LA NON DISCRIMINAZIONE FISCALE
Sommario: Introduzione – Capitolo primo: 1.1 – Premessa – 1.2 Il problema della legittimazione delle
istituzioni europee – 1.3 La Carta dei diritti – 2.1 Riflessioni giuridiche – 3.1 L’armonizzazione fiscale
nell’UE – 3.2 L’indirizzo comunitario in materia fiscale – Capitolo secondo: 1.1 Un pò di storia: dal
protezionismo al libero scambio – 2.1 L’uguaglianza di trattamento oggi – 2.2 Il principio di non
discriminazione e l’UE – 2.3 Il divieto di discriminazione fiscale e l’ordinamento interno – 2.4 I motivi
di giustificazione di eventuali discriminazioni: l'esigenza di coerenza del sistema fiscale e le norme c.d.
procedurali o di accertamento – 2.5 Un caso di discriminazione basata sul principio di residenza,
riscontrato nel corso dell'attività di servizio della Guardia di Finanza – 3.1 Diritto internazionale – 3.2 Il
principio della residenza – 4.1 Il mancato riconoscimento delle agevolazioni fiscali come causa di
discriminazione; 4.2 – Diritto tributario interno e diritto convenzionale – Capitolo terzo: 1.1 Le
disposizioni comunitarie – 1.2 Diritto comunitario e diritto tributario interno – 1.3 L’imposizione
diretta – 1.4 Ancora sulle imposte dirette – 2.1 Imposte sulle società – 2.2 L'imposizione fiscale delle
PMI – 2.3 Imposte sul reddito delle persone fisiche – 3.1 La violazione indiretta delle norme del
Trattato – 3.2 Libertà di stabilimento – 3.3 Libertà di circolazione dei lavoratori – 3.4 Libera
circolazione di capitali e pagamenti – 4.1 Coerenza del sistema fiscale e diversità di trattamento dei non
residenti – 4.2 Uguaglianza fiscale ed imposizione dei redditi – 4.3 Cooperazione tra le Amministrazioni
Finanziarie – 4.4 Le convenzioni contro la doppia imposizione – Capitolo quarto: 1.1 – Agevolazioni –
1.2 L’art. 95 ed il rapporto di concorrenzialità – Conclusioni – Bibliografia.
INTRODUZIONE
In ogni contesto economico organizzato, la politica tributaria assume un’evidente importanza
sociale. In ambito comunitario, il principio guida presente nel Trattato è rappresentato dal divieto agli
Stati membri di creare ovvero conservare barriere di natura fiscale agli scambi transfrontalieri e più in
generale, alla realizzazione delle politiche comunitarie. Dunque, le disposizioni del Trattato si traducono
in un vincolo per le politiche e le scelte dei governi nazionali in materia. Tale vincolo ovviamente si
ricollega soprattutto all’obiettivo di integrazione e liberalizzazione del mercato unico che ha fatto il suo
primo passo con l’eliminazione delle barriere fiscali.
Uno dei motivi essenziali della riforma tributaria è stato la necessità di adeguarsi alle normative
della Comunità Europea in materia fiscale e in particolare alle due Direttive emanate dal Consiglio CEE
in data 11 aprile 1967. Il sistema fiscale adottato dalla Comunità mira a garantire un regime di libera
concorrenza nell’ambito comunitario, mediante i principi della tassazione nel Paese di destinazione e
quello della non discriminazione fiscale. Il principio di tassazione nel Paese d’origine è stato applicato
come principio cardine per le imposte dirette. La logica ti tale scelta è di tutta evidenza: solo lo Stato di
appartenenza dell’esportatore può accertare l’effettivo reddito complessivo che questi ha realizzato e
può perciò tassarlo secondo i criteri di progressività e capacità contributiva. Per il principio di tassazione nel
Paese di destinazione, invece, ogni prodotto è sottoposto al regime fiscale dello Stato in cui è
consumato: si evita, in tal modo, una doppia imposizione – nell’ambito comunitario – per lo stesso
bene. Si è preferito adottare questo criterio limitatamente alle imposte indirette, perché tali imposte
incidono sul prezzo finale delle singole merci. Le scelte del legislatore comunitario hanno, tuttavia,
subito con l’emanazione di alcune direttive ( tra le più significative la n. 68 del 16 dicembre 1991, la n.
77 del 19 ottobre 1992 e la n. 111 del 14 dicembre 1992), un’influenza tale da portare all’apertura delle
frontiere doganali in ambito comunitario. L’Europa è, infatti, divenuta un’unica area di scambio nella
quale i beni degli Stati membri possono circolare liberamente senza subire controlli di sorta e la CE
costituisce un “corpo unitario” nei confronti dei Paesi terzi. Di qui l’abolizione di diritti di confine negli
scambi comunitari ed una regolamentazione del sistema comune d’imposta sul valore aggiunto. In
questa fase di transizione e di adattamento fu introdotto un sistema transitorio e individuato un nuovo
presupposto d’imposta nell’ambito IVA, consistente nell’acquisto intracomunitario, per cui il tributo
veniva applicato ancora con riferimento al Paese di destinazione. Il debitore d’imposta era identificato
1
nello stesso acquirente che poteva poi portare in detrazione l’imposta relativa agli acquisti
intracomunitari effettuati nei limiti consentiti dall’ordinamento nazionale. Tale disciplina è stata in
vigore fino al 1 gennaio 2000, quando si è passati al regime definitivo degli scambi tra Stati membri,
fondato sul principio della tassazione nel Paese di origine.Naturalmente al fine di evitare gli intralci ed i
costi connessi al superamento delle frontiere, o meglio per favorire la libera circolazione delle merci,
l’area comunitaria appare come un unicum nei rapporti con i Paesi estranei alla CE, da qui le nuove
nozioni di importazione ed esportazione:
- importazione è l’introduzione, in qualsiasi Stato membro, di beni provenienti da Paesi terzi
estranei alla Comunità;
- esportazione è soltanto la cessione di beni effettuata al di fuori della Comunità.
Il principio della non discriminazione fiscale vuole evitare il ricorso ai dazi doganali protettivi,
che creano discriminazioni fra gli Stati, ciascuno dei quali tende a favorire i propri prodotti.
Conseguenze dirette di questo “divieto del protezionismo” sono:
- il divieto di imporre tributi nei confronti di un solo Paese membro a vantaggio di altri;
- il divieto di creare tributi discriminatori per merci di Stati membri;
- il divieto di imporre tributi maggiori su beni importati rispetto ad eguali beni di produzione
nazionale;
- il divieto di mascherare sotto forma di rimborsi di imposta i premi all’esportazione, per far
scendere artificiosamente i costi delle imprese e svilire il principio di sana concorrenza.
I popoli europei nel creare tra loro un’unione europea sempre più stretta hanno deciso di
condividere un futuro di pace fondato su valori comuni.
Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione: si fonda sui valori indivisibili ed
universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l’Unione si basa sui principi di
democrazia e dello stato di diritto, pone la persona al centro della sua azione, istituendo la cittadinanza
dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, contribuisce al mantenimento di questi
valori comuni, nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei, dell’identità
nazionale degli Stati membri e dell’ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e
locale; cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile ed assicura la libera circolazione delle
persone, dei beni, dei servizi e dei capitali nonché la libertà di stabilimento.
La presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e
dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e
dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal Trattato sull’Unione europea e dai Trattati
comunitari, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti
riconosciuti dalla Giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il godimento di questi diritti fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come
pure della comunità umana e delle generazioni future.
L’Unione riconosce i diritti, le libertà ed i principi enunciati nella Carta dei diritti europea.
Il 28 febbraio 2002 è stata formalmente inaugurata la Convenzione sul futuro dell’Europa1 che
avrà il difficile compito di scrivere la nuova costituzione europea.
A questo riguardo vari commentatori 2 hanno sottolineato che L’EU attualmente possiede già
una forma di equilibrio costituzionale e che, perciò, quello che realmente serve non è una nuova
costituzione scritta, ma l’adozione, o meglio, l’implementazione di efficaci politiche economiche o
sociali.
Tuttavia, al di là di queste forti critiche, il fenomeno deve essere considerato sulla scorta della
giurisprudenza del Tribunale Europeo di Primo Grado e della Corte Europea di Giustizia che hanno, in
un certo senso, posto le basi per l’adozione di una costituzione europea.
“Libertà economiche del trattato UE ed imposizione diretta degli stati. Il divieto di
discriminazione: riflessi fiscali” è stato il tema di un convegno di studio organizzato a Bologna in diritto
tributario europeo, in cui veniva evidenziato come tra i vari processi discussi dinnanzi alla Corte di
1
2
Douglas-Scott, S. Constitutional Law of the Ruropean Union Logman, Halow, 2002.
V. P. Eeckhout, The EU Charter of Fundamental Rights and the Federal Question, 2002 – Common Market Law Review, p. 945.
2
Giustizia dell’Unione europea in tema di discriminazione fiscale non è mai comparso il nome di un
cittadino italiano. È davvero possibile sostenere che l’Italia sia il paese più “europeo” fra tutti quelli
dell’unione? Oppure il problema del divieto di discriminazione non è stato ancora sufficientemente
conosciuto da parte dei cittadini che se ne potrebbero avvalere di più di quanto di non facciano fino ad
ora?
Il principio di non discriminazione costituisce una delle regole fondamentali della Comunità europea e
forse il diritto fondamentale di tutti i cittadini che la abitano, siano essi professionisti, imprenditori o
semplici consumatori. E la fiscalità risulta il fattore attraverso il quale lo stato nazionale può incidere in
maniera più penetrante nella vita dei residenti nel suo territorio, quello attraverso cui i trattamenti
differenziati possono essere più onerosi per il contribuente o più svantaggiosi per l’impresa.
Ecco perché è importante capire appieno la portata del principio di non discriminazione e,
attraverso di esso, il significato della propria cittadinanza europea, e non solo nazionale.
CAPITOLO I
1.1 PREMESSA
Negli ultimi anni sono stati fatti significativi passi avanti nel riconoscimento dell’importanza dei
diritti fondamentali nell’Unione europea.
Il Trattato di Amsterdam afferma che “l’Unione si basa sui principi della libertà, della
democrazia, del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dello stato di diritto,
principi comuni a tutti gli Stati membri” (Art. 6.1 TUE), che “l’Unione rispetta i diritti fondamentali
quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario” (Art. 6.2 TUE). L’Art.
46 del Trattato sull’Unione europea concerne le competenze della Corte di Giustizia della Comunità
europea ed attribuisce a quest’ultima la competenza a pronunciarsi sugli atti delle istituzioni dell’Unione
europea afferenti alla Convenzione europea per la Protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (Consiglio d’Europa, 1950).
Il Trattato di Amsterdam rende vincolante per l’Unione l’obbligo di rispettare la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Art. 6.2 TUE) e, per gli Stati membri, quello di
rispettare il principio “della libertà, della democrazia, del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, nonché dello Stato di diritto” sul quale l’Unione si fonda (Art. 6.1 TUE).
I Trattati di Amsterdam e di Maastricht hanno fatto registrare importanti progressi nella
protezione dei diritti fondamentali nell’Unione europea. Fra le disposizioni più significative figurano:
- l’art. 13 del Trattato sulla Comunità europea (TCE) che tratta della non discriminazione contro
persone o gruppi sulla base del sesso, della razza o dell’origine etnica, della religione o delle credenze,
degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale;
- l’inserimento nei Trattati di riferimenti alla Carta comunitaria sui diritti sociali fondamentali dei
lavoratori del 1989 e della Carta sociale europea (Torino, 1961). (Art. 136 TCE);
- Il riconoscimento della cittadinanza europea e la garanzia di diritti come la libertà di
movimento, il diritto al voto nelle elezioni locali ed europee e il diritto di petizione (Artt. 17-22 TCE);
- l’art. 137 del TCE che affida all’Unione europea il compito di approntare programmi volti a
combattere la povertà e a promuovere l’integrazione sociale.
Nonostante tali progressi, il processo d’integrazione europea, con le sue chiare implicazioni per i
diritti umani, richiede una reale ed effettiva protezione dei diritti fondamentali per i cittadini e per i
lavoratori europei e l’esplicita definizione di tali diritti in un testo unico e coerente.
I diritti fondamentali sono un elemento indispensabile sia per rafforzare la dimensione sociale
dell’Unione europea sia per proteggere e sviluppare il modello sociale europeo. L’inserimento della
Carta nei Trattati è quindi di cruciale importanza nella prospettiva dell’imminente ampliamento
dell’Unione.
3
L’Unione si sta affermando come uno dei principali attori sulla scena mondiale. Il Consiglio, il
Parlamento e la Commissione si pronunciano spesso sul bisogno di sviluppare i diritti dell’uomo,
accettati e sottoscritti nelle Dichiarazioni, negli Accordi e nelle Convenzioni elaborate dalle nazioni
Unite e dalle sue istituzioni.
Il Consiglio dell’UE ha dichiarato che l’Europa deve farsi portavoce dei diritti dell’uomo.
Questo rispetto dei diritti fondamentali deve diventare parte integrante e continua degli impegni e delle
richieste dell’Unione europea e dei suoi Stati membri nelle loro relazioni commerciali e di politica
estera.
I diritti dell’uomo sono indivisibili, l’intero corpo dei diritti civili, politici, economici, sociali,
culturali e sindacali deve essere integrato nel Trattato in modo vincolante; pertanto, una Carta che si
limiti ad una solenne dichiarazione politica non solo non soddisferebbe i bisogni attuali in relazione agli
obiettivi della costruzione europea, dell’ampliamento dell’Unione e del nostro ruolo globale, ma, a
maggior ragione, non ristabilirebbe la fiducia dei nostri concittadini europei rispetto all’unione
economica e monetaria.
Per questo è necessario attribuire la stessa importanza alla dimensione sociale dell’integrazione
europea che sia centrata sull’individuo, anche in relazione ad una non discriminazione in materia fiscale.
1.2 IL PROBLEMA DELLA LEGITTIMAZIONE DELLE ISTITUZIONI EUROPEE
Le premesse per l’adozione di una costituzione scritta a livello europeo possono identificarsi
nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. Infatti, la Corte, nel corso degli anni e fin dall’inizio della
propria attività, ha costantemente negato che i Trattati sull’UE potessero essere considerati alla stregua
di semplici trattati internazionali e, conseguentemente, che il diritto comunitario potesse essere visto
come gerarchicamente subordinato agli ordinamenti nazionali degli Stati membri.
In questo senso, si può desumere dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia un principio di
supremazia del diritto europeo sugli ordinamenti giuridici nazionali.
In questo senso può essere citato il caso Van Gend & Loos contro Netherland 3nel corso del quale
la CG ha statuito che si può chiaramente evincere come gli ordinamenti giuridici degli Stati membri
siano stati relegati dal supremo organo giurisdizionale europeo in una posizione subordinata alle norme
contenute nei Trattati Europei. Così i Trattati, nella gerarchia delle fonti, non sono più soggetti alle
Costituzioni nazionali.
In altre parole, la Corte di Giustizia ha gettato le basi per la fondazione di un nuovo ordine
costituzionale europeo.
Anche nel caso Costa contro Enel la CG ha statuito il concetto di supremazia del diritto
comunitario, sottolineando le limitazioni di sovranità degli Stati membri rispetto alle attribuzioni degli
organi comunitari.
In ogni caso, al di là della giurisprudenza della Corte di Giustizia, il problema di una nuova
costituzione europea scritta si è posto ai fini di assicurare una solida legittimazione democratica
all’Unione Europea come nuovo soggetto sia politico che giuridico.
Attualmente, infatti, l’UE non è più considerabile una mera unione economica, ma svolge un
ruolo fondamentale nell’ambito della società europea. Infatti, il suo impatto, in termini di produzione
legislativa, politiche economiche e sociali, è immenso. Tuttavia, l’UE, come numerosi commentatori
hanno evidenziato4 , risulta essere carente dal punto della legittimità democratica.
A questo punto è possibile evidenziare la stretta relazione che esiste tra la giurisprudenza della
corte europea di Giustizia e l’impatto della crescente importanza politica e sociale dell’Europa.
Da una parte, infatti, la Corte Europea di Giustizia ha elaborato la dottrina della supremazia del
diritto comunitario e ha posto le basi, da un punto di vista strettamente normativo, di un nuovo ordine
costituzionale europeo. Dall’altra parte, l’UE non è più una mera organizzazione economica ma regola
direttamente la maggior parte delle più importanti questioni politiche, economiche e sociali degli Stati
membri.
3
4
P. Eeckhout, The European Cuort after Nice, 2002 in Common Market Review, p. 1115.
V. P. M. Gangi, Riflessioni sulla Convenzione Europea, PE, Bruxelles, 2003.
4
Pertanto, l’UE necessita fortemente di un atto di legittimazione democratica dotato di valore
giuridico, politico e sociale. In altre parole, l’UE necessita di un documento che, facendo riferimento
alla tradizione costituzionale degli Stati membri, possa costituire l’Unione come un organismo politico e
giuridico indipendente dai singoli Stati membri, cioè una nuova costituzione scritta.
Una delle più importanti, se non la più importante, questione che dovrebbe nascere dalla nuova
costituzione è il problema del riconoscimento e della protezione dei diritti umani.
Storicamente, gli originari trattati comunitari non contenevano alcun accenno alla questione
della protezione dei diritti umani. La ragione risiede nel fatto che l’Unione Europea inizialmente era
solo una mera unione economica senza alcuna competenza in tema di protezione dei diritti umani. Gli
individui non erano protetti in quanto tali ma nei limiti in cui svolgessero un preciso ruolo nell’ambito
dei processi di integrazione economica comunitaria. In altri termini, solamente i diritti dell’homo
hoeconomicus erano efficacemente protetti.
La questione dei diritti umani ha iniziato a giocare un ruolo sempre più importante nel diritto
comunitario in seguito alla giurisprudenza del Tribunali comunitari. Nel giudizio Rutili contro Ministre de
l’Interieur, per esempio, la CG ha esplicitamente riconosciuto che devono essere protetti i diritti umani
riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti umani.
È importante sottolineare che dette sentenze furono provocate da due sentenze delle Corti
costituzionali italiana e tedesca che affermarono la loro volontà di disapplicare il diritto comunitario nel
caso in cui il diritto comunitario stesso avesse violato i diritti fondamentali.
Successivamente, nel Trattato di Maastricht è stato inserito l’art. 6 che conferisce all’attuale
fisionomia istituzionale dell’UE un’effettiva competenza in tema di protezione dei diritti umani. In altre
parole, attualmente l’EU è un organismo giuridico e politico sopranazionale che protegge i diritti umani
in quanto tali. Infine, va ricordato che il 7 dicembre 2000 è stata proclamata la Carta europea dei diritti
umani. Il primo aspetto che deve essere sottolineato a tale riguardo è che la Carta non è vincolante dal
punto di vista giuridico. Essa, ovviamente, ha un forte valore politico, ma non essendo stata incorporata
all’interno dei Trattati non possiede un effettivo valore giuridico
1.3 LA CARTA DEI DIRITTI
Il momento di partenza nell’elaborazione della Carta dei Diritti Europea può individuarsi nel
Consiglio dei Capi di Stato europei tenutosi a Colonia il 3 e 4 giugno 1999. In quella circostanza maturò
la formale decisione di una Carta dei diritti fondamentali ed a questo scopo venne costituito un
apposito organo denominato “Convention” avente la specifica funzione di elaborare una proposta di
carta dei diritti.
L’organismo era formato da un rappresentante per ogni Governo, da 16 membri del Parlamento
europeo, da 30 membri dei parlamenti nazionali ( 2 parlamentari per ciascun paese) ed infine da un
rappresentante della Commissione Europea. La discussione intorno ai contenuti della Carta ha
riguardato soprattutto i diritti economici e quelli sociali in quanto un primo orientamento affermatosi
all’interno della Convention riteneva di annoverare i diritti economici e sociali come “fondamentali” e
pertanto oggetto di tutela diretta ed immediata. Un secondo orientamento, escludendo la azionabilità di
questi diritti, li considerava alla stregua di obiettivi politici, che come tali costituivano un semplice
impegno programmatico a carico degli Stati europei.
Ma qual è l’effettivo valore giuridico della Carta dei Diritti? Le norme in essa contenute
costituiscono dei precetti vincolanti per gli Stati dell’Unione, oppure rappresentano una semplice
dichiarazione d’intenti?
Il Presidente della Commissione Europea Romano Prodi in un intervento del 12 dicembre 2000
dinanzi al Parlamento Europeo ha espresso una posizione in equivoca sottolineando che “Parlamento e
Commissione Europea intendono applicare integralmente la Carta”5.
Questa dichiarazione appare tuttavia in contraddizione con il testo adottato al vertice di Nizza (la Dichiarazione Finale)
secondo cui alla carta occorre ancora attribuire uno Status ben definito, caratterizzandosi più come un documento politico
che come testo normativo giuridicamente vincolante. Un autorevole studioso (Stefano Rodotà, La Repubblica del
03.01.2001) ritiene che anche l’attribuzione di un semplice valore politico alla Carta costituisce un fatto di grande rilievo e
5
5
Questa realtà è già espressa nel Trattato sull’UE (TUE), aggiornato, nella sua stesura definitiva,
nel Trattato di Amsterdam. In effetti, al paragrafo 1’art. 6 (ex art.F) del TUE si legge che “ l’Unione si
fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dello stato di diritto,
principi che sono comuni agli Stati membri”, mentre il paragrafo 2 dello stesso articolo ricorda che “l’Unione
rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni
degli Stati membri in quanto principi generali del diritto comunitario”.
È, inoltre, opportuno ricordare che la Corte di Giustizia europea ha confermato e definito nella
sua giurisprudenza l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali. È, quindi, basandosi su un
inquadramento giuridico già consacrato e vincolante che, in occasione del già ricordato Consiglio
europeo di Colonia, i Capi di Stato e di Governo si sono accordati sull’idea che nella fase attuale dello
sviluppo dell’Unione fosse necessario stabilire una Carta dei diritti fondamentali allo scopo di sancirne
l’importanza eccezionale e la portata in modo visibile per i cittadini dell’Unione.
Nel “Preambolo” nell’atto stesso di creare uno spazio comune, si esordisce con la dichiarazione
dei popoli europei che hanno deciso di “condividere un futuro di pace fondato su valori comuni”.
L’Unione, pertanto, si fonda sui “valori indivisibili ed universali di dignità umana, di libertà,
eguaglianza e solidarietà”.
Se questo è il campo dei valori, quello dei principi non è meno cogente. “L’Unione si basa sui
principi di democrazia e dello Stato di diritto”. Ne deriva il corollario che essa “pone la persona al
centro della sua azione, istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza
e giustizia”. La cittadinanza dell’Unione viene incardinata anche sul mantenimento dei valori e dei
principi appena richiamati; ma si apre anche al “rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei
popoli europei, dell’identità nazionale degli Stati membri e dell’ordinamento dei loro pubblici poteri a
livello nazionale, regionale e locale”.
In questo quadro, l’Unione cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile ed
assicura la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali, nonché la libertà di
stabilimento.
Con l’adozione della presente Carta, l’Unione intende, rendendoli più visibili, rafforzare la tutela
dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi
scientifici e tecnologici.
Come recita l’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea “L’Unione si fonda sui principi di libertà,
democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto, principi che
sono comuni agli Stati membri” ed ha come obiettivo anche quello di “rafforzare la tutela dei diritti e
degli interessi dei cittadini e dei suoi Stati membri”, nonché salvaguardare e “sviluppare l’Unione quale
spazio di libertà, sicurezza e giustizia”. Il rispetto e la promozione dei diritti umani sono, inoltre, uno
dei criteri di valutazione per l’adesione dei Paesi candidati e costituisce uno degli obiettivi principali
(Art. 11TUE) della sua Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) in materia di rapporti dell’Unione
Europea con gli altri Stati.
D'altronde, l’importanza di garantire i diritti fondamentali a livello europeo trova giustificazione
nelle implicazioni sociali della realizzazione dell’Unione economica e monetaria e dell’introduzione
dell’Euro. I diritti fondamentali sono, quindi, una componente indispensabile nella costruzione
dell’Unione sociale nonché nella salvaguardia e nello sviluppo del modello sociale europeo.
L’integrazione dei diritti fondamentali nel Trattato acquista, poi, ancora più importanza alla luce del
prossimo ampliamento dell’Unione, in vista di un Europa dei cittadini.
Alcuni europeisti obiettano che non è necessaria una nova Carta, considerando che già ci sono
la Convenzione europea sui diritti umani e la Carta sociale europea. Ma questi documenti non sono
abbastanza comprensivi, né sono giuridicamente applicabili in modo tale da garantire l’intera gamma dei
diritti civili, politici, sociali ed economici.
significato per i popoli europei che per le loro istituzioni in quanto il dettato della carta esercita o eserciterà notevole
influenza sul comportamento delle istituzioni europee.
6
Fu così che, il 7 dicembre 2000, a margine del vertice di Nizza, il Parlamento Europeo, il
Consiglio dell’Unione Europea e la Commissione Europea hanno proclamato solennemente la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea, che consta di 54 articoli.
Il testo della Carta rispecchia in gran parte le richieste e le aspettative di coloro che volevano
ottenere un testo solenne ed ambizioso quanto ai contenuti, che, senza contraddizioni con gli strumenti
già esistenti, fissasse standard comuni destinati a dare sostanza e contenuto alla nozione di cittadinanza
europea, evidenziando maggiormente l’aspetto della tutela dei diritti umani in un quadro di riferimento
che vede ancora largamente prevalenti gli aspetti economici dell’Unione. Il contenuto della Carta, pur
nei limiti di un compromesso fra le tante anime e le diverse culture presenti nell’Unione europea,
rappresenta, quindi, un documento di estremo valore politico nonché storico; è, infatti, la prima volta
che in un documento internazionale di questo livello compaiono, insieme ai diritti civili e politici
tradizionali, i diritti sociali ed economici ed i cosiddetti nuovi diritti.
Dagli inizi degli anni novanta l’Unione Europea ha inserito una clausola sul rispetto dei diritti
dell’uomo in numerosi accordi commerciali e di cooperazione conclusi con Paesi Terzi, mettendo così
in rilievo che la promozione della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani e delle libertà
fondamentali è uno degli obiettivi dell’azione dell’UE nella cooperazione allo sviluppo.
Nelle conclusioni del 25 giugno 2001, il Consiglio dell’UE ha favorevolmente valutato la
Comunicazione della Commissione sul ruolo dell’Unione Europea per promuovere la
democratizzazione ed il rispetto dei diritti umani nei Paesi Terzi ed ha riaffermato l’impegno politico dei
Quindici per il rispetto dei diritti umani in tutti in tutti i settori della politica estera comune e delle
politiche commerciali e di cooperazione alla sviluppo.
L’indivisibilità dei diritti umani fa parte dei fondamenti dell’idea di “diritti dell’uomo” a cui
mirano le dichiarazioni internazionali dei diritti dell’uomo. In continuità con questa tradizione, nella
Conferenza sui diritti dell’uomo di Vienna (1993) si è stabilito che tutti i diritti dell’uomo sono
universali, indivisibili, si condizionano a vicenda e dipendono l’uno dall’altro”. Questo accordo
fondamentale ha portato negli ultimi anni ad un grande rafforzamento del riconoscimento dei diritti
dell’uomo in materia economica, sociale e culturale.
