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LUDOVICA RAMBELLI
UNO SPETTACOLO
DI ARTE VARIA
GLI IMPERDONABILI
IL CAFÉ CYRANO
LA COMPAGNIA
IL CANOVACCIO
«Attori e scene dipinte si presero il mio Amore,
e non le cose di cui sono emblemi»
W. B. Yeats, forse.
Una premessa è necessaria: la scrittura in scena è
completamente diversa da qualunque partitura si sia
immaginata.
Quello che qui di seguito tenterò di evocare è lo spirito
che anima uno spettacolo, assolutamente non la scansione
esatta delle scene, degli eventi narrati: in breve questo che
segue è tutto tranne un copione, cosa sia lascio al lettore
deciderlo.
Prima di iniziare, però, è necessario descrivere la
situazione di chi scrive, e il luogo dove lavora, gli strumenti
che usa. Questo luogo non è un teatro, ma uno studio,
con la scrivania piena di appunti sparpagliati, libri aperti
e variamente sottolineati e, soprattutto, chi scrive ha nelle
orecchie un suono, più suoni, le musiche che ha appuntato
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e che gli danno il clima – mancando l’orchestra – in cui
vuole provare.
Per queste prove aperte al pubblico – il pubblico sono
i futuri lettori – manca l’elemento più importante. La vera
materia di uno spettacolo: gli attori.
Gli attori sempre, e in un lavoro come questo più che
mai, non sono esecutori: creano forse più del drammaturgo/
regista poiché intercettano, rielaborano e rendono vivo ciò
che questi ha sognato di vedere. Né il regista né gli attori
sanno tutto di un’opera: questa ha sempre la sua propria
vita, è mutevole, cambia ogni sera: attori e regia non sono
le due metà che fanno il tutto, per il tutto ci vuole sempre
quel misterioso e mutevolissimo quid, che rende l’opera
teatrale viva.
Si può costruire a mio avviso un canovaccio per uno
spettacolo di questo genere – e il genere verrà chiarito nelle
pagine a seguire – praticamente con qualsiasi materiale.
Sono stata quindi obbligata a scegliere materiali tra
l’immensa mole in teoria a disposizione e ad attenermi a
quelli scelti, altrimenti questo testo non avrebbe mai visto
la fine, ripeto: in scena cambia tutto, e lo ripeterò fino alla
nausea, in scena è assolutamente necessario che cambi tutto.
Elemento principe per questo lavoro è la musica,
sarà uno spettacolo in musica, e sarebbe fantastico avere
una piccola orchestrina, ancor meglio non così piccola,
che accompagni i numeri, i testi e i balletti. Non avendo
un’orchestra nel mio studio mi sono andata a cercare le
più belle orchestre americane degli anni ruggenti. Potendo
permetterselo perché non farlo. A loro è affidato l’arduo
compito di costringere il pubblico a sopportare certe
intemperanze del drammaturgo e le, non sempre gradite,
interpretazioni degli attori.
Così ho seguito uno schema piuttosto semplice, e per
altro in uso anche ai tempi del teatro di varietà, a ogni
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esibizione, o romanza, o testo – talvolta se ne possono
sopportare anche un paio di seguito – alternare
balletti.
Dovete immaginarle queste ballerine sgambettanti
che vengono a salvare la situazione e a trasformare
i fischi in applausi dopo una canzone d’amore, un
brano recitato, l’esibizione di un mago improvvisato.
Per avere un’idea dell’atmosfera, potete guardare
qualche film, alternando i ricordi di scalcinati varietà
del Fellini di Luci del varietà o di Roma, con un
qualsiasi film americano che, con ben altri mezzi,
metteva in scena balletti anche di 20 elementi, contro
le 8 gambe 8 dei nostrani.
Anche per questo ho scelto le grandi orchestre
americane: in Italia le copiavamo, avevamo tutti il
mal di swing.
Quasi tutti gli intermezzi, quindi, vengono da
una raccolta che si chiama Stardust, ovvero Polvere
di Stelle, che immagino ricordi a tutti qualcosa. Le
altre canzoni provengono da materiali d’archivio,
da il Fonografo Italiano o da raccolte molto simili;
interverrò sui testi, per adattarle alle necessità della
messa in scena.
