7 FONDERIA 7.2 Fusione in terra (annotazioni) 7.2.1 Caratteristiche del modello Colorazione e scritte Il modello di legno deve essere colorato, con vernici adatte, per indicare il materiale da usare nel getto, per favorirne l’estrazione e per proteggerlo dagli agenti atmosferici. Questa fase non è necessaria per tutti i materiali. Devono essere presenti anche scritte e marcature (per indicare le varie parti ecc.), indicate dalle normative. 7.2.2 Sabbie e terre per fonderia I leganti a base di silicato di sodio, impiegati nel procedimento al CO2, si trovano in commercio sotto denominazioni varie, quali Carsil Foseco, Steinex, Gas-Col ecc.: si mescolano nella proporzione media del 3% con sabbia silicea selezionata, lavata ed essiccata, con aggiunta di additivi (nero minerale, farina di legno, peci e granulare ecc.) per migliorare la sgretolabilità dopo la colata. L’insufflazione di CO2 può venire praticata con diversi sistemi come sonde, ventose o apparecchiature semiautomatiche. Analisi chimica Per poter determinare la composizione della terra si esegue l’analisi chimica, sia per quanto riguarda gli elementi essenziali, come silice e argilla, sia per le impurezze, tollerate entro certi limiti per non modificare le proprietà della terra stessa. Le impurezze possono essere: 1. il carbonato di calcio: per effetto del calore del getto il CaCO3 si decompone in biossido di carbonio (CO2) e ossido di calcio (CaO); il primo provoca soffiature mentre il secondo reagendo con la silice forma un silicato che fonde facilmente e incrosta i getti; 2. il carbonato di magnesio: produce gli stessi inconvenienti del carbonato di calcio: massimo tollerato 1%; 3. la mica: presenta gli stessi inconvenienti dell’ossido di calcio. 1 4. l’ossido di ferro: diminuisce la refrattarietà ed è tollerato nella quantità massima del 3%; 5. l’ossido di alluminio: forma con la silice silicati fusibili diminuendo quindi la refrattarietà: massimo tollerato 2%; 6. i sali di potassio: diminuiscono la coesione a caldo e provocano il disfacimento della forma; Metodi di prova delle terre e sabbie per fonderia Consentono: 1. la determinazione della permeabilità; 2. la determinazione del tenore di argilloide; 3. la determinazione dell’umidità; 4. la determinazione della resistenza meccanica; 5. la determinazione della distribuzione granulometrica e il calcolo del valore medio della dimensione delle particelle. Determinazione del tenore di argilloide - La massa dell’argilloide si trova togliendo dalla massa del campione di terra o miscela in esame (50 g), essiccata a 110 ± 5 °C, la massa della silice (che viene separata per sedimentazioni successive fino a completa chiarificazione dell’acqua nella quale si sospende la terra o miscela). Si effettua la separazione dell’acqua torbida contenente l’argilloide, dopo un riposo di 10 minuti. Per togliere completamente l’argilloide, ci vogliono circa 10 lavaggi, mentre la silice residua viene essiccata a 110 ± 5 °C e quindi pesata. Il tenore di argilloide è dato da 100 (m - m1)/m (espresso in percentuale) dove m è la massa in grammi del campione usato e m1 è la massa in grammi del residuo sabbioso. Determinazione dell’umidità - Si introducono 20 g di terra o sabbia campione in una stufa riscaldata fra 110 ± 5 °C fino a massa costante. Dopo essiccamento, si effettua la pesata sul campione che è stato lasciato raffreddare nell’essiccatore fino alla temperatura ambiente. Il contenuto di umidità è dato dalla differenza delle due pesate prima e dopo l’essiccazione, espresso in percentuale rispetto alla massa del campione umido originario. Schema funzionale e complesso reale dell’igrometro per la rapida determinazione dell’umidità delle terre, sabbie, bentoniti, nero minerale, carboni in genere, cementi ecc. (per rompere le fiale si scuote l’igrometro). 2 Un metodo molto diffuso consiste nell’introdurre in una camera di reazione a chiusura ermetica una determinata quantità di terra o di sabbia campione, assieme a una fiala contenente una dosata quantità di carburo di calcio in polvere. L’acqua che costituisce l’umidità del campione reagendo con il carburo di calcio forma acetilene, la cui pressione nella camera di reazione è proporzionale al tenore di umidità che viene letto direttamente sul quadrante di un manometro. La percentuale di acqua di una terra per fonderia può essere determinata con controllo automatico; l’aggiunta di un elaboratore elettronico, di un’elettrovalvola e di una sonda termica consentono, oltre alla misurazione, anche la correzione della percentuale di acqua voluta. Determinazione della distribuzione granulometrica e calcolo del valore medio della dimensione delle particelle La distribuzione granulometrica di una terra o sabbia per fonderia esprime la distribuzione in percentuale dei grani di differenti grandezze. La dimensione media dei grani della sabbia analizzata (liberata dall’argilloide e da tutte le particelle fini aventi diametro minore di 0,02 mm) viene convenzionalmente indicata mediante un indice di finezza. Per la determinazione della distribuzione granulometrica si impiega uno stacciatore automatico (dispositivo che serve per separare i materiali a seconda delle dimensioni, con una frequenza di 300 vibrazioni al minuto) costituito da una serie di stacci unificati disposti in ordine progressivo di luce di maglie decrescenti dall’alto in basso. Si posiziona un campione di 50 g sullo staccio superiore e si fa funzionare lo stacciatore per 15 minuti, pesando successivamente (con approssimazione di 0,1 g) la sabbia rimasta su ogni staccio, compresa quella eventualmente depositata sull’ultimo staccio a fondo chiuso della pila nel quale si raccolgono i grani con dimensioni minori di 50 µm. Dalla formula seguente si ottiene l’ indice di finezza della sabbia: i= p1a1 + p2 a2 + p3 a3 + ... p1 + p2 + p3 + ... nella quale i è l’indice di finezza; p sono le percentuali sul totale trattenute dai singoli stacci; a sono i fattori stacci. La tabella che segue riporta la classificazione degli stacci secondo la serie metrica UNI (luce netta per Stacciatore montato su basetta elettrovibrante. maglia in micrometri e numero di maglie al centimetro quadrato) nonché i fattori degli stacci. 