Nelle nuove Costituzioni degli ultimi quindici anni, i diritti dell’uomo in campo economico e
sociale sono integrati in modo chiaro e sullo stesso piano degli altri.
Lo Stato, in questa direzione, ha obblighi da tre punti di vista: l’obbligo di rispetto, l’obbligo di
tutela, l’obbligo di prestazione.
Poiché il diritto della Comunità è essenzialmente sovra ordinato al diritto nazionale, è
decisamente urgente che gli organi legislativi ed esecutivi dell’Unione e degli Stati membri siano
vincolati al rispetto dei diritti economici, sociali e culturali.
Il rispetto di questi diritti dell’uomo dev’essere anche fondamento delle relazioni con i cittadini
di Stati terzi, e questi diritti devono essere azionabili da chiunque, anche se non cittadino.
Le persone socialmente svantaggiate hanno il diritto ad uno speciale sostegno.
Il fine dev’essere quello di considerare i diritti dell’uomo in campo sociale, economico e
culturale come metro per l’azione politica, sul piano nazionale come su quello europeo.
Perché ciò sia possibile, i diritti umani in campo economico, sociale e culturale debbono
divenire parte integrante della Carta dei diritti fondamentali, sulla base del Patto internazionale sui diritti
economici, sociali e culturali.
2.1 RIFLESSIONI GIURIDICHE
L’art. 6 del Trattato UE sancisce:” L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti
dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali…….in
quanto principi generali del diritto comunitario”.
L’art. 6 del TUE costituirebbe dunque già uno strumento per conseguire il fine di dichiarare
solennemente i diritti fondamentali dell’Unione. Esso afferma che “l’Unione si fonda sui principi di
libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto,
7
principi che sono garantiti agli Stati membri”. I diritti (e i principi) fondamentali sono quelli sanciti dalla
Convenzione europea.
L’organo che ha il compito di vegliare sul rispetto di quanto sancito dall’art. 6 è “il Consiglio
riunito nella sua composizione di Capi di Stato e di Governo”. Dunque, l’organo giurisdizionale con il
compito di verificare la sussistenza o meno di violazioni all’art. 6 è il Consiglio europeo, il quale può
anche comminare la pena allo Stato che a suo giudizio compia tale violazione.
La sanzione è la sospensione di alcuni diritti previsti dai Trattati, compresa la sospensione del
diritto di voto.
Si tratta di una sanzione esclusivamente politica, in quanto da un lato sono gli organi politici
dell’Unione, e solo questi, che giudicano le violazioni, dall’altro la Corte di Giustizia, che è l’organo
giurisdizionale dell’Unione e delle Comunità, è del tutto esclusa da ogni fase della procedura.
Nelle conclusioni del Consiglio europeo6, già nel Preambolo ci si limita a riaffermare “i diritti
derivanti dalle tra dizioni costituzionali comuni agli Stati membri, dal Trattato sull’Unione europea e dai
Trattati comunitari, dalla Convenzione europea, dalle Carte sociali adottate dalle Comunità e dal
Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo”.
Si tratta, dunque, di una riaffermazione e, sempre nel Preambolo, si afferma che ”l’Unione
riconosce i diritti, le libertà e i principi enunciati” nella Carta. Nulla dice sulla loro tutela, per la quale ci si
aspetterebbero norme precise almeno nelle disposizioni finali che chiudono la Carta. Ma così non è.
Il Capo VII disciplina appunto le disposizioni generali e cioè l’ambito di applicazione della
Carta, portata dei diritti garantiti, livello di protezione e divieto dell’abuso di diritto.
Proviamo ad analizzarli uno ad uno.
Ambito di applicazione:
Le disposizioni della Carta si applicano alle istituzioni dell’Unione. Tuttavia, il punto 2 precisa
che non vengono introdotte competenze nuove o compiti nuovi per la comunità e per l’Unione, né
sono modificate le competenze ed i compiti definiti dai Trattati.
Sembra dunque chiaro che non cambia nulla rispetto alla situazione precedente.
Il punto 1 afferma che le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri, tuttavia precisa
che tale ambito di applicazione è limitato esclusivamente al momento dell’attuazione del diritto
dell’Unione.
Per fare un esempio chiaro, il diritto alla presunzione di innocenza, sancito dall’art. 48, verrebbe
tutelato solo nel momento dell’attuazione del diritto dell’Unione, il che significa mai, data l’assenza di
un diritto penale comunitario.
Portata dei diritti garantiti:
Il punto 1 non è molto chiaro. Afferma, infatti, che “le limitazioni all’esercizio dei
diritti……….devono rispettare il contenuto essenziale dei diritti…….”. Ad ogni modo, in seguito si
precisa che tali limitazioni devono rispondere a finalità d’interesse generale o all’esigenza di proteggere i
diritti e le libertà altrui.
Il punto 2 sancisce che i diritti della Carta si esercitano alle condizioni e nei limiti fissati dai
trattati stessi.
L’art. non sembra dunque essere molto chiaro nel suo complesso.
Livello di protezione:
Si afferma che “nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come
limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di
applicazione, dal diritto dell’Unione, etc…….” Si tratta di un’altra bella dichiarazione di principio che
non dice nulla del modo in cui si applica la protezione dei diritti della Carta.
Divieto di abuso:
Ancora una volta si dice che nessuno deve violare le libertà ed i diritti altrui.
La decisione di redigere la Carta venne presa dal Consiglio europeo di Colonia nel giugno del 1999. Nelle conclusioni del
Consiglio non fu assolutamente menzionata la possibilità di integrare la Carta nei Trattati, né tanto meno si accennò a darne
un valore legale, una forza vincolante e quindi una tutela giuridica.
6
8
Allo stato attuale delle cose, la Carta è una mera dichiarazione di principi il cui valore legale è
inesistente.
Vi sono proposte di inserimento o richiamo della Carta nell’art. 6 TUE, ma questo non
modificherebbe in alcun modo la situazione.
In conclusione, la tutela giurisdizionale dei diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali non
viene garantita dalle disposizioni attuali dei Trattati, né dalla Carta stessa.
Il suo inserimento nei trattati, attraverso un richiamo all’art. 6 o un apposito articolo, non
risolverebbe il problema della tutela dei diritti, in quanto la sanzione sarebbe comunque di tipo politico
e verrebbe emanata da organi politici e non giurisdizionali.
A meno di una modifica sostanziale dei Trattati, con l’inserimento di apposite norme sulla tutela
giurisdizionale di diritti sanciti dalla Carta e la creazione di un apposito organo, o l’affidamento alla
Corte di Giustizia di tale competenza, la Carta rimarrebbe una bella dichiarazione di principi, la cui
unica forza potrebbe essere di tipo persuasivo, non certo vincolante.
Nell’art. 6 TUE7, già art. F, apportandovi alcune modifiche ed integrazioni, sono tracciate le
linee guida basilari per l’Unione (e per la Comunità) in relazione al rispetto dei diritti umani, della
democrazia e dello stato di diritto, principi che con il Trattato di Amsterdam diventano fondamento
stesso dell’U.E..
L’art. 6 che costa ora di ben quattro paragrafi (rispetto ai tre precedenti), concerne anche altre
questioni strutturali quali il rispetto dell’identità nazionale degli Stati membri ed il reperimento dei
mezzi necessari al perseguimento degli obiettivi dell’UE.
L’importante novità, importata dal Trattato di Amsterdam nell’ambito di questo articolo, può
peraltro apprezzarsi pienamente soltanto se si considera che a norma dell’art. 4 TUE il rispetto dei
principi summenzionati diventa ora condizione espressa e imprescindibile per l’adesione all’UE di un
nuovo Stato.
Il significato, come del resto la novità del par. 1 è peraltro duplice: da un lato esso comporta che
gli Stati membri dell’Unione sono tenuti a conformarsi ai principi democratici e al rispetto dei diritti
dell’uomo; dall’altro che la stessa UE nel suo insieme si informa a questi principi fondamentali. Il
rispetto della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali della persona è dunque un
imperativo che vincola sia gli Stati membri sia le istituzioni della Comunità e dell’Unione.
Comunque, l’ex art. F, imponendo all’UE il rispetto dei diritti dell’uomo, per di più in quanto
principi generali del diritto comunitario, imponeva di necessità tale rispetto anche alla Comunità e la
Corte non poteva ignorare tale imperativo, per quanto contenuto in una disposizione non justiciable.
L’art. 46 (ex art. L) sancisce ora che la giurisdizione della Corte di Giustizia si esercita sull’art. 6
“nella misura in cui la Corte sia competente a norma dei Trattati che istituiscono le Comunità europee e
a norma del presente Trattato”.
Tale modifica è certo positiva, in quanto rimedia alla rilevata incongruenza, ma ha una portata
simbolica, poiché la situazione sostanziale resta inalterata: rimangono sottoposte al sindacato della CG,
anche per quanto attiene alla tutela dei diritti umani, solo le attività che i Trattati già assoggettano alla
sua competenza.
Lo stesso art. 46 specifica che la Corte “avrà giurisdizione per quanto riguarda l’attività delle
istituzioni”, continuando ad esercitare il suo controllo sugli atti degli Stati membri, secondo i principi
generali del diritto comunitario.
L’esercizio da parte della Corte del controllo giurisdizionale sul rispetto dei diritti fondamentali
in ambito comunitario proseguirà, ovviamente, nei limiti consentiti dalle norme che regolano la
giurisdizione della CG, in particolare, nei ristretti limiti che l’art. 230 CE contempla quanto ai criteri di
ricevibilità dei ricorsi individuali per l’annullamento di regolamenti e direttive, la cui inadeguatezza in
Art. 6 TUE: L’Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri.
L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario.
L’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri.
L’Unione si dota dei mezzi necessari per conseguire i suoi obiettivi e per portare a compimento le sue politiche”.
7
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rapporto alle esigenze di una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti dell’uomo è stata lamentata dal
parlamento Europeo (PE) e percepita dalla stessa CG.
3.1 L’ ARMONIZZAZIONE FISCALE NELL’UE
Il Trattato di Amsterdam rende vincolante per l’Unione l’obbligo di rispettare la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (art. 6.2 TUE) anche in relazione al pagamento delle
tasse ed a quali imposte gli Stati membri possano applicare.
Va detto subito che alla legge tributaria viene riconosciuto un carattere strettamente territoriale,
nel senso che gli effetti di essa si estendono in tutto il territorio dello Stato e disciplinano atti, fatti o
accadimenti che hanno attinenza con l’esercizio dello Stato o di altri enti siti nello stesso Stato.
La dottrina avverte, tuttavia, la complessità della nozione, osservando che la territorialità della
legge tributaria si completa e si estrinseca nel principio della esclusività della legge stessa. Ciò, per altro,
non sembra del tutto esatto, in quanto il c.d. principio dell’estensione è soltanto un aspetto di quello più
generale dell’efficacia della legge.
Che il principio della territorialità sia, indipendentemente dalle singole disposizioni normative,
immanente all’attività impositiva appare evidente. D’altra parte, neppure si può trascurare che il
territorio costituisce l’elemento materiale in grado di assicurare una base all’ordinamento giuridico.
Tuttavia, va aggiunto che il meccanismo impositivo non si esaurisce nell’aspetto materiale, in
quanto comporta l’esigenza di integrare la situazione sotto il profilo soggettivo. Certo, la fattispecie
ipotizzata dal legislatore italiano si realizza sul territorio nazionale, con riferimento ai cittadini italiani.
Nel caso in cui tale circostanza non si verifica, il legislatore emana norme dirette a regolare i
diritti dei due Stati al prelievo delle imposte dovute.
Questo intreccio di situazioni si verifica in modo particolare nell’ambito delle attività
economiche e giuridiche: è quanto accade specialmente in materia di IVA, tanto che il legislatore, dopo
aver definito il concetto di territorialità (art. 7 D.P.R. 633/72), individua le cessioni all’esportazione e le
operazioni ad esse assimilate, nonché i servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali (art. 8
e 8/bis, D.P.R. 633/72).
Nonostante questa disciplina, duplicazioni d’imposta sono possibili. Per evitare ciò, quando non
sussiste una perfetta coincidenza fra l’aspetto personale e quello territoriale, si rende necessaria
l’adozione di particolari misure per evitare la doppia imposizione o, comunque, attenuarne l’incidenza8.
I criteri ai quali gli Stati possono fare ricorso, in modo unilaterale oppure in base ad accordi
internazionali che poi diventano fonte di diritto interno, in quanto ratificati con legge, sono i seguenti:
- esenzione dei redditi prodotti in determinati Stati;
- deduzione dall’imposta della somma pagata allo Stato estero;
- deduzione della stessa somma dall’imponibile assoggettato ad imposta nello Stato nazionale;
- riduzione dell’aliquota applicabile ai redditi prodotti all’estero.
Per quanto concernono le politiche comuni e le disposizioni fiscali del Trattato di Roma, va
detto subito che gli autori dello stesso Trattato hanno attribuito alle disposizioni fiscali una struttura
coercitiva capace di determinare un trasferimento di poteri dagli Stati membri alla Comunità in misura
tale da rendere operativa a livello comunitario una vera e propria politica fiscale, così come sono
operative la politica agricola e la politica commerciale.
In realtà, su di un piano sostanziale, la situazione è ben diversa: le disposizioni fiscali, benché
siano uno strumento giuridico necessario allo svolgimento della politica della Comunità, non hanno
consentito, almeno sino ad oggi, la realizzazione né di una politica fiscale comunitaria, nel senso
tradizionale della politica fiscale attuata dagli Stati membri, né di una politica comune in materia fiscale.
Tuttavia, benché non sia possibile affermare l’esistenza di una politica fiscale secondo
un’accezione lata e tradizionale, esiste pertanto un’importante azione della Comunità svolta in due
direzioni:
l’una consistente in un’attività di salvaguardia e di controllo delle disposizioni fiscali nel Trattato
di Roma di applicazione immediata e contenenti sostanzialmente un obbligo di non facere rivolto agli
8
V. voce Doppia imposizione, in Enc. Dir., Vol XIII ed anche in Novissimo Digesto Italiano, Vol. III, p. 1284.
10
Stati membri; l’altra consistente in un’attività de jure condendo volta ad avvicinare ed armonizzare le
legislazioni fiscali degli Stati membri in funzione della realizzazione di determinati obiettivi comunitari,
azione che complessivamente può ritenersi una forma embrionale di politica fiscale non ancora assurta
al rango di vera e propria politica fiscale comunitaria nella sua accezione più completa.
È evidente, però, che la struttura dei poteri delle Istituzioni comunitarie è in una fase evolutiva,
e non è possibile, pertanto, affermare che una politica comunitaria vera e propria potrà essere realizzata.
Ciò che importa oggi è definire la relazione fra le politiche comuni e le disposizioni fiscali del
Trattato di Roma e, più particolarmente, l’azione di armonizzazione.
È possibile, pertanto, affermare che l’azione comunitaria nel settore fiscale è indispensabile al
raggiungimento degli obiettivi dell’UE, già fissati dal Trattato di Roma., fra cui:
- l’instaurazione di un mercato comune per il tramite della libertà di circolazione di uomini, beni,
servizi e capitali;
- il progressivo ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri;
- l’instaurazione di un certo numero di politiche comuni: il Trattato ne prevede solo tre
(commercio, agricoltura e trasporti), ma altre si sono aggiunte ( energia, ambiente e politiche regionali).
In conclusione, si può affermare che una convergenza delle volontà politiche degli Stati membri
si è manifestata sui seguenti obiettivi prioritari:
- libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali;
- neutralità fiscale negli scambi di merci;
- instaurazione di un regime che garantisca condizioni concorrenziali non falsate;
- soppressione delle frontiere fiscali;
- attribuzione di risorse proprie alla Comunità.
3.2 L’ INDIRIZZO COMUNITARI O IN MATERIA FISCALE
Un discorso a parte va fatto nei riguardi dell’Unione Europea, in relazione allo scopo di
armonizzare i sistemi fiscali degli Stati membri.
Sul piano interpretativo viene sollevata la questione riguardante la natura delle norme fiscali del
Trattato di Roma, dal momento che esse, pur avendo innegabile natura giuridica, sono collocate nella
Parte III disciplinante la “politica della Comunità”. La questione, peraltro, non sembra rilevante, dal
momento che la legislazione è, nei moderni Stati costituzionali, l’emanazione di organi la cui matrice è
indiscutibilmente politica.
L’indirizzo comunitario in materia fiscale si attua in due direzioni. Per un verso, stabilisce dei
vincoli, il cui obiettivo, peraltro, non afferisce alla struttura del sistema tributario, ma riguarda,
piuttosto, il principio generale della libera circolazione delle merci, che viene garantito sulla base del
trattamento impositivo uniforme delle merci stesse, qualunque ne sia il paese di origine9.
Ad evitare poi che il sistema tributario nel suo complesso alteri, in qualche modo, gli equilibri
fra gli Stati, con forme di finanziamenti occulti, l’art. 9 stabilisce che “i prodotti esportati nel territorio
di uno degli Stati membri non possono beneficiare di alcun ristorno di imposizioni interne che sia
superiore alle imposizioni ad essi applicate direttamente o indirettamente”.
L’ultimo comma dell’art. 95, infine, prevede l’adeguamento degli ordinamenti nazionali,
mediante l’abolizione o la modificazione delle disposizioni esistenti al momento dell’entrata in vigore
del trattato stesso, quando siano contrarie ai commi precedenti. Gli artt. 95 e 96 contengono,
praticamente, dei limiti all’azione legislativa degli stessi Stati.
Senza soffermarci troppo sugli artt. 97 e 98 che hanno perduto interesse, giova sottolineare l’art.
99, che ha natura propositiva: in base a tale norma, “la Commissione esamina in qual modo sia possibile
armonizzare, nell’interesse del mercato comune, le legislazioni dei singoli Stati membri relative alle
imposte sulla cifra d’affari, alle imposte di consumo ed altre imposte indirette, ivi comprese le misure di
compensazione applicabili agli scambi fra gli Stati membri”.
L’art. 95 obbliga, infatti, gli Stati membri a on applicare “direttamente o indirettamente ai prodotti degli Stati membri
imposizioni interne di qualsiasi natura, superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali
similari”.
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11
Tale norma, nonostante il contenuto programmatico resta pur sempre circoscritta nell’ambito
delle disposizioni precedenti, onde darne concreta attuazione. Alla Commissione, infatti, compete
l’esame delle legislazioni de singoli Stati membri, al fine di armonizzarle.
L’art. 100 stabilisce che il Consiglio, deliberando sulle proposte della Commissione, “stabilisce
direttive volte al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli
Stati membri che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato
comune”. Evidente è, però, come, anche in questo caso, lo scopo dell’estensore del Trattato non è
quello di costituire in sistema fiscale, ma di tutelare la libertà degli scambi.
Delineando le esigenze di un diritto tributario europeo, sono state indicate le condizioni che
dovrebbero essere rispettate:
- eguaglianza della pressione tributaria globale negli Stati membri;
- eguaglianza nella ripartizione del carico fiscale complessivo fra diversi rami dell’imposizione
(imposta sul reddito, sul consumo, sul movimento e lo scambio di beni);
- eguaglianza nella struttura delle singole imposte o, almeno, delle più importanti.
Si tratta di obiettivi non privi di validità, ma certamente inidonei a fondare un sistema
impositivo comunitario. Seppure il Trattato di Roma appare carente, in quanto l’obiettivo ultimo non è
di natura fiscale, rimane sempre un corretto punto di partenza.
Infatti, in questa opera di armonizzazione non rilevano i valori globali oppure le modalità in cui
il prelievo è distribuito fra i diversi rami del sistema, ma il modo in cui le singole situazioni soggettive
concorrono al finanziamento dei servizi pubblici senza provocare distorsioni nel sistema-comunità.
Di grande interesse risultano, a riguardo, le direttive che hanno esercitato grande influenza sui
sistemi tributari degli Stati membri, segnatamente in materia di cifra d’affari. Particolarmente rilevante è
la prima direttiva in base alla quale “gli Stati membri sostituiscono il loro sistema attuale di imposte sulla
cifra d’affari con il sistema comune d’imposta sul valore aggiunto”.
Il sistema comune d’imposta sul valore aggiunto consiste nell’applicare ai beni ed ai servizi
un’imposta generale sui consumi esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi, qualunque
sia il numero di transazioni intervenute nel processo di produzione e distribuzione antecedente alla fase
dell’opposizione10.
Altri principi posti a base dei sistemi fiscali dei Paesi membri riguardano la coerenza e la generalità,
in quanto ogni imposta “non deve venire compromessa da adattamenti o da concessioni troppo
numerose a situazioni particolari”; ma il nostro legislatore non sembra molto sensibile a questi principi
e continua in una produzione legislativa alluvionale e disorganica.
Va, altresì, ricordato il principio dell’autonomia , sotto il profilo delle entrate di bilancio e del
margine di azione, onde consentire interventi differenziati nell’economia dei singoli Paesi, anche se ciò
deve ave luogo nell’ambito della politica comunitaria.
CAPITOLO II
1.1 UN PÒ DI STORIA : DAL PROTEZIONISMO AL LIBERO SCAMBIO
Per protezionismo si può intendere tanto l’insieme dei principi secondo cui lo Stato difende,
tutela e protegge la propria economia, quanto l’insieme dei mezzi o delle forme e dei sistemi con cui tale
Va ricordato, inoltre, che con il D.lgs. n. 313 del 1997 è stata disposta l’armonizzazione delle disposizioni in materia di
IVA con quelle recate da direttive CEE. Sull’evoluzione dell’armonizzazione comunitaria in materia di IVA, v. U. Forte, Il
diritto comunitario e l’armonizzazione fiscale, in Rass. Trib., n. 5, 1991, pp. 141 ss..
10
12
protezione può essere attuata o esercitata. A seconda che la protezione riguardi l’industria o l’agricoltura
o il mondo del lavoro, esso può prendere il nome di industriale, agrario, operaio.
Forma tipica, per esempio, di politica protezionistica è il mercantilismo. Questo sistema è
mosso dall’intento di creare e sviluppare una forte struttura economica per fini militari e politici,
generando e diffondendo una supervalutazione del denaro e del commercio di esportazione. Scopo
pertanto del mercantilismo fu quello di ottenere una bilancia commerciale favorevole, intendendosi per
bilancia del commercio, come s’è già detto, il rapporto tra il valore delle merci esportate e quello delle
merci importate. Di quanto il valore complessivo delle esportazioni riesca a superare quello delle
importazioni si determina una bilancia commerciale attiva, si ha cioè un saldo di eccedenza che giuoca
nelle bilance dei debiti e dei crediti internazionali.
Ai fini della politica mercantilistica si favorivano le industrie interne, si orientavano in un senso
o nell’altro gli ostacoli doganali, si costruivano o si facilitavano vie di comunicazione, si abolivano i dazi
all’esportazione e, se necessario, si promoveva l’esportazione con premi, mentre si ostacolava l’entrata
di merci per mezzo di alti dazi o con divieti.
Insomma, limitando le importazioni, il mercantilismo consentiva solo la libera importazione di
materie prime in quanto queste potessero servire alle industrie di esportazione, e vietava le esportazioni
di materie prime in quanto potessero più utilmente servire alle industrie interne.
Altri obiettivi propri della politica mercantilistica consistevano nell’acquisizione e nello
sfruttamento di terre (colonie), nella costituzione di compagnie commerciali e nella concessione di
favori particolari alla propria marina mercantile. Si giunse perfino ad eliminare le mercedi per
determinare bassi costi di produzione. Il mercantilismo vedeva nel denaro lo strumento atto a dare
impulso al commercio e all’industria; perciò favoriva l’importazione di metalli preziosi e l’aumento di
questi all’interno del Paese.
Al mercantilismo fece seguito la fisiocrazia, cioè un movimento di idee opposte a quelle
mercantiliste. Essa rappresentò il passaggio dal mercantilismo al liberalismo, cioè un sistema secondo il
quale la prosperità di un Paese è data dalla libertà degli scambi e dalla limitazione degli interventi statali
sulla vita economica e più specialmente sugli scambi con l’estero.
Praticamente il protezionismo può avvenire con dazi e senza dazi, chei rappresentano imposte
indirette che nei primi tempi furono adottate ai fini fiscali e successivamente come mezzo di vero e
proprio protezionismo, tanto è vero che vengono chiamati dazi protettivi od economici.
Il protezionismo senza dazi si realizza in diversi modi: questi furono fortemente applicati
specialmente fra la prima e la seconda guerra mondiale e più precisamente con premi alla produzione e
all’esportazione; con contingentamenti di merci o di divise, con dumping , con agevolazioni fiscali,
creditizie oppure in materia di trasporti, con clearing e altri sistemi di scambio o di mezzi di pagamento.
Dall’uso di tali mezzi (o meglio ancora dalla loro misura e dalla loro intensità) sono derivati
sistemi che hanno preso il nome di imperialismo economico, nazionalismo economico e autarchico.
Il protezionismo ha dato luogo anche alla creazione dei cosiddetti spazi economici o spazi vitali
(spazi entro cui si realizzano o si praticano sistemi di autarchia).
La politica economica (in particolare quella commerciale) delineatasi in questo secondo
dopoguerra trae origine dalla conferenza dell’Avana (1944) tendente alla liberalizzazione degli scambi e
alla riduzione, se non alla eliminazione, dei sistemi di protezionismo. Conforme a questa tendenza è
stata la creazione della comunità economica europea, sorta col Trattato di Roma (1957).
Altre iniziative sono sorte, in questo dopo guerra, paragonabili al mercato comune, ma non con
uguale disciplina e con sistemi identici. Tali forme comunitarie hanno lo scopo di agevolare lo scambio
fra i Paesi collegati e si propongono di avvantaggiare soprattutto i consumatori promuovendo la
competitività ed eliminando forme ritenute lesive degli interessi delle varie collettività o comunità.
Mettendo da parte i concetti relativi all’intervento dello Stato nella vita economica, che verranno
esaminati nei prossimi capitoli come applicazione del principio della non discriminazione fiscale, qui
esamineremo come, sotto il profilo storico, si siano avuti, negli scambi, periodi di libertà alternati con
periodi di interventi più o meno limitati o restrittivi. Tali periodi hanno preso il nome di protezionismo,
con che s’intende parlare, come già abbiamo visto, dei principi ai quali si ispira l’intervento statale in
materia di scambi come delle forme e degli scopi con cui il protezionismo si manifesta o viene praticato.
13
Fu dopo il mercantilismo che, ad opera dei fisiocratici (Quesnay, Cantillon, De Gournay) e più
decisamente di Adam Smith, si teorizzarono i principi della libertà di scambio.
Non è che lo Smith e i suoi seguaci (Ricardo e Mill) non vedessero l’opportunità di forme di
protezionismo, come i dazi stessi, ma essi gettarono in forma precisa le basi del liberismo economico e
diedero veste scientifica alle loro teorie, tra le altre è da ricordare quella del Ricardo sui costi comparati.
Gli stessi avvenimenti di natura economica contribuirono al prestigio di tali teorie: come la
rivoluzione industriale, i nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, l’incremento della popolazione,
l’esigenza di favorire gli scambi e la stipulazione di trattati di commercio.