Non può mancare il cantante d’opera e ho
chiamato Beniamino Gigli in persona. Del resto
faceva avanti e indietro tra l’America e la Ciociaria,
in quegli anni a cavallo tra la prima, la seconda e la
terza, ah no, la terza poi non c’è stata, guerra.
La terza guerra è l’oggi. E il varietà, con la sua
apparente brillantezza, è genere di guerra.
I libri, poi. Un libro fondamentale, la fonte
di questa fantasticheria, è Dei miei sospiri estremi,
l’autobiografia di Luis Buñuel1: lì ho trovato il clima,
1 Luis Buñuel,
Dei miei sospiri estremi,
SE, Milano 1991; prima edizione,
Mon dernier soupir, 1982.
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2 Massimo Scaglione,
Saluti e baci,
La Stampa, Torino 2001.
3 Anthony Burgess,
Shakespeare. Il ritratto dell’uomo e
del poeta, Rusconi, Milano 1981.
4 Angela Bianchini, a cura di,
Romanzi medievali d’amore e
d’avventura, Garzanti, Milano 1981
5 Cristina Campo,
Gli Imperdonabili,
Adelphi, Milano 1987.
6 Apuleio,
Le Metamorfosi o L’Asino D’Oro,
BUR, Milano 2005.
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il titolo e le bevande da servire al pubblico.
Un secondo libro è il Cyrano di Bergerac di
Edmond Rostand, che ritroverete nel titolo dello
spettacolo, ed è una dedica a tutti i Cyrano tra di
noi, persi nello struggente desiderio d’essere amati,
apprezzati, e non potere perché qualcuno più furbo
ci ha fregato amante, e versi.
Cyrano è diventato un mito in scena, ma in vita è
stato più che bistrattato: il personaggio, famosissimo,
si è completamente sostituito all’originale. Sembra
l’archetipo dell’estasi e della dannazione dell’attore,
del teatrante in generale e dell’artista nel senso più
pieno: è giusto piangerci sopra un poco, tra un
balletto e l’altro.
C’è sul mio tavolo un libretto che si chiama Saluti
e baci2, una storia del Varietà, del Café Chantant,
della Rivista, dell’Avanspettacolo e altri succedanei,
prezioso per orientarsi tra i nomi che indicano, in
fondo, sempre lo stesso genere: uno spettacolo d’Arte
Varia, che mi sembra una definizione bellissima.
C’è una biografia romanzata di Shakespeare,
a firma di Anthony Burgess3 , primo perché senza
Shakespeare teatro non ce n’è, fosse pure come nume
tutelare, e poi perché descrive meglio di chiunque
altro la confusione che alberga nella biblioteca, nella
cultura e nella vita degli autori di teatro: ce ne saranno
pure di diversissimi, coltissimi, intellettualissimi ma io
non sono tra questi. Sono un’autodidatta pasticciona
e confusa, e nella descrizione che Burgess dà del
regista/drammaturgo mi rispecchio perfettamente.
Potrebbe anche bastare, ma ci si è infilato anche un
libro di racconti medievali che servirà per il siparietto
sugli idioti che vedono la Madonna e gli idioti che
invece non la vedono, ma sono esponenzialmente
più idioti di quelli che per loro fortuna ancora la
vedono. Questa faccenda che l’umanità si divida in idioti
che vedono e idioti che non vedono non è mia: si trova da
qualche parte tra le formidabili intemperanze teoriche di
Carmelo Bene, l’ultimo grande uomo di teatro del ‘900.
Niente paura: quello sugli idioti e la Madonna è uno
di quei numeri presto fischiati e immediatamente sostituiti
da procaci ballerine hawaiane di Santa Maria Capua Vetere
e dintorni. Per il siparietto sulla Madonna, il titolo del
libro da cui trarrò spunto è Romanzi medievali d’amore e
d’avventura4.
L’ultimo libro è Gli Imperdonabili5 – potrebbe fare il
suo buon servizio come sottotitolo – che mi ha permesso
di ricordare la favola che preferivo da bambina, quella dei
Cigni Selvatici, ma di questo più avanti. Troverò il modo
di infilare da qualche parte sette o nove cigni fatati, pure se
mi toccherà di trasformarli in boys. Questo libro lo firma
Cristina Campo.
