quasi totalità dei popoli di tutti i tempi e l’etnologia ci viene incontro per aiutarci a dimostrare la sua presenza tra gli archetipi che hanno fondato la civiltà. Per semplificare ci serviremo quasi unicamente dell’opera di William I. Thompson, che utilizza il modello degli opposti psicologici di W.B. Yeats, liberandolo dall’impostazione misticheggiante, e si serve come esemplificazione narrativa di un celebre film di ispirazione etnografica3. Secondo il racconto nel gruppo umano primario dei cacciatori lavorano insieme il capo, lo sciamano, il cacciatore e il buffone, i quali agiscono come “opposti complementari”, che preservano l’equilibrio della struttura. Il buffone è cacciatore come tutti gli altri, con la specificità di prendersi gioco “dell’autorità del capo e della prestanza fisica del cacciatore”. In particolare nel gruppo esistono due forze simmetricamente opposte: lo sciamano e il buffone rappresentano il modo ideativo, mentre capo e cacciatore sono il lato operativo e “realizzano le possibilità precluse agli altri due”. I ruoli non sono statici, perché, necessitando, il buffone può prendere il posto dello sciamano e così via. Inoltre tutti e quattro sono impegnati nel loro ruolo a tempo parziale, perché devono lavorare al tempo stesso come cacciatori. Pur avendo diverse funzioni e competenze, ed essendo ciascuno nel suo campo diversamente bravo o forte,”tutti 3 / 2 – comicità e politica e quattro devono cacciare e lavorare insieme, quindi non si verifica quella estrema divisione della fatica che finisce col dividere gli uomini”. Questa struttura era destinata a una secolare permanenza, conservando i suoi elementi di base nonostante le sue trasformazioni storiche e l’evoluzione, a volte profonda, dei singoli componenti. Quello che non sembra sviluppato nel modello di Yeats è il riferimento alla natura trasgressiva del buffone, che marca la sua diversità, socialmente riconosciuta e accettata, nei confronti del gruppo col quale coopera e solidarizza. In tutte le culture i comportamenti irregolari della figura istituzionalizzata del buffone sono infatti normalmente consentiti, se non culturalmente previsti e controllati: nei miti degli indiani d’America il trickster è un violatore di tabù, in primo luogo del tabù del sangue: l’incesto, che egli ha consumato con la sorella, prefigura i suoi comportamenti successivi, il suo andare contro tutte le regole umane e divine, e questi ultimi sono a loro volta figura e ripetizione dell’incesto originario. I buffoni sacri dell’America latina, che costituiscono il corrispettivo rituale del briccone divino nelle mitologie amerinde, evocano ritualmente l’infrazione dei tabù. Ma anche nel mondo desacralizzato la comicità sotto tutti i cieli si dispiega nel segno dell’eccesso, dell’inversione, dei rovesciamenti. La violazione delle regole costituisce il gesto fondante, dal momento che su di essa il personaggio comico costruisce la sua immagine e il suo potere. Fino alle soglie del mondo contemporaneo la trasgressione ri- William I. Thompson, All’orlo della storia, introdotto da Elémire Zolla (tr. it., Milano, Rusconi, 1972), spec. alle pp. 168-82. L’opera di W.B. Yeats è A Vision (New York, 1956). Il film cui Thompson fa riferimento è The Hunter di John Marshal, un gioiello della cinematografia di ispirazione etnografica. 13 Q uaderni sulta notoriamente connessa col sacro, dal momento che grazie ad essa il trasgressore acquista potere (originariamente, il potere magico insito nel sangue). Ma anche in contesti desacralizzati, come i nostri, il personaggio comico deve la sua forza e il suo prestigio alla capacità di andare all’incontrario, esercitare una sorta di violenza bianca sui personaggi d’autorità, cimentarsi nell’esercizio della parodia dei costumi e miti collettivi. Tutto questo sarebbe incomprensibile se non ipotizzassimo l’esistenza di una delega collettiva al personaggio comico a trasgredire, peccare, sbagliare, colpire in nome di tutti. È un meccanismo analogo a quello con il quale le società affidano il compito di rappresentare i loro desideri nascosti alle figure di confine (stranieri, vagabondi, nomadi, marginali, irregolari ecc.), immaginati diversi nel peccato e nel disonore. Il confronto con l’alterità è una condizione della trasgressione comica, e insieme il momento e l’occasione in cui l’altro si rivela come lo stesso, la parte oscura di sé. Anche se sta dalla parte opposta, “l’individuo è costretto a riconoscere che egli non è solo se stesso, ma ha dentro di sé gli equivalenti di tutte le cose contro cui combatte”4. Perché, come già scriveva Sorokin più di mezzo secolo fa, egli “ha tanti io sociali quanti sono i diversi strati e gruppi sociali con i quali viene a contatto”5. Il comico è l’altro e lo stesso Questa natura “altra” del buffone rende ragione del fatto che il comico viene da un 4 5 14 altrove. Il teatro comico è il luogo della differenza, perché il personaggio comico è in vario modo esterno alla cultura in cui opera, anche quando l’altrove da cui proviene è del tutto immaginario. Il teatro ateniese nasce sotto l’influenza di un teatro popolare periferico, le farse megaresi, che forniscono i modelli comici fondamentali, pur nella loro gossolanità provinciale; megarese è ancora il personaggio comico degli Acarnesi di Aristofane; una forte impronta contadina ebbero analogamente nelle città magnogreche le farse fliaciche; il più antico teatro conosciuto a Roma, le Atellane, era considerato di origine osca, anche se è ancora da dimostrare che questa extraterritorialità era reale e che si trattava veramente di Osci e non (come a noi sembra) di Romani mascherati da Osci. Nel teatro latino di imitazione greca i personaggi comici erano schiavi, quindi stranieri: nel Poenulus di Plauto il comico è un cartaginese; nelle corti e nelle piazze delle città medioevali si esibivano buffoni che venivano (o si immaginava che venissero) dalle campagne, insieme ai giullari girovaghi; le maschere della Commedia dell’Arte dei secoli XVII-XVIII erano opera, anch’esse, di teatranti ambulanti di diversa provenienza, ed erano solitamente maschere etniche, che rappresentavano in forme tipiche le virtù, ma soprattutto i vizi, presunti o reali, delle culture locali viciniori. La stesso può dirsi del successivo teatro delle maschere: in quello napoletano – sono esempi – Don Pancrazio rappresentava comicamente il tipo del pugliese, Ponzevere quello genovese, Giangurgolo si faceva provenire dalla Ca- W.I. Thompson, All’orlo della storia, cit., p. 191. P. Sorokin, Society, Culture and Personality, New York, 1962, p. 345. antropologia e storia labria, Arlecchino da Bergamo. Nello stesso teatro colto degli attori le figure comiche sono frequentemente stranieri: nel Borghese gentiluomo di Molière il comico è un turco; nel teatro portoghese il personaggio comico è un negro della Guinea. Singolare la storia di Pulcinella: la maschera fu inventata dai napoletani, i quali però la dissero sempre venuta da Acerra o da Ponteselice o Giffoni o Benevento, ossia da contesti rurali e periferici; a Roma Pulcinella ebbe una vita teatrale, oltre che carnevalesca, molto intensa nei secoli XVII-XVIII, e per i romani era la maschera napoletana, anzi del napoletano. Lo stesso si può dire del Pulcinella migrato a (e qualche volta bandito da) Venezia. In Francia Pulcinella diventa Polichinelle, e ha una storia teatrale di oltre tre secoli, abbastanza importante, ma è quasi sempre sentito, sia pure residualmente, come napoletano. Nel teatro di figura l’eroe popolare iraniano Pahlavān Kačal era fatto provenire dalla parte dell’Iraq inglobata nello Stato persiano, e apparteneva perciò alla nazione iraniana, pur essendo etnicamente iraqueno; il Punch inglese era percepito come italiano di origine, almeno nei primi tempi della sua storia, quando si chiamava ancora Poncinello; Karagoz ha messo radici in tutti i paesi islamici del Mediterraneo, ma ha origini inequivocabilmente turche. Il motivo della provenienza esterna è indicativo innanzitutto del fatto che il teatro comico è stato storicamente il teatro dell’etnicità, almeno nel senso che la frizione etnica e culturale (interno/esterno, città/campagna, centro/periferia, selvaggio/civilizzato) ha giocato un ruolo importante nella genesi psichica e culturale del riso. Anche ai nostri giorni i personaggi comici sono collegati socialmente, culturalmente, espressivamente a / 2 – comicità e politica contesti regionali, dialettali, periferici, d’emigrazione, e sono portatori di una diversità che è, vistosamente, una diversità etnica: riesce difficile immaginare, per esempio, Lino Banfi senza il suo dialetto pugliese, o Totò spogliato della sua napoletanità, o Benigni senza la cultura antropologica toscana. La provenienza esterna allude altre volte a un altrove sociale e può rispecchiare tensioni tra ceti, classi, gruppi: nella Roma dell’epoca classica i personaggi comici erano schiavi; gli Zanni della Commedia dell’Arte erano servi; Pulcinella è stato per i ceti privilegiati di Napoli il portatore della cultura del “popolo minuto”; i personaggi ridicoli in gran parte del teatro europeo dell’età moderna sono servi; il loro perfetto corrispettivo romanzesco era il popolano furbo, il furfante intelligente, lo sciocco, il picaro, lo stolto. Ma la rappresentazione comica è anche il teatro della estraneazione della differenza interna. Il personaggio comico può provenire miticamente dagli Inferi. Il motivo rinvia più direttamente alla diversità che preme ai confini interni della cultura, alla parte oscura di ogni società. Connotazioni diaboliche si riscontrano nelle figure comiche di tutti i tempi, nelle mitologie che le concernono e nei comportamenti che esse manifestano: dall’Aldilà si immaginano venuti i buffoni sacri delle Americhe; un demone era Arlecchino e diabolico era l’universo delle maschere della Commedia dell’Arte; secondo Filippo, re di Francia, che si riferiva a convinzioni diffuse, “tanto è dare a li buffoni, quanto sacrificare a li demoni”. Nelle mitologie napoletane Pulcinella ha origini inferiche, essendo un diavolo benigno uscito dal Vesuvio, bocca dell’Inferno, in seguito all’invocazione di due fattucchie15 Q uaderni re. In alcuni dialetti italiani “stirune” indica al tempo stesso lo stregone e l’istrione, ossia il comico teatrale. L’origine esterna del personaggio comico indica dunque le forme della diversità culturale (connotata, sia pure ambiguamente, in senso negativo), che concretamente può essere, di volta in volta, la cultura del mondo rurale, l’esperienza delle classi inferiori e il lato diabolico dell’uomo, con la tendenza a confondere le tre cose in una sola. Come nel Carnevale, l’extraterritorialità (vistosamente segnalata dai linguaggi corporei, verbali, comportamentali) indica l’impossibilità di una identificazione totale con figure e azioni che si avvalgono del nostro segreto consenso e della nostra intima condivisione, nella misura in cui li sentiamo parte di noi stessi. Specializzazioni storiche e contaminazioni I trickster politici Secondo il modello antropologico di Yeats interpretato da W.I. Thompson, nella società agricola il surplus economico avvia una crescente specializzazione che porta alla suddivisione delle funzioni originarie presenti nel gruppo dei cacciatori, sia perché per controllare il suo rapporto con l’ambiente e gestire l’economia urbana l’uomo ha bisogno di accumulare un numero crescente di informazioni, sia perché la ricchezza consente la specializzazione delle attività e delle professioni, che accrescono la distanza tra i ruoli delle persone. Lo stesso effetto producono altre trasformazioni, come il passaggio dagli individui alle istituzioni, con la conseguente “routinizzazione del carisma”: dallo sciamano si passa alla religione, dal capo allo Stato, dal cacciatore all’esercito, dal buffone 16 all’arte nel senso più ampio del termine, che include l’arte comica. Gli specialisti ora lavorano a tempo pieno ognuno nella propria istituzione. Non solo: in ogni istituzione generata dalla specializzazione si ripropongono ulteriori specializzazioni secondarie: se il campo religioso è sincronicamente articolato nelle funzioni del Vescovo, del Teologo e nel Mistico, quello del buffone si divide nei vari ruoli artistici, dando vita anche ai differenti ruoli comici: satira, intrattenimento, umorismo, ecc. Ai nostri giorni la figura del trickster porta a un limite che sembra estremo la scomposizione, già iniziata in epoca storica, della sua fisionomia originaria, la quale per un verso moltiplica ulteriormente le tipologie della comicità, per un altro produce una inedita confusione di ruoli e funzioni tra gli statuti della comicità e ciò che comico non è. Per quanto riguarda il primo aspetto, se Paolo Villaggio realizza fino al massimo dell’esasperazione la figura del buffone che “prende le botte”, incarnando il lato sacrificale dell’eroe comico, Beppe Grillo ne incarna il lato aggressivo che si esercita nella denuncia derisoria e violenta della degenerazione politica, Alberto Sordi si è specializzato nella rappresentazione grottesca dei vizi e virtù del carattere nazionale, Maurizio Crozza nella derisione del malcostume, della corruzione politica, del mercato malato del mondo globalizzato, rinfrescando con coraggio e spudoratezza i modi coraggiosi e le metafore della trasgressione sessuale ambiguamente algolagnica. Erede, in area napoletana, di Pulcinella può considerarsi Totò, per certi versi a lui somigliantissimo, soprattutto nel gioco verbale e nella logorrea, mentre Massimo Troisi ha fatto del farfuglio pulcinellesco il suo principale strumento espressivo. antropologia e storia Di solito i comici, anche quando acquistano una notorietà nazionale o planetaria, emergono ancora oggi da realtà regionali, da cui traggono le proprie maschere linguistiche ed etniche che fanno la loro differenza culturale e rendono possibile il gioco comico; vivono anch’essi in una dimensione eroica, testata dal loro successo, dalla loro popolarità e dal rapporto intenso di affezione col pubblico. Se Pulcinella nella sua regione è una sorta di nume tutelare, un destino analogo, sia pure senza il contorno delle mitologie “arcaiche” che hanno accompagnato la fortuna della maschera napoletana, è toccato agli attori più amati dalla gente. La loro popolarità è il segno più vistoso del riconoscimento della loro funzione positiva e della loro trasformazione in miti di identificazione collettiva. Negli ultimi decenni sono avvenuti nella sfera del comico altri mutamenti radicali. Come effetto dei processi di scomposizione della sintesi originaria, aspetti e funzioni del trickster si ritrovano nelle nuove figure, ambiguamente negative o positive, innocue o perverse, che popolano il territorio della comicità, come l’Ubu di Jarry e il Joker del ciclo di Batman, discussi nel Convegno del 2008. Ma il fenomeno più vistoso dei nostri giorni è forse quello dei comici prestati alla politica e dei politici che in veste di showmen ripropongono le performances dei personaggi comici. Nel passato vicino e remoto la comicità si è il più delle volte accompagnata alla politica, i giullari interpretavano anche la protesta collettiva, il re aveva accanto a sé il buffone, che era anche il suo alter ego; ma era inconcepibile che il giullare diventasse signore, se non nelle finzioni dell’arte o della vita, e che il re prendesse il posto del buffone, se non occasionalmente e per gioco. Nella cultura tradizionale era pos- / 2 – comicità e politica sibile che il comico si occupasse di politica, ma era vietato che il politico assumesse in maniera sistematica i comportamenti buffoneschi del comico. Il ribelle assume molto frequentemente la giocosità provocatrice e derisoria del buffone, ma lo fa finché rimane un ribelle: l’identificazione dell’antipotere col potere segnerebbe forse la fine dell’esperienza comica. Allargando lo sguardo dalla finestra di casa nostra, abbiamo esteso la ricognizione di questo tricksterismo contemporaneo ad altre nazioni, col risultato di essere sorpresi e confortati dal ritrovamento di non pochi casi che ci sembrano legittimare l’ipotesi della loro comune appartenenza a questo fenomeno proprio della tarda modernità e della postmodernità. Ci è sembrato che qualcosa di non trascurabile unisse ai comici-politici italiani Ernesto Morales Cabrera, detto Jimmy, laureato in business e diventato un divertente showman televisivo, eletto nel 2013 presidente del Guatemala col favore delle Destre e uno slogan rassicurante (“Per vent’anni grazie a me avete riso, se sarò presidente non vi farò piangere”). Erano gli anni in cui in tutto il mondo occidentale cominciavano ad accadere fatti simili, come l’elezione-bomba alla Presidenza del Brasile, nel 2010, di Francisco Everaldo Oliveira Silva, (per sua madre Tirica, “l’imbronciato”): di famiglia poverissima, diventato artista di strada, ha cavalcato l’antipolitica con slogan molto semplici – era semianalfabeta – del tipo “Votate il deputato vestito da pagliaccio, assai meglio che dare il voto a questi pagliacci vestiti da deputato”. Le prime avvisaglie del fenomeno erano apparse già qualche decennio prima, ad opera del meno fortunato Coluche, ossia Michel Colucci: attore comico nemico dei politici, 17 Q uaderni ebbe un successo straordinario, che lo convinse ad annunziare nell’ottobre del 1980 la sua volontà di candidarsi alle elezioni per la Presidenza della Repubblica francese, ma ebbe molti nemici nel mondo politico che contava, a cominciare dai comunisti (meritò invece l’appoggio di intellettuali come Deleuze, Touraine, Guattari) che lo indussero a desistere. Sappiamo tutti che Arold Schvarzenegger non è propriamente un attore comico, ma forse per gli americani lo è, per avere interpretato qualche commedia (Junior; Un poliziotto alle elementari), con cui ha riscosso un successo che lo ha aiutato a diventare Governatore nel 2000, confermato 2006. Il travestitismo è la connotazione più vistosa che accomuna questi personaggi ai trickster tradizionali: a seconda dei casi, da orso, da Pussy Riot o da Darth Vader si vestiva in Islanda Jólakvedja Jons Garr, che sfondò in politica trattando temi croncreti usando argomenti e linguaggi non molto diversi da quelli di Grillo, Francisco Everaldo Oliveira Silva indossava camicie fiorite e e un cappello pagliaccesco. Una sorta di travestimento – corpo e abbigliamento – è anche quello di Trump, che, pur costituendo un caso a parte, anche per questo, oltre che per la sua stravaganza buffonesca e l’assenza di ritegno sembra partecipare dell’universo dei politici-trickster. Normalmente il fenomeno su cui stiamo cercando di riflettere viene classificato come populismo, un termine già dall’uso incerto nel linguaggio politico tradizionale e del tutto inadeguato a descrivere o soltanto vagamente indicare un fatto radicalmente nuovo nella società contemporanea, che presenta una molteplicità e varietà di sfaccettature, che rendono difficile la ricerca di un comune denominatore. Di solito si usa il termine 18 populismo (letteralmente, “il popolo come modello”), in questo e in molti altri casi, per designare spregiativamente i propri avversari, indicando cose diverse, variamente combinate, indipendentemente dal problema se esse siano vere o false, autentiche o simulate e strumentali; per lo più indicherebbe un movimento di protesta che deve il suo successo alla capacità di ascoltare la “pancia” scontenta della popolazione, ma destinato a dissolversi in breve tempo per assenza di programmi concreti, caratterizzato da paura e intolleranza nei confronti degli stranieri e da rancore verso le élite, da una antipolitica fine a se stessa, potenzialmente distruttiva o disgiuntiva, o dal rifiuto dei compromessi che livellano le differenze a vantaggio di una reciprocità di privilegi e di interessi personali o di gruppo. Meno frequentemente sono state negli anni passati evidenziati gli aspetti costruttivi di almeno alcuni di questi presunti populismi, come il loro progetto di democrazia diretta, le rivendicazioni civili, la lotta alla corruzione e agli sprechi, la domanda di giustizia sociale, la difesa dei ceti deboli, la protezione dei beni e dei patrimoni comuni, il controllo delle banche, la lotta ai poteri forti, la conquista del potere per cambiare la società e assicurare stabilità politica. Ma le nostre riflessioni vanno oltre una lettura strettamente politica, che peraltro meriterebbe ben altro approfondimento, e una più netta distinzione della specificità, della storia, delle trasformazioni e del destino dei singoli personaggi e movimenti. In America spettacolo e gossip non sono rimasti estranei al modo di fare politica, perché in democrazia la politica ama forme rassicuranti di gaia socievolezza: i politici sanno che, divertendo il popolo, si dà l’impressione di essere a lui vicini, e a volte lo antropologia e storia sono veramente. Ma questi precedenti americani, che prima di Trump, pur nella forma dell’intrattenimento, hanno rispettato il modo corretto di fare politica negli Stati Uniti, nella loro moderazione non facevano prevedere quello che è successivamente accaduto in Italia a partire dagli anni Novanta del secolo passato, quando Grillo da un lato, Berlusconi dal lato opposto e Bossi da un altro orizzonte riproponevano in maniera diversa e in forme assolutamente inedite i comportamenti trasgressivi che andavano molto più avanti della democratizzazione della comunicazione politica e stravolgevano il bon ton dei discorsi tradizionali, mimando, con esiti diversi, le forme aggressive e spudorate e lo spirito dell’antipolitica. La radicalizzazione dell’aggressione comica al potere o ad alcune forme di potere, che ha segnato e segna ancora gli ultimi lustri della vita pubblica italiana, è stata alimentata dalla perdita di credibilità di uno stile di comunicazione politica, quello del “politicamente corretto”, percepito come mendace e noioso e di fatto autoritario e lontano dalla gente, e dal discredito delle rappresentanze politiche che non riescono più ad avvalersi delle tradizionali maschere linguistiche, perché sprofondate nella corruzione e nell’illegalità, e private del potere che conta a vantaggio delle lobby transnazionali e del potere finanziario. Il discredito dell’intera classe politica accresce l’influenza dei comici, i quali non si limitano più a fiancheggiare e supportare i potenti, oppure a contrastarli, ma si inseriscono nel vuoto della comunicazione che essi hanno prodotto, aspirando a svolgere una funzione di supplenza. Tutto questo può sembrare non completamente nuovo (si pensi – ma è solo un esempio, forse il più significativo – ad Ari- / 2 – comicità e politica stofane, ai cui personaggi ribelli la passione libertaria e antitirannica ha fatto meritare per la prima volta il riconoscimento di “eroi comici”) (5), ma è invece nuovo nel fatto che i comici che afferiscono a questa categoria non sono solo guitti di successo, ma anche politici di rango, che all’anomalia sociale di essere imitatori dei comici aggiungono l’estremismo di un linguaggio aggressivo, irriguardoso e osceno, e di azioni simboliche e realistiche che offendono il senso comune della misura e del pudore, in contrasto cogli stili comportamentali e linguistici dei ceti superiori e delle figure pubbliche e con la moderata licenza delle strategie comunicative e verbali con cui la comicità ha storicamente aggirato le interdizioni linguistiche ed etiche. Questi mezzi hanno consentito a Beppe Grillo di costruire un partito con lazzi, insulti, aggressioni verbali, rivelazioni e indiscrezioni scandalose, e a Silvio Berlusconi hanno permesso di giocare con le pratiche erotiche spregiudicate e contro legge e con le oscenità linguistiche che hanno osato “abbassare” e irridere donne e uomini rispettati e potenti (chi non ricorda la “culona” teutonica?), in gara a volte col più elementare e greve machismo buffonesco di Bossi. Perché i comici Il nuovo ruolo dell’informazione Nella strutturazione dei ruoli fondamentali dell’organizzazione sociale e nelle sue trasformazioni nel tempo l’informazione svolge una funzione e un ruolo sempre più determinanti. Se “l’ambiente è un campo di energia che sostiene l’organismo dell’individuo”, l’informazione è il mezzo di cui 19 Q uaderni l’individuo dispone per accumulare energia e quindi controllare la natura e il mondo sociale. Le società complesse si distinguono dalle altre, perché hanno accumulato una maggiore quantità di energia, e possiedono le informazioni che hanno accelerato il loro sviluppo. Siamo nell’era del dominio dell’informazione, e, mentre cade a pezzi la retorica tradizionale della politica, e i politici perdono la credibilità e perfino la dignità del ruolo tradizionale di informatori/formatori, i comici, grandi comunicatori, capaci di suscitare il riso che ha la forza di produrre forme o illusioni di consenso, comunque di sintonia, guadagnano un vantaggio che li proietta nell’agone politico. In questo contesto alcuni politici, di solito diversi dai professionisti della politica e in vario modo transfughi dalle secche del linguaggio politicamente corretto, mimano i modi e gli eccessi della comunicazione comica. Nella misura in cui i comici riempiono il vuoto dell’informazione politica ormai screditata e di quella giornalistica, compromessa con poteri sempre più sentiti come inaffidabili e corrotti, la loro nuova funzione modifica contenuti e forme del loro lavoro: i comici politici diventano ora in primo luogo informatori, produttori di analisi, e le connotazioni comiche si aggiungono, come complemento e strumento, a discorsi che sono frutto di studio e preparazione e seguono una logica a loro modo stringente nel rappresentare e interpretare la realtà sociopolitica e fare critica sociale. Valgano gli esempi italiani di Grillo e Crozza e, su un altro versante, le indagini e le rivelazioni spregiudicate di Trump sull’operato di Hil- 6 20 lary Clinton, che hanno fatto crescere la sua possibilità di diventare l’uomo più potente del mondo. Sotto alcuni aspetti il rapporto dei comici con la censura, per quanto la pressione di quest’ultima sulla politica e la produzione letteraria e teatrale sia oggi notevolmente allentata, riproduce residualmente le condizioni tradizionali: nel 1848, quando vennero eliminate le misure censorie di Metternich, Heine commentò: “Come farò adesso, non posso più scrivere, non posso, perché abbiamo eliminato la censura. Come può scrivere senza censura un uomo che ha sempre vissuto con la censura?”)6. In effetti, “Quando un’opera letteraria … tocca campi tabù in un determinato ambiente sociale, il sistema dei divieti stimola la fantasia dell’artista a trovare dei segni per cifrare la propria intenzione”: si scatena cioè l’arte del camuffare, l’abilità della doppiezza, dei trasferimenti metaforici, delle allusioni, dell’inserimento di segnali ambivalenti e ambigui nel testo. Questo sapere, che ha una storia immemorabile, si ritrova in parte nell’arte comica contemporanea, nonostante l’indebolimento delle forme tradizionali di censura, ma ormai non ne costituisce forse l’elemento determinante. Anche se le più gravi forme di intervento censorio sono oggi superate, ne sono nate di nuove, più subdole e meno facilmente percepibili. Le nuove forme di divisione del lavoro, delle specificità e delle aree di competenza, nel modo in cui sono concepite e realizzate, favoriscono la formazione di nuove situazioni censorie, peraltro non del tutto sconosciute nel passato. Al primo posto nel campo televisivo c’è la distinzione V. Zmegac, Creazione letteraria e consumo sociale, tr. it., Napoli, Pironti, 1980, p. 68. antropologia e storia tra quelli che possono gestire l’informazione, e quelli che devono solo fare spettacolo o satira senza ispirarsi alle contraddizioni e alle lacerazioni della realtà, e la divisione dei generi e dei linguaggi è la nuova tecnica con cui si ripropongono le istanze del controllo e della censura. A soffrirne è soprattutto la satira, perché la divisione del lavoro vigente nella televisione prevede o vieta a chi fa satira di occuparsi di politica, e chi fa intrattenimento non può occuparsi di informazione. Le nuove vie della comicità post-censura sono perciò quelle battute dai comici che congiungono ciò che era disgiunto, operano contaminazioni di generi e di settori istituzionalmente autonomi, mimano, inventano, riscrivono linguaggi, mescolando politica, intrattenimento, informazione, musica, balletto, caricatura, riflessione e aggressione, dilatando e arricchendo gli stessi territori classici della satira, rinnovando per molti versi i fasti della Commedia dell’arte. Di fronte alle difficoltà o all’impraticabilità di questo percorso, rimane l’abbandono della televisione e dei luoghi di spettacolo ufficiali per mettersi in proprio, fare lavoro di nicchia, ma, soprattutto, ritrovare la piazza, dove i comici raccolgono l’eredità emotiva e simbolica del Carnevale e della Commedia dell’Arte. La piazza torna a rendere liberi, consentendo di parlare e dialogare direttamente e senza mediazioni con la pancia oltre che con la coscienza della popolazione, e dove la piazza finisce ha inizio il web. Hanno seguito il loro esempio i politici con vocazioni tricksteriche, che in qualche modo nella piazza c’erano già, e, paradossalmente, è ora la televisione ad inseguire la piazza. La libertà dei nuovi comici consente l’innalzamento del livello della trasgressione oltre ogni limite nella critica sociale, poli- / 2 – comicità e politica tica, ecologica e del costume, usando come sberleffi o come pietre i registri osceni della comunicazione e inglobando nell’aggressione comica la vita e la persona degli avversari. Ritorno delle forme arcaiche del trickster? Il fenomeno almeno sotto alcuni aspetti può essere letto come un “ritorno” delle forme arcaiche del trickster, come il sintomo nevrotico dormiente, che, nel suo improvviso risveglio, ripropone paure arcaiche e antiche domande di salvezza, l’angoscia degli assilli quotidiani e la speranza di millenaristici rivolgimenti. I comici-politici e i politici-comici hanno infranto il codice che impone la separazione di privato e pubblico, personale e politico, emotivo e razionale, a favore dell’attacco ad personam, che denuda l’avversario, incarnazione del Potere, trascinandolo nei giochi cattivi dei rituali carnevaleschi, in una sorta di irridente e impietosa confessione pubblica dei peccati, che coinvolge nel confronto politico la totalità della persona, il carattere, la moralità, i vizi privati, le anomalie familiari, e perfino le caratteristiche fisiche e la fisiognomica. Alle spalle di queste performances c’è un mutamento radicale del costume, di cui essi sono gli interpreti più o meno inconsapevoli, che comunque contribuiscono a incrementare. Sono anch’essi, come i trickster di ogni tempo e luogo, violatori di tabù (con fisionomie diverse, corrispondenti alle diverse culture o fazioni in cui è divisa la società), ma sono o aspirano ad essere, al tempo stesso, i salvatori, e, in quanto tali, eroi culturali, capaci di riscrivere i linguaggi dello scambio sociale, cavalcare le trasformazioni e governare le contraddizioni. Era questo, dopotutto, il compito del trickster originario. 21 Q uaderni L’impunità, che la gente accorda ai trickster (a volte indipendentemente dal giudizio dei tribunali o in contrasto con essi), nasce dal riconoscimento implicito di questa importante funzione. Dei politici-comici già ricordati Berlusconi è stato quello più vicino al modello statunitense del politico intrattenitore, di cui però ha prospettato un rischioso scavalcamento, senza che questo per parecchio tempo abbia comportato una perdita di consenso popolare (se addirittura non l’ha fatto crescere). Il caso Berlusconi è stato definito “un paradosso demoscopico”, ma paradosso, a ben vedere, non è stato. Un lettore intelligente ha scritto nel maggio 2008 a un giornale; “Berlusca ama raccontare barzellette, i colpi di teatro, le pacche sulle spalle, fare le corna, corteggiare deputate belle e giovani che potrebbero essere sue nipoti, scrivere loro deliziosi bigliettini … insomma pare un giocherellone assatanato. È forse per tutto ciò che gli italiani lo hanno votato”?7. Il fenomeno Berlusconi e il fenomeno Grillo, anche se in politica diversamente orientati, sono accomunati dall’idea (che potrebbe non essere nella loro testa, ma è come se ci fosse) che bisogna sfidare i tabù per acquisire i poteri che consentono di influenzare e controllare la realtà; ma sono, ancora, accomunati dall’impunità e dal successo che la gente ha accordato ad entrambi, riconoscendo nella loro eccentricità e nei loro eccessi i segni di aspettative e bisogni collettivi. In più, soprattutto Berlusconi aggiungeva al potere che la trasgressione gli conferiva i vantaggi e l’autorevolezza delle istituzioni e del potere che ufficialmente 7 22 “Libero”, 20 maggio 2008. rappresentava, creando un miscuglio che lo rendeva ancora più forte e impunito, col risultato che la contaminazione di potere e antipotere ha rischiato di distruggere la vera essenza della comicità. Se per un verso il comico è portatore di disordine, per un altro egli svolge una importante funzione di rifondazione e di rafforzamento dell’ordine sociale. Il trickster delle mitologie primitive è un eroe civilizzatore, che compie azioni di grande utilità per gli uomini e fornisce loro i mezzi per migliorare la vita. I buffoni sacri di tutti i popoli svolgono una importante funzione equilibratrice soprattutto in relazione alle tensioni interne e ai rapporti con l’esterno. Anche se questa connotazione è diventata opaca nella percezione moderna della comicità, è significativo che ancora oggi i comici godano di grande popolarità e vengano considerati altamente rappresentativi della vita dei popoli, pur non incarnando il meglio dei caratteri nazionali. In effetti il personaggio comico media il rapporto con il mutamento; l’esperienza comica può essere contro le innovazioni, quando esse minacciano di mettere in crisi la vita della comunità, e può a sua volta promuoverle, quando i sistemi culturali si vanno sclerotizzando. I comici non colpiscono nessuna delle classi sociali, ma bersagliano di ognuna di esse gli eccessi e le debolezze, che ne ostacolano il loro ruolo e la loro funzione sociale. In quest’ottica acquista trasparenza la risata comica: nell’universo della comicità si ride al tempo stesso per includere o escludere, per accettare o respingere; la comicità non si identifica mai interamente con la derisio- antropologia e storia ne, che costituisce soltanto uno dei suoi poli dialettici: l’altro polo è quello dell’accoglimento: si (de)ride per escludere ciò che non è compatibile con le domande di vita collettive e col proprio sistema culturale e si ride per integrare ciò che può integrarlo o arricchirlo. L’esperienza comica promuove e sollecita il confronto col nuovo e al tempo stesso difende dalle minacce dell’ignoto. Il comico è ancora il capro espiatorio, il “buffone che prende le botte”? Anche se il successo di alcuni attori sembra aver sconvolto lo schema arcaico del trasgressore come “peccatore per tutti”, che fa il bene della collettività pagando di persona con i suoi scacchi e con la malizia o violenza della persecuzione, del ridicolo e della beffa, non sfugge a nessuno che quasi tutti i comici diventati politici in diversi modi e con esiti differenti hanno sfidato il potere vengono da esperienze di emarginazione e di sofferenza, che appaiono strutturalmente connesse con la loro storia di trasgressori e di ribelli. Sono di norma ridicolizzati e sbeffeggiati per la loro grossolanità e stravaganza, minacciati e fatti oggetto di persecuzioni giudiziarie, di violenza verbale e perfino fisica. Victor Trujillo era noto come “il pagliaccio losco”, Trump “pagliaccio da rodeo”, e così via. La televisione è il luogo in cui più facilmente si esercitano le tecniche di emarginazione e di esclusione che colpiscono i comici antisistema e si fanno tacere o espellere le voci autonome o ribelli della satira. Una delle strategie è quella di non aprire le porte dei media pubblici e privati ai talenti troppo liberi, far invadere le televisioni da programmi e intrattenitori di sicura fedeltà, abili, al più, nelle innocue caricature, in modo da non lasciare spazio a voci autonome e compromettenti. L’assenza dalla RAI di autori / 2 – comicità e politica come Daniele Luttazzi, Beppe Grillo, Maurizio Crozza è l’effetto di operazioni censorie, ispirate da precisi orientamenti politici e da interessi di parte. A differenza degli intrattenitori e dei comici di regime e addomesticati, la loro comicità si fonda su una ricerca e una documentazione rigorosa, ed è ispirata da principi morali prima che da idee politiche. Questo li rende invisi ogni volta che affrontano situazioni sgradevoli, costringendoli a rinunciare al loro successo e scegliere il rifiuto con la conseguente emerginazione. Grillo, come Santoro, Biagi, Luttazzi sono alcuni dei grandi esclusi dall’universo dell’informazione televisiva italiana a cominciare 1993, quando Grillo denunciò i socialisti come ladri e lasciò la televisione per continuare liberamente a fare satira furiosa nelle piazze. Luttazzi fu mandato via dalla Rai per la sola colpa di avere intervistato Marco Travaglio nel 2001. Il destino dei politici che abbiamo etichettato un po’ superficialmente come “comici” è stato, ovviamente, determinato da ragioni diverse e perfino divergenti, ma, tra esse, un qualche peso può avere avuto la loro tendenza a contrastare il modo corrente e consolidato di fare politica e spavaldamente ignorare lo stile dominante nel comportamento e nell’uso della comunicazione. Un destino, che ha contribuito a fare di Berlusconi il bersaglio di attacchi giudiziari che lo hanno forse definitivamente travolto. Trump è per il momento un trickster vincente, ma le élite economiche, politiche e culturali che lo hanno avversato sono tutt’altro che rassegnate alla sconfitta. Su un versante diverso Grillo sembra sul punto di vincere definitivamente, ma su entrambi sembra addensarsi un orizzonte di attese che aggrega alle certezze utopiche dei loro fedeli le interessate previsioni del loro scacco finale. 23 Gli ossimori di Trump as trickster Patrizia Del Barone A lmeno fino alla metà del Novecento, notoriamente, la politica era in sostanza la Weltanschauung, la visione del mondo per eccellenza, lo strumento attraverso il quale esercitare il governo di una comunità, mezzo di pedagogia sociale e di partecipazione collettiva. Oggi, in una società in preda all’incertezza e allo spaesamento, al rancore e alla solitudine, alla paura di modelli di vita non negoziabili, che si sente insidiata e minacciata nella propria sicurezza, il paradigma dominante è l’antipolitica, che esplode, non di rado, con forza “mitologica” e con la quale prendono il sopravvento le maschere della post politica1. In questa prospettiva un fenomeno tutto moderno, e non solo americano, è il “trumpismo”, che è già entrato nell’immaginario collettivo delle popolazioni del globo. In Italia, alcune sue connotazioni si ritrovavano nella “rottamazione”, ormai passata di moda e quasi dimenticata come un’esperienza mendace, e nel “grillismo”, che invece ha subito una felice metamorfosi da movimento 1 2 3 4 vincente, avviando una normalizzazione che supera i timori iniziali del salto purificatore nel buio. Il trumpismo nel modo in cui ha già conquistato il potere nella nazione più potende del mondo rappresenta un ritorno prepotente alla virilità esibita, ad una governance testosteronica esercitata da una figura demiurgica, il “trumpista” appunto, che irrompe in scena e, con un linguaggio che non conosce mezze misure, si dichiara in grado di metter mano e di risolvere le perversioni della modernità2. L’istrione, per eccellenza, dell’anti-politica è, dunque, Donald John Trump Sr, per alcuni “the tycoon”, per altri semplicemente “the Donald”, il magnate americano che ha associato al ruolo di imprenditore quello di politico trasgressivo ed eccentrico senza rinunciare alla sua vocazione di intrattenitore pagliaccesco, diventando per molti l’uomo di punta di quella tendenza globale definita dai più come una forma di reazione al “declinismo” occidentale3. Donald Trump è un uomo poliedrico: facoltoso investitore immobiliare4, latin lo- Ved. M. Nardelli, Trumpismo, le maschere della post politica, su www.michelenardelli.it/articolo/3686/.html. Ved. G. Giglio, Trump e il “trumpismo” alla conquista dell’Occidente, su www.effemeride.it/trump-e-il-trumpismo-alla-conquista-delloccidente/. Ved. G. Giglio, Trump e il “trumpismo” alla conquista dell’Occidente, su www.effemeride.it/trump-e-il-trumpismo-alla-conquista-delloccidente/. Le sue proprietà sono in diverse parti del mondo: da New York a Chicago, da San Francisco a Los Angeles, da Washington DC a Philadelphia, da Porto Rico ad Aberdeen in Scozia. 25 Q uaderni ver5 e personaggio televisivo di successo grazie ad un reality show da lui stesso prodotto e condotto per oltre dieci anni6. Ha scritto numerosi libri, alcuni dei quali sono diventati dei best sellers7, si è fatto conoscere nel mondo del wrestling8; è blogger, proprietario di alberghi, di un’agenzia di modelle, di campi da golf e casinò. Ha avuto dei camei in diversi film e telefilm e ha interessi nella moda, nell’arredamento, nei prodotti di bellezza, nello sport. Dalle origini familiari modeste è diventato presto icona del sogno americano dell’abbondanza, dell’autonomia e dell’autorealizzazione. Eppure il suo stile appare decisamente savonaroliano. Trump usa una dialettica inquietante ed una retorica impulsiva e graffiante: prima di diventare Presidente degli Stati Uniti ha parlato dei messicani come degli stupratori, si è dichiarato favorevole alla tortura, all’uso delle armi da fuoco e alla costruzione di muri di frontiera; ha propugnato l’isolazionismo, fomentato crociate anti islamiche, lanciato grotteschi insulti personali e minacciato di dare alle fiamme trattati commerciali internazionali anche a costo di innescare una guerra planetaria. Ha giustificato l’uccisione delle famiglie dei terroristi ed esaltato l’uomo bianco, eterosessuale, duro e le forme di una dittatura neoliberista. C’è, dunque, una sorta di “nonsense” forte, diretto, anche violento, che, chiaramente, lo “scomunica” sul piano morale, etico ed 7 estetico. Tuttavia non lo allontana o lo condanna. Al contrario, riscuote applausi e consensi. Trump piace, non a dispetto delle sue sparate e dei suoi atteggiamenti stupefacenti, ma proprio grazie a questi. Piacciono le strategie della comunicazione pubblica, apocalittiche ed assertive. Come in uno show televisivo, in una coreografia holliwoodiana, le parole sono sempre forti e i toni fieramente sboccati. Gli elettori non pensano più in termini ideologici e appaiono come i telespettatori leali alla star, accomunati tra loro dal gusto per i politici-intrattenitori – vuoi politici-pagliacci o comici prestati alla politica – che, a differenza dei politici tradizionali, puri, detestano l’idea di compromesso. Mescolano argomenti sia di destra che di sinistra e non parlano né il linguaggio cifrato dell’accademia né quello paludato dei professionisti. Con rude sincerità e con riferimenti alla portata dell’uomo della strada, si rivolgono direttamente alla loro “pancia”, puntano agli istinti più bassi, mettendo a nudo le pulsioni recondite e l’anima oscura dell’America. “Pensa in grande e manda tutti al diavolo nel lavoro e nella vita!”9 è la loro filosofia di vita. Nel confronto politico privilegiano l’attacco personale, “che denuda l’avversario trascinandolo nei giochi cattivi dei rituali carnevaleschi, in una sorta di irridente e impietosa confessione pubblica dei peccati”, delle sconvenienze e dei vizi privati10. Questo è un cambiamento Si è sposato tre volte e ha cinque figli. Il programma televisivo è The Apprentice, un reality show prodotto e condotto dal 2004 al 2015. The Art of the Deal, la sua autobiografia del 1987, ha venduto oltre tre milioni di copie. Tra gli altri: How to Get Rich, Crippled America, Time to Get Tough, The Art of Comeback, The America We Deserve, The Way to the Top, Think Like a Billionaire, Never Give Up, ecc. 8 Trump, rappresentato dall’atleta Bobby Lashley, vinse nel 2007 la Battle of Billionaires, contro Vince McMahon/Umaga. 9 Questo è il titolo di un suo libro, scritto con Zanker Bill e pubblicato da Etas nel 2008. 10 Ved. Domenico Scafoglio, Comicità e politica al tempo di Grillo, su www.la rete-associazione.it. 5 6 26 antropologia e storia generazionale, antropologico. La scena della politica contemporanea riporta alle forme primigenie del divino burlone quale incarnazione comportamentale di un eroe culturale che è, ossimoricamente, trasgressore ordinatore e vittima salvifica. L’ascendente dell’anti-politico e/o post-politico affonda le sue radici in un contesto umano turbato, ferito proprio dai mali della politica, che mal sopporta la sua involuzione cancerosa, che non riesce ad appartenere e per il quale questi rappresenta un’appartenenza. Come sottolinea l’antropologo Domenico Scafoglio, l’impunità che la gente gli accorda nasce proprio dal riconoscimento dell’importante funzione che questi ha11: un “utile idiota” che consuma un rito liberatorio e salvifico con una trovata buffonesca, che ha dimostrato di pagare in politica quanto un impero. Quando le istituzioni politiche sono screditate e screditabili, quando non c’è più una progettualità condivisa ed ogni prospettiva futura è mendace e fallace, ecco che arriva Trump a salvare il mondo, l’unico uomo sulla Terra in grado di sconfiggere questa subdola minaccia aliena12. Lo stile della comunicazione politica, oggi, ha una nuova veste, si colora di termini e atteggiamenti che appartengono ad una sfera – quella della comicità – che è nella dimensione opposta e tanto più colpisce perché inaspettato. Il politico è uno showman. Silvio Berlusconi e Mike Pence13 – governatore dell’Indiana, candidato alla / 2 – comicità e politica vicepresidenza di Trump – ne sono l’esempio. Il mescolamento dello statuto comico con il codice politico, e viceversa, porta alla ribalta i trump del mondo, i “trickster contro”: Beppe Grillo in Italia, Victor Trujillo in Messico o Pim Fortuyn nei Paesi Bassi. Victor Trujillo, ad esempio, è un comico televisivo, noto come “Bozo il pagliaccio losco”, ma è anche il più influente commentatore politico messicano; Fortuyn, invece, era un politico omosessuale, che prima di essere ucciso in modo violento, mostrava un vero talento per lo scandalo e le sue apparizioni pubbliche erano una chiara forma di intrattenimento provocatorio14. Alla stregua di Trump, poi, Beppe Grillo, con il gusto della provocazione, a furia di lazzi e irriverenze, ha fondato il secondo partito italiano, che si candita a governare l’Italia. L’espressione “seriously funny” (“seriamente divertente”) è forse l’espressione più congeniale ad esprimere la vocazione e la disposizione artistica “liminale” di questi “buffoni demagogici”, priva di inibizioni, indifferente ad ogni tabù e capace di trasgredire ogni tipo di confine. Donald Trump è un politico trickster, uno strano personaggio – come quello che compare nelle mitologie di molti popoli – irriverente, osceno, triviale e blasfemo, che mostra attraverso la sua denuncia-derisione bricconesca come non esista realtà inaccessibile e impenetrabile che non possa essere svelata, ed è così che induce in uno stato di ampliamento della coscienza15. Ved. in questo numero dei “Quaderni” Domenico Scafoglio, Comicità e politica al tempo di Grillo. Ved. la storia a fumetti Martin Mystère, in particolare Condominium, ovvero come Donald Trump salvò la terra pubblicata nell’Almanacco del Mistero 1990, Sergio Bonelli Editore. 13 Pence fu conduttore radiofonico del Mike Pence Show dal 1993 al 1999. Si dice che la sua carriera politica – dopo la sconfitta alle elezioni del 1988 e poi a quelle del 1990 – sia decollata proprio grazie allo show. 14 Ved. “Un pagliaccio da rodeo” su www.DagoSpia.com. 15 Ved. P. Radin, C.G. Jung, K. Kerenyi, Il briccone divino, Milano, Bompiani, 1965, p. 20. 11 12 27 Q uaderni Ian Buruma definisce Donal Trump “un pagliaccio da rodeo”16 e, di certo, anche nella fisiognomica, con la sua acconciatura di color arancio, cotonata e con il riporto, ha un’aria bislacca. Lo stesso nome rivela un aspetto comico burlesco. Infatti la parola inglese trump può significare: briscola, carta vincente, oppure sconfitta, inganno, ma anche “scoreggia”. Nomen est omen dunque e subito qualcuno, ripensando alla sua carica eversiva, si è chiesto – prima che egli diventasse il capo della più grande potenza del pianeta – se sarebbe stata, forse, proprio una “scoreggia” che avrebbe travolto le difese della civiltà17. Ma molti americani ora più che mai pensano che il pagliaccio da rodeo cambierà la storia del mondo. Forse per la prima volta seriamente preoccupati se non spaventati, le élite, i poteri occulti, la grande stampa, gli intellettuali, gli artisti hanno fatto di tutto per fermare il ciclone Trump, facendo leva perfino sui suoi comportamenti scandalosi verso le donne, non considerando che la gente è indifferente all’illecito sessuale quando sono in gioco questioni di vitale importanza, come la sopravvivenza, la sicurezza, il benessere. Questo vogliono da Turmp i trenta milioni di poveri della nazione più potente del mondo, il ceto medio impoverito, i contadini e gli agricoltori delle immense province americane, le categorie non protette dai guasti della globalizzazione, gli operai cogli stipendi bassi che non hanno tratto vantaggi dalla ripresa economica degli Stati Uniti. Su questi ceti arrabbiati, rancorosi, che ancora una volta individuano le cause del loro disagio negli immigrati, nelle minoranze, negli stranieri, nei furti e nei privilegi e sprechi delle caste Trump ha costruito il suo successo, prendendo le distanze dalle grandi istituzioni internazionali e dalla loro retorica, promettendo misure protezionistiche, la difesa delle frontiere, il disimpegno americano all’estero, e, in economia, il taglio delle tasse a lavoratori e imprenditori, un incremento degli investimenti. Un pugno allo stomaco, alla coltre di conformismo della società americana. Ved. “Un pagliaccio da rodeo” su www.DagoSpia.com. Ved. Franco Berardi Bifo, L’era Trump. Una scoreggia ci seppellirà?, su www.alfabeta2.it. 16 17 28 Per una riscrittura del brigantaggio postunitario. Il problema delle fonti Simona Piera De Luna Tra lacune e censure. Il silenzio delle fonti I l problema delle fonti è cruciale per una visione innovativa della guerra civile denominata convenzionalmente brigantaggio del periodo 1861-1870. È stato già rilevato che “i numerosi documenti schedati, molti dei quali assolutamente inediti, non rappresentano certamente tutto quanto è accaduto in quegli anni”1. Se ad impossibilia nemo tenetur, perché ciò che non è documentato non è raccontabile, rimane, oltre il problema degli inediti, la possibilità che anche il silenzio possa essere oggetto di utili riflessioni. Intanto lo storico deve mettere nel conto che anche le vicende e vite che si presumono meglio documentate presentano vuoti, abrasioni e semplificazioni minimaliste, che possono essere indagati e spiegati come sintomi e segni di una selezione partigiana o di una sottovalutazione dovuta a limiti cognitivi, e l’una e l’altra si leggono nelle fonti prima che nelle interpretazioni. Molte cose non sono state dette o non sono state osservate con la giusta attenzione e lucidità. In altri termini, molti fatti e personaggi sono 1 2 assenti dalle fonti per occultamento involontario o casuale e per la dispersione spontanea delle carte e delle prove; altri ne sono stati esclusi palesemente dalle varie forme di censura politica, etica, religiosa; altri infine sono presenti, ma è come se non lo fossero, per essere stati condannati a una irrilevanza che confina con la non esistenza. A queste forme di censura ed autocensura che si registrano nelle fonti si sovrappongono poi quelle degli interpreti, che moltiplicano il silenzio e le deformazioni originarie. Valga un esempio, che abbiamo illustrato in un nostro precedente studio2: il fenomeno della presenza attiva e militante delle donne all’interno delle bande, certificata, sia pure in maniera esigua, da una quantità di testimonianze inoppugnabili, ma quasi interamente ignorata dagli storici di professione, rinvia a questo ordine di considerazioni. Che si tratti di un fenomeno più sottile di una semplice sottovalutazione e distrazione sembra dimostrato dal fatto che, pur ignorate nelle loro ricerche, l’esistenza delle brigantesse non era sconosciuta agli storici e agli antropologi, perché aveva costituito un tema artistico e letterario molto frequen- G. Clemente (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata. Fonti documentarie e anagrafe (1861-1864), Roma, Archivio Guido Izzi, 1999, p. 14. D. Scafoglio - S. De Luna, Le donne col fucile. Brigantesse dell’Italia postunitaria, Università di Salerno, CUES, 2008. 29 Q uaderni tato dagli scrittori e dal pubblico, dall’Ottocento ad oggi. Ma di che cosa si sono autocensurati, nel caso specifico, gli storici, in questa sottovalutazione di fonti, di cui è ormai difficile negare l’importanza? il loro comportamento, nel caso delle brigantesse, coincide, in parte, con quello dei tribunali che giudicarono le compagne dei briganti: sia gli uni che gli altri hanno la responsabilità di non avere visto altro nelle brigantesse che delle povere donne rapite dai fuorilegge e diventate bandite per coazione, e pertanto innocenti, perché, in quanto donne, incapaci di non sottostare alla forza bruta. Le nostre precedenti indagini, che hanno dimostrato il contrario, pur nella complessità delle situazioni, che rendevano problematiche per le donne le possibilità di scelta, hanno rappresentato più probabilmente il trionfo di alcune verità contro le rimozioni dell’inconscio e le simulazioni dell’ideologia. Gli storici tuttavia sono andati oltre rispetto ai giudici, perché hanno eliminato il problema, escludendo interamente le donne dalla storia del brigantaggio postunitario. Un altro aspetto che condiziona l’attività di ricerca sul brigantaggio è costituito dal carattere frammentato e settorializzato delle fonti cui è affidata la testimonianza dei fatti, che sono o possono essere culturali, sociali, economici, militari, giudiziari ecc. Questa frammentazione delle fonti ha condizionato le pratiche di ricerca (notoriamente già di per sé separate se non scisse in una molteplicità crescente di discipline e subdiscipline), incoraggiandole ad affrontare settorialmente i fatti storici e i problemi sto- 3 30 F. Trapani, Le brigantesse, Roma, Canesi, 1968. riografici, nella direzione di una specificità poco espansa e soverchiamente monolineare. In altri termini, questa specializzazione convenzionale era nelle fonti prima di essere nella metodologia, e la teoria, invece di correggerla operando connessioni e aperture transdisciplinari, si è limitata a legittimarla, pressoché ignorando il problema. In questa specializzazione convenzionale gli archivi hanno conservato gli atti dei processi e/o le carte dei militari, che sono rimasti mondi lontani e non facilmente accessibili agli interpreti dei modelli culturali delle popolazioni, la psichiatria criminale ha utilizzato la storia per dimostrare le sue teorie, di fatto inventandosi una caricatura della ricerca sul terreno, la memorialistica militare è uscita a volte dal proprio orto solo per introdurvi elementi della letteratura d’invenzione, la letteratura popolare ci ha restituito testimonianze autentiche della civiltà delle campagne, che gli storici hanno a volte sprezzantemente lasciato ai folkloristi, e così via. Tutto questo ha reso difficile la rappresentazione unitaria della guerra civile postunitaria al tempo del brigantaggio, già aggravata dalla mancanza di pratiche consolidate di lavoro transdisciplinare e dai condizionamenti del conformismo politico ed ideologico. Forse la più vistosa, se non la più grande lacuna della storia del brigantaggio concerne – come abbiamo anticipato – la presenza delle donne combattenti nelle bande. Su di esse ha indagato invece più di mezzo secolo fa la scrittrice Francamaria Trapani, che ha dedicato un volume ad alcune delle compagne dei briganti prima e dopo l’unità d’Italia3. Pur essendo l’operazione tutt’altro che irrile- antropologia e storia vante come scoperta di una realtà pressoché inedita in sede storiografica, rimase priva di credibilità scientifica sia per la qualità eccessivamente letteraria della scrittura, sia per l’impianto narrativo, che mimava più del giusto la struttura del romanzo, sia per la scarsa utilizzazione delle fonti primarie, soprattutto archivistiche, sia, infine, per aver messo sullo stesso piano e mescolato fonti scritte e orali, documenti e narrazioni, senza tenere conto della differente natura e del diverso valore delle une e delle altre. Eppure quel saggio di storia romanzata poneva un problema, in quanto ipotizzava l’autonomia della storia della componente femminile delle comitive, anche se lo separava nettamente dalla storia delle bande, facendo delle brigantesse le antesignane del movimento femminista. Ma non si può fare la storia delle brigantesse ignorando la storia dei briganti, di cui essa è parte4. Non c’è da stupirsi allora se l’interesse per le brigantesse abbia trovato spazio, sia pure in pochi casi e superficialmente, soltanto in qualche pagina dei cosiddetti storici locali, notoriamente attenti alle domande di conoscenza della comunità del paese e alle memorie su cui essa fonda la sua prima / 2 – comicità e politica identità, di cui frequentemente la storia dei briganti e delle brigantesse fa parte integrante. Maurizio Restivo, autore di una ventina di brevi e scarni profili biografici di alcune delle brigantesse più note, è stato tra i primi a raccogliere informazioni da alcune fonti archivistiche5, ma rimaneva da fare il lavoro interpretativo e allargare il campo dell’indagine. Al termine di una ricerca condotta su più fronti, Domenico Scafoglio e Simona De Luna alle brigantesse hanno dedicato, nell’anno accademico 2006-2007, corsi e attività di laboratorio all’Università di Salerno, poi condensati in saggi, che disegnavano un primo quadro interpretativo del fenomeno, oltre a realizzare un documentario e curare mostre, che hanno suscitato un nuovo interesse per il tema6. Quasi contemporaneamente Valentino Romano forniva altre notizie biografiche su altre brigantesse, lavorando anch’egli su materiali archivistici7. Ma le brigantesse non sono la sola lacuna da addebitare alle fonti e all’uso che se ne è fatto: ci sono altri aspetti del brigantaggio, diversamente importanti, che concernono – sono per ora solo esempi – l’organizzazione delle bande, alcuni tratti aberranti della repressione (come l’uso intensivo della Sulla scia della Trapani si collocano le pagine di T. Maiorino (Storie e leggende di briganti e brigantesse. Sanguinari nemici dell’Unità d’Italia, Casale Monferrato, Piemme, 1997) e altri testi giornalistici, come quelli di Giordano Bruno Guerri. 5 Ritratti di brigantesse, Manduria, Lacaita, 1997. 6 D. Scafoglio - S. De Luna, Le donne col fucile, cit.; S. De Luna, Per forza o per amore, Catalogo della mostra, Cava de’ Tirreni, Marlin Editore, 2007; Le donne col fucile, documentario a cura di D. Scafoglio e S. De Luna, 2007; S. De Luna, Donne in guerra: il brigantaggio femminile postunitario, in “Quaderni di antropologia e scienze umane”, a. II, n. 1 (2014), pp. 49-79. 7 Brigantesse. Donne guerrigliere contro la conquista del Sud (1860-1870), Napoli, Controcorrente, 2007. Notizie sulle brigantesse, attinte da fonti archivistiche, e accompagnate da qualche buona considerazione, si trovano marginalmente in P. Varuolo, Il volto del brigante. Avvenimenti briganteschi in Basilicata (1860-1877), Galatina, Congedo, 1955; D. Chieffallo, Cilento. Contadini, galantuomini, briganti, Sarno, Edizioni dell’Ippogrifo, 2002; M. Di Cugno, Storia del brigantaggio in Basilicata, Potenza, 2000 e nell’ottimo volume di L. Sangiuolo, Il brigantaggio nella provincia di Benevento, Benevento, De Martini, 1975. 4 31 Q uaderni tortura, la deportazione delle popolazioni sospette o “ree di parentela co’ brigranti”, la distruzione dei villaggi degli insorgenti, l’incendio delle case dei fuorusciti, la modalità dell’eliminazione dei prigionieri), i rituali di iniziazione maschili e femminili, la vita quotidiana alla macchia, la religiosità, i rapporti familiari nelle bande e nei paesi, gli aspetti economici, ludici, magici, le strategie e tecniche di combattimento, i rituali e le forme della giustizia nelle bande, la struttura gerarchica e la disciplina dei comportamenti. La ricognizione attenta e l’assunzione critica di queste tematiche, imponevano un diverso modo di scrivere la metodologia della ricerca, a cominciare dalla scelta e dal trattamento delle fonti. I silenzi e le insidie nei documenti di archivio Le carte di archivio normalmente erano ritenute i documenti più importanti per la storia del brigantaggio, soprattutto gli atti processuali8. Da essi si ricava l’elencazione dei reati e la condanna dell’imputato alla pena, oltre i dati anagrafici e altre informazioni che illustrano sobriamente la sua storia. Del suo passato emergono frammenti che servono a documentare le imputazioni e legittimare la condanna, mentre rimane fuori quello che resta della sua vita. Fredde e asettiche, le carte di archivio non aiutano a ricostruire la personalità del brigante né, 8 32 da sole, a svelare il senso pieno della guerra civile. La loro lettura presenta non pochi problemi. Innanzitutto, non ci restituiscono il linguaggio e la cultura dei briganti e delle brigantesse, che, quasi tutti analfabeti, si esprimevano in un italiano stentato e incomprensibile o nel loro dialetto, diverso da paese a paese e diversamente lontano dalla lingua italiana e dal suo stesso registro regional-popolare. Nei colloqui i meridionali che parlavano i loro dialetti e i settentrionali che parlavano in italiano o nei dialetti del Nord non si capivano o non si capivano interamente, e frequentemente negli interrogatori dei militari si era costretti a ricorrere all’interprete. Non sempre il mediatore era presente, e nei dibattimenti il compito di tradurre toccava di solito ai giudici e ai cancellieri, i quali suggerivano essi stessi i termini italiani con cui mettere per iscritto le dichiarazioni degli imputati, o traducevano dal dialetto senza consigliarsi con loro. Non erano due linguaggi che si confrontavano, ma due culture, e l’una si poneva come l’interpretazione dell’altra, non preoccupandosi eccessivamente di non ridurre l’altra a se stessa. Poteva accadere addirittura – è solo uno dei tanti esempi possibili – che gli uomini del tribunale indicassero la compagna del brigante con il termine italiano “druda” carico di connotazioni negative e che questo termine venisse ripetuto dalle stesse brigantesse, che finivano così per parlare il linguaggio dei loro inquisitori, o perché non Queste carte oggi possono essere più facilmente studiate dopo il paziente lavoro di L. De Felice (Fonti per lo studio del brigantaggio postunitario conservate nell’Archivio Centrale dello Stato. Tribunali Militari Straordinari, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1998), di G. Clemente (Il brigantaggio in Capitanata. Fonti Documentarie e anagrafe 1861-1864, Roma, Archivio Guido Rizzi, 1999; di R. Dentoni-Litta (Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, 3 voll., Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1999-2001). antropologia e storia sospettavano lo stigma che le parole imprimevano, o perché inconsapevolmente lo introiettavano, accettando masochisticamente la loro menomazione morale e sociale. Inoltre gli imputati sconoscono quasi sempre la sincerità: la loro facoltà di liberamente parlare viene sacrificata all’intenzione di compiacere i giudici, perché è processualmente utile conformarsi a quello che i giudici pensano, sentono e dicono. L’interrogatorio dei giudici, non molto diverso da quello effettuato dai militari dopo l’arresto, mirava ad un duplice obiettivo: verificare i capi d’imputazione e conoscere i nomi dei manutengoli delle bande. Per quanto concerne il primo obiettivo, i briganti negavano finché potevano i reati addebitati, e le donne andavano oltre – come abbiamo dimostrato nei nostri studi precedenti – adducendo una serie di spiegazioni mendaci, come il ratto violento, che miravano all’ottenimento di una riduzione di pena. Per quanto riguarda il secondo aspetto, briganti e brigantesse si rifiutavano di fare testimonianze e rivelazioni che potessero nuocere ai loro compagni e complici fidati, oppure facevano rivelazioni parziali, a volte in modo che venissero eventualmente puniti i manutengoli infidi o i nemici personali. Neppure le dichiarazioni dei testimoni aiutano a ricostruire con certezza la verità dei fatti: alcuni mentivano perché favorevoli ai briganti o per una generica omertà o perché legati ad essi da rapporti di parentela o di amicizia o di complicità; altri erano avversi ai briganti, perché stavano della parte 9 / 2 – comicità e politica opposta o per inimicizia personale, ma evitavano spesso di impegnarsi in testimonianze che avrebbero potuto scatenare le vendette e le rappresaglie dei parenti ed amici degli imputati. Neppure i giudici riuscivano a sottrarsi all’influenza delle logiche territoriali e delle ideologie correnti: abbiamo prove certe che alcune assoluzioni o pene molto blande furono comprate, corrompendo a volte i giudici ma più frequentemente i testimoni. Perfino le testimonianze dei sequestrati per ragioni analoghe appaiono a volte insincere. Dunque, un groviglio di fatti, in cui riesce difficile mettere ordine. I dati che si ricavano da altre carte (rapporti, relazioni dei comandi militari, ecc.)9, concernono soprattutto la storia militare, ma anche informazioni anagrafiche e biografiche sui briganti, sulle brigantesse e sul loro contesto. Anche questi documenti non contengono tutta la verità: una parte di essa, certamente quella più scomoda, rimane sepolta in fogli che ancora non si conoscono e che è auspicabile che finalmente vedano la luce. A proposito del brigantaggio in Capitanata, lo storico Clemente non esita ad esprimere “l’impressione che gli archivi militari nascondano ancora carte utili a far luce su certi aspetti poco chiari. Infatti, oltre quanto abbiamo prima rilevato in proposito, non c’è traccia in essi delle persecuzioni cui vennero spesso sottoposti i parenti dei briganti, denunciate con coraggio dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio da un proprietario di Ascoli, e dell’abitudine di alcuni ufficiali senza scru- La preziosa Guida al fondo “Brigantaggio” di P. Crociani (Roma, 2004) consente ora di studiare il carteggio conservato presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, in Roma. Le indicazioni del curatore non concernono più, come in passato, soltanto la parte operativa della storia militare, ma anche la storia locale e gli aspetti sociali del brigantaggio, con una costante attenzione alla presenza delle donne nelle bande. 33 Q uaderni poli di far bottino, spogliando i cadaveri dei briganti. Come pure, a nostro avviso, i militari caduti nella lotta al brigantaggio, i cui corpi erano assai spesso orribilmente mutilati, sono senza dubbio più numerosi di quelli riportati dalle fonti formali. È impensabile che i vari Comandi Militari non stendessero dettagliate relazioni su episodi così rilevanti”10. I testi degli interrogatori che seguivano gli arresti, stesi dagli stessi militari, sono tra le carte più interessanti. A parte alcuni elementi di imprevedibilità, anticipavano di solito il comportamento che l’imputato avrebbe tenuto durante il processo per quanto riguarda le informazioni che egli forniva e le strategie che metteva in opera. Gli interrogatori si svolgevano in forma stereotipata, perché gli inquisitori facevano le domande previste da un canovaccio sempre uguale a se stesso. Questo consentiva ai briganti di sapere in anticipo quello che i militari avrebbero chiesto, e di prepararsi a dire quello che era utile ai loro scopi e a tacere quello che poteva essere per loro stessi nocivo o pericoloso. Bisogna però tenere conto del fatto che la stereotipia era più nei verbali che nello svolgimento dell’interrogatorio, normalmente tramato di pressioni, violenze fisiche, torture di ogni genere, per essere poi restituito in narrazioni pacate. Logiche analoghe si ritrovano nei documenti di archivio depositati da imputati o da cittadini in forma di esposti, suppliche ecc. È lecito dubitare della loro autenticità assoluta, dal momento che in queste circostanze la gente comune si rivolgeva al curato o a un “galantuomo” del paese, che in quei documenti lasciava il segno del suo pensiero e del suo linguaggio. Gli Atti di stato civile e l’anagrafe dei briganti si consultano agevolmente presso i comuni di nascita e di residenza o che sono stati teatro delle loro gesta, ma molti sono andati distrutti. Negli archivi comunali e parrocchiali si trovano i registri dei battesimi, dei matrimoni e delle morti e se ne possono ricavare notizie utili sull’età dei briganti, sulla data e sulle circostanze della loro morte, sui genitori e i bambini proietti. Queste carte si prestano a considerazioni che vanno anche oltre l’aiuto che ci può dare l’analisi demografica. In alcuni casi questi dati hanno dato vita a nuove affabulazioni, per lo più romanzesche, non prive di interesse11. Conclusivamente, l’utilità della documentazione archivistica è troppo scontata e riconosciuta, perché non venga qui ribadita. Semmai si tratta di riconoscerne i limiti e saper coglierne gli aspetti veramente significativi. Queste carte, per esempio, usate con la giusta attenzione ad alcuni particolari apparentemente marginali, ci aiutano a ricostruire l’atteggiamento dei militari, ufficiali e semplici soldati, nei confronti della popolazione e dei briganti e verificare se l’esercito fosse “diffidente se non ostile”, e suggeriscono che quasi certamente i pregiudizi sulla popolazione meridionale si sono formati subito dopo l’unificazione nazionale, quando gli italiani del Nord e quelli del Sud per la prima volta si sono incontrati e conosciuti ma non si sono piaciuti12. La considerazio- G. Clemente, Il brigantaggio, cit., p. 21. R.S. Caligiuri, Cotronei dalla preistoria al brigantaggio postunitario, Laruffa Editore, s.d., p. 387. 12 Cfr. P. Crociani, Guida, cit., p. 13. 10 11 34 antropologia e storia ne negativa del Sud si è formata negli anni del brigantaggio, tra i massacri della guerra civile e si è condensata nelle forme stereotipate del pregiudizio antimeridionale, cui l’antropologia lombrosiana avrebbe successivamente conferito la veste pseudoscientifica del razzismo. Ma fino a che punto la visione dell’alta ufficialità era condivisa dai soldati semplici? I soldati italiani erano contadini “impossidenti” e pastori nella stragrande maggioranza, ma questo non bastava a portarli a solidarizzare con i braccianti e i contadini senza terra meridionali: l’identità di classe non compensava interamente la differenza etnica e religiosa (i soldati italiani non si toglievano il cappello e addirittura ridevano al passaggio delle processioni sacre ed erano invisi per questo), e, forse soprattutto, era decisivo il fatto di trovarsi a combattere dalla parte opposta. La scelta della diserzione (che in qualche caso è dimostrata dalle carte, in altri è stata fatta passare sotto silenzio) richiedeva troppo coraggio, troppa convinzione, che essi non avevano. I soldati passati dalla parte dei briganti furono pochi, e lo fecero per salvare la pelle. Rimane isolato, almeno fino a questo momento, il caso di Antonio Castaldi, un selciatore nomade del biellese, soldato delle forze di repressione, ma ribelle per temperamento, che passò dalla parte dell’esercito del Sergente Romano, e con fierezza scrisse al padre di appartenere ai soldati di Francesco II, in malafede – a suo dire – “spacciati” per briganti. Caso emblematico, ma insuf- / 2 – comicità e politica ficiente a farci meglio conoscere quello che succedeva nelle menti e nei sentimenti degli uomini semplici, diventati soldati dell’esercito italiano per combattere e distruggere spietatamente i briganti, perché la censura cui era sottoposta la loro corrispondenza ce lo ha impedito. Tra le deboli tracce che è possibile oggi trovare, c’è la notizia di una lettera filoborbonica di un soldato calabrese, intercettata dai militari13. A parte alcuni casi particolari, non contengono altra vita le carte degli archivi, nella loro asetticità burocratica e oggettività menzognera. Confermano la convinzione che, nell’Orfeo negro di Marcel Camus e Vinicius de Moraes, ha efficacemente espresso il disarmante custode dell’Archivio di Rio, che la notte di Carnevale ammonisce Orfeo a non cercare la sua Euridice viva tra i faldoni delle carte da lui custodite, che appartengono ai morti. Utili per la storia militare e politica delle insorgenze e delle repressioni, i documenti archivistici risultano meno preziosi per una antropologia del brigantaggio che cerca la vita degli uomini in quella dei soldati. Fuori della metafora, sicuramente nelle carte archiviate c’è molto poco della vita interiore dei briganti, e poco altro ne sapremmo, se – impresa non facile – si riuscisse a mettere insieme e ordinare i diversi fascicoli e faldoni disseminati o dispersi nei vari archivi. La lacuna assoluta concerne infatti la personalità degli imputati. Come se i (presunti) colpevoli non avessero diritto ad essere conosciuti o compresi, oltre che combattuti. Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito, Guida di P. Crociani, cit., Busta 14, Calabria 1861, Comando della Brigata Pisa, p. 397; G. Buratti, Carlo Antonio Gastaldi. Un operaio biellese brigante dei Borboni, Vibo Valentia, Jaca Book - Qualecultura, 1989, pp. 43-45. 13 35 Q uaderni Le fonti giornalistiche In genere i giornali nazionali e locali sono considerati non molto affidabili come fonti del brigantaggio. Un atteggiamento che si può condividere, se si pensa al quadro ideologico, rigorosamente patriottico e filogovernativo, in cui si collocano gli articoli, siano essi cronache o analisi o racconti paraletterari, quasi tutti costruiti sulla base di informazioni attinte dalla questura o dai municipi. Si ripete ancora oggi che i giornali di Torino e Firenze avevano avuto uno sviluppo maggiore di quelli di Napoli, come “ll popolo d’Italia”, “Il Pungolo”, “L’Omnibus”, “Il Giornale di Napoli”, espressione di un “esasperato provincialismo culturale”, e per questo erano più diffusi. Indipendentemente da questi tipi di valutazione, i difetti dei giornali meridionali non erano diversi, per quello che interessa la storia del brigantaggio, da quelli settentrionali, come ha spiegato già in quegli anni un giornalista bene informato: “Delle relazioni militari e di polizia che giungono al nostro comando generale, solo centro da cui traggono queste notizie, una parte rimane infatti naturalmente segreta, come materia dell’alta polizia militare; e da un’altra parte vanno ad attingere quello che credono, il che è sempre una scarsissima parte del vero, i giornali, compreso il Giornale di Napoli. Quindi a questo comando, di fatti briganteschi o di scontri militari delle provincie, giungono ogni dì da sessanta a cento relazioni, delle quali i giornali non possono o non vogliono naturalmente pubblicare più di quelle quattro o sei o dieci, che così sole si diffondono poi per la stampa”. Nonostante questi fondatissimi rilievi, gli scritti giornalistici possono essere utilizzati per i nostri scopi, per non poche ragioni. 36 Oltre a prendere notizie sul brigantaggio dai rapporti delle forze dell’ordine, non pochi giornali ricevevano corrispondenza dalle aree in cui imperversava la guerriglia, da parte di semplici cittadini o da cronisti che dei briganti e delle azioni brigantesche riferivano quello che si diceva – vero, falso o alterato che fosse – nei paesi. Perciò essi erano – soprattutto quelli delle province meridionali – almeno in parte il racconto popolare del brigantaggio e delle narrazioni popolari sembrano in parte conservare lo spirito, le idee, gli umori e le emozioni, affidati a cronache, resoconti, lettere anonime e firmate, accuse, proteste, raccomandazioni, insinuazioni, pettegolezzi. Tutto questo materiale veniva ovviamente rielaborato secondo le esigenze politiche e letterarie del direttore del giornale. Inoltre in una situazione, in cui la guerriglia si frantumava in una miriade di conflitti locali (regionali, paesani) ad opera di bande largamente o completamente autonome, fortemente legate al loro territorio, i giornali locali si avvantaggiavano spesso su quelli nazionali per una più articolata conoscenza dei fatti e personaggi locali, che nasceva dal fatto che tutti conoscevano tutti, con la possibilità di attingere informazioni da fonti diverse da quelle ufficiali. Infine, frequentemente la lontananza dal potere centrale favoriva l’autonomia di intellettuali periferici che nei giornali locali o regionali trovavano la possibilità di manifestare con maggiore libertà la critica e il dissenso, pur all’interno della solita impostazione patriottica, fornendo narrazioni del brigantaggio più ricche di dettagli, che potevano rispecchiare una molteplicità di punti di vista e ideologicamente diverse dal conformismo imperante nei quotidiani e periodici nazionali. Alcuni di questi giornali hanno rappresentato esperienze di ottimo li- antropologia e storia vello. Il “Bruzio” di Padula, ad esempio, che si pubblicava a Cosenza, era per molti aspetti più interessante del suo probabile modello, “L’indipendente” di Alessandro Dumas, che si pubblicava a Napoli ed era diffuso soprattutto nel Mezzogiorno14. Le rappresentazioni letterarie colte, artistiche, fotografiche Ad una dilatazione della coscienza storiografica avrebbero potuto giovare gli scritti in prosa e in versi dello stesso periodo, restituendo alle rappresentazioni del brigantaggio una parte ignorata della sua complessità insieme al calore dell’esistenza. Invece la letteratura italiana, che nel precedente periodo romantico si era innamorata di briganti immaginari, cessò drasticamente di interessarsi ad essi nel decennio postunitario, quando sulla scena della storia irruppero i briganti reali in guerra con l’esercito italiano. Risultano comunque interessanti per uno studio antropologico sul brigantaggio opere letterarie di altra ispirazione, che testimoniano la crisi morale e religiosa che accompagnò il trauma della perdita del Regno. Questa letteratura ci restituisce il fondo morale, il conflitto di culture in cui prese forma il disagio prodotto dalla delusione postunitaria: lo / 2 – comicità e politica scontro tra la cultura laica dei conquistatori e quella religiosa dei vinti si trova affidato a prose e versi di piccoli intellettuali periferici, come il canonico calabrese Antonino Martino, diventato all’indomani dell’unificazione filoborbonico dopo un passato di carbonaro, perché scandalizzato e irritato dei metodi coloniali dei “piemontesi”: sentimenti e risentimenti che dovettero trovare un’ampia condivisione non solo negli ambienti clericali e legittimisti. Il retroterra umano e psicologico di un borbonismo vissuto dal punto di vista delle masse piuttosto che da quello dei legittimisti reazionari si ritrova soprattutto nei poemetti di Ferdinando Russo ‘O luciano d’‘o Rre e ‘O surdate ‘e Gaeta, che Pasolini disse “grondanti di colori e di miseria, dell’epica plebea di questo Stato meridionale primitivo e decrepito, incallito nella saggezza almeno quanto ardente nell’innocenza”15. Una ricerca che si propone di restituire ai contadini della guerriglia postunitaria e alle donne delle bande la complessità dell’esistenza e il senso della loro esperienza non potrebbe non prendere in considerazione le visioni della pittura ottocentesca, che, se pure condizionate da schemi di maniera, influenzati dal gusto neoclassico e dalla sensibilità tardoromantica, e a volte da finalità commerciali, ci hanno consegnato una memoria degli uomini alla macchia e delle loro compagne Le informazioni sopra riportate si leggono in una corrispondenza napoletana alla “Perseveranza” di Milano, riprodotta da F. Molfese in Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 250. Le pagine sul brigantaggio di Vincenzo Padula, prete antropologo e scrittore calabrese, uscirono sul “Bruzio”, giornale cosentino degli anni 1864-1865, quasi interamente scritto dallo stesso autore. Sono state raccolte in volume con titolo Cronache del brigantaggio in Calabria (1864-1865) a cura di Domenico Scafoglio (Napoli, Athena, 1974). 