LA PRESCRIZIONE IN MATERIA DI CONTRIBUTI PREVIDENZIALI L’universalità del provvedimento L’art. 3, commi 9 e 10, della legge 8 agosto 1995, n. 335, ha disposto, a partire dal 1° gennaio 1996, una riduzione dei termini prescrizionali da dieci a cinque anni per il recupero dei contributi previdenziali ed assistenziali obbligatori dovuti e non versati. La norma stabilisce altresì talune situazioni particolari che non mancheremo di illustrare a breve, In precedenza il diritto del credito previdenziale, pur essendo, come appena accennato, assoggettato alla prescrizione decennale, poneva tuttavia una eccezione di notevole portata: relativamente ai contributi dovuti alla Cassa unica per gli assegni familiari, la prescrizione medesima era già di cadenza quinquennale ai sensi dell’art. 16-bis) del decreto legge 2 marzo 1974, n. 30, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 aprile 1974, n. 114. Il provvedimento di riduzione introdotto dalla legge n. 335 assume il connotato dell’universalità in relazione a tre circostanze: in primo luogo in quanto si riferisce a tutte le contribuzioni obbligatorie, prescindendo anche dall’Ente previdenziale a cui devono essere versate (INPS, INPGI, Casse di previdenza dei liberi professionisti, ecc.); in seconda battuta perché prende in considerazione tutte le tipologie di rapporto di lavoro (subordinato, autonomo, parasubordinato, accessorio, ecc.) da cui viene ingenerato l’obbligo contributivo. Infine il nuovo precetto normativo abbraccia non solo la contribuzione relativa alle gestioni pensionistiche, ma anche quelle non pensionistiche, altrimenti denominate “contribuzioni minori” (indennità economica di malattia e maternità, cassa unica per gli assegni familiari, cassa integrazione guadagni, mobilità, disoccupazione involontaria, ora ASpI, ecc.). Tuttavia, mentre per le prime sono stati previsti modalità differenziate circa l’intervento della prescrizione, di cui parleremo in seguito, per le contribuzioni minori è stato stabilito un unico periodo di prescrizione di cinque anni. Recitano infatti il suddetti commi, tuttora immodificati nonostante il lungo tempo trascorso dalla loro entrata in vigore, che “9. Le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono e non possono essere versate con il decorso dei termini di seguito indicati: a) dieci anni per le contribuzioni di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie, compreso il contributo di solidarietà previsto dall’articolo 9-bis, comma 2, del decreto-legge 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° giugno 1991, n. 166, ed esclusa ogni aliquota di contribuzione aggiuntiva non devoluta alle gestioni pensionistiche. A decorrere dal 1° gennaio 1996 tale termine è ridotto a cinque anni salvi i casi di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti; b) cinque anni per tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria. 10. I termini di prescrizione di cui al comma 9 si applicano anche alle contribuzioni relative a periodi precedenti la data di entrata in vigore della presente legge, fatta eccezione per i casi di atti interruttivi già compiuti o di procedure iniziate nel rispetto della normativa preesistente. Agli effetti del computo dei termini prescrizionali non si tiene conto della sospensione prevista dall’articolo 2, comma 19, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, 1 convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, fatti salvi gli atti interruttivi compiuti e le procedure in corso.” Un primo commento alla norma La poco felice formulazione letterale della disposizione normativa (il cui testo è stato anche criticato in tal senso anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 6173 del 7 marzo 2008) ha arrecato non pochi problemi interpretativi, tanto che sia gli Enti previdenziali, sia la Magistratura, anche di legittimità, sono dovuti tornare più volte sullo specifico argomento. Comunque sia, con la circolare n. 262 del 13 ottobre 1995, l’INPS, operando uno sforzo, che non esiteremmo a definire “titanico”, per interpretare la norma (e secondo chi scrive effettuando anche una autentica, e pur tuttavia necessaria, forzatura), ha affermato che “Dal combinato disposto della disposizione in esame, si deve ritenere che i nuovi termini si applicano alle prescrizioni in corso alla data del 17 agosto 1995 (data di entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335); quindi: - per quanto riguarda la contribuzione dovuta alle gestioni pensionistiche obbligatorie (il cui nuovo termine di prescrizione, come sopra specificato è decennale sino alla data del 31/12/1995 