Camici bianchi a lezione di EMPATIA

Corbis
PSICOLOGIA MEDICA
Camici bianchi
a lezione di EMPATIA
di Massimo Barberi
Un tempo si riteneva che un buon
medico dovesse sapere solo fare una
diagnosi corretta e prescrivere
la terapia giusta. Oggi si insegna
anche a interagire con i pazienti
meglio avere a che fare modo di interagire con i
con un medico compas- malati svolgono un ruolo psisionevole o con un pro- cologico importantissimo ai
fessionista sicuro e distacca- fini della guarigione, la classe
to? Quando si entra in medica ha cominciato a interambulatorio si preferisce tro- rogarsi su quali approcci posvare un camice bianco alla sono risultare più indicati nel
Doctor House oppure uno di rapporto con i pazienti. Ma
quei medici di una volta, fino a oggi non ci sono conquelli per intenderci che clusioni chiare e definitive.
Uno studio pubblicato di
andavano a casa del malato
recente sulla rivista Archives of
in bicicletta?
Sul rapporto medico- Internal Medicine ha scoperto
che circa un terzo
paziente sono
Un ruolo
dei medici statustati scritti fiumi
di libri e realiz- importantissimo nitensi, durante
le visite, racconta
zate montagne
ai fini
della propria
di studi scientifidella guarigione fatti
vita privata o
ci, nonostante
l’interesse per questo genere questioni personali ai paziendi problematica sia nato sol- ti, i quali, sempre secondo
tanto pochi anni fa. Da quan- l’indagine, non vivono con
do si è scoperto che oltre a estremo piacere questo tipo
prescrivere farmaci ed esami, di approccio. Spiega Egidio
la figura del medico e il suo Moja, docente di psicologia
È
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medica all’Università di Milano e direttore del Centro
Cura, che studia i problemi
della comunicazione in medicina: “In linea generale, il
camice bianco dovrebbe evi-
tare di parlare di sé durante le
visite perché potrebbe suscitare nei pazienti questa
domanda: sono qui per risolvere un mio problema o quelli del medico?”.
Attori, fiction e videotape per
All’ospedale San Paolo di Milano va in scena l’empatia. In una
stanza dotata di videocamere e specchio monodirezionale, come
quelli usati negli interrogatori dei film polizieschi, gli studenti del
quarto anno di medicina devono superare un esame particolare:
sotto gli occhi dei docenti devono dimostrare di saperci fare con
i pazienti (che in realtà sono attori), di saperli ascoltare e capire,
di entrare in sintonia e di comunicare con loro in modo efficace.
Il sistema usato per valutare gli studenti si chiama Rias (Roter
interaction analysis system) ed è stato messo a punto dalla
psicologa statunitense Debra Roter, dell’Università John’s
Hopkins di Baltimora. Viene osservato tutto: le domande del
medico, le sue risposte, le conversazioni generiche, il linguaggio
non verbale. Anche i semplici “mmmh” del futuro medico, che
all’apparenza non significano nulla, ma che nel castello della
comunicazione, invece, hanno un ruolo importante perché danno
al paziente la certezza, anche se inconscia, che il medico lo sta
ascoltando e sta riflettendo.
capiti e sono condivisi”.
IN GIOCO
L’empatia è una capacità
LE ESPERIENZE DI VITA
chiaramente
innata in molti
Il medico che parla dei fatti
suoi è soltanto uno dei tanti medici: per alcuni è assolutaaspetti che riguardano la mente naturale entrare in sincomunicazione tra medico e tonia con i problemi degli altri
paziente: è un ambito che coin- e manifestarlo. Ma questa abilivolge diversi aspetti sociologici tà si può anche apprendere: esie psicologici e non ancora stono tecniche di comportacompletamente
chiarito. mento, ormai collaudate, che
Entrano in gioco le esperienze aiutano il medico a stabilire
di vita del paziente e quelle del una relazione più empatica con
il
paziente.
medico, le sensazioni di entram- Essere in sintonia “Non è necessabi, le emozioni,
con i problemi rio farlo in tutte
le situazioni”
le aspettative:
del paziente
lo psisoprattutto se si
e manifestarlo aggiunge
cologo “e non è
tratta di malattie
gravi, come per esempio i nemmeno necessario applicarla
tumori, oppure le patologie a tutti i pazienti, perché non
viene richiesta da tutti”. Ci
croniche, come il diabete.
Da qualche anno si parla con sono persone che infatti non
sempre più convinzione del- manifestano il desiderio di
l’empatia come di uno strumen- essere compresi, quantomeno
to a disposizione del medico per nella loro dimensione emotiva,
entrare davvero in sintonia con ma chiedono al professionista
il paziente. “Per empatia”, pun- di dare loro tutte le informatualizza Moja, “non si intende zioni utili e necessarie e di aiusoltanto la capacità che un pro- tarli a guarire. Punto e basta.