15 Questa letteratura non è stata ancora adeguatamente indagata. Lo meriterebbero testi come quello di Giuseppe Buttà, Edoardo e Rosolina, Brindisi, Edizioni Trabant, 2011 (or. 1880). Su autori filoborbonici, come Antonino Martino, già prete carbonaro, e Ferdinando Russo si possono leggere le annotazioni di D. Scafoglio in L’ identità minacciata.La poesia dialettale e la crisi postunitaria, Firenze, D’Anna, 1977. Di P.P. Pasolini ved. La poesia dialettale del Novecento, in Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1973 (ed. or. 1952), pp. 29-30. 14 37 Q uaderni diversa da quella solitamente associata al ribellismo astorico e alla devianza comune. Al di là di ogni altro tipo di valutazione, non si può non riconoscere a queste opere il merito di avere oggettivamente svolto, in maniera vicaria, una funzione di supplenza documentale, che ereditava e insieme ribaltava in senso negativo gli elementi figurativi e ideologici che romanticamente avevano strutturato l’immagine del brigantaggio “endemico” del periodo preunitario. In particolare le rappresentazioni delle brigantesse, che si articolano nel doppio registro dell’angelizzazione e della demonizzazione, hanno tenuto vivo l’interesse per la componente femminile delle bande, ignorata dagli storici, ma, alla fine, costituiscono poco più che una rivelazione dei sogni, dei desideri e delle paure che il mito delle donne del Sud in guerra ha sollecitato nell’immaginario collettivo degli italiani. I nostri interessi più forti sono andati ovviamente al di là di queste rappresentazioni, pur nella convinzione che questa “domanda di mito” fa comunque parte della storia e come un fatto storico va assunta col sussidio degli strumenti delle scienze sociali16. Tra le fonti iconografiche le fotografie rivestono un’importanza particolare, non solo perché restituiscono i veri volti dei briganti e delle brigantesse, ma anche per l’uso sociale e politico che di esse è stato fatto. Le fotografie di briganti – uomini e donne – consentirono allo Stato Maggiore dell’esercito italiano di accreditarsi come strumento provvidenziale di restaurazione dell’ordine minacciato dalla guerriglia antiunitaria, di documentare la sconfitta del brigantaggio nei suoi effetti politici di rassicurazione sociale e di fare accettare la durezza della repressione, presentando i nemici come selvaggi e criminali. I fotografi al servizio dei militari, quali che fossero le loro intenzioni e la loro poetica, secondarono solo in parte le aspettative della committenza e la loro accondiscendenza alle direttive impartite, perché quelle foto, concepite come una macabra autocelebrazione del potere, ed esibite trionfalmente in mostre volute dal governo e dalle autorità militari, grazie all’ambivalenza costitutiva propria dei costrutti simbolici, testimoniavano al tempo stesso l’orrore della repressione e la tracotanza odiosa dei vincitori. Sono una scellerata pornografia della guerra civile e della morte, che arriva a mostrare corpi uccisi, massacrati, denudati, ai piedi dei loro uccisori, come fiere abbattute da cacciatori vittoriosi. Alle donne invece, rivestite alla meglio da brigantesse e riarmate di armi ovviamente scariche, si fa recitare davanti alla macchina fotografica la pantomina della loro avventura, facendo dimenticare che sono combattenti sconfitte e in prigione, in attesa di essere giudicate e condannate. Finita la messa in scena, la vera esistenza delle brigantesse diventa una sopravvivenza puramente cartacea, affidata alla ritrattistica manipolata o alla prosa genericamente impersonale e formulaica dei documenti di archivio17. Le rappresentazioni psichiatriche Fino a che punto i testi di psichiatri che si sono occupati del brigantaggio possono es- Per la pittura si rinvia al Catalogo della Mostra (Per forza o per amore, cit.). Anche per la fotografia ved. immagini e commenti al Catalogo della Mostra. 16 17 38 antropologia e storia sere usati come fonti? Il brigantaggio, come è noto, diventò uno dei campi privilegiati dell’osservazione dei fenomeni di devianza all’interno della psichiatria criminale di Cesare Lombroso e dei suoi seguaci ed epigoni. La prima generazione di lombrosiani ed il loro caposcuola hanno avuto almeno il vantaggio sulla psichiatria successiva di conoscere direttamente alcuni briganti, di cui frequentemente raccolsero testimonianze autobiografiche e studiarono la fisiognomica e la psicologia18, e le loro analisi, affidate a una saggistica che assume frequentemente le caratteristiche della prosa narrativa, nonostante lo specchio deformante delle loro teorie, conservano, a volte, la pregnanza e freschezza delle cose personalmente esperite. Le ambiguità di questi scritti accostano la psicoantropologia dei lombrosiani alla letteratura, di cui non a caso essa mutua forme e tecniche: biografie, autobiografie, interviste, narrazioni ecc. Anche per essa valgono perciò le considerazioni che possiamo fare sui prodotti letterari utilizzati come fonti scientifiche19. Ed è anche questo gusto letterario della narrazione, con la relativa libertà che questi tipi di scrittura consentono, che alimenta nelle migliori di queste pagine l’interesse per le persone della guerriglia e per il loro mondo interiore. Non infrequentemente, l’indagine, affinata a volte dall’uso di strumenti comparativi, riesce a produrre ritratti etnici più approfonditi della demologia del tempo, rimasta ferma a un descrittivismo povero di / 2 – comicità e politica spessore teorico e psicologico: si prenda ad esempio lo splendido racconto della morte del brigante Coppa, raccolto dall’antropologo Cascella dalla bocca del comandante Crocco. Tuttavia molte potenziali scoperte e innovazioni di questa antropopsichiatria ci appaiono oggi compromesse dalla convinzione che il brigantaggio fosse un fenomeno di devianza e dall’idea, fondata sull’osservazione dei corpi e in particolare della forma del cranio, che briganti si nasce, in virtù di una predisposizione naturale o di una eredità genetica, che poi si sviluppa per l’influenza del contesto sociale e familiare degenerato. La stessa cifra interpretativa i lombrosiani adoperarono per le donne militanti nelle bande, con un’aggiunta peggiorativa: le brigantesse non solo sarebbero geneticamente delinquenti, ma supererebbero gli uomini in ferocia, come tutte le altre donne che delinquono. In realtà, prima di saltare il fosso le brigantesse nella maggioranza dei casi avevano una esistenza non molto diversa dalle altre contadine povere e marginali dei loro paesi, e quelle sopravvissute ai lavori forzati condussero per il resto dei loro giorni una sana vita familiare tra la loro gente. I lombrosiani sbagliavano anche nel rilevare un surplus di violenza nelle donne – tema molto presente nella giovane psichiatria criminale, perché confondevano le brigantesse, che militavano in gruppi organizzati e disciplinati, con le donne che prendevano parte ai moti popolari spontanei e privi di regole20. Le idee degli antropologi lombrosiani sul brigantaggio si trovano sparse nei loro numerosi scritti sulla devianza, che è superfluo qui ricordare. Ved. pure qui la nota 20. 19 Sull’uso della letteratura come fonte ved. gli scritti di D. Scafoglio, in particolare Passé, présent et futur de l’anthropologie littéraire en Italie, in “Ethnologie francaise”, 2014/4, “Ethnologie(s) du littéraire”, pp. 699-707. 20 Per la rappresentazione della donna deviante (alla quale veniva disinvoltamente assimilata la brigantessa nelle pagine dei lombrosiani) è utile leggere soprattutto C. Lombroso - G. Ferrero, La donna delinquente, Bocca, Torino, 18 39 Q uaderni Nonostante questi limiti, gli psichiatri cercarono di dipanare il mistero della violenza femminile, scavando nel punto in cui l’efferatezza si salda col desiderio, spiegando, per esempio, che “la trista celebrità di briganti, ed il romanzesco di quella vita nomade, piena di avventure e di pericoli, esercitavano sulle donne una grande attrattiva, specie su quelle di costituzione degenere, o moralmente depravate, che nelle emozioni della vita brigantesca trovavano l’esistenza adatta al loro temperamento”21. Ma il problema era un altro, e i soldati, che di briganti e brigantesse avevano una conoscenza diretta, lo spiegavano dando prova di una diversa sensibilità antropologica: “Il brigantaggio per tradizione antica è considerato dalla plebe non tanto un’infamia, quanto una speculazione, un mestiere di uomo forte e coraggioso; così, quando questo ritorna al casolare, egli non è solo temuto, ma rispettato, e le più belle ragazze vanno orgogliose di avere un amante, le donne un marito che abbia fatto il brigante”22. La psichiatria di stampo lombrosiano esercitò una notevole influenza anche sugli studi giuridici e storici di fine secolo fino ai 21 22 23 24 25 40 primi decenni del ’900. Ad essa non si sottrasse il napoletano Quirino Bianchi, che nel 1903 dedicò un saggio a Ninco Nanco, con qualche attenzione alle donne delle bande23. Il punto di vista dei criminologi, con i suoi errori e pregiudizi, costituisce anche il quadro interpretativo del lavoro di Jacopo Gelli, colonnello del Regio Esercito italiano24 In ogni caso il contributo di questi studiosi alla conoscenza dei briganti diminuisce soprattutto quando utilizzano informazioni indirette, che si contaminano negli osservatori minori con una tendenza narrativa non sempre felice che, come accade al campano Cascella, sacrifica al racconto le ragioni dell’interpretazione. Gaetano Salvemini ha fatto giustizia sommaria di questa antropopsichiatria: “Degli sciocconi, camuffati da antropologi, vanno nel Sud, misurano un centinaio di nasi, contano le rughe dei polpastrelli, delle dita destre, studiano le forme dei coccigi e ne ricavano la inferiorità della razza meridionale di fronte alla settentrionale”25. In effetti, anche se le considerazioni che abbiamo fatto possono legittimare in qualche modo l’uso di questi testi come fonte per lo 1915 (1 ed. 1892); C. Lombroso, L’uomo delinquente, Milano, Hoepli, 1876; Id., Il brigantaggio, Aversa, s.n.t., s.d.; S. Sighele, La coppia criminale, Torino, 1893.; Id., Il mondo criminale italiano meridionale, Milano, 1893; P. Mantegazza, Fisiologia della donna, Milano, 1893; A. Niceforo, L’Italia barbara contemporanea, Milano, 1898. Sulla tesi dell’inferiorità della donna ved. spec. G. Sergi, Basi della classificazione umana, in “Atti della Società Romana di Antropologia”, I, 1893, pp. 167-82, ora riprodotte in S. Puccini, L’uomo e gli uomini. Scritti di antropologi italiani dell’Ottocento, Roma, CISU, 1991, pp. 323-28. Sul tema ved. S. Puccini, Antropologia positivista e femminismo. Teorie scientifiche e luoghi comuni nella cultura italiana italiana fra ‘800 e ‘900, in “Itinerari”, n. 3, 1980, pp. 217-44; n. 1-2, 1981, pp. 187-238. F. Cascella, Il brigantaggio. Ricerche sociologiche ed antropologiche, Aversa, Noviello, 1907. Anonimo (ma: C. Melegari), Briganti, arrendetevi!, Prefazione di F. Mirizzi, Venosa, Osanna Venosa, 1996 (ed. or. 1897), p. 116. Q. Bianchi, Vita di Ninco Nanco, Manduria, Lacaita, 2001, pp. 150-53 (ed. or. Il brigante Ninco Nanco dal punto di vista storico ed antropologico, Napoli, Tip. Gaz. Diritto e Giurispr. trib., 1903). J. Gelli, Banditi, briganti e brigantesse dell’Ottocento, Firenze, Bemporad, 1931. Rerum Scriptor (Gaetano Salvemini), La questione meridionale, Milano 1900, p. 16. antropologia e storia studio del brigantaggio, essi mostrano come la rappresentazione che il mondo scientifico dava del fenomeno fosse condizionata e influenzata da un conformismo etico-politico, oltre che dai quadri concettuali psichiatrici implicitamente razzisti, che sono perdurati, mutatis mutandis, fin quasi ai nostri giorni. Il loro razzismo apparentemente è il prodotto di convinzioni scientifiche, e si presenta come legittimato da una visione etico-politica di segno progressista e socialista, ma, a ben vedere, il razzismo “scientifico” era anche l’effetto di una lontananza emotiva e culturale, se non addirittura di un disprezzo viscerale per forme di vita e linguaggi radicalmente diversi. È su questa ambiguità che bisogna lavorare, perché è essa che ci dice molto non tanto sui briganti, quanto sugli occhi che li hanno osservati. L’anello di Memnone. Le narrazioni dei militari Il feticismo del documento di archivio, che domina tuttora nelle ricerche sul brigantaggio, ha impedito di prendere in considerazione altre fonti documentarie o di conferire ad esse la giusta importanza. Dopo averne vagliato attentamente e criticamente l’attendibilità, questi documenti possono risultare di grande utilità, se si pongono ad essi le domande giuste. I militari in veste di storici possono risultare carenti da un punto di vista ideologico e metodologico, ma sugli storici di ieri e di oggi si avvantaggiano del fatto che le loro scritture sono il frutto di una conoscenza diretta dei briganti, che essi hanno esperito sul campo, per averli cercati, contrastati, interrogati e combattuti, mentre gli storici / 2 – comicità e politica li hanno conosciuti solo sulle carte. Anche per questo essi possono dirci molte cose, per esempio, sui comportamenti concreti e sui pensieri dei militari nei confronti della popolazione, la considerazione che essi avevano dei guerriglieri, il loro shock prodotto dalla scoperta della diversità meridionale, alcuni aspetti poco noti delle pratiche repressive e di quello che i soldati pensavano di esse, le tecniche, le strategie e gli usi di guerra delle bande. Si tratta di memorie di ufficiali e soldati che raccontano le loro esperienze di guerra, frequentemente romanzandole. In primo piano c’è sempre la soggettività del memorialista, con la sua storia emotiva, il suo protagonismo e frequentemente il narcisismo di chi pensa di essere dentro vicende memorabili. Anche se non sono frequenti le invenzioni e le esagerazioni, le persone e i fatti che essi raccontano sono reali, e vengono rappresentati attraverso le tecniche della letteratura, più precisamente, della narrativa, come dialoghi (costruiti o ricostruiti, se non inventati), intrecci sofisticati, sequenze politiche e ideologiche. Si sente il bisogno di condividere col lettore emozioni, non solo patriottiche, comunicando le impressioni di straordinarietà vissuti nell’avventura della guerra insieme alla meraviglia stimolata dalla scoperta dei costumi di un popolo “altro”. Il numero di queste testimonianze autobiografiche del brigantaggio ha una relativa consistenza. Le informazioni che possiamo ricavarne sono di valore disuguale, imprecise se non erronee a volte, altre volte attendibili e preziose, specie quando sono frutto di conoscenze dirette. Il metodo, che consente di farne un buon uso, deve tenere conto della difficoltà di distinguere tra fatti realmente accaduti e manipolazioni, tra il vissuto reale 41 Q uaderni dell’autore e la costruzione della propria immagine attraverso esperienze di comando e di lotta, tra le motivazioni autentiche delle sue scelte, inespresse, nascoste o camuffate, e la razionalizzazione più o meno ideologica che ne dà. Di questi militari amanti della scrittura, quelli che appartenevano all’alta ufficialità erano molto interessati alla politica e alla strategia militare, mentre gli ufficiali subalterni e i soldati semplici erano più attenti ai lati umani e agli aspetti insoliti della guerra, come la presenza delle brigantesse: ufficiali e soldati sono stati nei loro territori, le hanno combattute, le hanno conosciute direttamente e/o ne hanno sentito parlare dalla gente, dai prigionieri e da altri soldati, tra i quali le donne col fucile, come tutti i fatti inconsueti, erano già diventate leggenda. Leggenda che in parte ci hanno conservato, ma che hanno anche contribuito a creare, perché, pur essendo militari, si comportavano da scrittori, a volte dotati – come l’ufficiale De Witt – di un sorprendente gusto affabulatorio. Alcuni rappresentanti dell’alta ufficialità, come, secondo alcuni, Govoni a Gaeta e Brunetta d’Esseaux in Calabria, mostrano una comprensione, a volte profonda, per il comportamento dei briganti e della gente del Meridione; ma alla stragrande maggioranza dei militari “il cafone appare come un uomo appartenente ad un altro mondo, ad un’altra realtà, che non si cerca neppure di esplorare, di conoscere. È un estraneo, parte integrante di una natura e di un territorio ostili. Rappresenta una presenza, si potrebbe dire collettiva, non individuata: non sembra esistere il singolo. In queste carte, soltanto se è chiamato alle armi o se diventa brigante il cafone acquista una sua fisionomia individuale, una sua identità. In tutti gli altri casi i cafoni costituiscono, nel loro insieme, un mondo a parte, che alimenta il brigantaggio. Il cafone è quindi, almeno potenzialmente, un nemico”26. Più complesso l’atteggiamento dei militari nei confronti delle brigantesse: è ambivalente, oscilla tra l’ammirazione per fatti e personaggi di cui non si poteva non cogliere l’eccezionalità, e la palese disapprovazione di un fenomeno che rovesciava radicalmente il modello femminile dominante nella cultura del tempo. Tra i testi più interessanti si colloca quello di Giuseppe Bourelly27, un ufficiale dei Carabinieri Reali, che dal 1862 al 1865 combattè i briganti, imparando a conoscerli e raccontandone le vicende in un’ottica decisamente patriottica, e tuttavia largamente rispettosa della verità. Bourelly è l’incarnazione sincera del patriota venuto a combattere nel Sud una guerra di civiltà: la sua ammirazione concerne le capacità prevalentemente militari dei meridionali, sulla cui arte del guerreggiare ci ha lasciato notizie e riflessioni importanti, ma non certamente la loro cultura: scende nel Meridione con l’opera del protoantropologo i J.F. Lafitau in testa (Moeurs des sauvages amériquains comparées aux moeurs des premiers temps) (1724), convinto di avere a che fare con una specie di Irochesi e Uroni, e, persuaso com’è che “la bigotteria, la superstizione, i pregiudizi, le vendette sono le brutte e male qualità morali” del popolo meridionale, non P. Crociani, Guida, cit., p. 13. G. Bourelly, Il brigantaggio dal 1860 al 1864, Venosa, Osanna Venosa, 2004 (ed. or. 1865). 26 27 42 antropologia e storia gli rimane che concludere, con divertita cattiveria: “Cercherò di scrivere questo paragrafo, come operò Ismania ambasciatore di Tebe presso Artaserse Memnone re di Persia, il quale lasciò cadere a terra l’anello, per cui fece vedere di inchinarsi piuttosto per raccoglierlo che prosternarsi per adorare il gran re, mostrando così il dovuto rispetto alle usanze del paese ed alla dignità dell’uomo”28. Proprio così: ostentazione di rispetto formale, ma non intimo riconoscimento né stima, nello spirito di Lafitau, che praticava il distanziamento dal materiale etnografico come condizione prima dell’analisi scientifica. Tuttavia delle brigantesse diede un giudizio in cui la condanna morale si associava a un disorientato stupore e all’apprezzamento del loro coraggio, e, nonostante l’impianto politico rigorosamente e onestamente filounitario, antiborbonico, anticlericale e antisanfedista, l’opera di Bourelly è quanto di meglio sia stato scritto sul brigantaggio nel suo periodo. Il suo metodo, che indagava il contesto geografico, storico, economico, miliare, sociale e culturale era una proposta troppo coraggiosa per i suoi tempi, nei confronti della quale il mancato riconoscimento delle tradizioni storiografiche, ancora perdurante (distrazione?), non può non suscitare stupore. Notizie non sempre inutili ritroviamo in altri resoconti in chiave più scopertamente autobiografica, limitate ai territori nei quali i loro autori operarono, ed utili perciò per una storia regionale del brigantaggio. A non pochi di essi si può riconoscere un / 2 – comicità e politica certo rigore, come quello del maggiore dei bersaglieri Carlo Melegari, che nel 1861 per alcuni mesi si distinse per il suo patriottico zelo nella guerra contro il brigantaggio (10), andando a massacrare spietatamente gli insorti di Casadduni e a distruggere il loro paese29. Altri si cimentarono in un genere esemplato dall’opera dall’ufficiale Angiolo De Witt, che pretese di scrivere la Storia politico-militare del brigantaggio nelle provincie meridionali d’Italia30, mescolando pubblico e privato, con buone informazioni e spesso con intuizioni di qualità, ammettendo alla fine di aver scritto un “romanzo”, che – precisa – “in gran parte si basa su avvenimenti verificatisi me presente, me cronista fedele”. È difficile perciò dire quanto, per esempio, della storia di Filomena, possente capobanda, amante di Caruso, alla quale sono dedicate parecchie pagine dell’opera, appartenga alla cronaca veritiera e quanto all’invenzione romanzesca. Il male, che questi militari, fedeli esecutori degli ordini dei superiori, arrecarono alle popolazioni su cui si abbatté la repressione, generava frequentemente forme di ripensamento critico, che tuttavia nei casi migliori non andava oltre la compassione e la disapprovazione morale degli eccessi della lotta alla guerriglia. Raccontò le sue vicende di giovane garibaldino, anch’egli con la consapevolezza di aver vissuto un’avventura straordinaria, degna di restare nel ricordo dei posteri, Gaetano Ferrari, lodigiano. I suoi ricordi, rimasti inediti, sono stati da G. Bourelly, op. cit., p. 28-29. Anonimo, cit. 30 A. De Witt, Storia politico-militare del brigantaggio nelle provincie meridionali d’Italia, Firenze, Coppini, 1884. 28 29 43 Q uaderni poco pubblicati col titolo Memorie di guerra e di brigantaggio31. Soggiornò in Calabria, a Corigliano e a Bocchigliero, per combattere le ultime bande della Sila. Fa il suo dovere di ufficiale, senza ombra di ripensamenti, ma manifesta disappunto e orrore per le efferatezze dei militari, che non esita a descrivere, denunciare e disapprovare, e sincera pietà per le condizioni della popolazione vittima delle rappresaglie, pur in una incomprensione di fondo per la superstizione e il fanatismo dei calabresi. Meno interessanti, dal nostro punto di vista, risultano gli scritti dei militari delle generazioni successive, che di fatto svolgono il lavoro degli storici, avvantaggiati dalla loro familiarità con la materia e con la documentazione in possesso dell’esercito (per lunghi decenni rimasta per i non militari di difficile consultazione), non sempre però da essi sottoposta al vaglio critico. Qualche storia di brigantesse, rapidamente disegnata, si trova negli studi del colonnello Cesare Cesari: ma non corrisponde al vero, per esempio, la notizia (inventata per attutire lo scandalo delle donne combattenti, negando la loro identità e identificandole con le malefemmine) secondo cui prima della fine del 1863 non sono esistite brigantesse, ma soltanto ma- nutengole; le prime avrebbero fatto la loro apparizione successivamente, “nel momento in cui cominciava a scemare la reazione politica e subentrava un’epoca di vero e proprio malandrinaggio”. Anche questo autore si distingue per la sua ambivalenza: a volte riferisce, non senza una punta di irritazione, che “ogni capo banda aveva generalmente con sé la moglie o una amante, quasi sempre arditissima, e nella immaginazione popolare diveniva un’eroina, anche quando le sue gesta non erano molto diverse da quelle di ogni volgare malfattrice”, e a volte si lascia catturare quasi suo malgrado da quelli che chiama i frequenti “romanzi d’amore e di morte”, scrivendo, per esempio, di Maria Oliverio, che i suoi delitti “l’avevano elevata fra le popolazioni della Calabria ad una fama assai superiore di quanto realmente valesse. La mala educazione ricevuta, l’esuberante vitalità fisica ed anche una grossolana ma indiscutibile bellezza di cui la natura l’aveva dotata, ne avevano fatto una creatura da romanzo, avvalorandone le gesta talvolta generose e talvolta crudeli con episodi di ardimenti selvaggi”32. Sembrano formare una categoria a sé, i militari che combatterono il brigantaggio nelle formazioni paramilitari, come guar- G. Ferrari, Memorie di guerra e di brigantaggio. Diario inedito di un garibaldino (1860-1872), Novara, Interlinea Edizioni, 2011. 32 C. Cesari, Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 1870, Roma, Ausonia, 1928, p. 152. Tra i più interessanti degli altri scritti di militari basti qui ricordare Genova Tahon di Revel, Da Ancona a Napoli. Miei ricordi, Milano, Dumolard, 1894 (prezioso per la conoscenza dell’esercito italiano); Alessandro Bianco di Saint Jorioz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1864, Milano, Daelli, 1864; Giuseppe Pasolini, 18151876, memorie raccolte da suo figlio, Torino, Bocca, 1886; Fisiologia del brigantaggio. Studi di un ufficiale italiano, Firenze, Ripamonti-Ottolini, 1868. Per F. Molfese “gli studi militari sul brigantaggio, sia monografici che raccolti in opere generali, sono di scarso valore, in specie se rapportati agli ingenti fondi archivistici conservati dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore” (Storia del brigantaggio dopo l’unità, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 446). Molfese si riferisce agli scritti degli ufficiali subalterni, tra i quali salva solo Bourelly e Saint Jorioz, mentre ritiene che quelli dei capi militari abbiano “maggiore interesse politico”. 31 44 antropologia e storia die nazionali e squadriglieri: il loro sguardo dall’interno rende spesso diversi i loro scritti da quelli dei militari venuti da fuori. Uno di loro fu Tommaso La Cecilia, nato a San Severo nel 1807, agrimensore, dapprima guida dei soldati e poi egli stesso comandante di squadriglie a cavallo. L’opera di La Cecilia, scritta dopo il 1867 in un italiano popolare molto agrammaticale, è pubblicata ora in una buona edizione critica da Giuseppe Clemente. La Cecilia detesta i briganti, ma il suo odio è, per così dire, orizzontale, e sembra spesso uno di loro, con in più una voglia narcisistica di protagonismo, che lo porta frequentemente a esagerare o inventare, come quando narra il suo scontro con Filomena Pennacchio e gli altri capibanda nella battaglia di Croce di Magliano33. La pubblicistica cattolica e filoborbonica Tra le fonti del brigantaggio postunitario dovrebbe essere restituito uno spazio adeguato alla pubblicistica cattolica e a quella filoborbonica, emanazione, la prima, degli ambienti cattolici critici nei confronti dell’unificazione se non palesemente antiunitari, e la seconda dei legittimisti delle province meridionali o di ambienti stranieri favorevoli ai Borboni. / 2 – comicità e politica Lo spirito di parte – peraltro legittimo – può limitare il valore documentale di queste fonti, ma non al punto di farle disprezzare come mentecatte o completamente ignorare. Anche in questo caso occorre, come suggeriva William I. Thompson, evitare che la ricerca scientifica si bendi gli occhi da sola, selezionando i fattori che considera dotati di senso e non tenendo conto degli altri, per poi sostenere che ciò che ha eliminato non è mai esistito. I giornali cattolici associano allo spirito di parte informazioni che fanno da contrappunto alla stampa patriottica, che aveva la funzione di legittimamente rafforzare l’unità nazionale, ma lo faceva anch’essa con spirito di parte e modalità censorie, e riempiono i suoi vuoti, documentando gli umori e i valori di una parte consistente e sicuramente maggioritaria della società nazionale e – sono cose che contano – del modo in cui essa guardava o viveva il brigantaggio. Purtroppo da qualche lustro è invalsa la tendenza a utilizzare queste fonti per una immediata e riduttiva strumentalizzazione politica, che ha finito per sovrapporre ad esse la lente deformante di una controstoria filosanfedista, contrastata ideologicamente dagli antirevisionisti patriottici, laici e unitari34. Anche sugli scritti filoborbonici non è stata mai fatta una riflessione approfondita e nep- T. La Cecilia, Brano dell’istoria del brigantaggio di Capitanata e di Basilicata dal 1861 al 1864, Foggia Edizioni del Rosone, 2008, pp. 139-46. 34 La stampa cattolica delle province italiane è ancora poco studiata come fonte per ricostruire il clima culturale del Paese nel periodo postunitario. Si è cominciato invece a lavorare sulla “Civiltà Cattolica” (Brigantaggio legittima difesa del Sud. Gli articoli della “Civiltà cattolica” (1860-1870), introduzione di Giovanni Turco, Napoli, Editoriale Il Giglio, 2000). La rivalutazione della rappresentazione cattolica dell’Italia delle rivoluzioni nazionali e dell’unificazione è stata strumentalizzata da Comunione e Liberazione, che ha organizzato nell’agosto del 2000, nell’ambito del “Meeting dell’amicizia tra i popoli”, la mostra Il Risorgimento italiano. Un tempo da riscrivere, che ha suscitato le reazioni altrettanto ideologiche di E. Scalfari, I. Montanelli, A. Galante Garrone, G. Cesana. 33 45 Q uaderni pure un censimento completo, specie dei quelli delle province. A parte qualche riconoscimento generico, si attende ancora una valutazione e un uso sereno della utilità dei testi noti. Uno dei più interessanti di essi è quello di Giacinto De Sivo, che Molfese, poco tenero con il legittimismo borbonico, definisce “tendenzioso, anzi fazioso, però preciso e documentato nella indicazione dei fatti di brigantaggio, il che fa pensare che i borbonici in esilio (in particolare la corte di Roma) avessero buoni canali d’informazione dalle province meridionali”. Analogo riconoscimento Molfese riserva alla due opere di Oscar De Poli (“interessanti, se non altro per le minuziose documentazioni dei fatti del brigantaggio”35. La memoria dei sequestrati È stato sottovalutato, ai fini della conoscenza del brigantaggio maschile e femminile, il contributo fornito dagli scritti di alcuni sequestrati che raccontarono la loro permanenza, di norma durata parecchi mesi, tra i briganti, in attesa del riscatto. Erano per lo più persone istruite, e alcuni di loro avevano anche ambizioni scrittorie e cercarono di dare una forma letteraria alle loro narrazioni; tutti però coltivavano più o meno segretamente il desiderio di far conoscere la loro storia consegnandola alle stampe, anche se poi pochi lo fecero. Alcune di queste memorie sono state rese note in tempi recenti. Costretti a seguire i sequestratori nelle loro continue fughe, da un nascondiglio all’altro, incessantemente braccati dalle forze dell’ordine, tra stenti e patimenti di ogni genere, i sequestrati ebbero la possibilità di osservare dall’interno ed esperire la vita dei briganti, lasciando una messe di dati utilissima per una etnografia storica del brigantaggio. È da essi che abbiamo notizia di alcune brigantesse e dei loro comportamenti all’interno delle comitive: si tratta di dati a volte significativamente contraddittori, perché influenzati dal diverso stato d’animo dei sequestrati e dal diverso rapporto con i loro sequestratori, ma soprattutto dalle coordinate culturali che orientavano la loro percezione dei fatti: così, per l’inglese Moens, rapito dalla banda Manzo nel maggio 1865, ogni brigantessa era considerata “proprietà del suo uomo”36, mentre per lo svizzero Lichtensteiger, che fu sequestrato dalla stessa banda nel successivo ottobre, le brigantesse “sono membri autonomi della banda, come gli uomini, e non di rado mostrano più coraggio e tenacia di questi”37. La circostanza in cui si può meglio verificare il peso delle singole soggettività nella narrazione degli stessi fatti si ha quando due diversi memorialisti si trovano sequestrati dalla stessa banda nello stesso periodo, e realizzano simultaneamente, ognuno per conto proprio, questa singolare ricerca sul terreno. Friedli, un altro sequestrato dello stesso gruppo, è forse la più preziosa, anche se non Ved. Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861 (Trieste, 1861) di Giacinto De Sivo; Oscar De Poli, Voyage au Royaume de Naples en 1862 (Paris, Dupray, 1863) e De Naples à Palerme (Paris, Dupray, 1865). I giudizi di F. Molfese sono nell’op. cit., p. 444. 36 W. Moens, Briganti e viaggiatori inglesi, a cura di M. Merlini, tr. it., Milano, TEA, 1997 (or. 1866), p. 94. 37 J.J. Lichtensteiger, Quattro mesi fra i briganti, a cura di U. Di Pace, tr. it., Cava de’ Tirreni, Avagliano, 1984 (or. 1894), p. 41. 35 46 antropologia e storia la più brillante, di queste fonti38, indispensabili per chi cerca una porta d’accesso alla vita quotidiana dei briganti delle bande piccole e medie, osservando gli effetti di una vicinanza non breve e coatta, che mette alla prova sequestrati e sequestratori, vittime e carnefici, modificando in qualche modo gli uni e gli altri, con la scoperta a volte reciproca della propria umanità, con esiti a volte imprevisti da sindrome di Stoccolma. Sono le occasioni che rendono possibile la conoscenza diretta dell’organizzazione dei rapporti tra capi e gregari, la loro cultura e la gestione del tempo libero, l’importanza del gioco, il rapporto col denaro, il legame con la famiglia e il paese, le forze coesive e le spinte disgregatrici, i rapporti tra briganti e pastori, la convivenza con le compagne. Il 1° settembre 1860 un possidente cilentano, Giuseppe Di Marco, fu sequestrato insieme al nipote Francesco Di Biase dalla banda Parra. Quest’ultimo raccontò la sua disavventura in un manoscritto rimasto fino ai nostri giorni inedito39. Scritto nell’italiano letterario delle persone istruite di provincia, il diario, oltre a restituire la freschezza delle esperienze dolorosamente vissute, ci fa dono di non poche informazioni utili sulla vita dei briganti. Si colloca con una sua singolarità in questa categoria di fonti Briganti alla / 2 – comicità e politica Caccia, documentatissima ricostruzione su fonti inedite del sequestro di nove possidenti acresi del 1863, ad opera del discendente di uno dei sequestrati, Vincenzo Feraudo40. A diverse strategie comunicative si ispirano le deposizioni dei briganti incarcerati. Sono confessioni rigorosamente guidate dalle domande dei militari e dei giudici e risultano, perciò, assai meno libere delle memorie personali sopra descritte, anche perché orientate da strategie difensive e dal bisogno di compiacere i giudici per avere sconti di pena. A volte, tuttavia, le dichiarazioni sono influenzate dai sentimenti e risentimenti del momento, dalla paura o dalla vendetta, dall’amicizia o dalle pressioni delle famiglie e delle parti in lotta. I briganti si raccontano Accrescono il numero delle pagine pressoché non utilizzate, se non come fonte di notizie, le autobiografie in cui i briganti narrano liberamente di se stessi, senza che qualcuno li obblighi a farlo e senza controlli o censure. Queste narrazioni, oltre a rappresentare la guerriglia dal punto di vista dei protagonisti, ci consegnano altri aspetti inediti della vita brigantesca. Isacco Friedli, Vier Monate under den Briganten in Suditalien, pubblicato nel 1866 (tr. it. Quattro mesi tra i briganti del Sud Italia, in A. Caiazza - E. Locatelli, La banda Manzo tra i briganti campani e lucani nel periodo postunitario, Napoli, Tempi Moderni, 1984, pp. 107-196. Meno interessante il resoconto di un sequestrato italiano della stessa banda, Ricordi briganteschi di Giuseppe Olivieri, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 1994. 39 Il diario è ora pubblicato in D. Chieffallo, Cilento. Contadini galantuomini briganti, Sarno, Edizioni dell’Ippogrifo, 2002, pp. 180-2001. 40 Vi sono utilizzati per la prima volta: una Storia di famiglia, in cui il sequestro è raccontato da Antonio Feraudo, figlio del sequestrato, sulla base dei ricordi del padre; le lettere scritte in occasione del sequestro dei briganti, conservate nell’archivio di famiglia, o provenienti dalle carte del palazzo Falcone; appunti scritti dal nipote di un altro sequestrato. Lo stesso avvenimento è narrato dal sequestrato Michele Falcone in Un doloroso episodio della mia vita (s.l., 1868). È ricco di informazioni, nonostante la prosa eccessivamente letteraria. 38 47 Q uaderni A parte la grande eccezione di Carmine Crocco, che durante la lunga prigionia si scoprì memorialista e scrittore, noi possediamo poche altre biografie dei capi del brigantaggio, perché quasi tutti morirono alla macchia. Nonostante si disponga in alcuni casi dell’aiuto di fonti indirette, il più delle volte rimane un mistero l’idea che questi uomini avessero di se stessi, le ragioni profonde delle loro scelte, cosa realmente pensassero di realizzare, per cui dobbiamo accontentarci di come li hanno visti quelli che li hanno seguiti ed amati e gli altri che li hanno avversati, combattuti o uccisi. L’importanza di queste autobiografie è nella possibilità che esse aiutino a fornire qualche risposta a queste domande, almeno di quelli che riescono ad entrare nel mondo dei briganti, e a comprendere e parlare il loro linguaggio. Le narrazioni autobiografiche di Carmine Donatelli Crocco rappresentano la migliore documentazione concernente l’organizzazione delle bande, a cominciare dalla struttura gerarchica e dall’intreccio di legami amicali e rapporti di potere, che a distanza ravvicinata risulta assai più complessa di quello che comunemente si crede. Costituiscono una descrizione della guerriglia dall’interno, con le categorie che appartengono in parte alla mentalità del brigante, in parte alla cultura del soldato dell’esercito borbonico. Rendono ragione di quello che già sappiamo della vita alla macchia, ma mostrano altresì aspetti poco noti e lati oscuri su cui non si è riflettuto abbastanza. Le informazioni sulla strategia e le tattiche delle bande e dei singoli luogotenenti integrano abbondantemente le preziose annotazioni di Bourelly sul modo di combattere dei briganti, sulle loro leggi di guerra, le pratiche di giustizia, i comportamenti in guerra e in pace, con una ricchezza di dettagli di quella “guerra d’astuzia” che ispirava la sapienza militare di un esercito di contadini e di ex soldati dell’esercito borbonico. A Crocco dobbiamo qualche altra notizia sulle donne del suo esercito, ma soprattutto il delicato racconto dell’arresto e dell’incontro successivo di Filomena Pennacchio col suo uomo, il capobanda Schiavone, prima della sua fucilazione, e quello, già ricordato come altrettanto struggente, della sepoltura dell’amico Coppa41. Per quanto scarsi possano essere, questi brevi ritratti restituiscono in parte alle donne e agli uomini delle bande quei tratti di umanità, che contrastano con la tendenza criminalizzante della letteratura sul brigantaggio. Dopo l’autobiografia di Crocco, le memorie di Di Gè, brigante leale, specchio fedele del codice d’onore delle bande, che rifiutò di tradire i suoi compagni in cambio di riconoscimenti e privilegi, è forse la più interessante delle autorappresentazioni della guerriglia. Nella sua visione interna al brigantaggio Di Gè mostra, in una prosa di una C. Crocco, Come divenni brigante, introduzione di T. Pedio, Manduria, Lacaita, 1964 (or. Melfi, Tipografia Grieco 1903, a cura di Eugenio Massa). Più autentico il testo di un manoscritto poco noto di Crocco trovato nel bagno penale di Portoferraio dove Crocco morì, pubblicato dallo psichiatra Francesco Cascella nella sua opera Ricerche sociologiche ed antropologiche, Aversa, Fratelli Noviello, 1907,e più recentemente ristampato come Memorie in cui si racconta del brigante Coppa e di Ninco Nanco, Introduzione di C. Conte, Lavello, Pianetalibroduemila, 2001. Per la biografia di Crocco occorre anche tenere conto del Verbale di interrogatorio reso da Carmine Donatelli Crocco nelle carceri giudiziarie di Potenza il 3 e il 4 agosto 1872, ora pubblicato nel testo curato da T. Pedio sopra ricordato. 41 48 antropologia e storia essenzialità “primitiva”, immune da pietismi e infingimenti, la capacità delle bande di vivere, nell’orrore di una guerra combattuta senza esclusione di colpi, con lealtà e pietà, tolleranza e compassione, nonostante le seduzioni maligne della violenza in libertà. Di Giuseppina Gizzi, che faceva parte della stessa comitiva, ci ha lasciato un ritratto42 notevolmente diverso non solo dall’immagine della donna che emerge da altre testimonianze, ma anche dalle poche pagine autobiografiche trascritte dallo stesso Di Biase, in cui la brigantessa racconta la sua vita al cilentano sequestrato dalla sua banda43. Il possidente e il brigante sembrano parlare di due personaggi e raccontare storie diverse, che sono invece le stesse, ma appartengono a mondi incommensurabili. Diverso anche il racconto della donna da quello del brigante, essendo preoccupata, la Gizzi, di tessere la storia della sua vita di brigantessa secondo una sottile strategia di implicita deresponsabilizzazione, mentre Di Gè nella sua prosa pacata sembra voler salvare l’onore del suo mondo, pur testimoniando con una delicatezza impagabile la sua violenza e il suo orrore. Una forte componente intellettuale rende invece diverse dalle altre memorie brigantesche, soprattutto per la tendenza ad esaltare in chiave tradizionalista e legittimista i valori della guerriglia, le Memorie di un ex Capo-Brigante, di Ludwig Richard Zimmermann44. Ignorato da Franco Molfese ma non da Benedetto Croce, l’autore era un ufficiale dell’esercito austro-ungarico, venu- / 2 – comicità e politica to come volontario ad aggregarsi alle bande dei briganti, con i quali combattè col grado di capitano e poi di maggiore dall’agosto del 1861 all’ottobre dell’anno successivo. Era perfettamente consapevole di avere fatto una scelta romantica in favore di un mondo destinato a un non inglorioso tramonto: “I montanari conducevano la battaglia della disperazione contro le grandi idee dei tempi moderni, perché non le capivano ancora, e, sotto la danza delle spade della nuova dominazione, non potevano nemmeno cominciare a capirle”. La memoria orale e il folklore Diversa importanza riveste per noi la tradizione orale sui briganti, che occorre distinguere in: a) testimonianze dei loro stessi contemporanei, raccolte e conservate in scritture dello stesso periodo o dei periodi successivi, in forma di racconti, aneddoti, proverbi, ed altri formalizzati orali; b) testimonianze della generazione a noi contemporanea su quello che rimane della memoria del brigantaggio; c) le testimonianze sulla cultura popolare e la vita sociale e religiosa dell’Italia postunitaria. Gli storici non hanno fatto alcun uso della letteratura di tradizione orale di ispirazione brigantesca, data la loro diffidenza per le opere di immaginazione, preferendo costruire della vita alla macchia una rappresentazione asettica, priva di dettagli signifi- Ved. la Vita di Michele Di Gè nato a Rionero, Melfi,Tipografia Insabato, 2011, ristampata in N. De Blasi, “Carta, calamaio e penna”. Lingua e cultura nella “Vita” del brigante Di Gè, Potenza, Il Salice, 1991, pp. 11-15. 43 Chieffallo, Cilento, cit., cit., pp. 186-88. 44 L. R. Zimmermann, Memorie di un ex Capo-Brigante, trad. di E. De Biase, Napoli, Arte Tipografica Editrice, 2007 (or. 1868). 42 49 Q uaderni cativi, che impoverisce la narrazione della guerriglia, privandola della sua forza psichica coinvolgente che si affida proprio alla letteratura. Particolarmente impoveriti risultano i momenti epici, religiosi, magici, che solo un linguaggio simbolico come la letteratura riesce a rendere nella loro pienezza e pregnanza. Sotto l’aspetto storiografico la letteratura del brigantaggio rimane perciò una fonte preziosa, ancora poco utilizzata. Man mano che ci si allontana dal primo decennio dell’unificazione, la memoria del brigantaggio subisce abrasioni e cancellazioni e la storia cede il passo al mito, fino ad esserne quasi interamente assorbita. Questi testi letterari possono perciò essere utilizzati non tanto per le loro informazioni, quanto per via della sostanza mitica che contengono e che apre spiragli importanti sul mondo spirituale delle bande. Non è detto tuttavia che le testimonianze più vicine al tempo dei briganti o ad essi contemporanee siano sempre aderenti alla realtà. I miti e le leggende si formavano quando i briganti erano ancora vivi e in azione, e le loro imprese eccitavano l’immaginario dei contemporanei, suscitando emozioni intense. Non appartiene (o non appartiene interamente) alla letteratura epica popolare del brigantaggio la cosiddetta letteratura di colportage, originariamente prodotta da persone semistruite per quei i ceti “inferiori” che partecipavano in qualche modo della scrittura e diffusa da venditori ambulanti nelle campagne, dove, tra le masse non alfabetizzate, c’era sempre qualcuno capace in qualche modo di leggerla agli altri che non sapevano di scrittura e lettura. Questa produzione, quasi sempre scritta in un italiano regional-popolare, con elementi linguistici e tematici colti, variamente con50 taminati e deformati, esercitò una influenza sull’epica di più autentiche radici popolari, che si esprimeva nel dialetto dei paesi e si diffondeva e tramandava quasi sempre oralmente. Con queste significative riserve può essere collocata tra le fonti letterarie del brigantaggio, anche perché contadini e pastori, nel momento in cui leggevano o ascoltavano questi testi “da due soldi”, li interpretavano autonomamente, traducendo i racconti nella loro cultura. In ogni caso, occorre tenere presente che il referente di questa letteratura, a parte qualche importante eccezione, non è tanto il brigantaggio postunitario, quanto quello endemico. Pur con questo limite, queste narrazioni trasmesse oralmente o per mezzo della scrittura aiutano a capire come le vicende brigantesche venissero vissute e interpretate dalla gente comune, secondo codici morali autonomi e modalità fantastiche proprie, che non coincidevano, se non in parte, con quelli dei ceti possidenti e della cultura ufficiale, mentre erano più vicine al mondo della guerriglia e del brigantaggio, senza identificarsi interamente, sempre e comunque, con esso. Le informazioni che ci forniscono su eventi e personaggi possono essere invece utilizzati solo quando trovano conferma in altri riscontri. L’importanza di questa letteratura è soprattutto nel suo configurarsi come costruzione mitica: un mito o una leggenda non è vacua fantasticheria, perché riscrive la realtà secondando l’onda delle emozioni e dei desideri suscitata dalla pressione dei valori comunitari, senza prendere in carico le domande sulla verità di vicende sempre più sospese sul fiume dell’oblio, e affidandosi soltanto al consenso collettivo. Per questo complesso di ragioni vanno tenute rigorosamente distinte da queste tradizioni antropologia e storia i documenti scritti e in modo particolare le fonti archivistiche; su queste ultime soprattutto deve fondarsi la ricostruzione dei fatti, mentre le fonti orali, insieme alle tradizioni letterarie colte e semicolte, ci possono servire prevalentemente per la ricostruzione del mondo morale della guerriglia45. Le emozioni più forti i poeti contadini o pastori vicini al mondo della guerriglia o briganti essi stessi le affidano a una produzione epica e lirica fatta di versi in dialetto solitamente accompagnati dal canto. Ma anche i canti sono tramati di una grammatica culturale che rende diverso, e non sempre comprensibile ai nostri occhi, un modo originale di vivere la realtà, sentire la passione, la gelosia, la rivalità, l’onore, la vendetta46. La (parziale) incomprensibilità nasce dalla lontananza del contesto etnografico, che non si riesce a ricostruire se non a costo di vuoti e abrasioni nelle quali si percepisce debolmente il misterioso pulsare di una vita diversa. La memoria odierna del brigantaggio sopravvive debolmente nelle campagne dell’hinterland, ad opera soprattutto di contadini e pastori che a volte avevano un rapporto di parentela con i briganti e narravano sulla base di ricordi familiari, che già mescolavano esperienze vissute, labili memorie e invenzioni. In queste narrazioni non c’è traccia dell’ideologia legittimista e filoborbonica, che ha svolto innegabilmente un / 2 – comicità e politica ruolo nella storia del brigantaggio. La retorica dei gruppuscoli autonomisti, separatisti e neoborbonici è estranea a queste tradizioni orali, e risulta comunque di origine libresca, ed elaborata da persone istruite. La simpatia della gente delle campagne e dei paesi per i briganti ha origini diverse, e il successo odierno, limitato ma in espansione, delle interpretazioni legittimiste deve essere considerato un fenomeno di induzione, che fa leva su un risentito orgoglio meridionale. La sensibilità popolare in queste narrazioni si affida invece quasi interamente al mito: briganti e brigantesse sono esseri eccezionali particolarmente generosi e valenti, secondo il modello del bandito ideale, ma anche a volte malvagi e crudeli. Questa ambiguità appare costitutiva dell’epos brigantesco originario, e riflette in parte una lacerazione del mondo popolare, tra i più che stavano dalla parte della guerriglia e gli altri che invece la avversavano. Secondo il modello popolare i briganti si immaginano partecipi del mondo magico e soprannaturale, per rendere ragione del loro carattere eccezionale, e le loro apparizioni dopo la loro morte servono a confermare implicitamente il motivo arcaico dell’eroe che non muore. Molto sviluppato risulta il motivo dei tesori nascosti dei briganti, che ha un minimo fondamento ed è addotto per spiegare gli arricchimenti improvvisi prodotti da presunti ritrovamenti fortunati e spesso si contamina Questa letteratura popolare e semipopolare del tempo del brigantaggio e dei decenni successivi è stata reperita e studiata la prima volta da D. Scafoglio, Terre e briganti. Il brigantaggio cantato dalle classi subalterne, Firenze, D’Anna, 1977; L’epos brigantesco popolare nell’Italia meridionale, Salerno, Gentile, 1994; La gloria del patibolo. Lettura antropologica della “storia” di un brigante santo, in “L’immagine riflessa”, n. 1-2 (2007), pp. 225-40. 46 Canti briganteschi di difficile reperimento sono stati rinvenuti da D. Scafoglio e pubblicati in Terre e briganti, cit.; L’identità minacciata, cit. Della letteratura di tradizione orale sulle brigantesse si possono leggere alcuni testi pubblicati in D. Scafoglio - S. De Luna, Le donne col fucile, cit., pp. 150-54. 45 51 Q uaderni ancora più fantasticamente con le leggende plutoniche. Leggende e storie si addensano su alcuni luoghi particolari (grotte, fortificazioni, porte, boschi, montagne, luoghi di morte e di sacrificio, ecc.), che diventano ancoraggi dell’immaginario collettivo, che disegna una geografia fantastica delle scene del brigantaggio. Conclusivamente, le fonti orali di cui stiamo parlando, tenute in scarsa considerazione dagli storici, sono un serbatoio di dati reali, trasfigurati secondo le modalità e le risorse dell’immaginario contadino e pastorale, che hanno perso abbondantemente il loro valore meramente referenziale, per caricarsi di valori simbolici che possono arricchire la conoscenza del mondo popolare dell’Italia unita, sconvolto dalla rivoluzione liberalnazionale e dalla guerra civile durata circa un decennio, che ha lasciato una eredità di violenza alle generazioni successive. Queste fonti non sono sufficienti a consentire una ricostruzione “altra” della storia degli anni 1860-1870: il loro carattere di costrutti simbolici ce lo impedisce. Più che di conflitti tra due storiografie bisognerebbe parlare di conflitti tra due immaginari. È stato scritto che i personaggi di queste sbiadite memorie orali sono gli ambigui eroi della storia narrata dal popolo, mentre è significativo il fatto che nessuno degli eroi del Risorgimento (a parte, per certi periodi e in certi luoghi, Garibaldi) sia entrato nella memoria collettiva dei paesi del Sud, guadagnandosi uno spazio comparabile con quello dei brigan- ti. Pur nella loro significativa ambivalenza, che li rende oggetto di stupefacente paura e ammirazione, gli eroi popolari di cui ancora oggi si raccontano le gesta sono Ninco Nanco, Maria Oliverio, Carmine Crocco, Maria Brigida, Lucia di Nella, Pietro Bianco. A parte ogni altra considerazione, queste narrazioni significano che la società italiana conosce due mitologie di fondazione, quella degli eroi risorgimentali e quella dei briganti, la prima consegnata alla scrittura, ai monumenti bronzei, alla storiografia ufficiale e la seconda affidata alla memoria collettiva delle popolazioni meridionali: due storie – conclude Scafoglio – due mitografie che non si sono ancora integrate, e che costituiscono il segno forte di una lacerazione più che secolare, e rendono diversa la nostra storia culturale da quella di altre nazioni civili, come l’Inghilterra, che del brigante Robin Hood ha fatto un simbolo di identificazione collettiva, e come l’Argentina, dove il gaucho disertore Martin Fierro è diventato il protagonista di una grande epopea47. Prese sul serio e lette attentamente, le fonti orali nella loro interezza, che si è cercato di descrivere, surrogate dai racconti dei militari, dei briganti stessi, dei sequestrati, fermo restando, fin dove è possibile, l’obbligo della verifica e la necessità del confronto con le altre forme cartacee di documentazione, partendo da una molteplicità di punti di osservazione, può contribuire ad arricchire e perfino modificare in non poche parti la percezione tradizionale del brigantaggio Sulle fonti orali di cui qui si parla il Laboratorio antropologico dell’Università di Salerno aveva avviato e in parte realizzato ricerche specifiche: ved. D. Scafoglio - S. De Luna, Le donne col fucile, cit., pp. 146-53; A. M. Musilli, Memoria orale del brigantaggio ad Avigliano e a Missanello, in AA.VV. “Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Educazione 2008-2009”, Lecce, Pensa Editore, 2009, vol. III, p. 383-404; V. Santoro, Narrativa brigantesca di tradizione orale, una amplissima e preziosa raccolta di testi non ancora pubblicati. 47 52 antropologia e storia postunitario, lasciando affiorare elementi decisivi dello sfondo storico-etnografico, dell’affresco meraviglioso e tragico, in cui si consuma la distruzione di una antica nazione, l’esplosione violenta della guerra civile, la lacerazione delle strutture familiari, cittadine, sociali, la nascita contrastata e vacillante di un nuovo Stato unitario, la crisi radicale di una cultura, che nel suo dissolversi ritrova forme arcaiche di resistenza e inventa modalità moderne di confrontarsi e lottare con le forze materiali e morali di una inquietante e discussa modernità. Un affresco sommerso da un pulviscolo di esistenze bruciate, che conferisce senso a una infinità di storie uguali e diverse. Restituire a questo sfondo tutta la sua complessità, a cominciare dalla sua natura di conflitto di ragioni, di uomini e di passioni, oltre che astrattamente di valori, è la sola scelta che può impedire di sottrarre l’interezza della loro umanità ad uomini e a donne delle campagne meridionali, finora trasformati in semplici combattenti di una guerra perduta ed iniqua, come tutte le guerre. Il contesto etnografico e le sue fonti La grande lacuna delle ricostruzioni storiche del brigantaggio è costituita dalla aleatorietà del suo contesto etnografico. Esse ci consentono di conoscere adeguatamente la storia economica, civile, militare, filosofica, letteraria di quegli anni, ma ci forniscono conoscenze limitate se non inesistenti della cultura popolare in cui era immerso il mon- / 2 – comicità e politica do dei briganti e della popolazione che li sosteneva. Del contesto etnografico degli anni 1860-1870 bisogna tenere nel giusto conto una doppia specificità. La prima è quella di essere una società tradizionale con caratteristiche largamente preindustriali e precapitalistiche, in cui la “plebe” delle campagne si fa carico di un protagonismo che – a parte il sanfedismo antigiacobino – ha pochi precedenti storici, sostenendo una guerra popolare di resistenza e di difesa durata quasi un decennio. Questo contesto comprende non solo le forme di vita, le abitudini normali e le istituzioni di lunga durata (struttura e valori familiari, religione, magia, ecc.), ma anche quelle irregolari, eccentriche o devianti: forme di trasgressione e di violenza individuale e collettiva, privata e pubblica, ideologia e pratica della vendetta, brigantaggio endemico, furto campestre, concubinaggio, trasgressioni sessuali, ecc. Questo contesto va ricostruito, perché è in questa totalità che affondano le loro radici i comportamenti individuali e di gruppo. È ancora un problema di fonti, che sono ancora fonti folkloriche. Abbiamo ribadito l’utilità della letteratura di tradizione orale, ma, per esempio, il materiale paremiologico può essere utilmente utilizzato per ricostruire i quadri normativi e le regole di vita della gente della campagne, tenendo conto che queste norme servono a legittimare comportamenti piuttosto che suggerirli o determinarli, e al tempo stesso rispecchiano per lo più oscuramente pulsioni ed emozioni, affidate all’uso di forme poetiche (non a caso la loro struttura formale li assimila alla poesia)48. Per questi concetti ved. D. Scafoglio, Fare frasi. Paremiologia e poetica, in Le “forme semplici” dell’espressività popolare, a cura di S. Barillari, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001.pp. 63-70. 48 53 Q uaderni La seconda specificità è costituita dal­ l’impatto di questa società tradizionale con la storia di quel decennio, causa di trasformazioni repentine e violente, che sconvolsero l’assetto tradizionale e la vita delle campagne meridionali: l’unificazione nazionale percepita come un’invasione straniera, il trauma della perdita del Regno, l’ambigua liberazione garibaldina, la nascita dello Stato moderno e il trionfo delle libertà liberali, la trasformazione degli apparati statali in senso centralista, con l’indebolimento delle autonomie locali, l’impoverimento economico del Meridione, lo scatenamento di una disastrosa guerra di resistenza con le caratteristiche di una guerra civile, destinata a durare quasi un decennio e a finire tragicamente. In un certo senso, il brigantaggio fu l’espressione di una frizione dolorosa tra il contesto etnografico e i fatti nuovi portati dalla storia del decennio postunitario, tra le forme di vita del Meridione e le concezioni e regole che si ispiravano a un modello culturale più vicino alle caratteristiche degli Stati moderni europei. Anche se sarebbe riduttivo e forviante parlare di conflitto di civiltà senza altre specificazioni, le tensioni di origine culturale ebbero un loro peso nel conflitto e ne plasmarono in qualche modo le forme e i contenuti, con esiti sorprendenti. Il quest’ottica occorrerà rendere conto della violenza della collisione prodotta dall’impatto del nuovo su un consolidato passato: come accadeva in tutte le rivoluzioni giacobine del secoli XVIII e XIX, il modello di trasformazione della società meridionale in senso liberal-nazionale fu imposto dall’esterno e dall’alto, senza la maturazione delle forze locali, e senza uno sforzo reale che la favorisse, rendendo visibili i vantaggi della nuova condizione, che lo sviluppo dell’economia moderna e la nascita delle libertà democratiche avrebbero potuto determinare. In risposta, sul versante opposto al nuovo che disordinatamene e violentemente avanzava, la reazione delle masse contadine fece appello alle risorse che l’esperienza tradizionale della vita metteva a disposizione: una reazione autoctona, con una straordinaria capacità di riscrivere quelle risorse morali e materiali per adattarle alla nuova situazione. “Il brigantaggio liberò straordinarie energie, mostrando le capacità di mutamento di una cultura immaginata come immobile nella sua arcaica solidità: quegli anni terribili videro l’emergere di giovani strateghi analfabeti di grande talento, capaci di assicurare alle loro bande un consenso popolare notevolmente più vasto e più complesso di quello che le classi popolari avevano tradizionalmente offerto ai banditi; come videro l’assunzione da parte di contadine povere di un nuovo potere, che ad esse conferivano il rapporto con le armi e i nuovi ruoli e funzioni che furono chiamate ad assolvere nelle bande e fuori di esse”49. Nasce allora per lo storico l’esigenza di rannodare elementi di novità come questi con le potenzialità prima inespresse della società meridionale tradizionale, alle sue strutture fondamentali e alla sua storia. Molti elementi nuovi degli anni 1860-1870 potrebbero allora apparire – mutuando un’espressione dalla linguistica – forme creative insospettate di “reazione del sostrato D. Scafoglio, Un invito a riscrivere l’identità nazionale, in S. De Luna (a cura di), Per forza o per amore, cit., p. 7. 49 54 antropologia e storia etnico”, se si approfondissero, per esempio, le connessioni del brigantaggio femminile per un verso con il matriarcato “emotivo” delle strutture familiari meridionali e, per un altro, con la “selvaggia libertà dei campi” del mondo rurale precapitalista50; se si desse la giusta importanza alla omologia tra il modo di vivere e il modo di combattere contadino-pastorale; se, superando la visione statica del mondo rurale, si parlasse finalmente della sua storia e dell’eredità di esperienze che il brigantaggio endemico, il sanfedismo e i moti contadini per la rivendicazione delle terre lasciarono alle insorgenze degli anni postunitari, senza peraltro identificarsi con esse. I limiti delle rappresentazioni storiche del brigantaggio vanno con qualche fondamento addebitate alla carenza di informazioni sulla cultura antropologica e la vita popolare profonda del suo tempo. Si tratta perciò di ricostruire in maniera storicamente credibile un contesto culturale lontano nel tempo, per molti versi diverso e perfino esotico. Una via è partire da quello che è rimasto fino ad oggi degli effetti tragici della conquista e dei processi di modernizzazione sbagliati e ricostruire quello che non c’è più, affidandosi alle rischiose procedure del metodo deduttivo, mentre risultati importanti si possono raggiungere utilizzando, come abbiamo anticipato, la vastissima documentazione etnografica consegnata alle discipline demoetnoantropologiche, che proprio nel periodo postunitario hanno conosciuto uno sviluppo senza precedenti, sollecitato dalle tensioni e illusioni riformiste e dalla / 2 – comicità e politica preoccupazione della estinzione del patrimonio culturale tradizionale. Indubbiamente la persistenza all’interno degli studi etnografici della tendenza a leggere le tradizioni popolari con lo sguardo rivolto al passato può avere incoraggiato gli storici ad assumere atteggiamenti di diffidenza e di rifiuto, ma questo non giustifica tutto, perché – insegnava già E.P. Thompson –”utilizzando in modo nuovo le fonti folkloriche, si trasformano informazioni che erano soltanto antiquarie ed inerti in un ingrediente attivo della storia sociale”51. Il problema è esattamente questo: ritrovare nella cultura etnografica di un determinato periodo presente o passato gli “ingredienti attivi” della sua storia sociale, mobilitando le nuove risorse e opportunità offerte dalle scienze sociali. Tanto più che in questa direzione sono andate in parte da decenni alcune esperienze di ricerca, a volte altamente significative, tra la storia, l’etnografia storica, l’antropologia, l’etnostoria. Questa metodologia impedisce agli storici sul brigantaggio di separare fatti e personaggi dal reticolo culturale ed etnico dal quale ricevevano vita. Perché isolare i fatti dai fattori che ad essi conferiscono significato, confinando questi fattori nell’irrilevanza o fingendo la loro inesistenza, significa togliere senso allo studio della storia. La coscienza antropologica può collaborare a evitarlo, perché l’antropologia è, forse prima di tutto, una “disciplina del contesto”. Queste riflessioni sulle fonti hanno accompagnato la preparazione dei primi Su cui ved. G.H. Taylor, Report on the Employment of Childre, Young Person and Women in Agricolture, 1967, p. 204, che con questa locuzione sintetizzava le libertà e il rilassamento dei costumi, anche sessuali, nel mondo rurale tradizionale. 51 E.P. Thompson, Società patrizia e cultura plebea, tr. it., Torino, Einaudi, 1981, p. 264. 50 55 Q uaderni contributi alla storia antropologica del brigantaggio, frutto della collaborazione con Domenico Scafoglio, e hanno orientato i lavori successivi52, in cui crediamo di avere ulteriormente approfondito le ragioni delle nostre scelte. Seguendo i briganti con attenzione partecipe nella complessità delle situazioni e degli eventi che hanno attraversato la loro breve esistenza, nella durezza e abilità del guerreggiare, nella capacità di risolvere i casi minuti e difficili della vita quotidiana alla macchia, di conservare e ricreare in mezzo alla precarietà estrema la vita nella pienezza delle sue passioni, di muoversi con intelligenza e rigore nel loro piccolo universo e adattarsi alle novità del mondo moderno, i protagonisti della guerriglia contadina ci sono apparsi come gruppi strutturati con regole, codici, principi, in forme molto simili alle comunità di guerra, e abbiamo imparato a conoscerli come esseri umani e non solo come combattenti irregolari di una guerra perduta. Due modelli antropologici e le loro fonti Gli studi di Carlo Tullio-Altan hanno il merito di essere stati l’unico tentativo italiano di leggere il brigantaggio in una chiave che è al tempo stesso antropologica e politica, anche se lo schema politico non è derivato dall’esperienza antropologica, ma dal pensiero politico della tradizione progressista italiana e – a nostro giudizio – si pone come una chiave di lettura ideologica largamente forviante. La documentazione decisiva su cui si fonda l’interpretazione di Tullio-Altan è costituita dai dati statistici forniti dalle carte dei processi, peraltro elaborati da altri, che dimostrerebbero che al brigantaggio parteciparono quasi tutte le classi sociali, e che esso non “esprimeva esclusivamente il ‘mondo contadino’, bensì l’intera società meridionale del tempo, in quelle che erano le sue strutture sociali portanti e i gruppi che la componevano”. La mancata conoscenza diretta delle fonti ha impedito allo studioso di comprendere che se, effettivamente, buona parte della società meridionale fu coinvolta nel brigantaggio, le singole classi sociali lo furono in maniera radicalmente diversa, dal momento che 1) la presenza dei ceti “civili” nella guerriglia antiunitaria fu pressoché inesistente: la lotta sul campo fu opera dei soli contadini, pastori e, in misura minore, artigiani che potevano contare sull’assenso, sull’aiuto e sulla connivenza di altri contadini, pastori e artigiani, e sulla protezione e complicità, assolutamente strumentale e opportunistica, di elementi dei ceti “superiori”, sia filoborbonici che filounitari; 2) nella maggior parte dei casi e comunque nei casi più importanti gli insorti operarono in piena autonomia dalla classe dei possidenti e dai circoli borbonici, ed espressero capi propri, pur nel riconoscimento formale del progetto legittimista della restaurazione dell’antico ordine; 3) è comunque esistito un legittimismo dei popoli notevolmente diverso dal legittimismo delle classi aristocratiche e della corte borbonica; 4) le ragioni del sostegno dei possidenti alle bande Iniziato come una ricerca, durata alcuni anni, sulle brigantesse, il lavoro di Domenico Scafoglio e mio è diventato negli anni un ponderoso volume di antropologia del brigantaggio, che presto sarà dato alle stampe col titolo L’altra metà della banda. 52 56 antropologia e storia erano il più delle volte radicalmente diverse da quello che le bande volevano, dal momento che il loro scopo, a seconda dei casi e dei momenti, era quello di arricchirsi alle spalle dei briganti, salvare le loro proprietà e le loro vite dalle rappresaglie, eliminare con l’aiuto dei briganti i loro nemici personali o nemici delle loro famiglie o avversari politici, mediante un intreccio perverso di doppi giochi, di ribaltamenti opportunistici di alleanze e tradimenti. Convinto invece che l’insorgenza meridionale sia stata un fenomeno interclassista, Tullio-Altan ritiene – ancora senza alcun riferimento diretto alle fonti – che “il ribellismo spontaneo del mondo contadino sfruttato si combinò con la reazione di una larga maggioranza della popolazione del Sud alla violazione dei miti tradizionali da parte dei ‘piemontesi’ apportatori di un ordine diverso e di una diversa concezione politica, quella liberale costituzionale”. La “ragione principale” e il senso ultimo dell’esperienza brigantesca sarebbe allora stata “la arretratezza socio-culturale della società meridionale, impreparata a un tipo di gestione autonoma degli interessi collettivi, come quella prevista dalla nuova costituzione”, sicché la causa “radicale” e “di fondo” dell’insurrezione e della resistenza popolare sarebbe data “dal dramma dell’incontro violento di due diverse Italie, diverse in ragione delle loro caratteristiche culturali, economiche, e sociali, profondamente differenti fra di loro, nonostante l’uso di un comune linguaggio”. 53 / 2 – comicità e politica Ci saremmo aspettati a questo punto che l’antropologo affondasse lo sguardo nella diversità culturale responsabile prima del rovinoso “scontro di civiltà”; invece questo scontro è sinteticamente restituito con le categorie obsolete della cultura politica della sinistra italiana: il brigantaggio esplose perché “i pilastri della società meridionale erano la monarchia borbonica da un lato, e il fideismo cattolico papalino dall’altro, assieme al sistema feudale della proprietà fondiaria assenteista e parassitaria, che nel loro insieme formavano un’entità organica, un sistema sociale ben preciso e caratterizzato” (p. 45, 46). La conclusione è l’invito a considerare il brigantaggio “una guerra civile antiunitaria, di carattere reazionario, tradizionalistico e rurale, strumento, come sempre, della politica padronale ed ecclesiastica” (p. 44, 46): una proposta interpretativa che per un verso enfatizza più del giusto la contraddizione etnica, senza descriverla e approfondirla, per un altro fornisce di essa una lettura schematica riduttivamente politica, non confrontata con le fonti primarie, interamente ignorate, confinando nelle forme di una anacronistica resistenza culturale un evento che aveva cominciato a modificare profondamente la vita degli uomini e delle donne meridionali53. Semmai – se lo studioso non avesse abdicato al compito dell’antropologo – il problema era quello di porsi il quesito: a) quando e perché le culture diverse, incontrandosi, possono non piacersi e confliggere; b) quanto la diversità culturale e la differenza etnica Le riflessioni di C. Tullio Altan sono contenute in Populismo e trasformismo. Saggio sulle ideologie politiche italiane, Milano, Feltrinelli, 1989; Il brigantaggio postunitario, lotta di classe o conflitto di civiltà, Milano, Banca Nazionale del Lavoro, 1982, vol. I, Dall’Unità al nuovo secolo; La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo, e ribellismo dall’Unità a oggi, Milano, Feltrinelli, 1986. 57 Q uaderni contano nella determinazione dei conflitti, nel loro svolgimento e nella loro forma; c) quali sono le condizioni che determinano l’assorbimento delle tensioni economiche, sociali, politiche, dentro un contenitore culturale, ideologico e religioso che finisce col dilatare le sue funzioni acquistando un ruolo e una funzione totalizzante, da “guerra di civiltà” e/o “di religione”; d) perché questo contenitore culturale, quando non prende la forma criminale del sacrificio salvifico, riesce ad riattivare insospettate energie latenti negli strati più profondi della storia culturale di un popolo. Le condizioni, dunque, prima di tutto. La storia insegna che, quando si incontrano, due culture possono non piacersi, perché – è una delle ragioni fondamentali, ma non l’unica – l’una paventa o sospetta il dominio dell’altra, e comunque questo non impedisce di operare negoziazioni, prima che maturi una reciprocità negativa ed esploda la tragedia. Nel caso specifico che è oggetto del nostro studio, l’esito tragico dell’incontro fu dovuto – come abbiamo in parte anticipato – al carattere elitario della costruzione statale unitaria, responsabile di scelte politiche e militari che fecero apparire l’unificazione nazionale alla stragrande maggioranza dei meridionali come il risultato di una invasione straniera, con l’instaurazione successiva di un regime di occupazione e la scellerata repressione di una insurrezione in cui, agli albori della nostra storia nazionale, si compì il crimine di fare la guerra agli insorti senza lasciare prigionieri, incendiare paesi, prati- care la tortura, deportare le famiglie, invece di intercettare la domanda locale di giustizia e di autonomia, graduare le innovazioni, promuovere la maturazione delle forze locali, rispettare le autonomie territoriali, integrare i militari borbonici sconfitti nel nuovo esercito nazionale. La deriva sanfedista del “grande brigantaggio” trova la sua spiegazione, almeno in parte, in tutto questo. Un grande storico, aperto ai metodi dell’antropologia, come Hobsbawm, è stato tra i primi a fare un uso scientifico del folklore per lo studio dei fenomeni di ribellismo sociale, come il brigantaggio su scala planetaria, usando il metodo comparativo, per disegnare il modello ideale del brigante, rintracciabile in tutte le culture. Nei due libri preziosi dedicati all’argomento54 ha fondato la sua analisi su materiali letterari popolari, miti e leggende di molte nazioni, accanto ad abbondanti testimonianze offerte dalla vasta e varia letteratura sull’argomento. Ne è venuta fuori una accurata descrizione delle costanti psicologiche e culturali che hanno dato vita alla rappresentazione del brigantaggio nelle diverse culture, associata al problema – non sempre in verità felicemente risolto – del suo rapporto con la realtà del fenomeno. Con questi studi inizia una lettura antropologica del brigantaggio, di grande respiro, che purtroppo in Italia non ha lasciato tracce negli studi successivi. Per la prima volta il fenomeno è collocato sullo sfondo della cultura popolare, con un’analisi che rivela sostruzioni psichiche profonde e codici culturali latenti, e rende Gli studi di E.I. Hobsbawm sono I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, trad. it. Torino, Einaudi, 1966 (or. 1959); I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, tr. it., Torino, Einaudi, 1971 (or. 1969). In questi studi le donne sono pressoché assenti. 54 58 antropologia e storia comprensibili insospettati tratti enigmatici del brigantaggio, restituendo spessore conoscitivo, significati e funzioni a materiali ottusamente ritenuti irrilevanti. Con maggiore profondità, perspicacia e passione, il russo Bachtin aveva già imboccato questa strada nello studio antropologico della letteratura, carnevalesca in particolare55. È infatti proprio nella poesia epica brigantesca che il brigantaggio dispiega nella sua pienezza, accanto al suo orrore, la sua vita interiore più profonda, i suoi valori morali e il suo ideale eroico. Le nostre annotazioni critiche a Hobsbawm sono anche di altra natura, e rendono ragione di una metodologia diversa: tralasciando il problema – che qui non ci interessa – dell’assenza di fonti primarie, quali i documenti di archivio, rileviamo che: 1) I nove elementi costanti, individuati da Hobsbawm, che strutturano il racconto atemporale del brigantaggio (in realtà occorrerebbe integrarli con altre serie di tratti permanenti), e che sono unità narrative e insieme nuclei ideologici, come le funzioni del racconto di magia indicate da Propp, compaiono tutti nel modello ideale, non nelle storie singolarmente considerate, che perciò rispetto al modello astratto presentano scarti e scelte significative, che le rendono autonome nella struttura e nel significato rispetto al modello generale. 2) L’indistinzione tra fonti letterarie e folkloriche e fonti documentarie dà luogo a molti inconvenienti. Hobsbawm sa benissi- 55 / 2 – comicità e politica mo che la leggenda è la proiezione mitica di aspirazioni profonde che non sempre hanno fatto i conti con la realtà degli avvenimenti e sono in parte fondate su rimozioni, quali, per esempio, il fatto che non sempre i briganti hanno goduto il favore delle popolazioni delle campagne, ma questo non gli impedisce troppo frequentemente di utilizzare le fonti letterarie come documentazione di fatti reali. 3) Nel trattamento dei materiali letterari sarebbe stato necessario, riconosciuta preliminarmente la loro natura di fonti speciali, analizzarli con strumenti specifici. Per esempio, le convenzioni e le regole dei generi letterari, i topoi dell’epos possono aver avuto un peso (di cui Hobsbawm non ha tenuto conto) nella determinazione delle invarianze tematiche delle rappresesentazioni del brigantaggio (che apparterrebbero, allora, non più alla realtà, ma alla sua trasfigurazione letteraria). Inoltre, nel tutto indifferenziato su cui ha lavorato lo storico, si possono individuare tracce di specifiche vicende letterarie, per esempio, “storie” che riproducono la leggenda contadina (cioè le modalità attraverso cui il brigantaggio è stato vissuto, alterato, trasfigurato dalla coscienza e dall’immaginazione delle masse contadine tra le quali è nato e con cui esse hanno largamente consentito), e “storie” che invece esprimono l’immagine che del banditismo rurale s’erano fatta ceti diversi (come parte degli artigiani, i proletari e la plebe delle città), che, anche se non erano ad Di M. Bachtin ved. spec. Scienze della natura e scienze umane, tr. it., in “Scienze umane”, 1980, 4, pp. 7-14; ma il suo modello metodologico, per quello che ci interessa, rimane il suo capolavoro, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, tr. it., Torino, Einaudi, 1979 (or. 1965). Ved. però anche Dostoevskij. Poetica e stilistica, tr. it., Torino, Einaudi, 1968 (ed. or. 1963). Nell’analisi degli scritti di Hobsbawm sono sviluppate le riflessioni di D. Scafoglio, contenute in particolare in L’epos brigantesco popolare e Terre e briganti, citati. 59 Q uaderni esso estranei, vivevano a distanza il dramma delle campagne. È ancora possibile, e in qualche caso dimostrabile, che la letteratura del brigantaggio (ossia espressa dai ceti ideologicamente omologhi al brigantaggio, anche se ad esso non del tutto assimilabili, come la plebe cittadina e metropolitana) sia stata influenzata dalla letteratura sul brigantaggio, cioè dalla cultura dei ceti superiori. Sono differenze importanti, che anche nella costruzione di una tipologia astratta, peraltro legittima, avrebbero dovuto contare. 4) Infine, l’avere sistemato la ricognizione dei dati in una struttura coerente ha comportato non solo un eccesso di astorica generalizzazione, ma anche lo smarrimento della contraddittoria complessità del fenomeno e della sua stessa trasfigurazione letteraria. Anche se negli ultimi decenni si è cercato di recuperarla nelle analisi e conclu- sioni di Domenico Scafoglio, con particolare riferimento all’ambivalenza degli eventi e del loro racconto, e con un’attenzione specifica alle strategie comunicative e alle motivazioni che determinano il gioco del dire e del tacere e all’altalena del consentire e del condannare. In ogni caso, va riconosciuto ad Hobsbawm che l’avere costruito con i metodi dell’antropologia il modello del brigante presente in tutti i tempi e sotto tutti i cieli rimane un contributo preziosissimo anche per chi, muovendosi anche nella direzione opposta, ritiene la conoscenza storica un costante andirivieni, reversibile, dal particolare al generale, dallo specifico all’universale, che per un verso conferisce completezza e concretezza alle generalizzazioni, per un altro consente di ritornare sulle situazioni specifiche con un’altra, più ampia e matura consapevolezza56. A parte gli studi di C. Tullio-Altan e i contributi di chi scrive e di Domenico Scafoglio, l’antropologia del brigantaggio postunitario non ha interessato i ricercatori italiani. Degli studi concernenti altre aree si possono leggere utilmente J. Brogger, Conflict Resolution and the Rose of Bandit in Peasant Society, in “Anthropological Quaterly”, Bd. 41; J.A.G. Alcantud, Bandidos Mediterraneos: analogias etnograficas entre los bandolerismos contemporaneos de Andalucia y Tif-Yebale, in C.L. Tolosana (a cura di), Anthropologia: horizontes comparativos, Editorial Universidad de Granada, 2001. Concetti essenziali ma importanti si trovano in J. Pitt-Rivers, Il popolo della Sierra, tr. it., Torino, Rosenberg & Sellier, 1976 (or. 1971), pp. 180-83; Per alcuni aspetti particolari si vedano F. Egmond, Bandits and “Savages”: a Bourgeois Stereotype and the Cases of some late 18th-Century Robberbands in Western Europe, Paper Prepared for the Workshop Violence in the Atlantic and Mediterranean World since the later Middle Ages: from Above and Below, Maastricht, 17-19 May, ms.; A. Blok, The Peasant and the Brigand, in “Comparative Studies in Society and History”, 1972, 14, preceduto da P. Ugolini, Briganti e pastori nel Mezzogiorno d’Italia, in “Itinerari”, 1961, n. 52-53. 