e quinquennale a decorrere dal 1/1/96), l’atto interruttivo della prescrizione posto in essere dopo l’entrata in vigore della legge in esame e sino al 31 /12/95 interromperà la prescrizione dei contributi relativi ai 10 anni precedenti; l’atto interruttivo posto in essere a decorrere dal 1/1/1996 interromperà la prescrizione dei contributi relativi a periodi contributivi anteriori di cinque anni.” La “forzatura” operata dall’INPS è stata peraltro successivamente confermata dalla Corte di Cassazione che con indirizzo maggioritario (v. le sentenze n. 46/2004, n. 3846/2005, n. 9962/2005 ed altre più recenti) ha chiarito che la riduzione del termine da decennale a quinquennale si è realizzata nella stragrande maggioranza dei casi, di fatto, dal 1° gennaio 1996, “avendo il legislatore dato la possibilità all’istituto previdenziale di mantenere il regime prescrizionale decennale per i contributi pregressi, adottando nel periodo intermedio, che va dalla data di entrata in vigore della legge alla fine del 1995, atti interruttivi oppure iniziando procedure idonee.” (v. la sentenza delle Sezioni Unite del Supremo Consesso n. 15296 del 4 luglio 2014). Insomma, l’avvenuta interruzione della prescrizione o l’inizio di procedure di recupero coattivo effettuati nel sopra citato “periodo intermedio” hanno prodotto l’effetto di continuare a far retroagire di 10 anni il regime di prescrizione, dovendosi altresì ritenere, o per lo meno così sembrerebbe considerato che la specifica situazione non è stata in realtà affrontata, che il regime medesimo si applichi anche ad eventuali periodi contributivi maturati successivamente alla data di notifica dell’atto interruttivo purchè, beninteso, si collochino all’interno del “periodo intermedio”. Per intenderci, un atto interruttivo notificato il 15 settembre 1995 parrebbe produrre l’affetto dilatatorio della prescrizione, oltre che relativamente ai periodi pregressi, anche agli adempimenti contributivi che matureranno a tutto il 31 dicembre 1995. Ed ancora, sempre con la sopra accennata circolare, questa volta tuttavia in perfetto allineamento con la disposizione normativa, l’Istituto previdenziale ha posto l’accento sull’eccezione prevista dal comma 10 della norma in commento, ed in particolare sulla circostanza che nei casi in cui, prima dell’entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335 (17 agosto 1995), siano stati posti in essere atti interruttivi della prescrizione ovvero abbiano avuto inizio procedure di recupero del credito nel rispetto della normativa 2 preesistente, il termine di prescrizione, pur restando ancorato a quello stabilito dalla normativa all’epoca in vigore (in pratica, dieci anni), inizia tuttavia a decorrere dal compimento dalla data di notifica dell’atto interruttivo e limitatamente ai periodi in esso contestati. Ed infine, al punto 1. 3. 2. della circolare appena menzionata, lo stesso Ente ha chiarito che nella locuzione “procedure iniziate nel rispetto della normativa preesistente” debbano essere ricompresi anche le partite trasmesse all’Ufficio legale dell’Ente di cui sia stata data notizia ai debitori interessati, le partite incluse nei ruoli esattoriali, i processi verbali redatti dall’INPS, relativamente alle omissioni contributive indicate nei verbali stessi, ecc.: tali atti debbono infatti essere considerati una valida interruzione dei termini di prescrizione, sempre che, ovviamente, risulti manifesta al debitore l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto. Gli atti interruttivi e l’instaurazione di procedure amministrative effettuati a partire dal 1° gennaio 1996 comporteranno, in ogni caso, l’applicazione del più ridotto termine di prescrizione quinquennale. Una situazione maggiormente articolata (e veniamo ad una ulteriore deroga alla prescrizione quinquennale) si verificherà in ipotesi di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti. A tale riguardo ed a beneficio di chi ci legge, si avverte sin d’ora la necessità di porre in evidenza la netta distinzione di valenza giuridica sussistente tra gli atti interruttivi della prescrizione (che, è noto, devono essere necessariamente posti in essere dal soggetto titolare del credito contributivo, vale a dire dall’Ente previdenziale) e la denuncia del lavoratore e dei suoi supersiti, che non costituisce “atto interruttivo non solo perché non proviene dal creditore, ma anche perché il suo effetto non è quello di fare iniziare un nuovo periodo di prescrizione ex art. 2944 c. c., ma in sostanza di raddoppiare fin dall’inizio il termine da cinque a dieci anni.” (sentenza delle sezioni