SPECIMEN

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SAGGIO DI QUESTIONI FILOSOFICHE
ESTRATTE DALLA GIURISPRUDENZA
CON DIO
&
con la Concessione de’ Superiori
PROEMIO
N. 1. Affronto una materia davvero non facile e cui le mie forze sono inadeguate, e
tuttavia fruttuosa forse, in generale, e certo adatta a me che, avendo applicata la mente
alla giurisprudenza, dopo essere stato iniziato alla filosofia, mi rivolgevo ogni volta se
ne offrisse l’occasione ai primi interessi; e quello che proveniva da essi o era ad essi affine lo annotavo accuratamente. La considerazione di questo che vado ora costruendo,
gioverà a stornare nei dediti al Giure il disprezzo della Filosofia, se vedano che moltissimi luoghi del loro diritto, senza la guida di questa, sarebbero un labirinto inestricabile,
e che gli antichi iniziatori della loro scienza furono anche sommi sacerdoti della sapienza.
2. Certo è credibile che Ulpiano [l. 10 §. 2 D. de Justitia et Jure1] chiamasse la
Giurisprudenza cognizione delle cose divine e umane, ché senza la preliminare conoscenza di queste, giudicava non potersi assolvere il compito del Giurista né, di conseguenza, preparare alla conoscenza del giusto e dell’ingiusto. Non contento di questa gloria della Giurisprudenza, Lud. Malquytio (trattato de Vera Jurisconsultorum Philosophia), rifiutata la Filosofia, tentò di insediare quella sola sul trono della sapienza.
Maggiore prudenza usarono il Frisone Gioachino Hoppero nel suo Seduardo, e colui
che lo seguì e lo pubblicò, il sommo Herm. Conringio – sia nella prefazione [al Seduardo], sia altrove nel Propolitico e nel Liber de Prudentia Civili2 – i quali fecero anche della conoscenza del Giure una parte della sapienza, ma non al fine di svalutare con
ciò la Filosofia; il che alcuni interpreti del Giure alla l. I. §. I. de Justitia et Jure3 tentarono di fare con fin troppo zelo. Sembra tra gli altri un nemico giurato di Aristotele,
Fortunio Garcia Hispano (Letture su questo medesimo titolo).
3. Del resto, la scienza del Giure è, più per consuetudine che per natura, duplice:
una delle leggi, una dei Canoni. Da quest’ultima si potrebbero senza dubbio attingere,
versati da questa stessa, innumerevoli dogmi filosofici, perché i loro autori ed interpreti
erano fioriti nella Teologia monastica, che era tutta filosofica: donde anche l’Abate
Panormitano 4 pretendeva che la dottrina stessa del Diritto Civile fosse meramente
pratica, mentre quella del Diritto Canonico, per via delle moltissime speculazioni comprese in essa, fosse mista; e fu perciò confutato da quello stesso Garcia (trattato de fine
ultimo juris Canonici et Civilis, n. 48). Ma alla nostra disciplina sembrò più conveniente
il diritto Civile, per il fatto stesso che ivi, le speculazioni, son disseminate più parcamente.
1
D. 1.1.10.2
Libro della Prudenza Civile, ove ‘prudenza’ è da intendersi come ‘possesso delle nozioni pratiche del
viver civile’.
3
D. 1.1.1
4
Nicolò de’ Tedeschi (1386-1451), giurista canonista.
2
4. Né spero che qualcuno avanzi che le cose estranee alla Filosofia e da lasciarsi ai
Giuristi siano da noi messe su una cattedra non loro. Ma forse che tutte quelle cose che
si ritrovano nel corpo del giure saranno di pertinenza Giuridica? Non più di quanto siano Dogmi Teologici tutte le cose che lèggi nella Sacra Scrittura, nella quale sono contenuti i semi di tutte le discipline; come mostra, oltre ad innumerevoli altri (infatti anche
Athanasio Kircher affermava gli arcani di tutte le scienze esser tratti dalle Scritture,
ossia la Polypaedia Biblica), Gio. H. Altstedio nella Theologia naturalis e nella Logica Theologica. “Senza dubbio, dunque, come la Sacra Scrittura (secondo
l’attestazione di G. Sperlingio, Synopsis Physica, prooem. q. 6), così anche il Corpus
Juris è un libro aperto, non un sistema, dove chiunque può reperire e scegliere ciò che
più gli conviene”.
5. E in particolare scrittori di Filosofia pratica, come Liebenthalio, Arniseo,
Grozio, Olingero (di cui resta anche una Ortographia Legum) nell’Ethica Legalis,
Vincenzio Tortoreto nei Parallela Ethica et Juridica (ed., in quarto, Parigi 1629),
Bodensteinio nella Jurisprudentia politica, Ad. Keller [de officio Juridico-politico],
ed altri – per non parlare dei Cas(u)isti5 – trassero di lì a piena mano dei dogmi. Che vi
fossero comprese anche parecchie cose di Logica lo mostrarono Fr. Hottomanno con
le Institutiones Dialecticae, Gio. Freigius con la Logica Jurisconsultorum (il quale versò molte cose di diritto anche nella sua Physica), Martino Schickardo nella Logica
Juridica; Niccolò Vigelio, Matth. Stephani e Dan. Otto, ciascuno nella Dialectica Juris; inoltre Nic. Everhardo nei Loci Argumentorum Legalibus e nella Synopsis
Topicorum edita da Giorg. Adamo Brunner; ai quali s’aggiungerà non indebitamente il nostro Neldelio (p. V. del Pratum Philosoficum, o dell’applicazione della Logica
alla Giurisprudenza). Ma rarissime sono le cose che convengano alla Filosofia contemplativa. Quelle Fisiche le raccolse il Medico Romano Paolo Zachia nelle Quaestiones
Medico-Legales, ristampate in ottavo a Lipsia nel 1630; e alcune già da prima ne avevano osservate Martino Del -Rio nelle Disquisitiones Magicae e Battista Codronchio colla Methodus testificandi in quaestionibus Medico oblatis. Delle cose Metafisiche (se non in quanto si mescolano a quelle Logiche) e Matematiche, se togli quelle che
furono acutamente disputate dal Budeo e da altri nell’Asse et eius partibus, per quanto
io sappia non s’è occupato nessuno.
6. Elegantemente, dunque, Alberico Gentili scrisse nel liber de nuptiis (c. 8.
fin.): “Anche noi nei libri delle Leggi Giustinianee abbiamo le cose che sono soggetto e
fine non solo del diritto umano, ma anche di quello divino e di tutte le altre scienze”. E
acutamente osserva Ant. Fabro nel libro della Jurisprudentia Papinianea (3. conf. 2.):
“Come tutte le virtù sian contenute nella giustizia e tutte le scienze nella Giurisprudenza”. Vedi anche Mart. Del-Rio (libro I. dei principî del diritto)6, la gran parte della
cui opera non mancano quelli che dicono sia lavoro dello Hoppero, nonché Bened.
Winklero nel libello del medesimo argomento e specialmente nel Trattato FilosoficoGiuridico, e Henr. Gebhardo, Cancelliere di Gera, sui principî del diritto tratti dalle
altre discipline (ed. Gera, in 8°, 1613). Le quali opere tutte eccitarono anche me a questi
tentativi.
7. Raccolsi perciò alcune cose di questo genere non troppo ansiose di offrirsi spontaneamente alla ricerca, e misi avanti (stando tuttavia attento a non limitarmi a queste
5
Teologi, appartenenti soprattutto alla Compagnia di Gesù (ma anche ai domenicani e ai francescani), i
cui studi hanno per oggetto la risoluzione di casi di coscienza.
6
Non si è stati in grado di risalire con certezza all’opera citata dal L. Potrebbe forse trattarsi della Ex miscellaneorum scriptoribus digestorum sive pandectarum iuris civilis interpretatio, Lugduni 1590; o potrebbe forse riferirsi ai De iuris arte libri tres dello Hopper, cui secondo alcuni, come rileva subito sotto
lo stesso L., l’opera del Del Rio, in realtà, apparterrebbe.
soltanto) quelle che potessero essere afferrate da chicchessia. E prego IDDIO che si degni
di stare vicino a me, privo di forza senza il suo aiuto, e che si degni inoltre di conservare
le leggi e le buone arti, a le quali tutte, ora, uomini simili a Ciclopi insultano e minacciano rovina.
QUESTIONE I.
1. È parso bene collocare al principio due Questioni Logiche, la prima delle quali
tocca la seconda operazione della mente e la seconda, la terza. Dunque, per quello che
riguarda la prima questione, si domanda “se la proposizione indefinita sia equivalente a
quella universale” giusta la l. 158. D. de Verborum Significatione7 e la l. 23. alla parola
et humanius, D. de Servitutibus praediorum urbanorum8: dove occorre prima di tutto
spiegare i termini.
2. Enunciazione indefinita è quella mancante di segno: ma poiché è necessario
supporre mentalmente un Termine comune o per tutte le cose che esso può contenere, o
per alcune di esse, appare chiaro che essa è indefinita nella enunciazione non interna ma
esterna, e che il segno è sottinteso. Poco diversamente accolse questi termini Bartolo
alla l. si ita 7. D. de auro et argento legatis9, per il quale la enunciazione è Universale
quando il tutto, o l’aggregato, viene designato con un nome collettivo, per es. Gregge o
qualche altro insieme; è indefinita quando o è espressa attraverso un Singolare che implica molti, come ‘radunare il soldato’ [l. 158. D. de Verborum Significatione], o un
Plurale ma senza segno, come ‘nomino eredi i miei figli’. 3. Quanto alla enunciazione nella quale è espresso un segno, la chiama Generale, e che detta accezione sia contro
il costume delle Leggi glielo dimostra la citata l. 23. laddove recita: ma è più conveniente che con la parola ‘generale’ sia significato ogni lume, dove la parola Generale si oppone espressamente alla parola Universale. 4. Baldo poi acutamente distingue fra
l’Universale ratione signi, che è propriamente tale, e l’Universale ratione rei, che dai
Giuristi vien detto universitas10, che è piuttosto un tutto. Al quale segue, ed egregiamente lo spiega Did. Covarruvias (Variarum Resolutionum, lib. I. cap. 13. n. 2.), tutto il
capitolo 13. del quale è dedicato a spiegare la forza della enunciazione Indefinita.
5. Per risolvere più accuratamente la questione proposta, bisogna distinguere tra il
formale e il materiale dell’indefinita, ossia tra ciò che essa significa in sé assolutamente
ovvero rispetto alla materia cui si riferisce. In sé, dunque, l’indefinita differisce in certo
qual modo in ragione del valore e del significato dalla universale e dalla particolare,
perché sta in maniera indeterminata rispetto ad esse e facoltativamente, al modo che –
su un piano diverso – il genere suol differire dalla specie; per es. un animale è sì una bestia o un uomo, tuttavia formalmente prescinde dall’una e dall’altro, e in forza dei termini comporta in sé l’essere né l’uno né l’altro. 6. L’indefinita materialmente è o
universale o particolare o di significato particolare (come l’animale in sé non è né uomo
né bestia, ma tutto ciò che è animale o è bestia o è uomo); la materia infatti o è necessaria – e allora la si coglie con certezza, cosicché l’indefinita è equipollente all’universale
(Covarruvias, op. cit. n. 6.) –, o è contingente, nel qual caso subodoriamo in che modo sia probabilmente da riceversi, ciò che la cit. l. 23. dichiara con il termine Humanius11.
7
D. 50.16.158
D. 8.2.23
9
D. 34.2.7
10
Intendi: totalità, insieme.
11
Lege: ‘più conveniente’.
8
7. Queste congetture le spiegano sia Andr. Alciato alla cit. l. 158. de Verborum
Significatione e Brunoro da Sole nei Loci Communes Juris, voce ‘indefinita’, sia diffusamente il Covarruvias (lib. cit. per toto). E vanno aggiunte, del resto, le leggi generali dell’interpretazione nel Grozio (de Jure Belli et Pacis, II. 16). Lasciamo una più
particolareggiata discussione dei testi ai giuristi, il cui mestiere è proprio
l’interpretazione.
QUESTIONE II.
1. È noto tra i Filosofi il canone: All’Affermante incombe di provare, che non sembra potersi accordare con quell’altro, che alla prova sia tenuto l’opponente. Dunque nel
dubbio deve prevalere quest’ultimo per accordo, per dir così, tacito. Infatti, chi si è fatto
avanti per disputare come rispondente, per ciò stesso si è tacitamente obbligato soltanto
a difendere le tesi; tocca dunque all’opponente di addurre prove: se infatti toccasse
all’affermante di dover provare, il Rispondente argomenterebbe secondo un ordine inverso delle cose, l’Opponente eccepirebbe, dal momento che le Tesi sono perlopiù affermative, quelle stesse che poi l’opponente nega e pretende essere assurde. 2. Aggiungi che quella prima regola renderebbe la cosa del tutto ἀύ12 e inesplicabile.