56 60 L’opera lirica, la lingua e l’unità nazionale Appunti su Verdi e Wagner Helga Finter N el prologo all’Ariadne in Naxos di Riccardo Strauss e di Ugo von Hofmansthal, il mecenate ricco, committente di un’opera seria, Ariadne, seguita da un’opera buffa di guitti, esige la sera stessa della festa, mediante il suo maggiordomo arrogante che le due opere siano recitati simultaneamente. Guadagnare tempo per i fuochi artificiali che chiudono la serata, ecco la spiegazione. La ragione profonda di questa decisione curiosa si rivela invece essere il desiderio di rallegrare col gioco del buffone la scena tragica di un’isola desolata. L’uomo più ricco di Vienna enuncia così una disposizione dell’amatore di teatro non tanto raro verso un pubblico che resiste alla verità tragica cercando nel teatro dappertutto distrazione e piaceri facili. Quest’opinione, presentata dagli autori come quella del melomane medio all’inizio del secolo scorso – la prima versione del dramma musicale è del 1912 ‒ non era però condivisa dal pubblico di ogni paese europeo. Almeno l’italiano faceva fiera eccezione, se si segue Antonio Gramsci, che 1 2 scriveva per esempio, nell’inizio degli anni trenta: “Il melodramma è il gusto nazionale, cioè la cultura nazionale”1. La storia del Risorgimento e ‒ secondo alcuni critici2 ‒ il suo mito vogliono pure che sia proprio il gusto popolare per il melodramma tragico e eroico ad avere contribuito all’unità del paese. Fra i melodrammi di compositori come Bellini, Donizetti, Rossini eccelle soprattutto l’opera di Giuseppe Verdi, considerato come interprete privilegiato di una resistenza popolare contro il potere austriaco o borbonico; e il nome di questo repubblicano convinto sarà inoltre identificato col regno nuovo dei Savoia, quando “Viva Verdi” è letto, come lo vuole l’uso, come la sigla dell’esclamazione: “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”. La cronaca di oggi sembra confermare questa importanza politica, storica o mitica, del melodramma italiano, nutrita anche largamente dal cinema: dal Senso di Luchino Visconti del 1953, in cui l’inizio del terzo atto del Trovatore di Verdi dà luogo a una manifestazione anti-austriaca, fino al recente Noi credevamo di Mario Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione critica, Torino 2007, vol. III, p.1739, citato in futuro con la sigla QC. CF. Birgit Pauls, Giuseppe Verdi und das Risorgimento: ein politischer Mythos im Prozeß der Nationenbildung, Berlin: Akademie Verlag, 1996. 61 Q uaderni Martone del 2010, che assegna alla musica operistica un ruolo di contestazione. Infatti, nella primavera scorsa, il mito si propose di nuovo come la realtà con la manifestazione di protesta contro la politica culturale berlusconiana, avvenuta alla prima di Nabucco di Verdi, il 12 marzo 2011, all’Opera di Roma: di fronte a un pubblico, di cui facevano parte il presidente della Repubblica e quello del Consiglio nel palco reale, dopo che il sindaco di Roma Alemanno aveva lanciato un appello al governo dal palcoscenico per la revoca della riduzione dei fondi per la cultura, anche il maestro Riccardo Muti prendeva prima dell’inizio dello spettacolo la parola dicendo: “Il 9 marzo 1842 Nabucco debuttava come opera patriottica tesa all’unità ed all’identità dell’Italia. Oggi 12 marzo 2011, non vorrei che Nabucco fosse il canto funebre della cultura della musica”. Questa esortazione fu seguita non solo da applausi, ma inoltre, secondo La Repubblica del 13 marzo, “da una pioggia di volantini dalla balconata, che dicevano: ’Italia risorge nella difesa del patrimonio della cultura’, e ancora, in una versione diversa, ‘Lirica, identità unitaria del mondo’”. Un evento ancora più stupendo accadeva alla fine del coro degli schiavi ebrei del terzo atto – “va’ pensiero!” –, conosciuto come canto di raduno del Risorgimento: un applauso tremendo salutava la performance dei cento coristi, e Muti, volgendosi al pubblico accordava un bis con queste parole: “Sono molto addolorato per ciò che stava avvenendo, non lo faccio solo per ragioni patriottiche, ma noi rischiamo davvero che la nostra patria sarà ‘bella e perduta’, come dice Verdi. E se volete unirvi a noi, il bis lo facciamo insieme.” Quello che capitava allora, mi pare un momento straordinariamente sublime di affermazione della forza repub62 blicana del canto operistico. Cito di nuovo La Repubblica: “E come a un commando tacito tutti gli spettatori si sono alzati in piedi e hanno cantato insieme ai cento coristi, rimasti sul palcoscenico. Un fatto assolutamente inedito, arricchito ulteriormente da un nuovo lancio di volantini pseudo risorgimentali, che dicevano:’Viva Giuseppe Verdi’, oppure ‘Viva il nostro presidente Giorgio Napoletano’, ma anche ’Riccardo Muti senatore a vita’”. Questo singolare episodio, trasmesso dai telegiornali anche all’estero – io l’avevo visto in Francia –, e poi reso visibile su Youtube, fu seguito alcuni giorni dopo, dalla trasmissione integrale di Nabucco il 17 marzo, da RAITRE e Arte, come replica del 15 marzo: il bis si ripeteva di nuovo con Muti spiegando: “Non vorrei che le celebrazioni per l’Unità d’Italia fossero semplicemente qualche manifesto, il tricolore e dopo aver fatto la festa, torna tutto come prima. Serve altro. Quindi, se noi facciamo ‘Va’ pensiero’ insieme, è perché non vorremmo che domani passando qui davanti, troviate un cartello ‘Teatro chiuso’” (La Repubblica del 18 marzo 2011). Tornando al pubblico, Muti dirigeva allora il coro cantato insieme dalla sala in piedi e dal palcoscenico. Questo momento straordinariamente commovente provocava le lacrime di commozione non solo tra i presenti, ma anche dagli spettatori lontani, come me davanti allo schermo. Perché? Una prima riposta sarebbe che questo momento del cantare insieme cristallizzava come metafora in actu una resistenza culturale contro un governo di mediacrazia che finalmente sarebbe caduto alla fine dell’anno. Una seconda è che questa performance proponeva in un contesto di discussione sull’identità nazionale, un concetto d’identità antropologia e storia nazionale e culturale diverso, aldilà della politica, riassunto inoltre anche dallo striscione portato alla fine dagli operai tecnici sul palco che diceva: “Nel 150o dell’unità d’Italia salviamo un’identità nazionale: l’opera lirica”. Propongo alcune riflessioni su questo concetto d’identità minima, un’identità nazionale di cultura: interrogando il suo impatto a partire dal confronto di questa nozione in Germania e in Italia, si tratta di delineare la funzione della musica e del canto come legame sociale. Infatti, per me, venuta da un paese con un’altra tradizione musicale, la Germania, questo evento lirico inedito è memorabile per diversi aspetti: Prima c’è l’importanza popolare del teatro lirico, spesso dichiarato già morto o solo passatempo per melomani apolitici, e anche la sua forza civile di protesta; in secondo luogo, c’è la partecipazione ad hoc di un pubblico che canta a memoria tutte le parole di un’aria di melodramma, fatto impensabile in altri paesi; e in terzo luogo, c’è la forza performativa di quel cantare insieme del palco e palcoscenico creando un’identità italiana culturale effimera, sfidando la politica della società attuale dello spettacolo. Perché un tale evento è soltanto possibile in Italia? Perché l’opera lirica sarebbe sua identità nazionale? Teatro e opera in comparazione Questa domanda implica una seria di problematiche già discusse nel secolo scorso per esempio da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere intorno alla questione 3 / 2 – comicità e politica della lingua e della letteratura italiana popolare. Rileggendo oggi questi testi nell’edizione critica, mi rendo conto che ponono, in un modo straordinariamente odierno, tutto il problema della funzione del teatro in una società moderna e di mass-media. Il problema del dialetto e della lingua italiana è enunciato giustamente riferendosi a quello della letteratura drammatica e del dramma lirico, il quale è per Gramsci il melodramma, modello popolare per la lingua, la letteratura, il teatro3. Cos’è questa forza popolare del melodramma italiano ? Perché non la troviamo in Germania, dove giustamente Riccardo Wagner aveva teorizzato col suo Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale, un impatto popolare che però è restato utopico, almeno a suo tempo, nonostante una seria di analogie storiche paragonabili? Nei due paesi la prefigurazione della loro unità si proietta prima, al livello culturale, come unità spirituale ideale attraverso la letteratura e il teatro. Per la letteratura, i nomi emblematici sono Dante, Petrarca, Boccaccio da una parte, e Lessing, Goethe e Schiller dall’altra, mentre che per il dramma musicale i nomi di Verdi e di Wagner cristallizzano l’idea di un’opera lirica nazionale, produttrice di coesione nazionale. Il ruolo del teatro e dell’opera lirica differisce invece nei due paesi, come il ruolo dei poeti per la formazione della lingua nazionale. In Italia il melodramma sembra aver avuto l’importanza che in Germania prefigurava già il teatro di prosa. Che è allora l’impatto del teatro o dell’opera come operatore del legame sociale di una lingua comune? QC, 806-07; 969; 1136-1137; 1193-1194; 1195-97;1923; 1932-35. 63 Q uaderni La lingua La lingua italiana è proposta come volgare sublime dai poeti a partire del Trecento e resta per questa ragione per lungo tempo limitata ai ceti colti e alfabetizzati. In Germania, il modello della lingua nazionale e letteraria è quello della traduzione della Bibbia fatta da Martin Luther del 1545, che aveva invece una più larga portata perché toccava anche il popolo dei ceti bassi con il primo testo udito e insegnato in chiesa. Questa lingua sarà poi quella della musica sacra, cantata dai fedeli in chiesa, è quella di Schütz, di Bach. Nonostante i dialetti si parlassero in ambedue paesi4, il tedesco, lingua della Bibbia, trovava, dalla metà del settecento, col teatro di prosa una diffusione che un sistema teatrale, voluto dai cittadini delle città libere o dai principi e re dei tanti principati e regni, favoriva. Ancora oggi la Germania ha 924 teatri con un totale di 305455 posti, di cui 66 sono teatri statali con 24 teatri studio, 250 sono teatri municipali con 56 teatri studio e 12 teatri di parecchi municipi. Tutti questi teatri sono sovvenzionati dal contribuente, in tutti sono impiegati complessi per la prosa, per l’opera e per la danza. L’idea di un teatro nazionale di lingua tedesca, prima proposta da Lessing nella sua Hamburger Dramaturgie, e poi elaborato da Goethe a Weimar, è già stato realizzato in Vienna col Burgtheater nel 1776. Questo teatro, legato alla borghesia colta, contribuiva così a promuovere il concetto di un’identità 4 5 6 64 nazionale di cultura – Kulturnation –, che gli scrittori ma anche i filosofi diffusero fino al Novecento. Visto che i testi drammatici erano insegnati nelle scuole, si può dunque ipotizzare che il teatro era nell’Ottocento uno degli strumenti principali per superare il particolarismo delle regioni5. Il progetto di riforma wagneriano Quando Riccardo Wagner si dedica alla riforma del teatro lirico, nella metà dell’Ottocento, il teatro di prosa ha già la funzione di legame sociale e culturale proponendo la lingua tedesca della Bibbia e della letteratura, diventata lingua comune per tutti i paesi di lingua tedesca. Il suo progetto di un dramma della parola e del suono – Wort-Ton-Theater – mira ad allargare la funzione di questo teatro al canto e alla musica, integrando quello che la prosa, ma anche la lingua parlata esclude: la voce, il canto e la musica e dunque il rapporto col corpo. Rifiutando la separazione del teatro in teatro di parola, di danza e di lirica, Wagner sviluppa le sue idee di un’opera d’arte totale negli anni 1849-52 dopo il fiasco della rivoluzione del 48, cui aveva partecipato. L’opera d’arte del futuro del 1849, Opera e dramma del 1852 e Musica del futuro del 18606 ripensano la funzione del dramma musicale a partire da una diagnosi altrettanto dell’individuo che della società civile: la necessità del Gesamtkunstwerk risiede in quello che Wagner chiama Ancora oggi un tedesco del nord non capisce tutto di un tedesco della Baviera, della Svevia, dell’Alemannia. Hermann Kindermann, Theatergeschichte Europas, vol. VI, Salisburgo 2 1977, 119. Cf. Richard Wagner, Oper und Drama, edizione critica da Klaus Kropfinger, Stoccarda 1984; Richard Wagner, Ausgewählte Schriften,edizione da Dietrich Mack, Francoforte 1974. La risonanza con il concetto di Sorge di Heidegger pare ovvia. antropologia e storia Not – disagio, mancanza –7, vissuto sul piano e individuale e collettivo del popolo tedesco. Questo termine esprime il disagio di una separazione che è simultaneamente quella del corpo dall’anima, quella dell’uomo dalla natura, quella dei tedeschi fra di loro e quella delle regioni e città dallo Stato e insomma di tutti i tedeschi dalla loro nazione. La Not consiste dunque nella mancanza di un’unità e del soggetto, del cittadino e del collettivo. Wagner si riferisce così a una crisi generale d’identità. L’opera d’arte totale avrà il compito di rimediare a questo disagio riunendo le arti del corpo e dell’anima per produrre – grazie alla riunione di poesia, musica, canto, gesto e danza sul fondo di pittura del paesaggio – un mito inconscio che sarà simultaneamente quello del soggetto e del collettivo. Lo scopo di Wagner è chiaramente comunitario e civile: l’opera d’arte totale deve creare, mediante un messaggio al quale concorrono tutte le arti della scena, questa totalità – Gesamtheit – identitaria che la totalità delle arti – Gesamtkunst – prefigura in nell’unione e fusione delle arti. Il Gesamtkunstwerk fa dunque parte di un progetto politico-culturale che troverà la sua realizzazione nel dispositivo spazio-temporale del festival di Bayreuth con suo teatro sulla collina verde: un periodo di festa ispirato dalle Dionisie greche – ancora oggi il mese di agosto di ogni anno – radunerà un pubblico che realizzerà, mediante il vissuto affettivo audiovisivo dell’opera, una comunione dell’inconscio fra sala e palcoscenico, la quale risveglierà il sentimento d’unità nazionale, 7 8 / 2 – comicità e politica all’epoca ancora utopica, come unità politica. Questa creazione, performativa nel senso Austiniano, di un’unita personale e collettiva che genera il sentimento dell’unità nazionale, è favorita dalla nuova architettura d’anfiteatro wagneriano, che abolisce con la fossa d’orchestra anche la barra del palcoscenico, per riunirlo alla sala: immerso in un bagno di suoni che avvolge il pubblico, ciascuno si trova così in un rapporto egalitario rispetto alla scena, le differenze di classe e ceti spariscono. Questo dispositivo teatrale proto-sacrale, dagli accenti nazionalisti, tiene del mito inconscio, altrettanto del soggetto che del collettivo: un mito culturale, effetto del melodramma, che si suppone produca nel momento della rappresentazione l’identità nazionale come certezza emotiva. Wagner impone così al teatro musicale un compito che la religione non assolve più: dare una figurazione all’eterogeneo singolare proiettato come simbolizzazione audiovisiva per una comunità. Nello stesso tempo Wagner esige dall’arte la produzione di un vissuto d’identità nazionale più effettiva di quella proposta dai discorsi e simboli politici. Un compito culturale doppio è allora attribuito da Wagner all’opera lirica. Rivela d’una parte la funzione sacrale dell’arte e dall’altra parte quella dell’arte dello Stato, come analizzati da Georges Bataille8: si tratta della sua funzione di mediazione e continuità, riempita prima dalla religione cristiana e poi dalla sovranità del re o dalla monarchia. Il dualismo sempre più accentuato fra corpo e anima, fra individuo e società, fra uomo e natura Georges Bataille, Theorie de la religion, Paris 1978 e anche La part maudite, Paris 1967. Cf. le ricerche di Matthieu Schneider sul Jodel da Wagner in : « La Suisse vue par les compositeurs romantiques», Analyse musicale, vol. 54 (novembre 2006), p. 65-75. 65 Q uaderni che Wagner mira a superare col Gesamtkunstwerk, indica anche il crollo di tali sistemi di mediazione proposti dalla religione e dai diversi discorsi politici. L’artista del futuro ha in conseguenza per Wagner una missione doppia che è simultaneamente quella di dio e del sovrano: l’artista totale è maestro del verbo pieno e nello stesso tempo maestro di quello che in lui è eterogeneo – la musica e il canto. È il maestro di un verbo impossibile che la musica e il canto fanno sentire come quello del corpo, reso visibile dal gesto. L’artista sarà il sovrano della memoria collettiva e del mito inconscio che trasforma i soggetti scissi in membri integrati di un corpo immaginario, quello della nazione. Questo progetto wagneriano assegna alla musica e al canto il compito di provocare l’affetto per unirlo a un immaginario collettivo prodotto dal melodramma. Il testo del libretto è per questo scritto in una lingua nazionale proto-arcaica con un verso germanico di allitterazioni e la musica che deve colpire l’alma, attingendo fra l’altro alle melodie popolari tedesche9. Tutta la polemica di Wagner contro il melodramma italiano o francese ripete una sua pretesta mancanza di radici musicali popolari e pretende dunque anche la loro improprietà per l’opera lirica tedesca. Paragonando la fortuna popolare dell’opera di Wagner con quella di Verdi, l’effetto del suo programma estetico è lontano di es- ser riuscito per il suo impatto popolare. La fortuna nazionalista di Wagner è, secondo alcuni studiosi10, tardiva; promulgata dal messaggio nazionalista-razzista dei Bayreuther Blätter, dopo la morte di Wagner fu iniziata dal 1878 con la stampa della rivista in caratteri germanici e gotici, e con una tematica anti-civilizzazione germanica, recuperata più tardi dal nazismo. Bayreuth come luogo di raduno della nazione tedesca era all’inizio un’impresa piuttosto fragile11, perché il gruppo di patronati tedeschi non era abbastanza grande e Wagner doveva aprirsi a un pubblico internazionale. Secondo le parole del critico Hans H. Stuckenschmidt, nel gennaio 1933, “Il valore internazionale del festival è oggi più garantito che quello tedesco”. Il solo momento in cui Bayreuth trovava un pubblico popolare era, infatti, durante l’ultima guerra, quando i soldati feriti spediti dal fronte raggiungevano il festival come ricompensa dei loro meriti guerrieri12. La musica di Wagner che presidiava ai raduni del partito nazista, non era però riuscita vincere il cuore delle masse del partito13. Il mito wagneriano invece trovava la sua fortuna popolare attraverso immagini di pubblicità – dell’estratto di carne Liebig per esempio – o il cinema di Fritz Lang e la letteratura della quale testimoniano scritti di Thomas e Heinrich Mann o Robert Musil. La fortuna della musica wagneriana resta così confinata a un gruppo di artisti e melo- Cf. Hartmut Zelinsky, Richard Wagner 1876-1976, ein deutsches Thema, Frankfurt 1971; Udo Bermbach, Richard Wagner in Deutschland. Rezeption, Verfälschungen, Stuttgart 2011. 10 Cf. Hans H. Stuckenschmidt, Bayreuth 1933, in: Anbruch, Zeitschrift für moderne Musik, gennaio 1933. 11 Cf. Brigitte Hamann, Winifred Wagner oder Hitlers Bayreuth, München 2003, 401 s. 12 Pure i Meistersinger, messo in scena in ogni raduno annuale del partito nazista dal 1933, trovano con pena un pubblico fra i membri del partito, cf. Siegfried Zelnhofer, Die Reichsparteitage der NSDAP in Nürnberg, Nurembergo 2002, 187-190. 13 Cf. Michel Poizat, Vox populi, vox Dei, Paris 1996, 154-227. 9 66 antropologia e storia mani colti. Rispetto al suo successo popolare, Wagner non riusciva in quello che Verdi aveva realizzato: la sua musica non sarà cantata dal popolo – per il popolo era troppo difficile. E come il suo mito non è mai un dramma che enfatizza la resistenza contro una forza ingiusta politica – a eccezione del Rienzi –, non poteva neppure servire da metafora di rivendicazioni politiche. È un mito in cui la pulsione di morte richiede l’abnegazione e la dissoluzione del soggetto in un sentimento oceanico della comunità che va alla morte e in questa chiave fu utilizzato dal nazismo14. Come riportato da Gabriele D’Annunzio in un articolo nella Tribuna del 3 agosto 1893, Wagner è un’artista della rinuncia quando scrive a Liszt: “Posseggo ora un calmante che aiuta a trovare il sonno ed è un ardente e profondo desiderio della morte. Piena incoscienza, dissolvimento di tutti i sogni, annientamento assoluto: – ecco la liberazione finale”15. La forza del canto Wagner potrà invece, assistito da Gramsci, darci alcuni accenni per capire l’effetto e la funzione popolare della musica di Verdi. Ancora oggi tenuta come una dei media / 2 – comicità e politica maggiori dell’unità e del Risorgimento dagli storici italiani16, questa ricezione della sua musica è altrove anche messa in questione17. Preferisco però di prestare fede a un conoscitore del popolo italiano come Gramsci, per il quale il gusto popolare per il melodramma sostituisce quello del romanzo in altri paesi: secondo lui Verdi ha per la cultura popolare italiana lo stesso ruolo che la letteratura popolare di Eugène Sue aveva in Francia18. Il melodramma ha sostituito per lui nel popolo la cultura libresca, il libretto dell’opera lirica funziona da modello al gusto sociale e sentimentale del popolano italiano, il melodramma influisce persino sul suo modo di scrivere19. Il melodramma preforma e forma dunque attraverso il canto la relazione alla lingua italiana e al corpo. Unisce in un certo senso quello che è separato quando si deve parlare l’italiano – che è il caso del popolano – come una lingua straniera. Il melodramma lega nel canto la voce della lingua con una figura della voce inconscia perduta, la voce prima della lingua, la voce fantasmatizzata della madre. È la voce dei primi mesi della vita che dà l’involucro sonoro in cui si imprimono l’espressione delle passioni, del piacere e del disagio. L’opera lirica propone col canto un legame sociale affettivo che unisce il simbolico a questo semiotico sonoro delle pul- Citazione da: Valentina Valentini, La tragedia moderna e mediterranea. Sul teatro di Gabriele D’Annunzio, Milano 1992, 71. 15 Cf. Giovanni Gavazzeni, Armando Torno, Carlo Vitali, O mia patria, storia musicale del Risorgimento, tra inni, eroi e melodrammi, Milano 2011. 16 Così in una tesi del 1996, Birgit Pauls cit. nega per esempio la fortuna popolare della musica Verdiana prima dell’unità e vuole interpretarla come una riscrittura mitica ulteriore. Questa tesi mi pare incorretta perché troppo influenzato da un’analogia col sistema teatrale tedesca e anche colla situazione del teatro tedesco odierno. 17 QC, Quaderno 9, 1136-1137. 18 QC 969. 19 Cf. Michel Poizat, L’opéra ou le cri de l’ange, Essai sur la jouissance de l’amateur d’opéra, Paris 1986.51-155. 14 67 Q uaderni sioni20. È per questo – come nota giustamente Gramsci – che l’emozione del canto lirico è per un italiano non la stessa di quella per uno straniero, anche se l’opera italiana ha avuto una fortuna internazionale, perché “al di sotto […] c’è una più profonda sostanza culturale più ristretta, più nazionale-popolare”21. Il popolano coglie e sente dunque questo strato del linguaggio musicale italiano. Lo storico di musica Carlo Vitali rileva del resto l’effetto pedagogico dell’opera italiana per una lingua comune22. Come, al contrario della lingua normativa parlata, l’italiano del libretto è avvolto in un canto che proietta affetti, tocca la pelle e il cuore, la memoria di questa prima voce, oggetto di desiderio, può ritornare cantando. Mobilitando la memoria di un paradiso sonoro perduto, il canto e soprattutto il cantare insieme è capace di realizzare in modo performativo l’illusione del recupero di questa prima voce. In questo risiede la forza emotiva e quella politica, ma anche il pericolo politico dell’opera. Verdi sta per la prima, Wagner, come fu utilizzato dai nazisti, per la seconda. La reificazione dell’oggetto voce, come la praticavano Hitler e i suoi sulla scena politica, escudendo ogni separazione del soggetto e dunque anche la castrazione simbolica, aveva trovato nel dramma musicale di Wagner il modello23. Postscriptum Da alcuni decenni, questa reificazione della voce incontra sulle scene tedesche e anche su quella di Bayreuth la volontà di decostruzione dell’opera d’arte totale, del Gesamtkunstwerk. Dis-articolando la fusione delle arti in un parallelismo dei linguaggi scenici, lo scopo dei direttori attuali è di aprire per lo spettatore fra occhio e orecchio uno spazio per la sua memoria e per il suo immaginario. Tale fu il lavoro di Wieland Wagner, di Robert Wilson o Heiner Müller. Altri mirano a restituire al dramma di Wagner la sua memoria storica e culturale. Dopo il Ring di Patrice Chéreau nel 1976 a Bayreuth, il Parsifal da Stefan Herheim del 2008 mi pare il più paradigmatico per una tale visone: la sua messinscena s’ispira per questo al metodo allegorico di Hans Jürgen Syberberg, il quale aveva già esplorato in alcuni film, a partire degli anni settanta, l’impatto di Wagner, della sua scenografia e della sua musica sull’immaginario tedesco24. La fortuna popolare dell’opera di Wagner ne ha potuto trovare oggi un bell’inizio25. QC, II, 1193-94. Gramsci, per chi importa dappertutto l’aspetto sociale, aggiunge: “ Non basta: i gradi di questo ‘linguaggio’ sono diversi: c’è un grado ‘nazionale-popolare’ (e spesso prima di questo un grado provinciale-dialettale-folcloristica), poi un grado di una determinata ‘civiltà’ che può determinarsi dalla religione (per esempio cristiana, ma divisa in cattolica, protestante e ortodossa ecc.) e anche del mondo moderno, di una determinata corrente culturale-politica.”. 21 Cf. Carlo Vitali, Opera, affare di Stato, in: Gavazzeni et altri cit., 185-196. 22 Cf. Michel Poizat, Vox populi, vox Dei, cit. 23 Per esempio: Ludwig, Requiem für einen jungfräulichen König (1973), Hitler, ein Film aus Deutschland (1977), Parsifal (1983), cf. Cahiers du cinéma, Syberberg, hors série, février 1980. 24 Questa messinscena fu trasmessa l’11 agosto 2012 da Arte. 20 68 La ricerca delle origini L’invenzione delle feste dopo l’Unità vincenzo m. spera L’ argomento proposto riguarda la re-invenzione di un rituale molto antico messo in scena nelle Marche e in Molise. A seguire è presentato un altro cerimoniale inventato di sana pianta e senza alcun collegamento con antichi rituali. I primi due riguardano la reinvenzione del Ver Sacrum dei Piceni, il primo, dei Sanniti il secondo1. Il terzo riguarda la rappresentazione della cultura etrusca proposta come nucleo festivo in un moderno quartiere di Perugia. Le evocazioni di arcaici miti e antiche culture hanno assunto, in questi esempi (e nei tantissimi altri che sarebbe possibile esaminare osservando quanto similmente è accaduto e accade nelle altre regioni), nelle specifiche motivazioni locali, il significato di festa di paese, cioè di azione con cui e in cui una comunità intende presentarsi, a se stessa e a chi è chiamato ad assistervi, esibendo una sorta di credenziale storica ripescata nel passato più lontano. I tre esempi proposti sono solo una sorta di campionatura di quanto dalla fine del XIX secolo ad oggi è stato 1 re-inventato e continua a essere inventato come espressione di antiche tradizioni che permangono nella cultura popolare che, proprio per questo è diventata degna della nuova attenzione che, a volte cresciuta a dismisura, genera una sorta di ipertrofia folclorica. Prima di procedere nell’esposizione è necessario fare alcune considerazioni. La necessità è posta dall’attuale attenzione per le tradizioni popolari e la nuova definizione dei relativi temi e problemi, così come si vanno configurando alla luce della loro riutilizzazione nella cultura contemporanea, con una forte accentuazione di promozione di una nuova e più soddisfacente immagine turisticamente appetibile e produttiva. Temi e problemi utili per inquadrare meglio il fondamento teorico-metodologico e l’indirizzo interpretativo su cui andrebbe ricalibrata almeno una parte della ricerca demo-antropologica. Negli anni successivi al secondo dopoguerra continuano a essere attive le implicazioni politiche dell’utilizzazione del folklore come strumento di ridefinizione non solo di Sulla reinvenzione del Ver Sacrum, rilevato nei due centri indicati, rimando a quanto in parte già pubblicato negli atti del XXème Atelier Eurethno, tenuto presso l’Università di Braga (Portogallo) dal 31agosto al 3 settembre 2066, sotto la direzione dei professori di etnologia Jocelyne Bonnet (Università di Montepellier III) e José Da Silva Lima (Università cattolica di Braga) (Spera, 2007; 2011). 69 Q uaderni appartenenza culturale, locale e nazionale, ma anche di appartenenza sociale e ideologica. Le connotazioni di genuinità e autenticità dell’evento popolare sono correlate a una concezione secondo cui il documento folclorico riattivato o riscoperto è direttamente proveniente dal passato. Il folklore, inoltre, è recepito e posto come attestazione di una storia culturale minore e marginale che deve essere recuperata. L’operazione di “recupero” è condotta spesso con modalità e fini piuttosto ambigui quanto politicamente confusi. Il “recupero” avviene sempre in maniera selettiva e precostituita da chi tale “recupero” pone in essere, il quale, spesso, non appartiene interamente alla cultura su cui interviene. Ogni evento o documento folclorico, qualora possa essere nobilitato da caratteristiche ritenute arcaiche o semplicemente antiche, è assunto e proposto come elemento fondativo di un’intera comunità che dal quel momento si vuole debba in esso riconoscersi. Ecco allora che un qualsiasi documento o “ricordo” può essere individuato e assunto quale elemento su cui una comunità (in genere gli intellettuali e gli storici locali, i vai amministratori, le associazioni culturali, le organizzazioni turistiche, le proloco e simili) ricorda e sceglie di accettare, di “riscoprire” i propri miti fondativi. Si mette in moto il contagioso meccanismo favolistico del “come eravamo una volta”. Il riconoscimento è compiuto sempre con lo scopo di legittimare e di ridefinire, in una presunta autonomia e supposta unicità, la nuova realtà e l’immagine di una comunità, così com’è nel momento del recupero. Un siffatto atteggiamento, tuttavia, non è nuovo; compare, sia pure con motivazioni e utilizzazioni ideologiche storicamente diverse, dopo l’unificazione nazionale (1860). 70 Si tratta di un atteggiamento che definisce la concezione e le modalità di approccio alle tradizioni popolari, che si mantiene fino ai nostri giorni, pur nelle contrastanti proposizioni politiche. Caratteristica, questa, che è dato rilevare in moltissimi esempi di feste ormai ritenute e presentate come “autenticamente tradizionali”. La definizione di “tradizionale” rivela tutta la sua ambiguità semantica, duttilità ideologica e adattamento socio-culturale. In forza di quest’ambiguità, un evento ridefinito “tradizionale”, in senso antiquariale, è utilizzato per l’attuale rifondazione mitica di una comunità, che percepisce il rischio dell’anomia, della perdita d’identità e d’immagine, confluendo in un conteso di forte omogeneizzazione. Grazie all’inventio dell’arcaico si attuano operazioni di rivisitazione del folklore che vanno dall’affermazione della «memoria di classe» degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, all’assunzione del dato folclorico come nucleo rifondativo delle “antiche radici” delle “identità locali”. Azione che va ampliandosi sempre più, aderendo a quanto l’UNESCO ha proposto circa la riappropriazione, potenziamento ed utilizzazione delle culture locali, materiali e immateriali, cui è riconosciuta la dignità di patrimonio culturale comune. Su questa operazione la nuova società contemporanea rielabora una nuova idea di cultura popolare e tradizionale, finalizzata all’impresa turistica ed economica, secondo le esigenze di una realtà moderna, borghese e, di fatto, non più tradizionale in cui sempre maggiore spazio è dato a tutto quanto sia possibile identificare o far convergere nella qualificazione del “turismo culturale”. L’origine di molte feste di paese, o di alcune loro parti spettacolari che caratterizzano parecchie manifestazioni popolari, è antropologia e storia sempre presentata come talmente antica che «affonda le radici nella notte dei tempi». In questo modo è proposto un atteggiamento arcaistico e di fondazione identitaria ampiamente diffusi e alimentati dalle varie organizzazioni turistiche e culturali. Proprio su questa concezione e sulla relativa resa in immagine poggia il senso con cui prende ogni volta corpo la riscoperta della «autenticità» e «antichità» della tradizione locale. L’attività di recupero e reinvenzione è esercitata sul plastico contenitore di comportamenti e attività mitico-rituali delle feste religiose, che ogni comunità possiede tradizionalmente. Spesso si tratta di eventi e feste documentate storicamente o anche d’introduzione moderna. Se l’aspetto formale e gli elementi messi in gioco contraddicono l’affermazione di antichità o rimandano alla realtà contemporanea, vi sarà sempre qualche erudito che ne affermerà la provenienza antica e perfino arcaica2. L’auto-legittimazione si compie attraverso meccanismi tra i più vari e fantasiosi, compresa la citazione di episodi storici locali «riscoperti in antichi statuti dimenticati», o in qualche frammento di cronaca poco o affatto nota, o completamente inventata, secondo i meccanismi e le motivazioni evidenziati da Hobsbawm (1987:6-9). L’auto-legittimazione si afferma anche attraverso indagini compiute nella memoria degli anziani, i quali, indicati ed utilizzati come fonti di riferimento, quasi sempre appartengono a una o più generazioni passate. Le loro informazioni sono spesso difficilmente controllabili, oltre l’en- 2 / 2 – comicità e politica fasi e la sollecitazione della citazione di chi ha effettuato la ri-scoperta e la riscrittura della memoria. Anche in questo caso gli autori delle indagini, specie tra la fine del XIX secolo e gli inizi del successivo, sono prevalentemente gli eruditi, gli storici e i folcloristi locali; oggi sono anche i vari assessori (comunali, provinciali regionali), le Pro-loco, gli imprenditori turistici e gli operatori culturali. Attività che, secondo una moda affermatasi in Italia già alla fine del XIX secolo, si affianca alle attività professionali degli eruditi locali, spesso anche politicamente significative. Condizione di preminenza e di autorevolezza che conferisce loro, specialmente nei piccoli centri, particolare visibilità e credito. Un altro aspetto del problema, a monte dei fenomeni prima indicati, chiama in causa direttamente i demologi, gli antropologi e quanti, a vario titolo, sia pure con molta passione, compiono ricerche e indagini specifiche. Molto spesso nelle comunità nelle quali è condotta la ricerca demo-antropologica, la cultura e le tradizioni locali sono poco considerate o addirittura vissute come espressione di attardamento e di sottosviluppo. In queste realtà l’intervento di estranei, o di persone riconosciute appartenenti all’alta cultura, conferisce nuova dignità alle espressioni delle tradizioni locali, che possono essere accettate come documenti dei tempi e passati. Iniziano, così, operazioni di «riscoperta delle proprie radici» che sono sempre supposte «antiche e lontane», indefinito «retaggio dei secoli passati». Così come ho avuto modo di rilevare nell’analisi di una festa patronale in un paese della Basilicata, conosciuta come “Il Maggio di Accettura” (Spera, 1987; 1996; 1998; 2014) assurta a emblema identitario locale, e anche nello studio di un Carnevale pugliese ricondotto al Medioevo e, da alcuni storici e folcloristi locali, addirittura ai Fasti di Ovidio (Spera, 2004). 71 Q uaderni Nelle ricerche di questo tipo, in genere, si trova sempre ciò che si cerca, grazie alla complicità inconsapevole delle fonti e del modo con cui vengono consultate. In una realtà come quella italiana, ancora a forte suggestione classicistica e antiquaria, l’antico, l’arcaico sono utilizzati quali parametri attestativi di credibilità, di dignità culturale. La patina mitica e storica ridefinisce più compiutamente la dignità culturale di qualsiasi evento, documento, gesto o consuetudine di cui sia possibile individuare o solo supporne la provenienza «dalla notte dei tempi». Questo avviene in un’ottica che schiaccia il tempo arcaico, mitico e indistinto del primitivo, sul tempo “antico” e “degli antichi”. Il tempo, in cui agisce la re-inventio grazie al duttile significato di “antico” e di “storico”, di “primigenio” e di “arcaico”, è configurato come tempo lontano, come tempo dell’inizio, del ricordo, del “come eravamo”. Il tempo passato, nella vaghezza mitica e letteraria, diventa il luogo privilegiato di ogni possibile invenzione in cui agisce il controllo della mutevolezza del tempo presente. Le notizie e i frammenti, recepiti come provenienti da un passato vago quanto ipotetico, pur contenenti frammenti di realtà storica, sono riferiti alla cultura preclassica e classica, dalla quale assumono una veste di credibilità e di dignità. Gli elementi ritrovati e reinventati si fondono con quelli di età medievale e rinascimentale, o di qualche secolo fa, o addirittura di alcuni decenni precedenti l’epoca della riscoperta, presunta o reale che sia. Le operazioni di recupero e di antichizzazione delle tradizioni si configurano come occasioni di riscatto sociale e culturale dei piccoli centri periferici rispetto alle città e, di conseguenza, enfatizzano le tradizioni locali presentate come unicum. Si tratta d’interventi 72 di facile radicamento che tendono a trasformare e riconsiderare, ora positivamente e nell’ottica della ricostruzione del documento culturale e folclorico “tipico”, “originario” e “locale”, le condizioni di marginalità vissute in passato come discriminanti negative e indice di arretratezza. La stessa condizione di marginalità, in tal modo, è assunta come una sorta di privilegio ed è condivisa come causa e vettore di conservazione di autenticità, di genuinità; quindi come deposito di «tradizione antica». Il documento folclorico, riclassificato come patrimonio culturale importante, è acquisito, rielaborato e riproposto come una sorta di emblema del paese nel quale si compie la riscoperta e la riappropriazione. La riscoperta della tradizione paesana, in cui la condizione di marginalità ne legittima la “autenticità”, acquista anche le valenze di una vera e propria panacea per una terapia economico-sociale e di rifondazione identitaria. La nuova immagine, subito condivisa e socialmente trasversale, è utilizzata per promuovere e difendere la visibilità del paese, di ciascun singolo paese o piccola comunità che si scopra e si proponga come unicum in un conteso tendente, prima, all’omologazione nazionalistica, ora, all’omologazione della globalizzazione. Interessante e indicativo della portata del problema è quanto ho avuto modo di verificare dopo la pubblicazione di alcuni saggi, in cui avevo descritto e analizzato alcune rappresentazioni di Carnevale osservate in Basilicata. I testi di quei saggi sono stati utilizzati come una sorta di sceneggiatura e base interpretativa per il Carnevale di Cirigliano, di Tricarico, di San Mauro Forte, di Allano (in provincia di Matera), di Satriano di Lucania e di Teana (in provincia di Poten- antropologia e storia za). La stessa cosa è avvenuta per il rituale del “Battesimo delle bambole” di Barile, della “Passata” di Pescopagano e di Baragiano (in provincia di Potenza). Si trattava di azioni, ormai sganciate dal senso che aveva consentito la trasmissione, che in forza del riconoscimento loro attribuito con la pubblicazione di saggi specifici o con la realizzazione di documentari televisivi stimolati da quei saggi, hanno riguadagnato l’attenzione di quanti ritenevano si trattasse di manifestazioni di poco conto. A distanza di qualche anno ho trovato che quelle azioni, prima realizzate in forma spontanea e non strutturata, erano proposte come “uniche ed autenticamente popolari”, organizzate dai locali circoli culturali e dalle Pro-Loco, con finanziamenti erogati dalle Amministrazione e dagli Enti locali, provinciali e regionali. I risultati delle relative pubblicazioni demo-antropologiche, indicati come “scoperte”, assumono un ruolo centrale nell’immagine e nell’immaginario che una data comunità rielabora di se stessa. Le scoperte, in cui si cerca ciò che si vuol trovare, sono sempre più esibite come testimonianze della permanenza di antiche e arcaiche tradizioni che acquistano maggior valore nella ridefinizione delle identità ed economie locali e dunque sono degne di riattivazione e invenzione perché «affondano le radici nella notte dei tempi», lì dove il passato è il luogo della legittimazione culturale del presente. / 2 – comicità e politica Il “Ver Sacrum” dei Piceni a Monterubbiano Il primo esempio riguarda una festa che ho avuto modo di osservare direttamente alcuni anni fa a Monterubbiano, piccolo centro di quattromila abitanti in provincia di Ascoli Piceno. La festa vuol essere l’evocazione dell’arcaico rituale del Ver Sacrum dei Piceni3; contiene elementi di particolare interesse che rimandano a cerimoniali religiosi e a momenti storici diversi. Il tutto è fuso in un impasto cerimoniale di buon effetto. La festa, conosciuta come Sciò la pica (scaccio del picchio) è stata re-inventata il 1896, dopo la sospensione che sarebbe avvenuta, secondo alcuni eruditi locali, alcuni anni prima dell’unificazione nazionale. Luigi Mannocchi (1896: 126-127; 1911: 19-21), un appassionato di studi storici di un paese vicino a Monterubbiano, pubblica nel 1896 una descrizione della festa secondo quanto dice di aver trovato in un antico statuto comunale. È lo stesso anno della reintroduzione della festa avvenuta per iniziativa di Cesare Lucchetti, erudito personaggio di Monterubbiano «assai amante e geloso delle patrie memorie», il quale costituì un’associazione con «lo scopo di far rivivere una buona volta le antiche feste paesane, segnatamente quella di Pentecoste, andate in disuso». La festa era collegata a un’importante fiera che avrebbe incluso, nelle sue edizioni antiche, anche lo Sciò la pica. Nel 1903 una seconda descrizio- Il Ver Sacrum, Primavera Sacra, è un rituale degli antichi abitatori dell’Italia centrale (Sanniti, Sabini-Sabelli, Piceni, Latini e le locali articolazioni territoriali in tribù). I primi nati dopo una calamità (carestia, pestilenza, guerra) erano dedicati a Marte. Il voto veniva espresso, originariamente, con il sacrificio dei consacrati, animali e umani; successivamente con l’allontanamento dalla comunità dei giovani al raggiungimento della maggiore età. Gli espulsi, secondo cerimoniali particolari di cui parlano Festo, Strabone, Livio, Varrone, Macrobio, Seneca, Plinio ed altri, seguivano uno degli animali sacri a Marte. Il picchio, il toro, il lupo erano considerati teofanie di Marte. Nel luogo in cui questi animali guida (Donà 2003: 25-35) si fermavano erano sacrificati e fondati i nuovi insediamenti. 3 73 Q uaderni ne è pubblicata da Luigi Centanni (1903:7480), storico di Monterubbiano. La descrizione, ripresentata in seguito da Giuseppe C. Pola Falletti Villafalletto (1942, III: 306-308) è più precisa e fornisce anche alcuni riferimenti relativi alla consuetudine, già allora scomparsa, di portare in chiesa l’alberello di ciliegio cui era legato un picchio: nucleo centrale dell’arcaico rituale del Ver Sacrum dei Piceni. La rappresentazione dello Sciò la pica, che ho rilevato nel 1993, ha luogo il giorno di Pentecoste e non si discosta da quella descritta nel 1896. Quella descrizione costituisce una sorta di sceneggiatura piuttosto rigida, fedelmente rispettata ancora oggi. In un foglio volante, a uso celebrativo e turistico, è scritto che «il rito antichissimo dello Sciò la pica vanta una continuità storica praticamente ininterrotta» (Foglio volante, 1993). La continuità è solo enunciata e non documentata. In queste circostanze, in cui è stuzzicato l’amor proprio e l’enfatizzazione dell’immagine pubblica e culturale di una piccola comunità, una tal enunciazione è assunta al pari di un’attestazione storica. Centro rituale dell’azione festiva è un alberello di ciliegio che ha ancora i frutti attaccati ai rami. È sorvegliato da alcuni uomini che indossano il guazzarò (o guazzarone, da “guazza”, rugiada). L’antico abbigliamento dei contadini marchigiani (Pierangelini, Scotucci, 1989:4-17) è diventato una sorta di emblema della locale civiltà contadina. L’interesse per questo capo d’abbigliamento, povero ed essenziale che ricorda il saio di s. Francesco, si è diffuso dopo la pubblicazione delle inchieste napoleoniche (Tassoni, 1973:342). Nell’anno della mia rilevazione il guazzarò era proposto come souvenir con copie di altri oggetti utilizzati 74 nella festa. Dalle vie di accesso alla piazza confluiscono giovani che indossano costumi rinascimentali da paggio. Alcuni recano i vessilli delle corporazioni, altri trombe, tamburi, alabarde. A piccoli gruppi arrivano persone di ambo i sessi con costumi che riproducono quelli dei dipinti medievali e rinascimentali. Il Capitano dell’Armata di Pentecoste, i nobili, i gruppi delle quattro corporazioni si dispongono in ordine di fronte alla loggia del Palazzo del Comune. Dalla loggia, annunciato da trombe e rullio di tamburi, il Podestà legge le modalità dello svolgimento della festa. Subito dopo i gruppi si compongono in corteo. Inizia la sfilata processionale accompagnata dal rullo dei tamburi, dal suono stridulo delle chiarine e dall’esplosione di fuochi d’artificio. Il corteo procede dalla Collegiata di s. Maria dei Letterati verso la chiesetta campestre di s. Maria del Soccorso. La Madonna, sotto quest’ultima denominazione, un lontano giorno di Pentecoste avrebbe miracolosamente liberato Monterubbiano da una non ben precisata soggezione a un tiranno. Il corteo è aperto da un battistrada a cavallo seguito dal gruppo di sbandieratori e tamburini, dal gonfalone del Comune sorretto da alcuni valletti, dal sacerdote con la croce astile seguito dalle confraternite, dal capitano degli armigeri con la castellana, quindi da cortigiani, da paggi, da scudieri, dai nobili e dai rappresentanti dei quattro gruppi delle corporazioni: Artisti, Mulattieri, Bifolchi, Zappaterra. Ciascun gruppo di figuranti è preceduto dal labaro con le insegne della corporazione, da un alfiere che regge una costruzione lignea, il cero, alta più di un metro e mezzo. Sul cero degli Artisti è riprodotta una casetta con un pupazzo e alcuni attrezzi. I Mulattieri mostrano un antropologia e storia bambolotto su di un calesse e un quadretto con l’immaginetta del Santo protettore della corporazione. Sul cero dei Bifolchi c’è un pupazzo con la pariglia di buoi. Un altro pupazzo vestito con il guazzarò è sul cero degli Zappaterra. Segue, infine, un carro agricolo decorato con frasche e fiori, trainato da due buoi e condotto da altri individui che indossano il guazzarò, cappello di paglia e fazzoletto rosso al collo. Sul carro vi sono alcune donne in costume tradizionale che mostrano i prodotti locali. Un secondo gruppo di uomini in guazzarò chiude il corteo. Uno di loro, aiutato da altri due, regge un piccolo albero di ciliegio. Tutti gli altri recano attrezzi agricoli che fingono continuamente di utilizzare come se fossero nei campi. La pianta di ciliegio, con i frutti se Pentecoste cade nel periodo adatto, è stata tagliata abusivamente in un luogo segreto. Il proprietario non può lamentarsene; così come avveniva e avviene ovunque per le feste del “Maggio”, come rilevato in Basilicata, Calabria, Lazio, Umbria, Marche. L’alberello, inoltre, ancora alla fine del XIX secolo, era «decorato di tutte le primizie della stagione e di fiori» (Mannocchi, 1896:126). Questo tipo di decorazione oggi è assente. Come nella prima descrizione, una ghiandaia è ospitata in una gabbia legata ai rami più alti e non legata con lo spago. Il trasporto dell’alberello di ciliegio e le azioni degli uomini in guazzarò costituiscono il centro spettacolare più vivace della festa, in contrasto con la seriosità del corteo storico. Si tratta, a mio avviso, di una rappresentazione collegabile ai rituali del “Piantamaggio”, ancora attivi nelle regioni dell’Italia centrale. Il senso rituale dell’azione drammatica è accentuato dagli “zappaterra” i quali possono insolentire chiunque, attivando / 2 – comicità e politica un comportamento di tipo carnascialesco. La celebrazione della festa di Pentecoste nel Medioevo comprendeva una grande fiera che consentiva ampia libertà per tutti. Si attuava e si attua, così, una sorta di rovesciamento dei ruoli che consente non solo le aggressioni, ma anche comportamenti di tipo carnevalesco; comprese le rappresentazioni mimate delle operazioni relative alle varie attività agricole. Ogni tanto il gruppo si ferma, l’alberello è poggiato a terra e gli uomini mimano l’operazione della piantagione e del rincalzo. L’uomo con la canna, gridando ripetutamente «sciò, sciò» (vai via), percuote il ramo e la gabbia della pica; poi, all’improvviso, agitando sempre la canna aperta in cima in modo che faccia più rumore, si rivolge agli spettatori e ne percuote alcuni. Un altro “zappaterra” beve ripetutamente da una trufa (fiasca di terracotta a forma di ciambella) e spruzza il vino di cui continuamente si riempie la bocca. Si rivolge per lo più verso le donne e compie veloci puntate nelle strade laterali bagnando di vino chi vi trova. L’uomo con la zappa fa improvvise incursioni fra la gente: spinge l’attrezzo in avanti facendolo strisciare sull’asfalto. Un altro individuo del gruppo, azionando l’apparecchio che serve per irrorare lo zolfo sulle viti, fa il gesto di voler irrorare quanti gli capitino a tiro. A volte gli “zappaterra” fingono di zappettare fin sotto i piedi degli spettatori. Tutto il gruppo, ogni tanto, lascia il corteo per ripetere queste azioni dinanzi alle case o nelle piazzette dove si raccoglie un po’ di gente, o dove abitano amici cui offrono qualche ciliegia. Queste azioni sono ripetute continuamente, nel tragitto di andata e al ritorno nella piazza centrale. Qui l’attività dello “spruzzatore” di vino e degli altri uomini in 75 Q uaderni guazzarò si fa più intensa e aggressiva, con veri e propri inseguimenti dei passanti o di chi resta ad assistere alle loro esibizioni. Il gruppo ripete gli stessi comportamenti anche il martedì successivo, giorno turisticamente dedicato alla degustazione della gastronomia locale. Giunti dinanzi alla chiesetta della Madonna del Soccorso i quattro ceri, benedetti dal sacerdote, sono disposti a formare un quadrilatero davanti all’ingresso della chiesetta dove è allestito l’altare per la messa. L’alberello di ciliegio e il gruppetto di uomini in guazzarò restano a distanza; a volte si fermano sulla strada, oppure nei pressi del palco, ai bordi dello spazio in cui il pomeriggio ha luogo la Giostra dell’Anello, introdotta nel 1965 a imitazione della Quintana di Foligno, reinventata nel 1946 dopo la lettura di antiche carte e statuti comunali. Le Quintane, le Giostre dell’Anello, i cortei storici aggiungono potenzialità turistiche alle feste contemporanee di carattere religioso. In un foglio volante diffuso dalla Pro Loco e dal Comune, la festa è presentata come «un’antica Sagra dei Piceni» ed è avallata l’origine arcaica del paese. L’introduzione della nuova definizione è più comprensibile per una festa che voglia essere riconosciuta nella sua unicità. Il messaggio, inoltre, afferma l’origine etnica richiamando il collegamento con i Piceni, da cui discenderebbero gli abitanti di Monterubbiano. La nuova definizione di Sagra dei Piceni è turisticamente più comprensibile di quella più dotta di Ver Sacrum. Il collegamento con il Ver Sacrum, tuttavia, è mantenuto dalle organizzazioni 4 76 culturali che continuano a proporlo come un reperto fossile sopravvissuto a oltre duemila anni di storia. La probabile connessione del trasporto e piantagione dell’alberello di ciliegio, con la sopravvivenza del rituale del Ver Sacrum, è solo accennata da Mannocchi che, a conclusione del suo articolo del 1896, ricordando la festa di Pentecoste, lo statuto comunale del 1574, Festo e Plinio scriveva: «Ora questa costumanza dello Scaccio alla Pica mi fa nascere il sospetto che essa altro non sia se non una reminiscenza delle feste antichissime, che, in onor della Pica, la nostra guida nel Piceno, celebravano i nostri popoli primitivi». Nel primo numero del periodico «Il Picchio», pubblicato proprio a Monterubbiano nel 1892, era stata avanzata l’idea che il termine “Pica” sarebbe la volgarizzazione di “Picchio”, come propone lo stesso Mannocchi sei anni dopo (1904: 20). Quel giornale deve essere stato letto da Cesare Lucchetti, che può aver subìto il fascino del collegamento proposto tra il “picchio” (picus), e la “pica” (pica), la gazza o ghiandaia legata tra i rami dell’alberello di ciliegio4. La gazza e la ghiandaia competono con l’uomo nel cibarsi di ciliegie. Da qui, probabilmente, l’azione rituale dello suo scaccio, del suo allontanamento, il cui senso è coerente con quello della piantagione nelle strade e, un tempo, in chiesa dell’alberello di ciliegio, dello zappettare il selciato, dell’irrorare le vigne e spruzzare vino sulla gente. La pica, oggi protetta da una gabbia, un tempo era legate ai rami dell’alberello dal quale un La derivazione del termine “pica” dal latino “picus” sarebbe inesatta; a Monterubbiano è accettata per i riferimenti mitici proposti da Mannocchi. Ovunque con “pica” (pica) è indicata sia la gazza, sia la ghiandaia; inoltre con “pica è indicato qualsiasi uccello o individuo fastidioso che gridi con insistenza. antropologia e storia contadino continuamente faceva mostra di scacciarla, le dava lo sciò, appunto. Comportamento opposto, quindi, a quanto riferito nel mito fondativo dei Piceni, i quali, come i Sanniti, sacrificavano l’animale nel luogo in cui si fermava. Quello era il luogo indicato dalla divinità per la fondazione della nuova città (Donà 2003: 25-48). Il picchio, picus, animale caro a Marte e sua manifestazione, infatti, posandosi sulla lancia di chi guidava il gruppo (come figurato in alcune antiche monete), o sugli alberi dai quali non si sarebbe mosso, avrebbe indicato il luogo in cui i giovani, allontanati dal luogo di origine in adempimento del Ver Sacrum, dovevano fermarsi per fondare un nuovo villaggio. Il gesto degli uomini in guazzarò, invece, il trasporto processionale dell’alberello di ciliegio un tempo decorato, l’azione di “scaccio” della “pica” possono avere un altro significato. Tutti rimandano direttamente alle feste del “Maggio” e del “Piantamaggio”, ancora molto diffuse nel folklore dell’Italia centro-meridionale. Il loro comportamento, inoltre, è molto vicino a quanto è rievocato con la sfilata delle corporazioni e con l’offerta del cero alla Madonna. Sono cerimoniali interni ai rituali delle feste del “Maggio”, variamente assorbiti nelle feste cristiano-cattoliche, in particole nei cerimoniali della festa di Pentecoste. Azioni sceniche sono presenti altrove, in particolare nelle regioni dell’Italia centrale e meridionale, come rilevato nella festa di s. Michele nel bosco di Montefogliano, nel Comune di Vetralla, nel Lazio (Spera, 2004: 236-371). Il legame con i rituali relativi alle feste del “Maggio”, inoltre, evidenzia come la gazza, la ghiandaia, e con esse il cuculo, siano uccelli legati alla previsione del futuro, quando, a maggio, si fermano sui ciliegi, se- / 2 – comicità e politica condo quanto conosciamo dalla letteratura folclorica europea. La battitura dei rami per scacciare questi uccelli ne fa cadere i frutti: dal loro numero si predirebbe il numero degli anni da vivere. Un’altra considerazione riguarda l’uso del guazzarò che ha assunto valore connotativo dell’identità locale negli ultimi decenni, in particolare dopo la pubblicazione delle Inchieste Napoleoniche che ne danno ampia notizia. Il suo uso attuale, staccato dal lavoro, va posto in relazione con l’enfatizzazione ideologica, negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, del folklore come strumento di autocitazione. In questa riproposizione l’abbigliamento dei contadini e dei più poveri è anche diventato uno dei riferimenti centrali e segnaletici delle manifestazioni di Carnevale (Spera, 1979: 75). A Offida, sempre nelle Marche, il guazzarò o guazzerone costituisce ormai l’elemento distintivo del locale mascheramento di Carnevale. Il costume tradizionale locale, in origine limitato ai contadini e ai ceti più poveri, diviene a Monterubbiano, come altrove, emblema e icona di una comunità che lo assume come propria immagine, riproponendolo come mascheramento o, meglio, travestimento che individua il tipo locale, lo “zappaterra”. Queste osservazioni rendono solo in parte il senso del perché un mito arcaico, abbinato a un abbigliamento povero, sia stato riconsiderato e riproposto, a Monterubbiano, come espressione del Ver Sacrum e quindi come “Sagra dei Piceni”. Una considerazione possibile è che nelle riutilizzazioni e reinvenzioni dell’antico e dell’arcaico la dimensione cronologica è assorbita nella concezione di un tempo in cui l’arcaico e l’antico sono equivalenti. L’antico e l’arcaico non sono tempi storici, cronolo77 Q uaderni gicamente distinti. Sono entrambi assorbiti nel tempo mitico, nel tempo delle origini. Entrambi sono unificati in un tempo schiacciato nel passato non definito, in cui tutto può essere assorbito e da cui ogni riferimento può riaffiorare liberamente, senza ordine. Il riferimento mitico e la rappresentazione medievale sono utilizzati nella medesima messa in scena. Sono emblemi, segni di un’appartenenza etnica ormai lontanissima, interamente ripresa in ambito colto e letterario; appartenenza subito acquisita e condivisa da tutti. Il “Ver Sacrum” dei Sanniti a Bojano Un esempio di re-invenzione di un rito arcaico, che ha avuto luogo in età contemporanea, riguarda la rappresentazione che da qualche anno si svolge a Bojano, cittadina di oltre ottomila abitanti in provincia di Campobasso in Molise. L’azione, tra l’evocazione mitico-storica e la festa paesana, è stata introdotta da un gruppo di donne della locale sezione della F.I.D.A.P.A. (Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari). La sfilata e la rappresentazione sono presentate, dalla prima edizione, come Corteo storico e rappresentazione del Ver Sacrum e di alcuni rituali dei Sanniti. L’iniziativa, sostenuta dalle amministrazioni locali e regionali, si è sviluppata grazie alle condizioni particolari maturatesi nel corso degli ultimi anni. All’origine c’è un evento politico e amministrativo risalente al 1963, quando il Molise diventa regione separata dall’Abruzzo di cui era parte. L’interesse principale, a livello regionale e locale diffusamente avvertito, è l’elaborazione di un’immagine autonoma e specifica. Su que78 sta linea si sono indirizzate quasi tutte le pubblicazioni riguardanti gli aspetti storici, culturali e turistici. Prende corpo, così, la costruzione di un immaginario comune per la coesione identitaria e autonoma della regione. L’operazione si sostanzia con il ricorso ai miti e agli eventi della storia. I riferimenti al passato remoto sono tra i più gestibili e nobilitanti; come rilevato in una ricerca che analizza l’immagine della regione attraverso le pubblicazioni locali che illustrano le caratteristiche specifiche della regione (Giacalone-Gili; 1999). La riappropriazione del mito delle origini sannite è diffusa, attraverso i mass-media e le attività scolastiche, in tutti gli strati e le componenti sociali. La rappresentazione di Bojano è stata anche sollecitata dalla mostra “Samnium - Archeologia del Molise”, del 1991, promossa dal Comitato Nazionale per gli Studi sul Sannio (Capini-Di Niro, 1991). Alla mostra è aggiunta la narrazione radiofonica del mito delle origini e della fondazione delle comunità molisane per opera dei Sanniti-Pentri, secondo il testo di Strabone, adattato dalla giornalista molisana Titta Sassani. Le origini arcaiche, dunque, risalenti a oltre duemila e cinquecento anni, sono riscoperte dal grande pubblico. Origini arcaiche che, nel nuovo contesto sociale, culturale ed economico molisano, si fondono con tutto quanto ruota intorno ai tratturi, alla transumanza e alla loro riutilizzazione turistica, folclorica e naturalistica. La motivazione turistica e di rielaborazione di un’immagine forte che identifichi il paese e il territorio molisano, sui volantini pubblicitari della kermesse di Bojano è così espressa: «Il fato che ha portato i Sanniti nelle terre bagnate dal Biferno, sembra ancora pesare sulla nostra gente. Ma il valore, il coraggio, lo smisurato amore per la libertà, la antropologia e storia dignità e le doti intellettuali hanno distinto gli eredi dei Sanniti in tutto il mondo e in ogni tempo». Il ricorso alla cultura e storia dei Sanniti, con quanto attiene alla transumanza, non costituisce il mito fondativo esclusivo di Bojano, ma di tutto il Molise che, come rileva Fiorella Giacalone (1999:25), su di esso fonda la propria immagine. Un movimento politico autonomista molisano di recente formazione, la “Lega sannita”, ha nel logo un guerriero, la cui sagoma è tratta dalle decorazioni dei reperti esposti nel Museo di Campobasso. La rappresentazione del Ver Sacrum a Bojano non è legata a una scadenza rigidamente fissata; ha luogo, in genere, con l’arrivo della bella stagione. Nel 2010, la XIV edizione si è svolta il 18 agosto, nel periodo di maggior presenza dei turisti e degli emigrati tornati in paese per le vacanze estive. L’azione inizia con un corteo ricco di figuranti che rappresentano i vari personaggi di una comunità sannita, organizzati nelle varie categorie sociali, religiose, civili e militari. Alcuni storici locali, docenti nelle locali scuole, hanno curato la documentazione di base attingendo dai classici e dai testi degli specialisti e, in particolare, dal catalogo della mostra Samnium, per quanto riguarda l’abbigliamento, le armi, i monili. Il corteo è aperto dal vessillo comunale seguito da quelli delle province molisane e dei paesi che rivendicano la stessa origine. La sfilata, cui partecipa qualche centinaio di figuranti, è guidata da Comio Castronio, eroe mitico che, secondo la leggenda riferita da Strabone, avrebbe fondato l’antica Bovianum seguendo un toro nel corso di una Primavera Sacra promessa a Marte in occasione della guerra contro gli Umbri (VII-VI secolo a.C.). Il capo del drappello è accompagnato da un soldato che / 2 – comicità e politica reca un rotolo di pelle d’agnello. Nel corteo sono compresi: il Meddix tudicus (sommo magistrato), vari sacerdoti, il consiglio degli anziani, soldati armati a piedi e a cavallo con corazze e scudi, giovani donne e ragazzi. Seguono le spose e le madri, gruppi familiari, pastori con greggi, contadini con i loro prodotti, artigiani con i loro manufatti, un carro trainato da un asino con bambini, gabbie con animali da cortile. Anche il carro è “travestito”: ha le ruote con i raggi nascosti da teli di sacco perché sembrino piene. Un gruppo di ragazze in tunica scura segue una giovane coppia. Il maschio, con tunica corta bianca e cinturone di bronzo, reca la riproduzione di una statuetta di Marte. La ragazza, in tunica bianca, mantello arancione e una corona di fiori, reca un’anfora: sono Marte e Kerrès. Un altro gruppo di ragazze in tunica bianca segue il drappello dei soldati. Tutte recano una torcia e al collo hanno la riproduzione di un gioiello sannita composto di una serie di spirali di bronzo. Uno dei fulcri principali del corteo è costituito da un uomo che conduce un giovane toro con una fune legata alle corna. L’uomo veste una tunica corta, calza gambali di stoffa e regge un bastone. Il corteo sfila nelle strade del paese. Nella piazza principale (nelle ultime edizioni il luogo di raduno è il campo sportivo) è rappresentato il rituale votivo del Ver Sacrum, seguito da scene di genere. Nel corteo sfilano anche alcuni adolescenti che reggono uno striscione su cui è scritto: «Bovianum Caput Pentrorum Samnitium. Livio IX. 31. 4». La citazione ha la funzione di attestazione storica del ruolo riconosciuto a Bojano. Ogni azione, oltre ad essere recitata dai vari protagonisti, è spiegata e commentata da una voce fuori campo. Nella prima scena l’azione si svolge su un altare di cartapesta 79 Q uaderni dove due sacerdoti consacrano un bambino e un agnellino. Dalle interiora dell’animale è divinata la sorte dei giovani consacrati, i quali guidati da Comio Castronio e seguendo il torello partono per fondare la nuova città: Bovianum alle falde del monte Tifernus. La rappresentazione evoca cerimoniali attribuiti ai Sanniti-Sabelli; come quello del matrimonio sannita, in cui le donne sono date in sposa ai soldati più valorosi. Poi interviene un vecchio saggio che incita i giovani guerrieri a essere valorosi e virtuosi. In ultimo c’è la rappresentazione del cerimoniale del giuramento dell’esercito sannita. I giovani sanniti recitano la formula con cui era invocata la maledizione divina se non si fossero comportarsi da valorosi in battaglia. Chi rifiutava era è ucciso. Alcune rappresentazioni del Ver Sacrum sono state tentate in altri centri della medesima area geografica e culturale, ma con scarsi risultati e alterne fortune. A Forchia, in provincia di Benevento, dove i Sanniti sconfissero i romani nel 321 a.C. piegandoli al disonore delle “Forche Caudine”, è stato organizzato un “Raduno dei Sanniti”. Gli Etruschi del fiume e la “Sfilata Velimna” a Perugia La “Sfilata Velimna” da circa un decennio è realizzata nelle strade di Ponte San Giovanni, popoloso rione di Perugia di recente formazione (Giacalone 2014:95-97). La kermesse si svolge in una settimana di agosto e termina con un corteo processionale di qualche centinaio di figuranti in costume. All’evento aderiscono diverse città dell’Umbria, della Toscana e del Lazio che vantano origini etrusche. Ogni edizione della sfilata è dedicata a un tema: la donna, il cibo, il vino, 80 lo sport, i cari e le armi, la donna e la casa, gli dei e la volta celeste. La sfilata del 2010 ha celebrato il centosettantesimo anniversario del ritrovamento della tomba ipogea della famiglia dei Volumni. La scoperta è avvennuta nel 1840 durante i lavori di sistemazione della strada che collega Perugia ad Assisi. La sfilata, per celebrare quell’evento, presenta un gruppo di operai con carriole, picconi e vanghe, alcuni muli e loro conduttori che aprono il corteo. Dietro di loro vi sono alcune dame e gli “studiosi” interessati al ritrovamento; due gendarmi e popolane recanti cesti con prodotti agricoli. Tutti i figuranti, in base al ruolo e al ceto, sono vestiti secondo la moda del tempo della scoperta. Un numeroso gruppo di danzatrici, velate e precedute da portatori di torce, apre la serie delle riproduzioni delle urne cinerarie rinvenute nella necropoli. Seguono alcuni personaggi in costume etrusco, donne e uomini con vino, pane e vari prodotti agricoli; l’allegoria della porta degli inferi, con le relative divinità; gli aruspici, i sacerdoti e le sacerdotesse; altre donne con serti di fiori. Il corteo prosegue con le rappresentazioni delle principali divinità, indicate tutte con il nome etrusco, attorniate da ancelle e figuranti. Numerosi bambini con le nutrici precedono la Mater Matuta. Dietro, tra Ercole e Marte sulla biga e con un gruppo di soldati, procedono i componenti della famiglia Velimna. Apollo, alcune ancelle, musici e sacerdoti precedono una copia, alta circa tre metri, della tomba monumentale, “Arnth Velimnia Aules”. Alla base della copia del monumento vi sono due ragazze vestite da angeli che ripropongono le sculture nel monumento originale. In ultima posizione seguono le sagome di urne cinerarie, i componenti della famiglia Cai Cutu, altre ancel- antropologia e storia le, un corteo nuziale e un gruppo di nobili. Il corteo è chiuso da uno striscione su cui sono riportate figure di angeli e demoni alati tratte da affreschi etruschi. Un personaggio vestito da etrusco segue il corteo con un microfono: è la voce narrante, come rilevato anche a Bojano, che presenta e commenta i vari gruppi di figuranti, con annotazioni storiche, archeologiche e citazioni letterarie. Lungo il percorso sono disposte alcune ricostruzioni giganti di anfore, oggetti e immagini tratte dalle documentazioni iconografiche delle tombe del luogo e degli altri centri coinvolti nella kermesse. Il corteo termina nel moderno anfiteatro dove tutti i figuranti e il pubblico assistono a un “ballo etrusco”, la cui coreografia prevede l’accensione dei profili delle urne cinerarie e della tomba dei Volumni. La rappresentazione dopo una serie di manifestazioni culturali, è conclusa con una “cena etrusca” sul ponte romano-medievale, interamente ricostruito di recente. Il ponte, da cui prende il nome la contrada, è un altro riferimento storico fondante del rione. La volontà di coinvolgere la popolazione nella riscoperta delle antiche radici segue un disegno ben articolato, la cui regia è condivisa alla pari tra le associazioni e le istituzioni locali. In uno dei volantini pubblicitari è scritto: «L’obiettivo è quello di radicare la tradizione nel territorio, coinvolgendo la popolazione nella scoperta e nella valorizzazione delle proprie radici storiche». L’operazione della reinvenzione e, dunque, della riappropriazione del passato, che per diventare degno di attenzione deve essere preferibilmente il più antico possibile, diventa espressione di una volontà di affermazione di esistenza in relazione con lo spazio occupato e riconosciuto proprio. / 2 – comicità e politica L’esigenza di affermazione è sollecitata dalla competizione che può sorgere tra una città, il cui spazio storico è già consacrato, e una sua parte ormai più ampia e produttiva, più moderna, ma meno “storica” e, quindi, non consacrata dai passati vissuti storici riconoscibili, che le conferiscano la dovuta legittimità. La sfilata, nella perentorietà della citazione filologicamente corretta, perde il carattere di mera rappresentazione per diventare una sorta di “presentazione” mitica e laica. In essa e con essa la comunità di Ponte San Giovanni cita se stessa nella ricostituzione di un immagine che è rivolta, prima di tutto, proprio a se stessa. Gli abitanti del rione per un giorno diventano l’evocazione vivente di quegli etruschi “nobili”, dei quali la storia locale ha riacquistato non solo memoria, ma dei quali, in immagine e presenza ne ha preso possesso. In tal modo entra in azione un meccanismo assimilabile a quello che, dal punto di vista demo-antropologico, conferisce senso alle mascherate tradizionali. Chi è mascherato, chi gira “in” maschera cioè “dentro” la maschera, aderisce al significato della maschera indossata: in quella maschera, e dunque in quella personificazione, chi la indossa vi s’identifica. Di quella maschera la collettività, che l’ha prodotta e in cui è “presentata”, ne conosce il significato culturale e la funzione evocativa e rituale. La rifondazione, mitica e storica, si compie a posteriori con l’inclusione del sito archeologico nel nuovo spazio urbano del rione in espansione. Alcune considerazioni La rappresentazione, nel senso di ri-presentazione, allora, definisce e ri-fonda il 81 Q uaderni nuovo abitato di Ponte San Giovanni come uno spazio laicamente consacrato dal riconoscimento, in esso, di antiche radici. La sfilata in costume assume una connotazione profonda; così come l’assumevano le mascherate nei Carnevali tradizionali o nelle Sacre Rappresentazioni sempre più numerose nella regione. Attraverso una tale messa in scena, assimilabile a una processione, il sacro, ancora tutto laico, intellettuale e astratto della citazione storica, archeologica e filologica, diviene concreto e riconoscibile nella figurazione degli ipotetici antenati etruschi richiamati in vita dall’evocazione. Il mentale-culturale, condiviso nel riconoscimento e nell’accettazione sociale, diventa fisico-corporeo, individuale e tangibile, dunque attendibile e vero, perché entra a far parte dei vissuti “festivi” degli abitanti del rione. Così come vere sono le reliquie e le immagini dei Santi e delle Madonne esibite nelle processioni; così come sono riconosciuti reali i personaggi delle varie Sacre Rappresentazioni, nei corpi e nei travestimenti di chi li ripresenta nella scena della periodica resurrezione rituale e festiva. In questa prospettiva potrebbe essere inquadrato il caso umbro. Il nuovo quartiere, ormai del tutto autonomo, si misura con l’immagine della vicina città di Perugia, più ricca di storia e di riferimenti religiosi consacrati. L’origine etrusca della città madre è ampiamente documentata, la sua identità è implicita già nel nome, che ne legittima la presenza storica e mitica, dalle origini a oggi. Il rione di Ponte San Giovanni, fino a prima della riappropriazione dell’ipogeo, è stato solo una periferia, senza storia e priva di un’immagine propria. Da questa evidenza, solo recentemente oggetto di attenzione, ritengo che sorga la volontà di autocitazione nobilitante, con82 divisa a tutti i livelli. La reinvenzione può compiere una sorta di legittimazione di ciò di cui, oggi, la comunità intende appropriarsi per non rischiare di perdersi nell’omologazione del processo della globalizzazione. In questo processo, infatti, anche le città che, senza una forte connotazione mitica e storica, possono entrare in una sorta di processo di omogenizzazione della dispersione, in cui tutte le periferie, già tra loro simili o addirittura uguali, cadrebbero nel più grigio anonimato. Monterubbiano, Bojano, Ponte San Giovanni e gli altri tanti centri che compiono operazioni simili, cercano di limitare il rischio attraverso questa sorta di travestimento, ormai uno dei tanti che, indicati come cortei storici in costume, sono messi in scena in Umbria, nelle Marche, in Toscana, già dai decenni a cavallo fra il XIX e il XX secolo. Tale fenomeno, non nuovo, è stato ripreso durante il fascismo e subito dopo la seconda guerra mondiale. Le rappresentazioni in costume, con cortei storici e sfilate urbane, si sono affermate, in particolare, nei territori un tempo sedi di forti autonomie comunali e di Signorie. Tutti i cortei e le sfilate del genere ora descritto sono improntati a una struttura che richiama le processioni religiose in onore dei Santi Patroni, come più chiaramente visibile a Monterubbiano dove la reinvenzione è stata collegata alla festa patronale. Le feste, le processioni e le espressioni della cosiddetta pietà o religiosità popolare, che ne sono il terreno naturale di coltura e di trasmissione, sono assenti o drasticamente ridotte ormai da moltissimo tempo, e solo di recente riattivate in dimensione laica e limitatamente alla forma, dai cortei politici o di affermazione di alcuni principi fondamentali condivisi, come quello della pace: il antropologia e storia corteo ch ogni anno collega Perugia con Assisi attraversa Ponte San Giovanni. Le feste popolari in cui è espressa la “devozione”, la “religiosità” popolare, come le conosciamo nelle forme diffuse nel resto della regioni e d’Italia, a Perugia sono ormai da molto tempo del tutto assenti. Fenomeno che riguarda Perugia, dove forte è stato il potere dello Stato Pontificio. Ciò che ancora sopravvive è aderente alla formalizzazione del dettato cerimoniale ecclesiastico ufficiale; come dimostrano le numerose antiche e nuove rappresentazioni della Passione, in numero ogni anno crescente in molte città umbre. Nell’edizione del 2010 la “Sfilata Velimna” è assimilata nello schema di una processione religiosa, proprio per il tono celebrativo ed evocativo che ne sostanzia l’inventio: il ritrovamento dell’ipogeo. L’evento primo, nella sua casualità, può essere acquisto alla stregua delle varie inventiones sacre, in cui l’oggetto del ritrovamento è costituito da un’immagine divina, subito assunta al culto. Con la Sfilata Velimna a Ponte San Giovanni è stato riattivato, sia pure nell’accezione moderna dei termini, una sorta di culto degli antenati illustri e nobili, le cui tombe sono state ritrovate, secondo la concezione popolare comune, non “per caso”, ma come se un disegno del destino lo avesse voluto. In questo caso i componenti della famiglia dei Volumni diventano le figure cui agganciare un fondamento rituale da porre al centro dell’attuale comune storia collettiva (Gueusquin, 1992: 13). Ritrovamenti del genere, di cui è ricca la tradizione popolare cristiana, sono di norma acquisiti come eventi voluti dalla volontà divina. Nella cultura religiosa tradizionale e popolare in particolare, il ritrovamento di un’immagine sacra non avviene mai per caso. Lo stesso concetto di / 2 – comicità e politica casualità non ha senso nelle culture a fondamento mitico-rituale. Il ritrovamento è interpretato come espressione dell’entità divina che segnala il luogo in cui vuole essere rinvenuta e in cui diventare oggetto di venerazione. Ritrovamenti del genere sono, di norma, affidati a persone umili. Nel caso di Ponte San Giovanni gli autori materiali del ritrovamento sono gli operai che lavorano al tracciato della strada Perugia Assisi, due riferimenti urbani simbolicamente e culturalmente molto forti. Gli umili sono i mediatori attraverso cui il divino indica dove vuole che sia edificata una cappella, un santuario in proprio onore. I mediatori con il divino sono anche i giovani piceni e sanniti, che sciamano lontano espulsi dalle loro città e villaggi, che rispettano e realizzano il voto del Ver Sacrum. A quei giovani, senza più radici e famiglia, Marte, sotto forma di picchio o di toro, indica il luogo prescelto per edificare il nuovo villaggio, la nuova città; dopo che in quel luogo la rappresentazione del dio, picchio o toro, sia stata sacrificata. Il luogo del sacrificio è anche il luogo della sua sepoltura, dunque è sacro. Il luogo del ritrovamento di un’immagine sacra è anche considerato il luogo in cui quell’immagine è stata sepolta. Il luogo in cui risiede la divinità, o la sua immagine, è ritenuto particolarmente protetto e adatto non solo per edificare un’edicola, una cappella o una chiesa, ma anche un borgo, un paese, una città. Quel luogo è sotto la protezione e il patronato di chi lo ha indicato e vi è sepolto. Le analogie e coincidenze sono accentuate nel ritrovamento dell’ipogeo del Volumni, in cui il principale reperto monumentale, quello riprodotto nella sfilata, è posto nella tomba come fosse un altare. La raffigurazio83 Q uaderni ne di coloro che sono ritenuti i nobili abitatori del luogo è costituita da un’imponente figura sdraiata sul coperchio del sarcofago, alla cui base sono disposti due angeli in tutto identici alle raffigurazioni cristiane. In questo modo il ritrovamento e l’oggetto ritrovato possono essere assimilati, almeno nella mentalità comune, a quanto accade nel cattolicesimo popolare. Il ritrovamento dell’ipogeo, allora, è come automaticamente assimilato a un evento se non proprio divino, stante l’attuale processo di laicizzazione, almeno a un episodio emblematico con forte componente emotiva a sollecitazione sacrale. È per questo che l’Arnth Velimna Aules è il simulacro centrale della scena ed è esibito al centro del corteo, come lo è l’immagine di culto di un Santo patrono. Nel caso di Monterubbiano e di Bojano, invece, per quanto in entrambi sia presentato il Ver Sacrum, ci troviamo dinanzi a due esiti distinti di modalità e concezioni con cui è utilizzato il riferimento all’arcaico. A Monterubbiano la denominazione della festa di Pentecoste, ripresa alla fine del XIX secolo, rientrava in un problema politico e ideologico specifico di quel periodo, che riguardava la volontà dei piccoli centri della provincia italiana di mantenere ed esibire una propria dignità culturale entro la nuova definizione nazionale che tutte le doveva comprendere in unica “comune” nazione. La dignità di unicità è ripescata nella storia e mitologia locale per opera di un personaggio colto che ha elaborato la nuova immagine della festa del paese, attivando una sorta di riconoscimento dell’uccello, al centro dell’azione del locale rituale di Piantamaggio-Pentecoste, con il picus dei Piceni. La festa ha conservato le caratteristiche di festa tradizionale collegata a un evento cristiano (Pentecoste). 