Vita e opere Thomas Hobbes nasce a Westport, in Inghilterra, nel 1588, e compie i propri studi a Oxford, dove ottiene il diploma in baccellerie delle arti, per diventare in seguito precettore presso il conte di Devonshire. La sua preparazione culturale non è però limitata all’ambiente accademico, ma accresciuta dai viaggi in Europa (a Pisa ebbe modo di conoscere Galilei) e dai contatti con i principali ambienti culturali dell’epoca, in particolar modo francese. Hobbes infatti, a seguito dei tumulti del 1640 che sfoceranno nella guerra civile inglese (1642-1651), si rifugia oltremanica e proprio a Parigi, grazie alla conoscenza di padre Marin Mersenne (1588-1648), riesce a far leggere a Cartesio (1596-1650) le sue Obiezioni alle Meditazioni metafisiche, ricoprendo così un ruolo assai significativo nel dibattito europeo sulla filosofia cartesiana. In questi anni (Hobbes rimarrà in Francia sino al 1651) il filosofo inglese si dedica soprattutto alle questioni politiche, lavorando al De cive (la cui prima edizione privata è del 1642) e al Leviatano (1651), considerato il suo capolavoro. Al rientro in patria, Hobbes si dedica al De corpore (1655) e al De homine (1658), che compongono con il De cive i suoi Elementi di filosofia. Negli anni successivi Hobbes è coinvolto in varie polemiche sull’interpretazione delle proprio opere - ricordiamo alcune accuse di eresia e la polemica con il vescovo John Bramhall sulla questione della corporeità divina - per poi spegnersi, ormai novantaduenne, nel 1679. La filosofia di Hobbes Il linguaggio e la conoscenza La filosofia hobbesiana, prendendo spunto dall’indagine meccanicistica e matematicogeometrica di René Descartes (1596-1650), Galileo Galilei (1564-1642) e Francesco Bacone (1561-1626), vuole fondare una filosofia su basi rigorose e razionali come quelle delle discipline scientifiche, attraverso il ricorso ad una “convenzione” che stabilisca il significato dei termini fondamentali utilizzati nel corso delle riflessione. Questa indagine razionale prende avvio dalla concezione nominalistica che Hobbes ha del linguaggio, per cui i nomi che l’uomo dà alle cose sono arbitrari ma necessari a coordinare tra loro le conoscenze desunte dalle sensazioni, organizzandole in classi più generali, utili per garantire la comunicazione tra gli esseri umani. Il linguaggio risulta così strettamente connesso per Hobbes al ragionamento e alla conoscenza, che viene distinta in: - conoscenza comune o originaria, che ha luogo a partire dall’esperienza sensibile dei fatti della realtà; la “memeoria” conserva le idee sensibili nella nostra mente attraverso le idee. - conoscenza scientifico-filosofica, che costituisce una razionalizzazione più precisa e certa delle conoscenze acquisite; la filosofia è tale quando permette all’uomo di capire e comprendere con rigore le cause e gli effetti dei fenomeni, come spiegato diffusamente nel De corpore. Il materialismo Da queste basi logico-linguistiche il ragionamento di Hobbes conduce ad un netto materialismo, per cui egli afferma che gli unici oggetti su cui si possa avere conoscenza sono quelli “generabili”, ovvero i corpi, gli oggetti estesi. Nella concezione hobbesiana quindi non si può pensare a un Dio né a uno spirito umano incorporei, difatti equivarrebbe a dire che non esistano. Allora sia gli oggetti che le sensazioni degli oggetti prodotte dagli organi di senso sono considerati movimenti, e anche l’immaginazione e il pensiero, in accordo con la sua teoria della conoscenza, sono fenomeni riconducibili al movimento, poiché sono generati dal radicamento delle immagini in idee attraverso i sensi. Il corpo è quindi l’unica realtà, mentre il movimento è la spiegazione più generale dei fenomeni naturali. La filosofia come scienza si deve quindi suddividere in: - filosofia prima, che deve indagare gli attributi dei corpi e i concetti utilizzati per comprenderne la genesi. - filosofia naturale, che indaga i corpi naturali. - filosofia civile, che indaga i corpi artificiali, quindi la società, e che è divisa a sua volta in etica e politica. Il materialismo hobbesiano si trasporta in tal modo dal piano teorico e scientifico al piano etico, ossia al piano di tutte quelle valutazioni morali determinate dall’esperienza e dalle condizioni dei singoli individui. Il succedersi di desideri nella mente dell’uomo e le decisioni che comportano delle conseguenze buone o cattive, fanno parte del processo di deliberazione. Questo processo si compie con l’atto della volontà di fare o non fare una determinata cosa: il bene è quinid ciò che giova all’individuo, il male ciò che gli provoca danno. Il desiderio non può mai essere del tutto gratificato, poiché a un desiderio e a un’azione compiuta se ne succederanno immediatamente di nuove: questo movimento è fondamentale per la vita umana e, anzi, la garantisce, poiché la cessazione del desiderio equivarrebbe alla cessazione della vita. Inoltre, la volontà stessa dipende strettamente da cause esterne, dovute alla totalità della natura, che lega i movimenti umani ai movimenti degli oggetti esterni. La filosofia politica: il “De Cive” e il “Leviatano” La filosofia politica di Thomas Hobbes è contenuta principalmente nella sua opera più celebre, Il Leviatano, ma altrettanto importante è la trattazione contenuta nella precedente trattazione, il De