E infatti quanto facilmente mutando le parole la negativa può mutarsi in affermativa e
viceversa? Qui si toglierebbe affatto di mezzo quasi ogni disputa, e prima che si potesse
trovare se una qualche proposizione sia, per sua stessa natura, affermativa o negativa, ci
sarebbe bisogno di infinite liti.
3. Tra i Filosofi disputanti dalla cattedra13 è certo che il Rispondente in quanto tale
né provi, né chieda il fondamento. Fra le parti litiganti in tribunale, non è determinato
universalmente se alla prova sia tenuto l’Attore o il convenuto, dal momento che su
questo non è intervenuto tra le parti alcun tacito accordo; né inoltre, diversamente da
come avviene presso i filosofi contemplativi, si può soprassedere alla sentenza o alla
decisione del giudice senza pregiudizio dell’altra parte. 4. Ma così, ci si è trovati
concordi sul fatto che se il giudice soprassieda alla sentenza, per ciò stesso la causa decade tacitamente: cioè, l’Attore non consegue ciò che chiede. Perciò è necessario estrarre la verità dagli atti e dalle prove, in qualsiasi modo sia lecito, affinché la causa possa
essere decisa. Ne consegue che l’onere della prova sia imposto a colui al quale risulti
più agevole assolverlo, a che la causa non si concluda senza una decisione.
5.
E poiché di norma colui che si fonda su qualcosa deve provare la sua intenzione
(Freder. Schenckio, Tractatus de probationibus, n. 1. e 2.), ne viene che la prova incombe o all’attore o al convenuto, a quello che per primo adduce l’affermativa o la negativa, se può, e se non può – per la stessa cogente necessità, che la ricerca della verità
non cada – l’onere viene trasferito all’altro: ed è questa la cosiddetta prova della Negativa: ‘io questo lo nego, chi lo afferma lo dimostri’ (Cravetta, Consilia, I. n. 10).
6. Generalmente dunque, quando il negante non può provare – o del tutto, o gli sia
impossibile per ragioni morali –, l’onere di provare il contrario si trasferisce su colui,
che stando così le cose, sembra poterlo assolvere (vd. Mart[ino] da Fano, de Negativa probanda, n. 2. e 3., che si trova nel I. volume dei Tractatus [Universi Iuris], e
Francesco Hercolano , Trattato del medesimo argomento, che sono entrambi usciti
da poco in un unico volume). 7. Più particolarmente, altro è una negazione ‘di fatto’,
altro una ‘di Diritto’ o di un’altra qualità o stato, come distinguono Brun. da Sole
(voce Negazione n. 2.) e il Gothofredo alla l. 23. de Probationibus14; e quella ‘di fat12
‘Inconsistente’.
A testo, ‘pro cathedra’: va inteso, ‘per questioni accademiche’, ‘per mere ragioni speculative’.
14
C. 4.19.23
13
to’, a sua volta, è con o senza circostanze di luogo e di tempo, ecc. E in quest’ultimo caso, nient’altro intervenendo, nessuno è tenuto alla prova della Negativa, giusta la cit. l.
23.: mentre nel primo caso (poiché la negazione non è puramente ‘di fatto’, ma piuttosto
di una qualità aggiuntiva), sia nella prova ‘di diritto’ che dell’altra qualità può essere
imposto anche al negante l’onere della prova.
QUESTIONE III.
1. Passiamo ora anche alla Matematica 15, perché la Giurisprudenza non ne sembri priva. Alla l. ultima D. finium regundorum16, viene citata e approvata da Caio la
legge di Solone, secondo cui si deve guardarsi dal recar danno con lavori nostri al fondo
del vicino: “Tra le altre cose, Solone sancì che se uno scava una fossa o un sepolcro,
deve tenersi lontano dal fondo del vicino uno spazio pari a quello che si estenda verso il
basso per profondità”. La ragione di che deve essere attinta insieme dalla Geometria e
dalla Statica.
2. Dunque, per principio ogni grave, se privo di sostegno, scende verso terra perpendicolarmente; se invece insiste su un piano parallelo all’orizzonte, è chiaro che non
discende, ma non si muove, se non per una forza esterna, o in parallelo o all’insù. Tra
questi due estremi – la posizione e il moto parallelo all’orizzonte, che chiaramente non
ha alcun angolo e quindi nemmeno la forza di discesa, e la perpendicolare che fa
l’angolo retto, ossia di 90° – intercedono angoli, alcuni più vicini alla posizione parallela, altri alla perpendicolare, i primi minori, gli altri maggiori di 45°. Difatti, l’angolo di
45° sta nel mezzo tra l’uno e l’altro, ugualmente distante dal parallelo e dal retto, come
è evidente nella diagonale del quadrato. 3. Perciò il grave che non può discendere in
linea retta, può tuttavia facilissimamente farlo in obliquo, se fa in questo modo un angolo maggiore di 45° (riguardo alla via, o linea di discesa) con la terra su cui insiste; se lo
fa minore, discende con grande difficoltà o lentezza. Perché quanto più obliquo e minore è l’angolo, tanto più è necessario che il grave nella discesa s’inclini di lato, il che tuttavia è per esso contro natura. Quanto poi all’angolo di 45°, mette termine alla facilità e
dà inizio alla difficoltà.
4. Si prenda dunque la Fossa AB scavata a perpendicolo, l’inizio del fondo del vicino C, al quale sotto terra corrisponde a perpendicolo D: poniamo che la fossa sia
riempita d’acqua fino al sommo e che per qualche tempo a quella che decresce se ne aggiunga di nuova, come spesso accade con l’acqua piovana ed altre inondazioni. L’acqua
dunque si mantiene più a lungo che può, ma poi quando la velocità del decrescere non
sarà più pari alla velocità dell’aggiungere, penetrerà obliquamente di lato. 5. Non discenderà tuttavia con un angolo più obliquo di 45° per l’assioma detto (piuttosto, una
volta che poco a poco sia defluita a lato, penetrerà quindi nella terra in linea retta nella
stessa misura in cui era scorsa a lato), e così l’acqua che è in G giungerà al massimo in
H, da I a K, da L a M, e infine quella che sta al vertice in A non progredirà oltre D, dove
comincia il fondo del vicino. E così il decorso dell’acqua (che infatti ho voluto considerare principalmente, benché con questo principio restino altri inconvenienti, ma nessuno
più manifesto di questo) andrà a
15
A testo Mathesis: un termine che avrà amplissimi sviluppi e ben più significative accezioni nel séguito
del pensiero leibniziano, proteso già da questi primi saggi ad un sapere (oggi diremmo, orribilmente: di
una cultura) non circoscritto al tecnicismo specifico e, perciò, parcellizzante.
16
D. 10.1.13
terminare lì dove finisce il fondo di colui che ha scavato la fossa. Donde appare chiaro
che la distanza è stata calcolata correttamente.
6. Ma se il fondo del vicino cominciasse entro la sfera d’azione dell’acqua (ad es.
in E), appare chiaro che l’acqua che defluisce fino a D penetrerebbe nel fondo del vicino, e devasterebbe la terra per alluvione e, rotta la base (il triangolo rettangolo NFD),
farà sì che la terra del vicino, racchiusa nel Trapezio NEDC, venga a ricadere nel mio
fondo, per riempire la buca per moto di caduta contrario lungo la linea BC e le linee parallele; e così il mio utile nuocerà all’altro, e il danno dell’altro andrà a mio vantaggio, il
che è contro il diritto di natura (giusta il combinato disposto di l. 38. D. de haereditatis
petitione e di l. 36. in fine dello stesso titolo17), sul quale, per altro, questa legge pare
fondarsi. 7. Particolarmente da quando i Romani confermarono anche con la loro autorità quello che era un principio dello Stato Ateniese, basato come su comando della
stessa natura. Riguardo particolarmente a questa legge, per quanto sia da osservare circa
la distanza dei fossati, non tanto in campo aperto – del che si è detto ora – quanto dagli
edificî, vd. di Ant. Claro S ylvio, Avvocato della suprema Curia Parigina, il Liber
singularis in Leges XII Tabularum, c. ultimo 25. per intero, p. 383. Come poi lo spazio
17
D. 5.3.38; D. 5.3.36
sottostante e quello soprastante appartengano al padrone del fondo18, vd. Sam. Pufendorffio, Elementa Jurisprudentiae, l. I. def. 5. §. 29.
QUESTIONE IV.
1. Alla Matematica segue la Fisica, prima di tutto quella generale che considera
precipuamente il moto, e di esso sia il termine (di cui alla quest. 5), sia il luogo nel quale esso avviene, dove si chiede “se due corpi possono stare in un medesimo luogo”. Lo
nega il giureconsulto Paolo [l. 3. §. 5. in fine. D. de acquirenda possessione19], il quale
partendo dall’opinione dei Proculiani obbietta che due persone non possano possedere in solido la medesima cosa, a quel modo che due corpi non possono tenere come proprio lo stesso luogo. Certamente in due possono possedere la medesima cosa in diverse
porzioni, o ‘pro diviso’ o ‘pro indiviso’; e anche due corpi possono stare nello stesso
luogo comune ad entrambi, ma non è questo che qui c’interessa.
2. Qui non mi mischio alle dispute dei Giuristi, tra i quali il Bachovio (II. Vol. del
Tractatus Disputationum, XXI., Tesi 4. lett. k.) sentenzia nella maniera più grossolana
che Paolo argomenta troppo audacemente, e quanto a lui distingue tra il possesso civile
e quello naturale, affermando poter accadere che in due detengano lo stesso bene per diverso genere di possesso. 3. Ma dato che il possesso civile sembra incompleto e quasi quasi immaginario, quando uno ritiene almeno la convinzione dominica, e ciò che
non occupa non l’abbia tuttavia per abbandonato, sembra doversi negare – col prof.
Struvio (Exercitationes, XLII, tesi 8) – che due possiedano propriamente la medesima
cosa in solido. Infatti ‘possiedo’ è ‘posso sedere’, cioè ‘sono potente’, come affermò U.
Grozio (Florum sparsio ad Jus Justinianaeum, l. I. proemio. D. de acquirenda possessione20). 4. Donde risulta evidente una elegante analogia tra il possesso e la posizione, ossia la collocazione dei corpi nello spazio. Quanto al perché i corpi non possano
compenetrarsi e occupare l’uno il posto dell’altro, dissertò egregiamente il Gothofredo alla cit. l. 3. 5. Infatti ne conseguirebbe che, quando non ci fosse resistenza, per
prima cosa si escluderebbe la reazione dei corpi, e poi la separazione, fino ad arrivare al
ᾶ ἐ ὶ21. E tutti i gravi si raccoglierebbero al centro intorno a un unico punto; se
infatti due possono stare nel medesimo luogo, perché non più di due, e perché non tutti?
6. Né tuttavia neghiamo la potenza assoluta di Dio affermando che i corpi possano
andare esenti dalle condizioni di luogo e di resistenza, checché ne disputino in contrario
i Calviniani. 7. Dato difatti che la condizione di luogo è un qualcosa di aggiunto alla
natura di un corpo – per quanto ci paia che scaturisca intrinsecamente da essa – non nutrirei alcun dubbio che tuttavia Dio possa, per così dire, interrompere questo flusso, sulla base di Jac. Martini (Tractatus de Loco contra Keckermannum22); tuttavia ritengo
che queste cose non siano nemmeno venute in mente al Giurista pagano, né che siano
state accolte da Giustiniano con pregiudizio della potenza divina.
Letteralmente: ‘lo spazio inferiore pieno di terra e quello superiore pieno d’aria’. È il principio di diritto
romano secondo cui la proprietà si estende al terreno sottostante e allo spazio aereo sovrastante l’edificio:
oggi, un elicottero, per sorvolare una città, dovrebbe pagare molti dazî...
19
D. 41.2.3.5
20
D. 42.2.1.pr
21
‘Tutto in tutto’: equivale a mescolanza indistinta. Era riferito ad Anassagora, il quale sosteneva che tutti
gli esseri sono composti di tutti gli elementi (semi, omeomerie) e si diversificano solo per il più di uno,
meno di un altro.
22
Lieve imprecisione nel titolo. Martini diresse parecchi suoi lavori contro Bartholomäus Keckermann
(Danzica, c. 1572 – 25 luglio, 1609), teologo e filosofo calvinista – dunque un ‘neotero’ o ‘novatore’,
come allora erano chiamati, in tono dispregiativo, secondo l’uso ciceroniano del termine, i teologi riformati –, ma i due libri De loco erano più genericamente indirizzati contro i Neoteri nel complesso.
18
QUESTIONE V.
1. I Termini del moto differiscono secondo sei diverse posizioni, circa le quali
Aristotele (l. 2. de Coelo c. 2.) discutendo su una questione sollevata dai Pitagorici,
spiega “se esse, e particolarmente la Destra e la sinistra, si ritrovano nel cielo e conseguentemente nel Mondo”.