C’è un altro libro che chissà perché si è voluto nascondere
pieno di polvere tra gli altri. Apuleio, Le Metamorfosi6.
Vediamo se riesco a infilare tra le eccentricità anche un
Asino ghiotto di Rose Rosse.
GLI IMPERDONABILI
Terminato questo lungo preambolo, bisogna che entri
nella questione più specifica riguardo alla messa in scena.
Per far questo devo scrivere ciò che, iniziando le prove,
sarebbe materia viva da comunicare agli attori.
È bene ricordare che l’attore inventa, non esegue:
dunque all’attore il regista/drammaturgo deve dire tutto ciò
che sa, perché questi poi possa farne la propria opera. Ne
risulta che per dare qualche indizio in più sullo spettacolo
che sto immaginando, devo tentare di scrivere ciò che direi
ai miei attori nel corso delle prove.
Intendiamoci: ci sono mille e mille cose che mi
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verranno in mente solo osservando gli attori lavorare, e
quelle non posso proprio scriverle, ma qualcosina in mente
già ce l’ho e posso provare a raccontarla. Per non tediare
cercherò di limitarmi a pochissime considerazioni, il resto e
il meglio, spero, verranno più tardi. Inoltre, parte di quello
che sto per scrivere si trova anche, in altra forma, nelle
pagine precedenti e in quelle che seguono, ma è necessario
ripeterlo e precisarlo.
Una prima questione, la più semplice, riguarda proprio
il teatro, anzi il Teatro: c’è bisogno che qualcuno dica a
voce alta, molto chiaramente, magari in versi, magari con
una buona dose di abilità e, soprattutto, lo dica in scena
che lo stato del teatro è drammatico – mi si perdoni il
facile gioco – e che bisognerebbe cacciare la plus part dei
mentecatti che occupano la scena teatrale a calci nel sedere
giù dal palcoscenico: esattamente come Cyrano fa con
l’attore Montfleury, nella terza scena del primo atto del
testo di Rostand.
La seconda riguarda il genere che mi sono scelta, il
Varietà, e s’incastra con la terza, legata all’epoca nostra
presente, l’Oggi. Una questione che non riguarda solo il
teatro. Questa è la parte più difficile, più delicata.
L’ultima è questione assolutamente personale,
autobiografica.
Per la questione del Teatro basta spigolare qua e là
in Rostand. Oggi come ieri, la scena teatrale è invasa da
miserabili imbroglioni che, con la scusa dei progetti, delle
operazioni interessanti e con l’aiuto complice e interessato
dei potentucoli di turno si accaparrano, dopo un
apprendistato in ruffianeria, prebende, considerevoli fino
a ieri, che oggi sempre più s’immiseriscono, con grande
soddisfazione di chi scrive. Qualcuno ancora sciala, ma
sono rimasti in pochissimi, destinati a diminuire ancora e
ancora. Tale questione è talmente poco interessante da non
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volermi soffermare oltre. Aggiungo solo che il mio primo
attore, se avrò la fortuna di trovarne uno scampato alla
mediocrità, lo dirà chiaro in scena. Non ti curar di loro, ma
guarda e passa oltre.
Per ciò che è più importante, invece, per dare un’idea
del come vorrei trattare l’Oggi e il Varietà, preferisco fare
un esempio e chiedo aiuto a uno dei libri che compongono
la breve bibliografia di questo scritto: Gli Imperdonabili,
appunto.
Quello che segue è una citazione alla lettera dal capitolo
che dà il titolo al libro tutto: «La passione della perfezione
viene tardi. O, per meglio dire, si manifesta tardi come
passione cosciente. Se era stata una passione spontanea,
l’attimo, fatale in ogni vita, del ‘generale orrore’, del
mondo che muore intorno e si decompone, la rivela a se
stessa: sola selvaggia e composta reazione. In un’epoca di
progresso puramente orizzontale, nella quale il gruppo
umano appare sempre più simile a quella fila di cinesi
condotti alla ghigliottina di cui è detto nelle cronache della
rivolta dei Boxers, il solo atteggiamento non frivolo appare
quello del cinese che, nella fila, leggeva un libro. Sorprende
vedere altri azzuffarsi a sangue, in attesa del loro turno, sul
preferito tra i carnefici operanti sul palco. Si ammirano due
o tre eroi che ancora lanciano vigorose frondate all’uno o
all’altro carnefice imparzialmente (poiché è noto che di un
solo carnefice si tratta, anche se le maschere si avvicendano).