Unite della Corte di cassazione n. 15296 del 4 luglio 2014). Nell’anticipare (anche tale importante argomento sarà infatti ripreso successivamente con maggiore dovizia di particolari) che gli effetti della denuncia in questione sono stati più volte oggetto di interpretazione restrittiva da parte della Corte di Cassazione, al momento sembra sufficiente sottolineare che la denuncia medesima produrrà effetti limitatamente alla sola contribuzione appartenente al denunciante e non può essere estesa ad altri eventuali lavoratori interessati nei cui confronti persista una analoga omissione contributiva. L’istanza del lavoratore e dei suoi superstiti deve peraltro essere presentata ad una autorità competente (Istituto assicuratore, Direzione territoriale del Lavoro ovvero Autorità giudiziaria). Conclusivamente, dunque, allo scopo di alleviare il campo di operatività della riduzione dei termini di prescrizione, la disposizione legislativa ha stabilito, con riferimento, giova ripeterlo, alle gestioni pensionistiche, alcune eccezioni la cui interpretazione, non ci lesiniamo dal ribadirlo, ha arrecato non pochi problemi operativi agli addetti ai lavori, ed altrettante questioni interpretative, specie a livello giurisdizionale, prova ne sia che la Corte di Cassazione è dovuta pronunciarsi per ben due volte a Sezioni Unite e da ultimo con la sentenza n. 15296 del 4 luglio 2014 (di qui il connotato dell’attualità attribuito al presente lavoro); - con riferimento alla contribuzione non di pertinenza delle gestioni pensionistiche, l’atto interruttivo posto in essere dopo il 16 agosto 1995, e cioè successivamente all’entrata in vigore della legge, interromperà in ogni caso i termini relativi ai periodi contributivi con effetto retroattivo di cinque anni. Una peculiarità della prescrizione in materia previdenziale 3 In via preliminare sembra il caso di segnalare che in materia di contribuzione obbligatoria l’istituto della prescrizione si giustifica per il fatto che gli Enti di previdenza hanno un autonomo potere di accertamento dei propri crediti contributivi. Tuttavia, considerato che ai sensi dell’art. 2955 del codice civile, la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, questa non può iniziare a decorrere in ipotesi di evasione contributiva totale o parziale, come pure di “lavoro nero” e cioè di lavoratori non iscritti neppure al libro paga o matricola, dal momento che, in tali casi, l’autonomo potere di accertamento non può essere esercitato. Per quanto riguarda in particolare le aziende con dipendenti nel settore privato, si ritiene che l’ipotesi di impossibilità di far valer i propri crediti possa concretizzarsi anche qualora i datori di lavoro non abbiano denunciato la propria attività con dipendenti all’INPS, non risultino iscritti negli appositi albi e non si siano, neppure, muniti dei regolamentari libri paga e matricola. Ricorrendo tali evenienze, infatti, l’Istituto di previdenza si trova nella impossibilità di esercitare il proprio diritto di credito, neanche ricorrendo al proprio autonomo potere di accertamento, essendo dolosamente occultata la stessa attività dell’azienda. Per venire al punto, non può non essere segnalata l’ulteriore circostanza che l’attenuazione del rigore normativo accennato nel paragrafo precedente costituisce ben poca cosa se si pensa che la prescrizione in materia previdenziale costituisce una fattispecie del tutto particolare: si tratta infatti di una caratteristica rara, per non dire unica, presente fin dagli albori dell’istituzione delle assicurazioni sociali. Già l’art. 55, comma 2, del Regio Decreto Legge 4 ottobre 1935, n. 1827, aveva stabilito che “Non è ammessa la possibilità di effettuare versamenti, a regolarizzazione di contributi arretrati, dopo che, rispetto ai contributi stessi, sia intervenuta la prescrizione.” L’art. 3, comma 9, della legge 8 agosto 1995, n. 335, non solo ha reiterato tale ineludibile principio, ma ha altresì introdotto alcune novità in senso estensivo. Ma procediamo per ordine. Quanto all’impossibilità di effettuare i versamenti dopo il decorso del termine prescrizionale, la nuova norma afferma, a scanso di equivoci, che “Le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono e non possono essere versate con il decorso dei termini … omissis …”: una volta spirato pertanto il termine prescrizionale, non solo l’Ente di previdenza non può procedere all’azione coattiva rivolta al recupero dell’omissione, ma anche allorchè questa fosse successivamente sanata spontaneamente dal debitore, il pagamento del debito prescritto dovrà essere restituito d’ufficio dall’Ente