84 L’operazione ha consentito la trasmissione di azioni alquanto complesse cerimonialmente e ancora relativamente ben collegate al contesto religioso e socio-culturale locale. Nel caso di Bojano si assiste all’introduzione di un’azione rappresentativa di semplice connotazione spettacolare e teatrale. In questo caso il riferimento religioso e sacrale è molto tenue se non del tutto assente, in senso tradizionale e popolare. L’azione, però, ha senso all’interno di una lettura secolarizzata della storia e dei miti locali in cui questi riferimenti possono essere assorbiti nell’arcaico esibito nella spettacolarizzazione di una reinvenzione, che è anche rivendicazione di autonomia e di identità. Bojano ha un problema simile a quello vissuto un secolo prima da Monterubbiano: la definizione di una propria specifica unicità che deve essere affermata in una nuova realtà locale e globalizzata. In epoca di profonda secolarizzazione e globalizzazione, il compito di supporto sacrale è sostituito e sostenuto dalla citazione colta. Da qui, dunque, il ripescaggio del rito del Ver Sacrum operato da una componente attiva della cittadina Molisana che chiede visibilità. Il ripescaggio e la citazione sono già ampiamente condivisi in tutta la realtà regionale, che trova la motivazione di base nella “consacrazione” della costituzione del Molise in regione a se stante. Su questa base, oltre al ricorso agli antichi e arcaici miti fondativi, poco controllabili e quindi luogo di libera reinvenzione, vi è anche un altro fenomeno che si va affermando, in particolare nelle regioni meridionali. Questo fenomeno prolunga e imita quanto, alla fine del XIX secolo e a metà del secolo scorso, ha caratterizzato l’invenzione di nuove feste, come nel caso di Monterubbiano. antropologia e storia Il fenomeno ha interessato in particolare le regioni dell’Italia centrale, dove molto forte è sempre stato il richiamo al Medioevo e al Rinascimento. Due epoche storiche, due trascorse e perdute età dell’oro della cultura nazionale che costituiscono l’immagine di un passato forte. Si tratta di frammenti di storia e di miti, spesso decontestualizzati, che è possibile manipolare con grande leggerezza interpretativa e traspositiva. Nel Cilento e nella contigua Basilicata, ormai da alcuni anni, si ripetono azioni teatrali simili; anche se riferite a eventi storici e mitici più o meno arcaici e antichi o addirittura dell’epopea risorgimentale. Lo stesso accade in tutta la Campania, in Puglia e in Calabria, oltre che nel Molise; solo per restare nell’ambito delle regioni meridionali che meglio e direttamente conosco. Queste azioni drammatiche “stradali” sono sempre presentate come attrazioni spettacolari da esibire con cortei e sfilate in costume. In diversi paesi sono rievocate storie locali, più o meno famose, di condottieri, di briganti o di eroi. Tutte queste azioni sceniche, sempre proposte nel periodo estivo, sono strutturate come “feste” corredate dagli immancabili cortei storici, gruppi di sbandieratori, ormai centro e base esibitoria di moltissime azioni di festa in cui i protagonisti sono anche spettatori della propria esibizione. Un altro caso, fra i tanti, in cui l’identità è riproposta attraverso la citazione di antichissimi miti, riguarda Velia, in provincia di Salerno, dove la rappresentazione de “La notte dei Focesi”, evoca lo sbarco dei fondatori provenienti dalla Focide. La stessa volontà di esibire la propria presunta ascendenza antica e arcaica è rilevabile, per esempio, nella rievocazione de “La Rivolta di Sicone” messa / 2 – comicità e politica in scena dal 1990 ad Acerenza, in Basilicata. E così via in un elenco ogni anno più lungo e nutrito, impossibile da seguire e documentare nel dettaglio. In tutti questi casi è possibile rilevare alcuni elementi interessanti da un punto di vista demo-antropologico. Dalla seconda metà del secolo scorso, in molti centri, in particolare delle regioni dell’Italia centrale e settentrionale, sono state introdotte diverse feste, o meglio, azioni di festa a volte agganciate alle locali celebrazioni dei Santi patroni, di cui diventano le manifestazioni ludico-competitive più rilevanti. Tutte indicate come “popolari” riecheggiano gli splendori e le immagini delle realtà locali, così come si pensa che fossero nel Medioevo e nel Rinascimento. Fenomeno che inizia ad affermarsi soprattutto in Umbria, Toscana e Marche, con qualche esempio evocante l’età barocca. In questi termini e con queste riattivazioni di antichi cerimoniali e giochi, sono ripresentati quei periodi della storia in cui maggiore è stata l’affermazione delle autonomie locali e comunali. Per lo stesso motivo vengono riprese leggende di fondazione di città, come nel caso di Monterubbiano e di Bojano. Particolare, poi, la reinvenzione delle origini messa in scena a Monterubbiano, dove il riferimento è duplice. Nella stessa festa, il cui impianto principale è religioso, il locale culto mariano, coesistono l’evocazione a riferimento storico medievale e rinascimentale più riconoscibile, e l’evocazione mitica che mette in scena, secondo esigenze spettacolari, il Ver Sacrum dei Piceni, i cui attori vestono l’abito dei contadini medievali. Nella sovrapposizione e mescolanza di tempi e di eventi non sembra trasparire la poca congruità della coniugazione paratattica delle reinvenzioni. Il tutto, invece, si fonde perfettamente nella di85 Q uaderni namica del farsi stesso della festa, in quanto azione in cui il tempo cronologico e storico viene sospeso, secondo la funzione propria dell’azione rituale che trova senso nella dimensione mitica. Le reinvenzioni medievali (in particolare in Umbria) sono rappresentate quasi sempre attraverso gli aspetti ludici ed estetici, edulcorati da riassunzioni oleografiche di facile acquisizione formale. Come rilevato, per esempio, nel caso di Bevagna (Umbria) dove con le “Gaite”, che non sono più semplici e limitate azioni di festa, ma immersioni totali, per diversi giorno in un Medioevo minimale, contadino e artigianale. Tutta la cittadina e i suoi abitanti si mettono in scena riproponendo l’immagine del paese, così come si pensa sia stato nel Medioevo. Negli esempi proposti riguardanti Monterubbiano, Bojano, Ponte San Giovanni, o in quelli citati relativi al Cilento, e per quanto a oggi mi è dato conoscere anche nelle altre situazioni di reinvenzione delle altre regioni, è interessante notare come in nessun caso sia rievocato qualcosa che abbia a che fare con la cultura e l’immagine della romanità. Nei casi presentati e in quelli citati, le epoche storiche di riferimento riguardano il mondo preromano e il Medioevo. I motivi dello scavalcamento del mondo romano, in particolare di quello imperiale – che rivive solo nelle citazioni della Sacre Rappresentazioni della Passione – sono due. Il primo riguarda l’utilizzazione fattane dal nazi-fascismo che, nelle sue mire di espansionismo e affermazione ideologica, ha adottato un riferimento, quello delle immagini della grandezza dell’impero romano, in cui non ci sono possibilità di identificazioni territoriali e culturali locali. Tutti coloro cui è riconosciuta l’appartenenza, qualun86 que sia la loro provenienza, prima di tutto sono cittadini romani. Le immagini relative a quell’età della storia sono acquisite in una definizione ideologica che, con terminologia moderna, potremmo dire che rimandino a una sorta di vera e propria globalizzazione ante litteram, in cui tutti gli appartenenti sono garantiti dagli stessi diritti e legati agli stessi doveri. Ne scaturisce un’identità, che è meglio definire appartenenza, molto forte; sia pure formalmente definita e anche di apparato. Inoltre, si tratta di un periodo storico ampiamente studiato in cui le immagini e le connotazioni delle realtà locali sono assorbite nella stessa storia e mitologia romana. In quella storia il “locale” non esiste a se stante, e se esiste è difficilmente re-inventabile, ma ha senso solo entro il più ampio disegno della romanità. In quella condizione e definizione di un passato potente e altamente significativo non può esserci ri-scoperta e re-invenzione. Tanto meno può esserci invenzione di alcun mito fondativo particolare, autonomo e locale, che valga solo ed esclusivamente per un piccolo centro e non per altri, anche se contigui e in tutto simili. Sulla base di questa considerazione, allora, è meglio comprensibile il secondo motivo, direttamente connesso a quanto accaduto e accade a partire dall’Unità a oggi. La piccola globalizzazione, in senso nazionalistico limitata alla nuova immagine unitaria, e la globalizzazione attuale, sono vissute come riorganizzazione dei rapporti culturali, sociali, economici ed esistenziali, in cui società e realtà distanti restano in gran parte ciò che sono e, se più forti, condizionano e assorbono le più deboli. In questa nuova visione del mondo, le singole specificità locali, come nel caso dei centri periferici, non riescono a ri- antropologia e storia conoscersi, possono perdersi. Da qui, allora, come in precedenza accennato, il ricorso alla ridefinizione dei localismi culturali e territoriali, espressi sia attraverso la reinvenzione di azioni di festa, sia attraverso la promozione del prodotto locale tipico, cioè diverso e non confondibile con tutti gli altri. Solo così, definendosi come espressione di un luogo ben riconoscibile e definito, da sempre e miticamente legato al territorio, all’ambiente con cui esiste da sempre, “dalla notte dei tempi”, il legame di reciproca appartenenza, è possibile non perdersi e annullarsi nel processo di globalizzazione. Processo del resto poco compreso e accettato a livello locale, come in passato è stato il più ridotto processo di unificazione nazionale. Il luogo in cui tutto ciò può essere rifondato, riconosciuto e ridisegnato nella mappa delle appartenenze deve essere quello in cui è possibile individuare una ristretta e circoscritta realtà umana entro la quale si può entrare e operare senza troppi controlli della storia. In questi termini il passato, il più lontano possibile, ma riconosciuto come proprio, e il Medioevo dei Comuni e delle Signorie, ancora ritenuto età buia, ma la cui riscoperta storica lascia intravedere ampie possibilità di assunzione fantastica, diventano i luoghi ideali in cui poter reinventare nuove prospettive. Sulla mitizzazione del passato e sulla sua assunzione mitica, si può inventare il futuro, secondo le urgenze del presente. Bibliografia citata Capini, S. - Di Niro, A., 1991, (a cura di), Samnium Archeologia del Molise, Roma, Quasar. Centanni, L., 1903, «Bollettino Storico Monterubbianese», fasc. 5. / 2 – comicità e politica Cousin, S., 2008, L’Unesco et la doctrine du tourisme culturel. Généalogie d’un «bon» tourisme, «Civilisation», Vol. LVII, nn. 1-2, pp.41-56. Donà, C., 2003, Per le vie dell’altro mondo. L’animale guida e il mito del viaggio, Soveria Mannelli, Rubettino. Foglio volante, 1993, Monterubbiano. 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Lo Stato nazionale nella forma democratica aveva infatti garantito un pluralismo politico-economico e sociale, in cui convivevano e dialetticamente si confrontavano libero mercato e diritti eco- 3 1 2 nomici e sociali, iniziativa individuale e solidarismo: caratteristiche che, non senza contraddizioni, tendevano a conferire allo Stato nazionale il carattere di Stato sociale. La globalizzazione ha comportato un trasferimento di sovranità dalle istituzioni democratiche alle imprese transnazionali e al mercato, e, in assenza di istituzioni democratiche transnazionali, vengono meno le forme di garanzia e di protezione dei ceti deboli e dei diversi (e quindi, in primo luogo, degli immigrati, che sono normalmente una cosa e l’altra). In altri termini, l’assolutizzazione dell’interesse privato, come valore universale nell’era della globalizzazione, misconosce il valore del legame sociale e delle forme tradizionali di solidarietà e cooperazione, col risultato di rendere ognuno straniero all’altro. Pertanto, si moltiplicano i processi di esclusione e di discriminazione nei confronti della diversità culturale, etnica, sociale; si rafforzano le tendenze all’omologazione dei diversi e alla loro assimilazione mediante l’adattamen- Georg Simmel Excursus sullo straniero, in Simmel G., Sociologia, Milano, Edizioni di Comunità, 1989, pp. 580-584. Paul Ricoeur, Sur la traduction, Paris, Bayard, 1984. Jürgen Habermas, Theorie des kommunikativen HandeIns. Bd. I.Handlungsrationalität und gesellschaftliche Rationalisierung. Bd. II Zur Kritik der funktionalistischen Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981, trad. it. Teoria dell’agire comunicativo. Vol. I. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale. Vol. II. Critica della ragione funzionalistica, Bologna, II Mulino, 1986. 89 Q uaderni to alle culture forti che li ospitano, quando non è possibile fermare il loro ingresso erigendo muri e costruendo recinzioni e barricate. Con apparente paradosso, a questi processi contribuiscono a volte i localismi, che per certi versi rappresentano una reazione al processo di globalizzazione, per altri invece diventano la loro inevitabile conseguenza e il loro necessario complemento, quando la difesa del territorio e delle sue risorse culturali locali degenera nella forma di fondamentalismo tradizionalista. Il localismo è dunque, nel bene e nel male, una reazione ai processi di globalizzazione che rendono gli uomini stranieri agli altri, ma anche stranieri alla propria patria e a se stessi. I localismi sono una difesa della propria economia regionale e della propria cultura etnica come difesa della propria identità, ma nelle forme estreme questa volontà di contrastare gli aspetti negativi della globalizzazione diventa ostilità verso tutto ciò che sembra costituire una minaccia per la propria cultura (e la propria economia) e approda spesso a forme di razzismo, di integrismo e di fondamentalismo: e questi comportamenti contribuiscono a incrementare le forme di estraneità che la globalizzazione produce su scala planetaria4. Traduzione, tradimento Per prima cosa, la società di accoglienza (lo Stato, la nazione, il datore di lavoro) 4 5 6 90 chiede allo straniero di adoperare la lingua del paese che lo ospita. Le leggi, quando esistono, variano da Stato a Stato, ma la tendenza pare ormai che sia questa, per cui rinunciare alla propria lingua diventa una condizione necessaria negli usi pubblici se non per ottenere l’accoglienza. In altri termini, lo straniero deve tradurre la propria lingua nella nostra. Ora, noi sappiamo che la traduzione, anche la migliore possibile, è sostanzialmente infedele, perché la lingua è indissociabile dalla cultura e le culture conservano sempre un tasso più o meno elevato di irriducibilità5, sia perché le parole veicolano inevitabilmente giudizi di valore che variano da cultura a cultura, sia perché solo la lingua materna è in grado di restituire pienamente gli strati più sottili di sensibilità che in essa si sono, per dirla sinteticamente con una metafora, incarnati. Il termine “poligamia” ad esempio, nella lingua italiana indica, oltre una struttura familiare particolare6, un vero e proprio reato, secondo la logica che è completamente estranea ai gruppi che la praticano. Il relativismo linguistico ha marcato più del giusto l’intraducibilità delle lingue, obbligandoci a contrapporgli la constatazione che gli uomini, dopo tutto, comunicano, creano rapporti e perfino convivono, nonostante le differenze. Ma se escludiamo le sue conclusioni estreme, rimane comunque un accertamento di fondo: che non esiste la conoscenza assoluta, e che un fondo di Domenico Scafoglio, Vecchi Stati e nuove nazioni, in “Quaderni di Antropologia scienze umane” Napoli, Guida editori, nn. 2-3, settembre 2015, pp. 15-16. Talal Asad, Il concetto di traduzione nell’antropologia britannica, in James Clifford – George E. Marcus (ed), Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia, Roma, Meltemi, 2005, p. 199-230; Patrizia del Barone, Antropologia e linguistica in B. Malinowski, Tesi di laurea, Università di Salerno, Laboratorio antropologico, a.a. 1995-1996. Philip K. Bock Antropologia culturale moderna, trad. it. a c. di Francesco Remotti, Torino, Einaudi 1978, pp. 489502 (ed.orig. Modern Cultural Anthropology, New York, Alfred A. Knopf Inc., 1969). antropologia e storia incomunicabilità resiste ad ogni forma di traduzione di una cultura e di una lingua in un’altra7. Esistono dunque più semantiche, che possono creare problemi a tutti, a cominciare dai medici, come hanno dimostrato Colasanti e Geraci: “in somalo kili vuol dire reni, ma kili in somalo identifica l’area cutanea addominale antero-laterale, mentre in italiano per reni si intende, nel linguaggio quotidiano, l’area dorsale latero-rachidea. (…) Un italiano quando dice che ha mal di reni vuol dire che ha una lombagia. In somalo può voler significare un dolore della regione del colon ascendente o discendente”8. La comunicazione e convivenza diventa possibile quando si approda ad una condivisione reciproca dei significati mediante la negoziazione. In caso contrario, la traduzione linguistica e culturale diventa strumento e specchio della sopraffazione e del dominio di una cultura su un’altra. Un solo esempio: le brigantesse dell’Italia postunitaria, quando vivevano alla macchia diventavano le compagne, quasi sempre innamorate e spesso fedeli, dei loro uomini. Fatte prigioniere, tendevano a definirsi “spose” dei briganti, ma i cancellieri dei tribunali scrivevano “drude”, termine che indicava la condizione di amante in senso fortemente spregiativo. Prevalse, alla fine, il linguaggio del tribunale, e le stesse brigantesse finirono per qualificarsi autonomamente come “drude”, introiettando il disprezzo di cui il termine marchiava i loro affetti e la loro passione9. 7 8 9 / 2 – comicità e politica Un codice ristretto La categoria di diversi di cui ci occupiamo, gli immigrati, vengono fatti parlare nella lingua italiana. Il loro italiano (mi riferisco in modo particolare ai testi delle badanti ucraine e rumene), imparato da manuali ridottisimi, da pagine scaricate da internet, ascoltando la radio e vedendo la televisione, mediante corsi acceleratissimi per imparare solo quanto serve per sopravvivere al primo impatto con la terra straniera e durante la loro odissea lungo la penisola, infine arricchito (si fa per dire) nei luoghi di lavoro, è un italiano dalla grammatica estremamente semplificata, segnato da interminabili ellissi (dell’articolo, delle coniugazioni verbali, ecc.); è costituito da una batteria di vocaboli molto povera, che restituiscono, in forma sintetica, gli assilli quotidiani più immediati, quelli del lavoro, del denaro, del cibo, della malattie e delle cure, delle minacce e delle aggressioni subite. Tutto estremamente essenzializzato, ridotto ad un livello quasi etologico. Questo linguaggio è assolutamente inadeguato a dare voce alle dimensioni più profonde e complesse della vita interiore: è un linguaggio buono per parlare, ossia per comunicare dati empirici, e non per discorrere, ossia per colloquiare narrando: il colloquio richiede un’attenzione incondizionata all’altro, una comprensione che pretende complicità, un trasporto empatico senza barriere; ma richiede al tempo stesso il possesso del linguaggio dei pensieri profondi, della razio- Domenico Scafoglio, Introduzione alla ricerca antropologica, Fisciano, Cues, 2005, pp. 34, 36-37. R. Colasanti e S. Geraci, I livelli di incomprensione medico-paziente migrante, in Geraci, Approcci transculturali per la promozione della salute, Caritas diocesana, Roma, 2000, p. 85. Simona De Luna, Amazzoni contadine, in “Per forza o per amore. Brigantesse dell’Italia postunitaria, Cava de’ Tirreni, Marlin 2008, p. 10. 91 Q uaderni nalità e delle emozioni, che rende possibile il colloquio e per certi aspetti lo produce. Questo vale per tutte le lingue, perché tutte hanno, in maniera diversa, una loro particolare modo di esprimere il loro universo interiore. Il linguaggio delle badanti strozza le voci che vengono dal profondo; solo alcune impennate improvvise lasciano intravedere appena un fondo segreto che preme sull’imperfezione delle parole facendo emergere immagini illuminanti: “Non c’è Dio in nostro paese”10; “al mio paese ci sono solo i morti”; “quando tu vieni dal Turkestan, dall’Armenia, dalla Crimea, dalla Siberia, tutto si confonde e non sai a chi appartieni”; non ho paura della vita, della vecchiaia sì, ma non ci penso”. Acquista importanza, allora, il parlare senza parole: l’illuminazione del sorriso, lo splendore dello sguardo, o la parola stessa ridotta a flusso sonoro e musica. Cos’è intervistare? Dopo le lunghe e approfondite discussioni nell’antropologia classica sull’uso della lingua nelle interviste, il problema linguistico del rapporto tra nativi e ricercatori non è stato preso abbastanza in considerazione nelle nuove condizioni determinate dalle ultime massicce migrazioni e dal peso che esso ha nei risultati delle indagini, che dovrebbero avere lo scopo, ovviamente, di far crescere in profondità la conoscenza del fenomeno migratorio. L’intervista agli immigrati presenta un paradosso, costituito dal rovescia- mento di una situazione classica della ricerca etnografica: tradizionalmente si raccomandava all’intervistatore di parlare la lingua dell’intervistato; ora (a parte le eccezioni) ci si accontenta che l’intervistato farfugli nella lingua dell’intervistatore, senza che questo costituisca un problema per l’etnografo. Tutto questo condiziona i risultati della ricerca e limita fortemente la possibilità di conoscere non superficialmente l’immigrato, perché – lo abbiamo anticipato – l’intervistato è attrezzato a parlare nella lingua straniera, non senza difficoltà, il linguaggio dei bisogni elementari e della sopravvivenza11. In altri termini, la situazione su cui stiamo riflettendo è una situazione invertita rispetto a quella in cui il ricercatore intervista il nativo nella sua terra d’origine. In quest’ultimo caso il nativo ha il pieno controllo dei suoi strumenti linguistici ed è in grado di comunicare sentimenti ed emozioni, trasmettere le sue sensazioni, muoversi su più registri espressivi, mentre il ricercatore fatica sia a trasmettere nella lingua indigena mal conosciuta la complessità delle sue domande, sia a collocarsi dentro un sistema linguistico altro, in certa misura impervio alle facili traduzioni in un’altra cultura. Nelle situazioni di immigrazione invece il sistema linguistico dell’extracomunitario, se non ha subito abrasioni e cancellazioni, mantiene potenzialmente la sua capacità di interloquire pienamente con l’interlocutore, ma rimane bloccato dalla consapevolezza che l’interlocutore non è interessato alla sua vita interiore, che i sentimenti e le emozioni Ved. Annalisa di Nuzzo, Appendice, La morte, la cura, l’amore. Donne ucraine e rumene in Campania, Roma, CISU, 2009. Le frasi successiva sono frutto di un mio colloquio con una bielorussa. 11 Domenico Scafoglio, Prefazione, in Annalisa di Nuzzo, op. cit., pp. 19-20. 10 92 antropologia e storia sono un lusso che non si può consentire e che sono i problemi concreti di sopravvivenza fisica a disegnare il circuito del suo campo semantico. Il resto lo fa la sua imperfetta padronanaza o addirittura l’ignoranza della lingua del paese di accoglienza, il codice ristretto che gli consente una difficile e grama sopravvivenza, votando il suo mondo interiore al silenzio e all’oblio. L’antropologo, quindi, non conoscendo la lingua dell’intervistato, dovrebbe coprire lo spazio della mediazione culturale, per rendere intellegibile il linguaggio scarno degli immigrati. Potrebbe servirsi di procedimenti intuitivi e analogici, per tentare di rendere palese la vita interiore degli intervistati. Sarà quindi necessario che siano messe in campo strategie che agevolino la comprensione del linguaggio. L’antropologo dovrà puntare, oltre che su una maggiore educazione della sensibilità, sull’ampliamento dei suoi orizzonti disciplinari, utilizzando i / 2 – comicità e politica suggerimenti e le tecniche delle scienze della comunicazione, della linguistica e della psicologia. Per questa via, in un quadro di reciprocità e di vicendevoli scambi tra intervistatori ed intervistati, si può pensare ad una antropologia dialogica che faccia emergere il vissuto inespresso di chi, tra le difficoltà e disagi di un esilio penoso, riesce a fatica ad usare la lingua straniera della sopravvivenza. Operazione difficile (ma, come sempre, val la pena di scommettere), perché non è semplice far “parlare” con un gergo straniero approssimativo una interiorità che ha perso il suo linguaggio (interdetto, negato, nascosto, dimenticato), e il rischio che si corre è che, poiché si confrontano asimmetricamente due linguaggi (che sono al tempo stesso due culture), l’una si ponga come l’interpretazione delle ellissi, delle oscurità e dei vuoti dell’altra, col rischio di ridurre l’altro a se stesso. 93 Antropologia del brigantaggio domenico scafoglio - simona de luna I. La banda e le sue regole I caratteri originali del brigantaggio postunitario N ell’organizzazione come nel­l’azione delle bande convergono le espe­rienze della lunga storia del brigantaggio postunitario, mescolate ad elementi culturali, saperi e pratiche di diversa provenienza. Vi si riconoscono infatti inequivocabilmente un lascito esperienziale della vita militare del periodo borbonico, sapientemente adattato alla situazione inedita della guerriglia, grazie anche all’adozione di elementi di un sapere militare radicalmente diverso, quello del brigantaggio endemico preunitario e, sotto il profilo ideologico e della pratica militare, quanto ancora rimaneva nella memoria collettiva dell’eredità della controrivoluzione sanfedista degli anni 1799-1800 e della resistenza all’occupazione francese del decennio napoleonico. Al tempo stesso, a queste componenti di legittimismo, xenofobia e sanfedismo il brigantaggio postunitario aggiunge un elemento nuovo, nel suo essere antiunitario e antipiemontese per difendere la nazione napoletana dall’invasione straniera, come prima l’aveva difesa dai francesi. Certamente i contadini in rivolta assunsero alcune modalità di comportamenti illegali e di lotta violenta in parte mutuati dal brigantaggio endemico, che era l’unica esperienza militare assolutamente originale e autonoma che contadini e pastori conoscessero. Era naturale perciò che essi assumessero alcuni tratti del loro codice non scritto di guerra (tecniche e tattiche di combattimento, modalità di finanziamento mediante sequestri, razzie, ricatti, rappresaglie, punizioni, esecuzioni, ecc.): sono comuni ai due fenomeni il brigantaggio stagionale e, più in generale, la tendenza a praticarlo temporaneamente, occasionalmente o per necessità; alcuni aspetti tattici, come disaggregarsi in momenti difficili per riaggregarsi per nuove scorrerie in momenti migliori; sconfinare in altri territori per sfuggire a inseguimenti e persecuzioni; l’esistenza di cacciatori di teste e di “pentiti”; la pratica dei sequestri; alcune forme di rappresaglia, come bruciare i raccolti, fare strage di animali ecc. Alle soglie dell’età contemporanea, che vede le masse popolari irrompere nella storia, il brigantaggio endemico diventa brigantaggio di massa, con il coinvolgimento di vaste categorie sociali: contadini senza terra, pastori e, in minor numero, artigiani, 95 Q uaderni passando, in Italia, prima attraverso l’esperienza sanfedista del 1799 e poi della guerriglia antifrancese del periodo napoleonico. La prima trasformazione avviene tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, pilotata dagli aristocratici legittimisti, plasmata ideologicamente dal clero reazionario, incoraggiata e favorita dagli inglesi, alimentata dal patriottismo xenofobo e dalla difesa della vita tradizionale e della religione (trono e altare) nonché dal mito e dal sentimento palingenetico della “resurrezione dei poverelli”. Tra il 1821 e il 1848 i più modesti e frammentati movimenti di massa sono fondamentalmente moti contadini per la rivendicazione e l’occupazione delle terre comuni, sostenuti anche dalla piccola borghesia e solo in alcuni casi confusi con il brigantaggio, anche se nelle rappresentazioni ufficiali vengono frequentemente fatti passare per tali, solo perché sono considerati fuori della legalità. Il brigantaggio postunitario degli anni 1861-70 è un movimento di massa con elementi nuovi e originali e una struttura complessa. In sostanza si tratta delle agitazioni contadine che, fondendosi con la resistenza all’occupazione “piemontese” ed estendendosi geograficamente e ingrossandosi a dismisura, si confondono o assorbono il brigantaggio tradizionale, che storicamente conduceva un’esistenza almeno in parte separata, parallela e marginale rispetto al mondo contadino, che non si era mai confuso interamente con esso. Le bande sono però organizzate e guidate in moltissimi casi da ex soldati ed ex sottufficiali del disciolto esercito borbonico, che portano nelle bande brigantesche una solida 1 96 Bura: 29. esperienza militare di diversa ispirazione, insieme a un sistema di convinzioni e comportamenti (onore e fedeltà alla monarchia borbonica, disciplina, rispetto della gerarchia, coscienza nazionale meridionale, ecc.) che erano il frutto dell’indottrinamento militare. In altri termini, molti dei principali e più brillanti capi della guerriglia provenivano dai ranghi dell’esercito borbonico, in cui avevano militato con una ferma di parecchi anni come soldati, raggiungendo anche il grado di sottufficiali. Sergente era diventato Pasquale Romano, pastore di Gioia del Colle: nell’esercito aveva completato la sua formazione nell’arco di un decennio, imparando a leggere e scrivere e meritandosi il diritto di essere l’alfiere della I compagnia del V di linea1. Capi carismatici e gregari Le piccole bande avevano quasi sempre soltanto un capo, e, a volte, un vice; quelle più grandi, intorno ai cento uomini, presentavano di solito una struttura gerarchica, con gradi e funzioni segnalate dalla divisa o da segni particolari. Ecco come una brigantessa descrive la gerarchia della banda Cannone: “Cannone ha assunto il grado di capitano e porta un frisio d’argento, un altro brigante a nome Antonio Prefeta di Atessa è sergente, un terzo a nome Filippo de Martino di Pagliata è caporale, e questi due non portano alcun segno. Policarpo Romagnoli ha il grado di tenente e porta il berretto da militare con due frisi d’oro, e veste gli abiti dell’ufficiale ucciso a Casalcassinese”. Non tutti i capi avevano bisogno di titoli e segni antropologia e storia di distinzione: nella stessa area geografica “Fuoco si fa chiamare fra’ Diavolo e non ha gradi, così Cedrone e gli altri”2. Il tipo di struttura gerarchica che i briganti si davano mostra come essi tendessero ad organizzarsi prendendo a modello l’esercito, ispirati e facilitati in questo dal fatto che alcuni di essi erano ex ufficiali o ex soldati borbonici. La tendenza gregaria non era però soltanto un lascito del servizio militare: era anche il prodotto della struttura sociale, che plasmava la famiglia e la totalità dei rapporti sociali. Grandi bande erano, nel Meridione, quelle di Crocco e del Sergente Romano. Quando raccoglieva i suoi 2.000 uomini con 300 cavalieri, Crocco poneva a capo di ogni drappello di 200 uomini un capitano, che aveva alle sue dipendenze sottocapi e sergenti maggiori; ogni gruppo minimo di 10 uomini aveva un caporale3. Quanto ai rapporti con i vertici borbonici, anche quando dichiaravano di dipendere dai loro generali, i capi delle grandi aggregazioni, come Crocco e il Sergente Romano erano di fatto totalmente autonomi. La selezione dei capi avveniva in maniera naturale, sulla base di meriti riconosciuti da tutta la banda. Il merito principale era quello di condurre la banda al successo, conseguire dei risultati sul campo, procurare bottino e vettovaglie. E in una situazione difficile, segnata dall’aleatorietà delle prospettive e dei progetti di lunga durata, in cui gli uomini aspirano innanzitutto a sopravvivere, il capo deve avere le qualità giuste 2 5 3 4 / 2 – comicità e politica per assicurare alla banda la sopravvivenza. Di solito queste capacità le possiedono i briganti più intelligenti (soprattutto astuti) e più forti, avveduti e decisi, tali “per istinto, ma anche per capacità innate, affinate nel corso della lotta”4, ma anche per l’arte della guerra che, in veste di militari e sottufficiali avevano acquisito nell’esercito borbonico. La fisiognomica del capo è mutevole. Meglio se è un soggetto forzuto, aitante, dalla statura imponente, ma sono esistiti capi con difetti fisici e menomazioni. Questo significa che le qualità del capo che contano vanno al di là della prestanza fisica, e si fondano piuttosto sull’intelligenza, l’astuzia, l’esperienza e la durezza al momento giusto. Il capobanda ha una centralità assoluta nella comitiva brigantesca: è lui che di solito fonda la banda, o ne eredita il comando quando il capo viene ucciso, sempre che gli altri lo riconoscano come tale; è da lui che i gregari si attendono di essere ben guidati; che prenda le decisioni giuste e sia al tempo stesso coraggioso, forte e spietato; che curi i rapporti della banda con l’esterno: manutengoli, alleati, mediatori nei sequestri, negoziatori, messaggeri, capi militari, autorità civili ecc. Non diversamente nel Nordest del Brasile Limpião “aveva rapporti ed affari personali con ‘colonnelli’ e uomini politici, affari che conduceva privatamente e di cui nessuno, neppure i suoi più fidi, era a conoscenza”5. Al capo spetta la conduzione della guerra, che richiede ovviamente capacità tattiche e strategiche. Egli ha un potere ASI, Sottoprefettura d’ Isernia, Atti di Polizia, Brigantaggio 1867, gennaio-dicembre, b 6, fasc. Brigantaggio del mese di aprile 1867. Cro2: 81. Croci: 22. Fio: 23. 97 Q uaderni notevole, ma non deve abusarne, perché sa che non sarebbe seguito dai suoi gregari, ma soprattutto non deve sbagliare, perché i suoi non glielo perdonerebbero. Spetta al capo gestire i sequestri nel modo migliore: deve scegliere le persone giuste da sequestrare, fissare i turni di guardia delle sentinelle, far lavorare i gregari alla costruzione di capanne e giacigli per la notte, stabilire chi deve provvedere a trovare l’acqua, chi invece deve essere mandato a procurare il cibo; deve saper governare le tensioni, frenare le risse. I capibanda maggiori dovevano il loro succcesso alle loro capacità militari associate quasi sempre alla paura che destavano di sé, ma anche al loro carisma. Non è facile per noi farlo emergere da carte che non parlano, dal momento che la parola e la voce sono ingredienti fondamentali della comunicazione carismatica. Weber ha aperto una strada alla comprensione del fenomeno: il carisma è “una certa qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva sugli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di poteri o qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meglio specificamente eccezionali. Questi requisiti sono tali in quanto non accessibili alle persone normali, ma vengono considerati di origine divina o esemplari, così come basati sui poteri magici”6. Si rappresentano i capi carismatici come figure forti, imponenti, virili. Questa era l’immagine che Crocco suggeriva di sé, e in questo caso la rappresentazione era in gran parte specchio della realtà. In molti casi però i capi erano immaginati e perfino visti così, senza esserlo veramente. I capi poteva- 6 7 98 Web: 181. Hob2: 50; cfr. Tur; Lindh. no perfino essere bassi, balbuzienti, fragili o con qualche menomazione. Il carisma nasceva allora dalla loro capacità di trasformare nell’immaginario collettivo la mancanza in eccedenza, col supporto delle credenze popolari, che attribuiscono poteri magici alle persone segnate da difetti e menomazioni. Il che avveniva quando riuscivano ad avere successo per la loro intelligenza, il coraggio, la tenacia, la determinazione. Inoltre la loro condizione di debolezza e di sofferenza li rendeva simili alla media degli uomini, i quali si identificavano con loro, perché essi trasmettevano alle persone comuni la possibilità di cambiare il loro destino o almeno di condividere un sogno. Il mito getta luce su queste realtà: il brigante Angiolillo era immaginato orfano, il che faceva scattare meccanismi di identificazione, che consentivano alle classi oppresse di vivere, attraverso la storia del personaggio, una vicenda di umiliazione e di riscatto. Il lucano Ninco Nanco era balbuziente, ma questo non gli impedì di diventare un abilissimo stratega e un comandante di successo, riconosciuto come tale dallo stesso Crocco e da tutti i suoi: il suo successo era opera della sua astuzia, ma nel contesto culturale in cui operava si riteneva che le doti eccezionali fossero una prova del favore divino, il che conferiva un carattere carismatico ai suoi poteri. Sotto questo aspetto i briganti dell’epos non sono diversi dai briganti reali. Se essi appaiono deboli o addirittura inadeguati, la logica implicita è che “il Signore ha voluto che chiunque sia povero, umile e intimorito può fare grandi cose, se Dio così vuole”7. Insom- antropologia e storia ma l’aspetto seducente di queste situazioni vissute o narrate era che anche gli uomini comuni, col loro carico di debolezze e paure, sono capaci di grandi cose, di ribellarsi e riportare vittorie8. Non sempre il carisma nasce ed opera spontaneamente, perché il più della volte è un’abile costruzione del leader, prodotta dalla sua capacità di trasmettere e far condividere il suo sogno; ma è anche una costruzione dei suoi seguaci, per i quali il capo carismatico è “uno di noi”, che sa coinvolgerli nel fascino di un’avventura, in cui investono speranze e illusioni. Il capo aveva alcuni dei privilegi che spettano alle autorità, per esempio non fare cose troppo ordinarie o di routine, come fare la guardia di notte. Nella banda di Manzo questa che era la decisione di un momento diventò per volontà di tutta la banda una regola9. Esistevano altri segni di distinzione, che concernevano il cibo, il vestiario, e altro: il capobanda Barone e Luisa Mollo, che comandavano un centinaio di uomini, mangiavano in piatti d’argento i pasti raffinati che mandavano i manutengoli10. Erano, questi, vantaggi materiali, che avevano una forte pregnanza simbolica. Più intenzionalmente il capo ostenta il suo potere attraverso altri segni e simboli: oltre gli ori e i gioielli, si dota di armi particolarmente efficaci e di pregio. Chiavone “nella fusciacca teneva un grosso revolver a sei colpi ed una delle sue guide lo seguiva dappertutto con una magnifica dop- 8 9 12 13 14 15 10 11 / 2 – comicità e politica pietta intarsiata, di cui una canna era caricata a palle e l’altra con schegge di piombo11. Nelle bande numerose come quelle di Crocco e del Sergente Romano c’era il Consiglio dei capi12. Nelle riunioni prevaleva la maggioranza. In genere il capo fa in modo che si discuta anche intensamente, ma minaccia di sciogliere la seduta quando la discussione rischia di degenerare in rissa13. Il capo è di solito responsabile e cosciente dei suoi doveri: nei momenti particolarmente importanti, come la programmazione di un sequestro, la decisione di mutilare i sequestrati ecc., egli convoca il Consiglio, formato dalla totalità della banda, che si svolge in modo formale e regolare14. Dopo la presa di Stigliano, Crocco, davanti al rischio di un movimento avvolgente della truppa e dei militi cittadini convoca i vertici dell’esercito: “Si tiene consiglio tra i capi e prevale l’idea di evitare lo scontro guadagnando la boscaglia della montagna”. Crocco consultava di preferenza gli ex ufficiali e sottufficiali dell’esercito borbonico diventati briganti. Nella più complessa delle sue operazioni militari, dopo aver fortificata Toppacivita, egli sceglie di consigliarsi, tra i capi, “col vecchio capitano Antonio Bosco, col luogotenente Francesco N., col sottotenente Luigi Siciliano e coi vecchi sottufficiali dell’esercito borbonico”, e da essi ha la conferma che le proprie posizioni “erano formidabili”15. Il capobanda calabrese Pietro Bianco, Sca2: 110. Fri2: 144.45. Cimm: 84. Zimm: 69. Cro2: 117; Luc2: 42. DBia: 193. DBia: 193. Cro2: 117, 81. 99 Q uaderni prima di andare a trovare la sua Generosa, consapevole del fatto che la sua cattura o uccisione sarebbe una perdita grave per i suoi compagni, ritiene doveroso riunirli e informarli delle sue intenzioni16: la situazione è un po’ ambigua, perché non si capisce bene se egli comunica decisioni già prese, o attende l’assenso, sia pure non convinto, dei suoi compagni: ma conta il fatto che ritenga suo dovere ascoltarli. Crocco sostenne in tribunale di essere stato agli ordini del francese Langlois, e che soltanto dopo la sua partenza assunse, per ordine suo, il comando del più vasto conglomerato di bande lucane. In realtà il capobanda, nel corso del processo, per alleggerire le sue responsabilità soprattutto in relazione agli eccessi e alle efferatezze dei capibanda, aveva accentuato per un verso la sua dipendenza da Langlois, per un altro l’indipendenza nei suoi confronti delle numerose bande che lo riconoscevano come capo dei capi. Quarantatrè bande medie e medio-piccole riconoscevano in lui il loro capo supremo. Non esisteva alcun legame formale tra queste formazioni, oltre la possibilità, ampiamente sfruttata da Crocco, di libere aggregazioni in vista di operazioni particolarmente importanti. Al processo il capo dei capi dichiarò che egli, finché rimase agli ordini di Langlois, non comandava alcuna banda, ma “era in relazione con tutti i capi”. In realtà, Crocco aveva anche un nucleo di persone che dipendeva direttamente da lui: “Fra le varie bande che infestavano la Basilicata, posso affermare senza tema di essere smentito, che la mia era la più ordinata e la meglio organizzata”. Questa banda peSca1:159. Cro2: 162, 138, 178. 16 17 100 riodicamente si ingrossava grazie all’aggregazione di una parte, ogni volta mutevole, delle quarantatrè bande, i cui capi normalmente obbedivano ai suoi ordini: “Coppa, Ninco Nanco, Caruso, Tortora, Serravalle e molti altri che ebbero il comando di bande, furono tutti miei dipendenti, ed ebbero in seguito sempre un sentimento di rispetto per il loro generale”. Il rapporto delle comitive con Crocco era fondamentalmente di tipo carismatico, e si alimentava nei casi più importanti di una profonda e salda amicizia e stima, con cui teneva stretti a sé i luogotenenti. Grandi amicizie furono soprattutto quelle che lo legavano a Ninco Nanco, Coppa, Schiavone, Sacchetiello, Michele Caruso. Per Crocco il capo deve al tempo stesso “farsi amare, ubbidire e temere”, lasciando ai subordinati larga autonomia, e al tempo stesso pretendere il rispetto di poche regole ineludibili. Era questo lo stile del comandante Crocco: “I miei gregari mi amavano e mi ubbidivano senza bisogno di mezzi coercitivi, qualche severo esempio, dovuto dare per disciplinare le orde, mi fu strappato direi quasi a forza dalla necessità del momento, ma fui sempre con tutti affabile ed amico, anziché superiore. Ogni mio desiderio era ordine per i miei gregari”. Al processo Crocco insistette più del giusto sull’autonomia dei suoi luogotenenti, per prendere le distanze dalle loro efferatezze. Lo fece anche con Ninco Nanco, che amava profondamente. Accusato di avere ucciso Salvatore Mongelli, attribuì questo delitto al suo luogotenente, aggiungendo: Ninco Nanco “non prese, né era solito prendere da me gli ordini, quando voleva esercitare qual- antropologia e storia che vendetta”17. Riconobbe tuttavia di avere trasmesso il suo stile di comando a Ninco Nanco e a suo fratello, che egli considerva suoi allievi: “Voi avete saputo il sito dove nacquero questi due fratelli, da chi avevano essi apprese l’arte di comandare uomini, farsi amare, ubbidire, e temere, dove attinsero queste tre sublimi virtù, tanto difficile a godersi, quanto difficile a possedersi, eppure uno rozzo contadino, senza conoscere neanche la z, tartaglione, rozzo, e selvaggio, era temuto ubbidite ed amate da una banda formidabile, cui riponeva la fiducia in lui per la loro salvezza e non restavano mai delusi”18. Disciplina Tutti i militari riconobbero che “la disciplina che regnava nelle bande era ferrea, basata soprattutto sul prestigio personale e sul timore che ispirava il capo e che da essi ‘veniva mantenuta mediante un continuo sistema di terrore’19, fondato, secondo lo stesso generale Pallavicini, su “esemplari repressioni”20. Non tutti e non sempre i capibanda fondavano il loro potere sul terrore. Più frequentemente questo accadeva nelle piccole bande, isolate ed esposte alla deriva criminale. La sapienza dei capi era anche nella capacità di modulare il rigore sulla maggiore o minore gravità delle trasgressioni, disobbedienze o irregolarità. La regola era quella ereditata dai romani: “de minimis non curat pretor”. Questo valeva soprattutto per chi era a capo di grandi bande, più responsa- 20 21 18 19 / 2 – comicità e politica bilizzato a tenere conto della diversità delle situazioni. Anche in questo Crocco era un maestro, mentre i suoi luogotenenti si distinsero soprattutto per valore, capacità militari e ferocia: “Padrone di un paese – egli narra – imponevo ai ricchi onerose taglie impensabili pel vettovagliamento dei miei uomini, né pretendevo di più; non avevo per altro tanta autorità sui numerosissimi compagni da imporre ad ognuno il rispetto della proprietà e della famiglia, onde più di una volta è successo che i signori, dopo aver dato a me la metà dei loro averi, dovettero dare l’altra metà ai sottocapi, e vedersi per di più violate le donne senza poter reagire, pena la vita”. Dunque, una indulgenza senza condivisione, non infrequente nella storia degli abusi militari di tutti i tempi. Crocco cercherà poi di giustificarsi, a spese dei suoi stimati compagni: “Io ero alla testa di uomini che appartenevano alla feccia della società. Io dunque non potevo frenare il loro istinto di commettere furti e rapine senza badare al colore politico delle persone che venivano depredate”21. Per tutti però il mantenimento dell’ordine era una priorità assoluta, da perseguire con durezza e determinazione, anche brutale. Le pene, anche estreme, erano lo strumento più efficace. Il colonnello Caruso puniva con la morte chi non eseguiva i suoi ordini o esitava a farlo. Eseguiva lui stesso la sentenza, perché le regole di guerra imponevano che fossero i capi a farlo. Non era il solo. Nel regolamento trovato addosso al capobanda Andreozzi si legge: “Durante il combattimento qualunque atto d’insubordi- Cro4: 68-69. Bour: 68-69. Molfese in Desi: 827. Cro2: 108; Appendice, 166. 101 Q uaderni nazione o disobbedienza deve essere punito dal capobanda in persona con una schioppettata o pistolettata nella testa”22. A differenza di Caruso, davanti alle disobbedienze Ninco Nanco “dissimulava, ma non tardava a trovare un’occasione propizia per punire chi gli aveva disobbedito o in qualunque modo mancato”. Coppa fece fucilare suo fratello, colpevole di avere saccheggiato una masseria di sua iniziativa23. Barone faceva fucilare chi si rifiutava di prendere parte alle operazioni di guerra o di razzia24. Manzo, che non commise altri omicidi, fece fucilare un gregario che si era rifiutato di eseguire un suo ordine, e i suoi briganti erano convinti che lo avrebbe fatto ancora. Questo però prova solo il timore che i gregari avevano di Manzo, perché normalmente “chi non taceva quando arrivava l’ordine, incassava solo una bastonata”25. Era punita con la morte la defezione o semplicemente chi pensava di farla, perché chi lasciava la banda diventava pericoloso per la banda stessa, potendo diventare collaboratore delle forze dell’ordine e fornire ad esse informazioni preziose. Chiavone fece fucilare Basile, capo di una banda minore di Campobasso, aggregata alla sua comitiva, perché aveva deciso di abbandonare insieme ai suoi uomini la truppa brigantesca, non sopportando di stare “sotto un comandante vigliacco ed incapace”26. Negli ultimi tempi della 24 25 26 27 28 29 30 22 23 102 In Barto: 56-57. Bour: 95. BaB1:19, 21-22; Cimm: 79. Moe3: 112. Zimm: 123-124. Bour: 95. Luc2: 41. Fri2: 172. Cro2: Appendice, 188. sua vita alla macchia Ninco Nanco capì che alcuni della banda tramavano per costituirsi alle autorità, ma finse di non saperlo, finché qualche giorno dopo con i suoi uomini più fedeli li uccise durante il riposo27. La specificità di alcune situazioni complesse poteva comportare delle deroghe a questa pratica: il Sergente Romano convocò il Consiglio dei capi per condannare a morte tre fratelli briganti per avere sparato senza autorizzazione a un giovane che tentava di abbandonare la banda28. Nella comitiva di Manzo i briganti maltrattano sistematicamente Guancio; dopo avere a lungo sopportato, la vittima minaccia di volere andar via e costituirsi. I compagni minacciano di ucciderlo, lo trattengono e lo pestano29. I codardi erano puniti con la morte nelle formazioni del Sergente Romano. Di solito anche il furto all’interno della banda era punito con la pena capitale. Nella banda di Crocco due prostitute andandosene avevano rubato un portamoneta, i briganti le raggiunsero e, dopo che esse lo ebbero restituito, le uccisero30. Il capo che non rispetta le regole, che nelle bande piccole e medie prevedono l’eguale ripartizione del denaro, dei beni e del cibo, può essere deposto, di solito senza drammi eccessivi: è capitato a Cerino, capo di una banda di una dozzina di uomini del salernitano, che fu deposto per avere favorito nella spartizione del cibo la sua donna e se antropologia e storia stesso31. Poteva essere deposto anche il capo che pensava in maniera troppo diversa dalla sua banda, a giudizio dei più, sbagliando. A Pontelandolfo, poco tempo prima della distruzione compiuta dall’esercito, “le bande là radunate, sospettando del Pica, ch’aveano saputo facesse fuggire i liberali, lo deposero; poi garrirono pel comando: chi vuole Cosmo Giordano, chi Leone, ambi ex sergenti; questi è ferito, e si ritira, quegli resta; ma i più scontenti si vanno diradando, e ritraggonsi al Matese”32. Quando si rivelavano incapaci, i capi potevano essere perfino uccisi. Se non accadeva spesso, dipendeva dal fatto che la selezione naturale, da cui essi emergevano, era rigorosissima: ne andava della vita di tutti. Quando la disciplina all’interno della banda si allentava, era segno che il potere del capo cominciava ad entrare in crisi ed il suo declino lo esponeva al rischio del declassamento, della deposizione o dell’uccisione. Come accadde in una squadra della banda di Cosimo Giordano, in cui i “frequenti contatti con altri capibanda, ammirati per l’ordine e la tempestività con cui sottraggono le comitive all’inseguimento della truppa, sminuiscono il prestigio del caposquadra Gennaro Puzella di Paupisi, che viene ucciso dai suoi stessi gregari il 12 settembre 1862, nella convinzione che per incapacità di condurli in salvo attraverso i monti, possa farli cadere in mano dei piemontesi”33. Michelangelo Fortunato (Coppa), quando era gregario di Giuseppe Girardi, si di- / 2 – comicità e politica chiarò contrario alla decisione del capobanda di eliminare un contadino di Muro. Girardi cercò di ucciderlo, ma Coppa fu più pronto di lui e lo stese al suolo34. L’episodio dimostra che c’era comunque un limite al potere del capo, che ci si poteva opporre alle sentenze, quando fossero ritenute ingiuste. Nei casi più gravi era inevitabile la sfida tra il capo e il ribelle, e il duello funzionava come un arcaico giudizio di Dio, perché la banda accettava il vincitore, anche perché era garantita dal fatto che, per avere ucciso lealmente un comandante, egli stesso doveva essere all’altezza di un capo. Si confermava insomma il modo di pensare tradizionale, sia pure in forma retroattiva, secondo cui solo un (potenziale) capo può uccidere un capo. Nel Cilento il capobanda Tranchella, per ragioni che ci sfuggono, aiutato da due gregari uccise due capibanda35. Le situazioni di crisi potevano essere all’origine di altre situazioni pericolosamente sfavorevoli ai capi: per esempio, la volontà di alcuni della banda di consegnarsi alle autorità. Come abbiamo visto, in questi casi c’era da aspettarsi o che il capobanda uccidesse i gregari, come pare richiedesse il codice non scritto delle bande, o che i gregari eliminassero il capo per poi presentarsi con un altro titolo di merito alle autorità. Sembra questo il caso di Giuseppe Mele, che il 20 febbraio 1864 si consegnò in Avigliano, dopo avere ucciso il capobanda Andreozzi e un suo gregario36. Moe3: 94, 212. DeSi: 74. 33 Sang: 316; Museo Biblioteca Archivio Storico del Sannio, Benevento, Elenco nominativo dei briganti fucilati o uccisi in conflitto, Cerreto, Brigantaggio 1862. 34 ACS, Tribunale Militare per la repressione del Brigantaggio nelle Province Meridionali, c. 158 - 52. 35 Fri2: 117. 36 Bour: 220. 31 32 103 Q uaderni Fuori da queste logiche rimane il caso dell’omicidio su commissione, eseguito da briganti traditori al soldo delle autorità o dei proprietari, che spesso erano manutengoli pentiti. Due gregari prezzolati dall’esercito uccisero il capobanda silano Pietro Monaco e ferirono al braccio sua moglie, la brigantessa Maria Oliverio37. Il capobanda abruzzese Domenico Di Sciascio fu ucciso sulla Maiella da un colpo di pistola all’orecchio. Lo uccise mentre riposava, per intascare la taglia, uno della sua banda38. Queste uccisioni facevano orrore nella banda. L’attentato alla vita del capo per impadronirsi dei suoi beni o per intascare la taglia o il denaro promesso dai nemici era un’azione delittuosa da punire con la morte: quando tre briganti della piccola banda di Rosario Nunziante, attiva nel bosco di Persano, si aggregarono alla banda Manzo, “nella comitiva si diffuse il sospetto, non del tutto infondato, che i nuovi arrivati avessero ucciso il loro capo per depredarlo delle sue cose. Rimase sempre un sospetto, perché se Manzo si fosse convinto che essi si erano macchiati di un simile delitto, nel rispetto della legge dei briganti, li avrebbe senz’altro uccisi”39. Conclusivamente, quello delle bande era una sorta di egalitarismo di guerra, non necessariamente eretto a filosofia di vita. La controsocietà dei briganti mutuava, tra l’altro, dalla società regolare il rispetto delle differenze sociali: tra i sequestrati della banda Manzo a quelli che “erano conosciuti come impiegati della fabbrica, e perciò non erano visti come galantuomini, né trattati come 39 40 41 37 38 104 tali, non gli veniva dato neanche il titolo di don, bensì venivano chiamati semplicemente col nome di battesimo; essi dovevano anche collaborare alla costruzione delle capanne ed alimentare il fuoco, procurare legna e neve ecc.”: obblighi dai quali erano esentati i sequestrati ritenuti nobili. Le decisioni fondamentali della banda venivano comunque prese collettivamente. Per esempio, quando non veniva pagato per intero il riscatto, gli ostaggi potevano essere liberati soltanto per decisione unanime di tutta la banda40. Solo il merito differenziava i membri della comitiva, ma non costituiva una ragione per accumulare privilegi, era però la condizione per salire nella gerarchia militare di un piccolo esercito che nel suo interesse premiava le persone più capaci di assicurare la sopravvivenza della banda. Il familismo era presente, ed era accettato, perché i legami familiari compattavano il gruppo, ma non potevano essere lo strumento per acquisire riconoscimenti non meritati: il prestigio di Barone nella banda era indebolito dal fatto che favoriva due persone incapaci, soltanto perché erano il padre e il fratello della sua amante Luisa Mollo41. II. La vita alla macchia Uomini e lupi I briganti si autorappresentavano come lupi, secondo una immagine diffusa tra pastori e contadini. Il prestigio di cui essi go- AUSSME, Divisione Militare Territoriale di Catanzaro, cc. 1-54. Archivio di Stato di Lanciano, in Mont: 85, 132. Lich: 91, n. 44. Lich: 59, 72. Cimm: 68. antropologia e storia devano nasceva anche dal fatto che “usavano tali vendette da far drizzare i capelli sul capo ai più intrepidi”, e anche per questo erano “riguardati come esseri superiori e con superstizioso terrore”42. Era il potere di garantire la vita o dare la morte. Era l’omicidio spaventoso, nella sua valenza arcaica di violazione del tabù del sangue, a rendere soprannaturale, “fatato” il brigante. Esisteva una complessa mitologia sul lupo nella cultura folklorica. Per i briganti incontrare un lupo è segno di buona fortuna, perché essi “si considerano paragonabili ai lupi”. Era, insomma, una epifania totemica. Quando briganti e sequestrati della banda Manzo ne vedono uno, battezzano il luogo, “nel loro barbaro dialetto”, Lup’ a lup’, ossia “lupo a lupo”43. L’identificazione simbolica è confermata dal fatto che quando si chiamano tra loro, senza farsi capire dai nemici, i briganti imitano l’ululato del lupo44. Quando ritornano nel loro rifugio ripetono: “Ce ne siamo tornati al nostro palazzo di frasche, quello dei lupi”45. Ma tutta la vita del brigante è un doppio della vita del lupo: A vita de u lupu vogliu hare, giacché ccussì bò lla sorta mia! U iuornu mi nde vaiu a mme mboscare, lla notte mi nde vaiu ppe lla via: hazzu a guardia duv’ è lu pecuraru, mu me scarta n’aniglia a boglia mia, e si ppe casu abbaianu li cani, iettu nu sautu e mme truovu a la via46. 44 45 46 47 48 42 43 / 2 – comicità e politica (“Voglio fare la vita del lupo/ perché così vuole il mio destino./ Il giorno mi nascondo nel bosco, / la notte me ne vado per la strada; / sorveglio dove sta il pecoraio, / che mi scelga un agnello a piacer mio, / e se per caso abbaiano i cani, / faccio un salto e mi trovo sulla strada”) Nell’immaginario contadino e pastorale la vita del lupo è legata sia all’idea del branco, che a quella della solitudine; in quest’ultimo caso il brigante è un “lupo solarino”, ossia solitario47. All’epoca del grande brigantaggio domina incontrastato nei boschi il branco; ma il lupo solitario ha lasciato un segno che ancora dura. In tutto il folklore europeo l’immagine del lupo è ambivalente: come il brigante, è un maledetto, incarnazione del disordine e dell’asocialità, ma al tempo stesso è una figura d’eccezione, tanto forte da vivere libero dai vincoli e dalle ristrettezze sociali. Rappresenta lo stato selvaggio, di cui conserva la forza e la destrezza; per questo è temuto e ammirato. Sognare un lupo è di buon augurio. In quanto portatore di fortuna, il lupo è un animale sacro e nelle tradizioni popolari anche il brigante, come il suo totem, è figura magica, capace di prodigi48. I fuggiaschi e i proscritti erano dai popoli indoeuropei chiamati lupi. Ancora nelle leggi di Edoardo il Confessore, intorno al 1000 d.C., si stabilisce che il proscritto deve portare una maschera di lupo. Nel mondo classico questa connotazione animalesca è presente, come attributo, nelle divinità protettrici degli esi- Bart: 47. Moe3: 190-91. Moe3: 121. GiG2: 22. In Sca1: 138. DiG2: 12, 22, 30. Sca2: 60-64. 105 Q uaderni liati49. Le divinità che proteggevano gli esiliati e i fuorusciti avevano gli attributi del lupo, come Zeus Lucreio e Apollo Liceo. Come Gengis Kan, dai lupi i briganti, soprattutto i briganti pastori, hanno imparato l’arte di vivere, di predare e di combattere. Gli uni e gli altri sono guerrieri dignitosi, che si nutrono con le loro forze. Sono pazienti, organizzati, intelligenti. Aspettano che le loro prede si gonfino mangiando, così si appesantiscono. Ma sanno sempre aspettare il momento giusto. La donna mongola è un lupo, forse anche le brigantesse, e lo erano, in genere, le donne forti e ribelli. Dai lupi i briganti sembrano avere imparato molti comportamenti, a cominciare dal forte senso di appartenenza che fa loro preferire nella predazione e nell’attacco il lavoro di squadra. Grandissima l’attenzione per i cuccioli. I lupi hanno due tane: in caso di pericolo mettono al sicuro i loro cuccioli in una di esse e si fanno inseguire nella seconda tana. Se si uccidono i loro cuccioli, i lupi diventano furiosi, e attaccheranno con maggiore violenza. Reagivano in questo modo soprattutto le brigantesse. Se si fa prigioniero un cucciolo, i lupi andranno a liberarlo, se lo riconoscono come loro; se non sa cacciare come loro, perché è cresciuto cogli uomini, non lo riconoscono e lo uccidono. Analogamente i briganti sono spietati con i compagni e i paesani passati dall’altra parte. Il lupo è molto legato anche alla sua compagna: le forze dell’ordine sapevano che, se vuoi il brigante, devi prendere la sua donna, come i cacciatori fanno con la compagna del lupo, perché presto verrà a cercarla. Molto Eli2: 12. 49 106 altro i briganti hanno imparato dai lupi: la loro tana ha spesso due uscite come quella dei lupi, e, come i lupi, entrano nel loro rifugio strisciando. Esistono i sentieri dei lupi, come esistono i sentieri dei briganti: lupi e briganti non si muovono mai a zig zag. Il lupo e l’Altro Chi ha conosciuto veramente i briganti, a parte i militari, che li hanno combattuti, uccisi, carcerati, sorvegliati, deportati? Oltre le loro donne brigantesse, i soli che siano vissuti per settimane, mesi e perfino anni con i briganti allo stato libero, condividendo con loro difficoltà, pericoli, malattie, digiuni, spazi angusti, fughe interminabili, nascondigli, sudiciume, orge alimentari improvvise e insperate, furono i sequestrati. Una singolare convivenza forzosa di due opposte condizioni umane, quella dei carcerieri e dei carcerati, che ribaltava radicalmente le normali condizioni dell’esistenza, che vuole i primi tra gli oppressori e i secondi tra gli oppressi; ma anche di opposte culture, che in alcuni casi vedeva convivere e confrontarsi la cultura dei briganti meridionali e quella degli stranieri, inglesi, svizzeri, tedeschi, francesi. I sequestri furono perciò un incontro estremamente ravvicinato di culture, che, nonostante la situazione eccezionale di coazione in cui l’incontro avvenne, approdò a forme di conoscenza reciproca, che fanno di questi episodi della guerriglia brigantesca delle vicende esemplari e delle fonti preziose. Per il sequestrato Friedli, che ebbe tutto il tempo di studiare sul terreno la banda antropologia e storia Manzo, “in genere si deve riconoscere ad alcuni di questi briganti una certa bellezza romantica”. Manzo “è un uomo di statura media piuttosto che piccola, quasi snello, ma con un largo petto completamente sviluppato; già da lontano si può scorgere l’agilità della sua figura fisica; la sua testa mostra quasi un profilo greco; il naso elegantemente scolpito, ma forte, è un po’ curvo; la fronte è quasi piccola, le grosse sopracciglia curve; i begli occhi marroni, il cui sguardo appare molto penetrante, hanno perduto in seguito alla sua vita di brigante la nobile pace; una meravigliosa, media, bionda barba circonda la nobile bocca elegantemente scolpita e il quasi forte mento; i fini, lucidi, biondi capelli egli porta quasi fino alle spalle. Il suo portamento e la sua andatura sono fieri, direi quasi nobili; solo a tratti si mostra felino. Ha circa 28 anni”50. Non si tratta di un caso isolato. Il capobanda calabrese Domenico Palma, visto da un sequestrato che lo aveva in simpatia, è detto “di statura mezzana e tarchiato, mancava nel volto di quell’orrida e selvaggia impronta, che ordinariamente caratterizza questa nomade genìa di malfattori”51. In tribunale Palma così viene descritto: “Egli era un uomo di bassa statura, ma tarchiato e ben forte sulle gambe. Distinguevasi nel volto abbronzato la caratteristica di un tipo non volgare; il lampo dei suoi occhi lo dimostrava furbo, audace, impetuoso; il sorriso che erravagli di frequente sulle labbra lo diceva di buon umore contento di se stesso”; era un 52 53 54 50 51 / 2 – comicità e politica uomo di 40 anni, con un “portamento maestoso” e una “virile bellezza”52. Ecco come un sequestrato svizzero rappresenta il ritorno di alcuni briganti della banda Manzo: “La sfilata dei sopraggiunti offrì una rara scena romantica. Con un cappello di forma bizzarra sul capo, la doppia-canna in spalle, il mantello gettato addosso trascuratamente, tradivano non solo a prima vista il loro pericoloso mestiere; il loro superbo portamento, la loro placida, oserei dire nobile andatura rispecchiavano quella pittoresca eleganza che così spesso contrassegna il più volgare napoletano. Sarebbe stato senz’altro un magnifico tema per un pittore di genere”53. Dimenticando i maltrattamenti subiti, i sequestrati sembrano a volte affascinati dai loro sequestratori. Quasi una forma imprevedibile e inedita di sindrome di Stoccolma. Questo il ritratto di un brigante della banda Parra disegnato da un prigioniero: “Tra gli altri che io osservavo ve n’era uno che destava la mia attenzione e simpatia. Erano in lui riuniti in accordo perfetto, una maschia bellezza fisica, una distinzione, una forza eccezionale. Il suo volto bianco, regolare, era abbellito da due piccoli baffi biondi e da una lunga barba che, sebbene fosse incolta, lo rendeva più simpatico ancora. Due occhi azzurri, due occhi da slavo, pieni di irresistibile incanto, denotavano in modo non dubbio un giovane buono, leale, espansivo, che forse per tristi avventure fatali trovavasi sulla via dell’errore”54. Fri2: 131. Falc2: 163. Gradi: 829. Fri2: 159. DBia: 183. 107 Q uaderni Dopo essersi per mesi reciprocamente detestati e contraddittoriamente apprezzati, compresi, tollerati, briganti e sequestrati svizzeri si ritrovano radicalmente cambiati alla fine dell’esperienza. La liberazione degli stranieri e il congedo dai loro carcerieri rappresenta uno di quei momenti, in cui la positività dell’incontro emerge con tutta la sua forza e profondità: “Nel congedarci da Matteo Stiusi non mancammo di esprimergli i nostri affettuosi ringraziamenti per l’amicizia che ci aveva dimostrato, durante quello che speriamo sia il più triste capitolo della nostra vita. Egli si scusò di non averci potuto regalare anelli ecc. come aveva fatto Giacomo Parra, perché proprio non ne aveva, ma noi lo rassicurammo che anche senza ciò lo avremmo ricordato con gratitudine. Quindi ci baciò come vecchi amici e ci separammo, ma spesso ci voltavamo ancora per guardare di nuovo sull’altura dalla quale, con sguardo malinconico, ci accompagnò fino a quando infine gli alberi lo nascosero ai nostri occhi. Come ci dispiaceva di non poter ricondurre quest’uomo con noi alla vita pacifica; come più dovevamo piangere il suo destino e incolpare il suo corruttore che lo aveva indotto, mentre forse avrebbe potuto essere uno dei migliori cittadini, ad armarsi la mano criminale contro la legge e l’ordine. Anche Giacomo sembrò giù di morale per la nostra partenza. Quando ci strinse la mano per l’addio, disse soltanto: – Non ci giudicate troppo! – […] Manzo ed alcuni altri briganti ci regalarono poi ancora anelli; Manzo diede al signor Fritz quindici napoleoni d’oro ai quali più tardi aggiunse Fri2: 187-193. DBia: 200. 55 56 108 altri cinque, il tutto ‘per prendere un caffè ad Acerno’. Il regalo fu dato con la dignità e l’affabilità di un grande”. Inoltre Manzo ordinò ai sequestrati di lavarsi per bene, perché non voleva che lo facessero ‘scomparire’, cioè lo mettessero in cattiva luce. Infine, “al nostro congedo, tutti ci strinsero la mano, alcuni ci baciarono persino e ci chiesero scusa se non si erano comportati con noi come avrebbero dovuto e come avremmo desiderato”55. Aanaloghe le memorie del sequestrato della banda Parra-Meola: dopo che il capobanda Cerino ebbe anticipato il denaro del riscatto, i sequestrati vengono liberati; allora “ci baciammo col Cerino e cogli altri briganti, e fummo accompagnati da tutti fino alla vetta del monte. Avemmo da essi un napoleone e mezzo con cui avessimo far fronte alle spese di viaggio. Io ebbi ancora un regalo dal Meola, un orologio d’oro che ancora serbo in memoria di quel tempo tristo. Giunti alla vetta del monte ci fu indicata la via da percorrere, e fummo lasciati liberi”56. Il lato nomade e avventuroso Anche se il brigantaggio postunitario è qualcosa di diverso dal brigantaggio tradizionale, il modello rappresentato da quest’ultimo, nelle forme in cui si era radicato nella mente della gente, pesava nella rappresentazione dei nuovi briganti e nella stessa organizzazione della loro vita, come struttura mentale preesistente e precostitui­ ta. Così, agli occhi di chi rimane nel paese il brigante è un nomade, che ha la vita ramin- antropologia e storia ga dei senza dimora e senza proprietà. In larga misura il brigante è realmente questo, e se ha un luogo per nutrirsi, riposare, dormire, sarà quasi sempre un luogo (capanna, mensa, dormitorio), momentaneo e per lo più collettivo. Ma il brigante è un nomade (anche se in maniera diversa) anche ai suoi stesso occhi, e come tale si comporta: Maria Maddalena De Lellis, prima di darsi alla macchia, vende la propria abitazione, perché il briganti non hanno casa. Nei suoi canti il fuggiasco dà per scontato che morirà come un cane e la sua casa da morto sarà nella valle invece che nel cimitero del paese57. La condizione del nomade poteva essere l’effetto di una condanna, più che di una libera scelta. Ma il brigante ci metteva dentro assai più della sua disperazione di ramingo. Egli non spezza i suoi legami col paese, ma al tempo stesso sembra molto preso dalla sua vita di nomade. È un’occasione per soddisfare un bisogno ancestrale, che si è strutturato nel cervello del cacciatore preistorico, quello stesso forse che è nelle motivazioni del pellegrino, dell’emigrante, del turista. Tutti amano la sorprendente varietà di luoghi, la novità dei paesaggi, di odori, di cibi, gli incontri con genti nuove, le forme di vita e i modi di pensare diversi, in territori che facevano pensare per la loro diversità all’abito di Arlecchino. Francesco Saverio Nitti nel linguaggio del tempo aveva anticipato queste osservazioni: “Le genti dell’Italia meridionale, risultato delle mistioni di razze sì varie, hanno forse da tanti incroci, forse più ancora dalla rapidità loro nell’ideare, una vaga tendenza alla vita / 2 – comicità e politica di avventure. Vi è, soprattutto nelle genti di Basilicata e di Calabria, un senso di misticismo inconscio, un misticismo rozzo e quasi selvaggio”. I luoghi sacri sono quasi sempre lontano dai paesi, e la gente li visita in continue processioni: “nei lunghi pellegrinaggi il misticismo si trasforma; diventa qualche volta desiderio di avventure. Il pellegrino è ora più che non si pensi il precursore dell’emigrante; in altri tempi era il precursore del brigante. Nulla di più naturale che, nelle lunghe notti vegliate, nelle lunghe vigilie, nell’incontrarsi con genti nuove, sorga un bisogno di andar lontano e di espandersi. La terra maligna, che dà la febbre e uccide, discaccia. La razza sabellica ama l’intraprendenza e l’ignoto; la Basilicata, che non ha la quarta parte della popolazione di Toscana, manda fuori di Europa assai più del doppio di emigranti all’anno. Senza dubbio la causa più profonda e più generale è la miseria; ma io non oserei dire che non vi sia in molti casi un bisogno di tentare e di cercare”58. Nella sua vita errabonda per necessità il brigante non rinuncia a volte a viaggiare come un turista: nella banda Manzo, assillata dal problema di nascondersi con i sequestrati, Giacomo [Parra], ancora convalescente, si concede una pausa dalle risse e dalla noia dell’inoperosità, intraprendendo un viaggio “col quale egli si riprometteva di distrarsi”59. Alla fine, i briganti sono una parte di quell’“oscura e sconcertante folla di fatalisti attivi”, il cui impulso verso l’ignoto, rappresentato dall’avventura del brigantaggio e dell’emigrazione, costituisce “un sentimento di obbedienza incondizionata a una fatalità esterna sovru- Sca1: 134-39. Nitt: 50. 59 Fri2: 172. 57 58 109 Q uaderni mana che li conduce, attribuendo alla volontà divina i meriti di quella indomita, tenace eroica volontà di vivere e di lavorare, a cui devono la sopravvivenza della propria razza attraverso millenni”60. Il riposo del diavolo I sequestrati della banda Manzo credevano di trovare conferma nel comportamento dei briganti della rinomata pigrizia gaudente e colpevole degli italiani: “L’italiano parla del ‘dolce far niente’, e può poltrire fiaccamente per giorni interi; tuttavia anche per lui la noia è una cattiva consigliera, e può indurlo a qualche stoltezza o a qualche crimine, mentre il nostro proverbio dice, ed è vero, che l’ozio è il banco di riposo del diavolo, e la pelle d’orso su cui poltrisce lo sfaccendato ne è un avanzo infestato di orribili insetti”61. Se le generalizzazioni degli svizzeri prigionieri sono per lo meno discutibili, le loro osservazioni empiriche sono quasi sempre attente e perspicaci, e correggono i loro stessi stereotipi etnici, come quando rilevano la resistenza dei loro sorveglianti ad andare a fare provvista d’acqua lontano dal loro covo: “Il napoletano, come l’italiano in generale, non è di solito fannullone dalla nascita. Solo uno della banda, Antonio Maluomo (Antonio Luongo da Acerno), aveva affermato di essere diventato brigante per pigrizia”62. Erano le condizioni di vita dei briganti, incessantemente braccati dalle forze dell’ordine, spiati 62 63 64 60 61 110 G. Salvemini in DiG3: 18. Lich: 46. Lich: 60. DiPr: 97. DeWi: 71. ogni momento da potenziali delatori, cercati avidamente dai cacciatori di taglie, a rendere “oziosa”, ossia inoperosa, la loro esistenza nei boschi. Dagli interrogatori emerge che i briganti passavano gran parte del giorno a nascondersi, per sottrarsi alla vista delle pattuglie che li cercavano63. Ma effettivamente l’ozio era anche il banco di riposo del diavolo, perché, come scriveva un ufficiale dell’esercito italiano, “quei devoti masnadieri, quando siansi costituiti in disciplinata banda esigono dalle soggette popolazioni di quei boscarecci paesi le vergini più belle, le più rilevanti somme di denaro, le migliori armi e cavalcature, i frutti più squisiti dei giardini, i più grassi agnelli dell’ovile, i vini prelibati delle cantine dei ricchi, e talvolta gli amplessi delle loro mogli. Solo a tali condizioni lasciano vivere i benestanti, e rispettano le loro proprietà, in caso diverso, incendio delle case e sterminio delle persone”, “sempre rapaci come aquila alpina, quando spicca il volo dalla rupe altiera e si avvia a far preda nella convalle”64. Tutto questo poteva generare un delirio di onnipotenza. Il capo banda Ciardullo diceva ai suoi squestrati: “Quante volte, dinanzi ai caffè, avete sparlato dei briganti e di volerne far questo e quello, ed ora siete nelle nostre mani? E siamo più potenti noi del Re! ché dov’egli ha bisogno di giudici e tribunali per far festa ad uno, noi più spicci diciamo: inginocchiatevi”; e, continua il testimone, “vedendo che noi si stava lì impalati a udire il gentil predicozzo, ci obbligò a piegar le ginocchia, e ci puntò la pistola alla antropologia e storia fronte. Poi, rabbonendosi, ci fece entrar nella capanna”65. Nonostante le sue rodomontate, il brigante vive una fragile precarietà. È immerso in una temporalità propria: sa che ogni giorno può essere l’ultimo, allora cerca di attaccarsi alla vita che fugge da tutte le parti. Per i prigionieri diventati loro acuti osservatori i briganti “erano stufi dei boschi e soprattutto di quella vita errrabonda e pericolosa”66. Si abbandonavano anche per questo a quelle reazioni che l’antropologia psichiatrica del tempo classificava come “eccessi psicomotori”, propri delle genti delle campagne. Ecco come reagisce un brigante della banda Coppa al quale è stato ucciso il fratello in uno scontro con i soldati: “restava mo il fratello del morto, il quale piangeva il suo fratello, ma fatto anima dai compagni, si poso a raccogliere legna per bruggiare il corpo del morto fratello, fatto ridurre tutto in cenere, se ne andarono in una montagna inacessibile, qui piangeva sempre, ma confortato dai compagni, risposo cosa mi giovò il vivere a me senza di mio fratello, uccidetemi voi e fate sapere a mia madre che siamo caduto entrambo”67. Commentano i sequestrati: “I meridionali sono eccessivi nel piacere come nel dolore. Il fanciullo settentrionale sa sopportare la sofferenza più dignitosamente che non l’uomo di qui. Una volta uno dei briganti, lottando, andò a finire troppo vicino alla brace e si ustionò un poco l’alluce. A ciò levò alte grida, come se lo avesse morso un serpente velenoso. Si rotolò per 67 68 69 70 65 66 / 2 – comicità e politica terra, si inginocchiò e pregò la Madonna, balzò in piedi e maledisse lei e tutti i santi perché la preghiera non aveva avuto effetto; in breve, si comportava non come un bambino, ma come un matto”68. Un altro sequestrato svizzero fornisce una versione in parte diversa delle reazioni del brigante: “Giacomo [Parra] sopportò tuttavia il dolore con la più grande calma, e anche se ogni tanto se ne lamentava, faceva tuttavia altre volte i più vivaci scherzi. Era sotto questo aspetto molto diverso dalla maggior parte dei suoi compagni, come pure dalla maggior parte dei napoletani; tu sai come essi di solito si abbandonano molto al loro dolore, in un modo che noi svizzeri siamo volentieri inclini a chiamare vile”69. Attaccati da due squadriglie, i briganti di Pietro Monaco hanno la peggio. “Era un bel vedere al chiaro di luna quei Rodomonti per l’innazi millantatori e gonfi di se stessi, allora inviliti e gementi dal dolore delle ferite lanciare imprecazioni e bestemmie contro gli assalitori, e soprattutto contro lo Scrivano loro acerrimo ed instancabile nemico”. Ma i briganti conoscono anche la commozione e la pietà: Pietro Monaco fa leggere le lettere di addio dei sequestrati che ha deciso di uccidere, si commuove con tutta la banda, e desiste dal massacro: “Carlo Baffi scrisse il primo e lesse la sua lettera, la quale espugnò per dir così i cuori dei nostri carnefici, e li commosse fino al pianto; una furtiva lacrima irrigò puranco la gota bruna del capobanda, il quale per celarla ai circostanti volse indietro lo sguardo”70. Oliv: 52. Lich: 61. Croa4: 54. Lich: 72. Fri2: 168. Fal2: 164 165. 111 Q uaderni Per quanto fosse un uomo indurito nell’esercizio di un potere difficile da conquistare e più ancora da mantenere, Crocco nelle sue memorie alterna frequentemente all’orgoglio del misero pastore diventato un grande generale le lamentazioni e le forme intenerite di autocompatimento proprie dell’uomo nato sventurato e perseguitato dal destino. Tutto questo era nella realtà dei comportamenti diffusi, e si ritrova nelle rappresentazioni epiche degli eroi popolari. I quali si differenziano dagli eroi dell’epos colto, che non sembrano conoscere l’avvilimento della paura e le cadute della debolezza, perché, a differenza di questi ultimi, incarnano non solo le aspirazioni ideali della collettività, ma anche i suoi assilli quotidiani e il suo lato oscuro. La paura “Non v’è bugia più grande di quella dei briganti quando si definiscono gli ‘uomini liberi del bosco’. Colui che è consapevole della propria colpa non è libero in alcun posto. Sua compagna fedele è la paura. Chi deve dormire col fucile in braccio, vive una vita miserevole, e fossero almeno le sue ore di veglia piene dei più grandi piaceri! Ma ai briganti mancano anche questi piaceri”71. Così un sequestrato. In quanto già contadino o pastore, il brigante conosceva la “paura del previsto”, ossia la paura della siccità, della grandine, del freddo, delle alluvioni, paure gravi, ma non solitamente devastanti e distruttive; ma ora che Lich: 49. Capa: 152; DBia: 51. 73 Fri2: 141. 71 72 112 vive alla macchia conosce anche la paura dell’imprevedibile e dell’ignoto: la vittoria improbabile, il futuro incerto, il rischio costante di finire colpito o fucilato72. Nella solitudine assoluta, la paura comporta il rischio della disintegrazione psichica e dell’annientamento di sé. “Stiusi si allontanò per andare a prendere cibo in qualche masseria e doveva essere di ritorno alla sera dello stesso giorno. Poiché non tornava, gli altri briganti incominciarono subito a diventare impazienti e ansiosi, poiché la più grande inezia li metteva sempre in sospetto. In questo caso, dissero che forse era andato in un ‘posto’ nei paraggi, e sarebbe tornato con i soldati per coglierci di sorpresa”73. Ossessiva la paura del tradimento. Il brigante sa che le forze dell’ordine e gli stessi amici/nemici possidenti hanno investito per eliminarlo ingenti somme di denaro, premi e taglie favolose, promozioni e carriere, e che dietro l’angolo o al suo fianco ci può essere la spia, il delatore, l’assassino, l’avvelenatore. È questa ossessione che fa del brigante un sanguinario sadico nei confronti di chi lo tradisce. Il timore di essere avvelenati rendeva più angosciante la paura della morte. Come quasi tutte le guerre, anche quella del brigantaggio fu guerreggiata con mezzi leciti e illeciti: oltre lo spionaggio e il tradimento, l’avvelenamento era all’ordine del giorno. Quando riusciva difficile vincere i briganti con le armi, i militari cercavano di eliminarli col veleno, corrompendo i manutengoli che li foraggiavano. Lo stesso facevano i possidenti, se dovevano eliminare i briganti loro antropologia e storia amici quando diventavano scomodi. Sappiamo, per esempio, che Fuoco ricevette da S. Elia delle armi insieme a dolci e bottiglie di liquori, ma per fortuna al tempo stesso qualcuno lo avvisò che le bottiglie erano avvelenate74; nel novembre 1863 il sindaco di Craco incaricò un massaro di avvelenare Cappuccino e qualche gregario75. Il vino avvelenato ovviamente di solito uccideva; quello oppiato serviva ad addormentare. I briganti non erano da meno. Quando erano costretti ad abbandonare frettolosamente il pasto per il sopraggiungere della truppa, avvelenavano i cibi, sapendo che i soldati li avrebbero mangiati. Per persone che vivono nascondendosi, la paura dominante è forse quella di essere scoperti: una paura a volte spropositata, che contrasta col coraggio altre volte dimostrato: un sequestrato della banda Ciardullo così racconta il comportamento dei briganti nel momento in cui un cacciatore passò davanti alla grotta in cui erano nascosti: “Come allibivano i briganti! e non vedevano che un tranquillo cacciatore! che eroi!”