3 Classificazione degli stacci secondo la serie metrica UNI Numero di maglie per cm2 4 14 50 100 200 400 810 1600 2900 6400 15600 - Luce netta per maglia (µm) 3350 1700 850 600 425 300 212 150 106 75 60 Fondo Fattore staccio 3 5 10 20 30 40 50 70 100 140 200 300 α L’indice di finezza consente la classificazione delle sabbie come indicato nella tabella che segue. Indice di finezza e classificazione delle sabbie Sabbia Sabbia Sabbia Sabbia Sabbia Denominazione molto grossa grossa media fine finissima Indice di finezza < 18 8-35 35 - 60 60 – 150 > 150 Dimensioni grani (mm) 2-1 1 - 0,5 0,5 - 0,25 0,25 – 0,1 < 0,1 Determinazione della permeabilità - La permeabilità è una proprietà che consente alle terre e alle sabbie per fonderia di lasciarsi attraversare dai gas che si liberano durante la colata, e che se non fossero fatti evacuare potrebbero provocare gravi danni nel getto, come presenze di cavità all’interno del materiale (soffiature). Si può assumere come misura della permeabilità la quantità di aria (1000 o 2000 cm3) che attraversa l’unità di superficie di un campione di terra, di spessore unitario, sotto l’azione di un gradiente di pressione unitario. Nel caso in esame la permeabilità è espressa dal volume in centimetri cubi di aria che passa in 1 min, sotto la pressione di 1 cm H2O, attraverso una provetta della sezione trasversale di 1 cm2 e dello spessore di 1 cm. La permeabilità P è espressa dalle seguenti formule: P= Vh 1000 × 5 255 = ≈ t p a t p ×19,625 t p P= Vh 2000 × 5 510 ≈ = t p a t p ×19,625 t p 4 Dove: – V è il volume di aria (di solito 1000 oppure 2 000 cm3); – t è il tempo (in minuti) che occorre perché la quantità di aria V attraversi la provetta; – p è la pressione dell’aria (in centimetri di colonna d’acqua); – h è l’altezza della provetta (5 cm); – a è la sezione trasversale della provetta (19,625 cm2). La prova quindi consiste nel determinare il tempo t (in minuti) necessario per fare defluire un volume di 1000 o di 2000 cm3 di aria attraverso la provetta, che ha forma, dimensioni, tolleranze e preparazione uguali a quelle della provetta per la prova di resistenza a compressione. L’apparecchio impiegato è il permeametro, di cui un esemplare è illustrato a fianco. Le fasi per l’esecuzione della prova sono le seguenti (si veda la figura seguente): – si posiziona la valvola a tre vie in modo da collegare l’interno della campana con l’esterno; Esemplare di permeametro. – si solleva la campana in modo da farle aspirare 2000 cm3 di aria; – si chiude la valvola a tre vie; – il contenitore nel quale è stata confezionata la provetta viene inserito a perfetta tenuta nel porta-contenitore; – si posiziona la valvola a tre vie in modo da collegare l’interno della campana con il porta-contenitore; – si fa defluire dalla campana il volume di aria preventivato (1000 oppure 2000 cm3) e con un cronometro si misura il tempo impiegato dall’aria a passare attraverso la provetta; – si rileva la pressione in centimetri di colonna di acqua (1 cm H2O = 98,0665 Pa) misurata dal manometro, e quindi si calcola la Schema di un permeametro per la determinazione della permeabilità delle terre per fonderia. permeabilità con la formula corrispondente al volume di aria impiegato. 5 I permeametri più recenti consentono la lettura diretta della permeabilità impiegando un ugello tarato costante del flusso di aria che attraversa la provetta, cosicché, avendo la provetta dimensioni costanti, la permeabilità risulta inversamente proporzionale al valore della pressione dell’aria raggiunto durante la prova. Ne consegue che la graduazione della scala del manometro può indicare direttamente il valore della permeabilità invece della pressione. Determinazione della resistenza meccanica di una terra o miscela - La resistenza meccanica di una terra può essere individuata con prove di resistenza a compressione a verde e a secco, a taglio a verde, a flessione, a trazione. La prova fondamentale è quella della resistenza a compressione, ovvero della tensione massima di compressione che la provetta in esame può sopportare senza rompersi, al fine di potersi rendere conto della coesione (attitudine della terra o miscela per fonderia di conservare la forma ricevuta per mezzo di un’appropriata stivatura). La prova di compressione si esegue su provetta cilindrica avente il diametro di 50 mm (la sezione corrispondente è di 19,625 cm2) e l’altezza di 50 ± 0,3 mm. La provetta è preparata comprimendo la terra in un cilindro metallico aperto alle due estremità (diametro interno di 50 ± 0,07 mm e altezza di 140 mm) tramite tre colpi di un maglietto avente la massa battente di 6,67 kg che cade dall’altezza di 50 mm. Tolta la provetta dal contenitore, si comprime applicando un carico gradualmente crescente, 345 ± 50 mN/(cm2 · s) per prova a verde e 1960 ± 195 mN/(cm2 · s) per prova a secco, fino a ottenere la rottura della provetta stessa. La resistenza a compressione è data dal rapporto fra il carico totale di rottura e l’area della sezione trasversale della provetta. Determinazione della durezza - La durezza è la resistenza opposta dalla forma alla penetrazione di una sfera. Dipende da tutti i parametri della terra (composizione, umidità, finezza) e dal grado di aggregazione. Il durometro (immagine a lato) è costituito da un quadrante e da uno stelo alla cui estremità è posizionato il penetratore, il quale viene leggermente premuto sulla superficie della forma provocando la deformazione di una molla che muovendo un indice, permette la visualizzazione del valore della resistenza alla penetrazione. Sopra, maglietto per la confezione delle provette per le prove di permeabilità e pressione. Sotto, esemplare di durometro per terre per fonderia. 