di previdenza (c. d. “principio dell’irrinunciabilità della prescrizione”) e ciò in deroga alla disposizione contenuta nell’art. 2940 del codice civile, a mente del quale ”Non è ammessa la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato in adempimento di un debito prescritto.” Si tratta dunque di una prescrizione di contenuto particolare, per non dire “inconsueto”, ed alla quale, a differenza delle altre, non può rinunciare neppure chi ne è beneficiario. Per quanto attiene alle novità introdotte dalla norma, la prima consiste nel fatto che, diversamente da quanto avveniva in passato, il principio dell’irrinunciabilità della prescrizione, già valido per le cc. dd. “assicurazioni storiche” amministrate dall’INPS, vale a dire quelle per l’Invalidità, la vecchiaia ed i superstiti (IVS), per la disoccupazione involontaria (DS), ora ASpI, e per la tubercolosi (TBC), la quale ultima, al momento in cui si scrive, ha cessato di essere una forma di assicurazione sociale per divenire una gestione assistenziale, è stata esteso in via residuale a tutte le altre forme di contribuzione previdenziali obbligatorie. 4 A tale riguardo, per rimanere nell’ambito dell’INPS, si cita la contribuzione dovuta alla Cassa unica per gli assegni familiari, CUAF, la contribuzione per la Cassa integrazione guadagni, C. I. G., quella per l’indennità economica di malattia e di maternità, ecc.). La seconda innovazione è sostanzialmente il completamento della prima: a conferma del percorso di armonizzazione all’Assicurazione generale obbligatoria delle altre gestioni previdenziali, iniziato da circa un ventennio e non ancora del tutto concluso, il più volte citato principio di irrinunciabilità della prescrizione, si applica ora anche alle altre, o per meglio dire “a tutte le altre”, assicurazioni obbligatorie, e ciò a prescindere dall’entità del già realizzato percorso di avvicinamento, o di assimilazione che dir si voglia, all’A. G. O. medesima, sia con riferimento all’Ente gestore delle assicurazioni medesime. Non solo perciò le gestioni assicurativo-previdenziali amministrate dall’INPS (l’A. G. O., i Fondi sostitutivi della medesima e quelli che ne comportino l’esclusione o l’esonero), ma anche le poche altre che non sono confluite nel predetto Ente (l’INPGI, le Cassa di previdenza dei liberi professionisti, ecc.) per effetto della c. d. “Riforma Monti/Fornero” (il decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214) sono interessate alla specifica questione. Prima di concludere il paragrafo, vale la pena di segnalare che, nonostante il lungo tempo trascorso dalla data di emanazione della norma (anche in questo caso si tratta ormai di quasi un ventennio), l’argomento della prescrizione dei contributi previdenziali presenta notevoli caratteri di attualità, dal momento che i lavoratori dipendenti, nella generalità dei casi, si rendono conto con notevole ritardo di eventuali “buchi” nella propria posizione assicurativa e la loro denuncia potrebbe (chiariremo in seguito il motivo dell’utilizzo del condizionale) consentire il recupero anche con valenza retroattiva di dieci anni. Un discorso diverso deve essere fatto per i lavoratori autonomi (ivi compresi i liberi professionisti ed i parasubordinati): essi sono ben consapevoli di eventuali omissioni contributive, dal momento che loro stessi ne avrebbero dovuto effettuare il versamento. Infine, e detto per la cronaca, entrambi i commi 9 e 10 dell’art. 3 in commento, hanno resistito al vaglio di costituzionalità in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione. Gli effetti di una eventuale denuncia del lavoratore Premesso che in ipotesi di mancato versamento dei contributi derivanti dall’esercizio di attività di lavoro autonomo non si pongono questioni di sorta, visto che rimangono implicati nella vicenda unicamente il lavoratore e l’Ente previdenziale, questioni non indifferenti si rilevano in caso di inadempienza contributiva relativa allo svolgimento di un rapporto di lavoro subordinato. Ricorrendo tale ultima fattispecie, infatti, il rapporto assume valenza trivalente, atteso che le parti in causa sono ora tre: alle figure del datore di lavoro (che assume l’onere di soggetto tenuto per legge all’intero versamento dei contributi a norma dell’art. 2115, comma 1, del codice civile, anche cioè relativamente alla quota che l’ordinamento pone a carico del lavoratore), e dell’Ente previdenziale, si aggiunge ora anche quella del lavoratore subordinato. Insomma, in ipotesi di instaurazione di rapporto di lavoro subordinato, il rapporto previdenziale si istaura nell’ambito del trinomio “Datore di lavoro/Ente 5 previdenziale/Lavoratore”, il quale ultimo rappresenta, come appena sottolineati, il soggetto a cui favore si produrranno gli effetti del rapporto medesimo. Nel presupposto che, storicamente, il dipendente sia sempre stato considerato (e ad onor del vero lo è tuttora) la parte più debole di tale tipologia di rapporto di lavoro, fermo restando la sussistenza nei suoi confronti della titolarità dei benefici sottesi alla contribuzione previdenziale, il diritto di credito ad esso relativo è stato attribuito all’Ente di previdenza, il quale ha indubbiamente la forza economico-finanziaria per poterlo esercitare, laddove invece il prestatore d’opera ben difficilmente sarebbe in condizioni di poterlo attivare. Al lavoratore medesimo ed ai suoi superstiti, tuttavia, ancorchè spogliati del diritto di credito, non è stato riservato un atteggiamento del tutto passivo nella complessa vicenda della riscossione dei contributi: ai medesimi è stato infatti attribuito dall’art. 3, comma 9, ultimo periodo, della legge 8 agosto 1995, n. 335, il diritto soggettivo di denuncia dell’eventuale omissione contributiva, il quale, come già detto in precedenza, costituisce fattispecie del tutto diversa dall’interruzione della prescrizione e con la quale non deve perciò essere confusa. Gli effetti prodotti dalla denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti, considerate anche le interpretazioni dell’art. 3 più sopra parafrasato fornite dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e riepilogate da ultimo nella recentissima sentenza n. 15296 del 4 luglio 2014, sono i seguenti: - periodi di contribuzione che si collochino temporalmente dopo la data del 16 agosto 1996: considerato che la norma stabilisce che il termine di prescrizione è di dieci anni ed “è ridotto a cinque anni” “a decorrere dal 1° gennaio 1996” ”salvo i casi di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti”, la denuncia medesima intervenuta entro il quinquennio dalla data di scadenza dei contributi allungherà il termine da cinque a dieci anni, atteso che occorre “pur sempre che il credito contributivo esista ancora e non sia estinto per il maturare del quinquennio dalla sua scadenza.” (v. la più volta citata sentenza n. 15296 del 4 luglio 2014). Diversamente, vale a dire nel caso in cui la denuncia sia stata presentata decorso il quinquennio dalla data di scadenza dei contributi, la prescrizione sarà quinquennale; - periodi di contribuzione che si collochino temporalmente prima della data del 17 agosto 1995: qualora la denuncia sia stata presentata entro il 31 dicembre 1995, la prescrizione sarà in ogni caso decennale, a prescindere cioè dal fatto che sia decorso o meno il quinquennio dalla data di scadenza dei contributi. In ipotesi di intervenuta denuncia successivamente alla sopra citata data del 31 dicembre 1995, la prescrizione decennale potrà essere utilmente invocata solo qualora il quinquennio dalla scadenza non si era integralmente maturato alla data di entrata in vigore della norma (ossia al 17 agosto 1995). A maggior chiarimento di chi ci legge, si riporta di seguito un tratto della sentenza n. 15296 con la quale è stato appunto risolto il ricorso proposto in Cassazione da una giornalista che invocava l’applicazione decennale della prescrizione: “Orbene nel caso in esame, trattandosi di contributi dall’agosto 1991 al febbraio 1995 ed essendo intervenuta la denuncia della lavoratrice Ciccolo in data 25-12000, con effetto quindi soltanto in relazione ai contributi relativi al periodo dal 25 gennaio 1995, legittimamente la Corte di merito ha ritenuto prescritti i contributi fino al 25 gennaio 1995 (essendo stato, peraltro, anche accertato - vedi sentenza di primo grado, non impugnata sul punto - che il primo valido atto interruttivo è intervenuto con la notifica del decreto ingiuntivo, in data 22-1-2001). Tralasciando di considerare, per ragioni di ordine pratico, la prescrizione della contribuzione non versata per i periodi antecedenti al 17 agosto 1995, il cui campo di operatività dovrebbe, salvo sempre possibili casi eccezionali, ormai essersi concluso, con riferimento alle omissione contributive che si collochino dopo l’appena citata data (e fine ai 6 giorni nostri nonché anche relativamente ai periodi futuri) riteniamo di poter affermare che la riforma dei termini di prescrizione “in diminutio” di cui alla legge n. 335 sta sostanzialmente a significare che al lavoratore è richiesta l’accortezza di verificare, con carenza almeno quinquennale, la correntezza del proprio conto assicurativo, pena l’impossibilità di beneficiare