2. Prima di tutto è certo che in ogni corpo si possa indicare il materiale di queste
differenze. Perché ogni corpo è un quantum, ma in ogni quantum su un unico punto
concorrono solo tre linee perpendicolari tra loro, come dimostra il Clavio negli Elementa Euclidis, I.; poiché il punto su cui concorrono divide ciascuna di queste in due
parti, si originano sei di quelle linee, ciascuna delle quali può essere denominata rispetto
a una qualche differenza di posizione secondo le circostanze. Il formale, propriamente,
conviene solo agli animali. 3. Ritenendo dunque Aristotele che il cielo sia dotato di
Intelligenza al pari di un animale, egli attribuisce ad esso anche la destra e la sinistra.
Ma poiché questa ipotesi è stata definitivamente smentita dai Matematici insieme con
quella della solidità del cielo, tale asserto decadde, e ad esso s’oppone lo Scaligero
(Exercitationes contra Cardanum, 67. per toto).
4. Per analogia, si possono attribuire la destra e la sinistra ed altri generi di posizione alle cose mancanti di sensi23, come alla l. 11. §. finale D. Communia praediorum24,
dove destra e sinistra in un fiume vengono assegnate alle rive ma non alla sorgente e alla foce. Donde deriva che va considerato il moto delle cose, e si deve fingere o che siano animali o che in quel luogo si muova un animale, ciò che sarà allora il lato destro, e
ciò che sarà il sinistro, va giudicato anche ora tale. 5. Dunque nel Mondo il termine
verso cui il Moto procede è la parte anteriore, l’Oriente, quella da cui il moto si origina,
la posteriore, la destra quella a mezzogiorno, la sinistra quella a settentrione. E per
quanto non vi sia nessuna sfera celeste reale, ci basti che si movano i corpi terrestri; e
per quanto tu possa tracciare il moto diurno della terra, ci basti che non si possa negare
al cielo il moto ottico o apparente, ché d’altra parte tutta questa spiegazione è analogica.
6. Meritamente dunque certi filosofi che pongono la destra in oriente e la sinistra in
occidente, sono irrisi da Gio. Pico Mirandolano presso i Conimbricensi 25 in Aristotele op. cit. q. [1] art. 1, checché gli stessi eccettuino all’art. 2. Stef. Forcatulo
(Necyomantia, dialogo I, n. 1.) cita e respinge Bartolo che li seguì (Tractatus de Insula
§. quod si ex uno)26; tuttavia mentre costui riguarda non tanto il moto del cielo quanto
noi che lo osserviamo, rovescia tutto e colloca la destra a mezzogiorno e la sinistra a
settentrione.
QUESTIONE VI.
23
In-animate.
D. 8.4.11.1 (Communia praediorum tam urbanorum quam rusticorum)
25
Conimbricenses o Collegium Conimbricenses è il nome con cui sono noti i gesuiti della Università di
Coimbra, in Portogallo, dalla fine del XVI secolo. Particolarmente conosciuti, tra questi, erano Luis de
Molina (1535-1600) e Francisco Suárez (1548-1617), più volte citato dal Leibniz in queste pagine. I loro
Commentari de Coimbra, noti anch’essi semplicemente come Conimbricenses, sono un gruppo di undici
libri su Aristotele, di cui solo otto sono propriamente dei commenti, pubblicati (i primi sette) tra il 1591 e
il ’95. L’ottavo fu edito solo successivamente, a Venezia nel 1606. Il libro cui qui si fa riferimento è quello titolato “Commentarii Collegii Conimbricensis Societatis Jesu in quattuor libros physicorum Aristotelis
de Coelo” (Coimbra, 1592). L’opera di Pico richiamata nel testo di Coimbra è lo Heptaplus.
26
Come Bartolo da Sassoferrato (1314-1357) abbia potuto essere seguace della Scuola di Coimbra (XVI
sec.) è un paradosso che solo il loicus L. potrebbe risolvere. Il Tr. de insula è la prima parte (di tre) del
Tractatus Tyberiadis, o de fluminibus.
24
1. Segue ora ciò che attiene alla Fisica Speciale; questa, a sua volta, è o più vicina
alla Generale, o più pertinente agli ‘speciali’; ma di questo poi. A questa appartiene la
dottrina del Misto27. Infatti i Giuristi insegnano che il Dominio e il diritto confondono,
non meno della natura, cose congiunte tra loro, perché la loro commistione avviene o
per natura – com’è nel caso di un’Alluvione – o per arte, e la specie o è fatta salva
nell’Accessione, o mutata nella Specificazione, come spiega il Bacovio (vol. II ad
Treutlerum Disputationes, XX. tesi 7., lettera A) e conferma Ant. Mattheus (Collegium Fundamentorum Juris, Dissertazione 28). Noi ora ci occupiamo di quest’ultima.
2. La voce ‘specie’ viene usata arbitrariamente dai curiosi28 della Latinità antica in
luogo di ‘forma’, così come ‘forma’ in luogo di ‘specie’: Cornel. Valerio, Dialectices, libro I. de Specie29, Fr. Hottomanno, Institutiones Dialecticae, I., 6. Il quale ultimo osserva che la Specie sta ‘pro individuo’ (cfr. l. 54. D. de Verborum Obligationibus30), mentre il Genere viene accolto, alla maniera degli Stoici, per qualsiasi cosa più
lata, del che si appropriò avidamente Pier Gassendi nella sua Logica. Onde i Giuristi
chiamarono Specie le cose certe e permanenti nel loro uso, che inoltre son da riferirsi
all’individuo. E in questo caso, quando viene introdotta nella materia una nuova forma,
specie significa piuttosto ‘forma’, mentre quando si congiungono diverse materie, indica piuttosto il composto. Ci si chiede ora “se davvero si possa parlare d’una nuova specie”, dal momento che i Giuristi la definiscono Specificazione [§. 25. Inst. de rerum divisione, l. 7. §. 7. e segg. D. de acquirendo rerum dominio] 31.
3. La Specificazione è propria a quelle quando o la forma viene introdotta in
un’unica materia, o vengono congiunte insieme diverse materie; nel primo caso si tratta
di Efformazione, nel secondo di Composizione, la quale a sua volta o è Congiunzione,
quando le parti si coedono, o Commistione, quando non si coedono. Oppure c’è Confusione, quando dalle parti viene a formarsi una sola massa, nella quale talvolta si discerne
la varietà delle parti – per es. se si mescola l’acqua all’inchiostro –, talvolta non si discerne, come nella mistura dell’acqua e del vino, talvolta le parti dei composti possono
separarsi vicendevolmente – come nei metalli per mezzo dell’acqua crisulca32 –, talaltra
invece no, come nel mulso33; infine, talvolta quella massa è liquida, come nel vino temperato con l’acqua, talaltra è solida, come nell’Ambra, che secondo Plinio (libro 31., c.
4. Historiae Naturalis) è composta da 4/5 d’oro e 1/5 d’argento. 4. La Congiunzione,
dunque, o è Confusione, di cui s’è detto, o Aggiunta, quando non viene composta
un’unica massa, neanche di parti dissimili minutamente sparse fra loro, ma una qualsivoglia parte, pur non divulsa, tuttavia aderisca al congenere come se non fosse congiunta ad altro: ed allora è Ferruminazione34, quando parti diverse si coedono immediatamente – ciò che avviene tra metalli dello stesso genere –, o è Appiombatura, a cui ci si
riferisce anche come Agglutinazione35, quando cose diverse si congiungono per un intervento esterno, come metalli eterogenei per opera del piombo, le travi per opera della
colla, dei chiodi, ecc. Si parla di Commistione, quando le parti non si coedono e non si
tengano saldamente, come se s’unisca un covone di grano e uno d’orzo.
27
Intendi, ‘teoria dei composti’.
Nel senso di desideroso di sapere, avido di conoscere.
29
Si tratta del VII. paragrafo del libro I. dell’opera del Wouters (il Cornelio Valerio della latinizzazione
umanistica). L’opera contiene un altro § de specie, il 71, relativo alle specie dei loci communes.
30
D. 45.1.54
31
Inst. 2.1.25; D. 41.1.7.7
32
O acqua règia, o anche ‘di separazione’: è termine alchemico.
33
Mistura di miele e vino.
34
i.e. saldatura; cfr. Paolo, 6.21.3. ad edictum (= D. 6.1.23.5).
35
Letteralmente: l’atto dell’incollare, appiccicare.
28
5. Contro tutto ciò si può obbiettare che “qui non viene costituita nessuna specie e
nessun vero misto, ma solo un Crama36 e un ente per accidens”, dato che non c’è nessuna forma sostanziale ad unire le diverse parti, né precedono alterazioni, ma viene solamente introdotta dall’intervento umano una forma artificiale, da cui una Unione imperfetta (vd. Scaligero, Exercitatio 101. contra Cardanum e Seb. Basso, Philosophia
Naturalis, libro I., Intentio 3). Si risponde che i giuristi parlano popolarmente, e che anche il ᾶ per essi sia un misto e che è una specie e un uno qualunque cosa abbia una
forma anche soltanto artificiale. 6. Di qui presso di loro si discerne se, quanto alla
forma, le [singole] materie possano o meno separarsi da sé vicendevolmente, o se la varietà delle parti traspaia o almeno sembri al senso un uno (vd. il prof. Struvio, Exercitationes, XLI., 42. seqq.). Quanto al fatto poi che il grande U. Grozio (de Jure Belli et
Pacis, II.8.21.) nega che in nessun luogo più che qui i giuristi abbiano forzato
[l’interpretazione], in questo tuttavia egli sembra esser stato sviato dalla soverchia consuetudine alla libertà. 7. Infatti, che certi metalli, per esempio il bronzo e l’oro, possano essere separati di nuovo, il che ora gli alchimisti ottengono per mezzo dell’acqua
crisulca, non c’è da stupirsi che Ulpiano lo ignorasse [l. 3. §. 2. e l. 5. §. 1. D. de Rei
Vindicatione37], per una allora generale ignoranza: infatti, che Dion. Gothofredo, alla
citata l. 5. opponesse la l. 12. de acquirendo rerum dominio38, è una cosa inutile perché
ivi il Giureconsulto Callistrato non il bronzo e l’oro, ma il bronzo e l’argento concede
che possano essere separati (vd. Alciato, Parergon VI., II., e il Forcatolo, Necyomantia XXXVIII. 1). E quando Grozio rimprovera al giureconsulto Paolo di aver annoverato
[l. 23. §. 5. eodem39] la Ferruminazione con la Confusione, anche questo del resto è scusabile dal momento che la Ferruminazione è vicinissima alla Confusione e può essere in
certo qual modo ascritta a quella.
QUESTIONE VII.
1. Una Fisica ancora più speciale tocca “la disputa sulla Primazia delle Parti degli Animali”, la Zoologia dei Fisici e dei Medici, la quale non rimase confinata a questi
ma, siccome la connessione delle scienze è non minore che quella delle virtù, eccitò pure i Giuristi40. Ed è noto che Aristotele tolse la primazia al cuore e Galeno, in qualche luogo al cervello, altrove a entrambi e, qui seguendolo, molti tra i più recenti difesero la pluralità dei principali visceri (vd. il dr. Posner, professore di Fisiologia a Jena,
Dissertatio de principatu partium). Presso i Giuristi l’opinione comune propende per il
capo, né c’è da meravigliarsi se il capo, che solo è erudito, difende la sua dignità; se mai
c’è da meravigliarsi che tante teste abbiano cospirato con il cuore contro i loro simili41.
2. Giustamente i giuristi ritengono che si debba finalmente stimare per sepolcro e
consacrato quel luogo dove è inumata la testa, poiché che il capo sia il più degno argomenta la l. 44. D. de religiosis et sumtibus funerum42 (vd. anche il nobilissimo Signore
Strauchio, attualmente Proto-Sindaco a Brunswick, mio parente ed onoratissimo Pa36
i.e. miscuglio.
D. 6.1.3.2, 5.1
38
D. 41.1.12
39
D. 6.1.23.5. A testo, erroneamente: l(egge) 25.
40
A testo: Ctos, abbreviazione di Custos (custode); ma è chiaramente un errore del trascrittore per: JCtos,
Juris-Consultos.
41
L. tenta un motto di spirito, ma gli riesce di teutonica grevità. La battuta è comunque da intendersi, che
– essendo la testa la principale delle parti del corpo, e quella dove risiede l’intelletto – è sorprendente come proprio attraverso di essa (e attraverso l’intelletto) alcuni abbiano ritenuto di attribuire la primazia ad
altre parti del corpo.