cive (o Il cittadino, 1642) e si fonda su due postulati, da cui si dipana l’intera trattazione: - Ogni uomo è affetto da una bramosia naturale che lo porta a voler godere da solo di quei beni che dovrebbero essere comuni. Per Hobbes, quindi, l’uomo è un animale mosso meccanicisticamente da pulsioni egoistiche. - Ogni uomo per natura ritiene la morte violenta il peggior male possibile e la sfugge in ogni modo; ovvero, in ogni uomo, sin dallo stato di natura, è insito l’impulso all’autoconservazione. L’uomo quindi per Hobbes non è un animale politico o sociale: infatti, pur necessitando dell’aiuto degli altri, l’uomo non possiede un amore naturale per il suo simile. L’associazione in gruppi nasce così dal timore reciproco o dal bisogno, non certo dalla benevolenza. Il timore scaturisce dall’uguaglianza naturale degli uomini, che li porta a desiderare le medesime cose, e dall’antagonismo che deriva dai contrasti e dall’insufficienza di beni. Dati questi presupposti (l’uguaglianza naturale e la volontà di nuocere al prossimo) lo stato di natura è uno stato di guerra di tutti contro tutti, continua e costante; Hobbes lo definisce, con una celebre formual latina, bellum omnium contra omnes. Non essendoci legge, nello stato di natura non vi è nemmeno una distinzione di giusto e ingiusto e ciascun uomo ha diritto su qualsiasi cosa (ovvero, lo ius omnium in omnia), compresa la vita degli altri. Ma siccome l’istinto naturale dell’uomo lo porta a fuggire il male più grande che può concepire, cioè lamorte violenta, e siccome lo stato di guerra continua non può che concludersi con ladistruzione dell’umanità, la ragione umana, dotata della capacità di imparare dall’esperienza e provvedere al futuro, suggerisce l’adozione delle leggi e del vivere civile. Per Hobbes, il primo di questi vincoli fondamentali è la legge naturale, ovverossia la proibizione di fare qualunque cosa provochi la distruzione della vita o l’impossibilità di avere i mezzi per conservarla al meglio. La legge naturale mira quindi a imporre all’uomo una disciplina che lo protegga dagli istinti antagonistici e che gli consenta di conseguire un miglioramento della propria vita (come del resto si prefigge di fare anche la filosofia). Da questi presupposti derivano tre legginaturali: - Conseguire la pace se ci sono i presupposti per ottenerla o, in caso contrario, prepararsi al meglio per la guerra; è un principio di natura utilistaristica. - Se è necessario al conseguimento della pace, rinunciare al diritto su tutto e avere tanta libertà quanta ne hanno gli altri rispetto a ciascuno. - Osservare la parola data. La seconda legge è quella che porta al passaggio dallo stato di natura allo stato civile, ovvero a quel patto sociale mediante cui gli uomini rinunciano al “diritto su tutto” (ius in omnia) dello stato di natura trasferendolo a terzi in modo tale che, con la sottomissione della volontà di tutti, si realizzi uno stato che si ponga a difesa per tutti. Questo trasferimento porta così alla costituzione dello Stato, o persona civile, che ingloba in sé la volontà di tutti e colui che lo rappresenta è il sovrano, di cui ogni altro cittadino è suddito 1. Hobbes diventa così il principale e più coerente teorico dell’assolutismo: il “patto” è irreversibile e unilaterale, in quantoil potere trasmesso al sovrano non può essere revocato dai cittadini, e il monarca non è sottoposto alla legge di natura, in quanto è lui stesso che legifera su ciò che si deve intendere per giusto o sbagliato.Il potere sovrano, inoltre, non è divisibile in poteri che si limitino vicendevolmente, poiché il loro accordo negherebbe la libertà dei cittadini e il disaccordo la guerra civile. Solo lo Stato può quindi distinguere il bene dal male, all’infuori di quei criteri particolari che ne dissolverebbero l’azione. Lo Stato quindi deve essere obbedito anche quando emette delle ordinanze rietenute ingiuste e si trova, sempre e in ogni caso, al di sopra della legge stessa, come il mostro biblico del Leviatano 2 che, con la sua immane potenza, incute soggezione ad ogni nemico: Questa è l’origine di quel grande Leviatano o per usare maggior rispetto, di quel Dio mortale al quale, dopo il Dio immortale, dobbiamo pace e difesa: giacché per l’autorità conferitagli da ogni singolo uomo della comunità, ha tanta forza e potere che può disciplinare, col terrore, la volontà di tutti in vista della pace interna e dell’aiuto scambievole contro i nemici esterni. L’assolutismo hobbesiano si riflette anche sui rapporti che devono intercorrere tra Stato e Chiesa; per Hobbes, infatti, potere statale e potere ecclesiastico coincidono, poiché non può esservi un’altra autorità indipendente rispetto al sovrano. Hobbes chiarisce la distinzione tra fede, che riguarda ogni singolo individuo nella sua intimità, e professione di fede, che riguarda gli atti formali esterni. Questi ultimi devono essere uniformati per garantire l’unità della Chiesa e, attraverso essa, dello Stato. 1 Gli unici atti che lo Stato non può comandare ai suoi cittadini sono quelli di ferire se stessi, di non difendersi, di autoaccusarsi o di non compiere tutte quelle azioni che sono necessarie alla vita. Per il resto il suddito ha un margine di libertà solo in quei casi che il Sovrano non ha regolato qualche aspetto mediante delle leggi. 2 Giobbe 40, 25; 41, 26.