In pratica il libero scambio si affermò, ispirando la politica economica internazionale durante il
secolo scorso e fino alla prima guerra mondiale, ancorché l’esigenza di consentire la nascita e il
consolidamento di nuove industrie avesse imposto o quanto meno consigliato il ricorso a dazi doganali
protettivi, detti anche economici, in più Paesi.
Non bisogna peraltro confondere la teoria del libero scambio con quella del liberismo
economico, che ha un significato più ampio in quanto riferibile alla condotta dello Stato in ogni campo
della vita economica, mentre la prima, come dice la parola, si riferisce agli scambi e più ancora agli
scambi internazionali o, in altre parole, ai rapporti economici tra Stati.
Si può dire che non è mai esistito un regime di scambi assolutamente liberi e che tra le forme
estreme del libero scambio e del protezionismo si pone una vasta gamma di indirizzi di politica
economica degli scambi (più o meno liberi o protettivi) a seconda delle condizioni economiche e delle
situazioni particolari (come le guerre) in cui si sono trovati o possono trovarsi i vari Paesi e nell’ambito
di ciascun Paese i singoli governi.
Naturalmente i fautori del libero scambio e del protezionismo sostengono come dal rispettivo
sistema possano derivare maggiori benefici alla vita economica nazionale.
Bisogna, comunque, ricordare che gli eccessi del protezionismo hanno sempre portato ad
invocare o a preferire il libero scambio: questa è, d'altronde, la tendenza oggi diffusa.
Gli stessi accordi di Bretton Woods, la Conferenza dll’Avana, del GATT, di Annecy e di
Torquai, la creazione di un’Unione doganale, come il Benelux, l’Unione Europea dei pagamenti per la
liberalizzazione degli scambi e l’adozione del multilateralismo, infine il Trattato per la comunità
economica europea sono una dimostrazione di tale tendenza rivolta a favorire il libero scambio.
Il Trattato di Roma contiene opportunamente norme che disciplinano la concorrenza e pertanto
la stessa liberalizzazione degli scambi ai fini della tutela degli interessi dei Paesi aderenti al mercato
comune (il vecchio MEC). Ciò non toglie che non debbano essere curate tutte le forme di incentivi alla
produzione e all’esportazione nell’interesse degli scambi e dei consumatori, ma è evidente che tutto ciò
richiede una maggiore collaborazione fra le forze economiche all’interno dei Paesi e nei rapporti
internazionali: è , infatti, raccomanda ta l’armonizzazione delle legislazioni e la coordinazione delle
politiche economiche.
2.1 L’ UGUAGLIANZA DI TRATTAMENTO OGGI
Nel ventesimo secolo, parallelamente all’affermazione del fondamentale principio giuridico
dell’eguaglianza, sorge la scienza del diritto tributario: significativi sono i presupposti comuni allo
sviluppo di tale scienza e del principio di eguaglianza, per le rilevanti interrelazioni tra di essi esistenti. È
possibile, infatti, affermare che l’arricchimento di questo principio, consistente nell’acquisizione di un
contenuto sostanziale, appare in tutto il suo significato se è studiato in relazione alla legge tributaria.
All’esclusiva visione formale dell’eguaglianza di tutti i cittadini alla legge si aggiunge una concezione
sostanziale che individua, nella legge tributaria, le potenzialità di uno strumento efficace per rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione alla vita politica,
economica e sociale del Paese. In tal senso il sostanziamento del principio di eguaglianza attraverso la
legge tributaria è assicurato, sul piano statico dall’eguale trattamento riservato ad identiche fattispecie e a
livello dinamico dalla differenziazione disciplinare di situazioni diverse. In un’ottica tributaria
l’evoluzione del principio di uguaglianza si è articolato in senso verticale attraverso lo strumento
14
dell’imposizione progressiva, inteso come idoneo mezzo di ridistribuzione dei redditi; in senso
orizzontale, invece, il principio si è sostanziato nel rifiuto di discriminazioni fiscali in base al sesso, alla
razza, alla lingua, alla religione, alle opinioni politiche, alle condizioni personali e sociali. Non è
irrilevante sottolineare come tale processo di evoluzione ed intersecazione tra principio di eguaglianza e
diritto tributario abbia natura internazionale.
Sono pertanto configurabili due tipi di eguaglianza: quella Statica, che si realizza attraverso il
trattamento uguale in situazioni identiche; quella dinamica, cui si perviene, invece, attraverso trattamenti
diversificati basati sulle differenti posizioni iniziali.
La mancata realizzazione di una di queste due situazioni può determinare discriminazione,
soprattutto se la diversa regolamentazione di situazioni identiche o l’eguale disciplina di casi diversi sia
irragionevole, arbitraria ed irrilevante.
I concetti di eguaglianza e di non discriminazione, pertanto, sono equivalenti, anche se a livello
internazionale la discriminazione fiscale costituisce un fenomeno cui non è stata attribuita significativa
rilevanza, fin quando risultava scarsa l’interdipendenza tra i mercati interni ed appariva ampia
l’autonomia delle politiche economiche delle singole Nazioni. Con lo svilupparsi delle relazioni, dei
traffici e del commercio internazionale, la discriminazione in materia tributaria ha spesso costituito uno
strumento di politica protezionistica, gestito da uno Stato nei confronti di altri con i quali non erano
stati stipulati accordi internazionali sui rapporti commerciali.11
La disciplina discriminatoria più comune consiste nell’ingiustificata differenziazione nell’ambito
di un ordinamento interno tra la pressione fiscale sopportata dai cittadini stranieri e la pressione più
lieve che grava sui cittadini nazionali o nella maggiore imposizione sulle merci importate rispetto a
quelle nazionali.
2.2 IL PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE E L’UE
Quanto sinora evidenziato induce a ritenere che, per i paesi appartenenti all’Unione Europea,
non si rinvenga un’esplicita disposizione fiscale comunitaria in materia di imposte dirette. Ciò
implicherebbe che ciascun Stato membro eserciti, in modo autonomo, la propria capacità impositiva.
Secondo autorevoli fonti, d’altra parte, in materia di imposizione diretta, tradizionalmente si manifesta
una discreta resistenza da parte degli Stati e ciò è giustificato dalla considerazione che, attraverso tale
forma di imposizione, gli Stati reperiscono i mezzi economici per fronteggiare i fabbisogni nazionali e,
pertanto, non possono consentire alcuna compromissione della propria sovranità in materia. Cosicché,
ha trovato ampio spazio l’applicazione del c.d. principio di sussidiarietà , che demanda agli stati membri
l’autonoma messa in atto delle politiche fiscali comunitarie. Pertanto, la Comunità può intervenire nei
settori che non appartengono alla sua esclusiva competenza solo se non è possibile conseguire
l’armonizzazione con i principi e gli obiettivi comunitari attraverso la sola azione degli stati membri. In
ogni caso, ciò non ha impedito l’emanazione di importanti norme comunitarie in materia di imposte
dirette, fondate, oltre che sull’art. 94 – riguardante l’emanazione di direttive – anche, e soprattutto,
sull’art. 90 – affermante il principio di non discriminazione – da considerare fondamentale per l’intera
“costruzione comunitaria”, risolvendosi nel riconoscimento di una parità di trattamento concernente
tutti i fattori della produzione (merci, persone, servizi e capitali) presenti all’interno della Comunità, e
nel vietare agli Stati comunitari di porre in essere comportamenti discriminatori nei confronti di altri
Paesi membri. In materia tributaria, inoltre, occorre segnalare il fondamentale ruolo svolto dalla Corte
di giustizia della Comunità Europea, intervenuta in problematiche che il mercato unico comunitario ha
via via posto in evidenza, soprattutto per il divario tra l’unità europea dei commerci ed il frazionamento
in 15 regimi fiscali diversi.
Cfr. Adonnino, in Non discimination rules in international taxation, cit., p. 24. Gli Stati che adottano provvedimenti aventi
natura protezionistica determinano spesso una situazione di discriminazione fiscale, che talvolta può esprimere una politica
di difesa contro le pratiche commerciali inique di altri Stati. Per tale motivo si pone il problema relativo all’opportunità di
eliminare la discriminazione fiscale internazionale e stabilire regole concrete contro tale fenomeno.
11
15
I maggiori progressi sono stati conseguiti attraverso l’applicazione, alle fattispecie di natura
fiscale, delle cd “libertà fondamentali”. Su tale argomento, il Trattato CE, agli artt. 39, 43, 49 e 56,
stabilisce – in materia di libera circolazione dei lavoratori – l’abolizione di qualsiasi discriminazione
fondata sulla nazionalità tra i lavoratori degli stati membri, vietando restrizioni alla libertà di
stabilimento di cittadini di uno stato membro nel territorio comunitario. Si vietano, inoltre, restrizioni
alla libera prestazione dei servizi all’interno della comunità, nonché ai movimenti di capitali tra stati
membri. Su quest’ultimo argomento, la Suprema corte ha fornito un’interpretazione estensiva di queste
norme, sottolineando che le libertà fondamentali comunitarie non proibiscono soltanto le restrizioni e
le discriminazioni dirette in ragione della nazionalità, ma qualsiasi forma di discriminazione che conduca
al medesimo risultato (cd discriminazione indiretta). I concetti di armonizzazione fiscale e di non
discriminazione si riflettono, in maniera coerente, anche in materia ambientale.
Nell’esperienza comunitaria, infatti, sino ad ora è prevalsa l’applicazione della libera circolazione
delle merci nella costruzione del Mercato Unico. Cosicché, in ciascun settore della protezione
ambientale sono state adottate, dalla Comunità, misure legislative sulla base dell’art. 95 (ex art.100A) e
dell’art. 175 (ex art.130S). La gran parte di tali misure hanno avuto un effetto di armonizzazione,
stabilendo norme relative ai prodotti o ai processi industriali. Tuttavia, è opportuno fissare un
equilibrio, come già accennato, tra la necessità di armonizzare le misure fiscali adottate dai singoli stati,
per garantire la libera circolazione delle merci, ed il principio di sussidiarietà, che consente ai Paesi
membri di introdurre ulteriori restrizioni per proteggere l’ambiente. Come si avrà modo di osservare, i
vantaggi derivanti dall’armonizzazione comunitaria (quali la non discriminazione e le economie di scala)
devono necessariamente essere raffrontati con quelli conseguibili dagli Stati membri lasciati liberi di
applicare, a certe condizioni, gli strumenti fiscali, che spesso risultano più adeguati ad affrontare i
problemi ambientali nazionali e riflettono meglio le strutture specifiche dei costi. Da queste
considerazioni, emerge chiaramente in ambito fiscale il superiore prevalere di una delle competenze
fondamentali dello Stato: la creazione e riscossione delle imposte, principale fonte di finanziamento e fondamento della
sua stessa esistenza. A ciò si aggiunge che le imposte dirette, oltre a rappresentare la principale e più
cospicua fonte impositiva degli Stati, costituiscono anche lo strumento consuetudinario di cui i governi
si avvalgono per realizzare le proprie politiche fiscali.
Se ne deduce, pertanto, che sebbene lo sforzo armonizzatore delle legislazioni interne abbia
investito in modo concreto la fiscalità indiretta, non ha prodotto gli stessi risultati in materia di fiscalità
diretta, per le resistenze interne attuate dagli Stati membri che, in tal modo, hanno inteso difendere la
propria sovranità in materia, giudicandola di tale interesse nazionale da collocarsi in una posizione
prioritaria anche rispetto al diritto comunitario. Una delle maggiori resistenze si è verificata proprio in
relazione alla necessità di fronteggiare in maniera efficace le cd diseconomie esterne, come si avrà modo
di osservare successivamente.
2.3 IL DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE FISCALE E L’ ORDINAMENTO INTERNO
In termini generali, «il principio di non discriminazione […] impone che situazioni analoghe non
siano trattate in maniera differenziata e situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale a meno
che un tale trattamento non sia obiettivamente giustificato».
Le disposizioni fiscali molto raramente compiono una distinzione direttamente in base alla
nazionalità (o alla cittadinanza). Un diverso trattamento fondato sulla residenza - o sulla sede per le
società – può costituire discriminazione dissimulata in base alla nazionalità poiché i non residenti in
genere hanno la cittadinanza straniera. La Corte di giustizia ha chiarito che il principio dell’uguaglianza
di trattamento proibisce non solo le discriminazioni dirette o palesi (overt discrimination), ma altresì le
discriminazioni indirette o dissimulate (covert discrimination) che, pur fondandosi su altri criteri di
distinzione, pervengano in effetti al medesimo risultato
Il principio di eguaglianza fiscale, che garantisce cioè l’eguale trattamento dei contribuenti che si
trovano nella stessa situazione e il medesimo trattamento di coloro che si trovano in condizioni
differenti, è principio generalmente accolto da tutti gli ordinamenti.
16
Su tale principio si basa il criterio della conformità del prelievo all’effettiva potenzialità
economica, con la conseguenza che soggetti aventi medesima capacità contributiva subiscono lo stesso
trattamento fiscale (uguaglianza verticale o vertical equity).
In carenza di tale eguaglianza il principio di equità assume semplicemente un valore di garanzia
nei confronti delle discriminazioni.
L’eguaglianza orizzontale (horizzontal equity) contempla esclusivamente la non ammissibilità tra le
altre delle discriminazioni fiscali in base alla razza, al sesso ed alla religione. Pertanto, la giustizia fiscale
presuppone il rispetto sia dell’horizzontal equity che della vertical equity.
Il divieto di discriminazione fiscale è normalmente previsto in via indiretta negli ordinamenti
attraverso il principio di eguaglianza, contenuto nelle Costituzioni e nelle leggi fondamentali o nelle
leggi ordinarie.
Nell’ambito della categoria dei divieti discriminatori a carattere costituzionale, si possono
individuare tre diverse categorie:
Una prima è costituita dal principio di eguaglianza, che estende espressamente l’applicabilità del
divieto di discriminazione nei confronti di cittadini stranieri sia nella Costituzione Brasiliana che in
quella Argentina.
Una seconda sottocategoria è costituita dalle norme costituzionali, che esprimono un principio
di eguaglianza a carattere generale facilmente estensibile ai cittadini stranieri. Tali sono le norme della
Costituzione Olandese ed Italiana. Con riferimento a quest’ultima, l’interpretazione maggioritaria
considera, infatti, il termine “tutti” dell’art. 53 della Costituzione comprende anche gli stranieri.
L’eguaglianza (orizzontale e verticale) si pone alla base del contenuto dei principi di inviolabilità dei
diritti dell’uomo, di eguaglianza e di capacità contributiva, tutti presenti nella nostra Costituzione.
Peraltro l’ordinamento giuridico italiano non prevede esplicitamente disposizioni riguardanti la non
discriminazione fiscale tra cittadini e stranieri; tuttavia l’art. 10 Cost. comma II, stabilendo che la
condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei tra ttati
internazionali, sancisce l’illegittimità costituzionale delle leggi che, nel disciplinare la condizione dello
straniero, non si conformano ai tratti vigenti. È perciò evidente che la norma costituzionale suddetta si
riferisce anche a quelle convenzioni in materia tributaria che prevedono il divieto di discriminazione nei
confronti degli stranieri.
La terza sottocategoria riguarda il principio di eguaglianza riferito espressamente ai soli cittadini
nazionali. Così, ad esempio, l’art. 3 della Costituzione tedesca stabilisce un divieto di differenziazione in
base ad alcune precise caratteristiche, ma non alla nazionalità. Tale divieto viene tuttavia generalmente
interpretato estensivamente, in modo che, nei singoli casi, vada confrontato il trattamento fiscale degli
stranieri rispetto a quello riservato ai cittadini tedeschi, valutando se (nel caso in cui tale trattamento sia
diverso) la nazionalità possa essere considerata un elemento idoneo a giustificare tale differenziazione.
Se non risultano motivazioni giustificative, la distinzione stessa deve considerarsi arbitraria e
costituzionalmente illegittima. A questo punto è abbastanza evidente come la distinzione tra le
sottocategorie è solo formale ed inerente alle espressioni contenute nelle singole Costituzioni, ma il
risultato interpretativo e l’efficacia normativa sembrano essere gli stessi. Difatti nella prima
sottocategoria rientrano le norme costituzionali antidiscriminatorie che si riferiscono espressamente agli
stranieri; nella seconda quelle che indirettamente li garantiscono e nella terza le disposizioni che solo
apparentemente li escludono.
2.4 I MOTIVI DI GIUSTIFICAZIONE DI EVENTUALI DISCRIMINAZIONI : L'ESIGENZA DI COERENZA DEL
SISTEMA FISCALE E LE NORME C.D. PROCEDURALI O DI ACCERTAMENTO
Il principio di non discriminazione in campo fiscale, fin qui esaminato, non può essere tuttavia
letto in senso assoluto, atteso che sussiste più di un'ipotesi che, seppur non espressamente codificata,
giustifica l'esistenza di situazioni discriminatorie.
Una prima fattispecie è quella della "coerenza del sistema fiscale", per la prima volta affermata
in occasione della sentenza Bachmann del 1992*.
17
La vicenda, infatti, riguardava una disposizione fiscale belga che impediva ai contribuenti di
quello Stato la deduzione dei premi di un'assicurazione versati ad imprese di altri Stati.
La Corte, dopo aver escluso che le disposizioni in vigore in Belgio potessero giustificarsi in base
all'esigenza di effettuare adeguati controlli fiscali, ha tuttavia ritenuto che la stessa potesse trovare
fondamento nell'esigenza di assicurare la coerenza del sistema fiscale.
Sulla base di questa considerazione, la Corte ha ritenuto che "la coerenza di siffatto regime
fiscale, la cui configurazione spetta a ciascuno Stato membro, presuppone, pertanto, che nell'ipotesi in
cui sia obbligato ad ammettere la detrazione dei contributi d'assicurazione sulla vita versati in un altro
Stato membro, lo Stato in questione possa percepire l'imposta sulle somme dovute dagli assicuratori".
Peraltro, la Corte ha ritenuto necessario verificare ulteriormente se vi fosse una modalità
alternativa che garantisse comunque la tassazione delle somme erogate dalle assicurazioni straniere.
Poiché nella fattispecie tale modalità non risultava verificata la Corte ha concluso che "le
disposizioni come quelle della legge belga in questione sono giustificate dalla necessità di garantire la
coerenza del regime fiscale cui esse fanno parte, e che non sono quindi contrarie all'art. 48 del Trattato".
È comunque interessante notare che la Corte ha raggiunto la propria conclusione solo dopo
aver esaminato in via specifica le caratteristiche del sistema fiscale belga e dopo aver rilevato che, nella
fattispecie, non erano disponibili modalità alternative per assicurare la coerenza del sistema.
Una seconda ipotesi da verificare riguarda le disposizioni domestiche c.d. procedurali o, in senso
lato di accertamento, mirate a prevenire l'evasione, nei confronti delle quali pure dovrebbe applicarsi il
principio de quo.
Tali disposizioni, infatti, ben possono contrastare con le libertà comunitarie, in primis quella di
circolazione di capitali e di stabilimento delle persone giuridiche.
Sotto tale profilo, la Corte ha fatto più volte applicazione del principio di proporzionalità, in
base al quale, per usare l'espressione adot-tata dalla Corte nella sentenza Bordessa del 23 febbraio 1995,
occorre "accertare se la misura nazionale controversa sia necessaria alla tutela degli scopi perseguiti e se
detti scopi non possano essere perseguiti con criteri meno restrittivi della libera circolazione dei
capitali".
In altri termini, in relazione al suddetto principio, le disposizioni antiabuso, per poter essere
considerate legittime devono essere idonee allo scopo che si intende perseguire; contestualmente, poi,
non devono essere eccessive rispetto a quanto strettamente necessario per il raggiungimento dello
scopo che si intende perseguire. La prima sentenza che in ordine di tempo si è occupata delle
disposizioni antiabuso introdotte dagli Stati membri in occasione del recepimento di direttive
comunitarie è quella concernente la causa Denkavit*. Il principio di proporzionalità è stato poi
implicitamente richiamato dalla Corte nella sentenza Leur Bloem del 1997*.
Infine, esso ha trovato recente applicazione nella controversia relativa al divieto posto a carico
delle persone fisiche residenti in Belgio, dal decreto (belga) di emissione di un prestito pubblico (esente
da ritenute sugli interessi), collocato in Germania*.
La Corte ha, infatti, respinto, anche in base al principio di proporzionalità, le motivazioni del
governo belga, secondo il quale il divieto trovava giustificazione nella necessità di impedire la
(potenziale) evasione fiscale dei propri residenti.
2.5 UN CASO DI DISCRIMINAZIONE BASATA SUL PRINCIPIO DI RESIDENZA, RISCONTRATO NEL CORSO
DELL'ATTIVITÀ DI SERVIZIO DELLA GUARDIA DI FINANZA
La vicenda ha riguardato la normativa in materia di esercizio della raccolta delle scommesse,
soggetto in Italia a preventiva autorizzazione di pubblica sicurezza e sottoposto a regime di monopolio
fiscale (obbligo di concessione da parte del Ministero delle Finanze).
A seguito dell'attività di servizio dei reparti della Guardia di Finanza e della Polizia di Stato nei
confronti delle agenzie affiliate alle società di betting inglesi che si sono aperte sul territorio nazionale e si
sono concluse con il sequestro e la conseguente chiusura degli esercizi, è stata interessata più volte,
l'ultima nel 2001 è ancora in attesa di giudizio, la Cge in relazione al principio di libertà di prestazione
dei servizi.
18
La Corte di giustizia della Comunità europea, con la decisione del 24.3.1994, si è pronunciata
sull'applicabilità del diritto comunitario al settore dei giochi d'azzardo ed, in particolare, sulla legittimità
comunitaria delle restrizioni poste dagli Stati membri alla circolazione transfrontaliera di detti giochi.
La Corte, dopo aver precisato che "le prestazioni rese dalle agenzie sono quelle fornite
dall'organizzatore della lotteria facendo partecipare gli acquirenti dei biglietti ad un gioco che offre loro
una speranza di vincita, garantendo a tal fine la raccolta delle poste, l'organizzazione di estrazioni a
sorte, la determinazione per il versamento dei premi o delle vincite", ha considerato le attività in
questione come "attività di servizi" ai sensi dell'art. 60 del Trattato Cee, rientranti, pertanto nell'ambito
di applicazione dell'art. 59 del Trattato stesso.
Al riguardo, ha altresì dichiarato che, sebbene talune normative nazionali, pur se non
discriminatorie, restringano la libera prestazione dei servizi, nondimeno la tutela dei consumatori e
dell'ordine sociale rientrano nel novero degli scopi che possono "giustificare limitazioni alla libera
prestazione dei servizi" e "tenendo conto della natura affatto speciale delle lotterie, questi motivi sono
atti a giustificare, alla luce dell'art. 59 del Trattato, restrizioni che vadano sino al divieto delle lotterie nel
territorio di uno Stato membro": tutto ciò considerando la rilevanza delle somme raccolte e gli elevati
rischi di criminalità e di frode.
Pertanto, la sentenza comunitaria riconosce che le Autorità nazionali dispongono "di un potere
discrezionale, sufficiente per definire le esigenze di tutela dei giocatori e, più in generale, tenendo conto
delle specificità socio-culturali di ogni Stato membro, di tutela dell'ordine sociale, sia per quanto
riguarda le modalità di organizzazione delle lotterie ed il volume delle puntate, sia per quanto riguarda la
destinazione degli utili da essi ricavati. Spetta pertanto a loro valutare non solo la necessità di limitare le
attività di lotteria, ma anche di vietarle, purchè dette limitazioni non siano discriminatorie".
L'orientamento è stato confermato nella sentenza 21 ottobre 1999 (all. 8), emessa a seguito
dell'ordinanza in data 20 gennaio 1998, con la quale il Consiglio di Stato Italiano, investito quale giudice
di 2° grado della cognizione di numerosi ricorsi prodotti avverso i provvedimenti di cessazione
dell'attività dei centri di raccolta dati e scommesse per conto di società di allibratori e bookmakers
stranieri adottati dall'Autorità di Pubblica Sicurezza, ha sollevato la questione pregiudiziale in ordine alla
legittimità della disciplina italiana sulle scommesse, con particolare riguardo. all'obbligo di
autorizzazione, rispetto alle norme del Trattato Ce relative alla libera prestazione dei servizi. Anche in
questa occasione, l'Alta Corte si è espressa a favore della compatibilità della legislazione nazionale
rispetto ai principi comunitari, ferma restando la necessità che la stessa sia effettivamente giustificata da
"obiettivi di politica sociale tendenti a limitare gli effetti nocivi di tali attività e ove le restrizioni da esse
imposte, non siano sproporzionate rispetto a tali obiettivi".
3.1 DIRITTO INTERNAZIONALE
Un principio di non discriminazione fiscale nel diritto internazionale consuetudinario non è
facilmente rintracciabile. Nessun principio previsto dallo ius non scriptum può precludere la sovranità di
uno Stato di istituire un’imposta più gravosa su un prodotto straniero o nei confronti di un soggetto
non residente. Agli Stati, infatti, compete un’ampia sovranità tributaria, giustificando il diverso
trattamento con la piena autonomia dello Stato di ricorrere a misure protezionistiche a favore dei
prodotti cittadini e dei propri prodotti.12
Si è, però, anche sostenuto che il principio di non discriminazione fiscale nel diritto
internazionale consuetudinario potrebbe essere desunto in base alla reciprocità.
Tuttavia non si può affermare con certezza che esista un divieto generale, internazionalmente
riconosciuto da parte degli Stati, di discriminare fiscalmente i cittadini stranieri o i non residenti ed è
raro che i trattamenti reciproci in materia fiscale vengano basati sulle relazioni internazionali
Non esiste una regola generale consuetudinaria riconosciuta a livello internazionale che vieti in modo assoluto la
discriminazione fiscale. Se essa esistesse, infatti, il principio di eguaglianza sarebbe violato in tutti i casi in cui gli Stati
garantiscono ad esempio alle imprese straniere un trattamento fiscale più favorevole di quello riservato alle imprese nazionali
al fine di favorire investimenti di capitali esteri ed in genere per ragioni di politica economica. In tal senso Adonnino, Non
discrimination rules in international taxation.
12
19
consuetudinarie intercorrenti tra gli Stati. Tutto ciò è facilmente dimostrabile considerando che gli Stati
introducono, in quasi tutti gli accordi bilaterali in materia tributaria, la clausola di non discriminazione
tra soggetti nazionali e stranieri; la stipula di tali accordi con siffatte clausole è la prova dell’inesistenza
di un principio di eguaglianza consuetudinario in materia fiscale.
In conclusione, nel diritto internazionale non esiste un principio generale che imponga la
reciprocità nel trattamento fiscale degli stranieri e che, quindi, vieti la discriminazione fiscale, ma in tale
prospettiva sono rilevabili unicamente limiti di natura pattizia.
Le clausole di non discriminazione sono contenute essenzialmente negli accordi internazionali
allo scopo di incentivare lo sviluppo dei rapporti economici e commerciali tra le Nazioni, allo stesso
tempo, il cittadino straniero nello svolgimento della propria attività commerciale e finanziaria in uno
Stato contraente. In tal modo l’adattamento degli ordinamenti nazionali alle norme di diritto
internazionale tributario pone limitazioni e modificazioni al diritto tributario interno, mediante un
processo di integrazione dall’esterno.