42
D. 11.7.44 (De religiosis et sumptibus funerum et ut funus ducere liceat)
37
trono, Dissertationes ad jus Pandectarum VI. aforisma 7). I più di loro giudicano che se
un omicidio sia stato commesso sul confine di due territorî di diversa giurisdizione,
s’intende che il corpo dell’ucciso giaccia dove giace il capo (Giovan. Zanger, de Exceptionibus, P. II. c. I. n. 237). 3. Quelli che ritengono che il giudizio si debba basare
sul luogo del cuore, hanno a malapena qualche autore da poter citare. E benché Rainaldo Bachovio (ad Treutlerum I. 19. 4.) e il Magnifico Professor Carpzoff (Practica Criminalium p. III., q. 110., n. 27) neghino che sia da prendere in considerazione la
dignità di quell’organo, tuttavia della prerogativa del capo c’è appena qualcuno che ne
dubiti. In altra occasione veleggiò a favore della dignità del capo Paride del Pozzo
(Tractatus de re militari, rubrica si quando duobus pugnantibus etc., n. 5), dove disputa
che, se due duellanti si siano l’un l’altro feriti diversamente, colui che abbia portato una
ferita al capo sia da riguardarsi con maggiore dignità di colui che l’ha inferta al petto,
ma questo lo lascio a suo luogo.
4. Che anzi Gio. Montaigne (Tractatus de Autoritate Conciliorum n. 9.) giudica
che il capo e il viso siano più onorati del resto delle membra, e infatti “il viso è figurato
a somiglianza della bellezza del cielo” [l. 17. C. de Poenis43], e “l’offesa è maggiore se
uno percuota sulla faccia” [l. 16. §. 6. D. eodem44]. 5. E riguardo alla comparazione
tra il capo e il cuore, con acutezza, ed elegantemente e bene l’Anonimo tractatus de
potestate seculari et Ecclesiastica – che [l’autore] intitolò Somnium Viridarii45 – così al
c. 44 n. 5. arguì: due sono le membra principali nell’uomo, la testa e il cuore; così ci sono al mondo due sommi, il Pontefice e il Principe: e come dal cuore proviene il moto e
la vita, e anche gli alimenti vengono forniti al capo e alle altre membra, così la felicità
temporale dipende dai Principi, e da essi la Chiesa va nutrita e difesa: come poi la vita
più nobile e più eccellente degli animali e particolarmente dell’uomo ― il senso,
l’immaginazione, infine l’intelletto ― risiede nel capo, recipiente della conoscenza, così
quella migliore e suprema felicità del genere umano deriva dalla Chiesa o dal Papa, il
quale ha riunita in sé solo la virtù di quella.
43
C. 9.47.17
D. 48.19.16.6 (De poenis)
45
Interessante l’attribuzione ad anonimo di quest’opera dal destino infelice: pubblicata come Aureus (de
vtraque potestate) libellus (temporali scilicet ac spirituali) ad hunc vsque diem non visus. Somnium viridarii vulgariter nuncupatus: formam tenens dyalogi: ac iamdiu Carolo quinto francorum regi dum viveret dedicatus; In quo quidem libello miles et clerici (de utraque iurisditione latissime disserentes)
tamquam aduocati introducuntur: et alternatum partes opponentis et respondentis assumentes iucundissime ac fructuosissime de ambarum iurisditionuum disputant potestate rationes et motiva pro sua quisque
parte ... [Parisiis, opera et diligentia Jacobi Pouchin : sumptibus vero & expensis Galioti Du Pre ..., 1516
(senza nome d’autore, il Catalogue SUDOC [Système Universitaire de Documentation] al n. 100397131
ne attribuisce le cure a Gilles d’Aurigny); fu poi riedita nei Tractatus de dignitate et potestate seculari,
Tomus quintus Tractatuum della grande compilazione veneziana del 1548-1550, pubblicata in diciotto
volumi in folio dalla “Società della Corona”, che la attribuivano a Evrart de Trémaugon, proprio col titolo
Tractatus de utraque potestate seculari et ecclesiastica, qui Somnium Viridarii ab authore ipso est inscriptus (cfr. ed. moderna, nei Tractatus Universi Iuris Extravagantes per le cure di Ennio Cortese e Gaetano Colli, Napoli, Jovene 2007). Essa fu poi espurgata dai Tractatus Universi Iuris (Venetiis, 1583-86)
per ragioni di censura ecclesiastica: si direbbe che la damnatio memoriae del suo autore avesse già fatto
effetto ai tempi del L., che pure, però, conosceva – e bene, a quanto pare – l’opera. Ancora nel 1981, Peter Dinzelbacher (Vision und Visionsliteratur im Mittelalter, Stuttgart, Hiersemann) attribuiva il Somnium
Viridarii a Philippe de Mézières (vd. Nota Bio-bibliografica). Sul Somnium, vd. Diego Quaglioni, “Somnium Viridarii”, I, cxxxiv: una fonte, un errore, alcune varianti, «Bullettino dell’Istituto storico italiano
per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 91 (1984), pp. 441-451, ove lo studioso mostra come il S.V.,
compendiando e ricomponendo molti “frutti del pensiero teologico e giuridico del secolo XIV”, sia una
“sorta di Digesto dell’ecclesiologia e della politica”; e ancora D. Quaglioni, Giovanni da Legnano e il
“Somnium Viridarii”, in «civilis sapientia». Dottrine giuridiche e dottrine politiche fra medioevo ed età
moderna : Saggi per la storia del pensiero giuridico moderno, Rimini, Maggioli Ed., © 1989, p. 147.
44
6. Così, per dire ciò che sento, se non si spiega il nome del membro principale, la
disputa si consumerà in parole. Infatti, Principe si può dire per questo, che è il principio,
o che è il principale ed il più degno; il primo infatti è diverso per natura o per tempo,
l’altro quanto a dignità, e di questi non dubiterei che il primo vada attribuito al cuore, il
secondo al capo. Infatti, la natura comincia nel cuore e finisce nel capo, in quanto più
perfetto. Il sangue sta vicino al cuore, quasi materia degli affetti, il cèrebro al capo, quasi soggetto all’intelletto: il cuore è destinato specialmente all’essere, il capo al benessere. 7. Se il cuore è come una specie di animale separato, il capo è come una specie di
uomo separato: come infatti si dice che in quello il senso stia in esso separatamente e
riflesso in se stesso, così in questo [si dice] l’intelletto stia separatamente considerato e
senza concorso di alcun altro membro. E in conclusione, stia il cuore collocato nel luogo più difeso, mentre il capo è nella sommità; e come a quello la sicurezza, che è la cosa
più necessaria, così a questo la bellezza eccelse per natura come la cosa più nobile. Perciò l’uno e l’altro son contenti della loro gloria, e nessuno dei due è in grado d’involare
le lodi dell’altro.
QUESTIONE VIII.
1. L’animale, del quale si occupa nel genere la questione precedente, o è un bruto46, del quale si occupa nel genere questa questione, nella specie la q. 9., o un semibruto (q. 10). o un uomo (q. 11). Dei bruti, in particolare, ci si chiede ‘se siano capaci di diritto o di offesa’, cosa che spesso fu animatamente dibattuta dai Giuristi [pr. Inst. de Jure Naturali, Gentium et Civili47, e l. 1. §. 3. D. si quadrupes pauperiem fecisse dicatur48] e anche dai filosofi, tra i quali si discute anche se abbiano un qualche raziocinio o
no. Se infatti il diritto è una specie di dettato della ragione, obbligatorio per agire o non
agire, è manifesto che ove non vi sia ragione, ivi non ha luogo alcuno il diritto.
2. Il diritto è o naturale o positivo. Naturale, o è negativo, quello che permette; o è
determinativo, quello che proibisce. Il naturale determinativo, dicono che sia o primevo,
ovvero comune ai bruti; o secondario, perché talvolta la natura si antepone alla ragione,
talaltra la limita. Quello secondario è proprio dell’uomo, come nei Teologi, nei
Cas(u)isti, nei Filosofi (benché questi ne facciano un uso un poco più stretto: vd. il
nostro Thomasius, mio Precettore e sommo Mentore, Tabula Philosophica Practica
XXV., 5), e in Grozio si trova semplicemente sotto la voce naturale. Il Positivo, poi, o
è ‘[Jus] Gentium’ o è Civile. Tuttavia, la voce ‘Jus Gentium’, talvolta è assunta in
ragione dell’oggetto, e così è detto da taluni primario, ma qui non ci riguarda, e coincide col diritto naturale secondario; talora invece viene assunto in ragione dell’origine, e
così è detto da alcuni Giuristi secondario, ma dai Filosofi semplicemente Diritto delle
Genti.
[3.] “I Fondamenti per decidere la questione sono due: 1. se la ragione discenda anche nei bruti; 2. se in essi discenda se non la ragione, almeno la giustizia”. La seconda,
per il fatto d’essere alla pari della proposizione maggiore, viene per prima. Infatti i più
dotti Autori stabiliscono che basti alla ragione del diritto49, che la ragione stia in colui
che regoli o fondi il diritto, non occorre che essa sia similmente nella parte regolata (così Hugo de Roy, Tractatus de eo quod justum est e il professor Ungebauerus, Exercitationes, II. q. 1., e quelli qui citati). Dal momento, dunque, che il diritto è una sorta di
somma ragione insita in Dio, per una certa qual sua partecipazione il diritto è ascritto
46
Intendi, ‘privo della ragione’: cfr. Plinio (Hist. Nat., 8, 207), bruta animalia.
Inst. 1.2
48
D. 9.1.3
49 Ratio Juris.
47
anche ai bruti. Il che certamente derivò dalla filosofia Stoica; quelli infatti reputano che
DIO sia diffuso per tutte le cose alla pari d’una forma interna, chiamata anima del mondo, con la quale definiscono il fuoco via-via progrediente alla generazione (Lipsius,
Physiologia Stoicorum lib. 1 diss. 6.). Perciò vogliono che [Dio] sia parte interna degli
Enti, e che produca in essi tutti gli atti, né ripugnò loro di chiamare il Mondo, DIO (vd.
Cicerone, de natura Deorum, lib. 2.); e lo stesso Plinio non si peritò dal seguirli (Historiae Naturales, lib. 2., cap. 7.)
[4.] Ma sebbene i più recenti difensori della giustizia dei bruti questo lo disapprovino, certamente gli Stoici poterono sostenere in maniera più congruente alle loro ipotesi
che anche così consegue che la ragione sia intrinseca al regolato. E che questo sia assolutamente necessario, vd. Domenico Soto (De Justitia et Jure, quaestione preliminare art. 1., 3.), ché altrimenti il diritto – per quanto riguarda i bruti – sarà soltanto una
denominazione estrinseca, come se chiamassimo razionale la nave per il fatto d’averci
un timoniere. [5.] E certamente, siccome diritto qui denota non una potenza o facoltà, ma la legge naturale, e la legge è prescrizione, e la prescrizione una proposizione
dell’animo, dove non c’è animo, non c’è nessun diritto; infatti certamente gli ὶ50,
ad esempio dei genitori nei confronti dei figli, non sono diritto ma massimamente conformi al diritto. E benché le azioni, che vengono dette giuste nei bruti, risultino alla fine
giuste quando siano state prodotte dall’uomo e da una precedente scelta51, anzi forse anche nell’uomo sono soltanto lecite o sommamente belle. Dunque il diritto nei bruti, altro
non è se non ἀί52 (Goveanus, Liber I. Variarum lectionum, c. 19.).
[6.] Il secondo Fondamento, che nei bruti non vi sia ragione, è ammesso dai più. Ma
un certo Giureconsulto Chiarissimo tanto mutò di parere che avendo dapprima negato
ogni senso del diritto ai bruti, ora concede loro questo e anche la ragione. Così anche
Geron. Rorarius (libb. 2. ‘che i bruti usino la ragione meglio dell’uomo’) e Martino
Schoockio (Diatribae de Jure Naturae). Fra i filosofi, poi, Pier Gassendi sembra
qui meno ponderatamente seguire il suo Epicuro; costui diede infatti la ragione ai bruti
per il fatto che faceva derivare l’anima razionale dagli Atomi, i quali collocava anche
nei bruti. Quanto ai Cristiani, se condividono la loro ragione coi bruti, non vedo cosa resti per salvaguardare l’immortalità dell’anima. Certo quell’acutissimo Filosofo, Th.
Hobbes, mentre si cura troppo d’essere Fisico, quasi perse la religione, né dubitò di affermare nel libro de Corpore che la nostra anima è corporea e per sua natura mortale: se
poi sia essa per ricevere l’immortalità dall’onnipotenza di DIO, o che sia del tutto destinata a morire, è forse diritto quasi del Potere sovrano nello Stato deciderlo? [7.] Perciò sommamente da combattersi è quella opinione che tracce della ragione appaiano
nell’uomo soltanto più chiaramente, perché dai bruti differiamo non così sostanzialmente53 ma solo per gradazione. Non di meno un illustre Professore cita a favore della propria opinione Aristotele (l. I. de Historia animae, c. I.): “in parecchi degli altri animali
ci sono tracce di costumi dell’animo umano, benché queste più apertamente si distinguono nell’uomo”. E allora? Poté forse da quest’empio dogma di Aristotele derivare
che la mente e l’immortalità nostra sia non tanto nostra, quanto dell’intelletto agente in
noi, e che la capacità di comprendere a noi propria non sopravanzi di molto quella dei
bruti?!
50
Affetti, specialmente paterni/materni.