Altri, invece, vivono il bisofessionista possiede di capire e
di condividere le emozioni e le gno di essere compresi fino in
paure del malato, ma anche l’a- fondo come una necessità.
bilità nel sapergli comunicare “Ciò non significa che ci sono
che i suoi problemi sono stati pazienti giusti e pazienti sba-
futuri medici
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PSICOLOGIA MEDICA
Almeno le buone maniere
È in arrivo il galateo dei medici: Micheal Kahn, psichiatra di
Boston, ha lanciato dalle pagine dell’importante rivista
medica New England Journal of Medicine la proposta di
integrare la formazione post universitaria dei medici con
un corso di buone maniere. “Soltanto così” spiega “si
riusciranno a evitare quelle lamentele che spesso i pazienti
si scambiano tra loro e raccontano ai famigliari”. Del tipo:
“Non mi ha nemmeno guardato, si è limitato a guardare lo
schermo del computer” oppure “non sorride mai e non mi
ha detto nemmeno il suo nome”.
Secondo lo psichiatra statunitense basterebbe cominciare
da alcune semplici norme di comportamento per arrivare a
elaborare un vero e proprio galateo dei camici bianchi. Per
esempio, alla prima visita di un paziente ricoverato in
ospedale bisognerebbe:
• chiedere il permesso prima di entrare nella stanza e
attendere la risposta;
• presentarsi mostrando anche il cartellino di
riconoscimento;
• stringere la mano al paziente;
• sedersi e magari sorridere se la situazione lo consente;
• spiegare brevemente qual è il ruolo all’interno
dell’équipe e nei confronti del paziente;
• chiedere al paziente come sta vivendo la sua degenza in
ospedale.
gliati” precisa Moja “ma è il
medico che si deve adattare a
ogni situazione, capire quali
sono le esigenze del singolo
paziente e comportarsi di conseguenza”.
SERVE DAVVERO?
Sentirsi capiti, anche negli
aspetti più intimi e personali,
dal proprio medico è sicuramente importante perché tutti
noi, bene o male, viviamo di
relazioni e quando soffriamo
per una malattia abbiamo bisogno di empatia come l’aria che
respiriamo. Ma quanto incide
sulla terapia? “Alcuni studi”
risponde lo psicologo “dimostrano che in questi casi il
paziente è più preciso nel dare
informazioni al medico sul suo
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stato di salute e si sente più agevolato nel fare domande. Da ciò
deriva anche una compliance
migliore: una più efficace adesione alle terapie prescritte, vale
a dire senza sgarrare tempi o
dosaggi, con evidenti ripercussioni sul risultato del trattamento”.
Maggiore empatia vuol dire
anche mettere al centro del
lavoro dei medici il malato, la
persona, e non soltanto la
malattia. “Tutti gli sforzi e gli
studi condotti su questi argomenti vanno nella direzione di
superare la medicina basata sui
sintomi, rimettendo al centro
l’individuo visto nella sua globalità” chiarisce Moja.
Una strada ancora in salita,
perché è difficile cambiare abi-
tudini millenarie e perché, probabilmente, fare il medico alla
vecchia maniera è comunque
più facile e crea meno problemi.
Tanto che l’università si sta
attrezzando per insegnare ai
futuri medici come essere
empatici anche quando non lo
sono di carattere. “Da qualche
anno ormai è obbligatorio partecipare al corso di psicologia
medica, che nel vecchio ordinamento di studi era una materia
facoltativa. Si impara così come
capire la tipologia di paziente
che si ha davanti e qual è il
modo più corretto per condurre
un colloquio. Si utilizzano
anche tecniche di simulazione,
come brevi rappresentazioni
teatrali in cui gli stessi studenti
interpretano, a turno, il ruolo
del malato o del curante” (vedi
box pagina 12).
Non solo: l’empatia è una
materia che richiede aggiornamento costante, e infatti la cattedra di Psicologia medica di
Moja ha svolto diverse ricerche
su medici già esperti, filmando i
loro colloqui con i pazienti e
sottoponendo poi le riprese al
giudizio degli studenti e di altri
medici. “Gli errori che si fanno
possono essere molti: dal linguaggio utilizzato, al gesto inappropriato, fino allo sguardo, che
alcuni curanti tengono troppo
fisso sulla cartella clinica o sul
computer, mentre il paziente va
guardato in faccia, altrimenti è
impossibile intessere una relazione. Un approccio diverso a
quello del medico di un tempo
è oggi quanto mai necessario”
conclude Moja “anzitutto perché le nuove tecnologie diagnostiche tendono a spersonalizzare
il rapporto umano, e quindi c’è
bisogno di maggiore relazione
per contrastare questo fenomeno. Poi perché nel mondo, a differenza del passato, stanno sempre di più aumentando le patologie croniche, nei confronti
delle quali il rapporto con il
medico è fondamentale. Infine
oggi i pazienti sono sempre più
autonomi, vanno in Internet,
leggono libri di medicina, riviste, e non accettano più il vecchio medico paternalista che
lavora in silenzio”. Più empatia,
quindi, fa bene ai pazienti, ma
giova anche alla medicina.