Il cinese che legge, in ogni modo, mostra sapienza e amore
alla vita».
Questo potrei leggerlo prima di iniziare le prove, o
potrei farlo più tardi, in un momento qualunque, potrei
anche recitarlo a memoria, al bar durante una pausa,
sbagliando qualcosa, ma mantenendone il senso.
Aggiungerò anche ciò che l’autrice mette in testa al
capitolo, citando Ezra Pound: Venite, mie canzoni, parliamo
di perfezione: ci renderemo passabilmente odiosi.
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Ma questo potrei dirlo altrove, in un altro
momento. È un indizio, uno dei tanti, dal senso
molteplice, mutevole. Dipende da chi ascolta, dall’aria
che soffia, dal clima, da mille variabili.
Cosa l’attore riterrà importante, cosa penserà che
intenda parlando di perfezione, mentre si prova un
Varietà? Ci sarà qualcuno che deciderà semplicemente
di rendersi odioso, fino farsi buttar fuori dalla
compagnia, o, al contrario, riuscirà, senza volere e
senza sapere, a essere perfetto.
Qualcuno se ne ricorderà quando racconterò,
chissà quando e per quale intento, che Mata Hari,
dinanzi al plotone d’esecuzione, ha trovato il tempo
di ringraziare il suo pubblico che imbracciava il fucile,
gettando baci, come sul finale di un balletto. Sarà lo
stesso gettar baci e inchinarsi, e leggere libri?
Amleto gira con un libro in mano quando prepara
lo spettacolo della propria morte, ripete parole, parole,
ma il libro non gli dà sollievo, né gli salva la pelle,
come invece accade al cinese di cui sopra, a leggerne
l’intera storia.
Il Varietà è contenitore incredibilmente elastico,
fatto apposta per essere forzato a dire l’indicibile.
O perlomeno ad alludere a ciò che è scomodo: il
copione è poco più di un canovaccio, un’infilata di
numeri. Le battute sono a discrezione dell’attore, ce
n’è abbastanza da fare impazzire qualunque censore,
reale o immaginario. E poi, come si fa a prevedere il
senso che prenderanno i numeri messi l’uno dietro
l’altro? Può darsi che finiscano per dare all’insieme
un senso altro, imprevisto. Ma desiderato, invocato
dall’autore.
E sullo sfondo, una guerra che come il carnefice
è sempre una soltanto, cambia solo maschera. Può
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bastare? Certo che no, ma non posso fare di meglio.
Passiamo all’ultima faccenda, l’autobiografia.
Ogni spettacolo è autobiografico, in un certo senso.
Ma non in modo lineare, razionale: non i miei ricordi,
ma i ricordi che non ricordo, mi si perdoni il pastiche.
L’autobiografia di cui parlo è a posteriori: chiedo a un
lavoro di far affiorare non ciò che ho dimenticato, ma
ciò che non ho mai saputo di sapere. Lo riconoscerò
come mio solo alla fine: sarò il primo e il più attento
spettatore, il più commosso e il più entusiasta. Nulla
di quanto vedrò era stato progettato.
IL CAFÉ CYRANO
Tutta nel titolo la mia storia di Café Cyrano, uno
spettacolo ancora non realizzato a cui continuo a
pensare e, dunque, sottilmente a lavorare da anni. È
il primo mio lavoro pensato ad alta voce e per iscritto.
Qui tenterò, forse maldestramente, di raccontare un
processo creativo, il mio, che come ogni processo
creativo è unico nel suo genere.
Ma procediamo con disordine, come vuole
l’invenzione.
Cominciamo da Cyrano, cioè Cyrano de
Bergerac, gran staffilatore dei costumi teatrali, degli
arrampicatori senza talento, spadaccino e poeta,
amante riamato soltanto troppo tardi, segnato da
un marchio di nascita, in questo caso il marchio
inevitabile è l’immenso deturpante naso.