S’intenda: se le azioni dei bruti siano state considerate tali (i.e. ‘giuste’), in base a una precedente decisione dell’uomo.
52
Analogia, corrispondenza, somiglianza. A testo, per errore, ἀί.
53 i.e. ‘quanto alla sostanza’.
51
QUESTIONE IX.
1. Ci si è chiesti “se le api, le colombe, i pavoni, ecc. siano animali selvatici”54, la
qual cosa ha eccitato a ricercarla anche noi. Circa le api è confermato dall’Imperatore
(§. 14. Inst. de Divisione Rerum55 e dopo anche l. 5. §. 2. D. de acquirendo rerum dominio56) ed anche dal diritto Sassone (la Weichbild57 art. 119 die Biene ist ein wilder
Wurm58), presso Gio. Schneidewin (§. apium. Inst. d. l.), il Magnifico Prof. Carpzoff (p. IV., const. 36. def. I.) e il prof. Struvio (Exercitationes XLI., th. 16.); mentre
Plinio (lib. XI., c. 5. Historiae Naturales) afferma che non siano di genere né selvatico,
né addomesticato.
2. Simile controversia c’è sulle colombe, che vengon anche esse giudicate selvatiche dai Giuristi, per la qual cosa di esse si stabilisce che, finché mantengano almeno
l’animo di ritornare [alla colombaia], se qualcuno se ne impossessi sia possibile
un’azione legale contro di lui (l. 8. §. 1 D. familiae erciscundae59), ma se quest’animo e
questa abitudine di tornare la perdano, possono divenire di chi se ne appropria. La qualcosa circa gli animali selvatici viene affermata al §. 15. Inst. eodem60, dissentendo tuttavia su ciò il Grozio (de Jure Belli et Pacis, II. 8. 3.), il quale riferisce che anche il diritto Sassone nega che questi animali siano selvatici — Weichbild, art. 108: Tauben,
Pfauen und ander feder Spiel, das nicht grimmet ist (cioè selvatico), fleugsts zu Felde,
so ists gemein61. Ma attribuire la selvaticità alle colombe può sembrare assurdo, perché
da Cristo sono lodate per la loro mansuetudine e ad esse, tra altre 7 proprietà delle colombe, sono comparati i predicatori in Bartolomeo Cipolla (de servitute urbana
praediorum, c. 27. n. 3.)
3. E anche i Pavoni, al citato §. Inst. eodem62, si dice siano selvatici, né vi si oppone Pomponio (l. 37. D. de Furtis63) quando chiama il pavone addomesticato, il che ivi
sembra così voler intendere il Gothofredo. Addomesticato, infatti, in quel passo è ciò
che è stato reso domestico, il che attribuisce ai pavoni anche l’Imperatore, giudicando
che tornino alla nativa selvaticità quando smettono di rivolare. Del resto, Gothofredo
(cit. §. Inst. eodem64, e ad Theophilum p. 125) nega che la natura dei pavoni, che alleviamo, sia ἀίν 65 o selvatica e mancante di domesticità. Per questo Varrone (III. de
re rustica 5.) riferisce come di cosa straordinaria che in Samo e nell’isola Planasia66 vi
sono greggi di pavoni: che anzi da Q. Curzio vien riferito che intorno al fiume Idrate
vi sia un bosco di pavoni agresti, donde se si ammettono pavoni agresti e selvatici, si
ammette anche che vi siano quelli domestici e addomesticati, allo stesso modo che Triboniano (§. 16. Inst. eodem67) giudica delle Galline. Da ultimo narra Sigeberto
Gemblacense intorno all’anno 1086 che pavoni e oche e altri volatili addomesticati,
involandosi dalle case, tornino alla selvaticità. 4. Di queste cose tuttavia non è diffi54
Intendi: non addomesticati.
Inst. 2.1.14 (De rerum divisione, et acquirendo ipsarum dominio)
56
D. 41.1.5.2
57 Letteralmente: diritto comunale.
58
“L’ape è un animale selvatico”.
59
D. 10.2.8.1
60
Inst. 2.1.15
61
“Colombe, Pavoni e altre Code pennute che non sono selvatici, volano sui campi e sono dunque comuni”.
62
Cfr. nota 61.
63
D. 47.2.37
64
Cfr. nota 61.
65
A testo: ἀίν.
66
Odierna Pianosa, nelle isole Fortunate, tra la Corsica e la Toscana.
67
Inst. 2.1.16
55
cile la soluzione. Infatti se è cosa rara e straordinaria, e peculiare solo di pochi angoli
della terra, che i pavoni siano agresti, di gran lunga diversa è la ragione delle galline e
delle oche che si ritrovano abbondantemente sia agresti che addomesticate, donde
l’argomento di Triboniano qui avrebbe buon esito, quello del Gothofredo là non
funzionerebbe. Benché ammetto che anche l’argomento di Triboniano sembra piuttosto
malfermo. E infatti che cosa dirà delle colombe che si ritrovano in abbondanza sia selvatiche che agresti?
5. Si dirà dunque più adeguatamente che certi animali sono di una natura determinata alla selvaticità o alla domestichezza, altri di natura indeterminata, la quale talora
viene ammorbidita col cibo e con gli allettamenti, talaltra lasciata a sé quasi inselvatichisce. E certamente grandissima parte della controversia è posta nel definire e spiegare
il termine ‘selvaticità’. 6. A volte infatti selvatico si contrappone a mite, e significa
che è crudele e terribile, e in questo senso si dice belva, ossia un animale che reca danno
per naturale ferocia (l. 1. §. 10. si quadrupes pauperiem fecisse dicatur, l. 2. §. 2 D. ad
Legem Aquiliam68), e così nega il Weichbild che i Pavoni o le Colombe siano selvatiche, ossia grimmet, cioè grimmig69. Infatti, talvolta si contrappone il mansueto anche
all’addomesticato, cioè a quello che si è assuefatto alla mano70, il cui moto può essere
indirizzato dall’uomo anche senza una apprensione fisica. Tale animale addomesticato
ricorre talvolta nei Giuristi col nome di armento (§. 1. Inst. de Lege Aquilia, l. 2. D. eodem71), e si dice propriamente che si pasca ossia έθ72, e che viva in gregge (l. 65.
§. pecoribus de Legatis 373). In contrapposizione a questa [legge], la Glossa juris Saxonici, nello Schneidewin (§. 14. Inst de divisione rerum74), definisce Selvatico: Wilder
Natur ist alles, das man nicht mit Hirten hüten kan75. In tedesco si dice Scheu76. Così le
colombe e i pavoni, e insomma ogni animale di alto volo, è giudicato selvatico, mentre
le galline e le oche, che alto non volano, furono censite tra gli addomesticati. Che anche
i cani siano selvatici giudica il Wesenbeccio nelle Additiones ad Schneidewin (loco
citato). Certamente possono essere addomesticati, ma perlopiù solo relativamente a certe individualità, non del tutto.
7.
Per ultimo, Selvatico si contrappone a Domestico, ossia a quello che vive tra gli uomini, ed è detto propriamente ἄ77, e per
questa ragione anche la rondine non è selvatica, né lo sono i cani (come argomenta §. 1.
pr. Inst de Lege Aquilia78), e fin qui vale quella regola che vuole che quegli animali a
cui viene lasciata libertà di allontanarsi, vengano considerati addomesticati finché conservino l’animo ― ossia, come traduce Teofilo (op. cit.), ὸ ― di ritornare.
68
D. 9.1.10 e D. 9.2.2
‘Selvatico’. Già il L. sente il bisogno di specificare, in tedesco, il significato del termine usato dal Weichbild (‘grimmet’), già allora desueto, probabile retaggio medievale di Altdeutsch.
70
Non è riproponibile in italiano il gioco della spiegazione pseudo-etimologica di mansuetus = manui assuetum, poiché il termine latino non è traducibile come mansueto – che è, come si è visto appena sopra,
cicur –, ma solo come addomesticato, cioè assuefatto alla domus.
71
Inst. 4.3.1 e D. 9.2
72
A testo, erroneamente, έδ. έθ è forma rara, quasi inusitata, del verbo έω/έ,
ossia pascolo, conduco al pascolo; ma anche, occupo, posseggo, amministro, o distribuisco, spartisco, assegno. Si potrebbe pensare che ancora una volta L. abbia voluto giocare sulla polisemanticità
delle parole: l’animale domestico certo pascola, ma è anche qualcosa che si possiede o che – in
caso di controversia sul possesso – viene assegnato.
73
D. 32.1.65.4 (De legatis et fideicommissis)
74
Inst. 2.1.14
75
“Natura selvaggia è tutto ciò che non si può vigilare coi pastori”.
76
Soggezione; timore.
77
Selvatico.
78
Inst. 4.3.1.pr
69
QUESTIONE X.
1. L’Ippocentauro può non impropriamente esser detto una specie di semi-uomo,
e su di esso v’è una duplice questione: una, per così dire, storica “se l’Ippocentauro sia
esistito”; l’altra scientifica “se l’Ippocentauro possa esistere”: benché affermata quella,
si affermi la seconda; negando questa, si neghi la prima. 2. E che possa esistere, lo
nega l’Imperatore [§. 1. Inst. de inutilibus Stipulationibus79], e anche Celso [l. 97. de
Verborum Obligationibus80], poi l’Alciato [Parergon IX. 13.] e Lucrezio in quei versi
del lib. 5.81:
Sed neque Centauri fuerunt82, neque tempore in ullo
Esse queunt duplici natura et corpore bino.
[Ma né visser giammai Centauri al mondo,
Né con doppia natura e doppio corpo
Pôn di membra straniere in un congiunte
Formarsi altri animai…]83
3. Ma quei Giuristi son così da intendersi: che neghino la potenza, per così dire,
Ipotetica di esistere di quello, cioè che non sia stato, non sia e non sarà. Come quando si
nega che il mondo potrebbe essere stato creato da Dio altrimenti da come è stato fatto
non perché sia impossibile, ma perché, per la sapienza del Fattore che scelse il migliore,
non sarebbe stato fattibile. 4. Lucrezio sembra soltanto negare che sia esistita tutta
la gente simile a quella di cui si favoleggia; altrimenti innumerevoli mostri confuterebbero il secondo verso. Che il Centauro sia esistito, lo negano Cicerone (Tuscolanae, l.
I., natura deorum, 1. e 2.) e Galeno (Libri 3. de usu partium). 5. Il contrario afferma
Plinio (Historia Naturale, 7. 3.): che, [essendo] Cesare Claudio, un Ippocentauro nato
in Tessaglia sia morto lo stesso giorno, e anzi aggiunge di averne visto un altro, sotto il
di lui principato, portatogli dall’Egitto imbalsamato nel miele. Al che assentono il Coras (Miscellanea, V. 2.) e lo Hottomanno (Dialecticae, III. 8.), e certamente direi duro
screditare un uomo così illustre e diligente che impegna la propria parola. 6. Quanto
a quel mostro che apparve con le sembianze dell’Ippocentauro a Paolo l’Eremita, ne
riferisce san Girolamo nella vita di costui; allo stesso Covarruvias (l. 4. Variarum
Resolutionum, c. 2.), che trattò diffusamente questo argomento per tutto quel capitolo,
sembra simile a un’illusione satanica. 7. Quelli poi che negano sia esistito, non sembra abbiano parlato del mostro, ma di quella razza favolosa dei Poeti, quale di certo non
è mai esistita.
QUESTIONE XI.
79
Inst. 3.19.1
D. 45.1.97
81
vv. 878-79.
82
A testo: fuerant.
83
Trad. it. di ALESSANDRO MARCHETTI (1633-1714): Lucrezio, Della Natura delle cose, a cura di Paolo
Rolli, London, per Giovanni Pickard, 1717. La traduzione del Marchetti era nota a L. che la loda in quanto “jolie” (Essaies de Théodicée, II. tomo, nuova ed., Changuion, Amsterdam, 1734, p. 189). Cfr. M. Saccenti, Alessandro Marchetti e Lucrezio, in Lucrezio, Della natura delle cose, traduz. di A. Marchetti, a
cura di M. S., Torino, Einaudi, 1976. Più letteralmente, i due versi suonano così: Ma non ci furono Centauri, né in alcun tempo / possono esistere esseri di duplice natura e di corpo doppio (trad. it. di Francesco
Giannotti, in Tito Lucrezio Caro, La Natura, introduzione, testo criticamente riveduto, traduzione e commento di F. G., Milano, Garzanti, 1994).
80
1. La proterva audacia di studiosi recenti s’è spinta fino a negare che esista una
medesima essenza comune a tutti gli uomini; il che se così fosse, di certo verrebbe indebolita ed elusa la grande fiducia e consolazione del genere umano: perché in quel caso
non vedo come Cristo altrimenti sia nostro, che per il comune nome d’umanità. 2.
Tra i Singolaristi ho trovato in particolare Gir. Cardano, Fr. Sanchez, e Seb.