del più favorevole termine decennale di prescrizione: come dire che il prestatore d’opera è tenuto, con riferimento alla specifica materia, a vigilare, tanto per fare un accostamento analogico, con la “diligenza del buon padre di famiglia” di cui parla spesso il nostro codice civile. A beneficio dei cultori della materia, si ritiene opportuno segnalare nuovamente che, sempre con la sentenza n. 15296, il Giudice di legittimità ha precisato che “la denuncia del lavoratore e dei loro superstiti non è atto interruttivo non solo perché non proviene dal creditore, ma anche perché il suo effetto non è quello di fare iniziare un nuovo periodo di prescrizione ex art. 2144 c. c., ma in sostanza di raddoppiare fin dall’inizio il termine da cinque a dieci anni. Peraltro, come evidenziato da Cass. n. 4153/2006, la ratio della disposizione è quella di ovviare ad uno degli inconvenienti che la legge comporta; ed infatti, per quanto riguarda le gestioni pensionistiche, la riduzione del termine prescrizionale per la riscossione dei contributi comprime la possibilità al lavoratore dipendente di acquisire l’anzianità assicurativa, ai fini del diritto a pensione, secondo le regole dell’automaticità delle prestazioni previdenziali di cui alla legge n. 153 del 1969, art. 40, perché dette regole valgono, come è noto, solo per i periodi non ancora caduti in prescrizione. Del resto a seguito della denuncia del lavoratore, assume vigenza il termine decennale all’insaputa del datore.” La facoltà di denuncia nei termini e con gli effetti appena enunciati dalle Sezioni Unite del Supremo Consesso conferma, per altri versi e per quanto ce ne fosse bisogno, che si tratta di una prescrizione del tutto particolare, che non solo non può essere eccepita dal debitore in caso di decorso del termine temporale all’interno del quale esercitarla (la circostanza è stata segnalata precedentemente), ma che mina, anzi deroga, un principio cardine sul quale da sempre caratterizza l’ordinamento giuridico del nostro Paese e cioè quello dell’affidamento: infatti l’avvenuta presentazione della denuncia rimane un fatto interno al rapporto Ente previdenziale/lavoratore e non intacca minimamente quello sussistente tra lo stesso Ente ed il datore di lavoro inadempiente, il quale ultimo, come affermato dalla stessa Cassazione, può anche non essere messo al corrente della sua avvenuta presentazione e senza che ciò impedisca l’allungamento del termine prescrizionale a dieci anni. La circostanza non è di poco conto, dal momento che non è affatto raro che il lavoratore presenti la denuncia ad immediato ridosso del termine di scadenza della prescrizione e l’Istituto potrebbe di conseguenza avere difficoltà, per motivi di tempo, a far valere il proprio diritto di credito: esonerando l’Ente dalla necessità di predisporre la richiesta di pagamento e a notificarla con l’urgenza che il caso richiederebbe, possono essere così “salvati” dalla prescrizione i periodi più prossimi allo spirare dei termini di che trattasi. Le possibilità offerte al lavoratore in caso di intervenuta prescrizione L’impossibilità di esperire l’azione coattiva a carico del datore di lavoro per la riscossione dei contributi in conseguenza dell’intervenuta prescrizione costituisce certamente un danno per l’Istituto previdenziale ma in misura molto più grave nuoce al prestatore d’opera, che può restare, al momento in cui si verifica il rischio assicurato 7 (l’invalidità, la vecchiaia, il decesso), privo in tutto od in parte delle prestazioni che gli sarebbero dovute. Se infatti con riferimento alle prestazioni non pensionistiche, il cui evento assicurativo si verifica nel corso dello svolgimento della vita lavorativa o comunque ad immediato ridosso della cessazione del rapporto di lavoro subordinato (di guisa che il prestatore d’opera potrà quasi sempre beneficiare della prerogativa dell’automaticità delle prestazioni di cui all’art. 2116, comma 1, del codice civile) non altrettanto può dirsi avuto riguardo alle prestazioni pensionistiche, la cui insorgenza del diritto può invece verificarsi a distanza di molti anni dalla data nella quale la contribuzione medesima avrebbe dovuto essere versata, per cui è assai probabile che nel frattempo sia intervenuta la prescrizione estintiva. Per porre rimedio a ciò, l’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, ha offerto sia al datore di lavoro, sia al prestatore d’opera, la possibilità di sanare l’omissione contributiva prescritta nei confronti dell’assicurazione obbligatoria mediante la costituzione di una rendita vitalizia riversibile pari alla pensione