6 Interpretazione delle prove - Le prove sulle terre per fonderia si effettuano: 1. per collaudare, cioè per verificare se la terra possiede le proprietà volute; 2. per correggere, cioè per regolare la percentuale dei costituenti (silice, agglomeranti, acqua ecc.); 3. per diagnosticare i difetti dei getti. Le proprietà di una terra dipendono fondamentalmente dalle condizioni di utilizzo, ossia dal tipo di lega da fondere, dalle dimensioni del getto, dal tipo di formatura e talvolta da vari fattori indicati dall’esperienza (esempi: la plasticità e la coesione migliorano aumentando la percentuale di argilla, a scapito tuttavia della permeabilità; la refrattarietà migliora con l’aggiunta del 3-5% di nero minerale; la permeabilità migliora con l’aumentare della dimensione dei grani, cioè con la riduzione dell’indice di finezza, ma diminuiscono la coesione e la plasticità ecc.). Lo studio completo di una terra per fonderia è costituito da: 1. l’esame della terra nuova (permeabilità, resistenza a compressione, tenore di argilloide, umidità, granulometria, punto di sinterizzazione); 2. l’esame della terra al termine della lavorazione (permeabilità, resistenza a compressione in funzione dell’umidità, tenore di argilloide, granulometria); 3. l’esame della terra al termine dell’essiccazione. L’esame granulometrico indica la distribuzione percentuale della sabbia in ogni staccio e il valore dell’indice di finezza. La resistenza a compressione e la permeabilità debbono essere diagrammate in funzione della percentuale di acqua. Il punto di sinterizzazione è la temperatura alla quale una terra o una sabbia per fonderia mostra segni di fusioni incipienti e perciò permette di trovare la refrattarietà (modalità di esecuzione della prova secondo le norme). 7.2.3 Formatura Nella formatura in staffa, le staffe possono essere intere, scomponibili, semplici, sagomate e costruite in diversi materiali, per esempio in profilati in acciaio EN 10025-S235 JR in getti di acciaio Fe G 450 UNI 3158 oppure di ghisa a grafite sferoidale per getti UNI EN 1563-2004. 7 Formatura a mano La formatura a mano viene realizzata con diversi strumenti: badile, staccio, pestello, modelli di colatoi e montanti, spillo, tirante a occhiello, mazzuolo, vibratore, cazzuole, spatole, lisciatoi, cavasabbia, pennelli e pennellesse, punte o chiodi, spazzole, soffietti, supporti per anime, sagome ecc. 7.3 Tecniche a forma permanente – note 7.3.1 Colata in conchiglia a gravità Una conchiglia deve essere progettata in modo da soddisfare esigenze di qualità di prodotto e capacità produttiva. Per ottenere la qualità del prodotto, il suo riempimento deve avvenire senza moti vorticosi del metallo e l’aria fuoriuscire con facilità. Contemporaneamente è necessario garantire la rapida unione e scomposizione delle parti della conchiglia e la facile sformatura del getto, con l’utilizzo di opportuni angoli di spoglia delle pareti e dei fori dei getti ortogonali al piano di congiunzione delle conchiglie. La conchiglia prima dell’uso deve essere preriscaldata alla temperatura di regime, mentre il suo equilibrio termico dopo i primi getti dipende dalla massa, dalla conducibilità termica e dalla temperatura della lega e della conchiglia. Se i suddetti parametri sono stati scelti in modo opportuno, la velocità di solidificazione della lega è sufficientemente elevata per realizzare un getto con struttura a grano fine, ma non troppo rapida da limitare una buona alimentazione. 7.3.2 Colata centrifuga in conchiglia Questo metodo di colata ha consentito il raggiungimento di risultati favorevoli nella fusione centrifuga bimetallica, cioè nella fusione centrifuga di due leghe diverse nella stessa forma (la temperatura di fusione del materiale esterno deve essere inferiore a quella del materiale interno). Citiamo, a mò di esempio, le camicie dei motori Diesel Ansaldo-Fiat, dove l’esterno è di ghisa sferoidale perlitica e l’interno è di ghisa al cromo-fosforo o di ghisa al cromo-rame. 7.4.2 Microfusione o fusione a cera persa Alcune tra le principali varianti al procedimento tradizionale sono: 1. metodo X - La cera non viene eliminata dalla forma mediante fusione, ma per reazione con una soluzione a base di tricloroetilene; il recupero della cera si realizza per distillazione; 8 2. metodo Glascast - Il normale materiale di formatura a base di silicato d’etile è sostituito con polvere di vetro con particolari additivi al fine di ridurre il processo di cottura; 3. metodo Mercast - La cera del modello è sostituita con mercurio portato a ̶ 55 °C (temperatura di solidificazione ̶ 38,87 °C). Le operazioni si succedono immutate a questa temperatura, fino alla fusione e all’evacuazione del mercurio, che avviene a temperatura ambiente. Il metodo ha i suoi vantaggi (maggiore massa dei getti ed eliminazione delle stufe) e svantaggi (attrezzature per il raffreddamento, tossicità del mercurio). 