Basso – uno Italiano, l’altro Spagnolo e l’ultimo Gallo, tutti Medici – contrarî a una
specifica unità dell’uomo. 3. Di questi, i primi due non so se siano stati Atei, ma di
certo furono scettici; e all’ultimo forse qualche cosa suggerì lo spirito Calviniano. Ma
poi, essendo Medici, e scorgendo infinite diversità di temperamenti, sembrava loro di
non ritrovare qualcosa che fosse comune a tutti gli uomini. 4. Quanto al Cardano, lo
castigò lo Scaligero: avendo egli preteso che un uomo dipinto fosse più simile a un
uomo vivo che uno istruito a un ignorante, questi lo esortò a farsi portare da un cavallo
dipinto per le tempestose polveri Milanesi.84 Basso (Libri 3. de forma, Intentio I., art.
2), avendo trattato delle infinite varietà delle occupazioni degli uomini, credette poterne
inferire anche una diversità d’essenza. 5. Sulla medesima strada s’era posto prima
Fr. Sanchez (trattato quod nihil scitur p. 60). Le quali cose non è né il caso né il luogo
di confutare; sembra tuttavia che i Giuristi possano quanto a loro guardarle con favore.
Nemmeno l’Imperatore [l. 13. C. de contrahenda stipulatione85], infatti, osò affermare
che la natura di tutti gli uomini sia del tutto simile, ma la disse quasi simile.
6. Anche Ulpiano [l. 31. D. de Solutionibus et liberationibus86] sostenne che fra
gli artisti ci fosse una grande differenza di ingegno, di natura, di dottrina e di preparazione. Di questo trattano anche la l. 26. §. 12 de Conditione indebiti87 e la l. 12. D. de
Legatis 388. Di qui una naturale facilità a dissentire [l. 16. §. 6. D. de receptis qui arbitrium89: vd. Henr. Gebhard, de Principibus Juris Conclusiones, 14. p. 117]. 7.
Ma la stessa risposta può essere usata riguardo ai soli accidenti, e per quanto talora si
faccia menzione della natura, quella tuttavia dai Latini suole essere attribuita anche alle
condizioni e, per così dire, alle inclinazioni degli individui.
QUESTIONE XII.
1. Ma ora è tempo d’indirizzare il piede alla Metafisica, dove per primo verrà
questo argomento che attinge la ragione stessa dell’Ente, “se possano due contraddittorie essere contemporaneamente false, o se l’essere e il non essere ammettano uno stato
intermedio”, non riguardo alla partecipazione, ciò che accade quando sono entrambe vere, ma alla negazione. Acché poi qualcuno non ritenga che Logico sia soltanto
l’estraneo alla Metafisica, va notato quanto osserva Henr. Gebhard (principii jurisprudentiae, Conclusio 12. n. 8, pag. 146): che non di rado quei comunissimi attributi
dell’Ente siano comuni alla Metafisica e alla Logica, ma a quella giusta il modo di predicare, e a questa giusta il modo di essere90. Il che gioverà forse osservare anche per
quanto segue: che due contradditorie possano essere contemporaneamente false, sembra
84
Qui, il L. riprende pulvis nel senso metaforico di un noto passo del De Legibus ciceroniano (3, 14: doctrinam ex umbraculis eruditorum in solem atque pulverem produxit) ove, intendendosi come ‘polvere della strada’, sta a significare un luogo ‘all’aperto’, dunque ‘all’aria’; in L. pulvis starebbe qui proprio per
‘strada’; anche hybernus (= inverno), è qui usato nel senso traslato di ‘tempestoso’, come i giorni
d’inverno. Per cui una lettura plausibile della frase potrebbe essere: “per le accidentate strade milanesi”.
85
C. 8.37 (De contrahenda, et committenda stipulatione)
86
D. 46.3.31
87
D. 12.6.26.12
88
D. 32.1.12
89
D. 4.8.16.6 (De receptis arbitris, et qui arbitrium recipiunt, ut sententiam dicant)
90
Così il testo di L. Da intendersi tuttavia: a questa (cioè alla logica) giusta il modo di predicare, a quella
(cioè alla metafisica) giusta il modo di essere.
inferirsi dalla l. 88 D. ad Legem Falcidiam91. Ivi infatti dice il giureconsulto Africano:
se uno che aveva 400 aurei ne legò 300, poi legò a te un podere del valore di 100 aurei
a questa condizione: che nel suo testamento non avrà luogo la legge Falcidia. Qui,
qualsiasi cosa noi affermiamo come vera, si ritroverà falsa. Infatti, se il Legato varrà, la
legge Falcidia avrà luogo ex lege, e pertanto il Legato non varrà per condizione del Legato stesso. Se il Legato non varrà, non avrà luogo ex lege la Falcidia, e così il Legato
varrà per la condizione del Legato.
2. V’erano poi, tra i sofismi degli Stoici, molti particolarmente insolubili (cfr.
l’Africano, cit. l. ἄο92), come il Sorite e lo Pseudomenos93 o Mentitore: su entrambi vd. il Gothofredo alla l. 88. e P. Gassendi, Tomo I. delle opere, liber de Logicae Origine et Varietate, c. 2. f. 39. Sul Sorite, la l. 65. D. de Regulis Juris94, Fr. Hottomanno, Dialogi IV. 7 e ὁ ά95 Thomasius nostro, dissertationes de minimo numeri partium familiae, thesis 17. Della stessa specie è il ό96, ove si chiede da qual numero di capelli perduti uno diventi calvo. Sul Mentitore vd. Gellio, V. 10.
IX. 15. e 16., Seneca, de Beneficiis V. 19., Fr. Hottomanno, op. cit. IV. 16., ut sic dicam: nunc ego mentior97; Corr. Hornejus, Logicae Institutiones, III. 18. Quivi l. 16.
D. de conditionibus institutionum98, l. 9. D. de Verborum obligationibus99; e quella disputa di Evatlo e Protagora, o, come altri vogliono, di Corace e di Tisia, in Gellio, V.
10. e Quintiliano, III. 1.
3. La quale [disputa] Gio. Caramuele à Lobkowitz (Metalogicon IX, p. 444)
tentò di risolvere così: che Protagora vinse perché si presume che abbia eccepito questo
caso, ‘se il discepolo agisca contro di lui’. Ma avendo egli stesso, come accusatore,
avanzato per primo questo dilemma, appare chiaro che non eccepisse questo caso.
Quindi, o questo caso non venne in mente a Protagora quando trattò l’affare, o gli venne
in mente. E se gli venne in mente, certo non basta l’eccezione mentale, che altrimenti si
toglierebbe di mezzo ogni relazione dell’umano genere; se non gli venne in mente, ancora meno basta la preterizione o eccezione mentale puramente negativa, altrimenti si
sarebbero potuti eludere i contratti in infiniti modi. 4. O va detto che nella causa soccomba quello che sofferse per la frode? E se Evatlo da principio non tendeva a questo,
ma poi incorse nella fallacia, sarà tuttavia sconfitto, perché non è ammessa l’efficacia
del contratto, la quale posta all’inizio renderebbe il contratto inesistente come argomenta la l. 80. D. de Verborum obligationibus100. Chi infatti crederebbe Protagora così stolto, se avesse conosciuto le arti del discepolo, da lasciare che gli fossero imposte, sapendolo? Più opportunamente risponderemo che forse i giudici si sarebbero pronunciati nella maniera più equa così [giudicando]: tu, Evatlo avrai vinto, cioè: in questo particolare
giudizio che il Maestro istituì contro di te, non essendo ancora stata interamente realizzata la condizione del contratto, tu avrai vinto, di maniera che tu non debba pagargli
91
D. 35.2.88
i.e., gli insolubili; cfr. Platone, Sofista, 273c. La legge cit. è quella di cui alla nt. preced.
93
Richiamato dal passo del Digesto in questione [D. 35.2.88], che – come scritto dallo stesso L. – riporta
un frammento dal liber quintus quaestionum del giureconsulto Africano. Recita il passo: “dixi τῶν
ἀπόρων hanc questionem esse, qui tractatus apud dialecticos τοὺ ψευδομένου dicitur.”
94
D. 50.17.65
95
Il meraviglioso. Notare, ancora una volta, il gioco di parole thaymasius/Thomasius.
96
i.e. ‘calvo’.
97
“Come quando dico, ora mento”.
98
D. 28.7.16
99
D. 45.1.9
100
D. 45.1.80
92
nulla, essendo beninteso egli stato respinto per la exceptio plus petitionis101. A lui tuttavia non mancherà, in una fase successiva, la possibilità di un’altra azione contro di te,
affinché – per il fatto che tu ora hai vinto – tu paghi adempiendo la condizione del vostro contratto. Così i giudici avrebbero rispettato sia l’equità naturale, sia lo stretto diritto, dal momento che, rimosse le sottigliezze del patto, al maestro si deve certamente
gratitudine. Infatti, se vogliamo dire il vero, Protagora non avrebbe ancora potuto chiedere con ragione, giacché la condizione non si era ancora realizzata. Scaltramente tuttavia istituì così la causa, in maniera da sembrare in prima istanza condannabile, per potere poi, raccolte le forze, più violentemente assalire. Infatti, se avesse richiesto per prima
cosa quello che sembrava reclamare la natura della cosa, che Evatlo fosse forzato ad arringare nelle cause, gli Areopagiti o avrebbero negato che costui potesse essere costretto
a questo, o quello sarebbe stato deliberatamente negligente, e si sarebbe impelagato in
una causa che forse non avrebbe vinto nemmeno se avesse voluto. Scaltramente dunque
richiese ciò che non era equo per ottenere ciò che lo era; benché la negligenza dei Giudici e l’animo paralizzantesi per la perplessità eludessero la sua accortezza. Anche qui a
me sembra prontissima la soluzione, quando il precedente si risolva più o meno secondo
il pensiero del Caramuele.
5. Circa il Nunc ego mentior’ (dal che si inferisce: questa Proposizione è o vera o
falsa. Se è vera, di certo sarà falsa. Ciò che dice, infatti, lo dice veritieramente, ma dice
di mentire; e ciò che è mentito, è falso. Se è falsa, certamente sarà vera. Perché se è falsa, è vera la contraddittoria: ‘Io ora non mento’. Ma ciò che non è mentito, è vero. Questa enunciazione, dunque, è vera). Circa dunque il ‘Nunc ego mentior’, i Conimbricenses (de Interpretatione c. IV., q. 3.) e sulle loro tracce Hornejus (op. cit.) rispondono che le Enunciazioni riflessive non sono veramente significative. Ma Enunciazioni
riflessive è un termine ambiguo, perché ‘riflessiva’ si dice o in ragione del soggetto o in
ragione di se stessa. Le Enunciazioni riflessive con le quali l’intelletto riflette su se stesso e sulle sue proprie operazioni sono senza dubbio significative: ma l’Enunciazione riflessiva in se stessa non è significativa; infatti siccome altro è necessariamente l’atto
dell’intelletto per cui conosce direttamente quella Enunciazione, altro ciò per cui in seguito riflette su quella, appare evidente che essa non rifletta su se stessa, ma sopra la
precedente diretta. Di conseguenza l’Enunciazione riflessiva sopra se stessa non può essere in nessuna mente, ma inganna per la nuda disposizione delle parole, infatti è proposta a parole così come se fosse insieme diretta e riflessiva, il che di certo non può verificarsi. Se poi questa proposizione, ‘Io ora mento’, debba essere considerata significativa,
sarà quasi pregnante102 e duplicata, inglobandone un’altra: noi allora risolveremo così,
che in luogo di quella, dove ora si cela l’altra proposizione, quella stessa sia posta esplicitamente in questo modo: ‘Io mento, mentre dico: io mento’. E così appare una qualche
via di soluzione. Infatti, codesto secondo: ‘Io mento’, o si riferisce a qualcosa o a nulla.
Se a nulla, non può mentire colui che non mente nulla; se a qualcosa, allora [si riferisce]
o a un’altra proposizione, e qui sarà facile la risposta e si potrà determinare se menta
oppure no: Se di nuovo a quel ripetuto ‘Io mento’, allora io chiederò in modo simile e, o
si darà un processo all’infinito, il che essendo assurdo, tutte le precedenti [proposizioni]
cadono, in quanto fondate sul nulla; ovvero l’ultima [proposizione] si riferisce a nulla,
sicché tutte le precedenti analogamente cadono103; o [si riferisce] a qualche altra proposizione, e allora certamente si potrà determinare se menta o no.
101
Eccezione per richiesta eccessiva. L’eccezione era un rimedio di diritto pretorio che, non potendo cancellare la validità di un atto ex iure civili, poteva però paralizzarne l’azione e l’efficacia.
102
Nel senso di Plinio, 10, 102: lapis praegnans, pietra che ne contiene un’altra.
103
È un caso di quelli che la scuola medievale, e ancora quella immediatamente precedente al Leibniz,
catalogava tra gli insolubilia, e come tale da farsi cadere in quanto privo di significato.