dell’Assicurazione generale obbligatoria, o quota di essa, che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi (c. d. “riscatto dei contributi prescritti”). Considerato che la somma da versare a sanatoria non è altro che il valore attuale (o riserva matematica che dir si voglia) di una “rendita vitalizia differita”, appare evidente che il relativo importo sarà tanto meno consistente quanto più giovane è il soggetto interessato alla data di presentazione della domanda. Detta opportunità non ha purtroppo riscosso molto successo dal momento che con il decorso degli anni la collaborazione del datore di lavoro ha avuto, di fatto, una scarsa possibilità di applicazione, sia per mancanza di disponibilità da parte di quest’ultimo, sia in quanto lo stesso potrebbe essere scomparso, irreperibile o divenuto inadempiente. Allo stesso tempo il lavoratore, potrebbe non avere le risorse economico-finanziarie per accollarsi il non indifferente onere del versamento della somma stabilita per la copertura della contribuzione omessa, come pure potrebbe non essere più in possesso della documentazione probatoria richiesta dalla sopra citata norma. Non è pertanto un caso che il comma quinto della sopra citato articolo abbia riaffermato, a favore del prestatore d’opera, il diritto al risarcimento del danno, alla condizione che fornisca in giudizio le prove dell’intervenuto rapporto di lavoro: una analoga previsione è infatti contenuta nel secondo comma dell’appena citato art. 2116 del codice civile. Anche questo ulteriore strumento messo a disposizione del lavoratore costituisce un rimedio di assai scarsa efficacia in quanto, da un alto, non realizza quella speditezza che è un elemento indispensabile per il tempestivo godimento delle prestazioni assicurative e, dall’altro lato, impone al lavoratore l’anticipazione di spese legali per instaurare un giudizio che presenta un esito assai dubbio per gli stessi motivi precedentemente elencati. Non va neanche trascurata l’ulteriore circostanza che i mezzi di prova, in considerazione del lungo tempo trascorso, sono ormai, quasi certamente, divenuti incerti e comunque meno convincenti. Comunque sia, sulla specifica materia del risarcimento del danno, si sono sviluppate, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, due contrapposte correnti di pensiero: la prima postula che il danno, vale a dire la perdita totale o parziale della prestazione pensionistica, si verificherebbe nel momento in cui il lavoratore raggiunga l’età pensionabile; la seconda presuppone invece la sussistenza della necessità di costituire, nell’immediato, la provvista necessaria ad ottenere il beneficio economico corrispondente alla prestazione medesima, attraverso una previdenza sostitutiva ed eventualmente pagando quanto occorre a costituire la rendita di cui al già citato art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338. 8 Ancora una volta la Magistratura di legittimità è venuta in soccorso del lavoratore: con la sentenza n. 26990 del 7 dicembre 2005, è stato brillantemente posto ordine alla complessa materia sintetizzando che “Di conseguenza, sono da distinguere le seguenti situazioni giuridiche soggettive, di cui può essere titolare il prestatore di lavoro: a) Nei confronti del datore, e dopo raggiunta l’età pensionabile, la perdita totale o parziale della pensione da luogo al danno risarcibile ex art. 2116 cod. civ. Quanto al momento in cui sorge il diritto al risarcimento, ossia in cui ai sensi dell’art. 2935 cod. civ. inizia a decorrere la prescrizione, la giurisprudenza di questa Corte oscilla fra il momento maturazione della prescrizione del diritto dell’ente assicuratore ai contributi (Cass. 6 maggio 1975 n. 1744) o della definitiva perdita della pensione (Cass. Sez. Un. n. 6558/1979, Cass. n. 10528/1997) o, ancora, dell’emanazione del provvedimento negativo da parte dell’ente (Cass. n. 3970/1988). b) Nei confronti del datore, e prima di raggiungere l'età pensionabile, ancor prima dell’avveramento del danno a causa della prescrizione del diritto ai contributi, il lavoratore può chiedere una condanna generica al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2116 cit.. Si tratta non già del danno da perdita della pensione, del quale non è ancora accettabile la sussistenza (cfr. art. 278 cod. proc. civ., comma 1), ma del danno da irregolarità contributiva. c) Sempre nei confronti del datore di lavoro e nella stessa cennata situazione, è stata ritenuta ammissibile l’esperibilità di un’azione di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso (Cass. n. 7059/1987, Cass. n. 4169/1975).” Intentando