7.5 Fusione Forni a combustione - Forni a riverbero Il contatto diretto del metallo con la fiamma è evitato dirigendo la fiamma stessa verso la volta, in modo che il calore sia da questa riverberato sul metallo. Le tipologie sono diverse in relazione all’uso (per il rame, l’acciaio, l’alluminio, la ghisa), al sistema di riscaldamento (con nafta, con gas, con carbone polverizzato), al funzionamento (a carica fredda, in duplex con il cubilotto ecc.). La carica è costituita da rottami, pani, fondente, aggiunte di scorificanti e di alliganti le cui quantità e composizione permettono di ottenere un prodotto qualificato. Il calore generato dalla combustione viene trasmesso per irradiazione alla carica senza il contatto con sostanze nocive. Forni elettrici Forni a resistenza I forni fusori a resistenza possono essere: 1. a bacino: la carica metallica, contenuta nel bacino di refrattario, viene riscaldata dalle resistenze sovrastanti percorse da corrente elettrica; la figura a lato illustra lo schema di un forno oscillante, in cui il supporto rotola su guide, affinché l’estremità del canale di colata si sposti solo verticalmente. Schema di forno a bacino oscillante con riscaldamento elettrico con resistenza metallica (la culla di supporto rotola su guide in modo che l’estremità del canale di colata si sposti solo in senso verticale). 9 2. a crogiuolo: la carica metallica, contenuta nel crogiuolo, viene riscaldata dalle resistenze posizionate esternamente, libere o alloggiate in apposite cavità del refrattario, distribuite verticalmente o a spirale; a lato, un esempio schematico della disposizione a spirale. Schema di forno a crogiuolo con riscaldamento elettrico con resistenze disposte a spirale. Forni ad arco Il calore viene prodotto da una corrente elettrica che passa attraverso l’aria ionizzata compresa fra due (o tre) elettrodi e la carica metallica. Infatti, se fra gli elettrodi di grafite (o di carbone amorfo) si stabilisce una sufficiente differenza di potenziale e un’opportuna temperatura, l’aria fra essi compresa si ionizza generando un arco voltaico costituito dalla doppia corrente di ioni dall’anodo (+) al catodo (-) e di elettroni in senso contrario. La temperatura dell’arco è di circa 3500 °C sull’elettrodo positivo e 2 700 °C sull’elettrodo negativo. Questi forni presentano i vantaggi di una temperatura sufficientemente alta da fondere qualunque lega, del riscaldamento rapido e dei bassi consumi di energia, ma sottopongono le pareti refrattarie ad alte sollecitazioni termiche e richiedono dispositivi automatici in grado di mantenere costante la lunghezza dell’arco man mano che gli elettrodi si consumano; si distinguono in forni ad arco indiretto e ad arco diretto. Forni ad arco indiretto - L’arco scocca fra due o più elettrodi posizionati (orizzontali o inclinati verso il basso) sopra il bagno metallico, per cui il riscaldamento avviene soprattutto per irraggiamento. Tipico forno per l’affinazione dell’acciaio è quello Stassano (1904), schematicamente rappresentato a fianco. Regolazione distanza elettrodi Schema del forno Stassano ad arco indiretto. 10 Il forno Rennerfield differisce dai precedenti perché presenta tre elettrodi: due orizzontali allacciati alle due fasi del secondario di un trasformatore e uno verticale collegato al punto neutro del secondario in modo da generare un campo magnetico che devia l’arco verso il basso ottenendo una concentrazione di calore. Lo schema è riportato a lato. Schema del forno Rennerfield ad arco indiretto. Forni ad arco diretto In questo caso gli elettrodi sono posizionati verticalmente sulla volta del forno arrivando a pochi centimetri dalla carica metallica. Si distinguono nei due tipi fondamentali: 1. forni a suola non conduttrice: gli archi elettrici scoccano fra l’elettrodo e il bagno in entrata e fra il bagno e l’elettrodo in uscita; è tipico il forno monofase Héroult (1909) per la produzione di acciaio mediante utilizzo di ghisa e rottame di ferro, nel quale il riscaldamento del bagno avviene principalmente attraverso il calore d’irradiazione dell’arco e in parte per effetto Joule dovuto alla resistenza ohmica offerta dalla massa stessa della carica. La volta è mobile e girevole per effettuare velocemente la carica di rottame, mentre dalla porta vengono effettuate le aggiunte di correttivi e di ferroleghe; Schema del forno Rennerfield ad arco indiretto. 11 2. forni a suola conduttrice, quando scoccano gli archi fra gli elettrodi e il bagno in entrata. La corrente percorre il bagno per chiudere il circuito sulla suola costituita da elettrodi metallici o da blocchi conduttori. È tipico il forno Girod. La suola è collegata con la terra e con il centro della stella i cui capi vanno collegati ai tre elettrodi di carbone. Schema del forno ad arco con suola conduttrice tipo Girod. Forni a induzione Si basano sul principio dell’induzione elettromagnetica, sfruttando l’effetto Joule delle correnti indotte nella carica metallica da fondere. La bobina induttrice può essere considerata come il primario di un trasformatore e il materiale fuso, contenuto in un crogiuolo anulare refrattario, il secondario formato da un’unica spira chiusa in corto circuito. La corrente indotta che circola nel materiale da fondere deve vincere la resistenza elettrica del materiale stesso e l’energia assorbita da questa resistenza si trasforma in calore. Ne derivano i vantaggi della rapidità di fusione, della uniformità di riscaldamento e della omogeneità del prodotto per effetto dell’agitazione derivante dalle azioni elettrodinamiche delle correnti che circolano nel materiale fuso e che provocano un’agitazione tanto più viva quanto più bassa è la frequenza. I forni a induzione sono i migliori attualmente disponibili da un punto di vista tecnologico, anche perché permettono di realizzare fusioni a livello industriale di metalli e leghe in vuoto spinto evitando assorbimenti di gas da parte del metallo liquido. Si distinguono in forni a bassa frequenza con nucleo magnetico e a media e ad alta frequenza senza nucleo magnetico. 