6. Alla difficoltà derivante dalle nostre leggi, rispondo che si deve presumere, circa
l’intenzione del legante, se abbia voluto che il Legato sia nullo e solo scherzare (perché
questa è la natura di alcuni, che non smettono gli scherzi nemmeno in punto di morte),
dal momento che ha consapevolmente accoppiato delle cose incompossibili, e così per
stretto diritto è nullo, e per la sottigliezza del diritto, ma tuttavia per equità, e come afferma il Giurista (op. cit.), la cosa va equilibrata con l’exceptio doli mali104: ossia che il
legante volle che il Legato valesse, e con quelle parole quasi pregare il giudice che gli
rimettesse la legge Falcidia. E questo varrà tanto più per il diritto novissimo, pel quale è
lecito al testatore di proibire espressamente il ricorso alla Falcidia [Novellae 1. c. 2; Authentica sed cum Testator, C. ad Legem Falcidiam105]. Se poi non possa ottenere, in
quel caso, che questa sia la sua volontà, almeno che non tutto il Legato sia nullo, ma solo nella misura da detrarre per la Falcidia.
7. Da ultimo, tocca in questo luogo chiedere se possano esserci futuri contingenti di
verità o falsità determinata in sé e rispetto a DIO (il che è lo stesso, perché egli conosce
le cose come sono). Per i Cristiani, tutto questo è fuor di dubbio, ma Aristotele
(ὶἑηὶας] c. 5.)106 e gli Stoici, e i Giuristi loro discepoli insegnarono il contrario [l. 75. e 100. de Verborum obligationibus107, e ibidem il Cuiacio e il Gothofredo,
e la l. 16. de injusto testamento108]. A questi ultimi tuttavia contraddice il Giureconsulto
Paolo, e difende un’opinione più vera, spiegando elegantemente che le cose certe per
natura sono incerte per la nostra ignoranza [l. 28. §. 5. de Judiciis109, e inoltre §. 6. in fine. Inst. de Verborum Obligatione110].
QUESTIONE XIII.
1. Nella questione precedente abbiamo esaminato in certo modo la congiunzione
dell’Ente col non-Ente, ora dobbiamo considerare l’unione dell’Ente con l’Ente, la quale o è Identità perfetta, o imperfetta, e viene concepita o precisamente, quando queste
due stanno vicendevolmente tra loro, ed è Presenza (q. 14.), o, quando da qui risulta un
terzo, senza dubbio un Tutto (q. 15.). Ora bisogna considerare l’Identità, e si chiede “se
sia da assumersi dalla durata della forma o anche dalla persistenza delle parti materiali”.
2. Si contrappongono a noi i medesimi Novatori, avversi quasi per un accordo ad
Aristotele, Fr. Sanchez (trattato quod nihil scitur, p. 68), e Seb. Basson (libri 3.
de forma, intentio 2. per tot.). Il quale stesso (l. 9. artic. 2.) adduce il Timeo di Platone,
il quale afferma (p. m. 1059111) che, a causa del continuo flusso delle cose, nulla sia da
chiamarsi questo, e nulla quello, ma tutto tale o tale. Ma quello sembra esser mosso ad
un perpetuo flusso delle cose sensibili quasi e contrario dalla stabilità delle sue Idee.
3. Fra gli stessi Peripatetici, poi, circa l’accrescimento delle cose viventi, ci sono
grandi dispute, sulle quali copiosamente [si diffonde] lo Zabarella (Liber de Accretio104
Il dolus malus è un comportamento atto ad indurre in errore la controparte nel processo di determinazione della sua volontà. L’exceptio doli mali è dunque ammessa avverso un comportamento contrario alla
bona fides (il dolo, appunto) intervenuto nella conclusione del negozio. Poiché il ius civile non tiene conto del dolo, si inserisce l’exceptio doli dimodoché la formula “Si paret Numerium Negidium Aulo Augerio tot dare oportere, qua de re agitur”, risulta modificata con l’aggiunta delle parole “si in ea re nihil dolo
malo Auli Augerii factum est neque fiat”.
105
Novellae Iustiniani, I. c. 2. (De haeredibus et Falcidia); Authentica Sed cum testator (a C. 6.50[49].7).
106
Latino De interpretatione, secondo corno dell’Organon giusta l’ordine di Teofrasto.
107
D. 45.1.75 e 100
108
D. 28.3.16 (De iniusto, rupto, et irrito facto testamento)
109
D. 5.1.28.5 (De iudiciis, et ubi quisque agere, vel conveniri debeat)
110
Inst. 3.15.6
111
Timeo, 48e – 53c.
ne). Scoto volle tagliare questo nodo con la spada della equivalenza, con la qual risposta
tentò anche di togliere via gli altri ostacoli circa la immobilità del luogo. Dunque stimò
che nel vivente si mutano e la forma e la materia, il che è contro Aristotele (lib. I. de
Generatione et Corruptione, c. 5. t. 37.). Ma gli Averroisti: Zimara, Zabarella, ed
altri Italiani, guardando alle intenzioni di Aristotele, gli sono più prossimi, e dichiarano elegantemente come il vivente resti uno solo. 4. E va pure negato che mai accada che l’uomo perda tutte le parti; è di certo probabile che in certe parti l’anima sia come piantata più saldamente, e che quelle invero permagono sempre, di modo che in un
luogo stia la fonte della vita, in un altro scorrano i rivoli. I Rabbini dei Giudei, con
finezza impiantarono l’abitacolo dell’anima in una determinata parte del corpo, dalla
quale per nessuna forza, da nessuno strumento possa essere staccato, e confidarono che
in quell’aula esso regni anche dopo morto l’uomo.
5. Per altro è noto a tutti, da Alfeno [l. 76. D. de Judiciis112], [quel passo] dove si
chiede se per la mutazione di singoli giudici muti il giudizio: la risposta è che se anche
mutassero tutti, il giudizio113 resterebbe identico. Alla stessa maniera va giudicato della
Legione, del popolo, della flotta [l. 83. §. 5. de Verborum obligationibus114], e se questo
non fosse ammesso, noi stessi non saremmo i medesimi (aggiungi l. 22. e 65. D. de Legatis I115). Del c.d. Navigio, la nave di Teseo e di Giasone, che dai Poeti viene detta Argo, si mette in luce come gli Ateniesi, essendo continuamente aggiunta nuova materia,
la conservassero fino all’età di Demetrio Falereo: ne sono testi Plutarco nel Teseo e
nel de sera numinis vindicta, Aless. d’Alessandro (Genialium Dierum III. 10.), Tiberio Deciani (T. III., Consil. 19).
6. Si deve poi distinguere fra i gradi d’Identità. Infatti, da un lato c’è l’Identità omnimoda116, che consiste quasi nell’indivisibile (Fr. Sanchez, op. cit.) e ripugna da ogni
mutazione; dall’altro, c’è l’Identità omnimoda essenziale, la quale riceve sì una sorta di
mutazione accidentale (per es. come una cosa quasi pervenga in un altro luogo e in un
altro tempo), ma richiede che tutte le parti essenziali, sia materiali che formali, restino
costanti: infine v’è una Identità formale, dove la specie persiste, sia pure mutando e la
materia e gli accidenti. E anche questo è un assioma di Alfeno (l. cit.): che di una cosa
della quale sussista117 la specie o la forma, pure la cosa sia stimata la medesima. Così
Seneca nell’epistula 58. contra Heraclitum, il quale nega che lo stesso fiume possa essere traversato due volte, afferma che il nome del fiume resta il medesimo, [solo]
l’acqua è passata. 7. Per lo stesso principio, Aristotele (III. Polit. 2.) e quivi Mich.
Piccardo (p. 350) e Grozio (II. Jus Belli et Pacis 9., e le note a questo del Chiarissimo Boeclerus, diss. de eo, quod civitas egit), dicono che resta medesima la città finché
112
D. 5.1.76 (De judiciis, et ubi quisque agere, vel conveniri debeat)
Leibniz intende qui ‘judicium’ come sinonimo di ‘corte’, di collegio giudicante, sulla base del disposto
da D. 5.1.76: “Proponebatur ex his iudicibus, qui in eandem rem dati essent, nonullos causa audita excusatos esse inque eorum locum alios esse sumptos, et quaerebatur, singulorum iudicum mutatio eandem
rem an aliud iudicium fecisset. respondi, non modo si unus aut alter, sed et si omnes iudices mutati essent,
tamen et rem eandem et iudicium idem quod antea fuisset permanere”. La cosa, tuttavia, appare discutibile: infatti, se il tribunale come istituzione, cioè come luogo deputato al Giure, resta certamente immutato,
mutandone i singoli componenti, lo stesso si può davvero ripetere per un collegio giudicante?
114
D. 45.1.83.5
115
D. 30.1.22 e 65 (De legatis et fideicommissis)
116 i.e. di ogni genere.
117
Nel senso di ‘conservarsi’.
113
resti la forma del regime, donde anche l’obbligazione dei predecessori lega chi segue118,
e gli imperi sono immortali, a meno che non vadano in pezzi in un’enorme confusione.
QUESTIONE XIV.
1. La voce di Presenza può essere applicata anche a coloro che mancano
d’intelletto, come corpi contigui, o quasi contigui: tuttavia viene soprattutto impiegata a
proposito degli intelligenti. 2. Perciò si chiede nel nostro diritto: “se un dormiente sia
presente”, e lo nega il Giureconsulto Fiorentino nella l. 209 de Verborum Significatione119, dove lo stesso è detto del bambino e del pazzo. Che anzi, la l. 1. §. 3. D. de acquirenda possessione120 nega che codesti che abbiamo appena detto possano acquisire il
possesso, anche se lo tocchino col corpo, poiché non hanno il sentimento di tenerlo. 3.
Di questa cosa Andr. Alciato alla citata l. 209 de Verborum Significatione e Gio.
Crispino, ibidem, rendono questa ragione: che la mente sente, ma non il corpo, e perciò chi è fuori di mente non sembra affatto essere presente. 4. In primo luogo, noi
propriamente siamo l’anima, secondo la dottrina di Platone nell’Alcibiade Maggiore
(p. m. 446), la quale fu in grande onore presso i Giureconsulti; e allora quando Alfeno
ci dice che l’anima consista di minime particelle [cit. l. 76. D. de Judiciis121], sembra in
questo seguire Epicuro. [5.] Conseguentemente, se l’uomo è l’anima, gli Spiriti non
sono presenti in loco propriamente se non tramite il loro operare, secondo l’opinione di
Fr. Vallesio (liber de Sacra Philosophia, c. 4): la mente senza la comprensione non
sarà presente. [6.] Perciò si concluderà che il dormiente non è presente. Queste cose
scaturiscono dalla loro122 ipotesi; ma più opportunamente si dirà che l’elemento materiale della presenza sia o relativo all’essenza o secondo l’ordine fisico123, quello formale, invece, relativo all’intellezione di ciò di cui si tratta. [7.] Dunque la presenza del
dormiente è soltanto imperfetta, e colui va ritenuto presente col corpo ma non moralmente e a rigor di diritto.
QUESTIONE XV.
1. Il Tutto e la Parte vengono variamente distinti dai Giuristi. E quanto alla Parte,
una sarà detta pro diviso e l’altra pro indiviso, come si dice volgarmente, delle quali Fr.
Hottomanno (Dialectica, I. 7.) chiama queste corporee e sensibili, e quelle constanti
solo di animo e d’intelletto. La Parte pro diviso è quella che comporta una pluralità nella cosa, come quando un fondo viene diviso tra più persone secondo la parte assegnata a
ciascuno. La Parte pro indiviso è quella che consiste non nella pluralità della cosa, ma
nella diversa considerazione di un’unica cosa, come quando un unico schiavo sia legato
a due, e sarà di entrambi: ma siccome il dominio, che è indivisibile, non può essere assolutamente il medesimo in più soggetti, lo schiavo finché ha relazioni con due diversi
Padroni, s’intende come diviso in due parti potestative, come se prestasse la sua opera
egualmente a ciascuno dei due (giusta Ulpiano, l. 5. D. de Stipulatione servorum124).
118
Qui L., accostando antecessores e secutores, gioca un po’ con le parole: probabilmente intende nel
senso che l’erede è tenuto alle obbligazioni dei maggior’ suoi, ma lo fa con una metafora militaresca
(donde forse anche il successivo riferimento agli imperi): antecessor, infatti indica il soldato
dell’avanguardia, mentre secutor è insieme chi sta alle costole di qualcuno (cfr. Apuleio, Metamorfosi 9,
17) e il gladiatore che combatteva contro il reziario (cfr. Svetonio, Caligula 30; Giovenale, 8, 210).
119
D. 50.16.209
120
D. 41.2.1.3
121
Vd. nt. 112.
122
Ossia, dei succitati autori.
123 i.e. dei corpi.