Un personaggio che diventa presto mito.
Il vero Cyrano7, Savinien de Cyrano , nato nel
1619, fu scrittore di teatro quasi mai rappresentato
poiché per l’epoca scandaloso. Il Cyrano che
7 Nato nel 1619 a Parigi da Abel
de Cyrano, Savinien, all’età di
vent’anni, aggiunge al proprio
cognome quello di un feudo che il
padre aveva ereditato e nel
frattempo già venduto: da
Bergerac. Nel 1639 si arruola
nella compagnia delle Guardie,
composta in gran parte da
gentiluomini guasconi, e viene
soprannominato dai cadetti ‘il
demonio della bravura’.
Patisce nel ’40 una sciabolata alla
gola durante un assedio e decide
di abbandonare la carriera militare.
Rientrato a Parigi, prende lezioni
di danza e segue le lezioni del
filosofo
Gassendi,
maestro
di
moderno epicureismo, legge
Luciano, Tommaso Moro,
Campanella. I contemporanei gli
attribuiscono, vere o false che
siano, varie prodezze, come quella
d’aver messo in fuga cento uomini
armati alla porta di Nesle. La sua
opera di gran lunga più importante
L’Autre Monde ou les Etats et
Empires de la Lune – una sorta
di fantasmagorica utopia di un
mondo perfetto – è nota agli
intellettuali parigini
prudentemente manoscritta per
vari passaggi considerati
‘scandalosi’. La sua unica tragedia,
la Mort d’Agrippine, andata in
scena nel 1653, gli scatena contro
l’accusa di ateismo per un’ambigua
battuta: Frappons, voilà l’Hostie. Nel
1654 il destino, o i nemici che si
è procurato, gli giocano un brutto
scherzo: una trave gli piomba sulla
testa, lo ferisce gravemente. Povero,
malato, Cyrano trova riparo a
Sannois, presso un cugino. Qui
muore ancora giovane, il 28 luglio
1655. Cfr. Guido Davico Bonino,
a cura di, Edmond Rostand, Cirano
Di Bergerac, Oscar Mondadori,
Milano 1985, pp. 6-8.
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8 Edmond Rostand (1868-1918).
Quando, il 28 dicembre 1897, va in
scena a Parigi Cyrano de Bergerac,
Rostand non ha ancora trent’anni.
Interpretata da Benoit Constant
Coquelin, anzi scritta per lui, la
comédie héroique en cinq actes en
vers di Rostand ha un successo
immediato,
definitivo:
la
vera
restituzione di Cyrano alla Francia,
anzi la vera incarnazione della
Francia in lui. Cfr. Guido Davico
Bonino, a cura di, op. cit., 1985.
9 «Uno
sgraffignatore
di
insignificanti
quisquilie»,
questo
è
il vagabondo Autolico nel
Racconto d’inverno; ed è
Shakespeare, e, invero, è qualsiasi
scrittore di teatro o di romanzi.
Allo scrittore non serve altro che
un po’ di roba approssimativa sulla
terminologia psicoanalitica, non ha
nessun bisogno di
leggersi l’opera completa di Freud.
Gli basta poter pescare qualcosa in
un modesto glossario paperback, o
chiacchierare con un uomo colto
incontrato per caso su un autobus.
Se hai bisogno della Mongrelia
o di Cipango, prega un marinaio
che è stato da quelle parti di
parlargliene un po’. Si può sempre
riconoscere lo scrittore di fantasia
dalla sua biblioteca, il cui contenuto non è fatto per lusingare
l’occhio, e nemmeno attesta nel
suo proprietario una capacità di
mediocri letture. Invece di falangi
di ben rilegati e uniformi volumi,
si trovano vecchie riviste d’ippica,
sgualciti almanacchi astrologici,
giornali umoristici, dizionari di
seconda mano e di terz’ordine, libri
di storia popolari dalle fonti
parecchio sospette, taccuini e
quaderni zeppi di appunti e fatti
curiosi, slegati, trascritti durante
una giacenza in ospedale o in un
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conosciamo ha qualcosa di quello e, per il resto, è
frutto della fantasia di Rostand8 . Spopola nell’800
sui palcoscenici di mezza Europa, assurgendo a mito,
un po’ come Amleto.