12 7.10 Pirometria in fonderia Termometri a liquidi Il funzionamento è basato sulla corrispondenza tra temperatura e volume di un liquido termometrico (mercurio, alcol etilico, toluolo, pentano, creosoto). Le variazioni di temperatura vengono misurate rilevando le variazioni che esse producono in un determinato volume di liquido. In questi termometri si hanno tre elementi fondamentali: a) il bulbo metallico contenente il liquido; b) il capillare metallico che collega il bulbo (a contatto con l’ambiente di cui si vuole rilevare la temperatura) con il dispositivo di misurazione (installato nel luogo dove avviene la misura della temperatura); c) il dispositivo elettrico di misurazione che rileva le variazioni di volume del liquido, le amplifica tramite un dispositivo fornito di indice e le misura mediante un quadrante graduato direttamente in gradi centigradi. Con termometri a mercurio nel cui capillare è stato introdotto azoto secco a circa 1470 kPa per impedire la vaporizzazione del liquido e di conseguenza elevarne il punto di ebollizione, si può estendere il campo di misura da 40 °C a 600 °C. Esemplare di pirometro. Termometri bimetallici Sono costituiti da due lamine metalliche flessibili, aventi diverso coefficiente di dilatazione termica, unite tra loro in modo opportuno. Per effetto delle variazioni di temperatura, a causa della differente dilatazione, le due lamine si deformano. Amplificando la deformazione per mezzo di leve è possibile la lettura della temperatura e/o il comando di autoregolazione. Nel secondo caso l’apparecchio funge da termostato, cioè da dispositivo regolatore che serve a mantenere la temperatura a un valore stabilito, intervenendo automaticamente comandando l’apertura o la chiusura del circuito elettrico dell’impianto (ad esempio di riscaldamento o di refrigerazione). È proprio come termostato che trova le sue maggiori applicazioni con un campo limitato nell’intorno di 550 °C e una precisione che si aggira mediamente sul 5% della temperatura rilevata. Termometri bimetallici. 13 Termometri a resistenza elettrica Si basano sulla variazione della resistenza elettrica di un filo metallico al variare della temperatura, che è esprimibile con la relazione: R0 = R0 [1 + ρ (t1 − t 0 )] dove R0 e R1 sono le resistenze ohmiche rispettivamente alle temperature t0 e t1 e ρ è un coefficiente che, nelle leghe metalliche, varia anch’esso con la temperatura, Esemplare di termometro a resistenza elettrica. mentre nei metalli puri si mantiene costante entro limiti molto vasti. Perciò per i termometri a resistenza elettrica s’impiegano metalli puri: si usa quasi esclusivamente il platino, raramente il nichel, molto raramente il rame. L’elemento termometrico sensibile E è una spirale di filo o di nastro metallico inserito in un ponte di Wheatstone, come indica la figura che segue. Il sistema di misurazione è costituito dal galvanometro G a bobine incrociate; la bobina mobile, alimentata in corrente continua, è in serie all’elemento termometrico E introdotto nell’ambiente da controllare. In tal modo l’intensità della corrente che percorre la bobina mobile, dipende dal valore che la resistenza dell’elemento E assume in funzione della temperatura. Quando la resistenza ohmica di E è a 0 °C i campi magnetici delle due bobine, fissa e mobile, si annullano. Se viceversa E è a temperatura diversa da 0 °C, per la prevalenza di un campo magnetico sull’altro si ha una rotazione della bobina mobile (e dell’indice a essa applicato) proporzionale alla variazione di resistenza subita da E, e di conseguenza sul quadrante graduato si rileva direttamente la temperatura in gradi centigradi. Usando come elemento termometrico il platino si possono misurare, con discreta approssimazione, temperature comprese fra 259 °C e 630 °C fino a un massimo di 1100 °C inserendo la spirale di platino in capsule normalmente di vetro sotto vuoto. I termometri a resistenza elettrica possono essere collegati con regolatori a programma, con apparecchi scriventi, con regolatori ottici e acustici ecc. Schema del termometro a resistenza elettrica con elemento sensibile E inserito in un circuito a ponte di Wheatstone: R1-R2-R3 = resistenze invariabili; G = galvanometro con bobine incrociate. 