. I briganti non avevano paura dei soldati, ma dei carabinieri e dei bersaglieri. Lo testimonia un dotto sequestrato che visse alcuni mesi come loro prigioniero: “Come tremavano loro, come se la facevano nei calzoni alla vista ancora della lucerna (= il luccicare delle armi) d’un carabiniere!: gli altri li chiamavano ‘cappottoni’ e facevan vista di non curarsene: ma bersaglieri e carabinieri, salcisia (= salvo mi (ci) sia)!”76. 76 77 78 74 75 / 2 – comicità e politica Ma la paura, al tempo stesso, “costituisce l’apparente unità di un corpo sociale”77. Perché “l’uomo in preda al panico regredisce fino al bambino che egli fu, quello che, in caso di pericolo, si precipitava nelle braccia della madre. Corre ad unirsi agli altri. I briganti non agiscono mai da soli ma cercano di accompagnarsi ad altri, formando piccoli gruppi in una comunanza di vita alla macchia. La paura infatti è un elemento di coesione fra più soggetti che ne sono tormentati, giacché dividere la paura tra più soggetti equivale in un certo modo a diminuirne l’intensità individuale”. Si determina al tempo stesso una ambivalenza affettiva, perché il bisogno di proteggere la propria vita e sottrarsi alla devastazione della paura produce a sua volta una forma di panico latente che si libera nell’aggressione e in “molte altre forme di intensità erotiche”: “l’organizzazione della protezione del corpo e dei beni è anche lo specchio del desiderio di aggressione”78. Serse in fuga è “vile e feroce” per Leopardi, che ha colto nella maniera più semplice il nesso tra paura e crudeltà. Il piacere dell’andare e del correre La vita della banda è straordinariamente segnata dal movimento. Gli spostamenti fanno parte dello stile di vita dei briganti, e creano abitudine e assuefazione: “Una marcia lunga e faticosa – notavano i sequestrati stranieri, che erano costretti a seguirli – reca ASC, Deposizione di Giocondina Marino alla Delegazione di Pubblica Sicurezza in Mignano. … Coni: 64. Oliv: 46,77. Jeud: 25. Cfr.: Capa: 15. 113 Q uaderni loro meno fastidi che a noi”79. In effetti “le bande possiedono una straordinaria mobilità: espertissime di tutti i più intimi recessi delle foreste e dei terreni frastagliati, coadiuvati dalla gente di campagna, non solo con facilità sfuggono alle ricerche e agli inseguimenti delle truppe, ma riescono, non di rado con fortuna, a tender agguati, a sorprendere in modo fulmineo con superiorità di forze, specie i piccoli drappelli in marcia, ed infliggere loro perdite più o meno considerevoli”80. Il brigante è un guerrigliero, che ha l’obbligo di combattere conciliato col bisogno di salvare la pelle. Conosciamo le sue tattiche: non fermarsi a lungo nello stesso posto per non fare scoprire i suoi nascondigli, per rendere difficile, confondere, depistare le ricerche dei nemici; correre all’attacco se si è certi di vincere, ma battere in precipitosa ritirata in caso contrario; come scriveva l’intendente, le bande, “disfatte in un luogo, vanno a disperdersi, ma quindi riunisconsi e piombano altrove”; oppure “la condotta de’ briganti è sciogliersi, quando la forza si avvicina; riunirsi, quando la forza si sia allontanata”81. Vere odissee erano i sequestri: bisognava spostarsi continuamente, spesso per molte settimane e a volte per molti mesi, attraverso luoghi impervi, dirupi, sentieri pericolosi, sotto la pioggia o nella neve, per disorientare gli inseguitori, trascinandosi dietro i sequestrati, di solito incapaci di adeguarsi ai ritmi delle marce. Le stazioni brigantesche (grotte, masserie, 81 82 83 79 80 114 Lich: 49. Mari: 18; in Grec: 211. In Luc: 46n. Bart: 46. Molf: 137. ecc.) servivano solo per dormire, giocare, proteggersi dalle intemperie, nascondersi: da lì si partiva continuamente, tutti o una parte, per fare la guerra, rimediare provviste, fare proselitismo. La rapidità con cui i briganti sapevano muoversi consentiva loro di attaccare di sorpresa e cogliere impreparato il loro bersaglio. Questo creava uno stato permanente di tensione e di ansia tra la gente: poiché il briganti potevano comparire in ogni momento, i proprietari tendevano a non uscire dal paese, e veniva meno ogni forma di controllo sulla proprietà. “I briganti avevano a loro grande vantaggio la celerità nei movimenti e la rapidità delle marce; essi arrivavano a percorrere delle distanze enormi, impegnandovi una metà, e talvolta due terzi in meno del tempo che sarebbe occorso ad una colonna di soldati, per quanto abituati alle aspre marce delle montagne”82. Nei loro spostamenti le bande in una sola giornata potevano percorrere fino a trenta chilometri. Secondo il colonnello Chevilly arrivavano a percorrere 50 miglia in una sola notte83. L’ufficiale dei carabinieri Giuseppe Bourelly colse subito l’effetto che questa rapidità di movimenti aveva sulla popolazione: “Crocco scorazzava la campagna con una audacia incredibile, portando da una provincia all’altra, da un paese all’altro, eseguendo marce lunghissime. Egli nella notte del 26 giugno (1865) si trovava tra Spinazzola e Minervino. La sera del 27, unitosi a Tortora, forte di sessanta briganti a cavallo, riappariva nel territorio di Melfi e quivi as- antropologia e storia saliva la masseria Manna; e dopo aver messo ogni cosa a ruba, partiva prendendo la direzione del tratturo di Venosa. La grande conoscenza dei luoghi che ormai avevano i briganti ed il sistema da loro adottato di lunghe e inaspettate marce, rendeva assai difficile garantirsi dalle sorprese”84. Non era solo una questione di tattica. La corsa i briganti l’avevano nel sangue, era la pura gioia del camminare e del correre, che apparteneva in parte allo stile di vita contadino, ma soprattutto era un effetto della liberazione sensoriale che la vita libera nelle campagne e nei boschi produceva nel brigante, un’ebbrezza tormentata dall’inquietudine e dalla disperazione del fuoruscito braccato. È quello che emerge dalle autorappresentazioni brigantesche: Curru valli, timpuni, terra, rina, sècutu Stagliurante e Marchisatu, sautu alla Poverella llà vicina e pigliu pue de Pusiniello l’autu; de Mesuraca curru alla marina, passu hiumare e mminu ppe l’Amatu, Panettieri e Garruopoli a ppendino vaiu fuiendu cuomo disperatu85. (“Corro per valli, burroni, terra, rena, / vado in giro per Stagliurante e il Marchesato, / faccio un salto alla Poverella là vicina / e prendo poi l’alto di Pusiniello; / corro alla marina di Mesoraca, / passo fiumare e vado verso l’Amato, / Panettieri e Garruopoli in discesa / vado fuggendo come disperato”). 86 87 88 84 85 / 2 – comicità e politica Si sapeva che briganti erano più veloci di chiunque nei percorsi brevi, specie su terreni scoscesi e nelle discese, nelle quali procedevano con grandi balzi, come le capre86. Era quasi uno stereotipo, influenzato forse dai miti briganteschi diffusi in tutto il mondo. In un documento di archivio del brigante pugliese Matassa si dice che “più rapido di un baleno scorre in poche ore le nostre campagne”; secondo l’uomo che lo uccise, il capobanda Andreozzi era un “camminatore infaticabile”, che correva sulle balze più scoscese e saltando le più larghe frane al pari di un camoscio”. Rapidità e agilità potevano dipendere dall’equipaggiamento leggero e “da calzari non ingombranti e fastidiosi, che aderivano magnificamente alle estremità”87. Cavalcare i cavalli è perciò per i briganti come volare. “Come selvaggi, abbassando il loro corpo sul collo del cavallo, fuggono a tutta corsa gridando come belve feroci per sentieri strettissimi, tortuosi, inceppati da roveti, da spine, da arboscelli, da fogliame secco, da stecchi, da ciottoli, da rottami; si spingono audaci e veloci sul ciglio di burroni spaventevoli, sui limiti dei fossati, sopra stretti arginelli, entro il letto dei torrenti, entro acque che scorrono incassate tra ripe vicinissime ed erte e inceppate da siepi di virgulti di spine, ovunque fino a che una palla li coglie o arrivano a fuggire alla diligenza e all’inseguimento della truppa, nascondendosi sotto qualche cespuglio o entro qualche caverna88. I maschi erano per lo più preparati dal loro stesso abituale stile di vita ad affron- Bour: 238. Canto brigantesco, in Bilo, poi in Sca1: 138. Moe3; 165, 78, 183, 191. In Luc3: 46n.; Bart: 65; Varu: 129. Bour: 90. 115 Q uaderni tare le difficoltà e i disagi dei continui spostamenti, le donne di meno, e i loro sforzi e patimenti erano perciò maggiori. Maria Giovanna Tito si lamentò in tribunale delle continue fughe da un bosco all’altro, “osservando una vita raminga piena di stenti e di pericoli”. Il difensore di Maria Rosa Marinelli dichiarò, esagerando, sulla base della confessione del brigante Masini, che “le donne camminavan presso quei briganti come cammina il somiero, elle andavano innanzi con le battiture”, ossia venivano “sovente maltrattate e battute, in specie quando non avean forza di camminare”89. Ma anche gli uomini subivano questo tipo di sollecitazioni, specie se si trattava di sequestrati. Nel mito la rapidità dei movimenti si rannoda in qualche modo al dono dell’ubiquità, che le rappresentazioni collettive solitamente riconoscono ai briganti, e ne costituiscono per un verso il completamento e per un altro un sostituto simbolico di segno laico. Ubiquità e rapidità di movimento sono trasposizione fantasmatica di un dato reale, il controllo del territorio, che il brigante, re della strada, realizza pienamente. Se Dick Turpin da Londra raggiungeva York in un solo giorno, Angiolillo attraversa continuamente un vasto territorio tra la Puglia, la Lucania, e il salernitano, sollecitando l’immaginazione del vento e del volo demoniaco90. Saperi del corpo I briganti dell’Italia postunitaria utilizzavano trovate tattiche e strategiche ereditate dal brigantaggio endemico delle campagne meridionali, e, più in generale, mettevano a frutto, in una logica di sopravvivenza, i saperi contadini concernenti la conoscenza dei luoghi e delle modalità in cui muoversi in essi, le forme tradizionali di controllo del territorio, i modi della comunicazione simbolica, la capacità di affrontare situazioni difficili con risorse minime: un insieme di cose che hanno strutturato le coordinate contadine dello sguardo, dell’udito, oltre che i ritmi e i modi del movimento. Questo non esclude che ci fosse anche un sapere militare venuto da fuori, una capacità di organizzazione e di uso delle armi che non può non essere fatta risalire in parte al precedente servizio militare dei contadini e in parte al contributo dei soldati sbandati dell’esercito borbonico, semplici militi e sottufficiali, che hanno svolto nel brigantaggio un ruolo non trascurabile, di cui ancora non conosciamo le esatte dimensioni, ma sicuramente non decisivo. Di solito i briganti operavano di sera, fino a notte inoltrata; poi ritornavano alla base, e vi rimanevano fino alla sera successiva, per nascondersi, dormire e riposare, riempiendo le ore che rimanevano con giochi e affabulazioni. A meno che “non abbiano ricevuto avviso di qualche movimento della truppa, o siano da questa inseguiti, o debbano perpetrare qualche delitto, o ricevere qualche ricatto, o riunirsi ad altre bande, o finalmente abbandonare per più sicurezza il loro covo”. I militari che hanno combattuto i briganti ci hanno lasciato le migliori informazioni sui loro movimenti: “Quando entrano nei luoghi si dividono in piccoli drappelli di ACS, Roma, Tribunale Militare di Guerra per la repressione del brigantaggio nelle provincie meridionali, b. 14 (Avellino), fasc. 168 e b. 19 (Avellino), fasc. 230; Poli: 34, 35. 90 Sca2: 62, 0tt. XXII, XXIV, XXVII, XXXIV. 89 116 antropologia e storia quattro o sei e per diverse viuzze accedono e si riuniscono poi ad un punto convenuto, quando si muovono hanno tutte le precauzioni a non lasciare orma del loro passaggio. Viaggiano fuori dei sentieri, perché non si vedano le pedate dei cavalli; deviano dal cammino per alcun tratto per riprenderlo ad altro punto onde lasciare incerti sulla direzione presa”. “Quando non hanno informazioni sicure sulle mosse della truppa, se costretti a muoversi, prima di porsi in marcia, mandano spioni, che sono o fanciulli, i quali con un fascio di legna fingono d’essere stati al bosco a legnare, oppure carbonai, pastori, taglialegna. Assicurati che la truppa non è nelle vicinanze, si mettono in cammino; però non fidandosi ancora mandano avanti loro un contadino, il quale pian piano osserva se nella via vi sono impronte di scarpe di soldato, che si conoscono per la forma speciale, e se vede delle frasche schiacciate attraverso al sentiero, o finalmente se ode calpestio. Qualora vengano avvisati che una forte pattuglia viene alla loro volta, se lo permette la località e il tempo, si nascondono, lasciano passare e poi con tutta precauzione e cautela ribattono la via fatta da quella”91. Per far perdere le tracce facevano in modo che quello che seguiva calcasse la pedata di quello che precedeva. Nella banda di Cosimo Giordano si camminava in fila, notevolmente distanziati, e chi era in coda aveva l’obbligo di cancellare con un ramo i segni del passaggio. I briganti sapevano leg- 93 94 95 96 91 92 / 2 – comicità e politica gere le tracce del nemico, per capire se i militari erano passati in un posto e da quanto tempo92. I briganti della banda Cerino-Manzo “erano capaci di vedere al buio come se fosse giorno”; “abituati sin dall’infanzia ad affrontare le insidie della montagna, a parte la loro straordinaria agilità, vedevano al buio come i gatti; per loro non cambiava se era notte o giorno”93. Lo stesso i briganti abruzzesi: “Immediatamente, gli occhi di uno dei miei uomini scoprirono ciò che io, senza cannocchiale, non avrei mai potuto individuare”94. Il capobanda Luigi Andreozzi, trentenne, “era nittalopo e di notte ci vedeva distintamente, come di giorno chiaro”95. Perché questa vista ampia e acuta? Un ufficiale intelligente ha cercato di spiegare che i briganti sono “assuefatti a vivere in campagna, per cui l’occhio ha sempre un orizzonte estesissimo”, al punto che discernono dal portamento, dall’andatura, dal complesso più o meno oscuro della figura di lontano la truppa”96. Ma la vista del brigante ha anche un senso estetico, elementare, ma forte: i suoi canti dimostrano che egli ammira il paesaggio, gli alberi, le acque “imbalsamate”: sensazioni che sembrano ricordi della più lontana preistoria, quando la vita del cacciatore plasmò il suo cervello. Notoriamente, la struttura e la funzione del nostro cervello fa sì che vengano trascurati i suoni inutili per il nostro organismo, mentre favorisce il transito di quelli che Bour: 90. DiBi: 182; Sang:318; Moe3: 166. Moe3: 73, 78. Zimm: 101. Bart: 65. Bour: 92. 117 Q uaderni vengono recepiti come necessari alla nostra sopravvivenza. Così, i consueti suoni ambientali vengono trascurati, ma si presta un’attenzione straordinaria a quelli che consideriamo minacciosi o pericolosi. Questo rende i briganti “vigili e accorti”, per cui, “è difficilissimo sorprenderli. Odono il più piccolo rumore, distinguono il passo del soldato da quello del contadino e indovinano il nemico come il cane annusa la lepre. Abituati ai boschi, distinguono il fruscio, il tintinnio del fogliame scosso dal vento dal rumore che fa la foglia assecchita, schiacciata sotto i piedi di chi cammina”97. Tutte le testimonianze concordano: il senso dell’udito dei briganti “era acutissimo, al punto che, come ai pellerossa, non sfuggiva loro il minimo fruscìo”. Il riferimento agli amerindi non è inutile: anche i briganti appoggiando l’orecchio sul terreno, sentivano la marcia dei nemici, e calcolavano il tempo in cui sarebbero arrivati98. Un sequestrato inglese, che li osservò sul campo per mesi, vivendo insieme a loro, testimonia che “la vista e l’udito dei briganti erano acutissimi: era in gioco infatti la loro vita. Sentivano l’avvicinarsi di una persona quando era ancora molto distante”99. I soldati prendevano le loro contromisure, che non sempre funzionavano. Per sorprendere i briganti il generale Pallavicini proibì ai soldati l’uso delle trombe e dei tamburi, ma lasciò quello dei fischietti. Già il prete antropologo Padula ne rideva: “Hemsal, dice la mitologia scandinava, ave- Bour: 91-92. Moe3: 79; Zimm: 107. 99 Moe3: 106. 100 Pad: 114. 101 Moe3: 193. 102 Linch: 49. 97 98 118 va così fino l’orecchio che udiva crescere la lana sul dorso delle pecore; ed i briganti calabresi discendono da Hemsal”100. Quando non devono agire di notte i briganti tornano al loro “palazzo di frasche”, come i lupi. Durissimi i pernottamenti, specie in inverno. Si dormiva di solito all’aperto, sotto gli alberi o nelle caverne, sulla nuda terra, avendo per materasso uno strato di paglia, per guanciale un sasso o una zolla e per coperta l’ampio mantello o il cappotto. A volte il terreno era in pendio, ma i briganti sapevano dormire lo stesso, senza scivolare101. I sequestrati si stupivano: “Essi riposano altrettanto bene sul duro terreno, quanto noi su un morbido giaciglio”102. Non sempre era possibile accendere il fuoco per riscaldarsi o per preparare un boccone caldo. Non erano quasi mai sonni tranquilli, perché in qualsiasi momento poteva sopraggiungere la notizia dell’arrivo dei soldati o degli squadriglieri, e occorreva rinunciare al sonno e riprendere la fuga. III. Una guerra crudele La crudeltà raccontata L’ufficiale dell’esercito De Witt racconta che, prima di essere condotto alla fucilazione, un brigante gli confessò che “in vita sua non aveva provato soddisfazione maggiore di quella che in lui produceva il sentirsi antropologia e storia bagnare le mani del caldo sangue delle sue vittime”103. La letteratura sull’efferatezza dei briganti maschi è in parte nota. Presenta i difetti della letteratura di propaganda, volta a fare accettare la ferocia della repressione e al tempo stesso a liberare i militari dei loro complessi di colpa, ma, nonostante le esagerazioni, sarebbe ingiusto considerarla costantemente mendace. La conoscenza approfondita dei fatti di sangue e di crudeltà ci consente di fare un po’ di luce anche sulle efferatezze reali o presunte delle brigantesse, che secondo alcune opinioni diffuse sarebbero state analoghe alle gesta crudeli dei briganti maschi, e in alcuni casi peggiori. È tuttavia grazie unicamente a questa letteratura che le brigantesse, escluse dalla storia, sono entrate nell’immaginario collettivo degli italiani nei primi decenni dell’unità nazionale. Una giusta dose di durezza era richiesta per poter essere rispettati nella banda, e le brigantesse in questo non furono da meno degli uomini. La loro durezza era già diventata leggenda mentre esse erano alla macchia, ma le rappresentazioni che di essa ci sono state lasciate dai contemporanei appaiono esagerate e non sempre in buona fede. Un contributo importante alla creazione del mito popolare della terribilità delle brigantesse dovettero darlo i cantastorie, che erano a loro modo una sorta di cronisti oltre che cantori epici del brigantaggio. L’epos popolare, normalmente affollato di briganti maschi, conosce poche significative eccezioni, come i versi dedicati a Maria Oliverio, di cui hanno raccolto qualche lacerto Francamaria Trapani e Otello Profazio. / 2 – comicità e politica Le cronache giornalistiche del tempo sono tra le pagine che più di altre tendono a esagerare i comportamenti efferati delle donne brigante, sia perché la crudeltà femminile fa più notizia di quella degli uomini, sia perché esse intercettavano gli umori e il modo di sentire diffuso, influenzato dalla letteratura di appendice, che proprio in quegli anni riproponeva immagini di donne fatali, perversamente crudeli. Secondo i giornali Rosaria Ottobuono ebbe “quasi celebrità di ferocia”, e per la stessa caratteristica era “conosciutissima” Rosaria Rotunno. Il primato della ferocia veniva attribuito a Maria Oliverio, che nelle cronache “per le sue atrocità era il terrore di tutto il contorno”: la letteratura poi avrebbe fatto il resto, trasformandola in un essere demoniaco. “Feroce” è detta Filomena Cianciarulo, che “non rifuggiva dai misfatti”. Di Giuseppina Gizzi, compagna di Giacomo Parra, il brigante del Cilento responsabile di quarantacinque omicidi, oltre furti, sequestri e grassazioni, i giornali scrissero che “la donna era feroce quanto il suo uomo. Vestita di abiti maschili e armata di tutto punto, scorreva la campagna, sempre a fianco del suo compagno, senza tremar mai dinanzi al sangue umano, e senza vacillare dinanzi ai più atroci misfatti. Maria Giovanna Tito fu definita da un cronista “la iena”104. A volte l’immagine popolaresca del brigante cattivo si incontrava con il gusto, diffuso nella letteratura dell’Italia postunitaria, del racconto dell’orrore e con le più recenti immagini della donna fatale. Secondo una favola che circolava tra i soldati, Filomena [Pennacchio], quando la banda festeggiò la sua unione con DeWi:74. Gio: 8/6/1865; Pol: 13/6/1865; Om:10/6/1865; Pu: 11/1/1865; Gio: 13/1/1867. 103 104 119 Q uaderni Caruso, bevve vino mescolato a sangue nel teschio di un bersagliere da poco massacrato e “alla prova di tanta crudeltà, ciascun gregario della banda di Caruso le prodigò tutte le cure immaginabili”105. L’ufficiale De Witt raccontò di aver ricevuto queste informazioni da un soldato, che, essendo rimasto qualche giorno prigioniero tra i briganti, le aveva avute dai briganti stessi. Qualcosa di simile si dice dello stesso Caruso in un foglio volante popolare, e anche del brigante Coppa si raccontava che bevesse in un teschio il sangue dei suoi nemici: in realtà si trattava di una etimologizzazione popolare del suo nome. Costruiti secondo un modulo immemorabilmente arcaico, questi racconti dovettero avere un certo effetto sull’immaginario della società italiana postunitaria. Ma erano solo favole. Queste favole contribuirono a crearle le stesse scritture influenzate dal lombrosianesimo. Secondo Gelli, che tardivamente si avvaleva di cifre e concetti lombrosiani, “i più accaniti e brutali tormentatori degli sventurati, che cadevano nelle mani delle bande brigantesche, erano le donne e i ragazzi”. A suo dire Filomena Pote e Rosa Tardugno, amanti di Schiavone, “si uguagliano nella crudeltà, nella temerarietà senza pari e nell’odio contro i nostri soldati”; se qualcuno dei militari “cadeva nelle mani di quelle due malefemmine, era certo di finire i suoi giorni tra le sofferenze più oltraggiose e atroci”. Egli aggiunge che Maria Capitanio, amante del brigante Antonio Luongo, è “rinomata per la sua risolutezza nell’attaccare e svaligiare le persone e la crudeltà nell’eseguire le decisioni del capobanda Ciccone o per soddisfare la propria libidine di sangue, la cui vista la esaltava”. Ferocissima sarebbe stata Cristina Cocozza, donna del capobanda Colamattei, già brigante della banda Fuoco, che operava nella zona di confine con lo Stato Pontificio. Gelli, influenzato dalla ritrattistica lombrosiana, era convinto che brigantesse si nasce e che le donne devianti erano più depravate degli uomini106. Molti giudizi e valutazioni dei lombrosiani nascevano dalla confusione, che essi facevano, tra le rivolte popolari e il brigantaggio: anche se nel periodo postunitario i due fenomeni potevano incrociarsi e perfino in qualche caso confondersi (come nelle rivolte e nei massacri di Carbonara del 1860, di Pontelandolfo e di Melfi del 1861, di Gioia del Colle, pure del 1861, in cui le donne del popolo commisero eccessi nefandi), essi hanno sempre costituito, nella genesi, nelle modalità, negli scopi e nei risultati, nonostante le somiglianze, due fenomeni diversi: le donne delle bande fanno parte di un’organizzazione, seguono regole che disciplinano anche i loro comportamenti eccessivi, e la “crudeltà” di tutti i membri della comitiva è, come cercheremo di capire, di tipo funzionale, laddove nelle rivolte la violenza delle donne esplode in maniera convulsa e senza freno. La confusione nelle pagine della letteratura di cui parliamo è invece totale: “Nelle bande brigantesche, in cui l’elemento femminile era più largamente rappresentato, abbondavano gli atti di ferocia e di crudeltà. Le sevizie che inventarono DeWi: 296. Gell: 219, 222, 246. Uno psichiatra lombrosiano, storico dilettante, come Cascella ebbe a scrivere (poi ripreso da Enrico Ferri) che la brigantessa Antonina, interrogata del perché avesse commesso tante azioni efferate, rispondesse: “Oh! voi non sapete che piacere si prova a piantare un pugnale nel petto di un uomo” (Casc: 94). 105 106 120 antropologia e storia le brigantesse della Basilicata, di Palermo e di Parigi, nota il Lombroso (I, p. 460), non si possono descrivere”107. La letteratura sul brigantaggio ricapitola erroneamente tutti i luoghi comuni che la scienza del tempo aveva accumulato sulla crudeltà delle donne nelle rivolte popolari: “È infatti assodato che le donne commettono minor numero di delitti che gli uomini; ma, quando li commettono, sono più crudeli e ostinate nella recidiva, e si ravvedono meno dei più feroci delinquenti maschili. Lo Spenser dice che nei paesi dove vi è il costume di torturare i nemici, le donne sorpassano gli uomini in crudeltà”108. Anche le testimonianze rese ai processi sono da prendere con le pinze, perché a volte erano occasioni per esprimere simpatie o rancori e realizzare vendette private. Nella deposizione di Maddalena Cioffi, che non amava, forse per gelosia, Brigida Marino, quest’ultima è dipinta a tinte fosche: avrebbe ideato e fatto realizzare alla banda il se- / 2 – comicità e politica questro di due dei suoi cugini, che riteneva ricchi, e ne avrebbe fatto uccidere uno (l’altro riuscì a fuggire) perchè la madre rifiutava il riscatto (avrebbe detto: “se fusse anche mio padre che avesse denaro, lo farei anche sequestrare”)109. Si raccontava ancora la sua partecipazione al massacro di otto contadini, che furono uccisi perché tre di essi erano Guardie Nazionali110. Di fatto però, a parte alcuni casi particolari, i processi confermano solo in misura minima le efferatezze attribuite alle brigantesse, anche perché non era facile trovare testimoni che in tribunale potessero attestarle. Veritiere risultano invece le testimonianze dei sequestrati, che vissero con i briganti per settimane e anche per mesi. Nelle loro deposizioni hanno frequentemente riconosciuto l’atteggiamento tra consolatorio e protettivo adottato nei loro confronti delle brigantesse, alle quali per parecchie settimane e mesi rimanevano affidati. Atteggiamen- I, 460; Sig2: 61. Si legge ancora nello stesso testo: “Furono le donne, che strapparono le lingue agli uccisi, ne prolungarono l’agonia, e che fecero mangiare alle vittime le proprie carni arrostite; e furono esse che vendettero a rotoli la carne dei carabinieri, ed infilzarono su picche le viscere umane”. 108 Sig2: 59-60. La letteratura sul brigantaggio registra che durante la rivolta di Melfi, nell’aprile del 1861, “le donne erano più inferocite degli uomini; una vecchia di sessant’ anni, vestita da soldato, minacciava di trucidare tutti. Era ubriachezza e furore” (Monn: 69); durante il massacro di Pontelandolfo del 1861 due ufficiali, legati nudi agli alberi, furono costretti ad assistere all’eccidio dei loro soldati e poi torturati; “le donne, furibonde, conficcavano loro ferri negli occhi, e tutte le membra del corpo erano barbaramente flagellate e mozzate” (An67: 29); durante le stragi di Carbonara, nell’ottobre 1860, “– oggi la carne deve andare a tre grani al rotolo – urla una furia in forma di donna” (Bour: 119); gli atti dei processi attestano che a Gioia del Colle, durante la rivolta del 28 luglio 1861, le donne furono “furenti eccitatrici di rovine”: Marianna Semeraro, a capo di “una frotta di scarmigliate megere”, incita gli uomini agitando un borbonico fazzoletto bianco; Rosa Surico brandisce tra i rivoltosi una falce minacciosa; Maria Modugno, diciassettenne, prepara la stoppa per i fucili; Angela Rosa Angiolillo “con urla selvagge incita la folla alla strage; Margherita Giannico e Caterina Colacicchio incitano i maschi ad assalire le case (Luc2: 45-46); nell’insurrezione di Gioia del Colle del 28 luglio 1861 Caterina Colacicco, dopo l’uccisione ad opera della folla inferocita del garibaldino Vincenzo Pavone, che il giorno precedente aveva arrestato il marito, il bandito Nicola Lillo, “ebbra di vendetta inzuppa il pane nel sangue e se ne ciba alla vista della turba plaudente”. Un’altra donna, Margherita Giannico, “intinge le dita nel sangue che scorreva a fiotti dalle ferite, e se le porta alle labbra, forbendole con ferocia cannibalesca (Luc2: 47, da fonti processuali). 109 ACS, Roma, Tribunale Militare Speciale, b. 160, f. 1807, Interrogatorio del 1 luglio 1864 di Filomena Pote. 110 ACS, Roma, Tribunale Militare di Guerra per la repressione del brigantaggio nelle provincie meridionali, b. 192 (Salerno), fasc. 2312 (1865), sentenza 427. 107 121 Q uaderni to che trova conferma nelle memorie scritte dagli stessi sequestrati, come quella di William Moens, in cui si legge che le brigantesse della banda Cerino “non dimostravano affatto il temperamento selvaggio e sanguinario” che ad esse comunemente si attribuiva111. Conclusivamente, le efferatezze dei briganti e soprattutto delle brigantesse non risultano adeguatamente documentate, ma questo non implica necessariamente che esse fossero una totale invenzione della gente o degli scrittori e giornalisti. Furono parte di un universo estremamente violento, quale poteva essere quello di una guerra senza regole, anche se la gestione di tanta violenza fu opera soprattutto dei maschi delle bande. Si tratta perciò di liberare i nuclei di verità dalle sovrapposizioni fantastiche o propagandistiche. Come accade nelle guerre civili, gli eccessi si commettono da tutti gli schieramenti, ed il torto di chi li racconta è spesso quello di rovesciare la violenza, con le esagerazioni istintive che l’orrore produce o che il bisogno di demonizzare il nemico suggerisce, interamente sulla parte opposta. È indubbio che non solo la durezza, ma anche la crudeltà rientrava tra le qualità che si richiedevano a un guerrigliero, e in modo particolare ai leader, e le donne in genere poterono mostrare in non pochi casi di averne abbastanza. Il difetto di chi l’ha in qualche modo testimoniata è stato quello di presentarla unicamente come un eccesso irrazionale se non come una patologia derivata da tare ereditarie, sicché tocca a noi cercare di comprendere la logica di questi comportamenti, sia pure senza disgiungerla dalla loro irragionevole deriva. Moe3: 9. Fio: 51. 111 112 122 Radici culturali della crudeltà A parte le differenze individuali, a volte notevoli, gli insorgenti, come i gangaceiros brasiliani, “erano timidi e gentili, induriti dalla vita, resi feroci dall’abitudine e dalla necessità. Imboccato il cammino della macchia, non si poteva tornare indietro: cambiavano solo certi parametri, certe misure. La spietatezza e l’estrema crudeltà facevano parte della loro esistenza, dei loro principi: non erano casuali, ma rientravano nel quadro delle loro leggi”112. Nel postrisorgimento, che per la realtà in cui vivono i briganti non è ancora l’inizio dell’età moderna, il peso dei quotidiani supplizi pubblici dei rei o presunti tali, che ha segnato le abitudini e l’immaginario collettivo per secoli, è ancora forte nella sensibilità e negli atteggiamenti della gente. L’antica familiarità dei vivi con la morte, che segna tutte le civiltà preindustriali, ha sempre avuto un risvolto violento e sadico, che si trasferisce, pressoché inalterato, in una situazione altamente critica come quella del Meridione postunitario. Molti modi e atti di crudeltà precedentemente previsti e prescritti hanno cessato di essere permessi o tollerati o obbligatori, ma “dormono” ancora dentro i saperi accumulati da secoli, se non da millenni. I condannati a morte fino alle soglie dell’età moderna erano esseri diabolici che dovevano essere messi alla gogna, decapitati, impiccati, bruciati, squartati, affogati, “rotti” (ossia slegati e spezzati), scuoiati, impalati, crocefissi, castrati, e l’esecuzione era uno spettacolo pubblico al quale era per antropologia e storia molto tempo obbligatorio assistere, con una sequela di atti, anteriori e successivi all’eliminazione, ulteriormente punitivi o raccapriccianti, quali esporre la vittima al dileggio e al ludibrio mediante la cavalcata sull’asino, raccogliere e leccare il sangue del giustiziato, negare la sepoltura cristiana, disperdere i resti corporei (ceneri o arti mutilati), ecc. Stato e Chiesa collaboravano e prosperavano in questa scuola di violenza e crudeltà, mentre questa eredità di inaudita ferocia metteva nelle popolazioni salde radici. Molti atti crudeli dei briganti e dei soldati che li combattevano appaiono, a ben vedere, una prosecuzione mimetica dei supplizi tradizionali e trovavano nel loro ricordo non solo le modalità dell’esecuzione, ma anche la legittimazione a compierli. Lo dimostra anche il diverso trattamento riservato agli uomini e alle donne: come nei supplizi, gli uomini potevano essere torturati, squartati ecc., ma le donne colpevoli di delazione o di tradimento venivano dai briganti semplicemente uccise, spesso, dopo essere state stuprate. Come di solito accade nelle culture religiose e in quella cattolica in particolare, la maggiore indulgenza nei confronti delle donne non era una forma di rispetto, ma discendeva dall’idea diffusa dell’inferiorità naturale della donna, che la rendeva meno responsabile degli uomini: un atteggiamento che ritroveremo, pressoché identico, nei giudizi dei tribunali nei confronti delle brigantesse113. Le maggiori efferatezze dei briganti sono quelle che si abbattono sui traditori o su coloro che essi alla luce dei loro valori consideravano tali. Anche presso i gangaceiros / 2 – comicità e politica “il traditore (sempre esterno al gruppo, ché tra di loro i traditori non ci sono mai stati) doveva essere sgozzato e dissanguato come un maiale per servire da esempio”114. Anche tra i briganti erano pressoché inesistenti i traditori, ma essi consideravano tali le spie, le guide e soprattutto i militi della Guardia Nazionale e gli squadriglieri, perché ai loro occhi erano traditori della propria gente, e andavano puniti come tali, secondo la legge del taglione. Questi supplizi briganteschi dei traditori sono una replica delle più feroci pratiche ancora vive nelle nazioni civili nel secolo XVIII e nella metà del secolo successivo, quando il reo di tradimento si suppliziava con “il ventre aperto, e gli intestini strappati fuori in fretta, perché abbia il tempo di vedere, con i suoi occhi, che vengono gettati sul fuoco, e in cui alla fine viene decapitato e il suo corpo diviso in quarti”115. La storia ha le sue perversioni, che nessuna pietas può costringerci ad accettare. Ma quello che maggiormente stupisce è l’anacronismo storico, la persistenza o la rinascita di forme canoniche di violenza in un momento in cui l’Italia pretendeva di essere entrata nella modernità, che situa in una sinistra luce di barbarie, prima dei briganti, un esercito moderno, “piemontese”, ossia largamente rappresentativo della parte dell’Italia che si presumeva più evoluta e civile. In fatto di efferatezze i briganti non furono da meno, ma essi vivevano in un diverso orizzonte, in cui la violenza legale, che fondava la redenzione dei supplizi, faceva parte del loro sistema di vita, era il passato che non passa e che non muore. Stie: 47. Fio: 35. 115 Fouc: 14. 113 114 123 Q uaderni Senza indulgere a un giustificazionismo assoluto, occorre innanzitutto riconoscere che alcune pratiche efferate dei briganti appartenevano a molti degli eserciti che operavano in tempi di guerra, non esclusi i militari regolari e irregolari che combattevano i briganti, anche se all’epoca del brigantaggio erano di solito proibite: tali erano, per esempio, l’eliminazione dei prigionieri, la decapitazione dei cadaveri, lo stupro delle donne del nemico. Certamente l’eccesso di violenza obbediva anche alla logica della deterrenza, lucidamente programmata e perseguita anche dalle bande oltre che dall’esercito, ma era scatenato anche dall’impulso primordiale della vendetta, che trovava peraltro una legittimazione nella legge, popolarmente condivisa, del taglione. Come accade in tutte le guerre civili, molti dei briganti avevano perduto parenti e amici, avevano visto distruggere i loro paesi, fucilare i loro compagni di lotta, perseguitare, deportare, incarcerare, torturare i loro familiari, e tanto orrore faceva assumere alla guerra la deriva della vendetta più feroce. L’efferatezza dei briganti era spesso una risposta all’efferatezza delle forze di repressione, soldati, carabinieri, guardie nazionali, squadriglieri: a tutti costoro i briganti non perdonavano i compagni presi con le armi in pugno fucilati senza pietà e i loro cadaveri esposti nelle piazze dei paesi d’origine; le teste tagliate per farne un trofeo e fatte portare dagli stessi compagni dell’ucciso116, le donne della banda costrette a portare la testa recisa del proprio uomo o di altro brigante: “dopo le selvagge repressioni di Pontelandolfo e Casalduni specialmente – testimonia un memorialista antiunitario – si riaccesero le reazioni popolari e lo spirito di vendetta, e la guerra di sterminio contro gli oppressori e traditori della patria. Onde che, proclamata la guerra civile a tutta oltranza, oppressi ed oppressori bruttarono di rapine, d’incendi, di azioni nefande e di sangue questo nostro un dì felice Reame”117. Ma c’era un altro spirito di vendetta, che si trasmetteva, muto, da una generazione all’altra, in attesa di poter gridare le sue parole di sangue. Vito di Gianni, ossia Totaro, dichiarò dopo la sua costituzione: “Fummo calpestati, noi ci vendicammo”, con le uccisioni, le grassazioni, i sequestri, le stragi di animali, gli incendi e la distruzione dei beni dei possidenti. C’era, prima di tutto, da vendicare l’onore offeso. “Nei piccoli centri il potere del feudatario o del borghese, del funzionario o del padrone era usato non di rado per attirare le donne dei contadini: quando non cedevano volontariamente erano persecuzioni lunghissime ai mariti, ai fratelli, ai padri. Era il disonore sotto altra forma; era Per volontà dei militari la testa del brigante Nicola Langerano rimase esposta nella piazza di Picerno per due giorni (ASP, Atti e Proc. di Val. Stor., cartella n. 243/4; cfr. Varu: 45); il generale Franzini cattura tre briganti presso Lagopesole, e in Ripacandida li fa uccidere e mozzare la testa. Peggio le Guardie Nazionali: il capitano di Santarcangelo recide la testa del brigante Moliternese e la manda al sindaco (ASP, Atti e Proc. di Val. Stor., cartella n. 325/3; cfr. Varu: 59). L’8 aprile 1864 ai briganti della banda di Rocco Scerra rimasti sul terreno dopo lo scontro con la Guardia Nazionale nel territorio di Tricarico sono tagliate le teste, che vengono portate in trionfo nel paese (ASP, Atti e Proc. di Val. Stor., cartella n. 285/86; PanR: 545; cfr. Varu: 77). Anche nelle bande, ovviamente, c’erano i tagliatori di teste: per esempio, Carmine Crocco fece troncare il capo del figlio del sindaco di Ruvo e lo portò in trionfo, con accompagnamento musicale (ASP, Atti e Proc. di Val. Stor., cartella n. 242/124; Varu: 43). 117 Butt: 81. 116 124 antropologia e storia la miseria; era la sopraffazione quotidiana. Come resistere in una lotta così impari? Le nature deboli si avvilivano e tolleravano; ma gli uomini risoluti si davano alla campagna, si facevano briganti; si ribellavano insomma nella sola forma che era loro possibile. La gioia di uccidere dopo aver sofferto l’oltraggio supremo; la suprema gioia di vendicare e di vendicarsi dopo aver tanto penato, tentavano anche le nature meno cattive. La religione avea indulgenze per i forti; e ne aveano ancor più i funzionari dello Stato. Il brigantaggio diventava un mezzo di salvezza e un mezzo di riabilitazione. Al marito oltraggiato, all’uomo perseguitato rendeva quasi sempre la stima del pubblico, qualche volta la tranquillità dello spirito, la gioia di vivere. Le persone aut laws hanno avuta sempre una certa attrazione: maggiore essa dovea essere in una società, in cui le leggi erano pessime”118. Alcuni capibanda dei più feroci sono proietti, e il più sanguinario di tutti, secondo una vulgata scarsamente controllata, è Coppa, figlio naturale di un possidente della ricca famiglia Fortunato, di Rionero in Vulture. Difficile la situazione dei figli naturali. Per la gente sono cavalli mancati, “muli”. Per la Chiesa essi sono i figli della colpa, meritevoli di aiuto caritatevole; per i genitori biologici i “muli” non possono accampare diritti ereditari, ma devono essere aiutati senza essere riconosciuti; per la gente la madre è una “malafemmina”, perciò i figli della colpa non possono amarla senza riserve, ma odiano soprattutto il padre, responsabile della loro menomazione sociale. La loro / 2 – comicità e politica guerra è contro l’ordine morale del padre, contro la società dei possidenti. Il fatto che queste violenze avvenissero secondo le regole della guerra e i principi che governavano la vendetta in contesti “primitivi”, se per un verso legittimava e scatenava la violenza, per un altro evitava le sue forme più cieche e disperate che accompagnano l’espulsione dal gruppo sociale e la disintegrazione delle forme culturali. Tuttavia la violenza del brigante ha anche a che fare con la sua sindrome da stress post-traumatico. Al momento della sua uscita in campagna egli si ritrova “forbandito”, espulso dalla società e privato di ogni diritto; nomade senza casa né averi né fissa dimora; possibile preda di cacciatori di taglie e di premi; esposto ai pericoli del freddo, della fame, della notte e dell’inverno; soggetto al rischio di progressiva deculturazione, per la perdita dei modelli, dei maestri, degli amici, delle regole del gruppo; privato di identità sociale e culturale. E rischia il destino della mala morte, della perdita della sepoltura e della perdizione eterna, della distruzione del cadavere o dello strazio del corpo che condanna la memoria all’abominio. Quello che maggiormente angoscia il brigante è la paura del tradimento. Sa che non tutti i conoscenti gli sono amici fino in fondo, che la taglia che pende sulla sua testa può fare gola a qualcuno, che portare la sua testa mozzata alle autorità può fare ricco l’assassino, che la libertà, garantita dalla legge, di uccidere in qualunque modo i briganti può risvegliare odi assopiti e rancori e vendette non consumati. Perturbante, quanto la mano assassina di un familiare, Nitt: 54. 118 125 Q uaderni il tradimento inquieta i giorni e le notti del brigante e alimenta un odio senza limiti e misura. A questo si aggiunga la memoria remota del cumulo dei torti e delle violenze subite e quella più recente della carcerazione della propria famiglia e degli stupri inflitti alle proprie donne e della disgregazione del tessuto familiare e sociale. Il trauma, mai superato, e semmai costantemente dormiente e sempre pronto a riemergere, provoca il disordine esistenziale in cui rischia di affondare la vita del fuorilegge, e rende ragione delle forme abnormi di violenza, della sua crudeltà e delle sue efferatezze. L’integrazione del brigante nel gruppo dei fuorusciti, che è comunque un gruppo formale, retto da principi nuovi ma congeniali alla cultura del villaggio, non comporta il totale superamento della crisi, ma rappresenta la subordinazione della violenza ad un mondo di regole, dotate di funzionalità e di misura nella loro durezza. Sotto questo aspetto il gruppo forbandito rappresenta il superamento, mai definitivo e totale, della crisi da stress post-traumatico. Il potere dello spavento Violenza e crudeltà erano gestite anche in vista degli effetti che provocavano, innegabilmente favorevoli alla guerriglia: la crudeltà suscitava sia nei soldati che nella popolazione spavento e terrore, che potevano essere utilizzati per gli scopi che i briganti si prefiggevano: ottenere l’obbedienza dei gregari, guadagnare sovvenzioni e vettovaglie, scoraggiare i filogovernativi; atterrire i complici e alleati infedeli. L’immagine di un capo terribile rafforzava il suo potere sui subordinati. I grandi capi sapevano però che, 126 per ottenere questo risultato occorreva associarlo all’amore, preoccupandosi che l’amore non venisse scambiato per debolezza, che avrebbe comportato il rischio di perdere l’appoggio dei gregari. In un certo senso e fino a un certo punto, le efferatezze erano inevitabili: per tenere in piedi la guerriglia, i briganti dovevano assicurarsi quanto era necessario alla propria sopravvivenza, garantendosi viveri, vestiti e munizioni mediante generose elargizioni, che servivano anche a creare una fitta rete di cointeressenze, complicità e connivenze; ma, non disponendo di mezzi finanziari, era inevitabile che essi facessero richieste e imposizioni alla popolazione, e, in caso di resistenze e dinieghi, ricorressero a rappresaglie, sequestri e stragi di animali, ferimenti e uccisioni. Queste operazioni obbedivano a una logica elementarissima, ma di grande efficacia, quella della “mors tua, vita mea”: era giusto tagliare le orecchie ai sequestrati, maltrattarli e in qualche caso ucciderli, perché il pagamento del riscatto rendeva possibile la vita alla macchia. In fondo, quelli che diventavano le loro vittime appartenevano al ceto dei loro persecutori. Nel codice brigantesco era indispensabile conservare il favore della popolazione, non commettendo abusi e prevaricazioni nei confronti di essa, ma al tempo stesso era obbligatorio punire in maniera esemplare quelli che stavano dalla parte dell’esercito e dei liberali unitari. L’efferatezza delle punizioni nei loro confronti aveva una funzione di deterrenza e si abbatteva soprattutto su soggetti della propria comunità di appartenenza, che venivano considerati traditori della propria gente. Più odiati dei soldati erano perciò i volontari della Guardia Nazionale locale, gli squadriglieri e i “patrioti” antropologia e storia antilegittimisti. Allo stesso modo venivano trattati le guide dell’esercito e tutti gli altri collaborazionisti. Come ha scritto un osservatore di quegli anni, “i briganti non amano attaccarsi con la truppa, che sanno essere chiamata al dovere e perseguitarli, bensì con le cosiddette squadriglie, che stimano come genti mercenarie e più triste di loro”119. Nella maniera più atroce venivano giustiziati i traditori in senso stretto, ossia quelli che appartenevano alle bande o avevano un rapporto di fiducia con esse e che invece tradivano i briganti. Il modo più frequente era la condanna al rogo, come gli eretici e le streghe, come i presunti traditori della fede. Venivano spesso punite anche le donne dei traditori. Il rogo non era l’unica forma di supplizio. Ai traditori si inchiodavano le mani al suolo, ma potevano anche essere squartati, come nel supplizio del porco, oltre che decapitati, con l’aggiunta del sasso in bocca, e perfino impalati. In effetti quasi tutti i supplizi, che esamineremo, concernono, significativamente, i traditori, che erano la categoria più consistete delle persone esposte a questi rituali punitivi. Le bande non facevano prigionieri, e uccidevano i soldati catturati, perché non erano in condizione di tenerli. Tuttavia questa regola, come tutte le regole non scritte, non era seguita da tutti. Crocco, per esempio, faceva importanti distinzioni: “Cosa faremo dei prigionieri? Se attaccati saremo costretti a fuggire, chi è vivo ha per dovere, prima / 2 – comicità e politica della fuga, uccidere quanti più ne può, almeno i morti non parleranno; all’opposto, se non saremo oltre molestati, domanderò il cambio di essi con l’unico nostro”. Stranamente, in questa terribile guerra, mentre soldati e guardie nazionali non facevano prigionieri, i briganti, grazie anche all’intercessione delle loro donne, spesso liberavano i militari caduti nelle loro mani, specie se non erano piemontesi. Nessuna pietà, invece, per squadriglieri, traditori e spie. Sappiamo di due soldati in licenza catturati dai briganti, che prima pensano di ucciderli, poi li lasciano liberi, a condizione che facciano dire una messa120. Se le donne erano pietose, Crocco, comandante di un temutissimo esercito di duemila uomini e trecento e più cavalieri, era per un uso moderato della violenza, e riteneva perciò eccessivo il timore suscitato dalla sua presunta crudeltà: “Concorrevano ad aumentare la paura le esagerate asserzioni di atti ferocissimi da noi compiuti. Non nego che il Coppa, il Ninco Nanco, il Caruso stesso, abbiano qualche volta commessi atti feroci sui feriti, e qualche altra fatto scempio dei cadaveri dei caduti, ma nego che da me non si sia mai dato ricovero ad alcuno, e che vigesse in conseguenza l’ordine di uccidere borghesi, ufficiali, soldati che cadevano nelle mie mani; (…) io, quando ho potuto, ho fatto mettere in libertà tutti coloro che capitavano in mezzo ai briganti, a qualunque colore appartenessero, sia cioè che fossero stati liberali, sia che fossero stati reaziona- Sto3: 53. Vincenzo Padula, attento osservatore del brigantaggio postunitario, osservava: “I briganti non dimenticano nulla, e se perdonano al soldato, non la perdonano agli squadriglieri, perché dicono: ‘Il soldato è nel dovere di perseguitarci; ma uno squadrigliere, che per quattro carlini al giorno viene a darci la caccia, è un assassino’. Questa logica parrà strana, ma è quella dei nostri briganti” (Pad: 118). 120 Zimm: 286; Cro2: 86; Croci: 336. 119 127 Q uaderni ri”121. Mentre negli eserciti regolari il lavoro sporco spettava ai semplici subordinati, tra i briganti i più duri e spietati dovevano essere i capi: era, per esempio, costume che, emessa una condanna a morte, spettasse ai capibanda eseguire la sentenza122. Una spiegazione funzionale si riconosce, pur nella presenza di una cifra intensamente emotiva se non nevrotica, ispirata dalla vendetta, anche nell’accanimento dei briganti sui corpi dei militari uccisi, che venivano seviziati e spogliati. Il regolamento di Andreozzi sopra ricordato spiega che lo scempio dei corpi va fatto, “in modo da impressionare i soldati quando li troveranno. Il soldato quando si batterà, penserà sempre alla fine che lo aspetta se cade ferito o prigioniero, e quando vedrà le brutte scapperà”123. La somiglianza con le pratiche analoghe dei soldati è soltanto apparente: i briganti spogliavano i militari anche per impadronirsi dei loro vestiti, mentre i soldati spogliavano i cadaveri dei briganti per dileggio. C’erano, dunque, elementi di ordine emotivo e culturale, che attraverso il rito consentivano la degradazione estrema dell’avversario, la sua mutilazione, la sua riduzione a carne inanimata, a cenere, e questo annientamento di ogni forma residua di umanità rendeva a sua volta possibile il massacro senza rimorsi. Oltre la rappresentazione dei nemici locali come infami traditori, nei confronti dei nemici esterni, i soldati, si operava una sorta di razzismo alla rovescia, 123 124 125 126 121 122 128 che restituiva, maggiorato, ai “piemontesi” il senso di inferiorità con cui questi ultimi percepivano i briganti, i borbonici e i meridionali in generale. Il fondamentalismo religioso, l’idea della guerra santa collabora a questo risultato. Lo rilevava già un perspicace ufficiale dell’esercito incaricato della repressione: “Il brigante nel sangue che versa, nelle vittime che sgozza, tranquillizza la sua coscienza non solo, ma si circonda di una frenesia di delirio, di orgoglio, ritenendosi strumento della divinità, martire della fede”124. Forse va in questa direzione la risposta che un gangaceiro, ormai ritirato a vita privata, diede a un giornalista che lo intervistava “su quanti uomini esattamente avesse ucciso”: il bandito a riposo rispose: – Ma, dottore, chi uccide è il Padreterno: io ho fatto solo il forellino”125. Il brigante non ha esitazioni o rimorsi, perché si sente punitore collettivo, delegato da Dio e/o dalla comunità a compiere il crimine nella forma spietata consacrata dal rito e dalla tradizione. Nella sua esaltazione quasi religiosa egli “tranquillizza la sua coscienza”, perché “si vede benedetto da preti che gli offrono amuleti e immagini sacre, che lo salvano dal ferro nemico; incoraggiato da ricchi signori; protetto da innumerevoli amici e parenti, onde con coraggio degno di miglior causa affronta i pericoli di una vita travagliata e infame, e si tiene con ardita e rara ostinatezza fedele fino all’ultimo momento al suo capo ed ai suoi compagni”126. Cro2: 107; Cro2: Appendice: 167. ASSU, Fondo giudiziario, busta 27, fasc. 210, 14 gennaio 1868, Corte d’ Appello degli Abruzi; Tor1: 67. Bart: 39. ? Bour: 86-87. Fio: 28. Bour: 87. antropologia e storia In questa logica rientra la spettacolarizzazione del crimine: l’annientamento del nemico è manifestazione e segnale di potenza, ostentazione della forma suprema della sovranità, quella di disporre della vita e della morte degli altri, di avere la signoria assoluta del loro corpo, che potrà essere frantumato e lacerato, rinnovando l’azione di forza che ha spento la vita. L’euforia della vittoria, del potere e del possesso si trasforma in un osceno banchetto carnevalesco, con lo scempio gioioso dei corpi: il massacro del corpo distrugge l’umanità della vittima, cancellando il rimorso e trasformando l’azione crudele in un “atto dovuto”, e l’effervescenza che lo accompagna è rafforzata dalla comune condivisione. Così facendo si è convinti “di aver contribuito al raggiungimento dei fini – in positivo o in negativo – per i quali la banda si era costituita”127. Senza ridurre interamente la crudeltà a una modalità culturale, oltre che alle logiche di una psicologia di guerra “arcaiche”, si può pensare a una combinazione di pulsioni e di pratiche di guerra consolidate e culturalmente tollerate, se non del tutto approvate. Questa crudeltà va capita, più che negata. Lo stesso Crocco contestò le “esagerate asserzioni di atti ferocissimi” compiuti dai briganti, ma dovette ammettere, sia pure minimizzando, che “qualche volta” Coppa, Ninco Nanco, Caruso avevano “commessi atti atroci sui feriti”128. Si trattava dello scempio del corpo del nemico, con smembramenti e mutilazioni dei corpi ancora vivi, secondo le modalità della legge del taglione; dell’uso di esporre i pezzi del corpo in / 2 – comicità e politica vari luoghi, cavare gli occhi ai vivi, evirare, tagliare il naso, strappare la barba e i baffi, tagliare il pizzo piemontese, decapitare e poi mettere il sasso in bocca, trascinare il corpo del nemico, seppellirlo da vivo, mettere al rogo, specialmente i traditori, inchiodare le loro mani al suolo, praticare il “supplizio del porco” (ossia scannare e appendere come si fa con i maiali), impalare (molto raro), bruciare i resti dei corpi nemici, bere il sangue e mangiare parti del corpo. […] La ferocia della repressione Nella propaganda dell’esercito gli eccessi dei briganti servirono a coprire la repressione dei militari, che andò oltre ogni possibile limite etico-giuridico, verso una sorta di guerra di sterminio. Gli ordini erano di non fare prigionieri, e valeva non solo per i briganti trovati con le armi in mano, (ma frequentemente senza armi e senza combattere), e si applicava, spesso a dispetto degli ordini ufficiali, ai parenti, ai conniventi e ai manutengoli, ma anche alle persone sospettate di brigantaggio e perfino, a volte, agli “indifferenti”, ossia a coloro che non prendevano le armi per combattere i briganti. Si effettuarono per rappresaglia distruzioni e incendi di paesi, si distrussero le case dei briganti, si adottarono torture e supplizi sui prigionieri (la tortura dei pollici, dei ferri corti, il digiuno, le bastonate); si fucilavano i briganti catturati sul campo o dopo averli riportati nei loro paesi, senza fare ad essi nessuna concessione; furono assassinati degli LeBo: 202. Cro2: 107. 127 128 129 Q uaderni innocenti fatti passare per briganti, si spogliavano i morti e i vivi, con la mutilazione dei corpi, non si risparmiavano i minorenni né le donne, si facevano evadere i prigionieri per ucciderli mentre fuggivano o li si uccidevano nelle carceri stesse. […] Militari e militi locali non solo non rispettavano i vivi e i morti, ma negavano la compassionevole assistenza ai feriti. Il 9 settembre 1863 la banda di Nicola Napolitano (Caprariello) fu circondata dai bersaglieri nella masseria Taglia. Dopo una furiosa sparatoria, caduti alcuni briganti, Napolitano rifiutò di arrendersi e si sparò alla gola. Il colpo gli spaccò la mascella, ma non lo uccise. I bersaglieri formarono subito il Tribunale militare, che lo fece fucilare all’istante insieme al brigante Nappi, sebbene fosse morente129. Quando i legittimisti presero Scurcola al comando dell’ex garibaldino Piccione, i feriti furono collocati sulle panche del corpo di guardia della Guardia Nazionale; di notte i soldati occuparono di sorpresa il paese, uccisero quei feriti e insultarono e sputarono sul chirurgo e il cappellano, prima di fucilarli130. Nel dicembre 1865 i carabinieri circondano la casa dove si trova Cappuccino. Il capobanda si butta dalla finestra, storpiandosi. Viene portato in paese e fucilato in quello stato pietoso131. Nel 1862 la Legione Ausiliaria Ungherese cattura un brigante gravemente ferito e lo fucila. Subito dopo è fucilata sua moglie, una brigantessa accusata di efferatezze durante la reazione di Ruvo132. 131 132 133 134 129 130 130 ASC, Roma, Gabinetto Prefettura, b. 250, f. 2567. DeSi: 78; in Grec: 178. Mian: 57. AUSSME, b. 34, pp. 5, 11. Butt: 83. Pro1: 99; in Deja: 317. Come sappiamo, le persone arrestate dai militari erano costrette a raggiungere a marce forzate carceri e luoghi di raccolta distanti decine di chilometri Quelli che non tenevano il passo venivano bastonati e persino uccisi. Padre Tofano dei Passionisti di Caiazzo, arrestato dai soldati di Pinelli, fu mandato legato a Caserta. “Quel buon religioso, stanco ed abbattuto anche a causa degli strapazzi e sevizie che gl’infliggevano, cadde sopra un mucchio di pietre, divenuto impotente a proseguire la marcia. Però i satelliti di Pinelli se ne sbarazzarono da valorosi moschettandolo”133. I militari non aiutavano i nemici feriti a vivere, ma nemmeno a morire. Né la cura, né il colpo di grazia: quando catturavano un brigante ferito, lo tenevano in carcere senza curarlo, affinché la ferita degenerasse in tetano e il prigioniero si spegnesse tra atroci sofferenze134. La punizione dei soldati andava oltre l’esecuzione capitale. Si voleva che il presunto reo perdesse l’anima, negandogli i conforti religiosi e la possibilità di confessarsi. Il maggiore Franchini in Somma, “arrestò sei persone nelle proprie abitazioni in mezzo alle loro famiglie, cioè un Mauro ottuagenario e suo nipote, don Francesco Persico, uno Scatena mercante di vino, un giovanetto, certo Scozio de’ più ricchi del paese, ed un Romano possidente, tutti sei designati dal capitano de’ nazionali. Li fece condurre in piazza, e dopo di aver negato a’ medesimi il confessore, li fucilò, facendoli gettare in un antropologia e storia immondezzaio”. Soldati piemontesi conducono al supplizio i prigionieri negando loro “i supremi conforti della fede”. Quando corsero a Paduli che si era ribellata, “issofatto cinque persone, lor negando il confessore, fucilarono”. Presso Pozzuoli “un altro uffiziale, richiesto d’un prete dal paziente, risponde: – Ti confesserai sotterra”. Furono inutili le proteste di un sacerdote135. Per vincere i briganti i militari non ebbero scrupoli a ricorrere all’assassinio dei loro capi, servendosi di traditori o di donne di piacere prezzolate o pagando le donne da essi abbandonate e desiderose di vendetta. Il mezzo più efficace sembrava essere il veleno. Il vino che i briganti ricevevano in seguito a loro richiesta o come dono di manutengoli, amici, alleati ecc. poteva essere avvelenato o “oppiato”, che nel linguaggio del tempo e del luogo significava trattato con qualche sonnifero. In questo secondo caso serviva ad addormentare il brigante e facilitare il suo arresto. Se raramente i briganti cadevano nell’inganno, questo è dipeso dal loro uso di far assaggiare il vino agli stessi messaggeri che lo portavano. Lo stesso può dirsi del cibo. Pare che i capibanda Monaco e Franco collezionassero il numero maggiore di tentativi di avvelenamento, tutti andati a vuoto, anche perché molti briganti si cucinavano da soli o si affidavano per il pranzo a fidatissime brigantesse. Si diceva che Monaco, che assai raramente beveva, non corse il rischio di morire avvelenato, perché per lui cucinava Maria Oliverio. Era la guerra dei veleni, antica quanto la guerra stessa. / 2 – comicità e politica Torce d’uomini In un proclama di Fucino, comandante della Capitanata, si leggeva: “Vi lascio, ma v’avverto che se ritornano i briganti, io pure ritornerò, e vi arderò a’ quattro angoli”136. Senza possibilità di equivocare, la minaccia era sia per i briganti che per la gente che li avesse accolti, magari subendoli come “indifferenti” e probabilmente contrari. Bruciare briganti e assimilati era anche un rito di purificazione, oltre che di punizione, analogo all’incendio delle loro case: tutto, del brigante, doveva essere ridotto in cenere. Il rogo dei briganti non era solo un’idea dei combattenti più crudeli o degenerati, ma piuttosto (o anche) una pratica bellica e sociale, ereditata dal passato. In Roma venivano bruciati vivi gli omosessuali passivi, i maghi e gli incendiari, responsabili dei reati più infami. Dal Medio Evo venivano bruciati ritualmente gli eretici, le streghe, i sacrileghi, i parricidi, i sodomiti, gli incendiari, dopo averli coperti di paglia fino alla testa. Queste esperienze segnarono l’immaginario collettivo, e si ritrovano fin nel sapere guerresco sia dei militari italiani che dei briganti. La vivicombustione aggiungeva alla peggiore morte che si potesse immaginare una pena accessoria, la riduzione del corpo in cenere e la dispersione di quest’ ultima, che privava il morto della possibilità della ricostituzione del corpo nel giorno del Giudizio Universale. Già prima del cristianesimo il rogo “condannava oltre al corpo l’anima del condannato”, che diventava un’anima vagante”137. Butt: 58; Pro1: 101; in Deja: 317; DeSi: 63 in Grec: 192, 191; AUSSME, b. 7, pp. 215-16. Butt: 46. 137 Canta: 225. 135 136 131 Q uaderni Un forte concentramento di truppa assedia una masseria presso Lavello in cui sono asserragliati ventidue briganti della banda Carbone: gli assediati si difendono “feroci quasi tigri” rifiutandosi di arrendersi e alla fine, per evitare altre perdite di soldati, i militari decidono di bruciare vivi i briganti lanciando sul tetto materiale infiammabile. Nelle ceneri della casa si troveranno corpi bruciati di uomini e cavalli138. Nel bosco di Montemilone diciannove briganti pugliesi si difendono aspramente in un pagliaio assediato dalla truppa e muoiono bruciati vivi139. Il 12 dicembre 1862 cavalleria e guardie nazionali assaltano nella tenuta di Polcano una banda e uccidono 4 briganti; altri 4 si chiudono nella masseria e si rifiutano di arrendersi. Gli assedianti appiccano il fuoco e i briganti muoiono tra le fiamme140. Il 20 dicembre 1862 cavalleggeri di Saluzzo, soldati e guardie nazionali e carabinieri nel territorio di Venosa assediano una masseria dove gozzoviglia una comitiva. Il comandante fa appiccare il fuoco ai due pagliai vicini, le fiamme invadono e presto avvolgono la casa. Due ore dopo i briganti erano sotto le macerie, inceneriti141. A bruciare i briganti i militi indigeni non erano da meno dei militari “piemontesi”. Nel gennaio 1862 la Prefettura della Provincia di Basilicata incaricò Luigi Franchi, importante proprietario terriero minacciato dai briganti, di costituire la prima delle due compagnie di Guardia Nazionale Mobile del circondario di Matera. A capo di questo pic- 140 141 142 143 138 139 132 Neg2: 105; in DeJa: 253. ASB in Luc: 47n. Bour: 181. DiTe: 136. Coni: 85, 86. Bour: 221, 222. colo esercito Franchi fece una sorta di guerra personale ai briganti della zona, senza regole e senza esclusione di colpi. Superò se stesso quando, scoperti tra Scanzano e Policoro dei mandriani che avevano collaborato con i briganti, li fece chiudere in alcuni pagliai, che poi vennero dati alle fiamme e i mandriani furono bruciati vivi. Non molto tempo dopo Franchi arrestò altri mandriani del territorio di Pisticci che avevano rapporti frequenti e intensi col brigante Pietro Angerame di Montemurro (Occhio di Marrone): tenne consiglio con i suoi ufficiali, quindi rinchiuse i mandriani nei pagliai e li fece bruciare vivi142. In molti casi i briganti per sottrarsi all’atrocità della vivicombustione rifiutavano la resa, che essi sapevano essere l’anticamera della fucilazione, e preferivano suicidarsi. Gli ultimi tre briganti della banda Lapia Sacchetta che operava nel territorio di Candela, dopo la distruzione della loro comitiva si erano chiusi in un casolare per l’estrema resistenza; l’ufficiale dei bersaglieri, dopo un duro scontro a fuoco, fece appiccare il fuoco alla casa; i briganti prima di rimanere bruciati o prigionieri si suicidarono con i loro revolver. Il 27 aprile 1865 i bersaglieri assediano il capobanda Marciano di Frigento insieme a due gregari in un Casone del territorio di Candela. Poiché i briganti non si arrendono, appiccano il fuoco e i tre prima di essere raggiunti dalle fiamme si sparano alla testa con le pistole143. antropologia e storia Simboliche politiche della morte Le forme e gli strumenti della repressione assumono frequentemente la veste di riti arcaici, con l’utilizzazione di elementi derivati dai riti patibolari e dai repertori derisori carnevaleschi. Questi riti miravano a distruggere l’aura di eroismo che avvolgeva il brigante nell’immaginario collettivo, nascondere l’efferatezza dell’esecuzione capitale o della punizione esemplare agli occhi stessi di chi la compie, esorcizzare l’orrore della violenza, trasformare il guerriero nemico e il nemico politico in un capro espiatorio, convogliando su un personaggio reale l’ingente volume di violenza tradizionalmente destinato alle figure mitiche del male: l’avversario diventa la fonte dell’infezione che minaccia la comunità, e l’esecuzione/punizione si configura come un rito crudele di purificazione: deresponsabilizzazione della crudeltà e legittimazione della violenza di Stato, che creano le condizioni per il massacro senza rimorsi. La realtà inedita della repressione ha imposto al rito un nuovo contenuto, e il rito ha dato a sua volta la sua forma alla repressione, riplasmandola e modificandola nella ricezione del pubblico. L’esecuzione capitale nelle intenzioni delle forze dell’ordine doveva essere uno spettacolo cui bisognava guadagnare il massimo dell’audience, per sortire un effetto propagandistico e deterrente. In aggiunta, per celebrare la vittoria totale del potere e l’annientamento assoluto dell’antipotere, occorreva infliggere il massimo dell’umiliazione agli sconfitti, per evitare che essi acquistassero la fisionomia di martiri e di eroi. Lo spettacolo / 2 – comicità e politica si articolava in tre momenti: la parata, la messa a morte e l’esposizione del cadavere. Quando era possibile, i condannati venivano portati nel paese dì origine per l’esecuzione, per accrescere l’effetto deterrenza attraverso l’esposizione pubblica. Questa prevedeva innanzitutto – quando era possibile – un percorso processionale dal carcere fino al luogo in cui avveniva la fucilazione. Quando era presente il fotografo, l’esposizione pubblica si ripeteva per un tempo illimitato. Sebbene non fosse previsto dalle regole dell’esercito, la parata dei condannati poteva assumere alcune forme violentemente arcaiche ancora vive nell’immaginario patibolare della gente e a volte proprio da esse richieste e sollecitate. Uno di questi modi era la cavalcata finale sull’asino. Vi fu sottoposto un capo prestigioso, come Michele Caruso, durante il percorso dal carcere al luogo della fucilazione. I militari di Benevento accolgono la domanda della gente di “farlo vedere” mentre vanno a fucilarlo alla schiena; ma “sul cavallo no, sul mulo un tantino meno; meglio metterlo su di un asino, strettamente legato”144. Si tratta di una forma semplificata della “cavalcata sull’asino”, pena disonorante diffusa in Europa già nel Medioevo, in cui i rei, uomini e donne, specialmente adultere e prostitute, venivano portati in giro per la città in groppa ad un asino. Le scena si ripeteva nelle forme violentemente giocose degli charivari durante il Carnevale, con i personaggi puniti in effige. L’asino era considerato un animale demoniaco, maligno o benigno, ma in questo rito era identificato col diavolo. Il reo di norma era seduto alla rovescia, posizione che rispecchiava l’ordine dell’inferno. Un altro Sang: 201. 144 133 Q uaderni capobrigante, Taccone, al tempo del generale francese Manhés, ebbe in Potenza la stessa condanna, in forma più sofisticata. Per convincere gli increduli, che non volevano credere che il capobanda era stato ucciso, perché immortale, “il corpo del Romano era stato caricato su di un asino e portato sulle piazze e di masseria in masseria, come usano i cacciatori dopo aver abbattuto il lupo. Lo portarono fin sotto la finestra della madre e della sorella. Il cadavere rimase per una settimana esposto al pubblico. Era a pezzi. Il volto irriconoscibile”145. Questa l’esecuzione capitale di un brigante avvenuta in Sora, descritta dal capobrigante tedesco Zimmermann: “Il giorno precedente, a Sora e dintorni, era già stata resa nota l’ordinanza affinché i presenti all’esecuzione fossero quanti più possibile. Verso le dieci cominciarono a rullare alcuni tamburi davanti alla prigione e comparvero i condannati, a capo scoperto, con le mani legate davanti e accompagnati da un religioso. Quando gli infelici giunsero sul luogo del supplizio, i loro sguardi vagavano come se cercassero tra le schiere dei loro compaesani; desideravano, probabilmente temevano, di vedervi parenti ed amici e – cosa più spiacevole – di perdere all’ultimo la forza. Tuttavia andavano cercando i loro cari, inutilmente: erano stati incarcerati, per motivi di prudenza, già da molti giorni. Sul lato aperto del quadrato dell’esecuzione, a distanza di tre passi l’una dall’altra, si trovavano quattro sedie di legno dove si portarono i prigionieri 147 148 149 145 146 134 Bour: 49. Zimm: 81.82. Zimm: 82. Butt: 58. Butt: 92. dopo che ebbero pregato col loro sacerdote. Furono fatti sedere a cavalcioni e li si legò saldamente alla seggiola. Il plotone d’esecuzione si fermò alle loro spalle, perché “in tal modo si dimostra che il brigante ha vissuto senza onore e merita di morire ignominiosamente”146, come è scritto nelle circolari di Cialdini. “In silenzio ed immobile, la rabbia e il dolore nello sguardo, il popolo stava a guardare tutti quei preparativi. (…) Ad ogni sedia si avvicinarono quattro uomini, con i fucili già pronti. Il comandante del plotone sollevò in silenzio la spada, esplosero sedici colpi, e da uno di quegli scanni di morte rimbalzò un breve ed intenso grido di dolore, che trovò cento volte eco tra la folla”147. I corpi dei fucilati venivano lasciati sul posto dell’esecuzione, prima della sepoltura. I fucilati di Sora “poi furono gettati su un carretto e sotterrati lontano, fuori città, in un punto nascosto della Valle di Roveto. Nessuna croce, nessuna lapide indica il luogo in cui marciscono quatrro cuori leali e coraggiosi. I piemontesi hanno, forse, già da tempo dimenticato quel posto, ma il popolo se lo ricorda e lo tiene in gran considerazione”. Il maggiore Franchini in Somma fucilò sei persone e fece gettare i loro corpi “in un immondezzaio”148. Nell’assalto al castello dell’Isoletta i briganti di Chiavone, prima vittoriosi, sono alla fine respinti. Il maggiore piemontese Savini fa fucilare i prigionieri, tra i quali è il giovane volontario Alfredo Trazenies di Namur, e fa gettare i cadaveri in un fosso149. Nell’invasione di Moschiano nel antropologia e storia Vallo di Lauro, tra la Terra di Lavoro e l’avellinese, restarono uccisi quattro moschianesi, che furono sepolti, e due briganti, di cui non si seppe mai che fine avessero fatto i loro cadaveri150. La negazione di Antigone Un soldato udinese ha saputo descrivere gli effetti della “misura immensamente persuasiva” di “lasciare insepolti i fucilati”: prima i soldati seppellivano i briganti dopo averli fucilati e “qui finiva tutto”; ma quando, cambiata la pratica, le popolazioni “videro nei sagrati o nelle piazze i corpi dei fucilati, paesani o non paesani, rimanere esposti al sole ed alla pioggia, le cose cambiarono ad un tratto.Il castigo aveva servito di salutare esempio ai cattivi, di fiducia e incoraggiamento ai buoni che diventarono trattabili, perfino espansivi”151. Ma non era sempre così. Spesso i luoghi dell’esecuzione o del seppellimento diventavano sacrari nella memoria collettiva. Secondo disposizioni ufficiali i cadaveri dei briganti caduti in combattimento o fucilati venivano portati in paese, dove venivano esposti nella pubblica piazza o nel quartiere dove essi erano cresciuti. Era un atto dovuto, che consentiva di procedere all’identificazione formale del brigante, anche in funzione del pagamento delle taglie, dipendente anch’esso dal riconoscimento ufficiale del brigante ucciso e dell’uccisore. Era però al 152 153 154 150 151 / 2 – comicità e politica tempo stesso un rito orrendo, che aveva la funzione di deterrenza, ma i cui effetti sulla popolazione andavano ben oltre. Nella sua Istruzione teorica alle truppe il generale Pallavicini aveva raccomandato: “I cadaveri dei briganti caduti in uno scontro saranno sempre trasportati nei paesi ad oggetto di convincere maggiormente le popolazioni, incredule sempre quando trattasi di vantaggi ottenuti dalle truppe”152. Per i cacciatori di briganti però portare il cadavere del nemico nel paese significava celebrare il proprio trionfo, oltre che riscuotere la taglia. Il trasporto dei cadaveri e la loro esposizione nei paesi d’origine aveva per le autorità anche il vantaggio di farli recuperare e seppellire dai parenti; quando questo non accadeva, i cadaveri, dopo giorni di esposizione, venivano inumati dalle forze dell’ordine153. Per moltiplicare gli effetti orrifici e di deterrenza, ai briganti e – quello che è più scandaloso – alle brigantesse, venivano tolti i vestiti: consegnare i corpi alla loro impudica nudità, significava privarli dei segni che ne facevano persone con l’attribuzione di ruolo e decoro. Il corpo della brigantessa Michelina Di Cesare fu portato straziato e nudo nella piazza di Mignano come monito154: si soleva farlo per gli uomini, ma era pressoché inedito per le donne. Oltre la lacerazione delle forme sociali, il denudamento pubblico della donna innalzava a dismisura il livello dell’oscenità, inserendo una componente morbosamente erotica, che equiva- Mosc: 90. Nove: 71; per altri casi interessanti di esposizione del cadavere dei briganti ved. Sait: 76, 98, 105. DeWi: 296; anche in Mont: 59-60. Fri2: 156. Cro4: 107. 135 Q uaderni leva a una sorta di stupro, segno allucinato di una rivincita e di una vendetta sulla totalità delle donne. Il denudamento delle vittime era un rito al quale non si voleva a tutti i costi rinunciare. L’ispettore di P.S. di Foggia fece disseppellire il cadavere di Coppolone che, lavato e disinfettato, fu portato a Ginosa, il paese natale del capobanda155. Nel luglio 1867 il tenente Carlo Bartolini, infiltratosi nella banda di Luigi Andreozzi, terrore della Terra di Lavoro, tra Lazio e Abruzzo, elimina quattro briganti, compreso il capobanda, che era diventato suo amico. I cadaveri furono lasciati insepolti per 48 ore, ufficialmente in attesa del riconoscimento ufficiale, ma intanto cominciavano a putrefarsi per le ferite ed il caldo, per cui si decise di seppellirli. Il clero però non volle occuparsene, perché, evidentemente filounitario, considerava i briganti colpevoli di sacrilegio, ed ai sacrileghi la Chiesa aveva sempre negato i conforti e la sepoltura religiosa. L’autorità civile a sua volta “se ne lavò le mani, i paesani spaventati, malgrado minaccie e promesse di ricompensa, si rifiutarono di scavare le fosse”. A quel punto il Bartolini, “annoiato”, fece bruciare i cadaveri: “la cremazione riuscì incompleta, e gli avanzi informi dei cadaveri terminarono coll’essere pasto di numerosi cani di pastori, che attratti dall’odore della carne bruciata discesero al piano e ne fecero banchetto”. Effetto di una mescolanza di dinieghi religiosi, di tattiche di deterrenza e di paura diffusa, questo allucinato episodio rimarrebbe in parte incomprensibile, se non ci fosse, al fondo, una oscura volontà di in Mian: 60. Bart: 85. 157 Coni: 48. 155 156 136 fierire su miseri resti umani, per annientare, insieme al corpo, il resto immateriale che gli sopravvive, la memoria. Poiché la civiltà di un popolo si misura anche dal modo in cui esso rispetta e accudisce i resti materiali dell’esistenza, da più parti si gridò a questa “efferata barbaria” (sic!), ma il tenente ebbe una importante onorificenza dal governo156. Cacciatori di teste e feste crudeli I soldati, ma soprattutto le guardie nazionali e gli squadriglieri, di solito troncavano la testa ai briganti uccisi e qualche volta ancora vivi. La si esibiva come trofeo, conficcata in un palo, che si portava in processione per il paese, e la si lasciava esposta per alcuni giorni. La testa era il sostituto nobile del corpo, che riusciva più difficile portare in paese. Il resto del corpo veniva miseramente ed anonimamente sepolto, come abbiamo visto, e perfino bruciato. In non pochi casi poteva essere fatto a pezzi, che venivano trascinati negli altri luoghi che erano stati il teatro dei suoi eccessi157. Anche se probabilmente come tagliatori di teste i meridionali, sia briganti che militi locali e perfino gente comune, tenessero il triste primato, sorprendentemente i soldati in alcuni casi mostrarono di superarli in efferatezza. Nel luglio 1870 una pattuglia di bersaglieri uccide in uno scontro a fuoco sui monti della Sila il capobanda Talarico, e il sergente “acciuffa pei capelli il morto, estrae la sua sciabola baionetta poco tegliente, mentre i bersaglieri lo tengono sollevato per antropologia e storia le braccia, mena replicati colpi sul collo per staccarlo imbrattando di sangue la sua tunica e gli abiti dei soldati con qualche schizzo nel viso di essi. Si fa aprire il suo tascapane e vi ripone la testa sanguinolenta che durante la marcia gli arrossa i pantaloni di tela”. Giunto a S. Giovanni in Fiore, il sergente “estrae la testa e la infilza sulla baionetta che tiene innastata sulla carabina tenuta a Spallarm, ed entra colla pattuglia trionfante in paese. A quell’orribile vista, la gente terrorizzata si mette a gridare Madonna dello Carmine – la capa di Talarico”. Nel bar il sergente è festeggiato dai galantuomini del paese, ed egli “dopo aver deposto sul tavolo la brutta testa, si mise a raccontare il fatto impressionando gli astanti che ogni momento esclamavano Bravo Sergente”. La testa viene portata al comando di Rossano, dove viene fotografata. Il sergente tagliatore di teste fu premiato con la medaglia d’argento158. La truppa del generale Franzini cattura a Lagopesole tre briganti, che vengono portati a Ripacandida e decapitati, forse vivi. Il 20 marzo 1864 Egidio Pugliese è sconfitto e ucciso da carabinieri e guardie nazionali presso Stigliano, la sua testa viene staccata dal corpo e portata nella Prefettura di Craco. Il comune di Pisticci la pretende e, ottenutala, la porta in processione come trofeo, infilata su un palo, per le principali vie del paese159. Al brigante Giacomo Madeo, ucciso dopo la disgregazione della banda Monaco, dagli abitanti di Acri (CS) fu spiccata dal busto la 160 161 162 163 158 159 / 2 – comicità e politica testa, che restò per molto tempo appesa nel luogo in cui era avvenuto il celebre sequestro ad opera della stessa comitiva, “siccome spettacolo di terrore e d’obbrobrio”160. Nel maggio 1864 presso Tricarico la cavalleria di Mennuni si scontra con una comitiva, uccide sei briganti e ne porta le teste sanguinanti in città161. Quando la banda calabrese di Gaetano De Rose di Acri (CS), che operava tra la Lucania e la Calabria, fu distrutta in uno scontro con la Guardia Nazionale, nell’inverno 1862, ai briganti si tagliarono le teste, per esporle nella piazza di Acri162. Pressoché ignorata è tuttavia la decapitazione delle donne della banda: sappiamo però di Maria Giuseppa Gizzi (“Peppinella”), colpita – come abbiamo visto – a tradimento insieme al suo compagno Giacomo Parra: le loro teste furono tagliate e contese come trofeo dai comuni di Muro Lucano e di Bracigliano. Non sappiamo quante brigantesse abbiano subito lo stesso destino. Queste orrende decapitazioni godevano del plauso dei cosiddetti ceti civili. Nel marzo 1864, il giorno prima dell’uccisione di Ninco Nanco, Napoli fece festa quando giunse la notizia che gli ussari di Piacenza e i bersaglieri stanziati in Ripacandida avevano portato in paese le teste di tre briganti uccisi nel bosco di Lagopesole163. Le reazioni della gente del posto dovettero essere molto diverse dai lettori metropolitani del “Pungolo”. La decapitazione aveva un non trascurabile risvolto pratico. La presentazione della Fert: 51, 52. Coni: 48. Fal2: 167. Bian: 134; Varu: 142. Ri-L: 119. “Pu”: 16/3/1864; Bian: 134. 