Un’analisi di tali clausole pattizie consente di comprendere che esse non vietano mai
direttamente ed in modo assoluto la discriminazione, ma piuttosto individuano una serie di fattispecie
da disciplinare in modo neutrale. È questo il principio di neutralità fiscale internazionale,13 il quale
consiste essenzialmente nell’eliminazione di ogni differenza di trattamento effettivo del reddito
prodotto da un soggetto all’interno di due diversi Stati contraenti, quello di residenza e quello di
occupazione, in modo che la redditività netta degli investimenti non risulti pregiudicata dalle norme
fiscali dei due diversi ordinamenti. Obiettivo che è perfettamente realizzato in una ipotesi di equilibrio
nella quale ogni Stato adotta un proprio sistema fiscale coordinato, armonizzato ed integrato con quello
degli altri Stati.
Il principio di neutralità fiscale internazionale può essere sviluppato innanzitutto in un’ottica di
neutralità esterna (capital import neutrality), prevedendo che ai soggetti che producono reddito, anche o
solo all’estero, venga accordato lo stesso trattamento tributario che è riservato dallo Stato nel cui
territorio il reddito viene prodotto ai soggetti ivi residenti; in tal caso, il principio di neutralità fiscale si
configura come criterio di non discriminazione tra i cittadini residenti e non all’interno dello Stato in cui
viene prodotto il reddito. Se, invece, il sistema tributario accorda ai soggetti che producono reddito,
anche o solo all’estero, lo stesso trattamento riservato ai soggetti che producono reddito esclusivamente
entro lo Stato di residenza, si realizza una neutralità fiscale di tipo interno. La piena attuazione della
neutralità interna, inoltre, postula che si riservi al contribuente, che produce parte del reddito all’estero,
non solo lo stesso trattamento fiscale riservato ai cittadini residenti nello stesso Stato che producono
reddito esclusivamente all’interno di quest’ultimo, ma che si riservi, dicevamo, al primo lo stesso
trattamento concesso agli altri soggetti dello stesso Stato che producono reddito all’estero.
La neutralità interna si attua generalmente attraverso accordi internazionali, che prevedono la
concessione di un credito d’imposta per i tributi assolti all’estero, con un rimborso dell’eccedenza
rispetto al quantum in base all’aliquota interna.
Tornando al principio di neutralità esterna, invece, esso si realizza concedendo il beneficio
dell’esenzione del reddito prodotto all’estero da parte del Paese di residenza.
Una piena neutralità fiscale internazionale non dovrebbe peraltro distinguersi in interna ed
esterna, in quanto una neutralità fiscale attuata solo in un’ottica unidirezionale alternativa (esterna o
interna ) eliminerebbe solo un tipo di influenza, risolvendosi in definitiva come una non neutralità.
Infatti, una situazione di neutralità interna, evitando l’influenza esterna esercitata dai Paesi che offrono
maggiori vantaggi fiscali, annulla il beneficio di un investimento all’estero, trasformando, quindi, una
situazione di neutralità fiscale interna in un condizionamento negativo sulla libertà di scelta di
investimento da parte di un’impresa.
In definitiva, la realizzazione della piena neutralità fiscale (esterna ed interna), passando
attraverso la risoluzione dei conflitti tra le pretese impositive statuali, il rispetto del principio di non
La Corte di cassazione italiana (Sent. Sez. III, pen. n. 150 del 19 gennaio 1994) ha, nello specifico, stabilito che il principio
di neutralità fiscale consiste nel non operare trattamenti discriminatori tra i prodotti nazionali ed importati che ostacolino la
libera circolazione delle merci.
13
20
discriminazione ed un’armonizzazione dei sistemi fiscali (tax equalization), risulta difficilmente attuabile a
livello internazionale.
Negli accordi commerciali, generalmente, attraverso apposite clausole fiscali, viene esteso ai
cittadini di altri Stati contraenti lo stesso trattamento riservato ai cittadini nazionali o il trattamento
riservato ai cittadini di uno Stato terzo se esso risulta più favorevole: nel primo caso si attua il
trattamento nazionale, mentre nel secondo la clausola della nazione più favorita.14
La clausola della nazione più favorita è a contenuto essenzialmente mutevole, sia per il venire
meno dei benefici di cui gode il terzo più favorito, sia per la sopravvenuta previsione di un trattamento
ancora più favorevole. Scopo della parità di trattamento, che la clausola della nazione più favorita tende
a perseguire, è quello di offrire uguali possibilità concorrenziali nell’ambito di un determinato mercato,
senza alterare, mediante misure discriminatorie, la posizione di ciascuno rispetto alle altre nazioni.
Le clausole fiscali riconosciute dagli accordi commerciali possono peraltro porsi in contrasto
con le disposizioni previste dalle Convenzioni fiscali internazionali. Nel caso di conflitto tra le diverse
norme internazionali, i criteri di risoluzione possono essere variabili: in altri è la natura speciale delle
convenzioni fiscali, rispetto alla portata più generale degli accordi commerciali, che determina la
prevalenza delle prime rispetto ai secondi.
Tuttavia può anche darsi il caso in cui le clausole previste dagli accordi commerciali
contemplino una sfera di azioni più contenuta rispetto alle Convenzioni fiscali, riproducendo così il
criterio di soluzione dei conflitti tra norme internazionali.
Deve, infine, essere considerato il rapporto tra la clausola della nazione più favorita e le
disposizioni internazionali particolari, per evitare la doppia imposizione. Infatti, le convenzioni bilaterali
contro le doppie imposizioni escludono, talvolta in maniera espressa, l’applicazione della clausola della
nazione più favorita alle disposizioni stesse in materia di doppia imposizione.
3.2 IL PRINCIPIO DELLA RESIDENZA
Anche le norme generali che riguardano la protezione dei diritti umani e le libertà fondamentali,
contenute nei relativi trattati, nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (promulgata dalle
Nazioni Unite il 10 dicembre 1948), l’interpretazione dell’art. 17, alla luce delle guarentigie
antidiscriminatorie, determina sicuramente l’applicazione delle disposizioni previste dalla Dichiarazione
nei casi di diverso trattamento fiscale di cittadini stranieri non residenti.
La Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e le libertà fondamentali (4 novembre 1950),
all’art. 14, pone il divieto di discriminazione in ogni campo al fine di assicurare il godimento dei diritti e
delle libertà, senza peraltro espressamente riferirsi al settore fiscale.
Il Protocollo addizionale riconduce, però, anche il versamento dei tributi nella sfera di
applicazione delle garanzie di cui all’art. 14, comportando, quindi, almeno in via indiretta da parte della
Convenzione, la sanzione del divieto di discriminazione tra residente e non residente, qualora il diverso
trattamento non trovi una giustificazione ragionevole ed obiettiva.
La potestà tributaria di uno Stato nei confronti dell’attività produttiva di reddito svolta all’estero
da un proprio cittadino è riconosciuta dal diritto tributario internazionale solo se ed in quanto esiste una
connessione sufficiente tra quel determinato ordinamento giuridico ed il contribuente.
Occorre pertanto verificare quali condizioni devono realizzarsi affinchè possa esistere una tale
connessione, sufficiente a giustificare la potestà tributaria dello Stato.
Il legislatore, pertanto, non può assumere a giustificazione del proprio potere impositivo
situazioni di fatto che siano prive di ogni collegamento di tipo reali o personale con il territorio
nazionale. Tale criterio di collegamento giuridico, che deve intercorrere tra il soggetto passivo e lo Stato,
manifesta natura reale nel caso dello svolgimento di un’attività economica o del semplice possesso del
La clausola della nazione più favorita garantisce l’estensione automatica dei trattamenti privilegiati che un Paese ha
concesso e concederà in futuro ad un altro Paese o a qualunque Paese terzo. Tale clausola non è una norma di diritto
internazionale comune, ma regolamenta varie materie ed è spesso formulata in modo diverso, può pertanto essere
incondizionata o meno, bilaterale o unilaterale, può avere carattere generale o determinato. Triggiani, Il trattamento della
nazione più favorita, Napoli, 1984.
14
21
cespite nel territorio dello Stato straniero, oppure natura personale nell’ipotesi del possesso da parte del
soggetto di un determinato status, come la cittadinanza o l’abituale presenza del soggetto nel territorio
stesso.
Se in passato la prevalenza dei criteri di collegamento a carattere reale aveva favorito la scelta
della potestà impositiva basata sulla territorialità o sulla fonte, in seguito l’introduzione generalizzata
negli ordinamenti dei Paesi industrializzati di un’imposizione sul reddito a carattere personale ha
determinato una netta prevalenza nell’adozione di criteri personalistici, quali quello della nazionalità o
della cittadinanza come base giuridica per tale imposizione. Peraltro, mentre alcuni ordinamenti
richiedono la sola cittadinanza come sola condizione per l’esercizio della potestà tributaria ( di qui la
connessione sufficiente tra la produzione di reddito estero, la pretesa tributaria di uno Stato e la
nazionalità del contribuente, sottoponendo così ad imposta nello Stato di nazionalità i redditi ovunque
prodotti dal cittadino anche se non residente), in altri, invece, lo status di cittadino da solo determina
unicamente l’insorgere di diritti e doveri ad esso pertinenti, essendo ulteriormente necessario lo status di
residente ai fini dell’assoggettabilità del reddito ovunque prodotto.
Il principio della residenza, posto alla base del diritto tributario internazionale, è recepito dagli
ordinamenti della quasi totalità degli Stati del mondo ed è preferito a quello della cittadinanza.
I residenti sono integralmente soggetti ad imposta sul reddito ovunque prodotto in base al
principio del reddito mondiale, mentre i non residenti sono soggetti ad imposta soltanto per quella
parte del reddito che producono nell’altro Stato, in base al principio della fonte.
Al non residente, quindi, è riconosciuta una soggettività passiva limitata ai redditi prodotti nello
Stato straniero; il non residente, mantenendo la residenza nel proprio Paese di origine, non manifesta
alcun legame con lo Stato della fonte se non l’attività economica che vi svolge ed è, quindi, logico che
esso sia sottoposta ad imposizione nello Stato della fonte, relativamente ai solo redditi prodotti nel suo
territorio.
Il regime fiscale del non residente perciò non può essere lo stesso di quello riconosciuto al
residente, in quanto il primo è soggetto solo parzialmente ad imposta nei limiti dei redditi percepiti
nello Stato della fonte. Questa differenziazione di trattamento fiscale tra residente e non residente non
può considerarsi in linea di principio discriminatoria, essendo plausibile che la capacità contributiva del
non residente possa essere più facilmente valutata nel luogo in cui egli ha il centro dei suoi interessi
personali ed economici, che corrisponde generalmente alla sua residenza abituale.
Il diritto internazionale tributario, quindi, non pone un divieto assoluto di diverso trattamento
fiscale tra residenti e non residenti; così, ad esempio, il Modello OCSE per la stipula delle convenzioni
contro la doppia imposizione internazionale, dopo aver stabilito i criteri volti a determinare la residenza
di un contribuente nel caso in cui questi venga considerato residente secondo le leggi nazionali in
entrambi i Paesi, pone un principio di non discriminazione tra i soggetti dei Paesi contraenti, non
vietando peraltro il diverso trattamento fiscale degli stranieri non residenti rispetto ai residenti di un
Paese contraente.
Il concetto di residenza è sufficiente da solo a determinare che un contribuente che risiede in
uno Stato contraente e un altro non residente non versano nella stessa situazione, rendendo così
possibile un diverso trattamento fiscale tra contribuenti che non si trovino nelle stesse circostanze.
A tal proposito deve, però, essere segnalata la posizione della Corte di Giustizia CE la quale, pur
ritenendo che non tutte le differenze di trattamento fiscale tra residenti e non residenti implicano
necessariamente una violazione del principio di eguaglianza e di non discriminazione, ha stabilito che la
diversità di trattamento tra tali soggetti è da considerarsi discriminatoria qualora essi si trovino nelle
stesse circostanze e manchi ogni ragionevole, rilevante e congrua motivazione alla base della
differenziazione.
4.1 IL MANCATO RICONOSCIMENTO DELLE AGEVOLAZIONI FISCALI COME CAUSA DI DISCRIMINAZIONE
Il problema del riconoscimento delle agevolazioni fiscali, nei confronti di persone e beni
provenienti da un diverso Paese, risulta particolarmente rilevante; il mancato conferimento dei benefici
fiscali, nei confronti di uno straniero o di un prodotto importato, trova spesso una sua giustificazione,
22
in quanto il presupposto per la concessione delle stesse consiste nella conoscenza delle condizioni
relative poste dall’ordinamento nazionale.
Tale conoscenza spesso non risulta agevole, in quanto ciascun Paese può ovviamente procedere
ad accertamenti negli altri Paesi solo attraverso la cooperazione con le autorità.
Risulta, quindi, evidente lo scopo antielusivo ed antievasivo delle norme tributarie che non
estendono ai non residenti le agevolazioni fiscali di cui possono godere i residenti: si vuole, infatti,
evitare che i primi ne abusino, nel caso in cui non vantino i requisiti previsti da tali norme o nell’ipotesi
in cui abbiano già beneficiato della stessa agevolazione nel Paese di residenza. Più in generale può dirsi
che lo scopo antielusivo ed antievasivo costituisce una delle principali ragioni del diverso trattamento
fiscale dei non residenti previsto dall’ordinamento interno; tale finalità deriva dalla difficoltà che
l’Amministrazione finanziaria di un Paese incontra nell’accertamento della situazione fiscale personale
di un non residente che produce reddito nello Stato della fonte.
In materia di agevolazioni fiscali, il Modello OCSE delle convenzioni internazionali, dirette ad
evitare la doppia imposizione, traccia dei limiti ben precisi, stabilendo che uno Stato contraente, che
concede un’agevolazione fiscale a carattere personale ai propri residenti, non è obbligato a riservare lo
stesso trattamento ai non residenti, ma è tenuto a concedere la medesima disciplina che viene riservata
ai propri cittadini che risiedono nell’altro Stato contraente.
La verifica dei casi in cui le agevolazioni fiscali sono estendibili nei confronti di altri cittadini
non residenti o di beni importati, tuttavia, comporta l’esame del loro profilo strutturale e funzionale per
consentire l’attività di comparazione; si deve, infatti, stabilire se, in norme nazionali diverse, possano
ravvisarsi o meno elementi comuni che giustifichino qualificazioni unitarie.
Un indice reale di individuazione degli elementi comuni in misure fiscali agevolative è il profilo
funzionale; in quest’ottica si sostiene che si possono considerare agevolazioni solo quei trattamenti
tributari ispirati unicamente a finalità di tipo economico, politico, sociale e che per essere tali si
traducono in sovvenzioni mascherate. Il trattamento tributario non è da ritenersi agevolativo qualora
l’aspetto funzionale coesista con altri, determinandosi pertanto una tendenza ad equiparare le
agevolazioni alle sovvenzioni.
D’altro canto si è anche sostenuto che l’aspetto funzionale non è un criterio assoluto e
costituisce solo uno degli elementi caratterizzanti le agevolazioni; il criterio teleologico, cioè, non è il
solo rilevante ed utilizzabile per individuare le agevolazioni. La pluralità ed il relativismo degli elementi
che caratterizzano le agevolazioni fiscali comporta che ad una stesa norma possa riconoscersi o meno
quella qualificazione a seconda dell’elemento di comparazione adottato, ciò che equivale in definitiva ad
una negazione dell’oggettività del fenomeno.15
Le complessità intrinseche nel procedimento di qualificazione di una norma come fiscalmente
agevolativa, rende evidentemente delicato il compito interpretativo. Infatti, nel caso in cui una norma
agevolativa sia a carattere eccezionale (in quanto preveda una esenzione in deroga ad un’altra norma
istitutiva di un altro tributo), in ordinamenti come quello italiano, non è applicabile analogicamente nei
confronti di cittadini non residenti o di merci importate (art. 14 disp.prel. c.c.).
Per verificare la conformità del diverso trattamento di merci o soggetti stranieri ai principi di
eguaglianza e di non discriminazione è spesso, dunque, necessario stabilire se la norma nazionale
agevolativa che prevede limiti sia giustificata, con particolare riferimento allo scopo perseguito o ad
interessi pubblici di natura finanziaria e fiscale.
Poiché peraltro l’aspetto funzionale non è l’unico elemento caratterizzante le agevolazioni
fiscali, la presenza di altri elementi (quali l’esistenza della stessa capacità contributiva) giustifica e
legittima l’estensione del trattamento fiscale favorevole nei confronti dei cittadini non residenti o di
merci importate, in conformità al principio di non discriminazione posto da norme internazionali. In tal
senso la Corte di giustizia europea ha ritenuto che il diverso trattamento fiscale dei lavoratori dipendenti
transfrontalieri non residenti, assume il carattere discriminatorio e viola tale libertà fondamentali, nei
casi in cui essi producono un reddito significativo nel Pese do residenza.
15
Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992.
23
In tali casi l’elemento comune, necessario al riconoscimento dell’agevolazione fiscale prevista da
una norma interna anche nei confronti del non residente, è stato individuato nella stessa capacità
contributiva dei soggetti residenti beneficiari dell’agevolazione.
In altri casi, invece, la Corte di giustizia europea ha considerato il mancato riconoscimento di
agevolazioni nei confronti di non residenti compatibile con il principio di non discriminazione, in
quanto garantiva la coerenza del sistema fiscale nazionale, risultando in armonia con le norme del
Trattato. Così, ad esempio, in materia di imposte dirette, al fine di verificare la razionalità delle scelte del
legislatore di differenziazione del trattamento fiscale delle merci, l’elemento non comune,
caratterizzante l’agevolazione, che ha impedito l’estensione al prodotto straniero, è stato individuato nel
perseguimento di obiettivi di politica economica nazionale.
4.2 DIRITTO TRIBUTARIO INTERNO E DIRITTO CONVENZIONALE
Diverse sono le procedure di adattamento del diritto tributario dei singoli ordinamenti al diritto
convenzionale e alle norme discriminatorie ivi contenute.
Con la procedura ordinaria, le norme internazionali sono riformulate nell’ordinamento dello
Stato contraente attraverso l’emanazione di disposizioni interne aventi forza di legge.
Con il procedimento speciale di adattamento, la norma internazionale non viene riformulata
all’interno dello Stato, ma se ne ordina l’osservanza mediante rinvio che è previsto una tantum in maniera
automatica per le norme di diritto internazionale consuetudinario (art. 10 Cost.).
Per l’adattamento ai trattati istitutivi della Comunità Europea e delle convenzioni contro la
doppia imposizione internazionale, il rinvio generalmente si ottiene attraverso l’ordine di esecuzione del
trattato, che di solito viene dato con legge, la quale autorizza la ratifica del trattato.
Qualunque sia la modalità con cui le norme internazionali sono introdotte nell’ordinamento, è
sempre l’attività interpretativa del giudice che ne determina in concreto la diretta applicabilità, essendo
comunque quest’ultima sempre condizionata dalla facilità con cui l’ordinamento interno è in grado di
recepire il precetto di provenienza esterna.
In tal senso una norma tributaria convenzionale è considerata self-executing nel nostro
ordinamento se essa risulta completa negli elementi essenziali, se le parti contraenti non hanno bisogno
di emanare disposizioni interne di adattamento ai fini dell’applicazione, se la norma stessa contiene delle
prescrizioni che ne garantiscono la diretta applicazione e se il contenuto prescrittivo non richiede
ulteriori specificazioni.
Nel caso in cui i provvedimenti previsti nell’accordo internazionale si pongono in contrasto con
norme dell’ordinamento interno, la soluzione del conflitto varia in base al livello al quale le norme
convenzionali si collocano nella gerarchia delle fonti di diritto di uno Stato. 16
Se si verifica una deroga di norme previste dagli accordi internazionali in materia di doppia
imposizione da parte di norme successive di diritto tributario interno, è necessario distinguere due
diversi casi: la deroga involontaria e la deroga internazionale.
Nel primo caso è evidente che nulla osta ad una pronta ricomposizione del conflitto tra norma
convenzionale e norma interna; nel caso, invece, di deroga internazionale occorre stabilire se la norma
interna prevale o meno. Gli ordinamenti in cui vige il principio per cui la legge posteriore deroga
l’anteriore, considerano la norma tributaria interna successiva prevalente; tuttavia le norme
internazionali tributarie contenute negli accordi risulteranno prevalenti qualora si intenda qualificarle
norme di diritto speciale, sempre che il legislatore nazionale non manifesti esplicitamente la volontà di
sottrarsi all’impegno internazionale assunto. Il principio di specialità è largamente invocato dalla
giurisprudenza italiana al fine di attribuire ai trattati internazionali prevalenza rispetto a norme interne
successive; sicché, pur avendo lo stesso rango delle leggi ordinarie successive ed essendo soggetti alla
regola sulla successione delle leggi nel tempo, le norme convenzionali si sottraggono in qualità di diritto
speciale all’operatività di tali regole, evitando l’abrogazione ad opera della norma interna.
Il nostro sistema tributario contiene una norma che dispone che nell’applicazione delle leggi concernenti le imposte sui
redditi, sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia. Pertanto la legge tributaria, per prevalere sulle
disposizioni internazionali deve esplicitare la propria abrogativa. (art. 75 D.P.R. 600 del 1973).
16
24
Comunque il mancato rispetto dell’accordo internazionale, attraverso una norma successiva di
uno Stato contraente, comporta pur sempre la possibile reazione in via di autotutela da parte dello Stato
leso dall’illecito internazionale. Nel caso delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione,
la reazione può estrinsecarsi nella rappresaglia fiscale, consistente nella mancata applicazione delle
norme convenzionali nei confronti dei cittadini dell’altro Stato contraente. La rappresaglia fiscale
tuttavia, come qualsiasi altra forma di rappresaglia di diritto internazionale, trova un limite di carattere
generale nella proporzionalità tra violazione subita ed infrazione commessa.
CAPITOLO III
1.1 LE DISPOSIZIONI COMUNITARIE
Il diritto comunitario restringe la sovranità di ogni Stato membro attraverso il principio di non
discriminazione; tale principio posto dal Trattato CE, proibendo trattamenti fiscali discriminatori, si
estrinseca nel divieto per gli Stati membri di esercitare la potestà tributaria arbitrariamente e senza
giustificazione. Ne consegue che l’uguaglianza in materia tributaria costituisce un principio generale
soggetto ad eccezioni, purché i trattamenti diversificati non siano arbitrari o ingiustificati.
Sin dall’inizio, la Corte di giustizia CE ha sviluppato i concetti necessari per la verifica
dell’esistenza di discriminazione in ambito comunitario. Considerando che la discriminazione
presuppone che il diverso trattamento non sia giustificato dall’esistenza di differenze sostanziali ed
oggettive, successivamente la Corte è pervenuta a delineare il concetto di discriminazione sostanziale: il
diverso trattamento di situazioni non comparabili non determina automaticamente discriminazione
vietata dal diritto comunitario. Ne consegue che, ad un apparente discriminazione rilevabile sul piano
formale, può non corrispondere una discriminazione di tipo sostanziale.
Successivamente si è avuto modo di ribadire che situazioni comparabili non devono essere
trattate diversamente e differenti situazioni non devono essere trattate allo stesso modo, tranne il caso
in cui tale trattamento differenziato non sia obiettivamente giustificato.
Il principio di non discriminazione fiscale assolve una funzione indispensabile in ambito
comunitario, cioè in quel mercato interno che si qualifica per la tutela rivolta alla libera circolazione di
persone, beni, servizi e capitali; di conseguenza, nel Trattato numerose sono le disposizioni che
proibiscono concretamente trattamenti discriminatori.17
Anche la disciplina della libera circolazione delle merci (secondo una ripartizione certamente
condivisibile)18 si articola nel Trattato in tre principali e distinti momenti:
- il divieto di imposizione fiscale interne di portata discriminatoria per i prodotti importati
(art.95);
- l’abolizione delle restrizioni quantitative agli scambi intracomunitari e delle misure
dell’effettivo equivalente (artt. 30-36);
- l’unione doganale, che prevede l’abolizione dei dazi e delle tasse di effetto equivalente ai dazi
doganali all’interno del mercato comune, nonché una tariffa doganale comune per gli scambi con i Paesi
terzi (artt. 9-29).
L’art. 95 garantisce essenzialmente la libera circolazione delle merci tra gli Stati membri in
condizioni di normale concorrenza, mediante l’eliminazione di ogni imposizione indiretta che possa
compromettere la neutralità degli scambi intracomunitari; la norma trae fondamento dal collegamento
tra il principio di non discriminazione fiscale e la garanzia di libertà di concorrenza e di circolazione
delle merci.
Nella stessa ottica dell’art. 95, ma riferendosi ad ipotesi diverse, l’art. 96 vieta agli Stati membri
di accordare ai prodotti esportati verso altri Stati membri ristorni di imposizioni interne superiori a
quelli ad essi realmente applicati nel mercato nazionale; divieto posto con l’evidente scopo di impedire
Per la realizzazione degli obiettivi comunitari, non poteva essere trascurato lo strumento fiscale per la rilevanza che esso
assume; esso è, infatti, il fattore economico in grado di influenzare la politica economica e quindi lo sviluppo dell’attività
imprenditoriale. Carmini-Mainardi, Elementi di diritto tributario comunitario, Cedam, Padova, 1996, p. 47.
18 Tesauro, Diritto comunitario, Cedam, Padova, 1995.
17
25
che venga riservato un regime preferenziale ai prodotti nazionali esportati, alternando la concorrenza
con i prodotti dello Stato importatore.
Norme relative all’abolizione dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente ai dazi
doganali sono poi quelle poste dagli artt. 9 e 12 del Trattato. La tassa di effetto equivalente è una
prestazione pa trimoniale inerente ad una obbligazione tributaria, la cui nascita è direttamente o
indirettamente collegata all’importazione o all’esportazione di un prodotto. Essa, pur non costituendo
un dazio doganale, determina gli stessi effetti restrittivi sugli scambi, in quanto imposta in ragione del
passaggio del confine di uno Stato membro da parte di un prodotto, il cui costo ovviamente subisce un
incremento.19
La Corte di Giustizia ha peraltro avuto modo di precisare che l’abolizione delle barriere doganali
persegue non tanto l’obiettivo di ostacolare gli eventuali intenti protezionistici degli Stati, bensì di
conferire una portata concreta alla libera circolazione delle merci, considerando, quindi, anche le ipotesi
in cui non vi siano prodotti nazionali concorrenti, nei cui confronti si possa misurare il risultato
dell’azione discriminatoria.20
Comunque il Trattato contiene sostanzialmente norme che vietano la discriminazione fiscale
con riferimento al settore delle imposte indirette, mentre scarsi appaiono i richiami alla discriminazione
nel settore delle imposte dirette.
L’art. 95, riferendosi unicamente ai “prodotti”, considera, infatti, esclusivamente le imposte
indirette, quindi, il problema di estendere il principio di non discriminazione fiscale alla sfera
dell’imposizione diretta, in quanto è indubbio che anche le imposte sul reddito, ripercuotendosi sui
prezzi, sui salari e sui corrispettivi, esercitano influenza sulla libera circolazione non solo delle merci, ma
anche delle persone.
Pertanto si è ritenuto che il divieto di discriminazione nel sistema dell’imposizione diretta si basi
su norme comunitarie che primariamente non rivestono natura tributaria21.