14 Termometri a termocoppia Se si uniscono mediante saldatura le estremità di una coppia di fili metallici di diversa natura, per esempio ferro-costantana (60% Cu, 40% Ni); nichel-nichel cromo; chromel (90% Ni, 10% Cr)-alumel (94% Ni, 3% Mn, 2% Al, 1% Si); platino-platino rodio, e se si mantengono le estremità saldate (dette giunto caldo) a una temperatura Tc e le due estremità opposte non saldate e non a contatto tra loro (dette giunto freddo) a una temperatura inferiore Tf, si instaura fra queste ultime una forza elettromotrice (f.e.m.) E in funzione della differenza di temperatura, cioè: E = f (Tc - Tf) Come strumento di misura della temperatura la termocoppia è basata sull’effetto termoelettrico esposto da Seebeck: «la somma algebrica delle f.e.m. generate in un circuito composto da un numero qualsiasi di materiali metallici è funzione solo della temperatura dei giunti». In altre parole la termocoppia è un generatore di corrente continua in grado di trasformare una differenza di temperatura in una differenza di potenziale. Pertanto è possibile inserire nel circuito dei cavi di collegamento e/o uno strumento di misura della f.e.m. senza produrre alterazioni; se ad esempio si inserisce nel circuito un millivoltmetro ad alta resistenza interna e se i due giunti sono a temperature differenti, si genera in ciascuno di essi una f.e.m. funzione solo della temperatura dei rispettivi giunti, e il millivoltmetro segnala una differenza di potenziale (d.d.p.) uguale alla differenza tra le f.e.m. del giunto caldo e del giunto freddo; di conseguenza nel circuito passa una corrente continua la cui intensità risulta: I = f (Tc + Tf) essendo Tc la temperatura del giunto a temperatura più elevata (giunto caldo) e Tf la temperatura del giunto freddo. Se questo è conservato alla temperatura costante (ambiente), l’intensità della corrente è solamente funzione della temperatura del giunto caldo: I = f (Tc) cioè della temperatura del forno avendo inserito il giunto caldo nella zona interessata. Le principali caratteristiche di una coppia termoelettrica sono: – il potere termoelettrico, rappresentato dal valore della f.e.m. che si genera nel circuito quando la differenza di temperatura fra i giunti è di 1 °C e la temperatura del giunto freddo è di 0 °C; – l’invariabilità delle proprietà elettriche nel tempo; – la variazione lineare della f.e.m. in funzione della temperatura. 15 La f.e.m. disponibile al giunto freddo può essere misurata con i due seguenti metodi. Metodo galvanometrico - La f.e.m. della termocoppia viene utilizzata per alimentare un galvanometro la cui bobina e l’indice a essa collegato ruotano di un angolo proporzionale alla corrente erogata dalla termocoppia e quindi la scala del galvanometro può essere graduata direttamente in °C. L’apparecchiatura è costituita dalle seguenti parti: i due fili (a) (b) della coppia; i tubetti K di refrattario per l’isolamento dei fili della coppia; il tubo A di protezione; la flangia G di fissaggio; la testa di connessione B portante una morsettiera alla quale fanno capo gli estremi della coppia e il cavo compensato che collega la coppia allo strumento indicatore (il cavo compensato è costituito da metalli o leghe che, possedendo uguali Termocoppia: ab = fili della coppia; K = tubetti di refrattario per l’isolamento elettrico; A = tubo di protezione per preservare la termocoppia dalla corrosione e dalle sollecitazioni meccaniche; G = flangia; B = testa di connessione da collegare al galvanometro tarato in °C. caratteristiche termoelettriche nei punti di giunzione, originano f.e.m. praticamente uguali e di segno opposto a quello della coppia misuratrice annullando le cause di errori); l’eventuale prolungamento del giunto freddo mediante un cavo compensato C ha lo scopo di allontanare il giunto freddo dalle influenze termiche del forno; il manicotto di connessione D; la linea di collegamento E; lo strumento indicatore F. Termocoppia con sistema galvanometrico. 16 Il metodo galvanometrico porta a errori le cui cause sono: a) variazione della resistenza elettrica del circuito per: – la variazione della temperatura ambiente cui è soggetta la linea di collegamento, – la variazione della lunghezza della coppia inserita nel forno, – le alterazioni (dimensionali e strutturali) dei fili della coppia per la continua esposizione al calore, – le alterazioni dei contatti; b) variazioni che si manifestano con il tempo nel campo magnetico e nelle molle antagoniste dello strumento. Metodo potenziometrico - Le cause di errore del precedente metodo sono completamente eliminate nel metodo potenziometrico, mediante il quale non si misura una intensità di corrente bensì una f.e.m. rilevata quando nel circuito non circola corrente; ciò si ottiene opponendo alla f.e.m. incognita, generata dalla termocoppia sotto l’azione del calore, una f.e.m. nota variabile a volontà (campione). Lo schema elettrico del circuito potenziometrico è rappresentato a lato. Spostando il commutatore H a destra nella resistenza tarata CD circola la corrente fornita dalla pila B; alla tensione fornita dalla pila B si oppone la tensione della pila campione S. Si regola quindi la posizione del cursore del reostato di regolazione della corrente collegato in serie alla pila B fino a quando il galvanometro G segna zero e pertanto, essendosi stabilite due tensioni uguali e contrarie, Misurazione della temperatura con circuito potenziometrico. non circolerà nessuna corrente (taratura del circuito). Si ricorda che nel metodo galvanometrico il galvanometro ha la funzione di misurare la f.e.m., mentre nel metodo potenziometrico ha solamente la funzione di «avvertire» la presenza di corrente. Sostituito al circuito della pila campione S il circuito della termocoppia M mediante lo spostamento a sinistra del commutatore H, il circuito della termocoppia M risulta squilibrato rispetto al circuito tarato della pila B e pertanto nella resistenza CD circola una corrente la cui intensità è indicata dal galvanometro G. Si manovra quindi il cursore F fino a quando il galvanometro registra di nuovo zero e in questa posizione si esegue la lettura diretta della temperatura sulla scala che è disposta attorno alla resistenza CD e il cui indice è il cursore F. La taratura del circuito è compiuta automaticamente da opportuni dispositivi e inoltre può essere applicato al circuito potenziometrico un apparato autoregolatore registratore della temperatura. 