137 Q uaderni testa attestava l’uccisione di un brigante e consentiva di riscuotere la taglia o il premio. I tagliatori di teste venivano premiati con denaro dalle amministrazioni comunali. Il comune di Pisticci eccitava a tagliare il capo al brigante Cappuccino, promettendo un premio in denaro ed altri privilegi164. Le teste mozzate si conservavano sotto sale. I cacciatori di taglie esistevano già nei secoli precedenti, e in modo particolare durante la dominazione spagnola, quando esisteva perfino una precisa procedura per la ricognizione e la presentazione della testa mozzata per riscuotere la taglia: dopo il riconoscimento, il giudice decretava: “recipiatur et ponatur in palo”. Erano spesso dei criminali, che, incapaci di uccidere i briganti, assassinavano a volte persone innocenti e portavano dentro delle ceste e conservate sotto sale le loro teste alle autorità, che le riconoscevano come teste di briganti. Accadeva soprattutto nel brigantaggio endemico dei secoli precedenti. Si otteneva un premio in denaro o un salvacondotto165. I pali venivano poi portati in giro e infine piantati nei paesi dei briganti. Si tratta di un uso bellico e sociale che ha una lunga storia. Già per i romani “la testa decapitata di un nemico era un trofeo, anch’ essi amavano esibire la loro gloria infiggendo la macabra preda su un palo o sollevandola alta in una mano, mentre tornavano al galoppo da un’impresa vittoriosa”166. In America nella fase finale della guerra di secessione i sudisti, ormai organizzati in bande di fuorilegge, tagliavano le teste ai nemici abbattuti e le usavano come 166 167 164 165 138 Coni: 107. Rovi: 409; Cant: 161. AUSSME: b.60, fasc. 19, c. 300. trofei. Qualcosa di simile è accaduto più recentemente durante le guerre balcaniche. Ottenere la testa e portarla in processione era un diritto del paese di nascita del brigante. Un diritto conteso dalle squadre che uccidevano il brigante, soprattutto ai fini della riscossione del premio, dando luogo frequentemente a contese tra il paese di nascita del brigante, il paese degli uccisori e perfino il paese nel cui territorio il brigante era stato ucciso. Nell’esercito la decapitazione dei briganti ufficialmente era proibita167, ma era tuttavia praticata, con la giustificazione che, risultando difficile, a causa della distanza, portare in paese il corpo del brigante ai fini dell’identificazione, ne se portava soltanto la testa. Il generale Giuseppe Sirtori era indignato di questi usi, a proposito dell’uccisione di Pietro Monaco (“barbara usanza, che io non volli permettere mai, avanti che contrariassi un desiderio delle popolazioni meno colte di questa Provincia”), ma non pare che li abbia rigorosamente proibiti. Il gusto della decapitazione poteva essere tollerato ma non condiviso dall’alta ufficialità dell’esercito, ma era gradita a buona parte dei quadri più bassi e ai soldati, e molti ufficiali preferivano secondarli. La decapitazione e la processione successiva erano una festa crudele. Destavano l’effervescenza della parte della popolazione ostile ai briganti, perché attestavano visibilmente che ce n’era uno di meno, e il ludibrio cui veniva esposta la sua testa li ripagava selvaggiamente delle paure e dei danni subiti. Soprattutto delle antropologia e storia paure. Nella disgustosa deriva della guerra civile squadriglieri e soldati facevano ai loro nemici quello che da essi si aspettavano e paventavano. Le parti si sono rovesciate, ora sono gli altri a dileggiare e spaventare gli amici dei briganti e a godere del loro terrore. Ma portare in paese la testa del nemico era un trofeo, una esaltante prova di valore, che i tagliatori si teste sapevano quanto veniva ricompensata dall’esercito e dalle amministrazioni locali. Era, però, prevalente il rito di dileggio del nemico. La testa privata del corpo aveva nell’immaginario tradizionale anche una valenza grottesca; non a caso si ricorre a questa fantasia in molte scenette pulcinellesche. Questo non esclude una segreta componente di sadismo e di antropofagia: si “mangiava cogli occhi” il corpo del nemico168. L’uso della testa tagliata si prestava ad altre forme di violenza e di oltraggio. Ne erano protagonisti anche i soldati. Nell’area di S. Gregorio Matese, nel Vallone dell’Inferno, il 4 maggio 1864 in uno scontro a fuoco tra la truppa e la banda di Libero Albanese fu arrestata insieme a due suoi cognati la brigantessa Maria Carmine Valente, venticinquenne, sposata. I soldati credettero che un brigante ucciso fosse il capobanda e gli tagliarono la testa: era, invece, il soldato disertore Gerardo Autunnale, amante della brigantessa. I militari costrinsero la donna a portare la testa fino al Corpo della Guardia Nazionale di Piedimonte. È questo uno dei casi più sconcertanti della storia del brigantaggio: secondo le carte processuali la donna sostenne di essersi trovata per caso in mez- / 2 – comicità e politica zo al combattimento, e a dimostrazione di ciò si prestò a lavare la testa troncata del suo uomo, non cessando “di ballare e scherzare dinanzi ai soldati per tutta la via, facendo ballonzolare quella testa per i capelli”169. Non le servirà molto, perché avrà 20 anni di lavori forzati. Data l’inaffidabilità, in casi come questo, dei testimoni, è più probabile che i militari siano i soli responsabili del turpe spettacolo. Secondo la tradizione popolare costringere una donna a ballare significa possederla. Anche Maria Oliverio fu costretta a portare la testa tagliata del cognato Antonio Monaco, caduto nell’ultimo scontro170. Le teste tagliate si portavano mettendole nel tascapane o avvolgendole in un panno, oppure afferrandole per i capelli. Era, quest’ ultimo, un gesto di grande pregnanza simbolica, perché impugnare la capigliatura del proprio nemico “è segno di vittoria su tutta la persona che si tiene in pugno”, dal momento che i capelli sono l’emblema della forza fisica della persona. In molte culture tirare i capelli è l’equivalente di un gesto di sfida. Una pratica di guerra che ritroviamo qualche volta tra i briganti e adottata dalla parte opposta, soprattutto da squadriglieri e guardie nazionali era il massacro del corpo e il suo spezzettamento: si cercava di prendere vivo il nemico, e lo si squartava e mutilava: i pezzi venivano mandati nei paesi ai quali il giustiziato era legato da fatti infamanti, e/o venivano infilati dalle baionette e portati in trionfo dai briganti. La rottura del corpo apparteneva alle esecuzioni capitali dei secoli passati, con cui si punivano i delitti più atro- Cant: 161. Nota 81; Sang: 321-22. 170 Nota 82. 168 169 139 Q uaderni ci, ancora vive in alcune parti dell’Europa all’epoca del brigantaggio postunitario, ma non è certo che l’abbiano praticata i soldati italiani. La praticavano però i loro coadiuvanti, guardie nazionali e squadriglieri, culturalmente affini ai briganti che combattevano, per i quali il macabro rito conservava i significati forti che sempre aveva avuto: quando fu ucciso Egidione “il sindaco Rogges fu invitato dalla Prefettura a prelevare la testa di Egidio per portarla a Pisticci, dove fu prima condotta in ‘processione’, conficcata su di un palo aguzzo, per le principali vie del paese, a mo’ di macabro trofeo, e quindi esposta per tre giorni nella piazza, mentre le rimanenti parti del corpo furono trascinate nei diversi luoghi, dove aveva compiuto i suoi misfatti”171. L’uso era riservato ai criminali da tempi immemorabili. “Possiamo comprendere la natura dell’oltraggio provocato da simili punizioni, se consideriamo anche che la mutilazione del cadavere (il divieto delle esequie cristiane) era di fatto un inasprimento del terrore, dato che le autorità deliberatamente colpivano i tabù popolari più vivi. Per capire la natura di questi tabù – il rispetto, impregnato di superstizione, per l’integrità del cadavere – occorre evocare le consuetudini mortuarie testimoniate dal folklore”172. Effetti nel breve e lungo periodo Nell’immediato l’incancrenirsi delle misure repressive non produsse effetti positivi 173 174 175 171 172 140 Coni: 48. Thom: 320. Rov: 408. Pad1: 42. Rovi: 437. per l’esercito. Accadde invece quello che in situazioni simili era accaduto in passato nella storia del brigantaggio endemico. Dopo l’emanazione dell’editto De exulibus nel 1563: “molti piccoli delinquenti, spaventati, s’erano dati alla macchia; la criminalità maggiore, ‘posta in disperatione’, s’era fatta più feroce e temeraria; molti capibanda, nemici tra loro, venuti a conoscenza delle leggi straordinarie, avevano cessato le ostilità”, e si erano uniti tra di loro173. Si chiedeva Vincenzo Padula tre secoli dopo: “Che frutto hai colto tu della legge Pica? Si è cresciuta la sicurezza pubblica? No. Si è distrutto il brigantaggio? No. Si è dato sfogo ad odii privati, ed in virtù di notizie vaghe, raccolte in fretta da chi ignorava i luoghi e somministrate da chi intendeva vendicarsi, si sono mandate a domicilio coatto molte, e assai molte persone o innocenti o inoffensive”174. La modalità in cui la repressione fu teorizzata, costruita giuridicamente e concretamente effettuata “ebbe conseguenze deleterie anche sul lungo periodo, conferendo al sistema penale dell’Italia un imprinting di cui non si è forse ancora liberata”175. Come nota Mario Sbriccoli, “nelle questioni che riguardavano l’ordine pubblico e la sicurezza politica, avrebbero prevalso i criteri dell’opportunità e della convenienza, dettati dalle esigenze dello Stato (che poi sarebbero state regolarmente quelle del governo). La straordinarietà degli interventi sarebbe stata giustificata con l’eccezionalità delle situazioni; il sospetto avrebbe avuto lo stesso valore della antropologia e storia prova, la certezza morale avrebbe rimpiazzato quella giuridica, le polizie avrebbero finito per contare più dei giudici”176. Insomma, “un’inclinazione della penalistica italiana alla compulsione dei diritti, giustificata dall’emergenza”177: quando al brigante delle campagne si sostituirà la criminalità cittadina, “il nesso di continuità tra la vecchia e nuova criminalità è evidente nell’idea di una statualità ‘altra’, nel modus operandi e nelle gerarchie, nell’ambiguo rapporto di opposizione/compenetrazione con le istituzioni e con i poteri forti. Ritorni, insomma, che sono da leggere nel segno di una modernità mancata o che ha appena lambito le strutture sociopolitiche178”. IV. La morte e il lutto Come muoiono i briganti Come si comportavano i briganti davanti alla morte? Abbiamo pochi dati certi concernenti le donne, ma copiosi quelli sulla morte dei briganti in generale. In tutti è rilevabile l’assenza della paura di morire, e a riconoscerlo sono in primo luogo i militari, che per ovvie ragioni dobbiamo considerare i più attendibili, almeno per i loro riconoscimenti e le attestazioni positive, essendo i nemici dei briganti: il maggiore Pieri, il generale Franzini e il colonnello-brigadiere / 2 – comicità e politica Mazé de la Roche, il sotto-prefetto di Ariano Irpino Lucio Fiorentino dovettero prendere atto del coraggio e dello “stoicismo” dei briganti dinanzi al plotone di esecuzione e il Fiorentino capì che il pericolo della fucilazione non costituì mai un deterrente per i contadini, briganti o amici dei briganti, per i quali essa costituiva soltanto una “chance de la guerre”179. Molti briganti preferirono farsi torturare e uccidere piuttosto che tradire. A Catalano fu inutilmente ripetuta la minaccia della fucilazione, se non avesse parlato, e fu fucilato180. L’idea che il mondo contadino fosse indifferente alla morte è stata notata da tempo immemorabile, per esempio, da Maupassant: “nella periferia parigina, colma di una popolazione di provincia, si ritrova questa indifferenza del contadino verso la morte, fosse anche quella di suo padre e di sua madre, questa indifferenza, questa forza inconsapevole tanto comune nelle campagne e così rara a Parigi”181. Tra i briganti meridionali questa tendenza contadina era rafforzata dall’idea della guerra santa e dalla fede legittimista: “Comprendono che – spiegava un ufficiale dei loro nemici – se capiteranno fra le unghie della giustizia o sommaria o istruttiva, saranno fucilati, ciò non cale loro; – Una volta si deve morire – dicono, e la gloria del Paradiso, che sentono essersi acquistata con le pratiche religiose, è l’unica speranza, l’unica ricompensa che si riprometteranno Bri: 174. Rovi: 427. 178 Rovi: 428; cfr. Gros: 256. 179 Molf: 132-33. 180 Paso: 42; in DeJa: 304. 181 Contes et nouvelles, Bibliotèque de la Pléiade, Paris, 1974, vol. I. 182 DeWi:74. 176 177 141 Q uaderni dopo una lunga vita di stenti”182; e l’ufficiale Paolo Negri conferma che: “i briganti da noi fucilati andavano alla morte con passo fermo fumando e bevendo al grido di ‘Viva Francischiello’”183, ma si trova davanti il problema, non facile, di doverlo spiegare, senza ammettere che si tratta di eroismo. Questo il suo commento all’episodio dei briganti della banda Carbone che si lasciano bruciare vivi o si suicidano in una masseria per non cadere nelle mani dei militari: “Noi non ascriveremo ad eroismo (come in quel tempo fu detto) il lasciarsi bruciare piuttosto che arrendersi; no di certo. Lo chiameremo invece un fanatismo, una falsa credenza. ‘Chi muore combattendo contro i nemici della religione e del nostro re Francischiello va al godimento del regno dei cieli’. Con questa fede troppo vecchia e inconcussa si affronta con disprezzo profondo la morte e lo abbiamo più volte veduto nel cinismo dimostrato dai briganti che, fatti prigionieri con le armi in mano, erano fucilati nella schiena”. Questi comportamenti disorientavano in effetti i militari piemontesi, abituati a immaginare che gli eroi che sfidano la morte fossero figure ideali da cartolina: “Che curioso miscuglio di carattere! Morire piuttosto che svelare un complice! E questa virtù eroica in chi si trova? In uno che ha, poco tempo fa, bruciata viva una donna incinta, che ha disonorate ventiquattro giovani”184. Nessuno si pose il problema che sono proprio le rappresentazioni collettive a 185 186 183 184 142 Negri: 36; in DeJa: 253. Paso: 53; in Deja: 304. Papa: 107; Sca1: 136. Bat: 162. produrre le forze morali che alimentano la guerriglia. Non tanto la religione, la fiducia e la lealtà al “re buono”, quanto l’imitazione del padre morto e la benedizione/maledizione della madre: una educazione alla morte che iniziava dal tempo della Ninna nonna: Lu sangu chi t’ abbivara lu cori È di cui si criscìu dintra la Sila; tu fatti guappu, nsonduvè si mori spezza a cui avanti a tia stendi la fila. Oh! oh!, oh! Briganteiu ninna nò. Si a patrita mu agguali no si griju, si timisci di voscura o surdatu, ieu mo ti jestimu, o piccirju: vipara mu ti ntossica lu hijatu185. (“Il sangue che ti abbevera il cuore /è di chi crebbe dentro la Sila; / tu fatti guappo, dovunque si muore, / spezza la vita a chi ti contrasta. // Se non sei capace di imitare tuo padre, / se hai paura dei boschi o dei soldati, / io adesso ti bestemmio, piccolino: / che una vipera ti intossichi il fiato”). La trasgressione che fonda il potere del brigante chiama la morte, perché essa è fondamentalmente una sfida alla morte; la sua sovranità è “il potere di innalzarsi, nell’indifferenza della morte, al di sopra delle leggi che assicurano il mantenimento della vita”186. Nell’orizzonte del brigante ci sono dunque il modello del padre e l’investimento della madre con la sua ansia di sciogliersi nella gloria del figlio. L’uno e l’altro prefigurano e determinano le scelte e il destino dell’uomo sin dai primi anni. antropologia e storia Riti di morte. Sepoltura dell’eroe Il senso brigantesco della morte, del lutto, dell’amicizia e della pietà ha trovato la sua espressione più alta nel racconto che il semianalfabeta capo dei capi ha scritto, senza mediazioni, per evocare la sepoltura del suo luogotenente Giovanni Fortunato detto Coppa: il capobanda più fedele a Crocco e da lui più amato viene ucciso da uno della comitiva che gli si è ribellato. I compagni lo portano a Donatello. “Il giorno dopo – racconta il grande capo – cioè sul fare del giorno la compagnia mi consegnò il ferito il quale dava poche fioche parole, mi riconobbe, gli feci sentire raccondare il fatto come era successi, e udite la fina dissi colla testa si, domandate se voleva vendetta da qualchje suo compagno, raddoppiò il no, no colla testa, finalmente alla stesora, dopo 24 ora che aveva ricevuto i due colpi, spirò, quando vide che il polso non dava più battito, subito gli strappai tutt’ i panni, lo chiuso bene gli occhi, lavai bene bene il cadavero, taffetai bene le ferite, asciucato bene gli posi una camicia di lino, motente (= mutande) e calzette, una scolla di seta incanna, gli pettinai bene i capelli, e lo poso sopra una coverta un’altra sopra lo lasciai dormire. La notta scelso il luogo, desegnai la fossa e sei dei suoi più fidi cavarono alla profondità di 8 palmi un fosso in cui dovevo tumulare il compariello di mio padre, il figlio della malafemmina, alla quale col mio debbole e rozzo scritto chiamo a vedere suo figlio (…) Appena fatto giorno prendemmo nuovamente a contemplare il cadavero, egli / 2 – comicità e politica dormiva perfettamente, lo prendemmo bello bello, e lo ponemmo all’impiedi si reggeva perfettamente. Cammina Giovannino, cammina meco all’ultima baronia, la tua furtuna è bella ed assicurata, non temere più, tutto hai pagato, vi resta solo il debito con la madre antica, viene da essa. La quale pietosamente v’aspetta. E prendendolo senza farlo smuovere lo portammo alla preparata fossa, quivi giunte lo ravvolgemmo in due coverte e il calammo giù, poi fatti a pezzi tutte le sue arme, compresi gli speroni, ed il morso della briglia del suo cavallo, lo coprimmo di terra facendo scomparire ogni menoma traccia, finite il tutto dissi”187. Gli usi funebri dei briganti solo in parte erano gli stessi dei pastori e contadini. Appartenevano per il resto alle pratiche e credenze del brigantaggio endemico, e avevano per questo secoli di storia alle loro spalle. La decapitazione del morto, la cremazione del cadavere, il seppellimento anonimo, il nascondimento della testa erano in parte residui arcaici, in parte erano forme di adattamento alle condizioni di vita alla macchia. I briganti bruciavano i compagni morti o uccisi o rendevano irreperibili i loro corpi sepolti anche per evitare che fossero riconosciuti e identificati dalle forze dell’ordine188. La cremazione dei corpi era notoriamente proibita dalla Chiesa, ma essi la ritenevano dolorosamente necessaria. Maria Oliverio si attenne a quest’ uso, quando, prima dell’arrivo dei soldati, diede alle fiamme il cadavere di suo marito. Filomena Pennacchio e Michele Caruso dopo la battaglia vittoriosa di Santa Croce di Magliano fecero lo stesso Cro4: 50-57. DeWi: 246n. 187 188 143 Q uaderni dei compagni caduti: “Pochi morti in quel fatto d’armi ebbero i briganti, e quei pochi furono messi in una pagliaia, ed ivi cremati, – scrive un militare – all’oggetto sempre che non fossero da noi riconosciuti”189. Ma i militari non capivano tutto. La cremazione serviva anche ad evitare l’abominio dell’esposizione del cadavere nel paese e l’esibizione della testa tagliata come trofeo. Forse Maria Oliverio bruciò il corpo di Monaco dopo aver troncato la testa per portarla via190. Nell’assalto della banda Franco alla colonna dei possidenti di Senise il brigante Novelli è colpito a morte; i compagni lo portano via, e quando si accorgono che è morto o è in fin di vita, gli staccano la testa “per non farlo conoscere”191. Quando potevano, e avevano il tempo per farlo, i briganti preferivano seppellire i loro morti, con l’accortezza di far scomparire ogni traccia192: il seppellimento doveva avvenire in un luogo sicuro, sconosciuto ai nemici e di non facile reperibilità, perché i soldati potevano anche disseppellire il cadavere e identificare il brigante, come spesso è accaduto. Con la cremazione dei cadaveri e con la sepoltura anonima si rendevano irreperibili i corpi e veniva meno la prova della loro morte. I due briganti traditori che uccisero il capobanda Boffa ad Avota seppellirono il corpo in un luogo che solo essi conoscevano, ma successivamente per ac- quistare meriti presso le autorità e forse per intascare la taglia lo fecero sapere ai soldati, i quali dissotterrarono il cadavere e, dopo il riconoscimento formale, lo trasportarono in città193. Diverso il caso di Parri e Boffa, che bruciarono i loro compagni Pechirillo e Vito dopo averli uccisi, per far perdere le loro tracce194. Dopo aver fatto uccidere con ordine del Tristany il capobanda Chiavone di Sora, i comitati reazionari di Roma fecero credere che fosse ancora vivo e lo sostituirono con un secondo Chiavone, “per nascondere la morte del vero Chiavone la cui morte accertata avrebbe gettato nello scoramento i suoi amici, e indispettita contro il nuovo capo e la reazione quella buona popolazione di Sora, che in Chiavone spera e in lui vede il campione della causa borbonica, un generale di senno, una indigena celebrità”195. Secondo un’altra versione lo stesso generale Tristany non era interessato a che la morte del brigante fosse conosciuta, dato il prestigio di cui egli godeva ancora tra le bande, e lo fece seppellire segretamente in un bosco. Invece il governo italiano aveva ovviamente un interesse di segno opposto, e fece cercare la sepoltura, che fu trovata una sera da alcuni bersaglieri, i quali, non riuscendo a trasportare il cadavere, rinviarono l’operazione al mattino seguente. Tristany, saputa la cosa, spedì sul posto una persona di fidu- DeWi: 320. Un brigante della banda Coppa brucia il cadavere del fratello in Cro4:54. L’episodio è descritto nel dramma di Stocchi: “Almen la testa del mio Piegtro voglio / gettar nel fuoco ed ardere. / La testa sua recisa, / che a spettacolo vil saria mostrata / arsa tra breve / non vedrà nessuno” (Sto3: 46-47). Questo autore calabrese attinge a fonti non ufficiali, ed è di solito ben documentato. 191 Ri-L: 168. 192 Vedi il seppellimento di di Coppa ad opera di Crocco, in Cro4: 55-57. 193 Dam1:463; Dami2: 504. 194 DiG2: 12-13. 195 Binc: 65. 189 190 144 antropologia e storia cia, la quale bruciò il cadavere, e fece gettare sulle ceneri le ossa bruciate e la testa di un montone196. Quando dovevano risolvere frettolosamente il problema di rendere inidentificabile il brigante morto, i suoi compagni lo decapitavano e seppellivano la testa in un posto più lontano. L’uso apparteneva alle tradizioni brigantesche dei secoli precedenti197. Miti di santificazione Ai briganti leggendari di tutti i tempi la gente attribuiva poteri soprannaturali. Limpião prevedeva gli attacchi delle forze dell’ordine dal volo degli uccelli. Probabilmente il capobanda non lo credeva, ma riteneva importante che i suoi lo credessero, perché l’attribuzione di poteri soprannaturali lo rendeva superiore ai comuni mortali e accresceva il mistero che lo circondava198. C’erano anche altre, più forti e oscure motivazioni a bruciare o a nascondere il cadavere dei briganti: “la presa di coscienza della morte di un altro può essere impedita ancora più facilmente se non si vede il corpo che si decompone. Sembra che gli antenati che non furono visti morire e le cui tombe rimasero di conseguenza vuote, fossero spesso considerati spiriti di potenza inaudita”199. Pare che, dopo aver bruciato i cadaveri dei compagni, i briganti facessero credere che 198 199 200 201 202 203 196 197 / 2 – comicità e politica essi non si vedevano in giro, perché imprendibili, invulnerabili, invisibili200. Una sottile consapevolezza antropologica faceva comprendere ai capi che si poteva utilmente operare su un immaginario collettivo restio ad accettare l’idea primordiale che le persone amate siano uscite per sempre dalla nostra vita, per un non ritorno che annienta le ragioni della speranza201. Il brigante silano Domenico Straface detto Palma, ferito da un guardiano del barone Guzzolini, e poi finito il giorno dopo da un carabiniere, era creduto fatato, invulnerabile e invincibile. Secondo un giornaletto di Catanzaro, uscito pochi giorni dopo la sua morte, era creduto tale per le continue elargizioni fatte alla sua gente e per il suo stile di vita “parco e temperato”. La credenza nasceva spontaneamente tra la gente, ma i briganti spesso facevano di tutto per rafforzarla e a volte erano realmente convinti di essere tali. Ninco Nanco si considerava invulnerabile202. I profeti degli oppressi si comportavano allo stesso modo. Thomas Münzer fermava le palle di cannone con le maniche del suo vestito; si credeva che i profeti di Linguadoca fossero tutti invulnerabili e protetti da minuscoli angeli bianchi203. Sono storie anche dei nostri giorni: il taumaturgo congolese E. Epichiupikili rendeva i suoi seguaci invulnerabili ai proiettili europei. Questa certezza o speranza era alimentata nei capi- Bart; 99. Rovi: 404. Fio: 27. MoK: 53. Cfr. Croci: 19. Mo-K: 53. Bour: 216. LeR: 358. 145 Q uaderni banda non solo dal loro narcisismo megalomane, ma anche dalla loro fede religiosa: la gente del Sud era convinta che “il morto della Vallata non sarebbe stato il Romano, ma un altro bandito che gli somigliava”, dal momento che credeva che il sergente fosse invulnerabile grazie ad una medaglia avuta in dono dal Papa: era lo stesso comandante a raccontarlo”204. Nell’epos popolare dell’Italia meridionale possiede una grande pregnanza simbolica il motivo ricorrente dell’eroe bandito che si sottrae alla morte perché invulnerabile. Il brigante di Solopaca Antonio Del Sanzo era assai noto ai briganti salernitani di Manzo, che narravano il suo potere di afferrare con le mani le palle che gli sparavano addosso205. Limpião mediante alcune fatture era riuscito a diventare invulnerabile sia pure non in senso assoluto, perché si sapeva che era stato ferito sei volte, ma non era morto. Realisticamente, il topos nasce come riflesso fantasmatico della sicurezza di cui godono i briganti tra la gente che li protegge e le campagne che offrono sicuro rifugio, “prova dell’identificazione dei banditi con la classe contadina” e metafora condivisa della speranza che l’eroe popolare non possa soccombere206. Ma si lega anche al tema dell’invisibilità. È più probabile che questi miti nascessero spontaneamente, sulla base di un retaggio archetipico immemorabilmente arcaico: il brigante, in quanto eroe popolare non si vede, non perché è 206 207 204 205 146 morto, ma perché è invisibile, e che sia tale è dimostrato dal fatto che di tanto in tanto si fa vedere nei posti più insospettati e nei modi più strani207. A molti briganti entrati nella leggenda si attribuiva il dono dell’ubiquità. La credenza nasceva dall’impressione che destavano i loro spostamenti continui e fulminei e la loro capacità di sparire e riapparire. Questi motivi si legano al tempo stesso al travestitismo e al trasformismo del brigante, ed entrambi i temi hanno come punto di partenza l’idea immaginaria della sua invincibilità e invulnerabilità. Una ragione per la quale i briganti erano considerati immortali era la loro capacità di sopravvivere fortunosamente in situazioni difficili e pericolose, nonché di godere di uno stato di salute eccellente, nonostante le ferite ripetutamente riportate negli scontri. È questa la storia, per esempio, di Limpião. Gli eroi briganti purtroppo morivano, ma per la gente delle campagne essi si erano soltanto nascosti. L’idea della loro scomparsa e la fede nel loro ritorno si sposano col modello dei re buoni e degli eroi amati dal popolo, che – secondo uno schema, che riproduce la vicenda di Cristo – creduti morti e scomparsi per qualche tempo, ritornano per riportare la giustizia e fare la felicità della gente; insomma esprime la speranza “che il campione del popolo non possa essere sconfitto, che non è realmente morto, perché la sconfitta e la morte del brigante è anche la Luc 2: 133; Bura: 49. Fri 2: 115. Hob2: 45-46. È quello che si raccontava del brigante campano Angiolillo, della fine del secolo XVIII: sarebbe stato visto in Muro Lucano in veste di conciacaldaie con grattuge e imbutilli in mano; in una fiera, travestito da acquaiolo, avrebbe distribuito ai paesani l’acqua fresca che si dava solo ai forestieri; in un’altra fiera, quella di Gravina di Puglia, avrebbe venduto nastri e fettucce, e in un’altra ancora si sarebbe presentato come venditore di tela a basso prezzo, e così via (Sca2: 53). antropologia e storia sconfitta del suo popolo, e quel che è peggio, è la fine della speranza. Gli uomini possono vivere senza giustizia, e generalmente ci sono costretti, ma non possono vivere senza speranza”208. Nel Medioevo si credette che molti re non erano morti veramente e che sarebbero ritornati per salvare i loro popoli quando versassero in gravi difficoltà209. Come altri eroi popolari, nell’immaginario della gente i briganti scomparsi erano fuggiti lontano o si nascondevano, come il bandito andaluso Pernales, che sarebbe migrato nel Messico, o come Jesse James, che sarebbe fuggito in California. Lo stesso si può dire del brigante di Solopaca Antonio Di Santo, ritualmente evocato nelle performance dei briganti del salernitano: il capobanda e i suoi compagni vincono i nemici e la morte, e poi misteriosamente scompaiono: “né si sa ancora dove siano andati, /o pure dove sien ritirati”210. Si raccontava che il Sergente Romano non era stato ucciso, ma errava per i boschi e le campagne del suo paese. In un racconto popolare la brigantessa Maria “a Pastora”, creduta catturata e uccisa, compare vestita di nero e sparisce col suo cavallo nel bosco211. Immortalità e resurrezione si confondono in molti riti: si raccontava che il terribile capobanda di Terra di Lavoro, Tommasini di Tuoro di Sessa, ucciso in uno scontro a Galluccio, fosse resuscitato e si aggirasse ancora nelle campagne212. Morti che non sono morti o morti che ritornano sono alcune forme narrative del complesso rapporto con i defunti, che ha una 210 211 212 208 209 / 2 – comicità e politica sua centralità nel mondo popolare meridionale. In una cultura in cui “fanno i vivi e i morti una famiglia”, i morti attraverso il culto, il sogno, la trance, le danze delle maschere carnevalesche ispirano la vita dei vivi e gesti, parole, atti paiono l’eterna replicazione di un rito religioso, un déjà vu che rannoda l’esistenza dei vivi a quella dei defunti, e ripropone incessantemente il loro “ritorno” a fianco dei vivi per moltiplicare le loro forze. Non diversamente da quanto avviene nella cultura intellettuale, la cultura popolare ha un doppio rapporto con la storia: da un lato, la consapevolezza, più o meno fondata, degli accadimenti reali; dall’altro l’abbandono alle esaltazioni e alle consolazioni del mito. I contadini non potevano ignorare una realtà che era sotto gli occhi di tutti, che cioè i guerriglieri venivano braccati e uccisi, ma al tempo stesso non riuscivano a distaccarsi da un immaginario che della tragedia forniva una spiegazione che lasciava aperte le porte della speranza e del sogno. Le credenze e le pratiche magiche contribuivano a sorreggere questo polo della contraddizione. Come spiegare, allora, la caduta dell’eroe, quando si è a lungo creduto che l’eroe è imprendibile e invincibile? Le spiegazioni, che si ritrovano in tutte le parti del mondo che hanno conosciuto i briganti, sono sempre le medesime o molto simili: le fatture avevano fatto ottenere al capo dei gangaceiros l’invincibilità, rafforzata poi dagli “abitini” che portava addosso, ma l’acqua stagnante attenuava o cancellava questo potere, e Limpião Hob2: 46; ved. pure Sca1: 52-54. Frazer: cap. II in Mo-K: 54. Rom: 16; Fri2: 115. Lev: 67. Borr: 35. 147 Q uaderni fu ucciso dalla polizia proprio dopo aver dormito nel letto di un fiume prosciugato213. Storie analoghe si raccontano sulla cattura o uccisione di molti altri briganti. I creduti poteri eccezionali derivati dal rapporto col soprannaturale, la violazione dei tabù, la dismisura della violenza costituiscono le condizioni di base per la sacralizzazione dell’eroe popolare. Ma perché questa si compia è necessario che la gente si identifichi in qualche modo con lui e si riconosca almeno in parte nel suo operato, ed è quello che accade al alcuni grandi briganti, non solo nella letteratura epica, ma anche nella realtà. Molti briganti nell’epos popolare sono diventati santi, secondo un modello incarnato dal brigante Nino Martino assimilato a San Martino214. Il brigante è “homo sacer” quando è ancora vivo nel bosco: lo è per i meriti acquistati da fuorilegge, secondo il modo di sentire e pensare del popolo, nel cui immaginario gli eroi banditi tendono ad acquisire tratti e comportamenti dei santi e questi ultimi non sono alieni dall’assumere comportamenti trasgressivi: protettori della comunità, hanno aiutato i poveri, difeso i deboli, combattuto l’ingiustizia, associando alla valentia la forza miracolosa dei poteri magici, e la grandezza e il prestigio che l’infrazione della legge e il disprezzo della morte sempre fondano. Lo scacco finale e la fine tragica non rappresentano l’interruzione del processo di sacralizzazione, ma lo confermano e lo completano: è uno schema magico-religioso immemorabilmente antico, che il modello del Cristo morto sulla 215 216 213 214 148 Fio: 27. Ved. Sca1; Sca2; Sca5. DePo2: 57; Levy: CLXXVI; DeWi: 73. Dewi: 73. croce ha radicato negli strati più profondi della psicologia collettiva. Il corpo del sergente Romano fu fatto a pezzi dalle sciabole dei cavalieri piemontesi sulla strada di Mottola e portato a Gioia del Colle, per essere esposto per tre giorni al pubblico dileggio. Ma “tutti gli abitanti del paese vollero contemplare un’ultima volta gli avanzi irriconoscibili dell’eroico ‘brigante’; si andava come a un pellegrinaggio santificato dal martirio. Gli uomini si scovrivano il capo, le donne s’inginocchiavano, quasi tutti piangevano: egli portava nella tomba il rimpianto e l’ammirazione dei suoi conterranei”215. È la santificazione dell’eroe, che trasforma il dileggio dei soldati in oltraggio. Quando Giuseppe Nardella della banda Del Sambro fu fucilato, si disse che “erano scesi gli angeli dal cielo per portarne in trionfo l’anima”216. Il cordoglio della popolazione per la morte del brigante tuttavia non è unanime. È un sentimento ambivalente nelle stesse persone che lo piangono, che non possono non prendere atto dell’onnipotenza del potere costituito e dell’inanità della rivolta, nel momento in cui devono riprendere la vita di sempre. Il colonnello Caruso e il capobanda Giuseppe Schiavone si appellano, andando al luogo dell’esecuzione, al popolo, rimanendo inascoltati. Nell’epos popolare, nel momento in cui le imprese del brigante si concludono tragicamente, la sua storia viene riscritta a partire dal suo esito, all’interno di una ambivalenza che emerge nella forma di una contraddizione insolubile: per quanto possano sembrare difensori dei diritti degli antropologia e storia oppressi e incarnazione degli ideali di giustizia, alla luce livida della sconfitta i capi delle bande diventano i violatori di tabù, che hanno sparso sangue e portato scompiglio nella vita ordinata di tutti i giorni. Il brigante è un trasgressore, e, in quanto tale, al momento della catastrofe può fare affiorare la consapevolezza che il suo destino era già stato scritto (“Così fu dei guappi la lor morte / ché guapparia non val contro la Corte”217). È la sconsolatezza dei vinti: l’immaginario collettivo assimilava la sconfitta della guerriglia contadina a una colossale opera di castrazione di un popolo e di una cultura: Guarda la Curti quantu è pussenti, quandi si leva pari nu punenti, cà ti distruggia ssi beddi pianti; pua li minta dintra na gravigghia e pua cumu viteddazzi ti li magghia. (“Guarda la Corte quanto è possente / quando si alza sembra un vento di Ponente, / ché ti distrugge queste belle piante (= i briganti); / poi li mette dentro una inferriata / e poi come vitelli te li castra”. Il brigante rivela ora la sua natura di figura del proibito, delegato dalla comunità a trasgredire in sua vece, e ad assumere nel suo tragico epilogo il ruolo del capro espiatorio, eroe di una catastrofe annunciata e in qualche modo accettata, in quanto liberazione dalle tentazioni dell’impossibile e dalla fascinazione dell’abisso. Le parti II e III di questo saggio sono di D. Scafoglio, I e IV di Simona De Luna. Esse anticipano l’uscita imminente del volume che porta lo stesso titolo / 2 – comicità e politica Fonti e testi di riferimento ACS: Archivio Centrale dello Stato, Roma ASB, Archivio di Stato di Bari ASC, Archivio di Stato di Caserta ASI, Archivio di Stato di Isernia ASP, Archivio di Stato di Potenza AUSSME, Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma. Museo Biblioteca Archivio Storico del Sannio, Benevento. An67: Anonimo 1897 (ma: C. Melegari), Briganti, arrendetevi! Ricordi di un antico bersagliere, Venosa, Osanna Venosa, 1996 (or. 1897) Bat: G. Bataille, La letteratura e il male, tr. it., Milano, SE, 1987 (or. 1957). Bart: C. Bartolini, Il brigantaggio nello Stato Pontificio 1860-1870, Roma, Felziani, 1897. Bian: Q. Bianchi, Il brigante Ninco Nanco, Manduria, Lacaita, 2001 (or. 1903). Bilo: V. Bilotti, Canti briganteschi di Carlopoli, in “Calabria”, Monteleone, a. IV, n. 9, 15 maggio1892. Binc: A. Bianco di Saint Joroz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia, Milano, 1864. 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L’antropologia poetica di Vincenzo Padula Storia e testo della Notte di Natale Rosa Troiano L a versione a noi nota del poemetto dialettale di Vincenzo Padula, La notte di Natale, è il punto d’arrivo di un lungo processo di elaborazione, testimoniato non solo da stesure differenti del testo, una rimasta manoscritta e l’altra consegnata alla stampa, ma anche dalle notevoli varianti che contrassegnano il passaggio dalla seconda alla terza edizione, rispettivamente del 1858 e del 1878. La prima redazione è rimasta a lungo sepolta, manoscritta, nell’Archivio della famiglia Julia, in Acri; solo alcuni decenni addietro è stata segnalata da Giuseppe Julia sul periodico «La Calabria» (a. xii, n. 2, 28 febbraio 1979), pubblicata successivamente per intero sul giornale di Acri «Confronto» (a. ix, n. 11, dicembre 1983). Di questa stesura l’Archivio Julia conserva due testimoni manoscritti, di mano diversa ed entrambi privi di data. La copia più antica, probabilmente risalente come vedremo al 1846 (anno che lo stesso Padula indica come data di composizione del poemetto), scritta in una grafia sottile ed elegante, consta di cc. 2 r-v; reca sul recto della prima carta, in alto a sinistra, la seguente dichiarazione: «1a lezione del Natale rinvenuta fra le carte di mio Padre», firmata «Antonio Julia». Dopo il titolo originario del poemetto Rumanza, seguono le strofe disposte in dop- pia colonna e numerate: 27 sestine di ottonari per la prima parte, 15 quartine saffiche con adonio quinario per la seconda parte, distinta con il titolo di Ninna; ed infine 7 ottave per la terza parte, la Conchiusione. Consta, dunque, complessivamente di 278 versi, numero inferiore rispetto ai 294 della redazione definitiva. In calce, il nome dell’autore e l’indicazione del luogo di nascita che ricorreva frequente nella firma del poeta: «Vincenzo Padula di Acri». Si tratta quasi certamente, come ha sostenuto Giuseppe Julia, di un autografo paduliano per la somiglianza quasi perfetta dei suoi caratteri grafici con quelli di altri autografi del poeta, sebbene il testo presenti alcuni versi che dovranno essere meglio strutturati sintatticamente e metricamente (I 12, v. 1; II 4, v. 2), ed inoltre c’è un errore di numerazione tra la 6a e la 7a strofa dell’ultima parte, numerate erroneamente 7 e 8, poi corretto da mano diversa. L’altro testimone di questa prima versione del poemetto è una trascrizione di Vincenzo Julia; il manoscritto reca in alto sul recto del primo foglio la seguente dedica: «Alla nobile Signora / Da Raffaella Fusaro. / In segno di stima / Vincenzo Julia». Segue poi il titolo ampliato: Rumanza di Vincenzo Padula supra u Natali. Sostanzialmente simile alla prima, la copia di Vincenzo Julia ha il merito di una lettura più scorrevole e chiara di quei versi 153 Q uaderni imperfetti, segnalati prima, oppure illegibili (iii 2 2-3; 3 2), che si riscontrano nel supposto autografo paduliano. Ma il trascrittore, nel redigere la copia, non è sfuggito, quasi certamente, alla tentazione di intervenire su certe scelte fonetiche cui l’autore rimane fedele nelle redazioni successive (per esempio «ppi» in luogo di «ppe», ‘per’; «cusiri» in luogo di «cusari» ‘cucire” (ii); «cannacca» in luogo di «jannacca», ‘collana’; «addurusu» per «ordurusu». Inoltre non mancano, in questa copia, disattenzioni o errori di lettura (per esempio, «Form’ d’uocchiu» per «For-mal’uocchiu» (I 3, v. 4), che è formula di scongiuro; «s’a vivia» per «t’a vivia» (i 6 6), qualche intervento arbitrario: «si la sonnu» per «si lu sonnu» (i 8 5), intervento accolto dal figlio Antonio e passato come vedremo nella edizione del 1894, e da essa nella vulgata novecentesca; infine, «ci ’mmuttaru ccu lu vetti» in luogo di «cci battirunu lu vetti» (i 19 5). Il titolo primitivo del poemetto è stato dunque quello di Rumanza; una voce, vale qui la pena di ricordare, attestata nella tradizione folklorica e linguistica calabrese e specializzatasi per indicare generi narrativi popolari, quali la narrazione di tipo fiabesco e la leggenda sacra in versi e in prosa. Il racconto della Natività è affidato, com’è noto, ad un narratore popolare anonimo, che si qualifica nel ruolo del cantastorie esordendo con una formula canonica d’inizio dei racconti di tradizione orale: « E na vota (mo v’ ’u cuntu) / di dicembri era na sira», ed ha già la sua articolazione nel polimetro dialettale che conosciamo, suddiviso in tre parti. 1 154 La prima parte di tipo descrittivo-narrativo, ispirandosi alla leggenda popolare e ai Vangeli apocrifi, sviluppa il tema della rievocazione del viaggio di Maria e Giuseppe verso Betlemme, ostacolato, come accade in altri racconti della Natività (si può ricordare a tal proposito la Cantata dei pastori di Andrea Perrucci), da una tempesta apocalittica («lu Levanti s’era juntu [attaccato] / a Punenti e tira tira / si scippavanu [si strappavano] ’i capilli / e cacciavanu li stilli»; segue l’episodio della ricerca dell’ospitalità e del ritrovamento della capanna; infine la scena del parto della Vergine, rappresentata nei modi dell’immaginario religioso popolare, fusi senza dissonanze con i concetti del prete-teologo. La Madonna, effigiata come nell’arte dei presepi meridionali, nella leggenda popolare si addormenta e sogna di andare in paradiso sollevata dagli angeli sino all’altezza del Signore; il Signore si strappa dal petto il proprio figlio e «cun amuri / lu dunau cumu nu milu / e li dissi: Ti<e>nitilu!»: un’interpretazione ingenua e sublime dove l’autore giunge, com’è stato detto da Carlo Muscetta, a una quasi pagana e orfica «teogonia di Cristo»1. La similitudine della mela è ricca, infatti, di implicazioni simbolico-religiose, perché si collega al peccato di Adamo e alla venuta di Cristo redentore dell’umanità. In questa prima parte il poeta adotta la sestina di ottonari piani e tronchi, destinata comunque ad affinamenti futuri. La presenza delle rime e delle assonanze interne evidenzia il legame con la metrica popolare: la strofa paduliana, tuttavia, si stacca da quella popo- Cfr. C. Muscetta in V. Padula, Persone in Calabria, a cura di C. M., Milano, Milano-Sera editrice, 1950, p. 99: «Eva si converte in Maria e il demonio in Padreterno, e il melo non è il pomo del peccato ma la grazia della redenzione che ha fruttificato presso il cespuglio fiorito: albero del riscatto in sostituzione dell’albero della scienza. Ma tutto ciò è calato nelle immagini e il Padula [discretissimo artista] non aggiunge alcun commento». antropologia e storia lare per la regolarità del ritmo (accenti fissi sulla 3a e sulla 7a) e delle rime canoniche; inoltre, a differenza di quanto accade nella strofa popolare, che si frammenta ritmicamente e semanticamente in maniera rigida nei singoli versi, la strofa paduliana è più fusa e compatta, spezzando con il ricorso all’enjambement l’ossessiva monotonia degli ottonari. La seconda parte, di tipo lirico, contraddistinta con il titolo di Ninna, è occupata per intero dalla ninna nanna che la Madonna intona per addormentare il Bambino: « tenero preludio alla visione drammatica della missione terrena di Gesù»2. Il canto della Vergine si svolge, infatti, lungo due assi fondamentali: quello dell’esultanza della Madre e l’altro del presentimento della passione e morte del Figlio. Quest’ultimo tema per ora è solo adombrato: «Ma noni, sciolla mia! [sventura mia!] perché spaccari / mi vuogliu ’u piettu, e là ti ci ammucciari [nasconderti], / ca quannu vistu l’uomini ti avrannu / T’ammazzirannu» (13); ma esso acquisterà un’intensità lirica maggiore nelle versioni successive, allorché i versi della ninna nanna saranno collegati alla poesia drammatica dei canti popolari religiosi della Passione. Nelle redazioni successive, il numero dei versi si dilaterà per accogliere infatti motivi più intensamente drammatici: Padula finirà per riverberare nella prefigurazione del dramma sacro i valori e l’universo emotivo della sua gente, insieme a una condizione di vita ritmata dalla violenza e dalla paura, su cui si stende, rassicurante, l’ombra protettiva della Madre: «Ah! nu’ chiangiari, no! Pecchì, o Bomminu, / mi triemi cumu na rìnnina ’n 2 3 / 2 – comicità e politica sinu? / Pe mo duormi scuitatu [tranquillo]: tannu pua / c’è mamma tua». La metrica della ninna nanna ha una più forte impronta popolare, per via dei versi semanticamente e ritmicamente autonomi, degli endecasillabi divisi nettamente da una forte cesura in due emistichi e, infine, della tendenza ad accoppiarli in modo da formare distici saldati dalla rima. La frequentazione dei testi popolari delle ninne nanne sacre e profane, che costituivano un filone consistente della poesia di tradizione orale calabrese, aveva lasciato nella memoria del poeta un deposito di elementi strutturati, un insieme di schemi ritmico-sintattici che tendevano a sopravvivere indipendentemente dalle parole, o unitamente a esse: «Dormi lu mari e dormi la timpesta, / dormi lu vientu e dormi la furesta» (3 1-2) sono versi modellati su schemi popolari quali «Beddu è lu mari e beddu è la marina»3; oppure: «Riposa l’acqua e riposa lu vientu / riposa campaniellu mia d’argientu; / riposa l’acqua e riposa lu mari / ripuosu la Madonna ti vò dari». La prima strofa: «Duormi, billizza mia, duormi e riposa, / chiudi la vucca tua cumu na rosa / Duormi sicuru ca ti guardu iu / zuccaru miu», riformulata per la redazione finale in «Duormi, bellizza mia, duormi e riposa, / chiudi ’a vuccuzza, chi pari na rosa / duormi scuitatu, ca ti guardu iu / zuccaru miu», è contenuta integralmente nel canto sacro monostrofico raccolto a Vibo Valentia da Raffaele Lombardi Satriani: «Dormi, bejizza mia, / dormi e riposa, / chiudi ’ssa vucca chi pari na rosa, / Dormi squetatu [tranquillo], ca ti guardu io, / Ti te- L. Reina, Dalla fucina di Partenope: Vincenzo Padula, Nicola Sole, Ferdinando Russo, Napoli, ESI, 1996, p. 54. Cfr. R. Lombardi Satriani, Canti popolari calabresi, Napoli, De Simone, 1933, vol. III, p. 113, n. 2316. 155 Q uaderni gnu ’n brazza, zuccaru mio. / E tegnu e sentu na paura, / ca tu si’ Dio ed eu su’ criatura» (e si vedano ancora questi altri versi riportati da Luigi Accattatis: «Duormi, giojuzza mia, duormi e riposa, / Duormi, giojuzza mia, duormi ch’èd ura»)4. Ma, in questa ninna nanna tramata di interi versi, emistichi, stilemi della poesia orale, Padula spezza il pigro andamento e la musica monotona della versificazione popolare dialettale attraverso l’adozione della strofa saffica (tre endecasillabi con adonio quinario di schema ABAb), un metro di chiara impronta classica; tuttavia la saffica paduliana corrisponde ai primi quattro versi di una strofa popolare, cui è stato tolto il primo emistichio del quarto endecasillabo, come risulta dalla comparazione con le fonti orali. Nelle ultime sette strofe, che costituiscono la Conchiusione, Padula adotta invece l’ottava: anche questa strofa è da mettere in rapporto con l’ottava della tradizione popolare, con cui ha in comune la struttura ritmica degli endecasillabi, la tecnica descrittiva e narrativa: «Cussì cantava ’a Vergini Maria / ed annacannu chillu quatrariellu: / ’u Cielu vasciu vasciu si facia / nasuliannu chillu cantu biellu»5 (iii 1 1-3). Padula se ne serve per trattare un tema caro alla tradizione popolare6, passato nella tradizione letteraria d’ispirazione folklorica sul Natale, quello dei miracoli della Notte Santa: 4 5 6 7 156 Ugne jumi portava na chinera, chi d’uogliu, chi de latti e chi de vinu. Meli e farina escia d’ ’i cerzi, ed era carricu ’e juri ogni arburu, ogni spinu. E tornata paria la primavera portannu rose e viole intra lu sinu: ’a viti fici l’uva, ’u granu ’e spichi ed ogneduna tanta eranu ’i fichi7. (iii, 2 1-8) Il motivo della natura che sconvolge l’ordine delle sue funzioni e delle stagioni, producendo beni in una maniera innaturale, apparteneva infatti all’immaginario simbolico popolare e colto; lo si ritrova anche nella Pastorale di sant’Alfonso de’ Liguori, che costituisce un precedente immediato del polimetro paduliano: «Quanno nascette Ninno a Betlemme / era notte e pareva miezo juorno […] Co tutto ch’era vierno, Ninno bello, / nascettero a migliara rose e sciure. / Pe ’nsì ’o ffieno sicco e tuosto/ che fuie puosto sott’a Te se ’nfigliulette, / e de frunnelle ’e sciure se vestette. / A no paese che se chiama Ngadde, / sciurettero le bigne e ascette l’uva». Nella tradizione religiosa popolare il motivo si caricava di attese palingenetiche e millenaristiche, accogliendo anche elementi simbolici ed iconografici di altre tradizioni rituali e mitiche appartenenti al mondo precristiano: prima di tutto quelle del rimpianto (o dell’attesa) dell’età dell’oro e dell’avvento del Fanciullo divino, mescolandosi ad altri motivi tipici del presepe meridionale, Cfr. L. Accattatis, Vocabolario del dialetto calabrese (casalino-apriglianese), Castrovillari, Nigro 1895-98, (rist. anast., Cosenza, Pellegrini, 1977), s. v. ninna. «Così cantava la Vergine Maria, cullando quel bambinello: il Cielo si abbassava, porgendo l’orecchio a quel canto bello». Cfr. L. Accattatis, Vocabolario, cit., s.v. Natale. «Ogni fiume portava una piena quale d’olio, quale di latte, e quale di vino. Miele e farina usciva dalle querce, ed era carico di fiori ogni albero, ogni rovo. E sembrava ritornata la primavera portando rose e viole in grembo; la vite fece l’uva, il grano le spighe ed ogni fico era tanto grosso». antropologia e storia come quello dell’offerta dei doni. Quest’ultimo consente all’autore di intervenire direttamente nella narrazione e di siglarla con una chiusa scherzosa, da cantastorie povero in canna, superando il rischio della morale edificante delle formule delle canzoncine religiose sul Natale: «iu sulu non avia li comprimenti. / Li sacchetti mi jiva scaliannu / ma mera sutta e supra, ’un c’era nenti! / Chi fici poca? Fici na canzuna / e ’u Bomminu mi dezi na curuna»8. Non soddisfatto di questa prima stesura, per l’ordine e la qualità della narrazione e la forma linguistica raggiunta, Padula prepara una nuova redazione, di cui sono conservati due esemplari diversi a stampa, che fanno pensare a due diverse edizioni. La prima, di tiratura quasi certamente limitata, è costituita da un modesto libretto, di cui una copia è conservata presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (segn. B.C. Misc. 127). Si tratta di un opuscolo di pp. 11, privo di copertina e di frontespizio, per cui la numerazione inizia da pag. 3 e termina a pag. 13. Sulla prima pagina si legge, in alto, la scritta ad inchiostro: «Il Natale di Vincenzo Padula». Il nome del poeta è ripetuto anche alla fine del poemetto (p. 13). Le pagine cucite sono raccolte in un foglio di carta di colore azzurrino su cui è trascritto il titolo seguito dal sottotilo Poesia in dialetto calabrese di V. Padula. Quasi sicuramente il poeta dovette preparare subito una seconda ristampa del testo, più accurata. Un esemplare di questa, in buone condizioni, ora si trova presso l’Archivio Padula di Acri. È un opuscolo completo di copertina e frontespìzio, su cui si legge: Canzone calabrese / sopra / La Notte di Natale / di / Vincenzo Padula (Cosenza, Tipogra- 8 / 2 – comicità e politica fia di Giuseppe Migliaccio, 1858, pp. 13). Il testo è sostanzialmente identico a quello della prima edizione, di cui, quasi certamente, il tipografo ebbe una copia con alcune correzioni probabilmente fatte in fretta dall’autore. Risultano corretti alcuni refusi come «arrinsinatu» con «arrisinatu»; «arrobari» con «arrobbari»; «zampugna» con «sampugna». Anche i caratteri e la disposizione delle strofe sono leggermente diversi. La «rumanza», in queste prime due stampe, si trova notevolmente modificata in tutte e tre le parti, nonché arricchita di quattro strofe saffiche, per cui sale a 294 il numero complessivo dei versi. I ritocchi non sono solo di ordine linguistico, fatti tentando di ricercare nella lingua dialettale il giusto correlativo espressivo (ad esempio, «e cacciavanu li stilli», della prima strofa, che diventa «e sbrittavanu li stilli», ‘e scappavano le stelle’, con un cambiamento nella struttura sintattica e semantica dell’operatore verbale – su questo luogo ci saranno comunque altri interventi del poeta –), ma si tratta di sostituzioni più complesse, qualitativamente più rilevanti. Un confronto tra la redazione rimasta manoscritta e queste prime edizioni del testo rinvia a due tempi diversi, di cultura e di stile, dell’attività poetica di Vincenzo Padula: i rifacimenti migliorano sia l’orditura della fabula sia il livello sintattico e metrico delle strofe; accentuano l’aura sacrale della rappresentazione, con l’eliminazione di particolari figurativi e descrittivi troppo ridondanti o realistici, frutto di un virtuosismo linguistico che appesantiva le immagini. Si veda come vengono ridistribuiti i par- «Io solo non avevo doni. Andavo rovistando nelle tasche, ma guardo sotto e sopra, non c’era niente! Che feci allora? Feci una canzone e il Bambino mi diede una corona». 157 Q uaderni ticolari della raffigurazione di San Giuseppe, presentato secondo i caratteri fissati nella leggenda e nei canti popolari, nella condizione di vecchio (calvo, stanco, intirizzito dal freddo, arrisinatu) garante, presso la tradizione popolare, del dogma dell’Immacolata Concezione: Quannu stancu e arrisinatu di Sionne ppe la via jia nu viecchiu, chi spinnatu ha la capu, e si tenia intra ’i mani nu bastuni chi paria nu viscigliuni. (i, 2 1-6) Quannu scavuzu e spinnatu ’e Sionni pe la via jia nu nu viecchiu arrisinatu; avia n’ascia alla curria: muortu ’e friddu, e povaru era ma omu ’e Diu paria a la cera. (i, 3 1-6) Nell’immagine riproposta del padre putativo di Cristo viene fatto cadere il particolare del bastone con la connessa similitudine, che è solo una ripetizione di significato: certo, si perde un lemma inconsueto, viscigliuni (accres. di viscigliu, propriam. ‘pianta giovane di quercia o castango’, che vale anche per ‘bastone nodoso, frusta’, da correlare all’antico ‘querciolo’), ma sono recuperati altri aspetti cari sia alla tradizione popolare (la condizione di povero falegname, protettore dei miseri e degli oppressi), sia alla Chiesa e al prete colto, ovvero dell’‘uomo eletto da Dio’. Anche i particolari figurativi presenti nell’immagine della Vergine saranno ridotti e affinati attraverso «il lavoro attento sulle varianti»9. Nella prima stesura, secondo il canone dell’arte popolare, il poeta punta non solo alla rappresentazione delle bellezze del volto ma anche a quelle dei capelli, divisi nel mezzo della testa e cadenti sulle spalle a boccoli, come un mannello di spighe d’oro. Superando la pretta nomenclatura e il rischio della ridondanza, Padula, nella seconda versione, serra la descriptio figurae della Madonna in un’unica strofa, intorno a due parti del viso: le guance e la bocca, scegliendo per il gioco delle similitudini e delle metafore, ancora una volta, figuranti specializzatisi nella poesia colta e popolare, assimilati a un linguaggio reso tenero e sensuale dalla grazia espressiva degli ipocoristici: (Manoscritto) ’N faccia avia na rosicella, na vuccuzza ch’era aniellu, nu labbruzzu a zagarella, lisciu lisciu ’u varbariellu; si ridiva lu mussillu paria justu nu jurillu. Ccu na scrima e ’ndrizzatura ’ncannulata e a manna d’oru l’arrivava alla cintura di capilli lu trisoru. Viata Illa, a diri ’u veru T’ ’a vivia ccu nu bicchieru10. (i, 5 1-6) R. Librandi, La Calabria, VII, La letteratura dialettale, in Dialetti italiani. Storia, struttura, uso, a cura di M. Cortelazzo, C. Marcato, N. De Blasi, G. P. Clivio, Torino, UTET, 2002, p. 819. 10 «Una rosellina aveva sul viso, una boccuccia che era un anello, un labbruzzo di seta rossa, liscio liscio il piccolo mento; se rideva il musino sembrava proprio un fiorellino. Con una scriminatura e intrecciatura, inanellata e a mannello d’oro, le arrivava alla cintola il tesoro dei capelli. Beata Lei! a dire il vero, te la bevevi con un bicchiere». 9 158 antropologia e storia (Prime stampe) ’N faccia avia na rosicella; ’a vuccuzza era n’aniellu; ti paria na zagarella russa ’e sita ’u labbriciellu, scocculatu e pittirillu tali e quali nu jurillu. (i, 5 1-6) Un’ultima considerazione sull’episodio della ricerca dell’ospitalità, un tema che appartiene alle sacre rappresentazioni e alle leggende popolari sul Natale: nel poemetto paduliano acquista una forte tensione populistica, facendo emergere, accanto ai sentimenti egalitari e cristiani, i motivi della lotta politica di cui Padula aveva caricato più esplicitamente il componimento in lingua, La Notte di Natale, con versi di questo tipo: «Godi, o popolo, esci dal sacro sonno», versi che gli erano costati l’arresto e il carcere: Nu palazzu c’è vicinu, illi currunu alla porta. Circu’ alloggiu, e fannu ’a posta ed aspettanu ’a risposta. Cannaruti li padruni stau mangiannu, e nnu’ rispunnu: c’è n’orduri ’e maccaruni, li piatti vanu ’ntunnu, e si senti finu a basciu d’ ’i bicchera lu fragasciu. «Tuppi! tuppi! » – Chini è lluocu? «È nu povaru stracquatu, senza liettu e senza fuocu, chi la mugli teni allatu; 11 / 2 – comicità e politica ha li dogli e figlierà: si ci fati ’a carità. <N’>ugne ’e v<r>asci e de jacina ppe passari chissa notti pua dumani de mattina c’impisammu, e buona notti! Per amuri di Mosè, pocu luocu ccà ci n’è?» Ohi! figlioli, lu criditi! Chillu riccu (chi li pozza lu Diavulu ’i muniti li squagliari intra la vozza!) l’adissau li cani ’ncuollu e scapparu a rumpicuollu. (i, 9 3-6; 10-13 1-6) Nu palazzu c’è vicinu, s’arricettanu a la porta; pua (e tremavanu li manu) trocculianu chianu chianu. Cannaruti! li ricconi cancarianu, e nu’ rispunnu’; c’è n’orduri ’e cosi boni, ’i piatti vanu ’n tunnu, ed arriva lu fragasciu d’ ’i bicchera finu a basciu. «Tuppi! tuppi!» – Chi n’è luocu? «È nu povaru stracquatu, senza liettu, senza fuocu, cu la mugli a bruttu statu. Pe Giacobbi e pe Mosè, nu riciettu cà ci n’’è» O figlioli, lu criditi? Chillu riccu (chi li pozza ’u diavulu ’i muniti Manoscritto: «C’è vicino un palazzo, essi corrono alla porta. Ingordi i padroni, stanno mangiando e non rispondono: c’è un odore di maccheroni, i piatti vanno in giro, e si sente fino a giù il fracasso dei bicchieri. Toc! Toc! “Chi è là?” “È un povero pellegrino, senza letto e senza fuoco, con al fianco la moglie, ha le doglie e partorirà: se ci fate la carità. Un po’ di brace e di giaciglio, per passare questa notte, poi domani di mattina ce ne andremo, e buona notte! Per amore di Mosè, c’è un po’ di posto qui”. O, figlioli, lo credete!, quel ricco (che il diavolo gli possa squagliare le 159 Q uaderni ’ncaforchiari dintro ’a vozza!) a nu corsu, chi tenia, dissi: «Acchiappa! Adissa! A tia!»11. (i, 9 3-6; 10-12 1-6) Si noti come la sostituzione di padruni con ricconi non attenua la rabbia popolare contenuta in questi versi, di cui il poeta si fa portavoce, perché lo scontro di classe finisce per essere rappresentato nei termini primordiali della contrapposizione frontale tra «ricchi» e «poveri»: tipica della ideologia delle classi subalterne, questa visione emerge nella poesia dialettale calabrese, d’origine o d’ispirazione popolare, del periodo postunitario. Non soddisfatto ancora della forma raggiunta, Padula rivedrà per l’ultima volta il testo apportandovi delle notevoli modifiche, frutto di un approfondimento della ricerca lessicale e di forme dialettali che lo portano a ripensamenti nella resa di fatti fonetici e morfologici caratterizzanti il dialetto della Calabria settentrionale. La revisione linguistica non avviene sempre a favore del dialetto più autentico, come «schioppatu» per «calatu» (ii, 14 3), «cumprimienti» in luogo di «cumprimenti» (iii, 8 4); «ma l’autri avianu pisi» che diventa «ma chilla jia ’ncollata» (iii, 8 3); può accadere anche l’inverso, ovvero che parole dialettali vengano sostituite da forme più vicine alla lingua, o propriamante di ascendenza letteraria, come «sbrittavanu» corretta con una variante più alta «’nfugavanu» ‘mettevano in fuga’, di migliore resa fonica e di maggiore coerenza semantica e stilisica. Altro esempio significativo è fornito dal caratteristico attributo pizzutella (i 15 2), lemma così commentato dal Padula, nel Vocabolario calabro, saltando la semantica di base: «aggettivo di donna bellina. È na pizzuttella. 2 Mesta, scornata. A luna pizzutella [malinconica] la fa stari»12. Con questi tratti polisemici, vale a dire di ‘graziosa’, ed insieme ‘mesta, pietosa’, aveva composto un sintagma molto poetico nelle prime versioni: «’a luna pizzutella», che scompare, però, a vantaggio di una suggestione, si può dire, leopardiana: «’a luna virginella». Nella realizzazione di una forma più sorvegliata e sciolta si trovano ristrutturate intere strofe. È molto probabile che nella strofa 19 (1-3) la riformulazione sia partita da una svista iniziale: il mantello dei contadini non si sbottona ma si sgancia: «San Giuseppi lu mantiellu / si sbuttuna ’nfretta ’nfretta, / pua lu spanni biellu biellu», luogo corretto in «San Giuseppi, c’ha lu mantu, / si lu sgancia ’nfretta ’nfretta, / ci lu spannidi a nu cantu» Poco più avanti è eliminato molto opportunamente il riso degli angeli e il riferimento alle ali, spostando l’attenzione sullo splendore del volto della Madonna, rendendo così più mistica e sacrale una delle scene più intense del poemetto: il miracolo degli angeli che sollevano in sogno la Vergine in Paradiso, affinché riceva in dono il frutto divino. Questo lavoro di revisione approda all’edizione per il volume Poesie varie, del 1878 monete nel gozzo!) gli aizzò i cani addosso che scapparono a rompicollo ». Prime stampe: «C’è vicino un palazzo, s’accostono alla porta; poi (e tremavano le mani) bussano piano piano. Ingordi! i ricconi s’ingozzano e non rispondono; c’è un profumo di cose buone, i piatti vanno in giro e arriva fino a giù il fracasso dei bicchieri. Toc! Toc! “Chi è là? “È un povero pellegrino, senza letto, senza fuoco, con la moglie in brutto stato. In nome di Giacobbe e di Mosè, c’è un alloggio qui per noi?” O figlioli, lo credete?, quel ricco (che il diavolo gli possa stipare nel gozzo le monete!) disse a un cane corso, che aveva: “Acchiappa! Addosso! A te!”». 12 V. Padula, Vocabolario calabro, m.s., c. 250, s. v. 160 antropologia e storia (Napoli, Tipografia Pansini). La canzone sul Natale occupa le pp. 26-34. Leggermente modificato si trova il titolo, che per la prima volta viene accompagnato dalla data e dal luogo della prima ideazione del poemetto: La Notte di Natale / Canzone in dialetto Calabrese / Sammarco Argentano – 1846. Considerando il lungo arco di tempo tra la prima stesura e l’ultima revisione sembra valere per il Padula ciò che è stato detto del Parini, a proposito della lunga fase elaborativa del Giorno: «a nessuno è mai concesso di staccarsi dalla propria pagina come da qualcosa di perfettamente oggettivato»13. Certo, l’accostamento può apparire per molti versi incongruo, ma non si può negare che il lavorio di rifacimenti e di ritocchi abbia contribuito a conferire al componimento paduliano la forma di capolavoro della letteratura dialettale calabrese dell’Ottocento; per Umberto Bosco il poemetto paduliano rappresenta, anzi, «una delle cose più squisite del romanticismo italiano, non solo di quello calabrese»14. Dopo questa revisione, accertata da una stampa curata dall’autore, non abbiamo per ora altra documentazione che ci attesti che il poeta abbia avuto motivo, o occasione, di ritornare sul suo testo. Le condizioni di salute si aggraveranno sempre di più a partire dal 1884: Padula muore nei primi di gennaio del 1893, un anno prima che il polimetro venisse ripubblicato in appendice al suo volume di versi, Poesie (Napoli, Morano e Veraldi, 1894, pp. 253-71) con una breve premessa e con note di traduzione di Antonio Julia. Questa edizione postuma del poemetto è certamente più accurata, sotto il / 2 – comicità e politica profilo editoriale e nei criteri di trascrizione del dialetto, in quanto sono segnalate con il segno dell’apostrofo tutti i fenomeni di aferesi, apocopi, elisioni, ma presenta delle divergenze rispetto al testo del 1878, che sia pur minime, sono molto discutibili. Innanzitutto essa manifesta una tendenza in contrasto con l’usus scribendi dell’autore, che si manifesta sul livello grafico e fonomorfologico, nel rappresentare la preposizione ‘in’ unita alla parola che segue, quando non si tratta di assimilazione fonosintattica (per es., ’n cammisuottu > ’ncammisuottu), nonché ad univerbare le preposizioni articolate scisse e scempie (ad esempio a la > alla, cu la > culla). Accanto a questi ci sono poi due interventi, espressamente dichiarati da Julia nelle note al testo, su fatti grafico-fonetici caratterizzanti il dialetto calabrese: ovvero il trattamento relativo allo sviluppo del gruppo consonantico fl, per esempio nella base latina afflare, reso da Julia con il simbolo dell’aspirata mediopalatale «tu l’acavi»: l’esito dal Padula era stato percepito nella forma di una palatalizzazione più spinta e quindi reso con l’allungamento della semiconsonante palatale -jj-, fenomeno comune peraltro al Cosentino15; ed ancora, fatto minimo questo e legittimo, la riduzione grafica del segmento schio- adoperato dal Padula per rendere, ogni qual volta essa ricorre, la pronuncia palatale della sibilante davanti a consonante velare [š], con sc- (scamava), indicando in nota il corrispondente valore fonico. Sono poi corretti alcuni refusi, ma l’edizione non è esente da altri errori: «e Sionni» al posto di «’e Sionni» (I, 3 2), «e Cfr. D. Isella, Le carte mescolate. Esperienze di filologia d’autore, Padova, Liviana, 1987, p. 93. Cfr. U. Bosco, Pagine calabresi. Saggi e testi di letteratura calabrese, Reggio Calabria, Ed. Parallelo, 1975, p. 43. 15 Cfr. C. Grassi-A.A. Sobrero-T. Telmon, Introduzione alla dialettologia italiana, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 72. 13 14 161 Q uaderni Diu» in luogo di «’e Diu» (I, 3 6). Di particolare rilievo sono due varianti che potrebbero sembrare ripensamenti dell’autore, ma con molta probabilità non lo sono: esaminiamo prima il caso di nasuliannu ‘porgendo l’orecchio’, ovvero ‘stando ad ascoltare’ (iii 1 4). La forma, presente in tutte le stesure, si trova corretta nell’edizione postuma del 1894, in asuliannu, vale a dire con la variante fonetica più corrente, dall’infinito asuliare, probabile oscismo: «*a u s u l a r e [a sua volta] dall’osco *a u s i s ‘orecchio’»16. Padula, però, nelle carte 11 e 207 del suo Vocabolario calabro, registra sia asuliari, con traduzione ‘origliare’, sia nasuliari, forma ridotta di annasuliari 17; per quest’ultima fornisce i corrispondenti in uso nel tempo, ‘usolare’ ed ‘osolare’: nel selezionare per la propria lingua poetica una forma escludendo l’altra si esprimevano anche i suoi gusti filologici. Un’altra variante, che costituisce un’evidente corruzione, è la sostituzione nella strofa 8, della prima parte del polimetro, del pronome neutro lu in funzione cataforica, ovvero che anticipa un’intera proposizione e non un singolo referente, attestato da tutte le versioni paduliane: «E la bella furracchiola, / chi camina appriessu ad illu / pe v’ ’u diri ’un c’è parola, / sugnu mutu pe lu trillu…/ mo de vua chi si lu sonna? / Si chiamava la Madonna.» (chi si lu sonna: ‘chi può immaginare ciò che sto per dire’), con il pronome femminile la: «mo di vua chi si la sonna? / Si chiamava la Madonna». Questa edizione del 1894, che per i dati in nostro possesso non ha alcuna autorevolezza, comunque ha costituito il testo di riferimento per tutti i curatori delle edizioni successive, le quali, peraltro, non sono prive ancora di ulteriori alterazioni, sia nella veste dialettale sia nella sostanza del testo18. Per le ragioni esposte, nel riprodurre qui di seguito il polimetro paduliano, corredato di traduzione e di note linguistiche e di commento, è stato adottato come testo-base l’edizione del 1878, rispettando nella trascrizione le scelte grafiche dello scrittore, che ci risultano abbastanza coerenti e moderne sotto il profilo dell’ortografia dialettale. Gli interventi, pertanto, sono stati limitati a disaccentare la forma cà (‘che’, ‘perché’) riducendola in ogni caso a ca e differenziandola dall’avverbio ccà ‘qui’, che si è preferito rappresentare con l’iniziale raddoppiata insie- G. Rohlfs, Nuovo dizionario dialettale della Calabria (con repertorio italo-calabrese), Ravenna, Longo, 1977, s. v. Cfr. anche G. Rohlfs, cit., 1977, s. v. annasulià; ma la forma è diffusa anche in Irpinia, vd. S. La Vecchia, Bonidizio. Dizionario bonitese, Grottaminarda (AV), Delta 3, 1999; D. M. Cicchetti, Un’isola nel mare dei dialetti meridionali. Prefazione di T. De Mauro, Cautillo-Vallesaccarda. 1988, s. v. annasolà / annasulà. 18 La Notte di Natale, a cura e con note di Antonio Julia, in Appendice al vol.V. Padula, Poesie varie e dialettali. Seconda parte (Appendice al 1° volume), Editore: Giovanni Padula, Acri, 1930, pp. 69-87; La notte di Natale, in Vincenzo Padula, con prefazione e note di Giuseppe Julia, Cosenza MIT, 1967, pp. 29-50; La notte di Natale, in Poesia dell’Ottocento, a cura di Carlo Muscetta e Elsa Sormani, Torino, Einaudi, 1968, vol. II, pp. 1581-92 (il testo è seguito dalla traduzione a piè di pagina); La notte di Natale, in V. Padula, Due componimenti poetici dialettali, con traduzione a fronte, introduzione e note di Franco di Benedetto, Cosenza, Pellegrini, 1975, pp. 13-41; La notte di Natale, in G. Abbruzzo, Le poesie dialettali di Vincenzo Padula, Cosenza, Edizioni Orizzonti Meridionali, 1993, pp. 48-75. Il curatore del volumetto pubblica anche la versione manoscritta del poemetto, ripresa dal numero di «Confronto», cit., accompagnando i testi con note filologiche. Per ultimo, si veda anche il testo riprodotto nell’antologia di componimenti dedicati al tema del Natale, Il Natale nella poesia calabrese, a cura di Angela Ferraro-Egle Lucente, Cosenza, Pellegrini, 2002, pp. 77-101. 16 17 162 antropologia e storia me all’avverbio cchiù ‘più’; si è provveduto a indicare sempre con il segno diacritico dell’aferesi (’) le forme ridotte degli articoli e delle preposizioni semplici, segnalate da Padula con l’accento circonflesso, riservando questo soltanto ai casi di contrazione (es., ’a, ’e ‘la’, da’, ‘di’ in luogo di â, ê; ma â per ‘alla’); anche le forme apocopate dei verbi sono state segnalate con l’apostrofo; è stato adottato l’accento grave per le forme sincopate: sì, ‘sei’; pò, ‘può’; infine si è provveduto a separare, nei pochi casi in cui non avvie- / 2 – comicità e politica ne, la preposizione ’n (‘in’) dalla parola che segue. Sono stati corretti i pochi refusi, ed infine si è preferito trascrivere la formula di scongiuro For mal uocchio! con la grafia Fore maluocchio!, rappresentando così la vocale finale (avvertita nella pronuncia come centralizzata) in fore e univerbando la sequenza successiva. L’interpunzione è stata lievemente ammodernata, le maiuscole sono state mantenute solo quando lo richiede il moderno uso grafico, sopprimendole all’inizio di ogni verso. 163 Q uaderni LA NOTTE DI NATALE Canzone in dialetto calabrese (Sammarco Argentano -1846) I 1. E na vota, mo’ v’ ’a cuntu, ’e decembri era na sira, ’u Levanti s’era juntu cu Punenti; e tira tira si scippavanu ’i capilli, e ’nfugavanu li stilli. I 1. E una volta, ora vi racconto, era una sera di dicembre, il Levante si era attaccato con il Ponente e, tira tira, si strappavano i capelli e mettevano in fuga le stelle. 2. Niuru cumu na mappina ’u cielu era, e spernuzzati cumu zinzuli ’e cucina jianu ’i nuvi spaventati; e lu scuru a fella a fella si facia cu li curtella. 2. Il cielo era nero come uno straccio, e sparpagliate come cenci di cucina se ne andavano le nuvole spaventate; e il buio si poteva tagliare a fette con i coltelli. 3. Quannu scavuzu e spinnatu ’e Sionni pe la via jia nu Viecchiu arrisinatu; avia n’ascia alla curria: muortu ’e friddu e povaru era, ma omu ’e Diu paria a la cera. 3. Quand’ecco scalzo e con la testa calva, per la strada di Sion, se ne andava un vecchio intirizzito: aveva un’ascia alla cintura, era morto di freddo e misero, ma dall’aspetto appariva come uomo di Dio. Metro – Poemetto polimetro diviso in tre parti: la prima, di ventisette strofe di sei versi ottonari rimati ABABCC; la seconda, di diciannove strofe saffiche di schema ABAb; la terza, di sette ottave narrative di endecasillabi ABABABCC. I-1.1 E na vota: formula canonica d’inizio dei racconti di tradizione orale che definisce in maniera indeterminata il tempo della vicenda; singolare è l’uso della congiunzione E come segnale discorsivo che apre la narrazione; mo v’ ’a cuntu: cioè ‘ora vi racconto la rumanza’; 6 ’nfugavanu: ultimo esito lessicale, come è stato già detto, di un processo di revisione, tra manoscritto e prime stampe, che va da cacciavanu a sbrittavanu, a ’nfugavanu; la selezione, agendo sulla struttura fonica del verso, ne aumenta la tonalità lirico-espressiva. 2.1 mappina: dal lat. m a p p a ‘tovagliolo’, la voce è passata a indicare lo strofinaccio (sporco) della cucina; 2 spernuzzati: part. pass. del verbo spernuzzare, variante regionale dialettale dell’italiano ‘sparnazzare’ che appartiene al gergo contadino e vale per ‘spargere di qua e di là; sparpagliare’ (ma vd. anche V. Padula, Vocabolario calabro, ms., cc. 303, 306, 347). 3. 1-3 Quannu … arrisinatu: rappresentazione tipica, della leggenda e dell’iconografia popolare, del padre putativo di Cristo; arrisinatu: «intirizzito dal freddo» (A. Julja, Note a V. Padula, 1930, pag. 70, n. 4); 4 avia …curria: la condizione di povero falegname ha fatto eleggere San Giuseppe presso la tradizione popolare a protettore dei miseri e degli oppressi; 6 omu ’e Diu: cioè, ‘uomo eletto da Dio’. 164 antropologia e storia / 2 – comicità e politica 4. Tocca-pedi a lu vecchiottu pe la strata spara e scura caminava ’n cammisuottu (fore maluocchiu!) na Signura cussì bella, cussì fatta chi na stilla ’un si ci appatta. 4. Sulle orme del vecchietto, per la strada erta e buia camminava in camiciotto (via il malocchio!), una Signora così bella, così ben fatta che una stella non può mettersi a pari. 5. ’N faccia avia na rosicella; ’a vuccuzza era n’aniellu; ti paria na zagarella russa ’e sita ’u labbriciellu, scocculatu e pittirillu tali e quali nu jurillu. 5. Sul viso aveva una rosellina; la boccuccia era un anello; ti pareva un nastrino rosso di seta il labbruzzo, sbocciato e piccolino tale e quale un fiorellino. 6. Era prena ’a povarella, prena rossa; e ti movia tunna tunna ’a trippicella, chi na varca ti paria quannu carrica de ranu va pe mari chianu chianu. 6. Era pregna, grossa pregna; e muoveva tondo tondo il pancino che pareva una barca quando carica di grano va per mare piano piano. 7. O figlioli, chi ’mparati ssa divota mia canzuni, via! ’i cappella vi cacciati, 7. O figlioli, che imparate questa mia canzone devota, via! toglietevi i cappelli, mettetevi in 4. 1 Tocca-pedi: locuzione avverbiale, cioè, ‘di seguito, immediatamente dopo’; cammisuottu: «Sarebbe camiciotto: La Nencia dice gonnello» (V. Padula, Vocababolario calabro. Laboratorio del Dizionario Etimologico Calabrese, a cura di John B. Trumper, Roma-Bari, Laterza, 2001,s. v.); il camiciotto propriamente è la veste di colore rosso che le donne maritate un tempo portavano in Acri; 4 fore maluocchiu!: formula di scongiuro per difendere dal malocchio una donna bella e in questo caso anche incinta, pertanto più esposta, secondo la tradizione popolare, al potere malefico della jettatura o del malocchio (vd. anche D. Scafoglio, La jettatura. La difesa dall’invidia e il codice del saper vivere, Id., Contesti culturali e scambio verbale a Napoli, Salerno, Gentile, 1995, pag. 109). 5. 1-6 ’N faccia … labbriciellu: metafore e similitudini della bellezza femminile molto correnti nella poesia di tradizione orale; zagarella: voce supposta di origine araba (< zahar, ‘fior d’arancio’), diffusa nei dialetti di area meridionale. 6. 2 prena rossa: si dice della donna gravida degli ultimi mesi; qui, ovviamente, sul punto di partorire; 4-6 chi na varca … chianu: l’immagine, che appartiene al linguaggio della poesia popolare, aveva particolarmente colpito il gusto e la sensibilità di Padula, il quale, nel commentare i seguenti versi di un canto d’amore di braccianti: «Intra ssu llettu e ricamati panni / Ci sta na varca cu tricientu ’ntinni: / È na figliola di quattordici anni, / Calata da lu cielu ’n terra vinni», così scriveva: «La bella, che si spoglia, a lui [bracciante] sembra una barca con trecento antenne. Che immagine graziosa! Il poeta aristocratico, ed ignaro della vita, paragona una bella donna alla farfalla variopinta, alla tortorella che geme, alla pallida luna, alla rosa ricca di minio che pompeggia nel prato; ma il nostro bracciante ha miglior gusto, non ha che farsene né di farfalle, né di rose, né di luna; e vuole una barca con trecento antenne, una donna dal collo torto, dalle spalle larghe, dai fianchi arditi, dai polsi d’acciajo, vigile, diligente, infaticabile massaia; e siffatta donna si chiama barca tra noi, barca che porta grano e ricchezza, barca con la quale il povero uomo spera solcare lieto le onde tempestose della vita » («Il Bruzio», 6 luglio 1864). 7. 1 O figlioli: invocazione con funzione prevalentemente fàtica; il poeta-cantastorie prende contatto con il suo pubblico (di giovani ascoltatori), a cui demanda, tra l’altro, il compito di ritenere a memoria la canzone per immetterla nel 165 Q uaderni vi minditi ’nginocchiuni. Chillu viecchiu…e chi ’un lu seppi?, si chiamava San Giuseppi. ginocchio. Quel vecchio – e chi non lo ha capito – si chiamava San Giuseppe. 8. E la bella furracchiola, chi camina appriessu ad illu… pe v’ ’u diri ’un c’è parola, sugnu mutu pe lu trillu… mo’ de vua chi si lu sonna? Si chiamava la Madonna. 8. E la bella giovinetta, che cammina dietro di lui – non c’è parola per dirvelo, sono muto per la gioia –, ora chi di voi se lo sogna? Si chiamava la Madonna. 9. Pe lu friddu e lu caminu ’a facciuzza l’era smorta. Nu palazzu c’è vicinu, s’arricettanu a la porta; pua (e tremavanu li manu) trocculianu chianu chianu. 9. Per il freddo e il cammino, la faccina era smorta. C’è vicino un palazzo, s’accostano alla porta; poi (e tremavano le mani) bussano piano piano. 10. Cannaruti! li ricconi cancarianu, e nu’ rispunnu’; c’è n’orduri ’e cosi boni, ’i piatti vanu ’n tunnu, ed arriva lu fragasciu d’ ’i bicchera finu a basciu. 10.Ingordi! I ricconi s’ingozzano e non rispondono; c’è un profumo di cose buone, i piatti vanno in giro, e arriva fino a giù il fracasso dei bicchieri. 11. «Tuppi! tuppi!» - Chi n’è ’lluocu? «È nu povaru stracquatu, senza liettu, senza fuocu, cu la mugli a bruttu statu. Pe Giacobbi e pe Mosè, nu riciettu ccà ci n’è» 11.«Toc! Toc!» «Chi è là?». «È un povero pellegrino, senza letto, senza fuoco, con la moglie in brutto stato. In nome di Giacobbe e di Mosè, c’è un alloggio qui per noi?» solco della tradizione orale della propria comunità; 4 vi minditi: 2a pers. plur. dell’imperativo di mìntere, con fenomeno di sonorizzazione della occlusiva dentale sorda in posizione postnasale interna (t<d) e con il pronome atono vi in posizione proclitica. 