perciò le azioni di risarcimento di cui alle lettere b) e c), il lavoratore potrà annullare, o quanto meno limitare, gli inconvenienti della riparazione collegata alla lettera a), atteso che il procedimento giudiziario potrà essere esercitato, in quest’ultimo caso, solo dopo aver raggiunto l’età pensionabile. Per quanto possa apparire superfluo, sembra opportuno sottolineare che anche il giudice, eventualmente chiamato a decidere in un procedimento di danno a carico del datore di lavoro inadempiente, può disporre l’applicazione dell’art. 13 corrispondendo pienamente - e senza la necessità dell’utilizzo di periti per la valutazione del danno stesso - alla domanda dell’attore. La non estensibilità del principio dell’irrinunciabilità della prescrizione alle sanzioni amministrative comminate in caso di mancato assolvimento dell’obbligo contributivo È noto che il mancato versamento della contribuzione comporta come conseguenza anche l’applicazione del regime sanzionatorio all’uopo stabilito, il quale peraltro si articola in modo alquanto complesso, visto che si rapporta ad altre inadempienze che vengono commesse contestualmente all’omissione assicurativo-previdenziale. Detto in estrema sintesi, le sanzioni comminabili possono essere di natura civilistica, amministrativa e penale. Tralasciando, per motivi di spazio, il commento di queste ultime (che peraltro hanno recentemente subito un processo di depenalizzazione), va detto che le sanzioni civili hanno una duplice valenza: in primo luogo rafforzativa dell’obbligazione principale (in questo caso l’obbligo contributivo) in quanto rivolta a prevenire l’eventuale suo mancato pagamento. In secondo luogo le sanzioni di cui si discorre assumono natura compensativa, atteso che hanno anche la finalità di ristorare il creditore (nel nostro caso l’Ente previdenziale) del ritardato pagamento dei contributi assicurativi: per tale ragione sono 9 determinate con le stesse modalità di calcolo degli interessi, ossia rapportate, oltre che ovviamente all’entità della somma non corrisposta, anche al tempo del ritardato assolvimento degli obblighi assicurativo-previdenziali, nonché, infine, al tasso vigente al momento dell’adempimento dell’obbligo contributivo (c. d. “tasso ufficiale di riferimento”). La sanzione amministrativa costituisce invece una vera e propria penalità che postula la violazione di una norma giuridica, violazione che viene qualificata come un fatto illecito. Tale penalità è generalmente di natura pecuniaria (comporta infatti il pagamento di una somma di denaro) ed il suo ammontare è stabilito dalla legge, La natura afflittiva di tale tipologia di sanzione trova dunque fondamento nella accertata commissione (c. d. “constatazione”) di un fatto illecito da parte dell’autorità competente a carico di un determinato soggetto (nel caso in esame, l’imprenditore che ha occupato in nero, o comunque in modo irregolare, i propri dipendenti). Il termine illecito sta specificatamente ad indicare un comportamento del soggetto di diritto contrario all’ordinamento giuridico, intendendosi per tale un atteggiamento commissivo, allorchè si violi un obbligo o dovere negativo (di non fare), oppure omissivo, nel caso in cui venga disatteso un obbligo o dovere positivo (di fare o di dare). In occasione dell’interpretazione dei nuovi termini prescrizionali dettati dall’art. 3, commi 9 e 10, della legge 8 agosto 1995, n. 335, si è posta questione se anche alle sanzioni amministrative si dovesse o meno applicare il principio dell’irrinunciabilità della prescrizione, fermo restando che le sanzioni civili debbano in ogni caso ricadere sotto l’egida della sorte contributiva, attesa l’identità delle modalità applicative. Con circolare n. 18 del 22 gennaio 1996 l’INPS ha chiarito, peraltro in modo del tutto condivisibile, che “E’ stato chiesto se le sanzioni amministrative richieste con il procedimento previsto dalla legge 689/81 ricadano o meno nella disciplina della citata legge n. 335/95 e in particolare se debba essere accettato un pagamento spontaneo di sanzioni amministrative prescritte. Al riguardo, va considerato che la legge 689/81 che modifica il sistema penale, prevede la prescrizione quinquennale per tutte le somme dovute per le violazioni in essa contemplate e richiama le norme ordinarie per la disciplina per l’interruzione dei termini. Per effetto di tale richiamo si ritiene di poter sostenere che l’avvenuta prescrizione vada eccepita dal debitore e che quindi, il pagamento fatto a titolo di sanzione amministrativa resti acquisito a tale titolo.” Francavilla al Mare (CH), 28 luglio 2014 10