17 Pirometri ottici Questi strumenti misurano le temperature tramite captazione di energia raggiante emessa dai corpi riscaldati. I pirometri ottici si dividono in due categorie: 1. quelli che misurano, sotto forma di energia termica, la radiazione totale che cade sul corpo ricevente dello strumento; 2. quelli basati sul fatto che l’intensità della luce del corpo incandescente è proporzionale alla temperatura. Lo schema di un pirometro del primo tipo è riportato qui Ardometro o pirometro ottico a radiazione totale. a fianco. Le radiazioni che provengono da un corpo caldo sono concentrate da una lente obiettivo Ob sulla foglia di platino P annerita, sulla quale è saldata una sottile termocoppia che riscaldandosi assume una temperatura proporzionale alla quantità di energia ricevuta senza rifletterne nemmeno una parte. La termocoppia è collegata a un circuito galvanometrico o potenziometrico che indica e registra la temperatura nel campo fra 1000 e 2500 °C, con possibilità di collegamento con apparecchi di vari tipi per la regolazione automatica della temperatura. Lo schema di un pirometro della seconda Pirometro ottico a filo scomparente. categoria è riportato qui di seguito. La misurazione della temperatura si effettua regolando la posizione del reostato R fino a che la corrente continua circolante nel filamento incandescente ausiliario F è di intensità tale da portarlo alla stessa luminosità del corpo in esame. Poiché l’occhio è in grado di giudicare l’uguaglianza delle due luminosità (e quindi delle temperature) con un’incertezza dell’ordine di 1 °C a 1 000 °C, si ritiene che tale uguaglianza sia raggiunta quando osservando il corpo in esame nell’oculare Oc il filamento scompare (cioè non è più distinguibile), e perciò lo strumento ha preso il nome di pirometro ottico a filo scomparente. La posizione del cursore del reostato R indica la temperatura su un’apposita scala. Con i pirometri ottici di questa categoria si possono misurare temperature normalmente superiori a 1 000 °C e, poiché non è necessario il contatto fisico, la misurazione si può eseguire anche con i corpi in movimento. 18 L’inconveniente grave di questo pirometro è quello di non poter essere collegato a dispositivi di regolazione e/o di indicazione. Esistono anche pirometri più perfezionati, quali quelli che impiegano sensori termoelettrici (termopile) o fotoelettrici (fotomoltiplicatori, fotodiodi) in grado di assicurare un’incertezza di 0,01 °C e di utilizzare il segnale elettrico di uscita come segnale di comando per la regolazione automatica di processi produttivi. Inoltre questi sensori elettrici consentono di sfruttare anche la radiazione infrarossa ai fini della misura, radiazione invisibile all’occhio ma sempre presente qualunque sia la temperatura del corpo emittente: questo fatto permette di estendere il campo di misura dei pirometri a radiazione sotto i 500 °C. Il loro impiego non richiede il contatto fisico con il corpo di cui si vuole misurare la temperatura. 7.15 La misurazione del diametro di particelle Numerose sono le tecnologie che utilizzano materiale particellare, processi di sinterizzazione, crescita additiva, fusione... ma la determinazione delle dimensioni delle particelle, specie quando queste sono irregolari, risulta spesso ambigua. Si sa per esempio che la dimensione, la forma e la distribuzione granulometrica delle particelle risultano determinanti per l’evacuazione dei gas durante la colata, per la capacità di contrastare le spinte metallostatiche e per la finitura superficiale. Normalmente sono disponibili i dati relativi alla distribuzione granulometrica delle polveri utilizzate, ma questi valori sono insufficienti a caratterizzare la geometria delle particelle e, come già anticipato, spesso risultano ambigui in quanto non è evidente come viene misurata la dimensione della particella. L’uso di setacci non risolve sicuramente queste ambiguità. L’utilizzo del microscopio, data la sua precisione, può risultare determinante per l’analisi della dimensione di particelle, anche se alcune delle tecniche utilizzate e previste dalla normativa si basano su valutazioni soggettive. Tuttavia, se vengono seguiti i principi base di campionamento, preparazione e conteggio, si può eseguire un calcolo preciso. La norma ASTM standard E 20 descrive minuziosamente l’utilizzo del microscopio per il dimensionamento delle particelle. Vengono utilizzate diverse tecniche per misurare particelle con forma irregolare, quando vengono osservate al microscopio: ciò ha portato ad avere modalità di misurazione che classificano le particelle in termini di una equivalente particella sferica. Sono di seguito indicate alcune tecniche di misurazione di particelle con forma irregolare. 