Da bambina avevo una nonna francese che me lo
recitava e lo adoravo; in televisione negli anni ’70 c’era
una versione a puntate in cui Cyrano era Domenico
Modugno. Ho scoperto poi che Cyrano era tra gli
eroi preferiti di Simone Weil bambina, e la risonanza
è troppo gustosa per non approfittarne.
Uno sgraffignatore di insignificanti quisquilie 9 ,
questo è il drammaturgo nella definizione che
Anthony Burgess dà di Shakespeare: ed è proprio
così, chi scrive per il teatro attinge a una quantità
di materiali eterogenei, un’enorme cascione, così
si chiama anche la cassa che contiene i copioni dei
comici napoletani, in cui si può trovare di tutto. Dal
vecchio giornale di moda e costume al trattatello di
morale, dal robusto tomo di filosofia al romanzetto
rosa.
Nel mio caso particolare il cascione contiene anche
un’enorme quantità di musica, di tutti generi, ed è
componendo una partitura musicale che ho sempre
progettato i miei lavori. Costruendo cioè una scaletta,
che andrà poi riempita di testi, azioni, partiture di
immagini.
Anche Café Cyrano è in musica e il suono
dominante è quello dei teatri di varietà, non solo e
non sempre italiani.
Un altro elemento è la stonatura, la nota
differente, che evochi un cambio di prospettiva nella
visione del lavoro. Spostamento che amo condividere
con il pubblico: uno spiazzamento per entrambi, per
entrambi un cambio di prospettiva.
E in questo calderone possiamo intanto ritornare
al titolo, che come già scritto tutto o quasi contiene:
Café. Aggiungiamo a Café per prima cosa Chantant
ed ecco il Café Chantant: l’antesignano del Varietà,
uno spettacolo composito di arte varia, in cui si
succedono alcuni numeri o brevi rappresentazioni di
genere diverso, prevalentemente musicale, comico o
drammatico, alternati con attrazioni e cioè esibizioni
di abilità, agilità e virtuosismo, senza alcun legame o
filo conduttore.
L’atto di nascita del caffè concerto – o Cafè
Chantant – non ha data certa, ebbe grande impulso
in Francia e precisamente a Parigi nella seconda metà
dell’Ottocento, ma già nell’Inghilterra del Seicento
alcuni intraprendenti gestori di Caffè, se Caffè li si
può già chiamare, avevano avuto l’idea di offrire ai
propri clienti, oltre alle bibite, un intrattenimento
teatrale improvvisato da comici di passaggio.
Quel che a me importa sottolineare, è che c’è un
legame sottile ma preciso che unisce libero pensiero10,
teatro e luoghi – apparentemente non destinati allo
spettacolo – che finiscono per essere i centri dove
l’arte, nell’accezione più ampia possibile, trova rifugio
in tempi bui.
Piove sul bagnato, oggi come ieri, e non è mia
intenzione lamentarmi ancora dello stato della cultura,
del teatro e delle malversazioni dei raccomandati di
turno che, ora come allora, rubano la scena a Cyrano.
A Savignen proprio il grande Molière rubò più di una
scena11.
Accenno a questo per cercare di chiarire il
clima di questo Café Cyrano: da un punto di vista
meteorologico pioggia a catinelle, con qualche
schiarita. E come clima dell’epoca nostra, beh, una
negozio d’impagliatore d’animali.
Quando Shakespeare ebbe
finalmente
una
biblioteca
– ammesso che ciò sia mai
accaduto –, si può stare sicuri
che non somigliava a quella di
Bacone».
Da
Anthony
Burgess,
op. cit., 1981, p. 46.
10 «Non ci era lecito mettere per
iscritto le nostre idee libere – fa
dire Kesten a Diderot – ma nei
nostri caffè la libertà sussurrava e
scherzava con la Rivoluzione.
[…] I nostri caffè erano giornali
parlanti e covi di congiurati.
[…] I salotti erano le scuole secondarie della Rivoluzione, i caffè
le
sue
università.
Nei
caffè
i
filosofi
contagiavano con le loro idee i
ricchi e i potenti; poiché talora
sono i sani a contagiare i malati.