In mancanza di una norma specifica, le disposizioni non fiscali del Trattato pongono un
principio di non discriminazione nel settore delle imposte dirette; tra queste rientrano le norme che, nel
garantire alcune libertà fondamentali, attuano il principio di eguaglianza, che opera in ogni campo,
compreso quello tributario.
Le norme da prendere in considerazione a tal fine sono: l’art. 52, che riconosce la libertà di
stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro e che garantisce
la libera circolazione dei servizi all’interno della Comunità; il 48 che, garantisce la libera circolazione dei
lavoratori; gli artt. 67 e 73B, riguardanti la soppressione e il divieto di restrizioni ai movimenti dei
capitali appartenenti a persone residenti negli Stati membri; il 73D22, che consente restrizioni riguardanti
il settore fiscale, precisando che le misure previste non devono essere mezzo di discriminazione
arbitraria al libero movimento dei capitali.
1.3 DIRITTO COMUNITARIO E DIRITTO TRIBUTARIO INTERNO
Le norme comunitarie, la cui emanazione non dipende da ulteriori atti comunitari o nazionali di
esecuzione o di integrazione, sono provviste di efficacia diretta; infatti, la norma comunitaria è in grado
di creare diritti ed obblighi direttamente verso i singoli, senza che lo Stato debba attivare una procedura
formale per consentire alle norme esterne al sistema giuridico nazionale di produrre i loro effetti.23
Maresca, Le tasse di effetto equivalente, Cedam, Padova, 1984.
Sent Corte di giustizia Comm/Italia del 1 luglio 1969, 24/68, in Racc., p. 193.
21 Si è a tal proposito osservato che, così come le norme tributarie possono incidere sulla corretta applicazione di principi
non tributari, norme dalla natura non tributaria possono comportare divieti di discriminazione tributaria. Adonnino, Il
principio di non discriminazione nei rapporti tributari.
22 Con riferimento alle disposizioni sulla libertà di movimento dei capitali, devono peraltro richiamarsi le limitazioni previste
dall’art. 73D che consente restrizioni riguardante il settore fiscale, precisandosi che le misure previste non devono costituire
un mezzo di discriminazione arbitraria al libero movimento di capitali e quindi implicitamente riconoscendo la legittimità di
un diverso trattamento fiscale con riferimento a contribuenti che non si trovano nella stessa situazione in merito alla
residenza e al luogo di collocamento del capitale.
23 Conforti, Diritto internazionale, p. 310; Tesauro, Diritto comunitario, cit., p. 107.
19
20
26
L’efficacia diretta assume rilevanza in materia di discriminazione fiscale, poiché il singolo può
adire direttamente il giudice nazionale al fine di ottenere la tutela della propria posizione giuridica
soggettiva, vantata in forza della norma comunitaria. Il riconoscimento dell’idoneità delle norme del
trattato a creare diritti che i privati possono invocare anche nei rapporti reciproci, costituisce un dato
originale dell’ordinamento comunitario rispetto al diritto internazionale, che contempla solo gli Stati
quali soggetti di diritto.24
La diretta efficacia si collega strettamente ad una ulteriore qualità delle norme comunitarie, che
consiste nel loro primato sulle norme interne con esse contrastanti, sia precedenti che successive, di
qualsiasi rango. In caso di conflitto, il giudice nazionale deve applicare le norme comunitarie e la
prevalenza di queste ultime deve intendersi nel senso che la legge interna non interferisce nella sfera
soggetta alla normativa comunitaria; il limite che le norme comunitarie trovano è, però, certamente
costituito dai principi fondamentali ed inderogabili della Costituzione.
1.2 L’ IMPOSIZIONE DIRETTA
Problematico è il tema delle competenze della Comunità ai fini dell’eliminazione della
discriminazione fiscale tra i Paesi membri.
Il Trattato CE specifica la portata, le condizioni e le modalità di esercizio delle diverse
competenze attribuite alla Comunità, nel senso che, in base al principio delle competenze di
attribuzione (art. 3 Trattato CE), sono le stesse norme materiali di diritto comunitario a stabilire se, nel
settore da esso disciplinato, la Comunità gode di una competenza esclusiva (riserva assoluta), ovvero di
una competenza concorrente, che si affianca ed è complementare a quella degli Stati membri (riserva
relativa).
Con interpretazione evolutiva, la Corte di giustizia (riconoscendo più frequentemente all’art. 235
del Trattato25) ha provocato un ampliamento dell’ambito effettivo delle competenze così come erano
inizialmente intese26, in quanto la norma in questione prevede una formale procedura volta a realizzare
l’integrazione dei poteri delle istituzioni comunitarie.
Con l’art 3B, introdotto dal Trattato di Maastricht27, da un lato si sono distinte le diverse
competenze rispettivamente della Comunità e degli Stati membri, e dall’altro si sono garantite le
peculiarità individuali delle singole realtà nazionali attraverso un sistema basato sul principio di
sussidiarietà, che individua la specifica linea di demarcazione tra le competenze statali e gli atti
comunitari.
Il principio di sussidiarietà, posto dall’art. 3B, esprime un criterio di ripartizione verticale delle
competenze; tale nuova formulazione riconosce una competenza comunitaria secondaria e limitata, in
quanto la comunità può intervenire solo se gli obiettivi non possono essere conseguiti in maniera
soddisfacente dagli Stati membri. Con il Trattato di Maastricht si è operato, quindi, un tentativo di
ripartizione delle competenze, distinguendo, nella logica di un sistema federale, quelle esclusive della
Comunità Europea, quelle concorrenti e quelle riservate agli Stati membri.
La Corte di giustizia, nella sentenza Molkerei-Zentrale del 3 aprile 1968, causa 28/67 in Racc., p. 191, ha illustrato il
contenuto delle regole del Trattato con efficacia diretta, con particolare riferimento in materia fiscale all’art. 95, osservando
che tale norma non solo crea obblighi tra gli Stati membri, ma provoca la nascita di diritti soggettivi che i privati possono
fare valere innanzi agli organi giurisdizionali interni.
24
L’art. 235 del Trattato stabilisce che”il Consiglio, deliberando all’unanimità, su proposta della Commissione e sentito il
Parlamento può adottare le disposizioni opportune per il raggiungimento degli scopi previsti dalla Comunità, nel
funzionamento del mercato comune senza che il Trattato abbia previsto i poteri d’azione a tal uopo richiesti, quando
un’azione della Comunità risulti necessaria al raggiungimento di una di tali finalità”.
26 Con tale norma è stata legittimata l’azione comunitaria in settori quali la politica regionale dell’ambiente, la politica
industriale e del consumatore, la politica energetica e del turismo; la norma è stata ulteriormente modificata dall’Atto Unico
e dal Trattato di Maasrticht. Tesauro, op.cit., p. 74.
27 L’art. 3B stabilisce che “L’azione della comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi
del trattato” e che “la Comunità interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono
essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono essere realizzati meglio a livello comunitario”.
25
27
Il diritto comunitario non limita direttamente la potestà tributaria degli Stati membri, tranne nei
casi in cui si tratti di imposte indirette, con particolare riferimento all’IVA e alle accise.
L’intervento comunitario nell’ambito delle legislazioni nazionali in materia di imposte dirette è
legittimato essenzialmente dalla finalità di evitare che i regimi fiscali interni determinino gravi
distorsioni al mercato comune ed alla concorrenza. In quest’ottica le norme del Trattato relative alla
libertà di circolazione delle perone, servizi e capitali sono applicabili al settore fiscale (pur non
rientrando quest’ultimo nell’esclusiva competenza della Comunità), al fine di eliminare situazioni di
discriminazione.
Tuttavia l’azione della Comunità sulla legislazione nazionale in materia di imposte dirette, non
essendo esplicitamente prevista dalle norme del Trattato, non può travalicare i confini di quanto
necessario per il raggiungimento degli obiettivi previsti da esso e non è regolata dal principio di
sussidiarietà posto dall’art. 3B. Infatti, in mancanza di una norma specifica comunitaria che riconosca
una competenza specifica alla Comunità nel settore delle imposte dirette, l’art 3B non può regolare tale
competenza appunto perché non prevista, né può fornire un fondamento giuridico ad un’azione della
comunità nell’ambito dell’imposizione diretta.
Se, come detto, l’art 3B non può essere invocato quale norma ampliativa dei poteri della
Comunità, lì dove manchi una corrispondente competenza, è evidente che l’interpretazione della Corte
di giustizia che riconosce valenza fiscale agli artt. 52, 59, 67 e 48 del Trattato non può essere utilizzata
(avvalendosi della normativa di cui all’art. 3B) per ampliare le competenze della Comunità nel settore
delle imposte dirette. Tale interpretazione mira unicamente a garantire la libertà di stabilimento o di
circolazione, ostacolata spesso da norme tributarie interne e appunto non amplia la competenza della
Comunità nel settore delle imposte dirette, che non è stato disciplinato dal Trattato.28 Dunque, è
necessario individuare il fondamento giuridico dell’intervento della Comunità nell’ambito
dell’imposizione diretta, volto ad eliminare eventuali norme discriminatorie.
La mancata previsione, da parte del Trattato, dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali con
riferimento alle imposte dirette si è fondata sulla considerazione che esse costituiscono uno strumento
di politica sociale e di ridistribuzione del reddito, la cui competenza spetta esclusivamente ai singoli
Paesi membri.
La disciplina dell’imposizione diretta costituisce l’espressione principale della loro sovranità
fiscale; la conseguente carenza di norme comunitarie destinate ad armonizzare le legislazioni nazionali
in materia di imposte dirette, determina molto spesso il perdurare di regimi fiscali notevolmente
differenziati, caratterizzati da una disorganicità e da disposizioni a carattere discriminatorio nei
confronti dei redditi, dei patrimoni dei cittadini e delle imprese non residenti.
La constatazione di tale disorganicità ha provocato una lenta, ma costante, evoluzione
normativa e giurisprudenziale comunitaria in materia di imposizione diretta, il cui fondamento giuridico
si rintraccia negli artt. 100 e 101 del Trattato.29
I poteri sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato interno, previsti dall’art. 100, pur
riguardando le disposizioni fiscali che ostacolano la libera circolazione delle merci, sono, però,
Di parere opposto è Casertano che in Riflessioni in merito alla gerarchia delle norme tributarie alla luce della recente evoluzione del
diritto interno, comunitario e convenzionale, in Rass. Trib., p. 450, sostiene che l’art. 3B potrebbe permettere di dare un fondamento
giuridico ad un’azione della Comunità tesa a regolare quei settori che non trovano specifica fonte nel Trattato CE.
29 L’art. 100 attribuisce al Consiglio su proposta della Commissione il potere di emanare direttive che siano deliberate
all’unanimità e volte al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative nazionali che abbiano
incidenza diretta sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato comune, mentre l’art. 101 conferisce al Consiglio il
potere di eliminare disparità esistenti nelle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative degli Stati membri che
falsino le condizioni di concorrenza sul mercato comune. Lang, ne I presupposti costituzionali dell’armonizzazione del diritto
tributario in Europa, in Trattato di dir. Trib., vol.I, tomo II, Cedam, Padova, 1994, sostiene che dall’art. 100 sono deducibili i
criteri di un’armonizzazione sul piano della concorrenza e dell’imposizione sul reddito di impresa e di capitale, ma non è un
criterio di piena armonizzazione dell’imposizione diretta nei Paesi membri. Esistono, infatti, delle diversità sociali e culturali
tra i Paesi membri che impediscono agli organi comunitari di uniformare le aliquote progressive delle imposte dirette sul
reddito delle persone fisiche adottate dai singoli Stati mebri, in quanto esse rappresentano l’espressione di una politica
sociale e di ridistribuzione difficilmente armonizzabile. De Mita, in L’armonizzazione delle imposte dirette, in Riv. Dir. trib., 1991,
p. 55, sostiene che gli art. 100 e 101 hanno portata più ampia e consentono alla Commissione CE di emanare direttive ogni
qual volta sia necessario rimuovere un ostacolo alla creazione del mercato interno.
28
28
determinati dalle norme fiscali discriminatorie nei confronti delle persone fisiche e giuridiche residenti
negli altri Paesi membri.
Risulta, tuttavia, diverso il rilievo che l’intervento normativo comunitario assume in materia di
imposizione diretta, rispetto a quanto dispone in materia di imposizione indiretta. Non è affatto
stabilito l’obbligo di armonizzazione fiscale delle legislazioni nazionali ed il funzionamento del mercato
interno, ma più modestamente si prevede l’obiettivo del ravvicinamento delle disposizioni nazionali che
abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno. In definitiva,
l’intervento comunitario deve contenersi entro l’indispensabile, per eliminare le discriminazioni e le
distorsioni più importanti.
Il Trattato, tuttavia, garantisce valori fondamentali che non possono essere modificati dagli Stati
membri, neanche in sede di produzione di leggi in materia di imposizione diretta. Pertanto, la mancanza
della previsione nel Trattato di un potere della Comunità di armonizzare delle legislazioni sulle imposte
dirette, non costituisce una giustificazione di un trattamento discriminatorio dei non residenti da parte
degli Stati membri, in quanto le leggi fiscali nazionali non possono violare le diverse libertà
fondamentali garantite dal Trattato.
1.4 ANCORA SULLE IMPOSTE DIRETTE
Il Trattato CE non contiene alcuna disposizione esplicita in ordine all'armonizzazione delle
imposte dirette. Le iniziative in questo settore sono pertanto basate su obiettivi di carattere più generale.
La legislazione relativa alle imposte sulla società si è basata di solito sull' articolo 94 (100) del Trattato
che "adotta le misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l'instaurazione e il funzionamento del mercato
interno". Come nel caso dell’art. 93 (99) e in contrasto con l’art. 95 (100 A), in conformità del quale è
stata adottata la maggior parte della legislazione sul mercato unico, si applicano l'unanimità e la
procedura di consultazione. L’art. 58 (73 D), introdotto dal trattato di Maastricht, autorizza il libero
movimento dei capitali consentendo agli Stati membri di "operare una distinzione tra i contribuenti che
non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di
collocamento del loro capitale". Tuttavia, il 14 febbraio 1995 la Corte di giustizia ha dichiarato (Causa
C-0279/93) che l' art. 39 (48) del Trattato si applica direttamente al settore fiscale e al settore della
sicurezza sociale. In base a tale articolo la libera circolazione dei lavoratori implica "l'abolizione di
qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto
riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro". L’art. 293 (220) impone agli Stati
membri di avviare "negoziati intesi a garantire (...) l'eliminazione della doppia imposizione fiscale
all'interno della Comunità" e l’art. 294 (221) vieta la discriminazione tra cittadini degli Stati membri "nei
confronti della partecipazione finanziaria (...) al capitale delle società" Nella maggior parte dei casi,
tuttavia, le imposte dirette esulano dal campo di applicazione della legislazione comunitaria. Un'ampia
rete di accordi bilaterali in materia fiscale - che coinvolgono sia Stati membri che paesi terzi - disciplina
la tassazione dei flussi di reddito transfrontalieri. Nel settore delle imposte dirette, due sono gli obiettivi
specifici da perseguire per contrastare l'evasione fiscale (ad esempio la proposta relativa alla ritenuta alla
fonte sugli interessi) ed eliminare la doppia imposizione (ad esempio accordi sulla corresponsione dei
dividendi ai non residenti). Più in generale, una certa armonizzazione dell'imposizione fiscale sulle
imprese (imposta sugli utili e tassazione dei dividendi personali) può essere necessaria per impedire
distorsioni della concorrenza, in particolare in ordine alle decisioni relative agli investimenti. Laddove i
regimi fiscali non rispondono al principio della neutralità - cioè laddove i tassi comparati di rendimento
al netto delle imposte si discostano dai tassi comparati di rendimento prima del prelievo - le risorse
saranno mal ripartite. L'armonizzazione potrebbe anche essere giustificata dal fatto di volere prevenire
l'erosione dei redditi a causa della "concorrenza fiscale", e ridurre le possibilità di artifici contabili (ad
esempio attraverso i prezzi di trasferimento). La relazione Ruding (" Relazione del comitato di esperti
indipendenti sull'imposta sulle società ", marzo 1992) faceva rilevare che tutti i regimi fiscali degli Stati
membri effettuavano in un modo o nell'altro una discriminazione tra investimenti interni e stranieri.
Faceva inoltre notare che gli effetti di possibile distorsione erano rafforzati dalla soppressione delle
29
barriere alla mobilità dei capitali. Gli interrogativi principali erano se tali distorsioni minacciassero
seriamente il mercato interno e se, nel caso, esse potessero essere eliminate "semplicemente dagli effetti
reciproci delle forze di mercato e della concorrenza tra regimi fiscali nazionali", o se occorresse
un'azione a livello comunitario.
2.1 IMPOSTE SULLE SOCIETÀ
Proposte relative all'armonizzazione delle imposte sulle società sono state discusse nella
Comunità europea per oltre 30 anni. La relazione Neumark del 1962 e la relazione Van den Tempel del
1970 si pronunciarono entrambe a favore dell'armonizzazione, sebbene ricorrendo a metodi diversi. Nel
1975 la Commissione pubblicò una proposta di direttiva relativa all'introduzione in tutti gli Stati
membri di un sistema ancora diverso, con un allineamento delle aliquote tra il 45% e il 55%. Tale
proposta non poté essere accettata e nel 1980 la Commissione era del parere che, per quanto un sistema
comune potesse essere auspicabile per motivi di concorrenza, qualsivoglia tentativo di trovare una
soluzione al problema mediante l'armonizzazione sarebbe stato probabilmente destinato al fallimento
("Relazione sulle prospettive di convergenza dei sistemi fiscali" COM(80)139). La Commissione decise
piuttosto di concentrarsi su misure di portata più limitata ma essenziali per il completamento del
mercato interno. Gli "Orientamenti relativi all'imposizione fiscale delle imprese" del 1990 (SEC(90)601)
davano la priorità a tre proposte già presentate, che vennero adottate più tardi nel corso del medesimo
anno:
- la direttiva "fusioni" (90/434/CEE, che riguarda il trattamento da riservarsi alle plusvalenze
risultanti da una fusione;
- la "direttiva società madri e società affiliate" (90/435/CEE), che elimina la doppia imposizione
dei dividendi distribuiti da un'affiliata stabilita in uno Stato membro alla propria società madre stabilita
in un altro Stato membro;
- la Convenzione "procedura arbitrale" (90/436/CEE), che istituisce procedure destinate a
risolvere le controversie in materia di utili di imprese consociate situate in Stati membri differenti.
All'inizio dell'anno seguente, la Commissione pubblicò inoltre una proposta relativa a un regime
fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni effettuati tra società madri e società
affiliate di Stati membri diversi (COM (90) 571). Benché rivista dopo due anni (COM (93) 196), e pur
ricevendo un parere favorevole da parte del Parlamento europeo, è stata ritirata a causa dell'incapacità
da parte del Consiglio di giungere ad un accordo. Nel 1998 è stata presentata una nuova versione (COM
(1998) 67) nell'ambito del "pacchetto Monti" che comprendeva anche il Codice di condotta e la
proposta sulla tassazione del reddito da risparmio (cfr. in appresso). Nel frattempo veniva creato nel
1991 il comitato di esperti indipendenti Ruding che ha presentato una relazione nel marzo dell'anno
successivo (vedi sopra). Esso raccomandava un programma di azione per eliminare la doppia
imposizione, armonizzare le aliquote dell'imposta sulle società in modo che l'aliquota complessiva
rientri nella fascia 30%-40% e garantire la piena trasparenza dei vari incentivi fiscali offerti dagli Stati
membri per promuovere gli investimenti.
La Commissione ha pubblicato le sue reazioni alla suddetta relazione nel giugno 1992 (SEC (92)
1118). Pur non concordando totalmente con il comitato Ruding - segnatamente per quanto riguarda le
aliquote dell'imposta sulle società, ha convenuto sulla necessità di un'azione prioritaria in materia di
doppia imposizione. Nell'anno successivo ha proposto modifiche volte ad ampliare la portata delle
direttive "fusioni" e "società madri/società affiliate" (COM (93) 293) e ha attirato l'attenzione su due
proposte di direttiva già presentate: quella relativa al regime fiscale del riporto delle perdite delle
imprese (COM (84) 404) e quella relativa alla contabilizzazione delle perdite subite da stabilimenti statali
e ffiliali in un altro Stato membro (COM (90) 595). Tutte queste proposte sono ancora all'esame del
Consiglio. Nel 1996 la Commissione ha adottato un nuovo approccio sull'imposizione fiscale. Nel
campo delle imposte sulle società il principale risultato è stato il Codice di condotta in materia di
fiscalità delle imprese, adottato come risoluzione del Consiglio nel gennaio 1998. Il Consiglio ha inoltre
istituito un Gruppo sul Codice di condotta (noto come il "Gruppo Primarolo", dal nome del suo
presidente) incaricato di esaminare casi notificati di fiscalità aziendale non equa. La sua relazione, che è
30
stata presentata nel novembre 1999, individuava 66 pratiche fiscali da abolire entro cinque anni. Il
mandato del Gruppo è stato ora esteso ai fini della supervisione di questo "calmiere"
2.2 L'IMPOSIZIONE FISCALE DELLE PMI
Nel maggio 1994 la Commissione ha pubblicato una "comunicazione sul miglioramento del
contesto fiscale per le piccole e medie imprese" (COM(94) 206). In essa osserva che, rispetto alle
imprese più grandi, le PMI sono confrontate a tre problemi principali: la capacità di attrarre risorse
finanziarie sufficienti, il far fronte alla complessità amministrativa e la continuità dell'impresa quando si
verifica un passaggio di proprietà. Pur non essendovi alcuna intenzione di armonizzare in alcun modo il
trattamento fiscale strettamente nazionale delle piccole e medie imprese, potrebbe essere necessaria
un'azione riguardo agli aspetti transfrontalieri. Allegata alla comunicazione era una "prima iniziativa
sotto forma di raccomandazione sull'autofinanziamento", "riguardante la tassazione delle piccole e
medie imprese" (94/390/CE). In essa gli Stati membri erano invitati ad intervenire su due questioni
concernenti la proprietà esclusiva e le partnership:
"per correggere gli effetti dissuasivi della progressività dell'imposta sul reddito ... per quanto
concerne gli utili reinvestiti" - ad esempio, permettendo di optare per l'imposta sulle società;
"sopprimere gli ostacoli fiscali alla modificazione della forma giuridica delle imprese, in
particolare ... società di persone".
2.3 IMPOSTE SUL REDDITO DELLE PERSONE FISICHE
L'imposizione fiscale di chi lavora o è titolare di una pensione in uno Stato membro, ma vive
e/o ha familiari a carico in un altro, è stata costantemente fonte di problemi. Gli accordi bilaterali
evitano la doppia imposizione in generale, ma non risolvono questioni quali l'applicazione dei vari
sgravi fiscali esistenti nel paese di residenza al reddito percepito nel paese di occupazione. Per garantire
la parità di trattamento tra lavoratori residenti e non residenti, la Commissione ha proposto nel 1980,
sulla base dell’art. 94 (100), una direttiva per l'armonizzazione delle disposizioni relative alle imposizioni
sui redditi in relazione alla libera circolazione (COM (79) 737), che prevedeva l'applicazione del
principio generale della tassazione nel paese di residenza. Essa non venne tuttavia adottata dal Consiglio
e fu ritirata nel 1993. La Commissione ha invece elaborato una raccomandazione sulla base dell’art. 211
(155) relativa ai principi da applicare al trattamento fiscale del reddito dei non residenti. Nel frattempo
la Commissione ha anche avviato dei procedimenti per violazione contro taluni Stati membri per
discriminazione nei confronti di lavoratori non nazionali. La Corte ha sentenziato nel 1993 (causa C112/91) che un paese può imporre un trattamento fiscale più pesante ai propri cittadini quando
risiedono in un altro Stato membro. Tuttavia, la Corte ha altresì sentenziato che un paese non può
applicare a un cittadino di un altro Stato membro che non vi risiede un trattamento meno favorevole di
quello riservato ai propri cittadini (vedi sopra: causa C-279/93). L'altra importante questione nel settore
delle imposte dirette sulle persone fisiche è quella della tassazione degli interessi bancari e di altro tipo
corrisposti ai non residenti. In via di principio, il contribuente deve dichiarare tale reddito nella normale
dichiarazione dei redditi. In pratica, come osservato nella relazione Ruding, "il libero movimento di
capitali ... insieme all'esistenza del segreto bancario ... aumenterà la possibilità di evasione fiscale da
parte dei singoli cittadini." Taluni Stati membri impongono una ritenuta alla fonte sui redditi; tuttavia
quando nel 1989 la Germania introdusse tale imposta al modesto tasso del 10%, si verificò un massiccio
movimento di fondi verso il Lussemburgo, dove non esiste una ritenuta alla fonte, cosicché l'imposta
tedesca dovette essere temporaneamente abolita.
Il medesimo anno la Commissione ha pubblicato una proposta di direttiva relativa a un sistema
comune di ritenuta alla fonte sugli interessi (COM (89) 60), la cui aliquota non può essere inferiore al
15%. Taluni Stati membri vi si sono opposti poiché ritengono che, vista l'esperienza tedesca del 1989,
ciò determinerebbe una fuga di capitali dalla Comunità. La proposta è stata infine ritirata e ne è stata
presentata una nuova, volta a garantire una tassazione minima effettiva sui redditi da risparmio nella
forma di pagamenti di interessi all'interno della Comunità (COM (1998)295). L'aliquota proposta è del
31
20%, ma doveva essere previsto un sistema alternativo per fornire informazioni sui pagamenti alle
autorità fiscali dello Stato di origine del risparmiatore. Dopo laboriosi negoziati è stato raggiunto un
compromesso al Consiglio europeo di Santa Maria da Feira del 20 giugno 2000. Il 26/27 settembre
L'ECOFIN ha raggiunto un accordo su un progetto di direttiva.
L'Austria, il Belgio e il Lussemburgo introdurrebbero una ritenuta alla fonte con un'aliquota non
inferiore al 15% nei tre anni successivi all'entrata in vigore della direttiva, e non inferiore al 20% per
altri quattro anni.
Tutti gli altri Stati membri adotterebbero il sistema di scambio di informazioni subito dopo
l'entrata in vigore della direttiva, mentre l'Austria, il Belgio e il Lussemburgo dopo sette anni.
Il 25% del gettito della ritenuta alla fonte verrebbe acquisito dal paese esattore, il resto sarebbe
trasferito mediante compensazione al paese di residenza del contribuente.
Le obbligazioni emesse anteriormente al 1° marzo 2001 non sarebbero soggette alla direttiva.
La Commissione conta di ottenere delle informazioni sulle posizioni degli SU, della Svizzera e di
altri paesi entro il luglio 2001.
Il Lussemburgo e l'Austria hanno posto come condizione per l'adozione della direttiva
l'introduzione da parte loro di misure "equivalenti".