19 • Diametro di Feret (F): fornisce la massima lunghezza della particella misurata in una dimensione fissata. • Diametro di Martin (M) : esprime la lunghezza di una linea che divide in due parti uguali l’area dell’immagine della particella. Tutte le particelle vengono misurate nella stessa direzione (a fianco, sopra). • Diametro dell’area proiettata (da): misura il diametro di un cerchio avente la stessa area dell’immagine bidimensionale della particella (a fianco, sotto). • Dimensione più lunga (Fmax): misura il massimo diametro di Feret per ogni particella. Nessuna direzione fissata. • Diametro del perimetro (dp): fornisce il valore del diametro di un cerchio avente la circonferenza pari al perimetro della particella. • Massimo segmento orizzontale (Imax): misura la lunghezza della linea più lunga che può essere tracciata attraverso la particella in una direzione fissata. Misura del diametro di particelle irregolari. Sopra, il diametro di Martin (M) esprime la lunghezza di una linea che divide in due parti uguali (biseca) l’area dell’immagine della particella. Tutte le particelle vengono misurate nella stessa direzione. Sotto, il diametro dell’area proiettata. In questo caso è misurato il diametro di un cerchio avente la stessa area dell’immagine bidimensionale della particella. Entrambe le immagini si riferiscono a una sabbia silicea prerivestita con resina fenolica. Per meglio evidenziare le problematiche connesse con la misurazione del diametro delle particelle, si riportano nella tabella seguente i diversi valori ottenuti nella misurazione di una sabbia silicea e di una sabbia a base di zirconio prerivestite con resina fenolica con le diverse tecniche di misurazione. Accanto al valore numerico si deve necessariamente fornire anche la tecnica utilizzata. Valore dei diversi tipi di diametro ottenuti nella misurazione di una sabbia silicea e di una sabbia a base di zirconio prerivestite con resina fenolica. Denominazione Diametro di Feret (F) Diametro di Martin (M) Diametro dell’area proiettata (da) Dimensione più lunga (Fmax) Diametro del perimetro (dp) Massimo segmento orizzontale (Imax) Sabbia silicea (µm) 143,0 134,4 147,3 175,3 155,9 159,1 Sabbia base zirconio (µm) 148,3 140,3 133,8 170,9 161,3 132,2 20 La produzione di oggetti per cera persa nell’antichità Il processo che oggi denominiamo di microfusione era noto già nell’antico Egitto, ma è in epoca classica e in particolare con Roma che il processo assunse connotati industriali. Quando si cominciarono a produrre oggetti metallici dalla struttura più complessa, come la grande statuaria, le tecniche si affinarono e si sono evolute in due soluzioni diverse: il procedimento a cera persa diretto e quello indiretto. Il procedimento a cera persa diretto comprendeva varie fasi: dapprima si modellava direttamente con la cera l’oggetto che si voleva ottenere se era di piccole dimensioni, con i particolari e avendo cura di plasmare, sempre in cera, anche i condotti per la fuoriuscita della cera stessa che successivamente serviva per l’immissione del metallo fuso e la fuoriuscita di gas prodotti durante la fusione. Si poneva poi questo oggetto in cera all’interno di un recipiente che, una volta colmato con del materiale refrattario quasi liquido (gesso, sabbia mescolata ad acqua, terracotta frantumata), si faceva essiccare. Una volta seccato, il recipiente veniva rovesciato e posto a contatto con una fonte di calore, che provocava lo scioglimento della cera e quindi la sua fuoriuscita; si formava di conseguenza una cavità, corrispondente al negativo del manufatto da ottenere. All’interno di tale cavità veniva colato il metallo fuso, che andava a occupare il posto tenuto prima dall’oggetto in cera e ne riproduceva esattamente la forma. Fusione a cera persa con metodo diretto. Nel caso di statue di grandi dimensioni, che non potevano essere piene all’interno, il metodo era così modificato: la parte interna dell’oggetto, in cui non doveva penetrare il bronzo, era realizzata con materiale refrattario che riproduceva in maniera grossolana la forma dell’oggetto stesso. Questa parte interna veniva ricoperta con uno strato di cera accuratamente lavorato, con uno spessore di pochi centimetri. Il metodo procedeva poi come visto in precedenza. Le statue prodotte rimanevano così piene all’interno non di bronzo, ma di quel materiale refrattario che aveva formato la parte interna e che poteva anche essere fatto uscire attraverso dei fori. 21 Il metodo sopra descritto era lungo e oneroso: non si prestava quindi per la produzione di statue che dovevano essere replicate in un certo numero di copie. Per questo, fu sviluppato un processo a cera persa detto indiretto: con questo procedimento si realizzava un modello di argilla in tutto uguale alla statua che si voleva realizzare. Sulla statua di argilla venivano applicate delle lastre di argilla in modo da ottenere una copia in negativo dell’oggetto da produrre, scomposto in tante parti. Su ciascuna di queste parti in negativo era poi riportato uno strato di cera che replicava fedelmente la singola parte dell’oggetto da ottenere. Questo consentiva di avere tante copie dello strato di cera, che nella fusione doveva essere occupato dal bronzo, senza ricorrere a un artista, contrariamente a quanto accadeva nel procedimento a cera persa diretto. Le singole lastre di cera erano poi unite tra loro per formare parti più complesse, ad esempio il busto, le gambe e le braccia di una statua: si realizzavano di fatto quelli che oggi intermedi. sono Questi individuati come macrocomponenti macrocomponenti erano fusi separatamente e in seguito uniti per saldatura: per questo alle estremità da unire erano ricavate delle cavità (come una merlatura di una torre) nelle quali veniva colato bronzo fuso che realizzava appunto la saldatura (vedi a fianco). Questa soluzione tecnologica spiega la grande diffusione presso il mondo romano di copie di statue Unione mediante saldatura con colata di bronzo fuso dei singoli macrocomponenti della statua. greche altrimenti non producibili, a causa dei costi, in tale quantità. 22