124
D. 45.3.5
U. Gifanio (praelectiones in Titulo de acquirenda possessione, n. 29. seguenti) chiama
‘certa’ la parte pro diviso, ‘incerta’ quella pro indiviso (argomentando da l. 25. D. quibus modis ususfructus amittatur, l. I. D. uti possidetis, l. 3. §. 2. e 76. §. 1. D. de Rei
Vindicatione 2125). Affine a questa divisione è quella del Grozio (de Jure Belli et Pacis, 3. 17.): che le parti siano alcune soggettive, altre potenziali (dove assume dalla Scolastica più i termini che l’interpretazione); infatti, nella dottrina sulla divisione della Sovranità (op. cit.) mostra così con esempî che le parti sono soggettive quando dividono
più province; potenziali, quando dividono i poteri, o i diritti, o le regalie.
2. Inoltre il Tutto, che abbia distinte le parti corporalmente ed evidentemente e da
parte della cosa, lo dividono in congiunto e continuo, o disgiunto; così Fr. Hottomanno argomenta a partire da l. 30. D. de Usurpationibus126, dove il Tutto viene detto, in un
caso essere contenuto da un solo spirito, in greco ἡνoμένoν o unito (per es. uomo, pietra,
legname), in un altro consistere di più cose coese, ma non così unite, in greco
συνημμένoν, o connesso, in un altro ancora [consistere] di cose distanti, che si dicono
διεστῶτα127 come il Gregge. Il primo lo puoi chiamare Continuo, il secondo Contiguo, il
terzo Distinto. L’Unito, poi, e il connesso nell’Hottomanno vengono riuniti in uno
(aggiungi Teofilo, §. 18. e 19. Institutiones de Legatis, p. m. 266.128). 4.129 Cosa significhi essere da un solo spirito, è una cosa complicata; certo sembra che lo spirito significhi per quelli la specie o la forma [l. 23. §. 5. D. de Rei Vindicatione130], a giudizio
anche del Grozio (II. 9. 3.) il quale annota che da Plutarco viene detto ἔξιν μίαν131,
dal Matematico Conone (riportato da Ach. Stazio nell’Aratum) ἔξιν σώματoς
συνεκτικὴν132, da Filone πνευματικὸν συνέχoν133 (vd. Cujacio, XV. obs. 33. e Gothofredo, op. cit. 30.). Quando dunque lo spirito significhi la forma, va detto prima di
tutto che qui si tratta di una forma non artificiale ma naturale, come anche la distinzione
dell’‘unito’ dal ‘connesso’, ed esempî correlati, indicano, o che sia similare (ciò che di
nuovo viene lasciato allo stato naturale, come la pietra, o estratto da esso, come il legname), o che sia dissimilare come l’uomo, fintantoché sia contenuto dallo spirito e dalla forma sostanziale. Grozio poi abusivamente afferma che anche lo Stato sia contenuto da un solo spirito (op. cit.). 5. Un Tutto poi Congiunto in qualche modo in ragione
del congiungente – il che avviene o per natura o per arte – si divide in unito e connesso;
allo stesso modo in ragione delle parti da congiungere si divide in similare e dissimilare.
Del Similare c’è un esempio alla l. 34. §. ultimo. D. de Legatis I.134: Varrone chiama
Fondo, ciò che io potrei lanciare con la fionda135; del Dissimilare, alla l. 56. D. de Evictionibus136: Una parte d’un uomo non è un uomo.
6. A questa divisione l’Hottomanno ne unisce un’altra, per la quale le parti si dividono in estranee e in affini, come illustrano gli esempî forniti, l’albero, la casa, la
messe, ecc. (le quali cose stando tutte sopra un fondo vengono chiamate dai Giuristi col
nome di Superficie), sono parte del fondo, e la pittura del quadro e la scrittura della car125
D. 7.4.25 (quibus modis ususfructus vel usus amittatur), D. 43.17(16).1, D. 6.1.3.2. e 76.1
D. 41.3.30 (De usurpationibus et usucapionibus)
127
“Separate”. Da διίστημι (part. pass. διεστός), come termine eminentemente medico significa proprio
“separare, distinguere”: cfr. anche Erodoto 7, 129, τὰ διεστεῶτα ὑπὸ σεισμοῦ = le crepe (le aperture),
provocate dal terremoto.
128
Teophilus antecessor, Paratitla ad Institutiones Justiniani, 2.20.18 e 19.
129
Il salto nella numerazione dei paragrafi è in L.
130
D. 6.1.23.5
131
Una sola proprietà.
132
Proprietà congiunte del corpo.
133
Unione pneumatica.
134
D. 30.1.34.15
135 Intendi: ciò che coprire con un solo tiro di fionda.
136
D. 21.2.56 (De evictionibus, et duplae stipulatione)
126
ta [l. 7. e l. 9. de acquirendo rerum dominio137]. Ma questa distinzione va concepita secondo una ragione di gran lunga diversa, infatti le parti tutte o stanno tra loro come
principale ed egualmente principale in ragione della parte (ad es. le membra dell’uomo,
ciascuna delle quali è egualmente essenziale al corpo), oppure come principale e accessoria (ad es. i peli sono parte del corpo, come gli alberi del fondo). In breve, qui intendo
parte principale negli eterogenei (perché negli omogenei la cosa va da sé), [quella] la
cui asportazione rende il tutto mutilo, accessoria quella la cui asportazione non lo rende
mutilo.
7. Di altre divisioni di tutto e di parte un poco più confuse nei Giuristi, non ne tratto qui: come quella dell’Alciato alla l. 72. de Verborum Significatione138, n. 5., secondo cui la parte si divide in “numerale” (come tre rispetto a nove), “integrale” (come
l’usufrutto rispetto alla proprietà) e “quota” (come il triente rispetto all’asse)139: e
l’Everhardo (Loci VIII. 8.): il Tutto è o integrale, sotto di che comprende l’essenziale,
o universale (come animale, eredità), con cui s’intende le cose universali nel senso dei
Giuristi, cioè le aggregate; o generale, sotto di che abbraccia il tutto pro indiviso, o
quantitativo, con cui s’intendono le cose fungibili che dai Giuristi vengono dette quantità.
QUESTIONE XVI.
1. I casi precedenti sono assunti dalla Metafisica generale, mentre quelli relativi
alle Relazioni, che ora aggiungeremo, pertengono a quella speciale. Considereremo
prima qui la loro essenza, poi il fondamento alla q. 17. Circa l’essenza, v’è controversia
se gli Enti Morali – ad es. il Giure, la Proprietà, la Servitù, ecc. – siano Relazioni o
qualcosa d’altro, e quindi se le Relazioni con un preciso soggetto e fondamento siano
Enti reali o di ragione.
2. Certo i Giuristi, quando ripartiscono le cose, come negli Stoici, in corporali e
incorporali, non v’è dubbio che delle Relazioni facciano degli enti reali. La quale divisione, essi sembrano aver costruito non tanto sopra la cosa in sé, quanto sul nostro modo
di conoscerla: poiché infatti noi conosciamo o per senso, o per intelletto, o per entrambi,
quelle che percepiamo anche col senso, sono state dette corporali; quelle [che percepiamo] solo con l’intelletto, incorporali. 3. I Giuristi comprendono tra le incorporali sia
i diritti, sia le cose fungibili, le quali non sono considerate secondo la loro materia, ma
secondo la stima che se ne fa. Codesti diritti U. Grozio (Jus Belli et Pacis, I. 1. 4.) li
chiama Qualità morali, come se le contrapponesse a quelle naturali.
4.
E
il
Chiar.mo Weigelio, Professore di Matematica a Jena, Maestro venerabile e mio protettore, istituì tre principali generi di Enti: Naturale, Morale e Nozionale, e in ciascuno di
essi ricerca la Quantità o stima, la Qualità, e l’Azione. Dunque riconduce i diritti alle
qualità morali, e come lo Spazio è il substrato dell’azione naturale ossia del moto, lo
Stato è in certo qual modo uno spazio morale, nel quale quasi si esercita un movimento
morale. 5. Il che espresse il dottor Sam. Pufendorffio, ora Professore a Heidelberg (Elementa Jurisprudentiae, l. I. def. 1. seqq.). L’insigne Giureconsulto Gifanio
(praef. in 5. Ethicorum Aristotelis), invece, riferisce il diritto alla Categoria della Azione, e afferma che altro non sia che una azione giusta promanante dall’abitudine. Il che
sembra davvero assurdo, perché l’azione è posteriore, il diritto precedente, e in certo
qual modo al pari della potenza, donde viene chiamato anche potestà; aggiungi che se è
vero che il diritto non è altro che un’azione, chi non agisce non avrà il diritto
137
D. 41.1.7. e 9
D. 50.16.72
139
Monete; il triente equivaleva a  dell’asse, unità di misura del soldo.
138
all’azione140, e anche i contratti non dureranno oltre l’atto del contrarli, il che è
¥topon141.
6. Alla categoria della Relazione riporta tutti i Diritti o cose incorporali Fil. Melantone nella Dialectica, il quale per questo chiama tale predetta categoria [di relazione], Politica: vd. ivi Vittorino Strigelio, e Jac. Schegkius, Comentum ad Categorias Aristotelis, ib. et l. 6., Topica Aristotelis l. 57. Il quale [ultimo] tuttavia le chiama
meno accuratamente relazioni di ragione. Quelli che le chiamano qualità si servono di
questa voce piuttosto liberamente, dal momento che alla domanda “quale quid”142, si
può rispondere, ad es., “qualis hic?”143 libero, schiavo, ecc. Il dott. Pufendorffio (I.
defin. 5. §. 1.) certamente chiama i diritti rispetto alla pertinenza. 7. Che poi i diritti
siano Relazioni e non Enti reali lo ammette anche H. Donello (V. comm. 1). Ma la relazione è certamente di per sé un Ente debole, ma non tuttavia un nulla: e benché il diritto sulla cosa si distingua dalla cosa, tuttavia il termine di ‘cosa’ è qui così strettamente
inteso, che si distingue per persona e per modo.
QUESTIONE XVII.
1. Il Fondamento della Relazione è ciò per il quale inerisce al soggetto; la Ragione
del fondamento, ciò per cui essa viene introdotta144. Ma quella Relazione, tuttavia, il cui
fondamento è la sostanza, inerisce immediatamente; una Relazione è difficilmente priva
della Ragione del fondamento, se non quella il cui fondamento è la qualità. Ci si chiede:
“Se qualche Relazione possa fondarsi su una Relazione”. 2. E certamente l’analogia
o proporzione è la ragione o la similitudine delle ragioni, ad. es. come 2 sta a 4, così 8
sta a 16. Che anzi, quando la specie inferisca la convenienza degli Individui, se vengono
a confluire due specie, e in esse due convenienze, il genere sarà tratto da queste, e in
questo la convenienza delle convenienze. 3. Simile è la disputa tra i Giuristi, se si dia
il dominio e il possesso delle cose incorporali. Lo afferma il Treutlero (II. 20. 1.), lo
nega il Gifanio alla l. 6. D. de Donationibus145 n. 12.; discute su entrambe le posizioni
il Bachovio (ad Treutlerum, loc. cit.), per passar sopra a innumerabili altri. I Fondamenti di entrambe le parti sono posti nelle locuzioni delle leggi, le quali tuttavia talvolta
sono improprie e meno esatte.
4. Va dunque notato che altro è la Relazione di
convenienza, altro quella di Congiunzione. Si dà Relazione di convenienza della
stessa convenienza – ad es. il genere del genere –, ma non congiunzione di congiunzione. 5. Se infatti una prima volta alla congiunzione stessa (per es. alla relazione di
pertinenza della cosa col proprio proprietario) sia necessaria la congiunzione, perché
non anche la seconda, e la terza, e all’infinito? 6. La convenienza della convenienza,
infatti, non compara questa con quelle cose delle quali è convenienza, ma con altre convenienze; e se la congiunzione della congiunzione si prestasse allo stesso vincolo con
quelle cose che il vincolo congiunse fra di loro, una volta che si fosse arrivati al sommo
genere, mancherebbero talora le convenienze da riunire; e in questo i vincoli non sarebbero mai da sciogliere di nuovo. 7. E perciò, meglio sembra di poter dire che il possesso e il dominio non sono ciò che abbiamo, ma ciò per mezzo dei quali abbiamo, e
140
In un diritto, come quello romano, rigidamente formalizzato, e basato proprio su specifiche, tassative
actiones, significava l’impossibilità totale d’esercitare giudizialmente il proprio diritto.
141
‘assurdo’.
142 Letteralmente ‘quale che’, cioè ‘di che qualità’.
143 Letteralmente ‘quale chi?’
144 Intendi: si realizza, diventa attuale.
145
D. 39.5.6
che tali cose non siano possedute o occupate per altro possesso o dominio che da se
stesse.
Corollari
1.
L’Ente di ragione si definisce male, perché non è e non può essere.
2. Che sia stato fermamente provato che il vuoto non si dia non lo abbiamo ancora
visto146.
3. Che le navi siano spinte dalla remora è un consistente esempio della prisca credulità.
Basta.
146
A questo stadio giovanile del suo pensiero, segnato dall’influenza della filosofia meccanica, L. accettava l’esistenza del vuoto, posizione che avrebbe in seguito abbandonato.
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