3.1 LA VIOLAZIONE INDIRETTA DELLE NORME DEL TRATTATO
La potestà tributaria degli Stati membri in materia di imposte dirette, pur essendo espressione
della sovranità nazionale e non rientrando nelle competenze esclusive della Comunità, deve essere
esercitata nel rispetto delle libertà fondamentali previste dal Trattato, sulle quali si fondano
l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno. Ciò comporta l’esistenza di un potenziale
legame tra qualsiasi legge fiscale nazionale ed ogni norma direttamente applicabile del trattato, con la
conseguente generica limitazione della sovranità tributaria dei singoli Paesi membri nel settore delle
imposte dirette.30
Le norme del Trattato sulle libertà fondamentali (pur non stabilendo un divieto di
discriminazione nel settore delle imposte dirette che limiti in forma immediata la sovranità tributaria di
singoli Stati membri) prevedendo espressamente la parità di trattamento in base alla cittadinanza, vieta
peraltro ogni altra forma indiretta di discriminazione, che, basandosi su altri criteri distintivi, giunga allo
stesso risultato discriminatorio.
Quindi, le finalità della norma comunitaria possono essere verificate da una legge tributaria
nazionale, che sia solo apparentemente in armonia con tale norma, ma che in realtà la viola, sia pure in
maniera indiretta. Così come avviene nel caso in cui la discriminazione fiscale si realizza all’interno di un
Paese indirettamente sulla base della residenza.
La legge tributaria nazionale non deve, perciò, limitarsi ad evitare il proprio contrasto diretto
con le norme ed i principi del Trattato, ma deve anche non incorrere in quelle deviazioni che
provocano l’incompatibilità indiretta.
In tali casi, infatti, è configurabile una violazione indiretta dei principi del Trattato, cioè un vizio
di eccesso di potere della legge tributaria nazionale, inteso come eccesso della sovranità fiscale.
L’eccesso di potere può verificarsi per sviamento dei fini che le norme ed i principi del Trattato
prescrivono per le singole leggi nazionali e, soprattutto nel caso della discriminazione fiscale, per
disparità di trattamento ed ingiustizia manifesta nei confronti di soggetti passivi di diversi Paesi membri.
Il contrasto con le norme ed i principi del Trattato si manifesta allorché la legge tributaria
nazionale li violi indirettamente, per la tutela di interessi interni in conflitto con le più generali garanzie
che sono alla base del diritto comunitario. Questo è quanto accade quando il perseguimento di un
interesse nazionale si realizza attraverso disposizioni eccessivamente restrittive; a tal fine la
Nella sentenza Schumacker del 14 febbraio 1995, in Racc., p. 1137, la Corte di giustizia ha stabilito che gli Stati membri sono
tenuti ad esercitare la potestà tributaria nel settore delle imposte dirette nel rispetto dei principi posti dal diritto comunitario
con riferimento a garanzie di diverso contenuto.
30
32
giurisprudenza comunitaria ha elaborato il principio di proporzionalità, che consente di valutare
l’idoneità delle misure adottate al perseguimento dei legittimi obiettivi da parte degli Stati membri.31
3.2 LIBERTÀ DI STABILIMENTO
Sebbene il Trattato non definisca esplicitamente il principio di eguaglianza di trattamento fiscale,
la disciplina relativa alla libertà di stabilimento costituisce una delle fonti principali di tale principio
all'interno della Comunità.
Alla Corte di giustizia spetta di interpretare le norme del Trattato che garantiscono le libertà
fondamentali e conseguentemente di individuare la compatibilità delle leggi tributarie nazionali con
l’ordinamento comunitario; il contenuto del diritto di stabilimento (previsto dall’art. 52 del Trattato)
non può essere, infatti, ristretto da tali leggi.32
Nell’ambito della disciplina di cui all’art. 52 del Trattato, si suole distinguere un diritto di
stabilimento a titolo principale, consistente nell’accesso all’esercizio di un’attività economicamente
rilevante in un Paese membro diverso da quello di origine, da un diritto di stabilimento a titolo
secondario, riscontrabile nell’apertura in un Paese diverso da quello di residenza ed in cui è posta la sede
sociale, di una sede secondaria per l’esercizio della propria attività economica. Il diritto di stabilimento a
titolo principale è configurabile solo per le persone fisiche, mentre il secondario si riferisce alle imprese
e alle società costituite ai sensi dell’art. 58, comma 2, cioè alle società e a tutti gli enti collettivi costituiti
conformemente alla legislazione di un Paese membro, aventi sede sociale, amministrazione o centro
dell’attività principale all’interno della Comunità Europea.
Pertanto il diverso trattamento delle imprese, basato sul luogo in cui esse hanno la sede
principale, stabilito dagli ordinamenti tributari nazionali, contrasta con le garanzie poste dal Trattato.
In particolare, il diritto di stabilimento non può essere violato da disposizioni discriminatorie
interne in materia di imposizione sul reddito e pertanto gli Stati membri, essendo gli unici titolari della
potestà tributaria in materia di imposte dirette, devono esercitarla nel rispetto del diritto comunitario,
che vieta qualsiasi discriminazione, diretta o indiretta basata sulla cittadinanza.33
La tutela prevista per tale principio si estende anche alle stabili organizzazioni di imprese che
operano in altri Paesi membri; esse, in quanto non residenti, non possono essere discriminate rispetto
alle imprese residenti che sono sottoposte allo stesso regime fiscale, poiché, assoggettando alla stessa
imposizione due diversi soggetti passivi, il legislatore ammetterebbe implicitamente che non esiste
alcuna obiettiva differenza di situazione che possa giustificare un diverso trattamento. In mancanza di
armonizzazione fiscale tra i sistemi impositivi dei Paesi membri della Comunità, il trattamento di una
stabile organizzazione dipende dalle norme tributarie di diritto interno che ineriscono ad essa; assume
rilevanza a tal proposito l’art. 52, che proibisce agli Stati membri di riservare, a coloro che esercitano il
diritto di stabilimento, trattamenti fiscali che differiscano da quelli concessi ai propri cittadini.
Una violazione della libertà di stabilimento si rileva nel caso in cui la legislazione fiscale di uno
Stato membro riconosca il rimborso degli interessi moratori (dovuti in seguito alla riscossione illegittima
di un’imposta) alle società aventi la loro residenza fiscale in quel Paese e lo escluda per una stabile
Il principio di proporzionalità obbliga le istituzione comunitarie ad un’azione di controllo affinchè gli oneri imposti dai
Paesi membri agli operatori economici non superino ciò che è necessario per il raggiungimento degli obiettivi che sono
tenuti a realizzare, cfr. Sent. Corte di Giustizia, Forges , causa 26/79 del 18 marzo 1980, in Racc., p. 1083. Cfr. anche
D’Abruzzo, Riflessioni in merito all’applicabilità delle norme antielusive alle riorganizzazioni societarie transfrontaliere, in Riv. Dir trib.,
1997, p. 883.
32 L’art. 52 del Trattato stabilisce: ”Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei
cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono gradatamente soppresse durante il periodo
transitorio. Tale graduale soppressione si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali e filiali, da
parte dei cittadini di uno Stato membro. La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività non salariate ed al loro
esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese ed in particolare di società ai sensi dell’art. 58, secondo comma, alle
condizioni definite dalla legislazione del Paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del
capo relativo ai capitali.
33 Su tali punti vedi le sentenze della Corte di giustizia, Avoir fiscal, del 16 ottobre 1986, causa 270/83, in Racc., p. 273, Biehl,
dell’ 8. maggio 1990, causa C-175/88, in Racc., p. 1779, e Wielockx dell’ 11 agosto 1995, causa C-80/94, in Racc., p. 2493.
31
33
organizzazione di un’impresa, avente la sede sociale in un altro Paese membro, che si trovi nella
medesima situazione dell’impresa residente34.
Per quanto riguarda il diritto di stabilimento a titolo principale delle persone fiscali, una
interessante situazione è stata esaminata nella decisione della Corte di Giustizia relativa al caso Werner,
in cui il ricorso proposto da un contribuente è stato rigettato per mancanza di requisiti rilevanti previsti
dal Trattato.35
Tale decisione ha considerato non discriminatorio il diverso trattamento fiscale nei confronti di
un cittadino tedesco che esercitava la professione nella R.F.T. ed ivi produceva il proprio reddito, pur
mantenendo la propria residenza nei Paesi Bassi.
L’art. 52 del Trattato, ad avviso della Corte, tutela il diritto di stabilimento per ragioni
economiche, come lo svolgimento di un’attività professionale in un altro Stato membro diverso da
quello di origine e non per obiettivi meramente residenziali.
L’applicabilità dell’art.52 in materia fiscale nei confronti delle persone fisiche è stata considerata
diversamente nel caso Wielockx , ove si afferma che il contribuente non residente, che percepisce la
totalità o la quasi totalità dei propri redditi nello Stato in cui svolge l’attività lavorativa, si trova nella
stessa situazione, ai fini dell’imposizione personale, di colui che risiede nello Stato medesimo ivi
svolgendo la stessa attività.36
Entrambi sono soggetti ad imposizione in quello Stato e la base imponibile è la stessa; pertanto,
nel caso in cui al contribuente non residente non sia riconosciuta la deducibilità fiscale prevista per il
residente, si avrà discriminazione.
In tale ipotesi assume, quindi, maggior rilievo, ai fini dell’equiparazione tra residente e non
residente, l’eguale capacità contributiva personale, desumibile dalla verifica della situazione fiscale
complessiva del non residente, rispetto al medesimo regime fiscale applicato nei confronti dei due
soggetti37.
3.3 LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI
In tal senso la sentenza della Corte di giustizia Commerzbank, del 13 luglio 1993, in Racc., p. 4017, riguardante un istituto di
credito tedesco che, avendo co ncesso prestiti a società americane attraverso la sua filiale inglese, aveva versato imposte nel
Regno Unito sugli interessi corrisposti dalle società mutuatarie. La Commerzbank aveva in seguito ottenuto un rimborso
dell’imposta pagata ai sensi della Convenzione per evitare la doppia imposizione sul reddito conclusa tra Regno Unito e Stati
Uniti nel 1946, ma le veniva respinta l’istanza di restituzione degli interessi moratori da parte dell’Amministrazione
finanziaria inglese, in quanto non residente nel Regno Unito. La banca proponeva ricorso davanti alla Corte di Giustizia
sostenendo che il rifiuto di restituire gli interessi moratori a soggetti non residenti costituiva una limitazione alla loro libertà
di stabilimento. La Corte di giustizia, condividendo tali argomentazioni, accoglieva il ricorso.
35 La sentenza Werner del 26 gennaio 1993, causa C-112/91, in Racc., p. 429, riguardava un cittadino professionista tedesco,
residente nei Paesi Bassi e che lavorava nella R.F.T.; questi era assoggetto ad un’imposta in quest’ultimo Paese da quando
svolgeva la sua attività, ma veniva sottoposto ad uno speciale regime applicabile ai non residenti più gravoso in quanto non
poteva beneficiare di certe agevolazioni fiscali. La Corte ha stabilito che l’art. 52 non proibisce ad un Stato membro di
gravare maggiormente i cittadini non residenti che esercitino professioni all’interno del loro territorio rispetto agli stessi
cittadini residenti ed inoltre, ha considerato non applicabile l’art. 52 in quanto il cittadino non aveva invocato la libertà di
stabilimento per poter esercitare la professione nell’altro Stato membro che era tra l’altro il suo Stato di appartenenza.
36 Sentenza dell’ 11 agosto 1995, causa 80/94, in Racc., p. 2493. Nel caso Wielockx , alla luce di quanto affermato nella
sentenza Schumacker, la Corte di giustizia ha introdotto il metodo della comparazione fiscale complessiva al fine del
riconoscimento dello stesso trattamento fiscale tra residenti e non residenti. Cfr. Amatucci, Il principio di non discriminazione
fiscale, p. 136.
37 Nel caso Wielockx, alla luce di quanto peraltro affermato nella sentenza Schumacker , la Corte di giustizia ha introdotto il
metodo della comparazione fiscale complessiva al fine del riconoscimento dello stesso trattamento fiscale tra residenti e non
residenti.
L’elemento di rafronto è costituito dall’individuazione della capacità contributiva complessiva del non residente.
Le difficoltà principali derivanti dall’applicazione del metodo della comparazione fiscale complessiva deriva innanzitutto
dalla mancata corrispondenza tra capacità contributiva e prestazioni di servizi da parte dello Stato di residenza. La capacità
contributiva complessiva del non residente che produce reddito in più di un Paese, necessario per il riconoscimento dello
stesso trattamento fiscale previsto per i residenti, non può essere collegata al luogo del beneficio effettivo dei servizi. Inoltre
la verifica della capacità contributiva del non residente, investe anche elementi estranei all’ordinamento giuridico della fonte.
Per queste considerazioni sul caso Wielockx, cfr. F. Amatucci, Il principio di non discriminazione fiscale, cit..
34
34
Con la finalità di agevolare lo svolgimento da parte dei cittadini comunitari di attività lavorative
subordinate al di fuori dello Stato di origine, l’art. 48 del Trattato38 garantisce la parità di trattamento tra
i lavoratori, attraverso la rimozione di qualsiasi ostacolo discriminatorio alla libera circolazione
frapposto dalle legislazioni degli Stati membri.
Tale norma deve considerarsi limitativa della potestà tributaria di uno Stato membro nei
confronti di un cittadino di un altro Stato membro, nel caso in cui essa di fatto ostacoli la libera
circolazione dei lavoratori.39
L’art. 48 del Trattato, anche se vieta espressamente soltanto la discriminazione in base alla
cittadinanza, proibisce logicamente ogni altra forma di discriminazione che, fondandosi su altri criteri
distintivi, giunge allo stesso risultato. Le ipotesi di discriminazione basate sulla residenza costituiscono
una violazione dei principi fondamentali del Trattato CE, sia pure in via indiretta, in quanto
quest’ultimo vieta la discriminazione tra i lavoratori provenienti da altri Paesi membri in base alla
cittadinanza.
Diverse, infatti, sono le fattispecie discriminatorie basate sulla residenza nel settore delle
imposte dirette, che contrastano il principio di libera circolazione dei lavoratori, esse contengono forme
indirette di discriminazione, così, anche le leggi tributarie interne che costituiscono per il lavoratore non
residente imposte dirette più gravose rispetto al residente.
Non è vietata comunque ogni distinzione legislativa a livello tributario tra residenti e non
residenti, ma solo quel diverso trattamento che provochi una situazione di svantaggio ingiustificato nei
confronti del non residente. Questo diverso trattamento nei confronti del non residente ha, in generale,
una sua logica interna che non contrasta con i principi di libera circolazione delle persone, sanciti dal
Trattato;40esso, però, diviene discriminatori ogni qual volta i lavoratori dipendenti producono il loro
reddito nel Paese di occupazione, pur non risiedendovi abitualmente e non percependo un reddito
significativo nel Paese di residenza. In simili casi, infatti, i lavoratori non residenti sono di fatto nella
medesima posizione dei lavoratori residenti nello Stato di occupazione e, pertanto, deve essere
riconosciuto loro lo stesso trattamento fiscale.41
Il criterio di collegamento basato sulla residenza del contribuente (che permette nei suoi
confronti l’assoggettamento ad imposizione personale da parte di una Stato) diviene irrilevante qualora
la quasi totalità del reddito del lavoratore non residente è prodotta nello Stato della fonte, assumendo,
in tal caso, maggior rilievo tale ultima circostanza. Il diverso trattamento fiscale in base alla residenza, in
tali casi, determina una violazione del principio di non discriminazione.
Possono, però, verificarsi delle difficoltà di tipo tecnico di problematica risoluzione, come nel
caso in cui il Paese di residenza del contribuente (che produce reddito in un altro Paese membro)
applica il credito d’imposta per eliminare la doppia imposizione internazionale.
Nel settore delle imposte dirette è doveroso, quindi, rilevare come il divieto di discriminazione
fiscale in base alla residenza debba considerarsi relativo, sulla constatazione delle diverse conseguenze
che l'applicazione di esso è in grado di produrre nei singoli casi; cioè, la validità assoluta del divieto di
L’art. 48 stabilisce che: “La libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità è assicurata al più tardi al termine
deel periodo transitorio. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità tra i lavoratori degli
Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro”.
39 A garanzia della tutela della libertà di circolazione dei lavoratori da eventuali discriminazioni fiscali, devono richiamarsi
due atti comunitari che limitano la potestà tributaria degli Stati membri. Innanzitutto il regolamento n. 1612 del 1968 che
prevede la parità di trattamento attraverso il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità per quanto riguarda
l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro e garantisce al lavoratore di un altro Stato membro le stesse garanzie
fiscali dei lavoratori nazionali. V. Mattarella, La libera circolazione dei lavoratori nella CEE, Milano, 1982, p. 54. In secondo luogo
la raccomandazione del 21 dicembre 1993 con la quale la Commissione sollecita gli Stati membri ad eliminare dalla propria
legislazione i provvedimenti di discriminazione fiscale.
40 V. infatti la sentenza Schumacker del 14 febbraio 1995, causa C-279/93, in Racc., p. 225, in cui la Corte di giustizia ritiene
giustificato il diverso trattamento perché il non residente produce generalmente la maggior parte di reddito nel suo Paese di
residenza e quindi, solo quest’ultimo Stato può conoscere la situazione personale del contribuente ed accertare la sua
capacità contributiva.
41 In Italia, ad es., l’art. 21 del D.P.R. n. 917 del 1986 riconosce ai cittadini non residenti, compresi i lavoratori, la deducibilità
dal reddito di un numero di oneri limitati rispetto a quello previsto per i residenti.
38
35
discriminazione, che prescinda dall’analisi delle differenti situazioni, può condurre a scompensi e
disarmonie nel sistema fiscale nazionale.
Tali considerazioni devono collegarsi anche alla funzione antielusiva delle norme tributarie
interne, che prevedono un diverso trattamento fiscale nei confronti dei lavoratori, dovendosi peraltro
distinguere, a tal fine, tra le situazioni che di fatto si verificano.
Così, se la distribuzione delle fonti del reddito di diversa natura in più di un Paese da parte di
uno stesso contribuente può costituire un comportamento elusivo (qualora sia mirata esclusivamente ad
evitare che il reddito complessivo sia sottoposto ad imposizione in un solo Stato e, quindi, in definitiva
alla progressività tributaria), d’altra parte nel caso in cui il reddito prodotto da un contribuente derivi
quasi esclusivamente dall’esercizio di attività lavorativa svolta in un altro Paese membro, la produzione
dello stesso soggetto di reddito anche nel Paese di residenza non rappresenta certamente violazione
mediante artifici e raggiri delle leggi tributarie nazionali. In tale ipotesi, una norma tributaria interna, che
preveda un diverso trattamento, risulta discriminatoria e non può essere giustificata dalla finalità
antielusiva. 42
Un tipo di discriminazione orizzontale può realizzarsi tra i lavoratori non residenti che risiedono
in un Paese membro (con il quale è stato stipulato un accordo contro la doppia imposizione, che
prevede disposizioni fiscali particolarmente favorevoli) e i lavoratori non residenti che risiedono in
Paesi che non hanno stipulato tali accordi o che li hanno stipulati senza prevedere disposizioni
particolarmente favorevoli.
Il divieto di discriminazione orizzontale comporterebbe automaticamente o un’eliminazione dei
vantaggi fiscali per i residenti, o una loro estensione a tutti i non residenti che operano all’interno di uno
Stato membro; peraltro, la mancanza nell’ordinamento giuridico comunitario di una norma che
contenga la clausola della nazione più favorita, con riferimento all’ambito delle imposte dirette, esclude
che questo si verifichi.
La disciplina comunitaria, dunque, pur non imponendo allo Stato membro di estendere le
agevolazioni fiscali previste in un accordo fiscale bilaterale a chi percepisce il reddito nello Stato, ma
risiede in altri Stati membri di violare il principio di non discriminazione, previsto dall’art. 48 del
Trattato.
Ne consegue che, pur in presenza di convenzioni fiscali bilaterali, ancorché anteriori all’entrata
in vigore del Trattato, la limitazione del diritto ad un’agevolazione fiscale nei confronti di lavoratori non
residenti è consentita soltanto a condizione che non sia violato il principio di non discriminazione
previsto dall’art. 48. La prevalenza delle convenzioni conclusive anteriormente alla vigenza del Trattato,
in questo caso cede il passo al rispetto di un principio fondamentali.
3.4 LIBERA CIRCOLAZIONE DI CAPITALI E PAGAMENTI
Il Trattato di Maastricht del 1993 ha modificato in maniera sostanziale la disciplina dei movimenti
dei capitali e dei pagamenti, incidendo in settori del mercato comune, quali la liberalizzazione dei servizi
finanziari, bancari, assicurativi e dei movimenti di capitale, in precedenza di competenza
prevalentemente degli ordinamenti interni.
Il Trattato di Maasrticht considera unitariamente i capitali ed i pagamenti, fino ad allora oggetto di
una disciplina disorganica, garantendo (artt. 67-73 e 73B-73H) la libera circolazione in ambito
comunitario. L’art. 73B a tal fine pone un divieto a carattere generale, che riguarda sia le restrizioni
dirette che quelle indirette, previste da disposizioni amministrative, comprese quelle di natura
Sedondo Amatucci in, Divieto di discriminazione fiscale dei lavoratori subordinatamente nell’ambito dell’U.E., in Dir. e Prat. Trib.,
1996, II, p. 154, la decisione della Corte nel caso Schumacker, non ponendo un divieto assoluto di discriminazione nel
settore delle imposte dirette, ma tracciando un limita seppure generico oltre il quale il diverso trattamento fiscale è
considerato discriminatorio, ha operato una importante discriminazione tra norme interne antielusive, che giustificano il
diverso trattamento fiscale, e norme interne discriminatorie, nei confronti dei contribuenti che si trovano in altri Paesi
membri che risultano in contrasto con il diritto comunitario.
42
36
tributaria43. Deve, però, avvertirsi che la Corte di giustizia non ha riconosciuto l’efficacia diretta delle
norme comunitarie sulla libera circolazione dei capitali, disconoscendo, in definitiva, il ricorso a tali
norme ai fini della valutazione di compatibilità con il diritto comunitario di quelle norme restrittive che
incidono sul reddito di capitale.44
Tale orientamento si giustifica considerando che il trattamento fiscale, che ostacola la
circolazione dei capitali, contrasta generalmente con le altre libertà fondamentali previste dal Trattato
CE, ritenendosi la complementarità appunto della libera circolazione di capitali alle altre libertà
fondamentali previste dal Trattato. Pertanto una restrizione della circolazione dei capitali, che derivi da
una legittima restrizione di altre libertà fondamentali e che, quindi, sia compatibile con queste ultime,
può non essere proibita dall’art. 73B e non deve essere considerata in base alle norme sulla libera
circolazione dei capitali.
L’art. 73D prevede la possibilità di derogare l’art. 73B in taluni specifici casi, consentendo
restrizioni in materia tributaria compatibili con il principio di libera circolazione dei capitali, con al
finalità di preservare alcuni interessi degli Stati membri. La legittimità delle misure restrittive della libertà
di circolazione dei capitali è, però, esclusivamente limitata a due categorie di norme, quelle antielusive e
antifrode e quelle di ordine pubblico e di pubblica sicurezza.
Così l’art. 73D conferisce agli Stati membri il potere necessario per distinguere gli investitori
residenti dai non residenti e tra capitale nazionale e capitale di fonte straniera. Contestualmente, però, al
terzo comma (ponendo il divieto di discriminazione arbitraria45 e di restrizioni ingiustificate alla libera
circolazione di capitali) si vuole garantire che, mediante le misure fiscali restrittive adottate, debbano
essere effettivamente perseguiti gli obiettivi indicati rigorosamente dalla norma stessa e che, nel caso in
cui essi potrebbero essere perseguiti diversamente in maniera non restrittiva o meno restrittiva per i
contribuenti, le norme nazionali debbano considerarsi incompatibili con il Trattato, in quanto
discriminatorie.
Le misure restrittive devono, quindi, essere ispirate al principio di proporzionalità. L’art. 73D
cerca di conciliare gli obiettivi di antielusione e di antiabuso delle norme tributarie interne, che
prevedono un diverso trattamento dei redditi di capitale con il divieto di discriminazione internazionale
previsto dal Trattato. Ma l’obiettivo antielusivo, che giustifica il diverso trattamento fiscale tra
contribuenti, non sempre si realizza correttamente in rapporto alle diverse situazioni, che
concretamente si verificano. Come in maniera esemplare ha dimostrato il caso Schumacker, talvolta la
norma antielusiva diventa discriminatoria, spettando, in definitiva, all’interprete discernere tra la finalità
antielusiva che giustifica il diverso trattamento e l’effetto discriminatorio che contrasta con il diritto
comunitario.
4.1 COERENZA DEL SISTEMA FISCALE E DIVERSITÀ DI TRATTAMENTO DEI NON RESIDENTI
Tra le motivazioni del diverso trattamento fiscale da parte di un Paese nei confronti di un non
residente che produce reddito nel suo territorio, particolarmente rilevante è la coerenza del sistema
fiscale. Tale motivazione può considerarsi fattispecie della rule of reason, principio che permette la
Nella sentenza Svensson, 14 novembre 1995, caso 484/93, in Racc., p. 395, la Corte di giustizia ha stabilito che l’art. 73B
pone un divieto nei confronti di tutte le restrizioni che ostacolano direttamente o indirettamente la circolazione dei capitali e
dei pagamenti comprese le norme nazionali tributarie.
44 V. la sentenza Van Eycke, caso 267/86 del 21 settembre 1988, in Racc., p. 4769. Alla stessa conclusione si era già pervenuti
con riferimento all’art. 67, 1°c., del Trattato CE il quale stabilisce che” Gli Stati membri sopprimono gradatamente fra loro,
nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune, le restrizioni dei capitali appartenenti a persone
residenti negli Stati membri e le discriminazioni di trattamento fondate sulla nazionalità o la residenza delle parti o sul luogo
di collocamento del capitale”. In tal senso Ballarino, in Lineamenti di diritto comunitario, Cedam, Padova, 1997, p. 338, il quale
ritiene che la presenza nel test dell’art. 67 dell’inciso “nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune”
ha portato a concludere che la norma non era direttamente applicabile.
45 Secondo F. Amatucci, Il principio di non discriminazione fiscale, cit., p. 155, la discriminazione arbitraria proibita dal comma 3
dell’art. 73D, va interpretata, alla luce soprattutto della sentenza Schumacker, come il diverso trattamento di contribuenti
che si trovano nella stessa situazione, nonostante la residenza o il luogo di investimento.
43
37
restrizione delle libertà fondamentali del Trattato da parte di una norma nazionale, se giustificata da
ragioni di pubblico interesse.46
Un esempio di applicazione del principio di coerenza del sistema fiscale da parte della Corte di
giustizia si è avuto nel caso Bachmann ; in tale caso la Corte ha considerato legittime le ragioni
dell’Amministrazione finanziaria del Belgio, che sosteneva l’intento della legge di garantire la coerenza
del sistema fiscale, basata sulla compensazione tra l’agevolazione fiscale e la conseguente applicazione
dell’imposta sul reddito. Nel caso specifico, la coerenza del sistema fiscale giustifica che un Stato
membro, che concede la deducibilità dei premi di assicurazione corrisposti in un altro Stato, debba
riscuotere l’imposta sul reddito di capitale percepito dai beneficiari, in esecuzione dei contratti di
assicurazione sulla vecchiaia e sulla morte. Ne consegue, pertanto, che non sono deducibili i premi
versati a compagnie con sede in un altro Stato membro, che si presume percepirà l’imposta sui redditi di
capitale47.