8. 1 furracchiola: nei dialetti calabresi furracchia / -ola è la contadinella giovane e graziosa (V. Padula, Vocababolario calabro., cit., c. 98: «Furracchia: Giovinetta»). 9.4 s’arricettanu: ovvero ‘trovano riparo’; arricettari vale qui per ‘alloggiare’, nel senso di ‘ricoverare’ (vd. anche V. Padula, Vocababolario calabro, cit., c. 8; ma vd. anche avanti, 11. 6, riciettu, lat. r e c e p t u s ‘rifugio, ricovero’). 11. 1 Tuppi! Tuppi!: onomatopea che imita i colpi dati alla porta; 2. stracquatu: propr. ‘fuggiasco, ramingo’; ma vd. anche A. Julia, Note, cit., p. 73, n. 3: «Cittadino d’altro paese, uscito dalla propria patria, e che vive miseramente»; 5 Giacobbi… Mosè: noti personaggi biblici, l’uno fu patriarca degli Ebrei, l’altro fu liberatore del popolo d’Israele dalla schiavitù egiziana, nonché capo e legislatore al quale Dio affidò il testo dei Dieci Comandamenti. 166 antropologia e storia / 2 – comicità e politica 12. O figlioli, lu criditi? chillu riccu (chi li pozza ’u diavulu ’i muniti ’ncaforchiari dintra ’a vozza!) a nu corsu, chi tenia, dissi: «Acchiappa! Adissa! A tia!». 12.O figlioli, lo credete?, quel ricco (che il diavolo gli possa stipare nel gozzo le monete!), a un cane corso che aveva disse: «Acchiappa! Addosso! A te!». 13. ’A Madonna benadissi chilla casa; e a lu maritu: «Jamuninni fora – dissi –. Mina ’i gammi e statti citu». Si ligau lu muccaturu E si misi pe lu scuru. 13. La Madonna benedisse quella casa; e al marito disse: «Andiamocene in campagna. Mena le gambe, e sta’ zitto». Si legò il fazzoletto e si mise per il buio. 14. Ma spattarunu la via, e cadianu ’ntroppicuni; mo’ na sciolla si vidia, mo’ na trempa e nu valluni: era l’aria propriu chiara cumu siettu de quadara. 14.Ma sbagliarono la strada, e cadevano spesso inciampando; ora si vedeva un burrone, ora una rupe e un vallone: l’aria era chiara proprio come un fondo di caldaia. 15. Ni sentiu nu pisu a l’arma tannu ’a luna virginella, quannu viddi chilla parma de Signura cussì bella intra ’a zanca ’mmulicata, senza mai trovari strata. 15.Sentì un peso al cuore allora la luna verginella, quando vide quella palma di signora così bella avvolta nel fango, senza mai trovare strada. 12. 1-4 O figlioli … vozza!: altro momento che appartiene allo stile della narrazione orale, in cui il poeta interrompe il racconto prendendo contatto con il suo pubblico di giovani ascoltatori, con lo scopo di trasmettere loro il proprio giudizio e indurli alla riflessione. L’invettiva del poeta acquista i toni della maledizione dei poveri contro l’eterna avidità dei ricchi; così anche il rifiuto dell’ospitalità prende nel poemetto una carica populistica; ’ncaforchiari: la voce, particolarmente espressiva, è un denominale di caforchia, ‘tana, buca’. 13. 3 Jamuninni fora: per il significato che è stato dato alla locuzione si rinvia a G. Rohlfs, Nuovo dizionario dialettale della Calabria, s. v. fore; 4 statti citu: in Ms, P 1 e P2 statti arditu ‘sii ardito’; 5 muccaturu: fazzoletto con cui le donne del popolo si coprivano il capo; la voce risale al catalano mocador (vd. G.L. Beccaria, Spagnolo e Spagnoli in Italia. Riflessi ispanici sulla lingua italiana del Cinque e del Seicento, Torino, Giappichelli editore, 1985, pag. 5, n. 15; ma vd. anche Rohlfs, s. v., che per mocador presuppone un lat. * m u c c a t o r i u s da m u c c u s ‘moccio’). 14. 1 spattarunu: come antonimo di ’mpattari, variante dialettale dell’italiano ‘impattare’, che vale per ‘pareggiare nel gioco delle carte’, spattari ha il significato suo proprio di ‘non far patta nel gioco’; 4 trempa: var. fonetica del prelatino *timpa, ‘voragine, precipizio’; 5-6 era … quadara: similitudine costruita con la tecnica dell’inversione di tipo antifrastico: il fondo della caldaia, si sa, è annerito dal fuoco e dal fumo. 15. 3. parma: attributo di donna bella che appartiene al linguaggio della poesia lirica di tradizione orale; 5 ’mmulicata: per G. Rohlfs, Nuovo dizionario dialettale della Calabria, cit., (s. v. mbolicare, -ri) il verbo ’mmulicari / ’mbulicari deriva da i n v o l v e r e attraverso * i n v o l i c a r e per * i n v o l v i c a r e . 167 Q uaderni 16. E cacciannu ’a capu fora de na nuvi, chi lu vientu fici a piezzi, la ristora, cielu e terra fu n’argientu; l’alluciu tutta la via e li dissi: Avi Maria. 16. E cacciando il capo fuori da una nuvola, che il vento fece a pezzi, la ristora, cielo e terra s’inargentarono; le illuminò tutta la strada e le disse: Ave Maria! 17. Pe lu cielu a milli a milli a na botta s’appicciaru, s’allumarunu li stilli, cumu torci de n’ataru; e si n’acu ti cadia, tu l’ajjavi ’n mienzu â via. 17.Per il cielo a mille a mille si accesero di colpo, si illuminarono le stelle come torce di un altare; e se ti fosse caduto un ago, l’avresti ritrovato in mezzo alla via. 18. C’era là, ma a lu stramanu, fatta ’e crita e de jinostra na casella de gualanu, ch’ a lu lustru s’addimostra: spuntillarunu lu vetti e la porta s’apiretti. 18. C’era là, ma fuori mano, una casetta di bifolco, che si vede apparire alla luce: spuntellarono il palo e la porta si aprì. 19. San Giuseppi, c’ha lu mantu, si lu sgancia ’n fretta ’n fretta, ci lu spànnidi a nu cantu, ’a Madonna si ci assetta; e li scuoccula vicinu d’ugne juri nu vurbinu. 19. San Giuseppe, che ha il mantello, se lo sgancia in fretta in fretta, glielo stende in un angolo, la Madonna vi si siede; e le sboccia vicino un’aiuola d’ogni fiore. 20. Supra ’u cori na manuzza si tenia, pecchì era stanca; appoggiava la capuzza chianu chianu supra ’a manca; pua, stenniennu li jinuocchi, quieti quieti chiusi l’uocchi. 20.Sul cuore si teneva una manina, perché era stanca; appoggiava lievemente la testolina sulla sinistra; poi stendendo le ginocchia, chiuse gli occhi chetamente. 17. 3 s’allumarunu: noto prestito dialettale dal francese allumer. 18. 3 na casella: casipola costruita con pietre legate con creta unita a paglia; il tetto era fatto di ginestra coperta con terra; gualanu: termine molto diffuso nei dialetti meridionali, passato anche nell’italiano regionale, indica in genere il giovane addetto a vari servizi nei campi e soprattutto alla cura degli animali (per lo più è il guardiano dei buoi); la voce è fatta derivare dal prov. galan ‘giovane inserviente’, ma per le varie ipotesi avanzate dai linguisti sul suo etimo si rinvia a F. Sabatini, L’italiano merid. “gualano”, in «Lingua nostra», a. XXV, fasc. 2 1964, pp. 43-48. 20. 1-4 Supra ’u … manca: la grazia dell’immagine contenuta nei versi rinvia a quella espressa dall’arte dei presepi meridionali nella raffigurazione della Vergine. 168 antropologia e storia / 2 – comicità e politica 21. Era aperta, e nu granatu â vuccuzza assumigliava, ordurusu escia lu jatu, chi lu munnu arricriava; cu lu corpu illa dormia, ma cu l’arma ’n cielu jia. 21. Era aperta, e a una mela granata assomigliava la boccuccia; il fiato usciva profumato, che ricreava il mondo; con il corpo Ella dormiva, ma con l’anima andava in cielo. 22. Cu la menti Illa si sonna d’arrivari ’n Paravisu; senti diri: «È la Madonna! Chi sbrannuri c’ha allu visu!» Santi ed Angiuli li pari ca s’ ’a vuòlunu ’mpesari. 22. Con la mente Ella sogna di arrivare in paradiso; sente dire: «È la Madonna! Che splendore ha sul viso!» Le pare che santi e angeli la vogliono sollevare. 23. E la portanu vicinu d’ ’u Signuri; e lu Signuri si scippava da lu sinu propriu ’u figliu, e cud amuri ci ’u dunau cumu nu milu, e li dissi: «Tienitilu!» 23. E la portano vicino al Signore; e il Signore si strappò dal proprio seno il Figlio, e con amore glielo donò come una mela, e le disse: «Tienilo!». 24. Ma tramenti chi si sonna, pe lu prieju e pe lu trillu, si risbiglia la Madonna e si guarda, e lu milillu va trovannu, chi l’ è statu intra suonnu rigalatu. 24.Ma mentre sta sognando, per la gioia e l’allegrezza, si risveglia la Madonna e si guarda intorno, e va cercando la piccola mela che le è stata regalata nel sogno. 25. Eccutì ca biellu biellu ’ncavarcatu supra ’a gamma si trovau lu Bomminiellu, chi schiamava: «Mamma! Mamma!» Viata Illa, affurtunata! Intra suonnu era figliata; 25.Ecco qui che bello bello, a cavalcioni di una gamba, si trovò il Bambinello, che gridava: «Mamma! Mamma!». Beata Lei, fortunata!, aveva partorito nel sonno; 26. ca cumu esci na preghiera de la vucca de li Santi, cussì ’u figliu esciutu l’era senza dogli, a chillu ’stanti, cumu orduri ’e rosi e midi esci, ed èsciari ’un si vidi. 26.perché, come una preghiera esce dalla bocca dei Santi, così il figlio le era uscito senza doglie in quell’istante, come spira profumo di rose e di miele, e spirare non si vede. 22. 5-6 li pari … ’mpesari: l’immagine si avvicina a quella dei fedeli che sollevano sulle spalle la statua della Madonna durante le processioni; ’mpesari vale infatti per ‘addossarsi un peso sulle spalle’. 169 Q uaderni 27. Illa ’u guarda, e ’nginocchiuni tutt’avanti li cadia; l’adurau; pua na canzuni, chi d’ ’u cori li venia, pe lu fari addurmentari ’ngignau subitu a cantari. 27. Ello lo guarda, e gli cade davanti ginocchioni; l’adorò, poi per farlo addormentare incominciò subito a cantare una canzone che le veniva dal cuore. II 1. Duormi, bellizza mia, duormi e riposa; chiudi ’a vuccuzza, chi pari na rosa; duormi scuitatu, ca ti guardu iu, zuccaru miu. II 1. Dormi, bellezza mia, dormi e riposa; chiudi la boccuccia, che pare una rosa; dormi tranquillo, che ti guardo io, zucchero mio. 2. Duormi e chiudi l’occhiuzzu tunnu tunnu, ca quannu duormi tu, dormi lu munnu, ca lu munnu è de tia lu serbituri, Tu sì ’u signuri. 2. Dormi e chiudi l’occhietto tondo tondo; perché quando dormi tu, dorme il mondo; perché il mondo è il tuo servitore, Tu sei il Signore. 3. Dormi lu mari e dormi la timpesta, dormi lu vientu e dormi la furesta, e puru intra lu ’nfiernu lu dannatu sta riposatu. 3. Dorme il mare e dorme la tempesta, dorme il vento e dorme la foresta, e pure nell’inferno sta riposato il dannato. 4. Ti tiegnu ’n brazza e sienti na paura, ca Tu sì Diu, ed iu sugnu criatura; e mi sguilla a lu sinu, e vò ’nfassatu Chi m’ha criatu. 4. Ti tengo in braccio e sento una paura, perché Tu sei Dio e io sono creatura, e mi grida al seno, e vuole essere fasciato chi mi ha creato. 5. Occhiuzzi scippa-cori, jativinni! ’Un mi guardati, ca fazzu li pinni. Na vuci ’nterna, chi la sientu iu sula, mi dici: «Vula!» 5. Occhietti strappa-cuori, andatevene! Non mi guardate, ché metto le ali. Una voce interna, che la sento io sola, mi dice: «Vola!». 27. 3 na canzoni: ovvero una ninna nanna, che le donne del popolo cantavano sulla culla dei loro bambini. II 1. 1-4 Duormi … miu: questa prima strofa saffica è contenuta integralmente in un canto sacro fanciullesco, di tipo monostrofico, raccolto a Vibo Valentia da Raffaele Lombardi Satriani: «Dormi, bejizza mia, dormi e riposa, / Chiudi ’ssa vucca chi pari ’na rosa, / Dormi squetatu, cà ti guardu io, / Ti tegnu n brazza, zuccaro mio. / E tegnu e sentu ’na paura, / Cà tu sì Dio ed eu su’ criatura» (R. Lombardi Satriani, Canti popolari calabresi, Napoli, De Simone, 1933, vol. III, p. 48, n. 2878); si vedano ancora questi altri versi riportati da L. Accattatis, Vocabolario del dialetto calabrese (casalino-apriglianese), Castrovillari, 1897, s. v. ninna: «Duormi, giojuzza mia, duormi ch’ ed ura». 3. 1-2 Dormi … furesta: si vedano ancora questi altri versi di una ninna nanna popolare: «Riposa l’acqua e riposa lu vientu, / riposa, campaniellu mia d’argientu; / riposa l’acqua e riposa lu mari, / ripuosu la Madonna ti vò dari» (G. Abbruzzo, Duormi, bellezza mia…in «Quaderni silani», a. IV, n. 10, 1986). 4. 1-2 Ti tiegnu … creatura: vd. sopra, II 1-4; 3 sguilla: propr. sguillare è ‘squillare’, per estensione ‘gridare’; ma vd. anche in V. Padula, Vocabolario calabro, cit., c. 299, sguillu, ‘grido’. 5. 2-4 ’un mi … Vula!: allusione al rapimento mistico che la dolcezza dello sguardo divino può provocare nella Madre di Cristo. 170 antropologia e storia / 2 – comicità e politica 6. ’A ninna ’e ss’uocchi tua m’ardi e m’abbaglia; tutta l’anima mia trema e si squaglia: canta cumu ’u cardillu, e asciri fori mi vò lu cori. 6. La pupilla di questi occhi tuoi mi arde e mi abbaglia; tutta l’anima mia trema e si scioglie: canta il mio cuore come il cardellino e vuole uscire fuori. 7. Ti viju dintra l’uocchi n’autru munnu, ci viju n’autru Paravisu ’n funnu: sientu na cosa, chi mi fa moriri, né si pò diri. 7. Ti vedo negli occhi un altro mondo, ci vedo un altro paradiso in fondo: sento una cosa che mi fa morire, né si può dire. 8. Chiudili, biellu, pe pietà, e riposa; chiudi ’a vuccuzza, chi pari na rosa: duormi scuitatu, ca ti guardu iu, zuccaru miu. 8. Chiudili, bello, per pietà, e riposa; chiudi la boccuccia, che pare una rosa: dormi tranquillo, che ti guardo io, zucchero mio. 9. ’U suonnu è jutu a cògliari jurilli, pe fari na curuna a ssi capilli, e ssa vuccuzza ’e milu cannameli t’unta cu meli. 9. Il sonno è andato a raccogliere fiorellini, per fare una corona a questi capelli, e questa boccuccia di miele cannamele ti unge con il miele. 10. Cu n’acu ’n manu è jutu supra â luna a cùsari li stilli ad una ad una; pua ti li mindi ’n canna pe jannacca, e ci l’attacca. 10.Con un ago in mano è andato sulla luna a cucire le stelle a una a una; poi te le mette al collo per collana, e ve le attacca. 11. Chi siti mo venuti a fari ’lluocu, Angiuli ’e Diu, cu chilli scilli ’e fuocu? Mi voliti arrobbari ’u figliu miu, Angiuli ’e Diu? 11. Che siete ora venuti a fare qui, Angeli di Dio, con quelle ali di fuoco? Mi volete rubare il figlio mio, Angeli di Dio? 8. 1 Chiudili … riposa: cfr. L. Accattatis, Vocabolario del dialetto calabrese (casalino apriglianese), cit., s. v. ninna, «Chiudi ss’occhiuzzi tua, chi sunu bielli, / Funtane chi cci vivenu li santi»; 3-4 chiudi … miu: si tratta di una ripetizione di versi tipica della tecnica di composizione della poesia folklorica (vd. anche sopra, II 1. 2-4). 9. 1-2 ’U suonnu … capilli: altre varianti di questo distico si possono riscontrare nella tradizione delle ninne nanne calabresi: «Lu suonnu è ghiutu a cogliri pruniddi; / Mo vene e ti nni porta ’na juntidda» (cfr. N. Leonardis, Canti di Rossano. Ninne-nanne, «La Calabria», a. VIII, n. 11, 1895, p. 88); «Lu suonnu, biellu miu, è jutu a jurilli / E ppi l’amuri tua ndi cozi milli; / Lu suonnu, biellu miu, è jutu a violi, / E ppi l’amuri tua ndi cozi novi» (cfr. R. Lombardi Satriani, Canti popolari calabresi, cit., vol. III, p. 120, n. 2337); 3 milu cannamèli: varietà pregiata di mela; cannamèli dal lat. c a n n a m e l l i s , ‘canna del miele’, ‘zucchero di canna’. 10. 2 a cùsari … ad una: verso coniato su un motivo presente in un’ottava popolare registrata dal Padula nel «Bruzio», utilizzato anche in un frammento del poemetto lasciato incompiuto, Sigismina (I, 11. 1-2): «Tesi da terra al cielo un laccio d’oro / per piglirvi le stelle ad una ad una» (cfr. V. Padula, Poesie inedite, a cura di A. Piromalli, D. Scafoglio, Napoli, Guida, 1974, p. 36). 11. 1-2 Chi siti … fuoco?: il presentimento della morte del Figlio, che fa avvertire alla Madre come minaccia la stessa venuta degli Angeli, con le loro ali di fuoco, accanto al motivo dell’esultanza della Madonna per la nascita del Bambino costituisce l’altro asse lungo cui si svolge questa ninna nanna paduliana. 171 Q uaderni 12. Cantati, sì; ma ’n cielu ’un v’ ’u chiamati: aduratilu, sì; ma ’un v’ ’u pigliati; e tu, bellizza, ’un fujari cu loru, si no, ni muoru. 12.Cantate, sì, ma non ve lo chiamate in cielo: adoratelo, sì, ma non ve lo prendete; e, Tu, bellezza, non scappare con loro, se no ne muoio. 13. Statti, trisoru miu, cu mamma tua; mo chi ti tiegnu, nenti vuogliu cchiùa; cu Tia vuogliu lu munnu caminari sempri, e cantari, 13.Stai, tesoro mio, con mamma tua; ora che ti ho, nulla voglio più; con te voglio camminare sempre per il mondo, e cantare, 14. e diri a tutti: «Chissu è Figliu miu; ’a mamma è povarella, ’u figliu è Diu: d’ ’u cielu m’ è schioppatu ssu Bomminu dintra lu sinu». 14. e dire a tutti: «Questo è il Figlio mio; la mamma è poverella, il figlio è Dio: dal Cielo mi è caduto in seno questo Bambino». 15. Ma ch’haju dittu? E nun sacciu iu lu riestu? T’ammucciu ’n piettu, o Figliu mia, cchiù priestu: ’u munnu è malandrinu, e si t’appura, o chi sbentura! 15. Ma che hai detto? E non conosco il resto? Ti nascondo in seno, o Figlio mio, piuttosto: il mondo è malandrino, e se ti scopre, oh che sventura! 16. Pe ssi capillu tua criscinu spini, e pe ’nchiovari ssi jidita fini piensu c’ ’a forgia mo vatti, e nun sa chillu chi fa. 16.Per questi tuoi capelli crescono spine, e per inchiodare queste dita fine penso che ora batta la forgia e non sappia quello che fa. 17. ’A sienti dintra ’u vuoschiu Tu ssa vuci? Nun è lu vientu no, chi si ci ’nfuci: è la cerza chi grida: «’U lignu miu cruci è de Diu!» 17.La senti Tu questa voce nel bosco? Non è il vento no, che vi si caccia: è la quercia che grida: «Il mio legno sarà croce di Dio!». 18. Ah! nu’ chiangiari, no! Pecchì, o Bomminu, mi triemi cumu na rinnina ’n sinu? Pe mo duormi scuitatu: tannu pua c’è mamma tua. 18. Ah! Non piangere, no! Perché, o Bambino, mi tremi in seno come una rondine? Per ora dormi tranquillo: allora poi ci sarà mamma tua. 15. 2 t’ammucciu: nel commentare la voce ammucciare, registrata dal Padula nel suo Vocabolario calabro, confrontandosi con le ricerche già fatte sul lemma, John B. Trumper dà come forma di partenza per questo verbo il «norm. mucher (fr. mod. se musser), da un [gallolatino] *muciare ‘nascondere’ di origine celtica» (V. Padula, Vocabolario calabro. Laboratorio del Dizionario Etimologico Calabrese, a cura di J. B. Trumper, Roma-Bari, Laterza, 2001, s. v.). 16. 3 forgia: apparecchio usato dal fabbro (cal. forgiaru) per lavorare il metallo; la voce è comune all’italiano, deriva dal francese forge (lat. f a b r i c a). 172 antropologia e storia / 2 – comicità e politica 19. Supra li vrazza mia, supra ’i jinocchia zumpa, aza ’a capu, ed apirelli l’uocchi. Quantu sì bielli! Chi jurilli spasu! Dami nu vasu. 19. Sulle mie braccia, sulle ginocchia salta, alza il capo ed aprili gli occhi. Quanto sei bello! Che fiorellino sbocciato! Dammi un bacio. III 1. Cussì cantava ’a Vergini Maria, e nazzicava chillu quatrariellu. ’U cielu vasciu vasciu si facia nasuliannu a chillu cantu biellu: abballava la terra, e si movia mustrannu tuttu virdi lu mantiellu, e lu vientu si stava accappottatu gridannu dintr’ ’u vuoschiu: «È natu! È natu!» III 1. Così cantava la Vergine Maria e cullava quel bambinello. Il cielo si abbassava porgendo l’orecchio a quel canto così bello: la terra ballava e si muoveva mostrando tutto verde il mantello, e il vento se ne stava incappottato gridando nel bosco: «È nato! È nato!». 2. Ugne jumi portava na chinera, chi d’uogliu, chi de latti e chi de vinu. Meli e farina escia d’ ’i cerzi, ed era carricu ’e juri ’n sinca a diri ’u spinu; e tornata paria la primavera scotuliannu tuttu ’u vantisinu; ’a viti fici l’uva, ’u ranu ’i spichi, e li schiattilli si facieru fichi. 2. Ogni fiume portava una piena, chi di olio, chi di latte e chi di vino. Miele e farina uscivano dalle querce, e perfino il rovo era carico di fiori; e sembrava ritornata la primavera scuotendo tutto il grembiule; la vite fece l’uva, il grano le spighe, e i fichi appena spuntati divennero maturi. 3. ’U portuni d’ ’u cielu spalancaru e cu nu strusciu forti e cu nu vientu quattru truoppi d’Arcangiuli calare ’e na bellizza, ch’era nu spavientu: a leghe a leghe supra lu pagliaru teniennusi pe manu a cientu a cientu 3. Spalancarono le porte del cielo e scesero con un frullio forte d’ali, e con un vento, quattro stuoli d’Arcangeli di una tale bellezza ch’era una cosa straordinaria: a schiere a schiere sopra il pagliaio, tenendosi per mano a cento a 19. 2 aza: la forma verbale azare mostra la caduta della - l – dinanzi a consonante; nella stessa posizione, sempre in area calabrese, si può avere la velarizzazione della - l – (auzare). III 1. 2 quatrariellu: dimin. di quatraru, voce dall’origine variamente discussa: per G. Rohlfs (Nuovo dizionario dialettale della Calabria, cit., s. v.) l’etimologia è «* q u a d r a r i u s ‘ragazzo quadrato, cioè robusto’»; per Antonino Pagliaro, l’origine del nome quatraru è qu i nqu at r ar ius, qualifica, per il linguista, data a Roma al ragazzo al di sotto dei diciotto anni, che partecipava alle gare (lusus Troi a e) della festa delle Q u i nqu at r us, solennità dedicata alla consacrazione delle armi (A. Pagliaro, Cal. quatraru, in «Ricerche linguistiche», a. I, 1950, fasc. 2, pp. 264-268); 3 ’U cielu … si facia: è il motivo del cielo che si abbassa per partecipare all’eccezionalità di un evento; 4 nasuliannu: propr. ‘origliando’; nasuliari è variante di ausiliari, e di osolare ed usolare, tutte forme registrate da Padula nel Vocabolario Calabro (ms., cc. 11, 207). La più comune è, però, asuliari, supposta dal latino volgare * a u s u l a r e, a sua volta dall’osco *a u s i s, corrispondente del lat. a u r i s ‘orecchia’ (vd. V. Padula, Vocabolario Calabro. Laboratorio del Dizionario Etimologico Calabrese, cit., s. v.); verso quest’ultima forma, come si è già detto, si sono orientati i vari editori del poemetto paduliano, a cominciare da Antonio Julia. 2. 8 schiattilli: frutti ancora immaturi del fico. 173 Q uaderni si misiru a cantari cu lu suonu: «Sia grolia ad Illu, e paci all’omu buonu!» cento cominciarono a cantare con la musica: «Sia gloria a Lui, e pace all’uomo buono!». 4. A chillu forti gridu, a lu sbrannuri, chi l’Angiuli spannianu a lu paisi, subitu si scitarunu ’i pasturi, ’i massari, ’i curatili, ’i furisi. Vidunu li campagni no’ cchiù scuri, supra li munti vidunu ’i lucisi; sientu sonari suli ’i ceramelle e ballari muntuni e pecurelle. 4. A quella forte voce, allo splendore che gli Angeli spandevano sul paese, subito si svegliarono i pastori, i massari, i capi dei mandriani, i pecorai. Non vedono più le campagne nel buio, sui monti vedono i fuochi; sentono suonare soltanto le ciaramelle e ballare montoni e pecorelle. 5. E ognunu si restava ’ncitrulatu e cu la manu l’uocchi si spracchiava: ma n’Angiulu passannu dissi: «È natu, è natu chillu Diu, chi s’aspettava». Allura chi vidisti? ’Mpaparatu ognunu pe la via s’azzummulava. Chi canta e balla, e chi senza pensieru facia cu la sampugna: Leru! Leru! 5. E ognuno restava incantato e con la mano si stropicciava gli occhi: ma un Angelo passando disse: «È nato, è nato quel Dio che si aspettava». Allora che vedesti? Confuso ognuno si accalcava per la strada. Chi canta e balla, e chi spensierato faceva con la zampogna: Leru! Leru! 6. Chi porta na sciungata, o na fiscella, chi nu rinusu e chini nu capriettu: scammisata fujia la furisella cu quattru cucchia d’ova dintr’ ’u piettu; e appriessu li curria la figlicella, chi ’n culinuda si jettau d’ ’u liettu: pe l’allegrizza li schioppa lu chiantu, e porta nu galluzzu ’e primu cantu. 6. Chi porta una giuncata o una fiscella, chi una caciotta e chi un capretto: scamiciata correva la pastorella con quattro paia d’uova in petto; e dietro correva la figlioletta, che si gettò nuda dal letto: per la gioia scoppia a piangere, e porta un galletto di primo canto. 4. 3-4 ’i pasturi … ’i furisi: rappresentazione della gerarchia relativa alla società pastorale tradizionale calabrese che, secondo quanto riferisce lo stesso Padula nel «Bruzio» (a. I, [n.13 luglio], 1864), era così strutturata e denominata: «Diciamo massaru il mandriano, curàtulu il cascinaio, furisi i pastori e capufurisi il vergaro». Il curatolo era colui che attendeva alla preparazione dei formaggi e di altri prodotti del latte; 4 ’i lucisi: i fuochi, che si accendono sui monti e illuminano la campagna, costituiscono un antichissimo simbolo di purificazione; il fuoco esprime appieno il senso originario di festa di rinnovamento, di inizio di un nuovo ciclo annuale. Qui Padula lo riproduce come motivo del presepe meridionale; ma si ispira anche alle antiche costumanze delle “focare”, i grandi falò delle giornate natalizie. 5. 1 E ognunu … ’ncitrulatu: l’immagine richiama la figura dell’ “incantato” del presepe, che stupito e attonito assiste all’evento prodigioso; 2 si spracchiava: lett. ‘si staccava’, ovvero ‘si stropicciava gli occhi per la meraviglia’; 5 ’mpaparatu: si dice di chi, stordito all’annuncio di un fatto, alla vista di una cosa, ecc., non riesce a camminare speditamente; 8 facia …leru!: esempio efficace ancora una volta di ristrutturazione di un verso popolare: «culla sampogna lleru lleru a fari», con il verbo coniugato all’imperfetto, che apre la struttura del verso, e l’onomatopea sistemata alla fine 6. 1 sciungata: prodotto ottenuto con latte ovino o caprino rappreso, non salato; fiscella: metonimia; la fiscella è propr. una cestella fatta di giunchi in cui i pastori mettevano il cacio fresco o la ricotta; 2 rinusu: forma ridotta di arinusu, nome di un piccolo cacio ottenuto con i residui della pasta; chini: forma con epitesi di –ni. 174 antropologia e storia 7. Ed iu, belli quatrari, iu puru tannu ’nfrattari mi volia cu l’autra genti: ma chilla jia ’ncollata, ed iu, malannu! Iu sulu nun avia li cumprimienti. Mi jivi ’a mariola scalïannu, ma avia voglia ’e merari! ’un c’era nenti. Chi fici poca? Fici sta canzuna, e Jesullu mi dezi na curuna. / 2 – comicità e politica 7. Ed io, cari ragazzi, io pure allora volevo unirmi alla gente, ma quella andava carica, ed io, mannaggia!, io solo non avevo doni. Andavo rovistando nella tasca, ma avevo voglia di guardare! Non c’era niente. Che feci allora? Feci questa canzone e Gesù Bambino mi diede una corona. 7. 1-8 Ed iu … curuna: l’ultima strofa contiene il motivo dell’excusatio, ripreso dai canti popolari natalizi, che consente all’autore di intervenire direttamente nella narrazione, personalizzando il proprio canto. Anche nella Pastorale di Alfonso de’ Liguori c’è l’intervento dell’autore, ma è risolto in chiave di edificazione religiosa e morale: «Io puro songo niro peccatore, / ma no’ ammoglio esse’ cuoccio e ostinato. / Io no’ ammoglio cchiù peccare, / voglio amare – voglio sta’ / co Ninno bello / comme nce sta lo voje e l’aseniello»; ’nfrattari mi volia: lett. ‘volevo nascondermi, imboscarmi’; ’ncollata: participio pass. di ’ncollare, ‘portare sul collo, ovvero addosso un carico’; mariola: ‘tasca interna della giacca, ladra’; scaliannu: per il verbo scaliare, con il significato di ‘frugare’ e ‘razzolare’, G. Rohlfs, Nuovo dizionario dialettale della Calabria (s. v.), indica l’etimo greco σχαίλζω; curuna: scherzosa allusione alla corona dei poeti e probabilmente anche a quella dei santi. 175 Pulcinella come trickster Domenico Scafoglio Scritto nel 1997. Pubblicato la prima volta in “Annali d’italianistica, Anthropology & Literature”,V, 1997; poi selzionato autonomamente per The Free Dictionary by Farlex e per High Beam Research. Una storia locale che è anche universale La storia di Pulcinella Cetrulo, la maschera più importante del teatro popolare e semipopolare napoletano, d’ arte e di strada, una delle più rilevanti della commedia dell’Arte, della “ridicolosa” romana, dell’opera buffa, degli intermezzi comici, dei Carnevali italiani, è stata tradizionalmente letta come una storia locale, quasi unicamente napoletana, e solo negli ultimi lustri si è guardato oltre i confini regionali, prestando qualche attenzione alla vita e alla scena della maschera fuori dell’area campana, dal momento che la cifra critica dominante era rimasta da sempre quella del “tipo del napoletano in commedia” nella tradizione romana e veneziana (mentre altre tradizioni sono rimaste per altro poco conosciute). Tuttavia, l’avere allargato lo sguardo oltre i confini nazionali alla ricerca dei “cugini” di Pulcinella 1 in Francia, Inghilterra, Germania, Olanda, Spagna, Russia e cosi via non ha comportato grandi novità, giacché tutto l’impegno conoscitivo si è risolto nella ricerca dei prestiti e delle specificità locali, oppure, al più, nella vaga nozione del carattere “europeo” della maschera. Dal versante della ricerca etnografica e della storia delle religioni sono venuti invece negli ultimi decenni importanti contributi teorici attraverso studi accurati sui trickster delle popolazioni etnologiche, i buffoni sacri degli stessi amerindi, i “pazzi sacri” dell’Islam, le buffonerie sacre cristiano-medioevali1. Quegli studi ripropongono in un’ottica prevalentemente antropologica (e molto spesso utilizzando cifre psicanalitiche) il problema della natura e della funzione del comico, all’interno di una teoria generale della cultura e della società. La comparazione interculturale e la tendenza alla generalizzazione li rendono particolarmente utili ai fini del superamento dell’angusto localismo, e insegnano che, se per un verso ogni storia è una storia locale, per un altro ogni storia non si può comprendere se non alla luce di un’altra storia. In quest’ot- Nell’impossibilità di richiamare questa ormai vastissima letteratura, mi limito a ricordare quella più importante, sopra ricordata, per i suggerimenti, impliciti o espliciti, che può dare sotto il profilo teorico: M. Augè; A. Bausani; N. R. Crumrine; E. E. Evans Pritchard; J. Heers; C. Levi-Strauss; L. Makarius; G. Mazzoleni; P. Radin, C. G. Jung, K. Kerenyi. 177 Q uaderni tica – che è quella dentro la quale ci siamo mossi – lo studio della maschera del Pulcinella napoletano può fornire elementi importanti per l’elaborazione di una teoria del comico dal punto di vista antropologico. Figura dell’identità In quanto incarnazione storicamente determinata di un archetipo universale, Pulcinella Cetrulo è, inequivocabilmente, Napoli, sia nel senso che attraverso la sua maschera i napoletani nell’arco di oltre tre secoli – dai primi anni del Seicento fino alla fine dell’Ottocento e, residualmente, fino ai nostri giorni – hanno elaborato la più completa immagine di se stessi, sia nel senso che, storicamente, la maschera è stata assunta dal resto dell’Italia e dall’Europa per conoscere e rappresentare i tratti socio-antropologici di Napoli. E, qualunque fosse il valore di queste rappresentazioni e auto-rappresentazioni, è innegabile che esse poggiassero in qualche modo su un fondamento reale, dal momento che in Pulcinella si individuano immediatamente alcuni tratti fondamentali della cultura napoletana: il barocco popolaresco associato al patetismo e alla sua controparte ironica, la parodia e lo sberleffo; la carnalità ossessiva e un po’ ambigua; la familiarità col mistero e col sacro; lo logorrea astratta e il suo becero controcanto, il doppio senso scatologico e osceno; la gestualità vivace e pittografica; la fascinazione del nuovo e del diverso, governata dalla parodia; il 2 3 178 rapporto d’ intimità col potere, diviso tra il rispetto e la protesta, la sottomissione e la rivolta. La rappresentatività di figure come Pulcinella – cioè, sostanzialmente, degli eroi comici, dei buffoni rituali, dei “buffi” teatrali, dei “bricconi” (tricksters) universalmente presenti nelle mitologie primitive – è più ampia di quella delle figure positive e degli eroi “seri”, perché questi ultimi incarnano le aspirazioni ideali dei popoli, mentre gli eroi comici rappresentano anche la dimensione quotidiana e il loro lato oscuro, gli impulsi trasgressivi e le tentazioni dell’illecito. In quanto mito d’identificazione collettiva e simbolo dell’identità individuale2, Pulcinella è il guardiano della casa e della bottega3: capita frequentemente di ritrovarlo ancora oggi nelle dimore popolari di Napoli (ma anche, sia pure con minore frequenza, in quelle della borghesia), statuina di gobbo portafortuna, con in mano – chiari simboli scaramantici – la scopa o il corno o il ferro di cavallo, e spesso in atto di “fare le corna” con l’altra mano. Sul finire dell’Ottocento fu addirittura notato sul terrazzo di una villa un bellicoso Pulcinella tra due batterie di cannoni. Statue del Cetrulo, spesso di dimensioni naturali, si possono ancora oggi vedere nelle botteghe degli antiquari napoletani, per lo più collocate sull’uscio, e costituiscono i soli oggetti “non in vendita”; un tempo, però, era facile trovarle anche in altri tipi di negozi. Ma Pulcinella, in quanto figura dell’identità, è anche il difensore della comunità: veniva collocato, non a caso, in cima ai campanili, simboli per eccellenza Per queste categorie ved. anche lo studio di M. Augè sul “piccolo dio” africano, Legba, che ricorda molto da vicino Pulcinella (Il corpo del feticcio). Alla presenza di Pulcinella nel folklore napoletano è dedicata una nostra specifica indagine,Tradizioni regionali-popolari (in D. Scafoglio e L. Lombardi Satriani 271-34). antropologia e storia dell’identità cittadina e della protezione della città dalle minacce esterne. L’uso odierno di utilizzare l’immagine del Cetrulo come elemento di richiamo e garanzia di napoletanità, specie per certificare la pizza napoletana doc, ha importanti e più significativi precedenti nella tradizione, dal momento che per secoli i tavernieri, ad esempio, hanno usato Pulcinella come insegna, e lo stesso facevano i mellonari, che lo mostravano in atto di uscire da un melone spaccato. Ma Pulcinella è, al tempo stesso, il guardiano e il messaggero della casa e della città, tramite prezioso dell’interno con l’esterno e simbolo dello scambio culturale: egli è, per eccellenza, il messo, che media l’interazione verbale e sociale in un’infinità di ruoli: latore di notizie, “referendario” più o meno sciocco o astuto, servizievole servo, ruffiano, losco mandatario, guida e battistrada, prologo teatrale, banditore di strada, portatore di verità e di chiacchiere facete: come tale, egli è raffigurato nell’Ottocento con le ali mitiche del messaggero e in atto di suonare il corno; anche sotto questo aspetto egli è identificato, come vedremo, col gallo, il biblico messaggero. E in veste di mediatore (tra il soprannaturale e il naturale) compare come pastore nel presepe napoletano, spesso sistemato, in formato piccolissimo, tra i trastulli che si offrivano a Gesù, e perfino nelle chiese, in veste di portacandele; ma al tempo stesso egli media il rapporto cogli inferi, in veste di diavolo o associato ai diavoli come suoi aiutanti magici, collaboratori, antagonisti. Non a caso Pulcinella è (venditore 4 5 6 / 2 – comicità e politica ambulante, comico itinerante, predicatore, capopolo, imbonitore, ecc.) il re della piazza, lo spazio deputato all’incontro con l’esterno, dove il nuovo e l’estraneo sono soggetti alla censura o all’approvazione collettiva, prima di essere incorporati nella vita delle case senza residuo di angoscia. Buffone nazionale, Pulcinella fu visto, non a caso, fino a tutto l’Ottocento come “ligio fino alla superstizione alle consuetudini del suo paese nativo, amante de’ suoi, dileggiatore di ogni uso straniero”4; allo stesso modo in cui i buffoni sacri di quasi tutte le culture difendono la comunità dalle minacce degli estranei e dai pericoli che vengono dalle innovazioni dall’esterno5, Pulcinella si fa selvaggio idolatra, quacquero, ebreo, turco, zingaro, e attraverso le sue metamorfosi parodiche la cultura locale si confrontava con le diversità culturali che da sempre avevano esaltato, nel segno della curiosità e della paura, l’immaginario collettivo, prendeva coscienza dei propri limiti e rafforzava le sue certezze: non si proponevano, le pulcinellate di Cerlone, di “rappresentare i difetti di alcune nazioni barbare e selvagge”?6 Ma in questo teatro degli altrove più o meno immaginari, in cui si compie questo incessante lavorio di riduzione dell’ignoto al noto, il confronto con la diversità, in cui si riconosce la comune natura dell’uomo e la sua irriducibile alterità, si estende anche alle realtà meno lontane e più familiari: francesi, tedeschi, spagnoli sono da sempre gli antagonisti per eccellenza di Pulcinella, ed entrano nel suo teatro per essere studiati, compresi o derisi: è il teatro C.T. Dalbono, Pulcinella e la maschera napoletana, in De Bourcard, Usi e costumi di Napoli e contorni, 528. Su questo aspetto si vedano le osservazioni di Mazzoleni (specialmente 76-77; 89-91) su una realtà etnografica geograficamente lontana ma per molti versi straordinariamente affine. F. Cerlone, dedica premessa al vol. 7 delle Commedie. 179 Q uaderni dell’etnicità, in cui sotto le forme del comico si articola il confronto etnico nel segno di una tolleranza senza illusioni, consapevole e guardinga. L’integrazione della differenza Pulcinella media dunque il rapporto con la diversità culturale, e può farlo nella misura in cui è parte di essa. Ogni cultura notoriamente si fonda su un sistema di scelte, il quale a sua volta comporta un complesso di esclusioni: l’insieme dei contenuti esclusi costituisce l’orizzonte oscuro che preme sui confini della cultura, come minaccia e allettamento. Ma le culture hanno altresì inventato i meccanismi per allacciare un rapporto ininterrotto con la diversità, attraverso l’invenzione di personaggi emblematici, deputati alla funzione di mediatori culturali, tra i quali i personaggi comici occupano un posto di rilievo: figure di confine, tra natura e cultura, disordine e ordine, illecito e lecito, esse si fanno carico della volontà diffusa di un allargamento dell’esperienza verso i territori interdetti; in esse si compie vicariamente un abbassamento della soglia del controllo ideologico; in esse si consuma, nel bene e nel male, l’incontro con le realtà escluse, pagando esse stesse, col ridicolo e l’accanimento persecutorio di cui sono fatte oggetto, il senso della vergogna che la trasgressione comporta. Non a caso Pulcinella, maschera urbana per eccellenza, prodotto e specchio della cultura metropolitana di Napoli, è fatto na- 7 180 scere, nei miti di fondazione, ad Acerra o, in alcune tradizioni di minor peso, a Ponteselice (ma anche in luoghi meno vicini, Giffoni e Benevento): la maschera dei napoletani si fa dunque venire da quella periferia da sempre immaginata come luogo di demenza e sanità, di infezione e di portenti, perché l’extraterritorialità consente alla cultura urbana di distanziare la parte di sé che inquieta e disturba, entificandola in una diversità né troppo lontana né troppo vicina, in modo che possa in essa negarsi e al tempo stesso riconoscersi. Secondo un mito d’origine Pulcinella era un buffone contadino di Acerra che una compagnia di attori cittadini, dopo aver variamente cercato di sopraffarlo nelle schermaglie comiche, integrò nel gruppo, trasformandolo in una maschera teatrale, e per secoli il pubblico ha visto i segni di queste origini rustiche nella sua fisionomia (il volto caricato, il naso lungo, la faccia annerita dal sole), nell’abbigliamento (camicia e calzone a braca di tela bianca) e in alcuni tratti caratteriali e comportamentali (la ghiottoneria, la sensualità accentuata, la maniera spropositata di parlare, la goffaggine associata all’arguzia e alla lepidezza). L’acerranità ha conferito alla maschera la natura di figura del confine ed è stata la condizione della sua liberta; il configurarsi insieme come familiare e estraneo, l’essere collocato idealmente in una marginalità in cui la citta trovava ancora la conferma della sua identità ma anche l’inizio della diversità, ha rappresentato per Pulcinella la radice di ogni ambivalenza e il fondamento della sua funzione di mediatore7. I miti d’origine della maschera di Pulcinella sono analizzati da D. Scafoglio, Mitologie, in D. Scafoglio-L. Lombardi Satriani. antropologia e storia Pulcinella dunque è il familiare e l’estraneo, l’interno e l’esterno, e la dialettica tra questi estremi si articola nelle forme del comico: se Pulcinella è l’insieme dei contenuti che la cultura esclude dal proprio universo e identifica con l’orizzonte che preme sui propri confini, il riso, che costituisce l’essenza del teatro della maschera, media questo rapporto con la diversità, ed è, al tempo stesso, riso d’accoglimento, che seconda l’assorbimento del diverso, nelle forme compatibili col sistema culturale, liberando dall’ansia e dall’angoscia, e riso di esclusione, che consegue il medesimo effetto liberatorio attraverso il dileggio del “residuo” irriducibile. Per questo la maschera comica presenta un doppio statuto, configurandosi al tempo stesso come la diversità integrabile, e perciò arricchente e gioiosa, e la diversità non del tutto integrata, e perciò repellente e sinistra. Se come acerrano Pulcinella si colloca al confine tra la citta e la campagna, la sua condizione di servo, con la quale si è emblematicamente identificato in tutta la sua storia teatrale8, conferma la sua natura di figura liminale, tramite prezioso tra l’interno e l’esterno. La maschera napoletana conserva in vario modo le qualità amorali dello schiavo della commedia antica, connesse alla condizione di marginalità, comune ad entrambi9. Meno esposto, grazie proprio alla sua liminarità, ai rigori della norma sociale, questa figura di servo è fatta oggetto di un investimento simbolico, che la trasforma in un doppio irriverente e ribelle della plebe, e, al tempo stesso, in un doppio perverso del padrone. Emblematico di questa situazione è il duplice travestitismo; quello del pa 8 9 / 2 – comicità e politica drone, che nelle feste carnevalesche e, non infrequentemente, nelle stesse pulcinellate teatrali vestiva i panni di Pulcinella, assumeva la sua figura deforme e oscena e imitava i suoi eccessi sessuali e alimentari; e quello di Pulcinella-servo, che in oltre tre secoli di teatro si è costantemente travestito da padrone, fingendosi principe, mercante, conte, donna, accademico, avvocato, dottore, poeta, cavaliere e cosi via. Il travestimento consente a Pulcinella di introdurre comportamenti eccentrici dentro ruoli codificati, portando lo scompiglio in un universo che si credeva ordinato; quello che emerge non è tanto l’inadeguatezza del servo al ruolo del padrone (da cui i teorici conformisti già a partire dal secolo XVII vedevano scaturire l’essenza del comico), quanto, più sottilmente, l’inadeguatezza di quel ruolo e dei comportamenti di chi quel ruolo rivestiva. Questo travestitismo è l’ultima forma di quella attitudine alla metamorfosi, che le mitologie di tutti i popoli riconoscono ai loro trickster; ed è una abilità di segno trasgressivo, perché implica l’infrazione al divieto di metamorfosi, su cui si fonda la separazione delle classi sociali, dei ruoli, delle classi d’età (Canetti: 461-62). Tutto questo rende Pulcinella simile agli eroi della letteratura picaresca, coi quali ha in comune la vita errabonda, l’assillo del bisogno e l’inclinazione al furto e all’inganno; anche questo eroe del mondo marginale si muove a suo agio dentro una identità fittizia e sempre diversa, con la quale attraversa, impostore impenitente, i più diversi spazi sociali. Almeno fin verso la fine del secolo XIX Pulcinella ha sempre richiamato intorno a sé Il teatro di Pulcinella è studiato, lungo un arco di oltre tre secoli, in D. Scafoglio - L. Lombardi Satriani 607-870. Lo studio del servo in commedia è stato approfondito soprattutto in alcuni studi francesi; tra essi il saggio di J. Emelina si sottrae più decisamente degli altri ad un approccio riduttivamente sociologico. 181 Q uaderni un pubblico transclassista, formato di popolani e signori, senza che peraltro gli uni e gli altri in questo teatro cercassero e trovassero le medesime cose e il medesimo modo di divertirsi. È stato innanzitutto il teatro della plebe, di cui costituiva una forma ritualizzata di rivalsa nella dimensione dell’immaginario, con più o meno impliciti elementi di critica sociale: nella sua lunga storia teatrale Pulcinella ha predicato ai sovrani che il potere non può fondarsi sull’arbitrio, ha mostrato la miseria della boria militare, ha avanzato il dubbio che la medicina fosse “merdicina”, ha mostrato gli oscuri grovigli del potere, ha denunciato l’iniquità della giustizia, ha resistito con l’incomprensione e la derisione alla violenza quotidiana dei suoi padroni, ha riso dei miti e dei riti della letteratura dominante, ha proclamato il suo diritto a dire liberamente i suoi desideri, a scoprire le sue paure e la sua fame. Ma questo teatro è stato, al tempo stesso, il teatro del padrone, per il quale vedersi in Pulcinella o farsi pulcinella ha significato un alleggerimento rituale dei sensi di colpa connessi con l’esercizio del dominio, la liberazione per procura (attraverso l’assunzione della licenza servile) dal peso del ruolo e della rigidezza della norma e dell’etichetta aristocratica. In tal modo peraltro le classi superiori operavano una sorta di superamento en bas della propria limitatezza, allargavano la propria esperienza del mondo attraverso la sperimentazione di forme di vita “altre” e l’assorbimento della cultura delle classi inferiori; infine, accettando e godendo di farsi deridere nella farsa pulcinellesca, davano spettacolo della loro capacita di contemplare la loro negazione e davano una conferma della loro universalità. Il travestitismo, ultima forma della metamorfosi, un tempo prerogativa soprattut182 to degli dei minori e dei demoni, accomuna Pulcinella al Diavolo. Nella cultura tradizionale il trasgressore ha origini aliene, e, d’altra parte, la violazione dei tabù (che caratterizza i personaggi comici come Pulcinella) gli conferisce ulteriormente grandezza, associata a un alone di poteri soprannaturali: il mondo comico è un mondo all’incontrario, un mondo di rovesciamenti e di trasgressioni, e non ci sorprende allora che gli “histriones” nei secoli passati siano stati condannati dalla Chiesa e considerati “stregoni” dalla gente comune. Secondo un altro mito di fondazione il Cetrulo nasce dalle viscere del Vesuvio, da sempre considerato emblema della napoletanità, ma anche bocca dell’inferno e luogo di portenti, uscendo dal guscio di un uovo comparso per volere di Plutone sulla sommità del vulcano, grazie a un impasto fatto da due fattucchiere, che avevano chiesto un soccorritore per sanare situazioni di ingiustizia e di oppressione: le formule delle donne sono importanti per comprendere l’essenza diabolica del Cetrulo: Dragoncina: Per formar dell’impasto il gran vigore Vi pongo le bestemmie scellerate Di tutti i giocator, ch’ hanno perduto, L’ira, la rabbia ed il velen vi getto Di brutta donna non curata al mondo, E ridotta a implorar da impiastri e veli Chi del suo bello alla conquista aneli. Colombina: Pe finire lu impasto io mo nce metto Lo grasso de na crapa maumettana, l’uocchio deritto de no jocatore, Che na sera jocanno a zecchinetto Co mico lo perdette nietto nietto. (Gl’incanti delle maghe: 528). antropologia e storia I caratteri diabolici del Cetrulo trovano ampia conferma nella sua fisiognomica e nel suo abbigliamento: la maschera nera col naso lungo, gibboso e affilato, il cappello biforcuto del secolo XVII, il neo sulla fronte, simile a un corno miniaturizzato; al diavolo fanno inoltre pensare la voce nasale, stridula e fessa, specie se ottenuta con la pivetta, ed il seno femmineo, segno vistoso dell’ambivalenza sessuale; il Cetrulo inoltre ha un rapporto costante, non sempre di ostilità, col cane e il gatto, animali inequivocabilmente diabolici, e si accompagna a un suo doppio animalesco, l’asino, animale ctonio, dotato di misteriosi poteri. Si tratta di elementi probabilmente originari, o acquisiti nel passaggio della maschera dal teatro al mondo del Carnevale; ma è singolare che queste connotazioni considerate “arcaiche” abbiano accompagnato la storia plurisecolare del Cetrulo, riaffiorando in epoche recenti: maschere cornute di Pulcinella e Pulcinellessa compaiono nel teatro di Antonio Petito, e l’identità demoniaca è ancora attestata in una statuina lignea in mio possesso dalla forma particolare del coppolone, che, con un incavo nel mezzo, forma un copricapo diabolico bicorne. Diabolico è anche il comportamento di Pulcinella, “spirito pazzariello”, maestro di beffe, burle, capricci, bizze, piccoli divertimenti crudeli, dispetti ridicoli, scherzi pazzi e buffonerie di ogni tipo, esperto, come il diavolo, nel discorso alla rovescia, nel doppio senso, nel linguaggio escrementizio e pronto a ricorrere alla risorsa estrema del “vernacchio”, caro, anch’esso, al Diavolo. Certo, Pulcinella incarna innanzitutto il demone della lussuria, dal momento che egli è figura fallica e alla lussuria sono state conferite per molto tempo connotazioni diaboliche. Tutto questo si / 2 – comicità e politica legge, tra l’altro, in un bastone ricurvo da me collezionato, che rappresenta, da un lato, un enorme fallo, che si articola, sul lato opposto, in una fiamma, da cui emerge, demone ghignante, la testa del Cetrulo. Ma, oltre a incarnare la potenza della sessualità, figure come queste hanno anche (proprio per questo) una funzione apotropaica e profilattica; difendono dalla malasorte e dal malocchio, in coerenza con la loro fondamentale funzione salvifica. Pulcinella ripete le fantasie, immemorabilmente radicate nella cultura popolare, del diavolo giocosamente priapico, del “diavolo ridicolo”, del “diavolo dabbene”, che esprimeva il bisogno di conferire una qualche legittimità ai diritti della vita istintiva contro la sessuofobia apocalittica della predicazione religiosa e di integrare in qualche modo nella norma l’anormale. In tutto l’arco della sua vita teatrale, ma soprattutto nel teatro dell’Ottocento, Pulcinella è il diavolo capriccioso e bizzarro, irriverente e vendicativo, che semina confusione e scompiglio, quasi parodia dell’intelligenza progettuale degli uomini, ed è frequentemente strumento di salvezza per i perseguitati e gli ingiustamente ostacolati. Ottavio Feuillet, che forse più di ogni altro ha accentuato, nello spirito del tempo, le sue connotazioni di difensore dei deboli e nemico dei potenti malvagi, trasformandolo in una figura angelica, gli ha lasciato i suoi poteri diabolici, facendolo nascere mentre “un grosso gatto, color fuliggine, uscì di sotto dal letto, e un uccellino, nascosto tra le pieghe delle cortine, spiccò il volo in camera, e fischiò dolcemente”; il gattone nero, interpretò sua madre, “era il Diavolo, o un suo stretto parente, ma l’uccellino veniva certo da Dio” (Feuillet: 19). Il senso ultimo di queste mitologie (che illuminano 183 Q uaderni il significato e la funzione della maschera teatrale) suggerisce che, se il diavolo è l’anomalia angosciante, il ritorno perturbante del rimosso, la diversità radicale, la minaccia dell’ignoto, la paura della morte, il teatro di Pulcinella, allacciando, per oltre tre secoli, un dialogo ininterrotto con gli elementi oscuri della coscienza, ha domesticato la sua “ombra”10, trasformando in forze benefiche le sue energie distruttive, e risolvendo le suggestioni inquietanti dell’alterità in immagini rassicuranti e salvifiche. Per questo in Pulcinella il ghigno malefico del demone si coniuga col sorriso benevolo del salvatore. Lacan identifica Pulcinella col fallo, ossia col pene simbolico, vedendo segnalata questa dimensione del Cetrulo a partire dal piano fonematico, giacché “al di là della voce in falsetto e delle anomalie morfologiche di questo personaggio erede del Satiro e del Diavolo, sono proprio le omofonie quelle che, condensandosi in sovrimpressioni, al modo del tratto di spirito e del lapsus, denunciano nel modo più sicuro che ciò che simbolizza è il fallo. Polecenella napoletano, tacchinello, pulcinella, pollastrello, pullus, parola tenera trasmessa dalla pederastia romana alle modiche effusioni delle piccinine delle nostre primavere, eccolo passato nel punch dell’inglese, per, divenuto punchinello, ritrovare la daga, il tassello, il tozzo strumento che dissimula, e che gli apre la strada per cui discendere, piccolo uomo, nella tomba del tiretto, dove gli inseguitori, seguaci del pudore delle Colombine, fingeranno di non veder nulla prima che ne risalga, risuscitato nella sua valentia” (Lacan). Attraverso condensazioni, figure e ammiccamenti, Lacan Nell’accezione junghiana: P. Radin et al. 175-202. 10 184 recupera alcune illuminanti acquisizioni che Jones aveva espresso in maniera meno affascinante e barocca, ma più perspicua: “La parola Punchinello è una ‘contaminazione’ inglese della parola napoletana Pol(l)ecenella (Pulcinella in italiano moderno), anche essa diminutiva di Pollecena, giovane tacchino (la parola poussin in francese corrisponde all’italiano moderno pulcino, che ha per diminutivo Pulcinello); proprio come il gallo domestico, il tacchino è un simbolo fallico riconosciuto sia dal punto di vista della rappresentazione che da quello linguistico. La radice latina è pullus, parola che serve a indicare in generale i cuccioli di un animale. Per ragioni evidenti, il fallo è spesso identificato all’idea di un bambino maschio, di un fanciullo o di un piccolo uomo” (Jones:124). La fisiognomica di Pulcinella, che riteniamo a torto sottovalutata da Lacan (dal momento che per secoli il teatro di Pulcinella è stato fondamentalmente un teatro del corpo), si accorda perfettamente con questa interpretazione, essendo palesemente simboli fallici il naso priapico, grande e adunco, il mento aguzzo, anch’esso satiresco, il ventre dilatato e prominente, comune ai demoni della fecondità, il berretto arrotondato o appuntito, che ricorda analoghe figure falliche delle mitologie e del folklore europeo. All’universo del sesso rinvia quasi interamente il corredo degli oggetti di cui Pulcinella appare fornito, dal bastone al cordone, alla foglia di aloe, al corno, e di figure falliche è costituito il bestiario cui egli si accompagna, dall’asino, suo alter ego animale, alla scimmia e alla tartaruga, associata con lo stesso significato al feticcio africano (Collezione Scafoglio). antropologia e storia D’altra parte la natura fallica del personaggio era presente, in modo più o meno esplicito, nelle codificazioni della maschera costruite, a partire dal secolo XVII, sulla base della conoscenza dell’uomo elaborata dalla psicologia, dalla caratterologia, dalla medicina e dalla fisiognomica, che in molti casi ripetevano i percorsi di una immemorabile sapienza popolare, che ha lasciato tracce vistose nei lessici europei: l’identità di Pulcinella e del fallo è presente nel linguaggio erotico francese (“Papa, mon époux abuse / De ce titre solennel: / Croirais-tu qu’il me refuse / Jusqu’à son polichinel”?/Guiraud, s.v. Polichinelle), dove è anche ribadita l’identità Pulcinella=fallo=bambino, dal momento che l’essere incinta si denomina con l’“avere il Pulcinella nel tiretto”11. Ed all’area campana appartiene tutta una produzione sotterranea di statuine di Pulcinelli fallici, scoperta alcuni anni addietro da chi scrive, che ne ha potuto salvare alcuni esemplari dalla dispersione cui materiale di questo tipo è esposta: ad essa appartiene un bastone ligneo bifallico, nella cui parte centrale sono incise, a rilievo, sette mezze maschere pulcinellesche dagli enormi nasi priapeschi a tutto tondo: i nasi sono sette, quanti sono i giorni della settimana, con evidente riferimento alla costante attività sessuale del personaggio, e il manufatto offre un riscontro visivo a un modo di dire campano, “tiene i setti nasi di Pulcinella”, con cui si designa un uomo particolarmente virile. Una seconda statuina rappresenta un Pulcinella marionetta, con un coppolone adombrante la punta del pene, che ricompare di nuovo all’estremità inferiore. Il terzo oggetto – cui 11 / 2 – comicità e politica abbiamo già fatto riferimento – è un grosso bastone ricurvo, in forma di fallo da un lato e di demone dall’altro. Un altro manufatto ligneo rappresenta un Pulcinella intero, con maschera mobile, che esibisce un enorme pene denudato. Ho rinvenuto infine altri piccoli pulcinelli bronzei deformi, con un grande fallo denudato, e un Pulcinella in terracotta, anch’esso di piccole dimensioni, che cavalca una tartaruga (notoriamente simbolo vaginale) sul lungo collo che è, al tempo stesso, un enorme fallo. Queste rappresentazioni erano innanzitutto oggetti d’uso, nel senso che venivano esposti per cacciare il malocchio, le streghe e la mala sorte; e ancora oggi essi assolvono una – se vogliamo – residuale funzione apotropaica e profilattica, se ancora oggi la sessualità è una forma efficace di recupero, che può salvare dalla paura e dall’angoscia. Tuttavia il Pulcinella-fallo è una complessa costruzione culturale, la cui trama si lascia cogliere solo se si confrontano questi manufatti con tutta la vita secolare della maschera e delle figure analoghe, sulle scene e nell’immaginario collettivo. Falliche erano alcune divinità minori del mondo classico, la maggior parte delle figure tricksteriche delle popolazioni “primitive”, numerosi personaggi del teatro popolare di tutti i tempi, dalle maschere fliaciche a quelle atellane e della Commedia dell’Arte. In tutti i casi il personaggio comico è fallico perché il fallo è, per eccellenza – come ci si esprime ancora oggi nei dialetti meridionali d’Italia – “il folle”, in quanto emblema dell’universo del desiderio riluttante alla ragione, principio di disordine e di vita. Di fatto la maschera A. Delvau, Dictionnaire érotique moderne, Paris, Les Editions 1900 (ed. or, 1864, s.v. Polichinelle); E. Chambrey, 77. 185 Q uaderni fallica ha rappresentato, in tutta la sua storia teatrale, il luogo “pedagogico” in cui le pulsioni umane vengono assunte senza ritegno, per essere portate alla luce della coscienza e dominate. Nella sua specificità partenopea e mediterranea, Pulcinella-fallo ripropone l’archetipo del figlio ribelle, altamente rappresentativo di una cultura meridionale plasmata dal matriarcato, in cui le spinte orgiastiche e la violazione degli interdetti sono profondamente connaturati alla paura della donna e al timore della castrazione. Pulcinella per un verso si configura come un eroe della trasgressione, incarnazione di una voglia di sessualità e di irregolarità diffusa, con tutti gli attributi della virilità superiore; per un altro verso questo fallo ingente è avvertito come un pericolo e perciò punito col ridicolo, le corna e le botte; la punizione colpisce l’eccesso e ristabilisce l’equilibrio, conciliando la trasgressione col senso morale12. Caratteristica opposta e al tempo stesso complementare è l’ermafroditismo che connota, sia pure non decisivamente, la maschera. Segno della femminilità di Pulcinella può essere la sua stessa attitudine ad accompagnarsi spesso al suo corrispettivo femminile, la Pulcinellessa, che non è, come comunemente si crede, la compagna del Cetrullo, ma la sua anima femminile, lo stesso Cetrulo in veste di donna. Ma la femminilità di Pulcinella è inscritta nel suo corpo. Nonostante la massiccia prevalenza di elementi fallici, alla sfera della femminilità rinviano i rigonfiamenti del petto (gob- 12 13 186 be o seni che siano), accentuati dalle ampie pieghe della camicia; la pancia enorme, né d’uomo né di donna soltanto, ma, come egli soleva dire, “commune a dui” (comune a entrambi); i glutei polputi e rotondeggianti da efebo; la voce stridula e rotta di castrato; le maniche lunghe che tendono a coprire le mani. Il mito, spesso ripreso dalla stessa tradizione scenica, ma più frequentemente testimoniato dalle rappresentazioni artistiche e letterarie, conferma ampiamente queste impressioni, dal momento che, come abbiamo visto, Pulcinella nasce dall’uovo, come tante figure ermafroditiche della mitologia e del folklore, e può inoltre concepire, partorire, allattare, prerogative che egli ha in comune con altre figure similari, come lo Zanni della Commedia dell’Arte e il trickster degli indiani d’America13. Queste rappresentazioni costituiscono una ripresa in chiave comica di materiali rituali e narrativi folklorici ed etnologici, quali i racconti del “padre allattante” e del mito della couvade, di cui ripetono, nelle forme consentite dalla cultura del tempo, alcuni significati. Pulcinella partoriente e allattante faceva ridere come tutto ciò che e contro natura, ma non senza una parte dell’interesse che i fatti contrari all’ordine naturale hanno suscitato da sempre, dal momento che consentono l’attivazione di fantasie e desideri ancora radicati nell’immaginario collettivo. Al fondo di tutto permaneva, più o meno inconsapevole, un bisogno di portare alla luce la parte femminile della propria umanità. La forma Il medesimo schema logico (e narrativo) si ritrova al fondo di gran parte della narrativa erotica di tradizione orale, che sotto questo aspetto potrebbe essere considerata il corrispettivo di questo teatro comico (D. Scafoglio, I racconti erotici). Per qualche altro riscontro teatrale e narrativo moderno di questi motivi che afferiscono ad orizzonti mitico-rituali arcaici, si veda D. Scafoglio, La Vecchia del carnevale e Maupassant 174-80. antropologia e storia del comico rendeva questo bisogno rappresentabile, operando un compromesso tra il desiderio e la vergogna. Nel teatro il motivo affiora, pur camuffato, nel gioco dei travestimenti e degli scambi di persona, che consentono in qualche modo di rappresentare la promiscuità sessuale sotto la copertura dell’equivoco o della stolidezza, mentre il bisogno diffuso di maternità si stempera nel tema onnipresente della “famiglia di Pulcinella”. Tutte queste elaborazioni fantasmatiche e rappresentazioni letterarie e teatrali, oltre a implicare la competitività maschile nei confronti dell’altro sesso, conservano un rapporto di complementarità con la natura fallica della maschera; in primo luogo, perché un eccesso, l’esasperazione della virilità, si coniuga inevitabilmente all’estremo opposto, la femminizzazione, per la curvatura della linea del desiderio (si pensi – ma è solo un esempio – all’ermafroditismo del Dioniso greco o del Diavolo cristiano); in secondo luogo, perché la natura ermafroditica si configura come il rovescio punitivo del principio fallico: l’attribuzione di caratteri femminili a Pulcinella serviva a degradare il personaggio, secondo la logica della commedia dello sciocco, suscitando il consueto riso d’esclusione, sicché nello sciocco effeminato si puniva il fallomane stolido. È la logica che determina la femminizzazione punitiva di Pahlavān Kačial, l’eroe fallico del teatro dei burattini iraniano: “Non lo sapevi che a chi guarda le donne altrui gli ficcano un corno nel sedere?”14. Profittando ampiamente della libertà che la società tradizionale riteneva diritto e privilegio di chi – folle, sciocco, buffone – / 2 – comicità e politica era fuori delle regole sociali, Pulcinella per oltre tre secoli ha avuto come interlocutori re, capitani, signori, padroni, giudici, dottori, sbirri, e di tutti se è fatto giuoco, lui, “pulcino” perennemente giocato. Tutto questo attraverso un discorso obliquo, una petulanza aberrante, un chiacchierio confuso, tramato di fraintendimenti reali o simulati, di equivoci deliranti, di stravolgimenti verbali dissonanti, di lazzi buffoneschi sguaiati e osceni. Il riso vestiva d’insensatezza il discorso della verità, generando le perplessità, testimoniate già nel secolo XVII: “Questo gustosissimo uomo ha introdotto una disciplinata goffagine… poscia che egli fa uno assiduissimo studio per passare i termini naturali e mostrar un goffo poco discosto da un pazzo o un pazzo che di soverchio si vuol accostare a un savio” (Cecchini: 32). Nel corpo e nell’abbigliamento Pulcinella porta i segni più vistosi che appartenevano all’iconografia della “Stultitia”: la testa rasata, il bastone, la campana, il vestito bianco, la simbologia ornitologica, il cappuccio a punta, il bastone, il tamburello, la corda che stringe il camicione, ed è associato al cane, compagno del folle. Appartiene alle culture tradizionali l’idea che l’apertura controllata verso le forze oscure e misteriose dell’anormale e dell’irregolare potesse ridare sanità e benessere a sistemi normativi corrosi dalla crisi. Pulcinella è stato l’eccesso salutare, e ha rappresentato una terapia d’insensatezza per le logiche malate della realtà. “Perdonatelo, è sciocco”, solevano ripetere solleciti i cortigiani di ogni tempo, per difendere il buffone napoletano dall’ira del re padrone. È la fictio che ha consentito per Il testo dell’“eroe pelato” iraniano è pubblicato in traduzione italiana da Mattioli 125-42. 14 187 Q uaderni secoli l’esistenza della scena del buffone. Sostanzialmente estraneo alle logiche della realtà, Pulcinella è colui che continuamente non comprende o fraintende, e la sua distrazione o incomprensione causa a se stesso e agli altri un’infinità di disastri. La pulcinellata è un aspetto dell’eterna commedia dello sciocco, che ha consentito di ridere negli altri di ciò che in noi stessi costituirebbe una sorgente di insicurezza e di angoscia. Ma in questo teatro le sofferenze che Pulcinella sciocco infligge alle sue vittime appaiono più significative di quelle che egli procura a se stesso. Si tratta solitamente di personaggi d’autorità e di figure del potere, re, aristocratici, capitani, dottori, avvocati, sbirri, che le scempiaggini del Cetrulo, con il crescendo di irritazione che determinano, costringono a rinunciare alla loro ieratica prosopopea, scoprendo la loro fragile umanità mascherata dal comportamento pubblico e dal ruolo. Lo sciocco è portatore di una maldestra sincerità all’interno di codici tramati di eufemismi, reticenze, silenzi; parzialmente estraneo all’ordine del linguaggio, lo sciocco stravolge la base lessicale del discorso, deformando, sovrapponendo, incrociando le parole e inventando nuovi termini; intende alla rovescia e parla all’incontrario; si smarrisce nei meandri delle figure, riducendo i significati al senso letterale; fino ad affondare nel garbuglio incongruo e confuso e nel farfuglio del non senso: segni vistosi di ignoranza e di distrazione, inevitabilmente colpiti dal riso che condanna ed esclude, ma, al tempo stesso, maschera di una operazione che mette a nudo la convenzionalità e l’innaturalità dei linguaggi formalizzati e gli artifici dei gerghi professionali, menomando il potere di persuasione e di dissuasione della parola “autorevole”, e che decompone 188 le ordinate simmetrie del discorso, ne evidenzia i limiti e ne prospetta, come disordine fecondo, un possibile allargamento. Ma è altrettanto significativo che questo sciocco, autentico o per finta, rimanga eternamente vittima della sua distrazione e dei suoi errori e della sua stessa furberia: in tal modo tutto torna, perché nello sciocco deriso, beffato, bastonato si potrà ravvisare la punizione dello scaltro ingannatore e del trasgressore vincente, e l’infrazione delle regole culturali si concilierà, senza residui sensi di colpa, col senso morale. La differenza irriducibile e il capro espiatorio Pulcinella non ha mai suscitato meccanismi di immedesimazione incondizionata e totale, perché c’è sempre in lui qualcosa di noi che rifiutiamo, e che nella scena del buffo si trasforma nell’alterità irriducibile. Questa parte di noi che puniamo nel buffone trasforma, in qualche modo, Pulcinella in un capro espiatorio (Cecchini: 32). L’ambivalenza del Cetrulo è quella di celebrare l’epopea del picaro e, al tempo stesso, incarnare la miseria della marginalità e dell’esclusione; mentre proclama il suo sano vitalismo e la sua liberta, egli discopre altresì l’avvilente condizione del pigro vagabondo, la squallida fisiologia della paura e della fame, la grave ossessione dell’amante fallomane, la balordaggine insulsa dello sciocco confusionario. Era stata elaborata da un grande napoletano la teoria che gli uomini “ridicoli” fossero qualcosa di mezzo tra le persone serie e gravi e le bestie (Vico: 21); persuasione ribadita, con l’aggiunta di una dose di acredine, in cui si specchiava il pun- antropologia e storia to di vista dei valori liberal-nazionali della Napoli ottocentesca, da Giorgio Arcoleo: “Pongo il suo carattere [di Pulcinella] tra due nature, l’animale e l’uomo”15. Ma non si trattava soltanto di deformazioni della cultura colta; anche la cultura dei teatri frequentati dalla plebe, delle guarattelle, delle scene carnevalesche, che di Pulcinella aveva invece fatto il suo eroe, aveva rilevato, con un suo autonomo linguaggio, l’ambivalenza fondamentale del buffo in commedia: “Songo miez’ommo e tutto bestiale”, recitava Scatozza, un personaggio affine al Cetrulo, in una sacra rappresentazione settecentesca (Politi: sc. 7): eco del buffone di Acerra, che intanto proclama sulla scene: “Pe bestialità no m’appassa manco na bestia”; “Su’ ciuccio, ed è ciuccio chi non me chiamma ciuccio” (Cerlone: a. 2, sc. 9). In Pulcinella la carica aggressiva e l’estroversione giocosa è controbilanciata da impulsi auto-flagellatori, alimentati dall’oscura percezione di essere “caduto in basso”. Dissacratore di valori assoluti, Pulcinella sente al tempo stesso di non appartenere a nessun mondo di valori, ma solo a un cieco universo di bisogni, assillato da domande inevase e da esiti delusori: “Io, Don Polecenella Cetrulo, nato a la Cerra ntra li ciuccie, e cresciuto, e ppasciuto a Nnapole ntra li sartimbanche, sempe malato de mente, e ssempe sano de cuorpo…”16; e ancora: “Io so Polecenella, facchino di nascita, disonorato di costumi, vituperato da le prete de la via, ma stimato da chi non ha stima della reputazione” (De Petris: sc. 10). In questi casi Pulcinella sembra far- / 2 – comicità e politica si riconoscere come “napoletano di razza, di una grandiosa amoralità; qui sì, come la plebe, che più di nascondere le sue piaghe le mostra e vuole riceverne ammirazione e premio, come credo non faccia alcun altro popolo, Pulcinella diventa esemplare” (Rea: 25). In realtà Pulcinella ripete a Napoli, nel linguaggio del luogo e del tempo, lo splendore e la miseria che accompagnano la scena del buffone in ogni tempo e sotto tutti i cieli, e il male che infligge a se stesso altro non è che il complemento e il riflesso delle ferite che infligge agli altri: “In verità, è proprio per questo” – rifletteva il trickster pellerossa – “che la gente mi chiama walkundkaga, il folle ecccentrico, e hanno ragione” (Radin et al.: 25). L’essenza di questo teatro comico è nel fatto che noi possiamo vivere per interposta persona tutto ciò che la follia della maschera ci propone, col vantaggio di poter dire, alla fine, che “è stato Pulcinella”. Ma non è stato Pulcinella, perché siamo stati noi. Intanto il buffone paga per tutti, con le botte, le disgrazie, le umiliazioni e il ridicolo. Il che rende ragione dell’intuizione scandalosa del predicatore settecentesco, che, agitando il Cristo in croce, gridava alle folle: “Questo è il vero Pulcinella”17. Il corpo del buffone Non è senza ragione che quasi tutti i tratti che siamo andati evidenziando si ritrovino nel corpo stesso della maschera. No- F. De Sanctis, La scuola - Pulcinella 14 (con il saggio di Arcoleo). M. Zezza, Lo testamiento de Polecenella 10. 17 L’episodio è ora ricostruito e discusso da Scafoglio, Pulcinella e Cristo, in D. Scafoglio - L. Satriani 289-303. 15 16 189 Q uaderni toriamente il corpo è metafora della società, il che è reso possibile dal fatto che l’uomo ha plasmato culturalmente il corpo con le stesse regole con cui ha costruito il sistema sociale. Il tratto fondamentale delle figure comiche tradizionali è la deformità: questa caratteristica, pur nelle variazioni storiche, che rispecchiano ogni volta i mutamenti delle concezioni e dei gusti estetici, unifica le figure comiche di tutti i tempi, dal teatro greco alla commedia dell’Arte. Il teatro moderno ha apparentemente ricondotto questo aspetto nei limiti della norma, ma ancora oggi riesce difficile trovare un comico che non riproduca in qualche modo un’anomalia o un’irregolarità corporea rispetto ai canoni estetici dominanti. Tradizionalmente la bellezza è sentita come una “necessita della natura”, laddove la bruttezza appare piuttosto come una “violazione della norma” (Propp: 47). La deformità è la bellezza all’incontrario, è la veste corporale dell’inversione morale, il corrispettivo corporeo della deformazione linguistica, il riscontro visivo del comportamento alla rovescia. Il mito del trickster pellerossa, che nasce mostruoso perché frutto di un incesto, testimonia clamorosamente questa coincidenza di valori estetici e principi morali. Inoltre, la diversità corporea del buffone è segno e specchio di una diversità connotata etnicamente, socialmente e moralmente; è – lo abbiamo già visto – il corpo imperfetto, irregolare, deforme del contadino, del servo, del folle. Ma più che rinviare a un ruolo sociale, il corpo e l’abbigliamento di Pulcinella denunciano la sua estraneità ai simboli di ogni stato e ruolo, e ne costituiscono la loro esatta inversione e negazione. Col suo volto di uccello o di verro, le sue sconcertanti protuberanze, con la sua testa rasata da taglia190 gola, Pulcinella contraddice un universo che ama specchiare il suo ordine nella regolarità e bellezza dei corpi, e proclama la sua natura di figura del disordine; con i tratti femminei dell’abbigliamento, del corpo, della voce, mette in crisi le rigide distinzioni dei sessi e, buffone maschio ed effeminato, insinua i fantasmi della promiscuità in una società fondata sui valori eterosessuali; col suo abbigliamento spropositato, fuori uso e alla rovescia, affine al vestito del clown e del matto, contrasta le regole fondamentali del vestire secondo misura, morigeratezza ed eleganza. Questo corpo è altresì emblema del disordine liminale nel quale il buffone vive e che nel buffone si esprime. Quanto più rigidamente una società è organizzata, tanto più essa esercita la sorveglianza sui confini del corpo, e in modo particolare sulle soglie e le entrate, rafforzando la linea di demarcazione tra l’interno e l’esterno, il pulito e lo sporco (18): la figura del buffone non solo rompe le ordinate simmetrie del corpo, non solo è un corpo cangiante per via delle infinite metamorfosi (il comico è per eccellenza un trasformista), ma si associa a ciò che esce dal corpo (sputo, sangue, urina, escrementi) o che è destinato allo spazio dell’impuro. Il comico è escrementizio, fa ridere manipolando verbalmente gli escrementi, perché è nella natura operare nei confini, come artefice di contaminazioni e produttore di relazioni. Il comico media la relazione fondamentale tra il pulito e lo sporco, e da ciò trae il suo stesso potere: “Un io completamente pulito con nessun limite sporco non avrebbe alcuna relazione con il mondo esterno o con altri individui. In tal modo un ‘io’ sarebbe libero dal potere degli altri, ma sarebbe a sua volta impotente… e da ciò deriva che il potere è situato nello sporco” (Leach: 87). Pulcinella afferisce altresì al mondo del antropologia e storia pennuti, e ripete tutte le connotazioni che i sistemi simbolici tradizionali attribuivano ad appartenenze di questo tipo; la simbologia gallinacea ha caratterizzato in modo particolare, soprattutto nella cultura occidentale, il mondo dei buffoni e delle figure della trasgressione e della follia. Nato dall’uovo, il Cetrulo indica col suo stesso nome la sua natura gallinacea, la esplicita nel suo linguaggio gestuale e nella sua voce, e la ricorda vistosamente negli elementi della sua fisiognomica e del suo costume: il cappuccio a forma di guscio d’uovo, la testa di volatile con l’occhio pollino rotondo e il naso a forma di becco, il camicione bianco con maniconi amplissimi a forma di ali. I gallinacei erano emblema della stolidezza, in sintonia con la cultura del tempo, che sentiva nella “stultitia” la regressione nell’animalità, e Pulcinella Cetrulo vale “pulcino scervellato e ottuso”, non molto diverso in questo dalle altre maschere, che amavano vantare nomi, appellativi, qualifiche e ascendenze di questo tipo, come gloriosi blasoni della loro follia. Tuttavia il significato più forte del simbolismo gallinaceo è certamente quello fallico (il dimorfismo sessuale dei pennuti ammicca peraltro all’ambivalenza sessuale, e infatti Pulcinella non è soltanto il possente gallo fallico, ma presenta anche – come suona il suo nome, “gallinella” – una inequivocabile componente femminile): il gallo era emblema di “stolidezza”, lussuria e promiscuità, e ancora nel secolo XVII la sua mattanza rituale nei Carnevali europei aveva il significato di una mortificazione della carne: le vicende di Pulcinella sulla scena, “gallo” stolido e lascivo sistematicamente beffato e deriso, erano l’equivalente simbolico della persecuzione e del sacrificio rituale del “gallo di marzo”. / 2 – comicità e politica Conclusioni per un’antropologia del comico Cercheremo, conclusivamente, di tracciare la linea di una teoria del comico dal punto di vista dell’esperienza antropologica, a partire dalle acquisizioni che l’analisi della figura di Pulcinella nella vita popolare e nella scena teatrale ci ha consentito, e col soccorso dei riscontri interculturali. Essa potrebbe essere così articolata: 1. L’eroe comico viene da un altrove. Il personaggio comico è in vario modo un esterno alla cultura in cui opera. Pulcinella, maschera napoletana per eccellenza, si faceva venire da Acerra, da Giffoni, da Ponteselice o da Benevento, ossia da contesti rurali o periferici, e tutta la sua storia secolare potrebbe essere letta come un capitolo particolare della cosiddetta satira del villano, che attraversa buona parte della letteratura (…) il motivo della provenienza esterna è indicativo innanzitutto del fatto che il teatro comico è il teatro dell’etnicità, in cui la frizione citta/campagna, centro/periferia, identico/diverso, gioca un ruolo importante nella genesi psichica e culturale del riso. Anche ai nostri giorni i personaggi comici sono collegati socialmente, culturalmente, espressivamente a contesti regionali, dialettali, periferici, d’emigrazione, e sono portatori di una diversità che è, vistosamente, una diversità etnica. La provenienza esterna allude altre volte a un altrove sociale. Pulcinella è stato per i ceti privilegiati di Napoli il portatore della cultura del “popolo minuto”; nel teatro comico romano i personaggi comici erano schiavi e in gran parte di quello europeo dell’età moderna erano servi; il loro perfetto corrispettivo romanzesco era il popolano furbo, il furfante intelligente, il picaro. Il 191 Q uaderni comico dunque riflette le tensioni interne a una società, quelle che nascono dall’incontro, contaminazione e scontro tra i diversi dislivelli di cultura, e sono, innanzitutto, tensioni sociali. Il personaggio comico può provenire miticamente dagli inferi. Questo motivo rinvia più significativamente alla diversità che preme sui confini interni della cultura, alla parte oscura di ogni società. Le connotazioni diaboliche che troviamo in Pulcinella si riscontrano altresì in altre figure comiche, nelle mitologie che le riguardano e nei comportamenti che esse esplicitano: dall’aldilà si immaginavano venuti i buffoni sacri delle Americhe, un demone era Arlecchino e diabolico era l’universo delle maschere della Commedia dell’Arte. L’origine esterna del personaggio comico indica dunque la diversità culturale, che concretamente è, di volta in volta, la cultura del mondo rurale, l’esperienza delle classi inferiori e il lato diabolico dell’uomo, con la tendenza a confondere le tre cose in una sola. 2. L’eroe comico è un trasgressore. L’esperienza comica introduce in maniera controllata elementi di disordine creativo dentro una cultura, forzando la sua costellazione di regole e valori entro limiti compatibili con la tenuta complessiva del sistema. Sotto questo aspetto il comico è trasgressione ordinata, regolata licenza. In questa luce acquista più senso e diventa meglio percepibile la provenienza esterna della figura comica. Il trickster degli indiani d’America è un violatore di tabù, e in primo luogo del tabù del sangue (…): i buffoni sacri costituiscono il corrispettivo rituale del briccone divino delle mitologie amerinde, dal momento che essi evocano ritualmente l’infrazione dei tabù 192 (….) la comicità sotto tutti i cieli si dispiega nel segno dell’eccesso, dell’inversione, dei rovesciamenti. Importa invece notare come la violazione delle regole costituisca un fatto fondante, dal momento che su di essa il personaggio comico costruisce anche la sua immagine. Fino alle soglie del mondo contemporaneo la trasgressione risulta notoriamente connessa col sacro, dal momento che grazie ad essa il trasgressore acquisiva potere (originariamente, il potere magico insito nel sangue). Ma anche in contesti desacralizzati, come i nostri, il personaggio comico deve la sua forza e il suo prestigio alla capacità di andare all’incontrario, esercitare una sorta di violenza bianca sui personaggi d’autorità, cimentarsi nell’esercizio della parodia di costumi e dei miti collettivi. Tutto questo sarebbe incomprensibile se non ipotizzassimo l’esistenza di una delega collettiva al trasgressore a peccare, sbagliare, colpire in nome di tutti. Le società cioè affidano alle figure di confine il compito di rappresentare i loro desideri nascosti, e il loro successo dipende dalla loro capacita di rappresentarli nella maniera più efficace e, soprattutto, dal coraggio di farlo. Il confronto con l’alterità è una condizione della trasgressione comica, ma al tempo stesso nell’esperienza comica l’altro si rivela come lo stesso, la parte oscura di sé. 3. L’eroe comico è un mediatore culturale. Se per un verso il comico è portatore di disordine, per un altro svolge una importante funzione di rifondazione e rafforzamento dell’ordine culturale. Il trickster delle mitologie primitive è un eroe civilizzatore, che compie azioni di grande utilità per gli uomini e fornisce loro i mezzi per migliorare la vita; i buffoni sacri di tutti i popoli antropologia e storia svolgono una importante funzione equilibratrice soprattutto in relazione alle tensioni interne e ai rapporti con l’esterno. Anche se questa funzione è diventata, per così dire, opaca nella percezione moderna della comicità, è significativo che ancora oggi i comici godano di grande popolarità e vengano considerati altamente rappresentativi della vita dei popoli, pur non incarnando il meglio dei caratteri nazionali. In effetti il personaggio comico media il rapporto con la diversità culturale, consentendo l’assorbimento di esperienze e forme di vita altre e impedendo che le culture si chiudano in se stesse, impoverendosi; per un altro verso egli allontana ciò che potrebbe minacciare l’integrità culturale della comunità e pertanto rafforza le sue difese e consolida la sua identità (….). In quest’ottica acquista trasparenza la dialettica interna alla risata comica: nell’universo comico si ride al tempo stesso per escludere e per includere, per accettare e respingere: la comicità non va confusa con la derisione, che costituisce soltanto uno dei suoi poli dialettici: l’altro polo è quello dell’accoglimento: si ride per escludere ciò che non è compatibile col nostro sistema culturale e si ride per integrare ciò che può rinnovarlo e arricchirlo. L’esperienza comica promuove e sollecita il confronto con l’esterno e al tempo stesso difende dalle minacce dell’ignoto. 