In definitiva, la Corte ha individuato, nel collegamento tra la norma agevolative e la norma
istitutiva del tributo, una legittima ratio che giustifica una diversità di trattamento fiscale, rendendo
compatibili al Trattato e non discriminatorie le specifiche norme dell’ordinamento fiscale belga.
Tale decisone della Corte si presta, però, a qualche rilievo critico: infatti, è evidente che la legge
tributaria belga ostacolava l’esercizio dell’attività professionale dei non residenti e l’esercizio del diritto
alla libera circolazione degli assicuratori stranieri, non garantendo l’assoggettamento ad imposta in
Belgio del capitale corrisposto da questi ultimi e escludendo, di conseguenza, la deducibilità dei premi
versati.
Infatti, tutti gli accordi contro la doppia imposizione internazionale stipulati dal Belgio
prevedono che tale Paese rinunci all’imposizione sul reddito di capitale derivante da premi di
assicurazione, qualora i beneficiari di tale reddito abbiano la residenza in un altro Stato al momento in
cui il versamento è effettuato.
La ratio della norma interna discriminatoria andrebbe, dunque, individuata nell’obiettivo di
garantire la riscossione di imposte sul reddito di capitale dai cittadini residenti in un Paese membro, che
stipulino contratti di assicurazione con compagnie straniere e siano ancora residenti in quel Paese al
momento in cui è a loro corrisposto il premio, evitando che tali soggetti (pur avendo usufruito della
deducibilità) possano evadere l’imposta, a causa della mancata conoscenza da parte
dell’Amministrazione finanziaria del versamento del capitale da parte di una compagnia straniera.
Tale funzione antievasiva, però, alla luce dei principi enunciati nella sentenza Schumacker , finisce
col discriminare particolarmente quei non residenti che producono la maggior parte o la totalità del
proprio reddito in Belgio, in quanto questi non possono nemmeno dedurre i premi versati dal reddito
imponibile nel proprio Stato di residenza, a causa dell’assenza o dell’insufficienza di redditi imponibili
prodotti in detto Stato. In definitiva, il riconoscimento della coerenza del sistema fiscale, come
giustificazione di un diverso trattamento fiscale da parte di uno Stato membro, può indurre a ritenere
legittime talune leggi tributarie discriminatorie, purché si dimostri l’esistenza di tale coerenza; questa
tendenza, però, rischia di vanificare i passi compiuti dalla Corte per eliminare il fenomeno della
discriminazione fiscale nel settore delle imposte dirette.48
Il concetto di rule of reason è stato elaborato inizialmente dalla Corte di giustizia nella sentenza Cassis de Dijon del 20
febbraio 1979, causa 120/78, in Racc., p.649. In essa la Corte stabilì che gli ostacoli alla circolazione intracomunitaria
derivanti dalle disparità delle legislazioni nazionali vanno accettati qualora considerati come necessari a soddisfare esigenze
imperative attinenti all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute, alla lealtà dei negozi commerciali, alla difesa
dei consumatori. V. pure European Tax Law del 1997, p. 19.
47 Il caso Bachmann riguardava la situazione di un contribuente, cittadino tedesco residente in Belgio, che si era trasferito e
lavorava in tale Paese e che, avendo sottoscritto un contratto di assicurazione con una compagnia tedesca, aveva dedotto
fiscalmente, dal reddito prodotto in Belgio i premi versati a quella compagnia assicuratrice; ma, l’Amministrazione
finanziaria belga, gli aveva negato tale deducibilità in quanto la compagnia di assicurazione aveva la propria sede centrale in
un altro Paese membro. Per la ricostruzione del caso Bachmann, e per i relativi riferimenti dottrinari e giurisprudenziali, Cfr.
F. Amatucci, Il principio di non discriminazione fiscale.
48 Per i difficili e spesso non omogenei percorsi della Corte in tema di equilibrio tra coerenza dei sistemi fiscali ed esigenze di
non discriminazione fiscale, cfr. Arrese-Roccataglia, La Corte di Giustizia ci ripensa: la coerenza del sistema fiscale non può giustificare i
trattamenti discriminatori, in Dir. e Prat. Trib., 1996, p. 668.
46
38
4.2 UGUAGLIANZA FISCALE ED IMPOSIZIONE DEI RE DDITI
Dalla sentenza BIEHL la Corte di giustizia ha sempre utilizzato le interpretazioni dell’art. 48 del
trattato relativo alla libera circolazione dei lavoratori salariati e l’art. 52 relativo al diritto di stabilimento
per creare un’insieme di regole relative all’imposizione dei redditi, alle competenze e obblighi di ogni
Stato nei confronti di ogni cittadino europeo e sull’uguaglianza di trattamento fiscale. Due recenti
decisioni della Corte di giustizia relative all’imposizione del reddito delle coppie sposate dimostrano una
giurisprudenza ben salda sulla portata delle competenze degli stati in materia di fiscalità dei redditi. Per
quanto riguarda la decisione Frans Gschwind (C-391/97), la Corte sostiene che non è incompatibile
con l’art. 48 una legislazione nazionale che tiene conto della situazione personale e familiare delle
coppie sposate non residenti nello stesso modo in cui fossero residenti, a condizione che almeno il 90%
del reddito globale sia sottoposto all’imposta sul reddito in questo Stato. Questo vantaggio fiscale può
essere negato alle coppie sposate non residenti in questo Stato se più del 10% del loro reddito viene
tassato nello Stato di residenza. Nella decisione Zurstrassen (C-87/99), la Corte giudica incompatibile
con l’art. 48 una regolamentazione nazionale che, in materia di imposta sui redditi, rifiuta di tenere
conto della situazione personale e familiare di un lavoratore residente in questo Stato, dove percepisce
la quasi- totalità dei redditi della famiglia perché il coniuge risiede in un altro Stato membro. Tuttavia
mancano obiettivi di armonizzazione delle imposte dirette degli Stati e la sola giurisprudenza non può
condurre a risultati notevoli sul piano dell’uguaglianza di trattamento fiscale tra residenti e non residenti
di uno Stato e tra residenti di uno Stato e quelli di un altro. Qualche soluzione si è avuta riguardo il
trattamento dei cittadini non residenti che esercitano un’attività in uno Stato di cui non hanno la
nazionalità e che tante volte sono stati l’oggetto di legislazioni discriminatorie in materia fiscale. Da
sempre gli Stati hanno distinto le due categorie di contribuenti, riservando ai non residenti il rigore della
regola fiscale, non solo per le difficoltà del calcolo dell’imposta che li riguarda, ma anche perché sono
stranieri. La giurisprudenza comunitaria sull’imposizione dei redditi si basa su quattro regole che sono
richiamate nella maggior parte delle sentenze: la competenza esclusiva, ma non discrezionale degli Stati;
la fiscalità diretta è di competenza degli Stati membri, ma essi devono esercitarla nel rispetto del diritto
comunitario.
A differenza della fiscalità indiretta, largamente armonizzata ad opera di direttive, quella diretta non è
mai stata oggetto di armonizzazione europea, sia perché non prevista dal Trattato di Roma, sia perché
gli Stati non la ritengono necessaria per il funzionamento del mercato comune. Più volte la Corte ha
sottolineato l’assenza di norme in materia di fiscalità diretta, che avessero lo scopo di ostacolare la
doppia imposizione o la diversità di trattamento di cittadini che versassero nella stessa situazione. Lo
stesso articolo 220 del trattato che ha come obiettivo l’eliminazione della doppia imposizione non ha
applicazione diretta tale da poter essere invocato da ogni cittadino di fronte ai tribunali nazionali; una
regolamentazione comunitaria in tal senso attaccherebbe la sovranità degli Stati nella materia fiscale. Si
cerca, pertanto, di raggiungere questi obiettivi facendo leva sul rispetto delle libertà fondamentali
garantite dal Trattato. A questo proposito si può ricordare il caso della Francia sulla “cotisation sociale
généralisé”, in cui la Corte sostiene che gli articoli del trattato relativi alla libera circolazione delle
persone, delle merci, dei servizi e dei capitali costituiscono delle disposizioni fondamentali e ogni
ostacolo, anche di minima portata, è proibito. Le due categorie di discriminazione incompatibili con il
principio ugualitario.
È proibita ogni discriminazione in base alla nazionalità. La corte ha precisato ciò che intende
per discriminazione secondo la nazionalità. Si realizza quando lo stato applica delle regole diverse a
situazioni analoghe, o quando applica regole analoghe a situazioni diverse.
La prima è la più solita nel contenzioso fiscale comunitario relativo all’imposizione dei redditi.
Nel caso Commission/France la commissione accusa la Francia di assoggettare alla contribuzione
sociale generalizzata e alla contribuzione per la ripresa del debito sociale le persone residenti in Francia
ma
esercenti
un’attività
professionale
in
un
altro
stato
membro.
Queste erano tenute a contribuire al finanziamento del regime di Sécurité sociale dello stato di impiego
e dello stato di residenza, violando la regola dell’applicazione di un'unica legislazione in materia di
Sécurité sociale, allorché i contribuenti residenti in Francia ed ivi esercenti la loro attività professionale
sono tenuti a finanziare solo il regime francese.
39
L’applicazione della stessa regola a tutti i residenti in Francia ha costituito un ostacolo alla
libertà di stabilimento e di circolazione dei lavoratori. La concezione rigorosa della parità di trattamento.
La parità di trattamento proibisce non solo le discriminazioni basate sulla nazionalità, ma anche
ogni altra forma indiretta che, in applicazione di altri criteri di distinzione, conducano di fatto allo stesso
risultato. Non è ammessa deroga a tale principio né per giustificare la necessità di garantire la coerenza
di un sistema fiscale (Schumacker, Wielockx, Asscher), né l’affermazione di procedure di condono
gratuite che permettano ai non residenti di beneficiare delle stesse regole riservate ai residenti (Biehl,
Schumacker), né infine l’affermazione di dover garantire l’efficacia della riscossione dell’imposta dei
non residenti. La validità condizionale delle discriminazioni riguardanti specificamente i non residenti.
La corte di giustizia non riconosce l’esistenza di un principio di parità di trattamento tra i cittadini dei
diversi Stati per l’applicazione delle leggi fiscali nazionali, ma segue una linea di mezzo. Se le
discriminazioni di ogni sorta basati sulla nazionalità sono proibite, gli stati restano in diritto di applicare
regole specifiche ai non residenti. Tuttavia questa facoltà di tassare in modo specifico i non residenti
non deve condurre in realtà a sovratassare i cittadini degli altri stati membri e ad avvantaggiare i
nazionali. Le due situazioni non sono in regola compatibili: per il residente stato di impiego e di
residenza coincidono; per il non residente sono due diversi. La situazione personale e familiare del
contribuente viene valutata nello stato di residenza, per cui lo stato di impiego non terrà mai conto della
situazione del non residente. Il diritto tributario comunitario non garantisce la parità di trattamento dei
cittadini comunitari in uno stesso stato.
La parità di trattamento fiscale tra i residenti e non residenti di uno stato non si richiede allo
stato se queste due categorie di contribuenti si trovano in situazioni analoghe. In mancanza lo stato
deve istituire a mantenere discriminazioni fiscali per i non residenti. L’uguaglianza fiscale suppone
situazioni oggettivamente analoghe.
Nel contenzioso fiscale della corte è tramite una violazione della libertà di stabilimento o di
circolazione garantite dal trattato che si aprirà il dibattito sulla violazione del principio ugualitario. Così,
l’assenza di valutazione della situazione personale e familiare da parte dello stato di impiego
(Schumacker, Wielock); l’applicazione di un tasso sul reddito dei non residenti superiore a quello dei
residenti (Asscher); condizioni procedurali di rimborso di imposta sui redditi del non residente sono
stati giudicati incompatibili nei casi Biehl e Shumacker. La corte di giustizia ha considerato che riguardo
alle misure nazionali contestati i non residenti si trovano nella stessa situazione dei residenti e che
pertanto devono essere sottoposti allo stesso trattamento fiscale. Queste identità di situazione è
contestata in due ipotesi. Quando un non residente esercita un’attività economica nelle stesse
condizioni di un residente, uno stato membro non può sottoporlo ad un trattamento fiscale più
sfavorevole come una sovrattassazione (Asscher) o la negazione di un rimborso.La percezione dei
redditi in due stati giustifica la non personalizzazione dell’imposta nello stato di impiego.
La percezione di redditi nello stato di residenza impedisce ad un non residente di beneficiare
nello stato di impiego di misure di personalizzazione dell’imposta applicabili ai residenti. La corte
considera che riguardo alla personalizzazione dell’imposta la situazione dei residenti e non residenti è
obiettivamente diversa. Una regolamentazione che riconosce alle coppie sposate residenti il beneficio
della considerazione della situazione personale familiare, e che subordina la concessione dello stesso
beneficio alle coppie sposate non residenti alla condizione che almeno il 90% del reddito globale sia
sottoposto all’imposta sul reddito in tale stato, è stata oggetto di interpretazione della corte
(Schumacker, Wielock). Il diritto fiscale comunitario non garantisce, in materia di imposizione dei
redditi, la parità di trattamento fiscale dei cittadini in uno stesso stato, perché la situazione di residenti e
non residenti non è a priori paragonabile. Il diritto internaziona le convenzionale non garantisce neanche
la parità di trattamento di uno stesso cittadino in due stati diversi. Il diritto internazionale convenzionale
non garantisce neanche la parità di trattamento di uno stesso cittadino in due stati diversi.
Nel caso Gilly la corte illustra la carenza di un diritto fiscale comunitario in materia di eliminazione di
doppia imposizione. Gilly denunciava l’incompatibilità con la libertà di circolazione dei lavoratori delle
disposizioni della convenzione fiscale franco-tedesca riguardo il regime applicabile ai lavoratori
frontalieri e agli insegnanti, oltre che la tecnica del credito di imposta che conduce a sovratassare i
lavoratori frontalieri rispetto ai residenti che esercitano il loro impiego nello stato di residenza. La corte
40
giudica che le disuguaglianze e le sovratassazioni non sono incompatibili con l’art. 48 del trattato.
Mancano disposizioni di fonte comunitaria riguardo la parità di trattamento fiscale e l’art. 220 che si
prefigge l’eliminazione di doppia imposizioni non è di diretta applicazione. La corte stabilisce che
l’oggetto delle convenzioni fiscali internazionali sulle doppie imposizioni è di evitare che gli stessi
redditi siano tassati due volte nei due stati, ma non di garantire al contribuente un tasso minore in uno
dei due stati.
4.3 COOPERAZIONE TRA LE AMMINISTRAZIONI FINANZIARIE
Un problema rilevante riguarda le difficoltà che le Amministrazioni finanziarie di ogni singolo
Paese membro incontrano nella raccolta degli elementi necessari per sottoporre ad imposizione tutti i
redditi percepiti da un contribuente, che svolga la propria attività nel territorio di altro Paese e che sia
residente in un altro Stato membro. Infatti, la conoscenza di tale situazione è riservata
all’Amministrazione Finanziaria dello Stato di residenza, che è maggiormente in grado di averne esatta
cognizione.
Nonostante tali difficoltà possano considerarsi oggettive, la Corte di giustizia tende a
ridimensionarle, sostenendo che non si frappongano ostacoli di ordine amministrativo alla conoscenza
della situazione personale e familiare di un non residente che svolga attività in un altro Stato, in quanto
le informazioni reciproche necessarie sono ottenibili in base alla direttiva N. 77/799 (relativa alla
reciproca assistenza tra Autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette).49
La Corte ha, però, riconosciuto i limiti della direttiva, la quale non impone la cooperazione tra
gli Stati membri nei casi in cui la loro legislazione e le loro disposizioni amministrative non autorizzano
l’Amministrazione Finanziaria a svolgere ricerche, né a raccogliere o utilizzare informazioni necessarie.
Inoltre, l’art. 8 della direttiva 77/799 pone una particolare limitazione, stabilendo che l’Autorità
competente di uno Stato può rifiutarsi di fornire informazioni quando lo Stato interessato, per motivi di
fatto, o di diritto, non è in grado di garantire la reciproca cooperazione.50
Inoltre, secondo la giurisprudenza della Corte, la carenza di informazioni provenienti da altri
Stati membri non motiva la mancata concessione di agevolazioni fiscali nei confronti di contribuenti
stranieri: infatti, le legislazioni nazionali possono consentire alle Amministrazioni Finanziarie di esigere
dagli interessati le prove che esse ritengano necessarie, ove queste non siano fornite in tempi
ragionevoli, di negare il beneficio fiscale.
La difficoltà di accertare la situazione soggettiva del contribuente non legittima, perciò, la
mancata concessione di agevolazioni fiscali nei confronti dei non residenti da parte degli Stati membri.
Ponendo il principio della conoscenza della capacità contributiva complessiva di un
contribuente non residente come requisito fondamentale per garantire l’eguale trattamento fiscale, la
Corte di giustizia ha forse sottovalutato il problema della cooperazione tra le Amministrazioni
Finanziarie dei Paesi membri. Infatti, non è tanto la partecipazione del contribuente alla raccolta delle
prove, quanto lo scambio d’informazioni tra gli Stati membri che rende possibile conoscere la
situazione patrimoniale e reddituale del non residente nel suo Stato di residenza, permettendo così di
stabilire correttamente la capacità contributiva personale ed evitare disparità di trattamento.51
La direttiva 77/799 (pur rappresentando certamente un passo importante verso la reciproca
assistenza delle Autorità competenti degli Stati membri, per la determinazione della base imponibile),
Cfr. Carli, La cooperazione comunitaria in materia tributaria: l’armonizzazione delle normative nazionali e la reciproca assistenza
amministrativa, in Legislazione e giurisprudenza tributaria, 1982, p. 783.
50 Il rispetto del principio di reciprocità, previsto dall’art.8 della direttiva CEE 77/799, garantisce ogni Stato membro nei
confronti di possibili sperequazioni a danno o a vantaggio dell’altro, ma può tradursi in facile pretesto per non aderire in
qualche caso concreto alle richieste di informazioni sul presupposto che incerti ed incontrollabili sono i criteri ed i metodi di
confronto tra i due sistemi fiscali; Sacchetto, in Tutela all’estero del credito tributario dello Stato, Cedam, Padova, 1978, p. 227.
51 La legge nazionale che concede le agevolazioni fiscali ai non residenti, in seguito all’assunzione delle prove fornite dagli
stessi, determina chiaramente un’inversione dell’onere della prova che si trasferisca dall’Amministrazione Finanziaria ad essi
in conseguenza della consapevolezza degli ostacoli operativi allo scambio di informazioni e alla diversità della disciplina da
parte degli ordinamenti interni dei procedimenti tributari. Amatucci, Il principio di non discriminazione fiscale, Cedam Padova,
1998.
49
41
non riesce a mascherare carenze intrinseche che, aggiungendosi alle concrete difficoltà delle leggi
nazionali di attuazione, ostacolano notevolmente l’eliminazione della discriminazione fiscale nei
confronti dei non residenti.52
Per di più, la cooperazione tra le Amministrazioni Finanziarie consente anche di prevenire e
reprimere l’elusione e l’evasione fiscale internazionale, da cui spesso dipendono le motivazioni del
diverso trattamento fiscale da parte dei Paesi membri nei confronti dei non residenti e residenti, che
intraprendono operazioni commerciali in altri Paesi.53
Una pratica elusiva particolarmente diffusa nelle operazioni internazionali consiste nella scelta
della più opportuna collocazione territoriale, attuata mediante i trasferimento della residenza del
contribuente nei Paesi in cui il sistema giuridico tributario offre complessivamente maggiori vantaggi.54
La volontà di eliminare le condizioni che favoriscono l’elusione e l’evasione fiscale, tuttavia, non
legittima il contrasto delle norme interne con i principi fondamentali sanciti dal Trattato55.
Tutto ciò rende ancora di più evidente l’importanza di una efficace collaborazione tra le
Amministrazioni Finanziarie dei singoli Paesi membri, in assenza di un sistema finanziario comunitario
di tipo federale.
4.4 LE CONVENZIONI CONTRO LA DOPPIA IMPOSIZIONE
Interessante è analizzare comparativamente il principio di non discriminazione fiscale, sancito
dall’art. 24 del modello OCSE, con l’analogo principio contenuto nel diritto comunitario, nella sfera
delle imposte dirette, attraverso disposizioni non fiscali dei Trattato.
Innanzitutto, una prima e rilavante differenza consiste nel fatto che mentre il par. 1 dell’art. 24
del Modello OCSE stabilisce un principio di non discriminazione basato esclusivamente sulla
cittadinanza o sulla nazionalità, le norme comunitarie riguardano persone fisiche e giuridiche, operanti
all’interno della comunità, discriminate fiscalmente anche in base alla residenza. La giurisprudenza della
Corte ha chiarito, infatti, che il diritto comunitario, anche se vieta formalmente solo la discriminazione
in base alla cittadinanza, in realtà proibisce ogni altra forma di trattamento differenziato che, fondandosi
su altri criteri distintivi, perviene comunque allo stesso risultato discriminatorio. Pertanto, come già
evidenziato, anche le leggi tributarie interne, che istituiscono er il non residente imposte dirette più
gravose rispetto al residente, devono considerarsi alla stregua di forme indirette di discriminazione.56
In secondo luogo, diverse sono le conseguenze dalle violazione del principio di non
discriminazione nel caso in cui si tratti di diritto convenzionale e nelle ipotesi in cui, invece, si operi in
materia di diritto comunitario. Infatti, nel primo caso acquistano rilevanza soprattutto le relazioni
intercorrenti tra gli Stati contraenti, nel secondi si evidenzia il contrasto della norma tributaria rispetto ai
principi fondamentali del Trattato, quali la libera circolazione dei lavoratori, la libertà di stabilimento e
la libera prestazione dei servizi operanti in tutti i Paesi membri.
Inoltre, l’esigenza di garantire l’applicazione uniforme delle norme, che prevedono un divieto di
discriminazione nell’intera comunità, impone che esse non vengano interpretate
Adonnino, Cooperazione amministrative e modalità di scambio di informazioni tra Amministrazioni fiscali nazionali, in Quaderni del
Ministero delle Finanze, 1995, p. 52.
53 Sacchetto, L’evoluzione della cooperazione internazionale tra le amministrazioni finanziarie statali in materia di IVA ed imposte dirette:
scambio di informazioni e verifiche incrociate internazionali, in Boll.Trib., 1990, p. 564.
54 Per verificare se un comportamento è elusivo o meno, occorre ricercare alla base di un’azione posta in essere da un
contribuente, l’esistenza di una ragione significativa che giustifica il suo comportamento. Lovisolo, Elusione ed evasione fiscale
nei rapporti internazionali, in Dir. E Prat. Trib., 1986, p. 1198.
55 Nella citata sentenza Avoir fiscal, la Corte di giustizia afferma che il rischio di sottrarsi alla progressività dell’imposta sul
reddito non può giustificare il rifiuto di concedere una agevolazione fiscale ad un non residente. La Corte ha quindi stabilito
che il rischio di evasione fiscale non può consentire di derogare al principio fondamentale della libertà di stabilimento di cui
all’art. 52 del Trattato.
56 Terra-Wattel, in European Tax Law, cit., p. 30, ha osservato che la Corte di giustizia ha cercato di trovare un compromesso
tra il diritto internazionale tributario e i principi sanciti dal Trattato CE, riconoscendo la distinzione tra residenti e non
residenti che non sono nella stessa situazione. La differenziazione di trattamento fiscale è tuttavia consentita solo in
presenza di obiettivi e rilevati diversità che la giustifichino.
52
42
autonomamente dagli Stati membri, nell’ambito del diritto convenzionale il problema
interpretativo, disciplinato dall’art. 3 (2) del Modello OCSE, comporta quasi sempre il ricorso alla
legislazione dello Stato contraente che applica il tributo.
E restando in tema d’interpretazione, deve dirsi che sia il principio di non discriminazione
fiscale (previsto dal Modello OCSE per accordi internazionali diretti ad evitare la doppia imposizione)
che quello sancito dal Trattato CE sono interpretati nel senso che uno Stato contraente, che concede
una agevolazione ai propri residenti, non è obbligato a riservare lo stesso trattamento ai non residenti.
CAPITOLO IV
1.1 AGEVOLAZIONI
La concessione, operata da una norma interna, di agevolazioni fiscali esclusivamente a favore
dei beni nazionali costituisce spesso una politica protezionistica con effetto discriminatorio.
Il diritto comunitario, tuttavia, non pone un divieto assoluto di talune esenzioni o riduzioni
d’imposta a favore dei soli prodotti nazionali, in particolare se funzionali a tutelare categorie di imprese
a ridotta capacità contributiva; in generale, ed anche in tali casi, si rende necessaria la verifica della
compatibilità degli obiettivi, perseguiti attraverso le agevolazioni, con le norme ed i principi del Trattato.
I procedimenti mediante i quali uno Stato può agevolare la produzione di una impresa nazionale
sono diversi. Comunque, l’obiettivo dello Stato di concedere le agevolazioni fiscali alle proprie imprese
a svantaggio di quelle straniere è essenzialmente perseguibile attraverso due procedimenti: un primo,
mediante il quale la legge tributaria riserva il beneficio alla produzione nazionale attraverso il
collegamento del suddetto beneficio alle particolari caratteristiche dei prodotti; un secondo, in base al
quale la legge tributaria si limita a precisare che solo la produzione nazionale può beneficiare delle
agevolazioni.
Nella complessiva giurisprudenza della Corte in materia di trattamenti discriminatori e
protezionistici attuati mediante agevolazioni fiscali, risulta affermato più volte che il principio di non
discriminazione non va inteso come divieto di qualsiasi trattamento differenziato, rilevando che l’art. 95
del Trattato non pone limiti agli Stati membri di istituire il regime fiscale che ritengono più idoneo per
ciascun prodotto. Tuttavia, la potestà tributaria non deve essere esercitata dallo Stato membro in modo
da proteggere la produzione interna ed alterare gli equilibri di concorrenza tra prodotti nazionali e
prodotti stranieri.
La ratio dell’art. 95 richiede che le agevolazioni fiscali, previste dall’ordinamento interno per i
prodotti nazionali, vengano estese senza discriminazione ai beni prodotti dagli altri Stati membri, aventi
gli stessi requisiti sostanziali. Specificatamente, le agevolazioni fiscali stabilite dalla legislazione di uno
Stato membro devono essere estese ai prodotti originari di altri Stati membri che rispondano
simultaneamente al criterio della similarità, alle condizioni cui la legislazione nazionale subordina il
godimento delle agevolazioni in questione.
Significativo è, a tal proposito, cogliere l’analogia tra i concetti di similarità e di stessa situazione
considerati dalla Corte di Giustizia, come presupposti per l’estensione di agevolazioni fiscali nei
confronti sia dei beni che delle persone provenienti da altri Paesi membri.
Non sembra, invece, convincere l’estensione automatica ai prodotti importati dal trattamento
fiscale più favorevole tra quelli previsti dalla clausola della nazione più favorita comunitaria, la quale
appunto determinerebbe il riconoscimento implicito del divieto di mantenere in vigore qualsiasi sistema
agevolativo. Nessuno Stato membro, infatti, potrebbe conservarlo, se non a condizione di estenderlo
alle importazioni da altri Stati membri di distinguere i trattamenti fiscali tra prodotti nazionali e
importati.