4. L’eroe comico è un capro espiatorio. In quanto possessore di una delega collettiva a violare i confini della norma, il personaggio comico, come ha rilevato Laura Makarius, non può essere condannato, ma neppure può essere approvato; tuttavia egli porta inscritto nel suo corpo e nella sua vicenda i segni vistosi di una punizione esemplare: i personaggi comici risultano sempre associati in vario modo all’idea della deformità / 2 – comicità e politica corporea, dell’alterazione linguistica, della vita sfortunata, delle disgrazie, della stolidezza, del ridicolo, delle botte. Certamente in questo accanimento persecutorio poniamo nel buffone la parte di noi che inquieta e disturba, ma solo ricomponendo in una unità dialettica le contraddizioni della sua figura si afferra pienamente il senso dell’esperienza comica; nella femminizzazione del personaggio si punisce la sua virilità indecorosa, le botte che egli prende sono il prezzo di quelle che dà, le sue disgrazie sono il contrappasso dei guasti che la sua dissennatezza produce. Il personaggio comico si muove nel segno dell’eccesso e in quello della mancanza: nell’uno si compie la trasgressione, nell’altro la si punisce. In tal modo la società può compiere per interposta persona l’incursione nei territori dell’irregolare, dell’illecito e del proibito, allargando i confini della propria umanità, e al tempo stesso, attraverso la punizione del trasgressore vicario, può riconciliarsi col senso morale, rifondando l’ordine turbato. 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Zezza M., Lo testamiento de Polecenella, in “La nferta pe lo Capodanno de lo 1839”, Napoli, 1839. Per Rocco Brienza Mi sono recato da Rocco nel Friuli, nella sua ultima estate, e poi qualche mese più tardi, nel momento conclusivo della sua storia. Era il pellegrinaggio mesto dell’affetto e del distacco, associato al proposito – auspicato da alcuni degli amici più cari e laicamente condiviso dallo stesso Rocco – di un comune lavoro di costruzione di tracce di memoria, cui affidare la sua identità. L’identità di una persona che aveva incrociato la nostra vita, lasciandovi il segno delle esperienze vivificanti. La storia dei filosofi, letterati, scienziati di solito viene costruita da altri uomini di scienza e di lettere, ma il modo migliore di restituire il senso della loro esistenza nasce forse dal confronto, che può diventare negoziazione, tra quello che essi immaginano di se stessi e quello che di essi gli altri – soprattutto gli amici che lo hanno conosciuto – pensano o sentono. Il significato del proposito, condiviso da Rocco, era quello di consegnare a noi la sua storia, perché noi, suoi amici, a nostra volta la riscrivessimo e raccontassimo. Mi sembrava e mi sembra la scelta più giusta, perché sono convinto che si capisce in profondità ciò che si ama – se amore è anche conoscenza – e che tutto il resto è gossip. Io non aspiro ora a disegnare un profilo intellettuale di Rocco Brienza, perché ocorrerebbe altro tempo e, soprattutto, altro stu- dio. Il mio rapporto con Rocco si fondava su una trama di condivisioni parziali ma significative, che ha lasciato allo stato latente una più vasta possibilità di scambi e complicità intelletuali. Questo peraltro rendeva anche più intenso emotivamente il nostro legame, perché rimaneva un mistero una intesa, quasi un reciproco affidamento, costantemente attraversato dal presentimento se non dall’attesa di qualcosa di imprevedibile e segreto. Era l’incanto, che nasceva dall’essere testimoni affascinati e partecipi di una inedita contaminazione di lucida razionalità e geniale dissipazione. Allora, se non parlerò, se non per laconici accenni, di Rocco Brienza intellettuale, delle sue scelte politiche, della sua antropopedagogia e delle sue idee filosofiche, riferirò un’esperienza di segno forte. È come se, invece di cominciare dal principio, cominciassi dalla fine, quella con la F maiuscola. Devo parlarne serenamente, di questo rapporto di Rocco con la morte, perché anche lui avrebbe fatto serenamente e perfino giocosamente discorsi di questo tipo. Gli ultimi istanti di Rocco contraddicono clamorosamente il detto di Pulcinella napoletano, secondo cui “altro è parlar di morte, altro è morire”. C’è un passo di Hegel, forse il filosofo a lui più caro, che sembra scritto apposta per questa circostanza: “La vita dello spirito non è nella vita che ha orrore della morte, perché questo 195 Q uaderni rende schiavi della distruzione, ma è nella vita che sopporta la morte, che si regge in essa e consente di ritrovare noi stessi in mezzo all’assoluta dissoluzione”. Rocco è sempre vissuto dentro questo orizzonte conoscitivo ed emotivo, ma non ha mai fatto considerazioni di questo tipo, a lui pienamente congeniali, con le parole di Hegel. Uno degli aspetti più interessanti della sua personalità era la capacità di tradurre i sistemi filosofici nelle forme dell’esperienza quotidiana, attraverso le mediazioni di una giocosa aneddotica popolare, che gli era cara, perché era il mondo concreto di eventi, uomini e cose che etnicamente gli apparteneva e che amava: capitava così che questo sovrano distacco nei confronti della devastazione della morte Rocco lo mettesse in bocca a una vernacolare Cecia, donna libera dei villaggi calabresi, protagonista di un poemetto, la Ceceide, che io, sorretto dalla sua complicità, ho sottratto all’immeritato oblio: quella Cecia che, nell’attraversare il portello che separa la vita dalla morte, grida ai sopravvissuti che festeggiano e piangono al suo pagano funerale faraonico: “Io me ne infischio!”. Era la locuzione che Rocco ripeteva frequentemente, nella sua greve versione dialettale originaria, nei momenti in cui la vita ci minaccia o ci lusinga con la sua ineludibile illogicità e le sue regole incondivisibili. Anche nei confronti dell’esperienza suprema, anche nel momento dell’orrore, conservò questo sereno distacco nei confronti della morte. Quando ci siamo salutati, ci siamo detti semplicemente che “è stato bello”. Lo so che è incredibile, ma proprio perché è incredibile, è una cosa di Rocco Brienza. Ma non c’era soltanto questo hegeliano sentimento di controllo supremo del male che incombe e della catastrofe che minaccia. 196 In Rocco c’era un’altra nota che fa pensare più a Schopenhauer che ad Hegel: la compassione. Compassione verso gli amici, le persone che amava. Compassione nel senso etimologico del termine, ossia partecipazione al lutto, elaborazione comune della sofferenza, metamorfosi del dolore attraverso la solidarietà, la condivisione, il riso e il gioco. Questo era Rocco Brienza. E la compassione si sposava alla consolazione, perfino nella forma di un paradosso che si ritrova difficilmente nelle pagine dei filosofi: davanti alla prova definitiva. in cui si diventa deboli, indifesi e nudi, non si nega in genere al morente l’attenzione compassionevole che doverosamente gli spetta, ma qui la situazione è invertita: era Rocco che consolava i vivi della perdita che li lasciava soli, e non erano i vivi a consolare Rocco. Come se, da gran signore qual era, chiedesse scusa per il fatto che se ne andava. Questa nota di inverosimiglianza attraversa la personalità, la vita, la storia di Rocco, ed è una delle ragioni più forti del suo fascino. Era un uomo che amava l’ordine, le istituzioni, che voleva sane, incorrotte ed efficienti; aveva fiducia nella civiltà dei rapporti e delle parole, a condizione che fossero segno di lealtà e verità; il suo rispetto degli avversari non era mai inquinato dalla vocazione “mediterranea” alle facili negoziazioni e ai compromessi. Era, per questo, un diverso, e quando si è diversi si è più esposti alle rappresaglie del mondo. Io credo che la storia dell’ultimo Rocco abbia avuto inizio dai primi mesi del duemiladodici. Lo desumo da una lettera che mi scriveva e di cui riporto alcune sequenze. Lo avevo invitato a un convegno sulla disgregazione della società italiana e sulla crisi degli Stati nazionali: era un invito a nozze per lui, antropologia e storia ma mi rispose che ormai le condizioni fisiche e gli impegni di avvocato, ai quali non poteva venir meno, non gli consentivano di partecipare. Però aggiungeva pensieri di altra natura, che vale la pena di leggere e che forse ci danno anche un’idea della sua scrittura “intima”, che è diversa dalla scrittura di Rocco filosofo e antropologo: “Navigo a vista, nella nebbia, con un solo faro acceso, di luce via via più fioca. Non so che dire di più, di me. Aggiungo, che navigare come un corpo galleggiante sull’acqua ha le sue dolcezze e che forse conserva viva la capacità di riflessione, virtù che ancora conservo. Ma soprattutto quando sono stimolato dagli amici”. Rocco era un soggetto passionale ma al tempo stesso traduceva tutto in lucide riflessioni. Ora, la riflessione si compie attraverso il linguaggio ed il linguaggio ha le sue relativamente autonome strategie che in qualche modo stravolgono pensieri e sentimenti, nella misura in cui li subordinano al principio della realtà. Anche Rocco plasmava le sue emozioni e calibrava le sue idee in modo da non turbare l’interlocutore, ma, al di là di questo minimo di strategia che salva i rapporti di civiltà e conferma quelli di amicizia, il suo linguaggio era autentico. Aveva bisogno di amici, perché questo tipo di comunicazione pretende una affinità che non può non essere elettiva. Rocco amava parlare con gli amici e credo che abbia parlato nella sua vita soprattutto agli amici; per gli altri, al massimo, ha scritto. C’è da augurarsi che abbiano letto. Di Rocco rimane un ricordo vivido, affidato alla memoria di familiari e compagni. Un patrimonio amorosamente custodito, e tuttavia minacciato dall’implacabile scorrere del tempo, ed esposto ai capricci e all’impre- / 2 – comicità e politica vedibilità della memoria. Bisognerebbe passare da una fase di memoria involontaria, in cui casualmente ricordiamo di avere amato, vissuto, desiderato, ad una memoria volontaria, costruita dall’intelligenza e dalla volontà in funzione della durata e del progetto. Era questo il senso del mio viaggio alla casa di Elisa e di Rocco. Costruire la memoria di Rocco Brienza significa recuperare il senso e la forza di un’esperienza e, al tempo stesso, restituire al valore quello che merita. Io non so quanto abbia giovato o che cosa abbia ispirato ad altri l’intelligenza e la genialità di Rocco, ma sono certo che si è fatto amare dagli amici per la sua capacità di comprendere e alleggerire la loro fatica di vivere. Credo che dovremmo cominciare a colmare non poche lacune nella conoscenza di Rocco intellettuale e politico; per esempio il suo rapporto giovanile con Olivetti. Rocco parla di lui proprio nella lettera che ho ricordato, con considerazioni che ha ripreso anche nei nostri ultimi colloqui. Per quanto Rocco si dichiarasse marxista, non ho mai visto in lui un militante del Partito Comunista, mentre l’esperienza dell’autonomismo personalista di Olivetti si percepisce nel suo pensiero e credo abbia costituito un elemento fondante della sua prima formazione. Poi venne Carlo Levi, che ha esercitato una grande influenza sugli intellettuali meridionali di quegli anni e quindi anche su Rocco. Si trattò, come si legge in una sua lettera, di un rapporto non sempre pacifico, segnato anche da critiche e negazioni. Ma Rocco rifiutava non tanto quello che diceva e scriveva Carlo Levi, quanto quello che Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli indicava come la “sconsolatezza di Orlando”, l’intellettuale meridionale di fatto bloccato e reso incapace di operare, perché tormentato dal senso di 197 Q uaderni colpa, la colpa che nasceva dalla convinzione che i meridionali sono inferiori e sono essi stessi i responsabili dei loro mali. Rocco Brienza si muoveva in un altro orizzonte, e andava oltre Carlo Levi, verso i partiti di sinistra. Come studioso e ricercatore aveva bisogno di una teorica, ed Ernesto de Martino lo aiutò a costruirla. Ecco un altro rapporto da approfondire. Apprezzava de Martino perché lo storico delle religioni aveva dato una risposta alta alla domanda di un linguaggio per l’antropologia italiana, che nel migliore dei casi aveva toccato livelli di elegante letterarietà con Alberto Mario Cirese. De Martino nelle sue indagini sulla cultura meridionale si era inventato un linguaggio di indubbia complessità, largamente tributario della filosofia, e credo che sia stata questa una delle ragioni principali del suo successo tra gli intellettuali del Mezzogiorno e lo stesso Rocco. Ma, soprattutto, de Martino gli mostrava i limiti della cultura umanistica, con la percezione dell’entropia interna alla vita della cultura e della società italiana. Se la cultura italiana era segnata – per usare la teminologia di quegli anni – da dislivelli culturali, questo poneva un grosso problema di carattere politico-pedagogico. Credo che, anche per l’influenza di Raffaele La Porta, Rocco Brienza abbia impostato, unico tra noi, il problema antropologico e filosofico in chiave pedagogica. Ha restituito la pedagogia all’antropologia e questo in quegli anni rappresentava una novità, dal momento che noi non avevamo un’antropologia dell’educazione. In Italia si sarebbe parlato di cose simili, e per certi versi identiche, solamente dopo il 1980, cioé dopo l’arrivo delle prime ondate degli extracomunitari: allora, nella convinzione di avere fatto una nuova scoperta, si è inventata 198 l’intercultura, perché la società italiana da monoculturale diventava multiculturale. In realtà la società italiana è stata sempre multiculturale e Rocco Brienza, questo, lo aveva capito e aveva posto negli anni sessanta gli stessi problemi di integrazione culturale, che avrebbero ispirato l’antropologia e la politica soltanto trenta anni più tardi. “Tutto ciò che l’uomo intraprende, sia con l’azione che con la parola o altrimenti, deve scaturire dall’unione di tutte le sue facoltà: tutto ciò che è separato è da ripudiare”. Lo ha scritto Goethe nell’elogio di Johann Georg Hamann quasi due secoli fa, e noi potremmo ripeterlo in questa evocazione di Rocco Brienza, perché ne rappresenta la coerenza tra la parola e l’azione, il pensare e il sentire, e insieme la tensione a una conoscenza che, per essere tale, non può almeno non aspirare ad essere totale. In questo spirito si approdò, insieme a Luigi Lombardi Satriani e me stesso, alla ideazione della collana “Ragioni di confine”, dove il “confine” non è più la barriera che separa i campi del sapere, ma il luogo in cui – come scrivemmo nell’epigrafe con le parole di Bachtin – “si svolge la vita più intensa e produttiva della cultura”. Non ho dimenticato il rapporto di Rocco con Francesco Tassone e credo che sia stata la relazione politicamente più intensa. Quello che lo affascinava dell’esperienza del fondatore dei “Quaderni Calabresi” era, prima di tutto, il fatto che egli dedicasse l’intera sua vita alle genti del Meridione, per “far maturare consapevolmente nelle loro ‘comunitarie’ mani la loro vicenda civico-politica e, per conseguenza, economico-sociale” (così ha scritto in una delle sue ultime lettere, a me indirizzata). Ma, se questo era il progetto, nella concretezza dell’esistere questo antropologia e storia comunitarismo si alimentava di una pratica sociale che all’impegno della crescita civile associava l’attenzione solidale all’altro, la riscoperta, antropologicamente consapevole, della cultura meridionale ed il piacere della familiarità e dell’amicizia. L’orizzonte comunitario di Francesco Tassone era anche, sotto molti aspetti, quello di Rocco Brienza, che affiorava incessantemente in mezzo alla sue discussioni filosofiche e nelle sue divertite narrazioni, come figura di una umanità da difendere o riconquistare, o come trama di riposo e di gioco o esemplificazione veritiera dell’appaesamento del mondo. / 2 – comicità e politica Io penso soprattutto a questo, quando rifletto sulla necessità di fare un lavoro di approfondimento su Rocco Brienza. Quali che siano i risultati delle nostre ricerche e riflessioni presenti e future, Rocco Brienza rimane per noi una persona affascinante, che molto ha dato e nulla ha chiesto, una persona verso la quale dobbiamo esprimere una grande gratitudine per il suo essere diverso, per il suo essere nei confronti di tutti, e degli amici in particolare, straordinariamente generoso. D.S. 199 Rassegna di studi Pulcinella. L’eroe comico nell’area euroomediterranea, Università di Salerno, Edizioni libreriauniversitaria.it, Salerno 2016, pp. 430. In questo volume sono raccolti gli Atti del Convegno Internazionale: Pulcinella. L’eroe comico nell’area euro- mediterranea, organizzato dal Laboratorio antropologico dell’università di Salerno, che si tenne a Fisciano e a Napoli nel 2009. Il testo ripropone i saggi seguendo nell’organizzazione l’impostazione stessa del convegno, questo contribuisce a far emergere con chiarezza anche a distanza di tempo quelle che sono state le linee guida e a confermarne la validità. I temi affrontati si dispiegano tra più registri e più angolazioni disciplinari, che mirano da un lato a fissare i caratteri universali dell’eroe comico e/o del buffone e dall’altro le connotazioni e le specificità locali. Infatti, la prospettiva interdisciplinare con cui questa tematica è affrontata, avvalendosi dei contributi dell’indagine antropologica, storica e filologica, consente di delineare un identikit dell’eroe comico popolare e allo stesso tempo di delineare le costanti dell’immaginario comico. Come chiarisce Scafoglio nella presentazione, la finalità di questo lavoro è “restituire in una luce diversa, partendo da Pulcinella, le figure comiche che godono di un successo popolare, che le trasforma in eroi culturali, incarnazione del genius loci, del lato solare e di quello oscuro dei loro popoli: insomma i trickster, discendenti dei “burloni divini”, dei trasgressori sacri cui i popoli riconoscono il privilegio dell’immunità e che usano il loro potere per migliorare la vita degli uomini”. In tale tipologia rientra infatti Pulcinella, così come appare da un lato nella sua caratterizzazione etnica, che ha dato luogo alla costruzione culturale della maschera, ripresa e rielaborata nel teatro, nell’arte, nel folklore, nel vissuto quotidiano dei napoletani, cioè in quel determinato contesto storico-sociale, nel quale acquisisce una sua fisicità e irriducibilità, dall’altro nella universalità dei tratti che lo accomunano al personaggio comico e al trickster quale archetipo universale. È intorno a questa antinomia che si muovono i contributi del libro a iniziare dalle relazioni di apertura di Domenico Scafoglio e Luigi M. Lombardi Satriani e dalla postfazione di Simona De Luna. Come sottolinea Scafoglio, Pulcinella è rappresentato nella Commedia dell’Arte come “il cafone di Acerra”, esterno quindi all’humus cittadino. Questa sua caratterizzazione, tuttavia, non è specifica di Pulcinella, ma al contrario è un aspetto ricorrente del personaggio comico, così come è rappresentato in differenti contesti socioculturali, questi, infatti, è una figura esterna alla comunità, viene da fuori, da un altrove, è una figura di confine, ed è proprio questa sua caratteristica che lo abilita alla trasgressione dell’ordine dominante e a farsi interprete dei desideri nascosti delle società. Nel teatro comico gioca un ruolo importante il contrasto citta/campagna, centro/periferia, identico/diverso, da cui scaturisce la genesi psichica e culturale del riso. Sul riso quale elemento fondante del comico, si sofferma Lombardi Satriani, il quale ne analizza il significato simbolico per sottolineare come il comico apra alla sistematica irrisione dei 201 Q uaderni valori dominanti anche attraverso la funzione liberatoria del linguaggio, come si realizza nella pulcinellata. “Lo sciocco fa ridere perchè è figura liminare, perchè è figura marginale rispetto alla gerarchia dei ruoli: la figura dello sciocco, dello stolto, per un verso è colui che mette in scacco i valori dominanti, per un altro è figura portatrice di un altro ordine di valori”. In tale prospettiva, attraverso il riso, suscitato da Pulcinella, si afferma la irrinunciabile volontà di vivere e con essa l’ineludibile superiorità della vita nei confronti della morte, trascendendo la morte stessa. Attraverso il comico non solo si ribadisce pertanto la superiorità della vita sulla morte, ma si svelano anche le menzogne del quotidiano; alla figura dello sciocco è attribuita questa funzione disvelatoria, come pone in evidenza Antonino Buttitta, il quale nel suo contributo, che apre la I sezione del testo, si sofferma sulla figura del siciliano Giufà: “I personaggi comici e le situazioni comiche di fatto fanno emergere e esibiscono l’illogicità di quanto riteniamo razionale, l’anomalia di ciò che viviamo come normale, l’inganno consolatorio della menzogna del nostro quotidiano”. In questo senso allora acquisiscono un significato profondo non solo la figura del clown, ma anche la stupidità di Giufà e soprattutto la simulazione di alcune figure mitiche, le quali proprio attraverso la menzogna affermano la verità ultima dell’essere rispetto all’apparire. (p.33). Alle bipolarità già delineate dentro/fuori, vita/morte si aggiungono così le altre due: menzogna/verità, apparire/essere. I contributi che seguono, nel loro differente articolarsi, risultano accomunati da queste linee individuate. Si tratterà perciò in questa sede di tracciare il percorso del testo, poiché non si può fare menzione dei singoli saggi, se non in modo sommario e incompleto, data l’ampiezza delle tematiche affrontate. Il volume è diviso in cinque sezioni, nella prima, Burloni nel mondo, il tema dell’eroe comico è affrontato ponendone in evidenza l’universalità e illustrando gli ampi connotati del comico, che 202 non possono essere circoscritti territorialmente; infatti, le affinità presenti nelle figure del buffone o del trickster manifestano dei caratteri che vanno al di là delle influenze e delle specificità storiche. In questo contesto particolarmente significativi sono i due saggi dedicati alla figura del personaggio iraniano Pahlavān kačal: Nascita, caratteri e presenza nei rituali, nella letteratura e nelle arti dello spettacolo del personaggio Pahlavān kačal di Hamid Reza Ardalan, Università di Teheran e La tradizione di Pahlavān kačal e Mobarak nei burattini e nelle marionette popolari in Iran di Poupak Azimpour Ardalan, Università di Teheran. Il comico, per le esigenze di carattere universale a cui soddisfa, si pone al di fuori delle coordinate spazio-temporali della civiltà occidentale, come dimostra la presenza di figure comiche o di trickster in altri continenti, con caratterizzazioni che risentono dell’apporto di specifiche tradizioni culturali, come molti saggi evidenziano, tra i quali, Gli eroi comici nel Mamulengo brasiliano: Simao, Benedito e Cassimiro Coco di Izabela Costa Brochado, Università di Brasilia (Brasile); o Paralleli, confronti e contatti tra Pulcinella e il mondo delle maschere coreane di Kim Mun Young, Università di Daegu (Corea) o Chapayekas y Pascolas. Imagenes del trickster entre los yoemem de Sonora, Mexico di Maria Eugenia Olavarria, U.A.M. di Città del Messico. Nella II sezione del testo Pulcinelli euromediterranei i saggi delineano la presenza dell’eroe comico nella tradizione delle maschere e del teatro italiano ed europeo, attraverso la individuazione di figure nelle quali sono evidenti i rapporti e le influenze con la maschera di Pulcinella, come nel caso del francese Polichinelle o dell’inglese Punch (cfr. Punch di Cruikshank e di Collier di Anna Maria Musilli, Università di Salerno), figure che attestano dei legami consolidatisi o attraverso la Commedia dell’Arte o il teatro di figure itinerante, o attraverso altri personaggi comici presenti nei Carnevali e nelle tradizioni orali. (cfr. Giangurgulo calabrese di Ottavio Cavalcanti, Università della Calabria e Animare un inanimato antropologia e storia fantoccio. I ruoli di Pulcinella nel teatro di figura meridionale di Alberto Baldi, Università di Napoli Federico II). Si delinea così un’area euro-mediterranea riconducibile a un comune archetipo di tipo pulcinellesco, nella quale può essere compresa anche la maschera dell’iraniano Pahlavān kačal, a testimoniare della circolazione culturale di temi e motivi tra Europa, Nord Africa e Medio Oriente. Nella III sezione: Metamorfosi odierne del trickster, è affrontata in modo originale questa figura attualizzandola, e considerando come sia presente non solo nell’immaginario fiabesco, ma anche nei media della contemporaneità e in figure come Shrek o Joker (cfr. Il trickster e l’infinito. Un esempio rom di Leonardo Piasere, Università di Verona e Joker, ovvero il riso perverso di Annalisa Di Nuzzo, Università di Salerno). In particolare è analizzato come la figura del trickster in tempi dominati dall’antipolitica possa assumere nuove valenze sino a esercitare un’influenza profonda nel rapporto dei cittadini con la politica, come dimostra il moltiplicarsi di comici prestati alla politica e di politici che attraverso comportamenti comici si presentano come violatori di tabù e con questi atteggiamenti ritengono di manifestare la loro vicinanza al popolo. (Cfr. Berlusconi as trickster di Francesco Bruno, Università di Salerno e Un trickster contro: Beppe Grillo di Patrizia Del Barone, Università di Salerno). Nella IV sezione Radici del comico risalta come il comico, per le esigenze di carattere universale a cui risponde, sia presente sin nei testi sacri (Biblia ridens. Il comico nelle Sacre Scritture di Angelomichele De Spirito, università di Salerno) e in quelli dell’antichità: se ne possono, infatti, individuare tracce nella cultura italica preromana e delineare percorsi ed esiti in prodotti letterari e teatrali che attraversano la tradizione medievale, il mimo, l’opera buffa napoletana, sino alla maschera moderna. Nella V sezione La città divisa l’analisi ritorna su Napoli e la figura di Pulcinella, ma dopo questo lungo viaggio la connotazione locale del- / 2 – comicità e politica la maschera trova una nuova luce. Infatti è dopo aver subito un processo di sprovincializzazione, che la maschera viene ad acquisire un rinnovato spessore etnico e si può analizzare come questo personaggio sia divenuto oggetto di investimento emotivo e di immedesimazione, da parte del popolo napoletano, ma anche di profonda ambivalenza e di negazione, in un’oscillazione di modelli di napoletanità negativa e/o positiva. L’oggettistica è un ambito molto interessante per individuare il modo in cui i napoletani raffigurano Pulcinella, indulgendo tra stereotipi e temi innovativi (Nel distretto dei Pulcinella: la maschera e l’immagine di Napoli, di Gianfranca Ranisio, Università di Napoli Federico II). A questo proposito Gian Luigi Bravo (Pulcinella in mostra) illustra la ricognizione con finalità didattiche che ha operato delle sfaccettature materiali e immateriali di Pulcinella, così come si manifesta nel presente, nelle sue espressioni teatrali, figurative e nell’oggettistica. La postfazione di Simona De Luna riprende le ipotesi teoriche sulla genesi della figura, le ridiscute ricollegandosi alle teorie di Dieterich, e alla psicoanalisi di Jones, soffermandosi sulla teoria del briccone divino di Kerenyi, Radin e Jung, sino ai più recenti studi di Fontana. Questi, da artista, attraverso l’intuizione, giunge a descrivere Pulcinella come l’anima segreta della società italiana, riportando dentro l’analisi l’esperienza del vissuto, da cui la visione archetipica della psicoanalisi si era distaccata, ridando così uno spessore etnico alla maschera, tuttavia, questa interpretazione, per quanto suggestiva, rischia di operare delle semplificazioni, come sottolinea l’antropologa, riproponendo così la tesi iniziale dell’universalità dell’eroe comico. In questo modo le tematiche affrontate nella postfazione si ricollegano a quelle che erano le prospettive teoriche iniziali, che appaiono convalidate e confermate dai saggi presentati nel volume. Per questi motivi questo volume rappresenta una tappa fondamentale nella riflessione teorica sull’eroe comico e su Pulcinella quale prototipo dell’eroe comico, così come si è venuto a conno- 203 Q uaderni tare in un determinato contesto storico-culturale. In questo modo e secondo tale prospettiva si viene a creare una continuità tra queste elaborazioni teoriche e le manifestazioni attualmente in corso per la candidatura della maschera di Pulcinella, nella lista dei Beni culturali Immateriali protetti dall’Unesco. Gianfranca Ranisio G. Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li ragazzi, Roma, Nottetempo, 2016. Indifferente agli orientamenti degli studi, che negli ultimi lustri hanno rinnovato la percezione intellettuale di Pulcinella e delle figure similari, il filosofo Giorgio Agamben identifica l’eroe comico con il messaggero che, seduto sulle macerie di un mondo, annuncia l’avvento di una nuova stagione della storia umana. Il motivo è antico, anche se ora lo vediamo ritornare nella saggistica filosofica, con esplicito riferimento a Pulcinella. Lo aveva enunciato già più di mezzo secolo fa un grande filosofo-mitologo come Kerényi, a proposito dell’ambivalenza incarnata dal trickster e riproposta nel suo sdoppiamento nelle due figure che egli ricompone al di là del tempo e della storia, il greco Ermes e l’amerindo Wakdjunkaga: entrambi partecipano della natura fallica e di quella di psicopompo e guida dell’anima: ma ”I bricconeschi giochi di Ermes con la morte nell’ambito dello spettrale sono una cosa, e la sua funzione tranquillizzante di guida dell’anima sono un’altra cosa. Un dio rappresenta l’origine di un mondo, e il mondo significa ordine. Ermes apre le vie, Walkdjuncaga l’eterna scena fliacica in mezzo alle strutture in mutamento delle civiltà in fase di estinzione”. Marx aveva già preparato tutti alla giusta comprensione di quest’idea che i pensatori sembrano aver rubata ai poeti, che per riconoscimento unanime hanno il dono della preveggenza: “L’ultima fase di una forma storica è la sua commedia. Gli dei della Grecia, che già una volta erano stati tragicamente feriti a morte nell’opera di Eschilo, dovettero una se- 204 conda volta morire comicamente nei dialoghi di Luciano. Perché questo corso della storia? Perché l’umanità si separi gioiosamente dal suo passato” (K. Marx, Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel). È più di un secolo che l’alta cultura occidentale si confronta con Pulcinella (o con quello che essa immagina di Pulcinella), per strappargli il segreto della vita e il senso della morte. Si può anche essere scettici sull’attendibilità di alcune analisi più recenti, spesso seducenti, seppure incerte tra la fascinazione del profondo e la levità del divertissement, tra la riscrittura e la contraffazione, l’immedesimazione e l’involontaria parodia, tra il logorroico (pulcinellesco) argomentare sul vuoto e prevaricazione dell’autobiografismo associato alla disinformazione (inevitabile, se si pensa che il confronto dovrebbe essere – ma non lo è stato quasi mai – con più di quattro secoli di storia della pulcinellata napoletana, italiana ed europea, e la conoscenza almeno in casi come questo non si costruisce soltanto sulla base di sintomi e campioni ridottissimi). Intanto, non si può non riconoscere che, per essere fatto oggetto di tanta attenzione, qualche merito, oltre quello di ispiratore, il Pulcinella reale deve averlo avuto. Specie quando di lui si sono occupati uomini di scienza e di pensiero che hanno fatto la cultura europea degli ultimi due secoli: Croce, Freud, Jones, Jung, Lacan. Ma poi, come dissentire del tutto da questo modo di leggere Pulcinella, se la contaminazione con l’oggetto di studio non è solo un buio “essere afferrati”, perché aggiunge alla riflessione su quello che la maschera ha rappresentato, l’esperienza del vissuto personale e la possibilità di conoscere la vita con la vita? Anche se questo non basta a distrarci dal fatto che le riflessioni dell’autore sembrano fondarsi quasi esclusivamente sulla conoscenza di un’unica opera, che non appartiene neppure al teatro di Pulcinella (che, insieme al Carnevale, è la vera casa della maschera napoletana), ma alla storia dell’arte che si è ispirata a Pulcinella, ossia al ciclo dei disegni che Domenico Tiepolo gli ha dedicato. antropologia e storia Si legge nel risvolto della prima pagina di copertina che, “come Tiepolo alla fine della sua vita, così Agamben sembra annodare nella figura enigmatica di Pulcinella i vari fili del suo pensiero in una sorta di immaginaria autobiografia filosofica”. Non so quanto del pensiero di Agamben ci sia nel volumetto (a parte – per sua esplicita ammissione – le preoccupazioni dell’incipiente, minacciosa vecchiaia e le delusioni dei quattro amici al bar / che volevano cambiare il mondo), ma so con certezza che di quello di Pulcinella c’è poco, o, per lo meno, poco di nuovo, rispetto ai luoghi comuni più scontati, ma rispetto soprattutto alle molte sorprese che una lettura rigorosa e amorevole di oltre un migliaio di testi (“pulcinellate” di ogni genere) ancora può riservarci. La lunga vita della maschera napoletana si conosce attraverso i testi della sua storia teatrale, disseminati e dispersi in numerose biblioteche italiane dal Seicento ai nostri giorni e attraverso quello che rimane, ancora vivo, delle innumerevoli rappresentazioni teatrali e carnevalesche degli stessi secoli. Di tutto questo non c’è traccia nello scritto del filosofo Agamben. Ci sono invece poche e brevi sequenze testuali che non sono estrapolate dai testi pulcinelleschi, ma risultano scritte in italiano dallo stesso autore del volumetto e poi tradotte in napoletano da un sodale. Il Pulcinella di Agamben viene quasi esclusivamente dalle tavole di Tiepolo. Ma i disegni di Tiepolo rimangono un enigma, se non si ricostruisce intorno a loro (ma anche intorno all’intera presenza di Pulcinella nella cultura e nella vita di piazza della Venezia del tempo) il contesto etnografico, di cui sono totalmente privi, e se non si possiedono altre informazioni storiche necessarie per interpretarli, il che significa che un approccio al “Divertimento” di Tiepolo implica una conoscenza approfondita dell’universo pulcinellesco e della sua densità realistica e simbolica. Gli studi storici almeno sono approdati a qualche buon risultato, di cui il filosofo si è servito per istituire la connessione della genesi dei disegni con l’infamia di Campoformio, che fornisce un prezioso sup- / 2 – comicità e politica porto alla sua tesi secondo cui Pulcinella compare o sopravvive alla fine di un mondo. Il problema allora è esattamente questo: si conosce il Tiepolo del “Divertimento”, se si conosce Pulcinella, in caso contrario si finisce con l’inventare l’uno e l’altro. Il filosofo ha appreso alcune notizie dalla saggistica pulcinellesca, che, a giudicare anche dalle opere elencate nella sua bibliografia, conosce (e riconosce) in minima parte, col risultato di avventurarsi senza le dovute conoscenze e competenze in un mondo complesso, di cui non possiede le chiavi di lettura. Lo dimostrano alcuni errori clamorosi, che anche un conoscitore superficiale della maschera napoletana avrebbe evitato: che il “camiciotto” bianco indossato dalla maschera significhi che Pulcinella non ha avuto un passato (p. 13) non trova nessuna conferma nelle tradizioni pulcinellesche; che di Pulcinella non si veda il sorriso per via della maschera (p. 13) è una clamorosa sciocchezza, perché la maschera nera (il “lupo”) copre il viso fin sotto il naso, ma lascia scoperta la bocca, che è in grado di esprimere – lo ha dimostrato De Filippo in uno splendido filmato – non solo il sorriso, ma anche il pianto, la rabbia, la minaccia, la fame. Come se non bastasse, l’autore arriva a correggere Benedetto Croce, che era anch’egli filosofo (come era storico, letterato, filologo ecc.), ma queste cose le conosceva: “la descrizione è inesatta: in verità il coppolone non è a punta, ma è un cono mozzato” (p. 58). Invece la descrizione di Croce è esattissima, perché il coppolone rigido tronco dell’apice è lo sviluppo di una tipologia veneto-germanica di coppolone, forse influenzato dal Pulcinella Coleçon, venuto a Venezia dalla Francia nei primi anni del Settecento, ed è raro nel resto delle regioni italiane. Ma gli azzardi non finiscono qui. Il filosofo scrive che “il gesto dell’attore moderno che, come Eduardo De Filippo, dopo aver recitato la sua parte, si toglie la maschera o la fa risalire sulla fronte è, per Pulcinella, semplicemente impossibile” (p. 61). In realtà, la tradizione rigorosamente da sempre pretende, al contrario, che gli 205 Q uaderni attori si mostrino al pubblico col vero volto, una volta finita la commedia: alla fine di ciascun atto o a scena aperta, al momento del ringraziamento o del congedo, l’attore avanzando al proscenio “si toglie il cappello col consueto inchino e solo allora, al grido immancabile maschera, maschera, che viene dalla platea, egli afferra il lupo per il naso e lo lascia adagiare sulla calotta nera che riveste il cranio, su ci è fissato da apposite molle”. Al filosofo è sfuggita la complessità del gesto di De Filippo, il quale pone fine a questo rituale, perché nella sua ottica la maschera, anacronistica menzogna, non ha più diritto all’esistenza teatrale. Infatti egli “ad applauso esaurito, invece di abbassarla per entrare poi nella finzione scenica, se la toglie completamente come per liberarsi di un oggetto che gli dà fastidio” (Andersen 1931, p. 249). Altre volte si dice che Pulcinella viene processato e condannato nella descrizione di un carnevale conservata in “un manoscritto di una farsa calabrese” (p. 67). In realtà la notizia si trova non in un manoscritto, ma in un libretto del folklorista Lumini, anche se il filosofo l’ha attinta da qualche citazione. Infine si legge nel volumetto che Pulcinella è “apolide” perché “senza città” (p. 72), laddove la maschera ha una città, Napoli, di cui è diventato simbolo nella coscienza propria e di tutta l’Europa (ne ha anche un’altra, Acerra, ma questa è un’altra storia). Ci fermiamo qui – ma potremmo continuare – perché già questi esempi ci sembrano sufficienti a dimostrare uno scarso dominio di una materia di cui l’autore del volumetto ha sottovalutato le difficoltà. Quanto poi al suo pensiero, che egli dichiara di condividere con Pulcinella, l’idea che sembra attraversare il libretto è che “nella vita degli uomini … la sola cosa importante è trovare una via d’uscita. Verso dove? Verso l’origine. Perché l’origine sta sempre nel mezzo, si dà solo come interruzione. E l’interruzione è una via d’uscita” (p. 45). Poco prima il filosofo aveva spiegato la parabasi della commedia antica come “un’interruzione o una deviazione”, ossia “un’interruzione in cui di colpo appariva l’origi- 206 ne … un’origine che si manifestava infrangendo o scompaginando … lo svolgimento scontato dell’azione” (p. 45). La parabasi infatti nella sua dotta spiegazione “significa l’atto di camminare di lato, deviare”. Ora, se la ricerca e la pratica della via d’uscita sta ad indicare la ricomposizione di “ciò che era in origine: Komos, un allegro, tumultuoso, insolente corteo dionisiaco” (p. 45), il fondamento concettuale di tanto sfoggio di raffinata quanto scontata erudizione non aggiunge nulla a quello che si è ripetuto da qualche secolo sulla natura dionisiaca dell’esperienza pulcinellesca. Altre volte però la via d’uscita sembra essere piuttosto la rinuncia all’azione, che sarebbe la sostanza politica della figura di Pulcinella. Secondo Agamben Pulcinella non è impolitico, perché questa è la sua politica, nell’impossibilità di agire altrimenti; egli “testimonia, ogni volta, che non si può agire l’azione né dire la parola – che, cioè, vivere la vita è impossibile e che questa impossibilità è il compito politico per eccellenza” (p. 72). Anche questo è un luogo comune delle letture che oggi si dànno della condizione umana della Napoli contemporanea esemplate nella figura di Pulcinella. Sinonimi della via d’uscita sono l’“uscita di emergenza” e la “fuga dal mondo” che si ritrovano, con un ben altro senso della frealtà, nelle opere di Manlio Santanelli, autore dell’ultima, importante pulcinellata contemporanea: “I tempi, adesso, sono diventati troppo duri, di una durezza incontrastabile. La fantasia non permette più di sognare la felicità o il riscatto; lascia solo la possibilità di coltivare le proprie frustrazioni” (“Poltronissima”, 12, p. 15). (D.S.) Domenico De Masi, Mappa mundi, Rizzoli, 2014 Anche se parte dalla ricognizione dei grandi modelli di civiltà che hanno fatto la storia del mondo, la preoccupazione del sociologo è quella di dare un senso al disagio, che è insieme paura e disorientamento, che stiamo vivendo in questi antropologia e storia anni corrosi da una crisi che sembra inarrestabile. Una crisi che scaturisce dal tramonto dei grandi sistemi teorici e politici degli anni più recenti. Se ci è consentita una delle principali semplificazioni del libro, il comunismo ha perduto, ma il capitalismo non ha vinto. Il comunismo sa distribuire ricchezza, ma non la sa produrre; il capitalismo produce ricchezza, ma non la sa distribuire. Conseguentemente il capitalismo accentra in poche mani i beni del pianeta, ma questo accentramento produce il crollo dei consumi, provocando la crisi che sta cambiando le condizioni di vita in tutto il mondo. Il problema centrale per lo studioso è l’assenza di un nuovo modello organizzativo. Esso deve partire dalla necessità di ridurre le disuguaglianze, la sola precondizione perché si possa realizzare una inversione di tendenza. Tendenza che De Masi, nonostante il suo ottimismo di fondo, descrive in questi termini: nella società postindustriale, in cui il lavoro materiale è affidato alle macchine, si sono create le condizioni per sviluppare il lavoro creativo, che a sua volta creerà le risorse per una umanità finalmente affrancata dal lavoro e capace di realizzare l’aspirazione alla felicità collettiva. In realtà nelle condizioni attuali e in quelle che si vanno delineando il lavoro creativo è una prerogativa per poche persone, mentre si va formando una massa sterminata di senza lavoro, spesso notevolmente acculturata, soprattutto nell’informatica e nelle lingue, che tuttavia non è né borghesia, né proletariato, né sottoproletariato, e il cui futuro è drammaticamente a rischio. Come uscire allora dalla crisi? De Masi condivide la teoria che attribuisce la causa del disastro alla decadenza delle rappresentanze, alla inadeguatezza e alla corruzione del ceto politico, ma aggiunge un elemento di novità che possiamo dire inedito: i politici hanno fallito, perché gli intellettuali non hanno fornito alla politica delle basi teoriche capaci di cogliere il senso delle trasformazioni, ed elaborare una nuova progettazione, un nuovo modello di vita, come è avvenuto nel passato: De Masi individua alle spalle dei grandi modelli di società dei secoli precedenti le idee e / 2 – comicità e politica le elaborazioni teoriche di grandi intellettuali che hanno orientato la storia, con il loro pensiero e spesso col sacrificio della loro vita; laddove nel pensiero “liquido” o “debole” dei nostri giorni egli individua una confusa frammentazione, che impedisce una visione critica della realtà e ostacola la progettazione di nuovi modelli di società. Questa ci è sembrata l’ossatura etico-politica dell’analisi, che attraversa la ricca e densa rassegna dei modelli di vita che la storia del pianeta consente di registrare, quindici dei quali vengono da De Masi analizzati con un lavoro, che unisce il rigore e la compiutezza dell’analisi al colpo d’occhio dello scrittore che opera sintesi limpide, efficaci e coinvolgenti. Lo scopo di questa ricognizione è capire come i vari popoli hanno dato una risposta al bisogno universale e legittimo di felicità collettiva, analizzare i mezzi e le risorse con cui hanno organizzato la loro società, le soluzioni che hanno saputo trovare, per scartare la parte obsoleta del loro modo di stare al mondo e far tesoro dei risultati positivi che hanno conseguito: con questi elementi accuratamente selezionati gli intellettuali, nell’auspicio di De Masi, elaboreranno un modello nuovo, finalmente capace di assicurare il diritto di tutti alla felicità. Il mondo nuovo che De Masi vorrebbe realizzare, è quello che si desume dalle sue domande, alle quali egli stesso risponde, mescolando scienza e utopia, lucidità e passione, verità e bellezza: “Come vincere il dolore, la malattia, la morte? Come debellare la miseria e la fatica? Come eliminare l’ignoranza, la noia, la solitudine? Come liberarsi dai lacci della tradizione e dalla violenza dell’autoritarismo? Come ingentilire la rozzezza e abbellire la bruttezza? Anna Maria Musilli “Il Bruzio” di Vincenzo Padula, nuova ristampa anastatica, Cosenza, Rubbettino, 2011. Una delle opere alle quali maggiormente è legata la fama di Vincenzo Padula è Il Bruzio, foglio bisettimanale uscito nel biennio 1864/65, ideato, 207 Q uaderni curato e scritto quasi interamente dall’antropologo calabrese. L’edizione che qui viene presentata, con saggi introduttivi di Giuseppe Galasso, Luigi Maria Lombardi Satriani e Domenico Scafoglio, è stata pubblicata dall’editore Rubbettino di Soveria Mannelli nel 2011, con il patrocinio della Fondazione Vincenzo Padula. Non si tratta di un’edizione critica, bensì di una ristampa anastatica, che tuttavia offre due strumenti di notevole importanza per lo studioso di cose paduliane: un indice dei nomi e un repertorio completo degli argomenti trattati nel Bruzio. Entrambi questi apparati sono a cura di Domenico Scafoglio, tra i maggiori esperti dell’opera di Padula. La ristampa anastatica di tutti i numeri de Il Bruzio esce non casualmente in concomitanza con il centocinquantesimo anniversario dell’unificazione nazionale italiana. Con questo giornale, infatti, Padula intendeva dare il suo contributo politico e intellettuale al consolidamento del neonato Stato unitario: pubblicato con il supporto, più o meno esplicito, dell’allora prefetto di Cosenza, Guicciardi, Il Bruzio doveva avere, nelle intenzioni del suo ideatore, il compito di stimolare una politica di rinnovamento e di riforma utile a far uscire la Calabria e il Mezzogiorno dalla loro condizione di miseria atavica. Proprio perché il fine del giornale era lato sensu politico, lo sforzo di Padula non fu di carattere meramente conoscitivo e/o intellettuale; allo stesso modo, tuttavia, non bisogna pensare che si trattasse di uno sforzo politico in un senso riduttivo: il progetto di riforma sociale immaginato da Padula doveva infatti basarsi su un’indagine conoscitiva di alto livello, capace di produrre una visione della cultura e dell’economia del territorio di una complessità tale da non poter essere, semplicemente, schiacciata sulle politiche del governo. La ristampa de Il Bruzio, come si diceva in apertura, è preceduta dai saggi critici di Giuseppe Galasso, Luigi Maria Lombardi Satriani e Domenico Scafoglio. Val la pena ripercorrere brevemente questi tre saggi, perché essi, ciascuno dal suo peculiare punto di vista, restituiscono il 208 senso, non esclusivamente filologico, dell’impresa di una ripubblicazione del periodico curato da Padula. Il saggio di Galasso, intitolato Padula: «Il Bruzio» (pp. 7-21), tenta di ricostruire il quadro storico nel quale si inserisce il lavoro di Padula. Lo scopo fondamentale perseguito da Padula con la pubblicazione de Il Bruzio sarebbe stato definire i problemi economici e sociali dell’Italia meridionale nell’ambito del nuovo Stato nazionale. Ciò porta subito l’autore a sottolineare la vicinanza di Padula alla politica seguita dal prefetto di Cosenza, Guicciardi, e dunque la sua contiguità al progetto politico e culturale della destra al governo, che non fu comunque mai tale da provocarne una perdita di indipendenza e di autonomia di giudizio rispetto alle scelte del governo. Il Bruzio poteva configurarsi, sotto questo riguardo, come un ‘giornale delle buone cause’, a prescindere dalle etichette – progressismo, conservatorismo e quant’altro – sotto le quali potessero essere rubricate le iniziative politiche sostenute dal periodico. Proprio perché intenzionato a promuovere una concreta azione di carattere politico-culturale, Il Bruzio fu, certo, un giornale politicamente schierato, e tuttavia non fu soltanto questo, giacché suo fine ultimo era quello di essere una sentinella per contrastare l’arbitrio del potere nonché di costituire uno stimolo per la rinascita civica della Calabria e del Meridione: si avrebbe qui a che fare, dunque, con una concezione pienamente moderna del giornalismo, inteso come luogo di costruzione della pubblica opinione e della coscienza civica. Per questo suo carattere di ‘giornale delle buone cause’, osserva Galasso, il Bruzio non ha una vera e propria struttura tematica, ogni tema essendovi trattato in maniera discontinua ed irregolare, anche se ciò non toglie che vi si possano ritrovare nuclei tematici ricorrenti: la politica interna ed internazionale, la questione ecclesiastica, le condizioni socioeconomiche della Calabria, la parte letteraria, contenente le poesie e le prose dell’acrese. In definitiva, Il Bruzio fu «un giornale notevole per i suoi numeri tecnici e professionali antropologia e storia nel quadro non solo di un giornalismo minore o provinciale» (pag. 15). Galasso tratta, infine, dei motivi che condussero alla chiusura de Il Bruzio, proponendo una serie di osservazioni e di congetture (motivi economici, interessi personali e locali di cui non abbiamo contezza, il mancato sostegno della Prefettura, ormai meno interessata a sostenere un giornale che le aveva procurato, in definitiva, più problemi che vantaggi), nessuna delle quali pare però potersi ritenere dirimente la questione. Il saggio si chiude (pp. 19-21) con una sorta di ritratto delle idee politiche, religiose, economiche, morali del Padula. Il saggio di Luigi Maria Lombardi Satriani, dal titolo Miseria e bellezza: lo sguardo antropologico di Vincenzo Padula (pp. 23-29), si concentra sul Padula demologo, ascrivendo a merito dell’abate calabrese l’avere, per primo, rilevato come il mondo popolare non fosse un blocco monolitico, bensì un insieme al suo interno complesso, che va colto nelle sue numerose articolazioni, elencando i mestieri, descrivendo analiticamente le consuetudini, l’alimentazione, il bestiame. Questo sforzo conoscitivo non aveva solo una valenza classificatoria e tassonomica, ma era, piuttosto, propedeutico ad una comprensione profonda del mondo popolare, che non può aver luogo senza una indagine insieme di carattere sociologico ed antropologico, nella quale includere perfino argomenti insoliti o ‘scottanti’ per la morale del tempo, come, per esempio, quello dell’eros popolare. Ed è proprio questa conoscenza approfondita, con il quadro ‘realistico’ che ne deriva, del mondo popolare, a costituire la base per il riformismo politico di Padula, ben consapevole che solo un miglioramento delle misere condizioni di vita delle campagne avrebbe potuto dar luogo ad un autentico progresso civile e morale della Calabria. La cifra complessiva del pensiero di Padula sarebbe, dunque, la «libertà di pensiero, l’accettazione di qualsiasi avventura intellettuale ovunque essa possa condurre» (pag. 29), tanto che tutta la sua opera avrebbe un carica ‘eretica’. Ciò spiegherebbe anche la sua difficoltà ad essere / 2 – comicità e politica ‘assimilata’ dalla demologia e dal meridionalismo successivi, con l’eccezione – notevole – di Giustino Fortunato, tra i pochi a riconoscere il suo debito nei confronti dell’antropologo calabrese. Tale situazione non impedisce, tuttavia, a Lombardi Satriani di mostrare come l’opera di Padula si inscrivesse in un clima nel quale trovarono origine operazioni culturali che si muovevano nella medesima direzione, quali quelle di Francesco de Boucard, Renato Fucini, dei fratelli Mastriani. Il saggio di Domenico Scafoglio (Gli scritti demoantropologici, pp. 31-58) si presenta come il più consistente dei tre, non solo dal punto di vista quantitativo, ma anche perché è l’unico a disegnare a tutto tondo la figura del Padula intellettuale e politico. Scafoglio mostra come gli interessi demologici di Padula risalissero agli inizi della sua produzione intellettuale, e come essi avessero rappresentato, per molti anni, il file rouge della sua ricerca e del suo impegno politico. Sotto questo punto di vista, l’opera di Padula negli anni de Il Bruzio segnò un momento eccezionale della demologia italiana, «perché, per un verso, l’indagine paduliana sul mondo popolare si subordinò a un ambizioso progetto di rinnovamento civile e morale, per un altro verso l’impegno civile conferì alla ricerca demoantropologica un’ampiezza di prospettive e una tensione etico-politica che non avrebbe trovato riscontro negli studi demologici dei decenni successivi» (pag. 32). Il saggio di Scafoglio è poi anche quello che presenta la risposta più articolata relativamente ai motivi per i quali la battaglia de Il Bruzio si avviò al riflusso dopo il 1865: le cause andrebbero cercate nel fallimento di quel progetto riformista che Padula propugnava e che egli si era illuso di poter vedere realizzato grazie all’opera del prefetto Guicciardi. In realtà, il riformismo del demologo non trovava soverchie simpatie nel governo, che ormai, sulla questione demaniale, si andava sempre più orientando verso un accomodamento con i grandi possidenti e sempre meno verso la redistribuzione delle terre auspicata dal nostro. Inoltre, l’amministrazione procedeva 209 Q uaderni a tappe forzate verso un accentramento amministrativo al quale Padula non era favorevole. L’unificazione nazionale, dunque, non solo non risolveva gli atavici problemi delle campagne calabresi, ma anzi ne acuiva alcuni, per esempio quello del brigantaggio, da Padula visto come un prodotto della miseria, dell’oppressione dei ‘galantuomini’ nelle campagne e della pratica degli arresti facili: in un certo senso, il brigantaggio era una conseguenza di una guerra che «i ricchi facevano ai poveri e i reazionari al nuovo stato liberale» (pag. 43). Scafoglio mostra allora come il modello di Stato immaginato da Padula fosse fondato sulle autonomie comunali piuttosto che sull’accentramento dei poteri nelle mani dello Stato centrale; le unità fondamentali di questo tipo di Stato dovevano essere – più che le regioni – le province, quali realtà relativamente omogenee «per struttura, cultura e lingua» (pag. 46). Il saggio si chiude poi con un capitolo dedicato alla Socioantropologia dei mestieri e dei paesi, dove Scafoglio descrive con grande dovizia di particolari le analisi paduliane sui mestieri, gli usi, i costumi e le tradizioni della Calabria. I mestieri, in particolare, vengono indagati molto dettagliatamente, sia sotto un profilo socioeconomico che sotto un profilo socioculturale ed etnografico: ne vengono descritte tipologia, condizioni materiali del lavoro, condizioni di vita (alimentazione, casa), condizioni culturali e struttura familiare. Ne deriva un affresco variegato e dettagliato della realtà sociale dei paesi del cosentino, dove grande centralità acquista la lingua del popolo, che non solo è – vichianamente – poetica nella sua vitalità e immediatezza, ma è anche rivelativa di un certo ordine culturale e di una certa interpretazione del mondo vigente all’interno di una determinata comunità. Tutto questo forma l’‘indole’ della comunità, che Padula collega all’organizzazione sociale, talché l’analisi «tende a spostarsi […] dalle persone e dalle categorie sociali all’insieme dell’organizzazione del lavoro» (pag. 50). Queste osservazioni consentono a Padula di interessarsi anche all’aspetto dei vil- 210 laggi calabresi, delle case, dei paesi e delle terre: «Il taglio prevalente è storico-sociologico, con una attenzione alla dimensione simbolica dello spazio […] Una metodologia olistica, che induce a cercare relazioni significative perfino tra le narrazioni mitologiche e la forma delle dimore» (pag. 51). Il saggio di Scafoglio riesce, dunque, a trattare temi diversi, il cui filo conduttore sembra essere il legame posto da Padula tra conoscenza del territorio e delle identità locali e possibilità di varare politiche autenticamente riformiste: «Nei suoi scritti calabresi Padula aveva creato una felice sintesi di inchiesta sociale, indagine antropologica e tematiche meridionaliste, cui la dimensione operativa conferiva concretezza, forza e scottante attualità» (pag. 34). A queste ultime parole di Scafoglio chi scrive crede debba ricollegarsi il senso di una impresa editoriale come quella della riedizione de Il Bruzio. Il nesso, così lucidamente individuato da Padula, tra dimensione politica e dimensione conoscitiva diviene, infatti, attualissimo, quando si pensi alle divisioni che ancor oggi percorrono un paese come l’Italia che, dai tempi della sua unificazione, non ha ancora saputo elaborare una sintesi tale da consentire uno sviluppo economico e culturale omogeneo sull’intero territorio nazionale. La crisi attuale dello Stato/nazione, non solo in Italia, così come quella delle istituzioni sovranazionali (si pensi, in questo senso, alla crisi di consenso da cui sono investite, un po’ ovunque, le istituzioni europee) riporta perciò decisamente in auge la diagnosi paduliana, secondo la quale sarebbe stata opportuna la costituzione di una nazione di popoli e di uno Stato delle autonomie, piuttosto che quella di uno Stato accentratore, calibrato sul modello burocratico francese e bonapartista. L’aver posto, con intelligenza e tempismo, questi temi sul tavolo, rappresenta, mi sembra, il merito principale di coloro che hanno reso possibile, con una nuova edizione de Il Bruzio, una più ampia circolazione delle idee innovative e, per certi versi, rivoluzionarie di Vincenzo Padula. Luigi Imperato Notiziario libri/eventi Reseña del V Congreso Internacional de Mitos Prehispánicos en la Literatura Latinoamericana El “V Congreso Internacional de Mitos Prehispánicos en la Literatura Latinoamericana. Reflejos del pasado: visiones multidisciplinarias” se celebró en Morelia, Michoacán, México, en los días del 4 al 7 de noviembre del 2015. El evento tuvo como sedes el Campus Morelia de la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM), y el Centro Cultural UNAM Morelia. En él se dieron cita más de cincuenta distinguidos investigadores de distintos países como Argentina, Brasil, Chile, España, Estados Unidos, Francia, Inglaterra, Perú, Suiza, entre otros. Las exposiciones se organizaron en cuatro conversatorios y tres conferencias magistrales, diez mesas de análisis, cuatro presentaciones de proyectos y cuatro eventos culturales. Entre las personalidades más prestigiadas que asistieron al evento estaban Jacques Galinier, Patrick Johansson, Alfredo López Austin, Luis Millones, Martin Lienhard, Oswaldo Chinchilla, Silvia Limón y Ástvaldur Ástvaldsson, entre otros. El Congreso se inauguró en presencia de las autoridades administrativas de las instituciones participantes y posteriormente se rindió un homenaje a Librado Silva Galeana, distinguido investigador de la cultura y la lengua náhuatl. En seguida tuvo lugar el primer conversatorio magistral, uno de los más esperados y con mayor audiencia, titulado Mitos del norte, mitos del sur. A continuación presentamos una breve reseña de esta charla y de algunas otras que tuvieron lugar en el Congreso. Cabe destacar que todos los conversatorios, las conferencias y las mesas se encuentran disponibles para su consulta en la dirección electrónica: http://lmo.culturaspopulares.org/congresomitos/memorias.php En el primer conversatorio magistral participaron Alfredo López Austin, investigador emérito del Instituto de Investigaciones Antropológicas de la UNAM, y Luis Millones, Catedrático de la Facultad de Ciencias Sociales de la Universidad Nacional Mayor de San Marcos, Perú. Como moderador participó el reconocido antropólogo Jacques Galinier, del Centre National de la Recherche Scientifique, en Francia, quien abrió la charla con palabras especiales dedicadas a la antropología y a la base fundamental de esta: la comparación. También alentó al público joven a aprovechar la reunión de los dos expositores, “dos personalidades, dos catedráticos, dos amigos que representan esos dos grandes polos de la civilización de las Américas: Norte y Sur”. Alfredo López Austin, el primero de los ponentes en hablar, puso sobre la mesa el tema de partida: la literatura contemporánea basada en la literatura oral de los pueblos andinos. Comenzó con una referencia a su libro Los mitos del tlacuache. Habló de las críticas que recibió por el papel que le dio a la literatura zapoteca, y de una pregunta problemática a la que se enfrentó: ¿cómo tomar la literatura indígena para reintegrarla a la literatura en español? Uno de los puntos fuertes durante todas sus intervenciones fue la distinción epistemológica entre la antropología y la literatura: el tratamiento distinto que cada una de estas 211 Q uaderni disciplinas da a sus datos, sus fuentes y referencias, y cómo cada cual se aproxima a la realidad de manera distinta. A decir de López, la literatura no se presenta como una fuente confiable para la ciencia. Sin embargo, en el caso especial de la poesía, ésta llega a dar luz sobre el mundo indígena, y nos conduce a una comprensión que, en su libertad, “se escapa al alcance de las perspectivas científicas”. En otras palabras, frente al discurso científico, sometido a continuas restricciones, se encuentra la libertad del discurso poético. Lo anterior lo ejemplificó con un cuento-mito sioux: los perros se reúnen en asamblea para decidir cuál de todos debe gobernarlos, y el método que escogen para hacer la selección es olfatearse las colas. Por otro lado, en la literatura oral de los nahuas Veracruz se cuenta lo siguiente: una asamblea de perros decide que para llevar un mensaje a Tláloc es necesario que el mensajero se lo guarde en el recto. Así lo hacen pero el mensaje nunca llega, y es por eso que los perros se huelen: están buscando al mensajero. El ejemplo más claro de que la literatura no es una fuente confiable de datos antropológicos, lo dio con una anécdota personal en la que se carteó con Eduardo Galeano. La conclusión fue tajante: “es algo que no se puede consignar en un trabajo científico”. El turno de hablar pasó a Luis Millones, que prosiguió con el tema en la mesa: los conflictos en las relaciones de la literatura y la antropología. Presentó el caso emblemático de tales conflictos personalizados en la figura de José María Arguedas, destacado autor latinoamericano del siglo XX. Millones narró al público cómo conoció a Arguedas durante un congreso, en el que este había tenido una participación literaria contrastante con el tenor teórico del evento. Luego de esto enfatizó: la oposición entre la literatura y la antropología, entre el trabajo poético y el científico, es la libertad de uno y las restricciones del otro. López Austin tomó la palabra nuevamente y discurrió sobre personalidades como Andrés Henestrosa, Miguel Ángel Asturias y Ricardo Pozas 212 Arciniega. Este último como caso contrario de los anteriores. Arciniega escribió una etnografía con importantes datos científicos, sin embargo, fue tomada por los lectores como una novela sin contemplar su valor científico. Sobre Henestrosa apuntó que en su literatura interpreta los mitos zapotecas en primer momento y al momento de traducirlos al español les añade sus propias palabras. A pesar de esto, las raíces del mito indígena se encuentran siempre presentes. Otra pregunta quedó abierta sobre la mesa: ¿cómo tomar las lecturas literarias que no proporcionan datos fiables a la antropología? Finalmente, los dos catedráticos cruzaron palabras sobre Arguedas y Juan Rulfo, enfatizando el tratamiento que cada uno daba a la información que recibía del mundo y qué hacía con ella. Palabras importantes de López Austin fueron las siguientes: “La antropología no es solo traducción de palabras, sino una traducción más allá de la lengua, de un pensamiento distinto, no con el fin de interpretarlo, sino de adaptarlo a otro público”. El etnólogo es un traductor, dice Austin, que lleva su conocimiento a un lenguaje productor de emociones dirigido a un público no indígena. Además, resalta, es una ilusión el tratar de penetrar el pensamiento indígena para trasladarlo tal cual a otro público. La conversación concluyó con varias preguntas por parte de los asistentes y una ola de aplausos para los ponentes. Posteriormente tanto el público como los expositores se trasladaron a las instalaciones de la Escuela Nacional de Estudios Superiores (ENES) dentro del Campus UNAM, para dar pie a la primera mesa de trabajo, de la que escribimos a continuación. Durante la primera mesa, titulada Creación y Destrucción, presentaron sus ponencias Élodie Dupey García e Ignacio Silva, de la UNAM, y Gloría Cáceres Centeno de la Universidad Michoacana de San Nicolás de Hidalgo (UMSNH). Por mencionar el contenido de una de las ponencias de la mesa, tomemos la de Dupey García, titulada Vientos de creación, vientos de destrucción: antropologia e storia el rol de los dioses del aire en las mitologías prehispánicas. Temas centrales de su exposición fueron los aspectos que adoptaba el viento y el lugar de este en las cosmovisiones nahuas de la época prehispánica. En primer lugar el viento es un fenómeno atmosférico importante que tiende a parecer activo, ya que genera el movimiento de nubes y cuerpos de agua. Es el agente dinámico principal de los sistemas meteorológicos y su importancia se refleja históricamente en las cosmovisiones de las sociedades humanas. Élodie partió de una cita de López Austin sobre el concepto de cosmovisión: “Es el sistema mediante el cual una entidad social en un tiempo histórico determinado aprende y se explica los mecanismos de su entorno y del universo, para luego actuar en forma específica en el mundo”. De este modo se entiende que el viento fue parte de la codificación de la naturaleza que constituye una de las facetas de las cosmovisiones mesoamericanas en particular. Fue también personificado en la cultura nahua como el dios Quetzalcóatl: “El viento, la guía, el que varía el camino para los tlaloque, para los dueños del agua, para los que traían la lluvia”. Así, el viento era una figura divina, poderosa y antropomorfa. Quetzalcóatl Ehécatl, según los documentos coloniales, tuvo un rol enfático y activo en los mitos de creación. Estuvieron a su cargo las génesis mayores del cielo, la tierra, el fuego y el maíz, y la humanidad, entre otras. Además propició la fertilidad femenina, separó el cielo de la tierra, generó el ciclo solar con su soplo divino, y promovió el culto a los dioses a través de la música. El influjo de la mitología nahua sobre la zona mesoamericana se percibe en la deidad mixteca Nueve Viento y en los dioses Bacabes mayas. Estas entidades míticas comparten rasgos característicos creadores: tienen la tarea de garantizar la estabilidad del cosmos, de sostener el cielo, y de propiciar las lluvias; al mismo tiempo son responsables de los cataclismos que periódicamente conducen el mundo a su destrucción. Resulta entonces que, en las cosmovisiones mesoamericanas, a las mi- / 2 – comicità e politica smas deidades a las que se les atribuía el génesis del universo, se las acusaba también de haber causado la destrucción del mismo. “Los dioses del aire mesoamericano eran concebidos como agentes que regían la marcha del cosmos. Más allá de su rol en la sucesión de las eras cósmicas, los dioses del aire desempeñaban un importante papel en el ciclo anual que veía la alternancia en las temporadas de lluvias y secas”. Además de las lluvias para los cultivos se les atribuían las sequías, el granizo y las tormentas. Finalmente, la investigación de Dupey invita a concebir el fenómeno del viento en la cosmogonía prehispánica como “el dinamizador del cosmos. Un papel que coincide con el dinamismo que en la naturaleza el viento confiere a los sistemas meteorológicos”. Durante ese primer día se presentaron otras dos mesas en las que participaron alrededor de diez ponentes más y una conferencia magistral impartida por Jacques Galinier. La jornada concluyó con un concierto de música tradicional purépecha y la degustación de comida típica mexicana. A continuación escribimos un poco sobre lo sucedido el segundo día del Congreso. En la segunda conferencia magistral, ocurrida por la mañana del segundo día del Congreso, se sentaron a la mesa Luis Millones como moderador y como ponente Oswaldo Chinchilla Mazariegos del Departament of Anthropology de la Universidad de Yale, EE.UU. El título de su conferencia fue Metáforas sexuales en el Popol Vuh. Chinchilla presentó un tema interesante de una forma clarificadora basándose en un análisis comparativo del Popol Vuh, documento de la literatura maya del siglo XVI, con varios relatos míticos de la región mesoamericana. El Popol Vuh, como muchas otras obras del periodo colonial mesoamericano, fue escrito, en alfabeto latino, con denotados esfuerzos para legitimar la jerarquía política de ciertos linajes indígenas. Además, sus autores también se esfor- 213 Q uaderni zaron en registrar narraciones pertenecientes a la antigua tradición precolombina, aunque finalmente el texto fue filtrado por los frailes dominicos de la región. Tras la pérdida del documento original, se cuenta actualmente como documento de origen la copia y traducción del siglo XVIII realizada por Fray Francisco Jiménez. Durante poco más de cincuenta minutos, el arqueólogo guatemalteco, leyó, citó y explicó para el público gran cantidad de ejemplos en diversos pasajes de la travesía de los gemelos, Hunahpú e Ixbalanqué, que habrían de convertirse en el Sol y la Luna. A modo de introducción a su charla, Chinchilla hizo mención del libro favorito de López Austin, Los mitos del tlacuache, ya que, a decir suyo, en este libro se describen los planteamientos nodales de la trama narrativa de los mitos mesoamericanos en particular, y de las mitologías mundiales en general: transgresión, muerte, descuartizamientos, fornicios e incestos. Todos estos actos conforman una conducta antisocial que finalmente contribuye al establecimiento del orden cosmogónico. Estos aspectos de la vida sexual no se manifiestan directamente en el Popol Vuh, de hecho “hay pocos contactos entre hombres y mujeres y no hay encuentros sexuales explícitos”; sin embargo, están presentes a través alusiones eróticas sutiles expresadas en metáforas compuestas con frases sencillas llenas de dobles sentidos. La afirmación de Chinchilla es que “muchas de las hazañas de los gemelos implican agresión sexual con significados profundos para el entendimiento de la cosmogénesis Quiché”. Resultado del análisis de Oswaldo Chinchilla, salta la vista el papel de la sexualidad femenina: se presenta en el documento con tonos oscuros, relacionada con el poder y como fuente de constantes riesgos para el hombre. Uno de los ejemplos más ilustrativos que ofreció fue el del enfrentamiento de los gemelos contra el monstruo Zipacná, anotado mucho antes por Dennis Tedlock en su traducción del Popol Vuh. El relato trata del 214 “forzudo que buscaba cangrejos durante el día y por las noches movía las montañas a cuestas. Para vencerlo los héroes confeccionaron un cangrejo falso, lo colocaron al fondo de una barranca y lo mostraron al goloso Zipacná”. Según Andrés Xiloj, un especialista ritual maya y colaborador de Tedlock, el cangrejo era una alusión a los órganos sexuales femeninos. Esto lo reafirmó Oswaldo al comparar la metáfora del Popol Vuh con la de una versión actual del mito en el pueblo de Cubulco, Guatemala. En esta versión el monstruo Zipac es derrotado por tres jóvenes mujeres que aceptan ser sus esposas a cambio de que él les alcance un cangrejo debajo de una gran roca. De tal manera lo enamoran y lo engañan que le amarran los pies al monstruo bajo pretexto de ayudarlo a salir de la barranca en que debe entrar. Así, señaló Chinchilla, se emparejan el apetito voraz de Zipac y su caída en la tentación sexual. Otro de los temas centrales en la exposición de Oswaldo fue la transposición entre lo moral, lo alimenticio y lo genital, tan común en Mesoamérica y el mundo: las relaciones entre el apetito sexual y el alimenticio, en especial el que a las frutas se refiere, son expresadas metafóricamente en varios relatos míticos. Las comparaciones prosiguieron con mitos de la región nahua y quiché, y con ellas Chinchilla dilucidó más casos de violación, incesto, castración e incluso el mito de la vagina dentada, presentes todos en el Popol Vuh. No es posible dar aquí una reseña completa de cada ponencia del Congreso, así que sirvan las anteriores como ejemplo de las bien logradas exposiciones que investigadores e investigadoras presentaron a lo largo de cuatro días. Casi para concluir, y solo como mínimo resumen, mencionamos algunos otros de los temas expuestos. En la primera conferencia magistral Jacques Galinier habló de las visiones sobre la creación del mundo y de las nociones de centro y periferia en la mitología otomí. En el tercer conversatorio antropologia e storia Martin Lienhard y Miguel Pastrana dialogaron sobre la intrínseca relación entre la historia y el mito. En la tercera conferencia magistral Patrick Johansson expuso cómo las marcas lingüísticas de ciertos códices prehispánicos develan las fases del mito del nacimiento de Huitzilopochtli, y de cómo estas se reflejan en la arquitectura mexica. Los demás temas abordados en las mesas de trabajo fueron desde los mitos y rituales en la literatura andina, hasta la mitología prehispánica subsistente en el arte y la literatura de autor, pasando por los estudios crítico-filosóficos y el análisis de las figuras animales, las femeninas y la importancia del paisaje en las construcciones míticas actuales. También se presentaron los proyectos académicos del Laboratorio Nacional de Materiales Orales (LANMO), y de la Revista de Literaturas Populares, ambos a cargo de profesores de la ENES Morelia. Engalanado cada noche con presentaciones teatrales, proyecciones de documentales o conciertos, el V Congreso Internacional de Mitos Prehispánicos en la Literatura Latinoamericana concluyó con la inauguración, en el Centro Cultural UNAM Morelia, de una exposición pictórica con el tema de los nahuales. Esta edición del Congreso fue posible gracias al arduo esfuerzo del Comité Organizador en el que participaron especialmente Berenice Granados Vázquez, Santiago Cortés Hernández, Sue Meneses Eternod, Cecilia López Ridaura, Félix Lerma Rodríguez y Mercedes Martínez González, todos ellos de la ENES Morelia, UNAM; gracias también al especial apoyo de los asistentes y becarios del LANMO. Otras instituciones participantes fueron la Facultad de Estudios Superiores Acatlán, UNAM; el Instituto de Investigaciones Filológicas, UNAM; el Instituto Nacional de Antropología e Historia; las Facultades de Historia y de Filosofía de la UMSNH; la Universidad Indígena Intercultural de Michoacán y la Universidad Autónoma de Querétaro. Por último, cabe añadir que la próxima sesión del Congreso Internacional de Mitos Prehispán- / 2 – comicità e politica icos en la Literatura Latinoamericana se celebrará en Roma, Italia, en fechas aún por decidir. Quetzal Mata Trejo Universidad Nacional Autónoma de México Escuela Nacional de Estudios Superiores, Unidad Morelia Presentazione del Pulcinella di D. Scafoglio e L.M. Lombardi Satriani Il filosofo Aldo Masullo ha presentato in Napoli, nell’atelier dello scultore Lello Esposito, che è anche l’elegante Museo dei suoi Pulcinelli, la seconda edizione dell’opera Pulcinella. Il mito e la storia di Scafoglio e Satriani, già pubblicata da Leonardo Mondadori nel 1992. La nuova edizione, fedele alla prima, voluta dall’editore Guida, presenta una introduzione di D. Scafoglio, che rende ragone del significato dell’opera alla luce della proposta di una antropologia del comico che si avvale degli strumenti delle scienze sociali oltre che della storia. Masullo ha illustrato i fondamenti teorici e metodologici del volume, concludendo con la lettura di un sua prosa filosofica, dedicata alla maschera napoletana. La presentazione è avvenuta all’interno della prima manifestazione pubblica a favore della candidatura della maschera di Pulcinella alla lista UNESCO dei beni immateriali. Presentazione degli Atti del Convegno sull’eroe popolare Nel 2008 l’Università di Salerno (Laboratorio antropologico DISUFF), in collaborazione con “La rete – Associazione per l’unificazione dei saperi antropologici, letterari e psicologici” ha organizzato nel Maschio angioino di Napoli il convegno L’eroe comico nell’area euromediterranea. Gli Atti del convegno, recentemente pubblicati dalla Libreriauniversitaria in una collana scientifica dell’Università di Salerno, sono stati presentati da Pietro Clemente e Vincenzo Padiglione nel Convento di S. Domenico, in occasione della seconda manifestazione per la candidatura di Pulcinella alla lista dei beni immateriali dell’UNESCO. 215 Revista de ciencias sociales y humanidades Inflexiones, órgano de la Unidad de Investigación sobre Representaciones Culturales y Sociales (UDIR), nace con el propósito de ofrecer a humanistas y científicos sociales una plataforma de diálogo y debate multidisciplinario sobre el ser humano y su sociedad, la cultura y su historia, desde perspectivas en que confluyan la reflexión teórica y el trabajo empírico. De publicación semestral, la revista busca convertirse en un foro estratégico para poner a prueba los conceptos rectores de las respectivas disciplinas y difundir los resultados de sus investigaciones. Se trataría, en conformidad con la metáfora que le presta nombre, de favorecer y acoger aquellos ensayos que constituyan un punto de cambio o que den cuenta del momento en que una trayectoria toma otra dirección. Dejar constancia de la pluralidad de enfoques, irreducibles a una matriz única, se encuentra, por lo tanto, entre sus objetivos principales. 216 Cómo se construyen representaciones que convergen en la emergencia de imaginarios sociales, horizontes en que se inscriben las ideas en torno a la identidad, constituye una de las preguntas que orientan estas páginas. “Representaciones” concentra, en ese sentido, tanto los sistemas de percepción y códigos compartidos que articulan nuestra vida, como aquellas estrategias que permiten traducir la realidad vivida en formas de experiencia, sean éstas de índole política, intelectual, social o cultural. La imagen del horizonte evoca igualmente un paisaje sonoro: pensamos las inflexiones no sólo como puntos en que las curvaturas cambian de dirección, sino también como instantes en que las voces varían. La revista se propone abrir así una serie de ventanas para asomarse, desde distintos ángulos, a las proyecciones y las resonancias que, al representarnos, nos construyen.