La difficoltà di estendere il trattamento favorevole ai beni importati deriva essenzialmente dalla
subordinazione delle agevolazioni fiscali al possesso degli stessi requisiti dei prodotti nazionali, la cui
presenza non sempre può essere agevolmente accertata.
L’estensione del trattamento favorevole ai prodotti importati trova poi un ostacolo
insormontabile, quando le condizioni richieste non possono essere realizzate dai produttori nazionali.
43
In tali casi, se l’assimilazione tra prodotto nazionale ed importato risulta praticamente
impossibile, il Paese membro dovrebbe eliminare la discriminazione, diretta o indiretta, a svantaggio
delle merci importate.
In definitiva, le difficoltà maggiori, connesse all’estensione delle agevolazioni fiscali ed
all’eliminazione della discriminazione, sono costituite dalla impossibilità di effettuare una comparazione
delle diverse caratteristiche dei prodotti nazionali e di quelli importati, previste sia dalle norme tributarie
interne dei diversi Paesi membri, che dai processi di produzione , che dalla complessità delle procedure
di verifica e di controllo da parte dell’Amministrazione Finanziaria di tale Paese, nei confronti di beni
importati da altri Paesi membri.
Occorre ora verificare, attraverso l’interpretazione dell’art. 95 del Trattato, quali siano le
condizioni che rendano due prodotti, nazionale e straniero, similari.
A tal fine, possono individuarsi due criteri: un primo criterio individua la sussistenza della
relazione di similarità se i prodotti a confronto sono classificabili, per generale riconoscimento, nella
stessa categoria fiscale doganale o statistica.
Il problema più evidente in merito all’adozione di tale criterio misurativo del requisito di
similarità (criterio che, peraltro, col tempo ha perduto gran parte della sua rilevanza), è dato dalla
vigenza di diverse classificazioni dei prodotti similari similari nei singoli ordinamenti dei Paesi membri.
Tale pluralità di classificazioni rende (quella contenuta nell’ordinamento dello Stato esportatore)
rende priva di certezza la ricerca della legge applicabile al prodotto importato, favorendo il diverso
trattamento fiscale e l’elusione del divieto di discriminazione. Deve, quindi, evidenziarsi l’idoneità di un
simile criterio di qualificazione.
Il secondo criterio individua le condizioni di similarità nel caso in cui due prodotti abbiano, per i
consumatori, proprietà analoghe che rispondano alle medesime esigenze.
La similarità, in tale caso, non va valutata attraverso un criterio di identità rigorosa, ma in base a
procedimenti di analogia e di comparabilità nella loro utilizzazione. Tuttavia tale criterio, in base al quale
la valutazione del consumatore sembra prevalere sui dati obiettivi, non è in grado di esprimere principi
generali validi per la generalità dei casi.
Probabilmente, al fina di una valutazione corretta del carattere di similarità, è necessario un
procedimento articolato in due fasi, in cui è necessario dapprima prendere in considerazione un insieme
di caratteristiche obiettive dei due prodotti comparati e, in un secondo momento, la loro idoneità a
soddisfare le medesime esigenze dei consumatori.
1.2 L’ ART. 95 ED IL RAPPORTO DI CONCORRENZIALITÀ
Il secondo comma dell’art. 95 del trattato vieta agli Stati membri di applicare, ai prodotti degli
altri Paesi della Comunità, disposizioni interne che mirino a proteggere i prodotti nazionali concorrenti.
Tale norma può definirsi integrativa delle disposizioni del primo comma, in quanto è finalizzata
a colmare le lacune prodotte dalla carenza di un nesso di similarità o dalla difficoltà di prova del
trattamento discriminatorio fra prodotti nazionali ed importati.
I principi fissati da tale norma risultano molto generici e più ampi rispetto a quelli imposti dal
primo comma, nell’intento di evitare che, attraverso la potestà tributaria spettante agli Stati membri in
materia di imposte indirette, si determini, a mezzo di sottili artifici, la protezione di un determinato
settore della produzione nazionale.
Indubbiamente, tra i due commi dell’art. 95 intercorre un rapporto di reciproca integrazione ed
il secondo esprime una norma generale con funzione residuale, in quanto comprensiva di tutte le ipotesi
non previste o non riconducibili alla norma speciale, contenuta nel primo comma.
Peraltro, la corretta interpretazione del secondo comma dell’art. 95 porta ad affermare che il
divieto in esso previsto risulta diverso da quello del primo comma, in quanto non opera
automaticamente in base alla maggiore pressione fiscale sugli specifici prodotti importati considerati, ma
esige la presenza di ulteriori condizioni.
Il primo comma svolge prevalentemente il compito di stabilire un divieto per i prodotti similari;
il secondo comma, invece, si riferisce a tutti i prodotti non similari, ma comparabili ed opera in un
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settore più ampio, ma a condizione più limitate, cioè nelle sole ipotesi in cui la discriminazione persegua
lo scopo protezionistico, in cui sussista un’effettiva concorrenzialità tra i due prodotti.
Il principio di non discriminazione fiscale, previsto dall’art. 95, stabilisce implicitamente il
principio della tassazione del Paese di destinazione; l’esistenza di diverse aliquote nei singoli Stati
membri determinerebbe distorsioni di concorrenza e renderebbe le importazioni non competitive, se si
applicasse il principio di tassazione del Paese di origine.
La tassazione nel Paese di destinazione, invece, elimina tali distorsioni, garantendo la parità di
trattamento tra le merci nazionali e quelle provenienti da altri Stati membri, ma la sua operatività esige il
rispetto del principio di non discriminazione, che elimina le differenze di trattamento fiscale all’interno
dei singoli Paesi membri nei confronti dei prodotti importati e qualsiasi componente protezionistica a
favore dei prodotti nazionali.
La Corte di giustizia ha considerato violazione dell’art. 95 il caso in cui il mancato versamento
dell’IVA sulle importazioni di merci da altri Paesi membri veniva sanzionato più onerosamente, rispetto
ad analoghe omissioni verificatesi all'interno del Paese importatore.
Deve comunque sottolinearsi come, nell’ipotesi di completa armonizzazione dei sistemi
giuridici tributari, l’applicazione delle norme tributarie interne certamente non comporta situazioni di
discriminazione fiscale. La differenziazione nel trattamento è, infatti, conseguenza dell’incompletezza
del processo di armonizzazione dei sistemi fiscali dei Paesi membri, incompletezza il cui permanere
rende non impedibile l’applicazione dell’art. 95 ed il controllo della Corte di giustizia.
Pertanto, anche i tributi, le cui leggi istitutive siano state oggetto di armonizzazione ex art. 99 del
Trattato, rientrano nella nozione di imposizioni interne di cui all’art. 95 e devono ispirarsi al contenuto
di questa norma. Ne deriva che l’art. 95 non consente l’applicazione da parte di uno Stato membro
importatore del proprio regime IVA sui prodotti importati, in contrasto con quanto disposto da tale
norma.
Mentre, gli artt. 95 e 99 mantengono una netta differenziazione funzionale, l’art. 99 deve
applicarsi secondo criteri non discriminatori.
Come più volte ricordato, l’art. 95 vieta che un Paese membro applichi, a prodotti provenienti
da altri Stati membri, imposizioni interne maggiori di quelle gravanti sui prodotti nazionali, identici o
similari cercando di evitare che, in tal modo, si ripristino automaticamente gli ostacoli all’entrata,
difficilmente distinguibili dalle barriere vere e proprie.
Vi è, quindi, allo stesso tempo, analogia e complementarità rispetto alla funzione svolta dal
divieto dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente previsto dagli artt. 9 e 12 del Trattato.
Secondo la giurisprudenza comunitaria, l’art. 95 intende in particolare evitare che le norme del
Trattato, relative all’abolizione dei dazi doganali e delle misure di effetto equivalente, siano eluse
mediante l’istituzione di tributi nazionali che gravitino sulle merci importate, con una logica
discriminatoria rispetto a quelle di produzione nazionale. Le disposizioni dell’art. 95 sono, pertanto,
integrative delle norme relative all’abolizione dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente.
Una problematica oggetto di specifico interessamento della Corte ha riguardato la delimitazione
del concetto di “imposizioni interne” (contenuto nell’art. 95) e quello analogo di “tassa di effetto
equivalente” (artt. 9 e 12). La Corte ritiene che un medesimo tributo non sia riconducibile nell’ambito di
previsione sia dell’art. 95, che degli artt. 9 e 12. Mentre, infatti, queste norme vietano l’emanazione di
leggi nazionali che istituiscono tasse di effetto equivalente ai dazi doganali all’importazione o
all’esportazione da parte degli Stati membri, l’art. 95 si limita a vietare che i sistemi legislativi nazionali
prevedano disposizioni interne che abbiano funzione discriminatoria nei confronti dei prodotti
provenienti dagli altri Stati membri.
Da ciò si desume che le imposizioni interne, al contrario delle tasse di effetto equivalente che
colpiscono esclusivamente il prodotto importato, gravano su quest’ultimo e sulle merci nazionali, per
cui sono vietate solo se risultano discriminatorie nei confronti dei prodotti importati o hanno effetto
protezionistico in favore dei prodotti nazionali. Le tasse di effetto equivalente sono, invece, comunque
vietate in quanto è sufficiente che siano assimilabili per le modalità di imposizione ai dazi doganali.
Il criterio di distinzione proposto, però, non può considerarsi esaustivo e la stessa Corte ha
dovuto riconoscere che la prestazione patrimoniale imposta (avente natura di tributo interno) va
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considerata una tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale, nel caso in cui le modalità della
riscossione o la destinazione dei suoi proventi incidano unicamente sui prodotti importati. Un tributo
interno, che colpisca indistintamente prodotti nazionali ed importati, può, dunque, costituire un tassa di
effetto equivalente ad un dazio doganale, se il gettito ad esso ascrivibile venga destinato esclusivamente
a finanziare servizi, di cui fruiscono in modo specifico i soli prodotti nazionali.
Spesso non vengono considerati come tasse di effetto equivalente quegli oneri pecuniari che
rappresentano la contro prestazione di un servizio effettivamente reso all’importatore o all’esportatore,
che si traducono in un vantaggio specifico per costui. Le prestazioni pecuniarie imposte come
controprestazione di un servizio reso possono non rientrare nella sfera di applicazione degli artt. 9 e 12,
se corrispondono ad un vantaggio arrecato specificamente ed individualmente ad un operatore purché il
loro importo non ecceda il costo effettivo del servizio reso.
La Corte di giustizia, in numerosi casi, ha escluso l’applicabilità del principio del “servizio reso”,
in quanto il vantaggio che gli operatori economici traevano, beneficiando di un servizio pubblico, era
così generico da escludere che potesse essere considerato una controprestazione rispetto alla
prestazione patrimoniale imposta. Il criterio seguito dalla giurisprudenza comunitaria, per valutare
l’onere pecuniario come corrispettivo di un servizio individuale, si è basato sull’esistenza di un
vantaggio concreto e determinabile per il prodotto e sul conseguente rifiuto di considerare, come
servizio individuale, quei provvedimenti che vengono adottati in funzione dell’interesse generale.
CONCLUSIONI
La presenza di diversi sistemi tributari in ambito UE ha da sempre rappresentato un tangibile
ostacolo alla realizzazione di un mercato comune europeo. Dato che il Trattato non prevede
disposizioni specifiche sull'allineamento delle imposte dirette, il coordinamento fiscale è risultato
particolarmente difficile in materia. L'imposizione fiscale diretta deve naturalmente rispettare le quattro
libertà previste dal Trattato: libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali a cui
vanno aggiunti anche il diritto di stabilimento delle persone e delle imprese. Tuttavia, i progressi
ottenuti in questo settore rappresentano una risposta parziale a situazioni specifiche come la doppia
imposizione o le attività economiche transfrontaliere. Un aspetto cruciale è rappresentato proprio dalla
doppia imposizione, da quella possibilità di essere tassati due volte, in Stati membri differenti, per la
medesima ragione. Si tratta di un problema tipico del diritto tributario internazionale che in genere
viene risolto sulla base di convenzioni bilaterali fra i paesi interessati “…gli Stati membri avvieranno fra
loro, per quanto occorra, negoziati intesi a garantire, a favore dei oro cittadini……l’eliminazione della
doppia imposizione fiscale all’interno della Comunità…” (art. 293 CE, terzo trattino).
Un primo significativo passo verso l'armonizzazione fiscale europea ha riguardato l'eliminazione
dei dazi doganali tra gli stati membri. Questa disposizione era stata inserita nella"Risoluzione di
Messina" del 1955 e nel "Trattato di Roma" del 1957. L'armonizzazioneFiscale europea ha avuto inizio
con norme riguardanti le imposte sul fatturato, le accise, e altreforme di tassazione indiretta. Nel 1960,
una commissione di esperti fiscali e finanziari,guidata dal professor Fritz Neumark, fu incaricata di
esaminare il rapporto esistente tra la tassazionee la spesa pubblica in ciascun paese membro, con
particolare attenzione a quegli aspetti che potenzialmente potevano essere d'ostacolo alla creazione di
un mercato comune.
Nel 1963 la speciale commissione pubblicò il cosiddetto "rapporto Neumark" in cui si
evidenziarono tutti i fattori che impedivano la creazione di un mercato comune, la cui soluzione
consisteva nell'armonizzazione delle imposte sul capitale, sulle società, su quelle indirette e della
tassazione sui capital gains.
Bisognerà attendere il 1° dicembre 1997 quando il Consiglio europeo adotterà un "pacchetto
fiscale" di misure volte a combattere la concorrenza fiscale dannosa ed a rendere più dinamico il
coordinamento fiscale in seno all'Unione. Per evitare gli ostacoli dovuti alla complessità della materia
ma anche al rispetto della regola dell'unanimità nel processo di adozione delle decisioni, la
Commissione incoraggia attualmente il ricorso alla procedura di "cooperazione potenziata" introdotta
dal Trattato di Amsterdam e sviluppata dal Trattato di Nizza.
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Questa procedura permette alla Commissione di proporre che un gruppo di almeno otto Stati
membri possa cooperare su un dato argomento previo l'avallo del Consiglio a maggioranza qualificata.
Occorre inoltre incitare gli Stati membri per eliminare gli ostacoli fiscali dannosi attraverso proposte
legislative vincolanti.
L'imposta sul reddito costituisce il principale esempio delle difficoltà esistenti in ambito UE nel
conseguire un'armonizzazione fiscale in quanto ciascuno stato membro ha da sempre mostrato
riluttanza sulla perdita potenziale di qualsiasi tipo di controllo sulla propria fiscalità. L'armonizzazione
delle imposte sul reddito implica un allineamento tra i vari stati dell'Unione non solo delle aliquote
fiscali, ma anche della base imponibile e delle modalità in cui essa è determinata. Le principali ragioni
per cui ciascuno Stato membro è riluttante a rinunciare al controllo dell’imposizione diretta sono
rappresentate dal timore di perdere una fonte principale di entrata e dal venir meno dell’unico
strumento di politica macroeconomica rimasto ai governi nazionali per combattere gli shock avversi, dal
momento che la politica monetaria è accentrata e la politica fiscale è resa poco manovrabile dal Patto di
Crescita e Stabilità.
Oltre alle citate ragioni, uno degli aspetti che maggiormente impedisce l'allineamento dei sistemi
fiscali europei riguarda la "concorrenza fiscale" tra i diversi paesi UE, in base alla quale le varie
giurisdizioni utilizzano la leva fiscale per incoraggiare gli imprenditori e le persone fisiche a localizzarsi
nei loro paesi. Mentre tale politica porta indubbiamente dei vantaggi ai paesi con una bassa fiscalità,
d’altra parte determina una perdita di entrate tributarie per quelli con una pressione fiscale più alta. Un
esempio è dato dalla thin capitalization (la capitalizzazione sottile, che prevede il finanziamento delle
attività detenute all'estero mediante debito e non attraverso capitale) esistente nella maggior parte dei
sistemi fiscali dei paesi UE e di prossima introduzione anche nel sistema tributario italiano. Con la
normativa sulla thin capitalization si cerca di evitare il trasferimento di imponibile fiscale da paesi con
elevata pressione fiscale verso altri che ne presentano una più bassa. Infatti, le spese sostenute per gli
interessi passivi per prestiti finanziari in genere sono utilizzate per ridurre la base imponibile su cui
pagare le imposte. Simili manovre fiscali sono comunemente effettuate allo scopo di spostare ricavi da
paesi ad alta fiscalità verso altri a fiscalità più bassa e, quindi, allocare profitti presso questi ultimi. I
principali svantaggi di tali manovre fiscali elusive, consistono nella perdita di entrate fiscali per i governi
nazionali che cercano di arginarle con una potestà impositiva diretta. L'imposizione fiscale indiretta
richiede invece un alto livello di armonizzazione perché riguarda la libera circolazione delle merci e la
libera prestazione dei servizi.
Dal 1992, l'armonizzazione dell'imposizione fiscale indiretta è evoluta in modo decisivo con
l'introduzione del nuovo regime delle accise e di quello dell'imposta sul valore aggiunto intracomunitaria
basato sull'abolizione delle frontiere fiscali e doganali nonché sulla soppressione dei controlli doganali
alle frontiere tra gli Stati membri. Ed ancora, dal 1° ottobre 1997, la comunicazione della Commissione
sulla lotta contro la concorrenza fiscale dannosa ha avviato un approccio globale della politica fiscale.
Fino allora è sempre stato abbastanza difficile trovare le condizioni politiche per progredire in
questo settore e solo a seguito della riunione informale dei ministri dell'Economia e delle finanze,
tenutasi a Mondorf- les-Bains il 13 settembre 1997, la presidenza lussemburghese ha invitato la
Commissione a presentare un documento che potesse servire come base di un dibattito orientativo sulla
fiscalità. La Commissione aveva il solo scopo di definire un approccio coordinato nei confronti della
concorrenza fiscale dannosa e di orientare le strutture fiscali degli Stati membri in modo più favorevole
all'occupazione.
Le differenze fra i vari sistemi tributari nazionali sono oggi più evidenti e influenzano ancora di
più le decisioni in materia di assegnazione dei capitali. I rischi di concorrenza fiscale dannosa
aumentano in un contesto mondiale invaso dall'innovazione tecnologica ed in cui la globalizzazione
intensifica sempre più la mobilità dei servizi ed i movimenti di capitali. Essa diventerà una fonte
crescente di conflitti fra gli Stati se non si instaurerà un maggiore coordinamento, almeno a livello
europeo. La concorrenza fiscale è dannosa e la Commissione propone varie misure di lotta ed un
coordinamento più stretto in materia fiscale fra gli Stati membri, in particolare:mediante un codice di
condotta nel campo della tassazione delle società, regolamentando gli aiuti di Stato di natura fiscale;
attraverso una serie di ?misure atte ad eliminare le distorsioni dovute all'imposizione dei redditi da
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capitale o con??misure atte ad eliminare le ritenute alla fonte sui pagamenti transfrontalieri di interessi e
canoni fra società; con semplici meccanismi destinati ad eliminare le distorsioni rilevanti nel settore
delle imposte indirette.
Il codice di condotta in materia di tassazione delle società è uno strumento giuridicamente non
vincolante, sebbene preveda procedure di valutazione e di controllo. Esso contribuisce a prevenire
all'interno della Comunità le distorsioni economiche e l'erosione delle basi imponibili. Gli Stati membri
si impegneranno a rispettare i principi della concorrenza leale e ad astenersi dall'adottare misure fiscali
dannose.
I redditi da capitale, già molto mobili, lo sono ancora di più dopo l'introduzione dell'euro ed
oggi l'imposizione dei redditi da risparmio è una materia delicata. La Commissione intende procedere
per tappe. In un primo tempo invita gli Stati membri a sottoscrivere un impegno politico fondato sui
seguenti principi:
- è necessaria una soluzione comune (sotto forma di direttiva) per impedire le distorsioni della
concorrenza (assenza d'imposizione);
- la direttiva è limitata agli interessi versati in uno Stato membro alle persone fisiche aventi il
domicilio fiscale in un altro Stato membro;
- gli Stati membri devono garantire un certo grado d'imposizione effettiva all'interno della
Comunità dei redditi da risparmio dei non residenti, fornendo informazioni sui redditi da risparmio agli
altri Stati membri;
- indipendentemente dalla misura adottata, è necessario salvaguardare la competitività dei
mercati finanziari europei;
- gli Stati membri che istituiscono una ritenuta alla fonte sugli interessi versati ai residenti di altri
Stati membri sono autorizzati a farlo per un periodo provvisorio e la ritenuta alla fonte è prelevata da
parte dell'ente pagatore.
Relativamente alle imposte indirette, l'IVA è l'imposta che ha avuto maggiori sviluppi in tema di
armonizzazione fiscale che nel periodo 1967 - 1977 ha portato all’emanazione di ben 6 direttive
riguardanti l'adozione di una imposta sul valore aggiunto a livello comunitario.
Ciononostante, perfino con l'IVA l'armonizzazione ha dimostrato di essere di difficile
attuazione. Nel 1991, la UE introdusse un sistema IVA transitorio la cui entrata in vigore si è avuta nel
1993. Tale sistema provvisorio doveva essere sostituito da uno definitivo sin dal 1997. Tuttavia, non si è
riusciti ad arrivare ad un accordo in sede europea per cui il regime transitorio resta tuttora in vigore. In
un primo momento, la Commissione europea ritenne che gli stati membri si trovassero in una
situazione di estrema difficoltà nel controllare la corretta applicazione dell'IVA e che gli affari erano
ostacolati dall'assenza di un sistema di imposizione comune. Successivamente, la stessa predispose un
programma per un nuovo sistema IVA mediante l'armonizzazione delle aliquote e l'applicazione di
un'aliquota minima del 15%. Sempre secondo la Commissione, i passi successivi da compiere
consistevano nell'avvicinare il più possibile le aliquote IVA esistenti nei vari stati membri e
l'armonizzazione della base imponibile e delle esenzioni. Tuttavia, la strada da percorrere è ancora
molto lunga prima che quelle proposte diventino completamente operative.
Attualmente, tra i vari stati membri dell'UE, l'aliquota IVA media varia dal 15 al 25%.
Il 13 giugno 2001, il Comitato dei rappresentanti permanenti ha adottato una decisione relativa
all'istituzione di un gruppo di lavoro ad alto livello in materia fiscale. Tale gruppo, che ha il compito di
assicurare il coordinamento dei lavori sul "pacchetto fiscale" e di far avanzare il fascicolo a livello
politico, è composto da rappresentanti designati dagli Stati membri e da un rappresentante della
Commissione. Quest'ultimo riferisce al Consiglio sull'evoluzione dei progressi ottenuti in materia. La
questione del futuro del gruppo viene riesaminata non appena vi è un accordo definitivo sul pacchetto
fiscale.
Il 23 ottobre 2001 la Commissione ha adottato una comunicazione sulla strategia europea in
materia di tassazione delle imprese. Questo testo supera una tappa supplementare rispetto alle
comunicazioni precedenti, affrontando più precisamente la questione dell'imposizione fiscale diretta
delle imprese nell'Unione europea. Elabora una strategia per permettere di utilizzare per le imprese una
base imponibile consolidata dell'imposta sulle società riguardante tutte le loro attività nell'Unione
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europea. Infatti, il Consiglio aveva chiesto alla Commissione di valutare l'incidenza delle differenze nei
livelli d'imposizione effettiva delle imprese degli Stati membri sull'ubicazione delle attività economiche e
degli investimenti. Occorreva inoltre individuare le disposizioni fiscali che costituiscono ostacoli alle
attività economiche transfrontaliere nel mercato interno, presentando misure per rimediarvi. L'esecutivo
europeo propone in particolare di:
- modificare le proposte attuali di estensione delle direttive " fusioni " e " società madrifiliali " al
fine di estendere la copertura delle varie imposte e dei tipi di transazioni;
- ritirare la vecchia proposta di direttiva riguardante la compensazione transfrontaliera delle
perdite e dei profitti in previsione della sua sostituzione;
- elaborare una comunicazione sulle convenzioni in materia di doppia imposizione per giungere
a un modello comune per l'Unione europea;
- fare applicare la normativa fiscale fin dal 2004 alle imprese che hanno optato per lo status di
società europea (SE);
- avviare un ampio dibattito con l'organizzazione di una conferenza europea sulla tassazione
delle società le cui conclusioni saranno presentate in una relazione nel 2003.
Il mercato comune europeo doveva essere creato dagli stati membri mediante l'abolizione degli
ostacoli alla libera circolazione dei beni, delle persone, dei servizi e dei capitali e la concorrenza nel
mercato interno non doveva essere stravolta da iniziative prese dai singoli stati membri. Chiaramente,
sistemi fiscali diversi possono portare ad una distorsione dei comportamenti all'interno di un mercato
comune. La principale ragione economica posta alla base dell'armonizzazione fiscale in Europa riguarda
la produzione e il consumo dei beni che deve effettuarsi sulla base di costi e benefici economici reali e
non essere eccessivamente influenzata da considerazioni di natura fiscale. L'esistenza di diversi sistemi
fiscali all'interno della UE costituisce un concreto ostacolo al libero commercio. Per tale ragione, in
alcuni casi, la Corte di giustizia delle comunità europee ha proceduto alla disapplicazione della
normativa fiscale di uno stato membro ogni qualvolta vi sia stata una discriminazione tra soggetti
residenti e non residenti o quando tale normativa fiscale sia stata d'ostacolo alla libera circolazione dei
beni, dei capitali e alla libertà di stabilimento.
É indubbio che un minimo di armonizzazione possa portare dei benefici economici all'interno
del mercato comune europeo. Tuttavia, il lento e frammentario progresso verso una politica fiscale
comune, nell'ultima metà del secolo, indica chiaramente che vi sono ancora molte difficoltà da superare.
Sarebbe, pertanto, auspicabile che si arrivasse almeno alla creazione di un modello fiscale di tipo
federalista il quale permetterebbe un'armonizzazione di alcune imposte a livello europeo mentre altre
sarebbero regolate da ciascuno stato membro in corrispondenza di ogni specifica esigenza. Infine, è da
ricordare che l'imminente ingresso di 10 nuovi paesi nella Unione Europea, comporterà inevitabilmente
un'analisi più approfondita circa l'idoneità delle imposte che dovranno essere regolate a livello
comunitario o di ciascuno stato membro. Attualmente, l'IVA sembra essere in prima fila come "imposta
europea", mentre le imposte dirette sono lasciate ancora all'ampia discrezionalità dei singoli governi.
In base a quanto sin qui esposto ed alle citate basi giuridiche, volendo anticipare un sommario
bilancio, non è difficile constatare la minore rilevanza di quanto conseguito dalla istituzioni comunitarie
in questo campo. Alcune iniziative sono state intraprese, vedi l’IVA, con l’adozione di un unico modello
base di imposta sulle cifre d’affari. Molto ancora resta da fare: un certo ritardo è tuttora riscontrato nella
finalizzazione delle iniziative programmate, forse perché la materia dei tributi è ancora gelosamente
custodita dai singoli Stati. La materia fiscale è ancora disciplinata e organizzata in maniera difforme a
livello dei singoli Stati membri, nonostante le mutevoli congiunture politiche ed economiche.
Avv. Pierluigi Diso
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