Noi
filosofi
civilizzavamo
nei
nostri
caffè le classi elevate, i loro salotti
civilizzavano noi. Al caffè come al
salotto la società diventava
democratica».
Da Massimo Scaglione,
op. cit,
2001, p. 9.
11 Ecco il destino mio:
far da suggeritore, - e meritar
l’oblio!
Ricordate la sera in cui
nell’ombra nera
Cristiano vi parlò?
È tutta in quella sera la mia vita.
Ed intanto che in fondo io son
restato, altri a cogliere il bacio
della gloria è montato!
È giusto, ed io consento s
ull’orlo dell’avello
Che Molière ha genio,
che Cristiano era bello!
Da Edmond Rostand,
Cyrano di Bergerac,
atto V, scena V;
traduzione di Mario Giobbe.
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12 «Il mio ingresso nel gruppo
surrealista avvenne in modo molto
semplice e molto naturale.
Fui ammesso alle riunioni che si
tenevano al Cyrano e più raramente
da Breton, in rue Fontaine 42.
Il Cyrano era un tipico caffè di
Pigalle, popolare, con puttane e
magnaccia. Ci andavamo
generalmente tra le cinque e le sei.
Le bibite si dividevano in Pernod,
mandarino- curacao e
Picon-birra (con un’ombra di
granatina). Quest’ultima era la
bevanda preferita del pittore
Tanguy. Che beveva un primo
bicchiere, e poi un secondo.
Al terzo, doveva chiudersi il naso
con
due
dita».
Da Luis Buñuel,
op. cit.,
1991, p. 116;
prima edizione, Mon dernier soupir,
1982.
98
guerra non dichiarata apertamente e perciò più sottile,
pervasiva. Per un teatrante ogni sciocchezza è buona
e vanno bene anche le predizioni Apocalittiche. Una
certa ironia, che pure attiene al mestiere, mi fa dire
che se questo lavoro vedrà le scene, la luce, lo farà in
pieno gran finale del duemilaedodici, per cui non ci
resterà che brindare in scena, sperando di vedere il
tredici, che per me è numero fausto, e in questo caso
lo sarà per l’umanità intera.
Gli scherzi qui sono serissimi, e l’apocalittica
c’entra: non tanto come catastrofe mondiale e
meritatissima, ma come genere letterario.
L’apocalittica è infatti letteratura visionaria,
di sogno vigile: visioni parallele e contemporanee
dello stesso oggetto, in forma diversa, flusso libero
dell’inconscio. Per questo si scrive l’apocalisse di
… e qui segue un nome qualsiasi. Che l’autore sia
Giovanni o Ludovica quella Apocalisse è sua e di
nessun’altro. È un modo assolutamente personale di
dire l’indicibile.
A voler esagerare l’apocalittica è una forma di
autobiografia visionaria. Sostituisce a eventi, fatti
e cronologia un mondo di immagini, di visioni, di
sogni, raccattati qua e là, mai del tutto spiegati e
compresi. A mio parere, costituiscono l’autobiografia
dell’anima. È una storia frammentata e ricomposta di
catastrofi varie. Laddove catastrofe nell’antica lingua
dei Greci significava svolta.
Rimane da dire che a cavallo tra la prima e la
seconda guerra mondiale, mentre un anticristo in
baffetti alla Charlot impazzava su e giù, a destra
e a manca per l’Europa, i surrealisti, maestri del
genere apocalittico così come l’ho appena descritto,
s’incontravano al Cyrano, caffè in Place Blanche,
a Parigi, luogo dove si svolgeva gran parte dell’attività surrealista, come ci
racconta Buñuel12.
Qui il cerchio si chiude dando motivo al mio lavoro.
Poi c’è ancora una cosa: Café Cyrano è proprio il luogo in cui vorrei passare
il tardo pomeriggio, all’imbrunire, certa di trovarvi qualcuno di quei fratelli,
che non sono più.
LA COMPAGNIA
La compagnia del Café Cyrano conta un bel numero di attori e proprio
come le compagnie di tanti varietà la fingeremo anche familiare. Poi c’è una
piccola orchestra di quattro elementi che accompagna i numeri cantati, i
balletti e, in sottofondo, i testi.
Lo Zio Capocomico, presentatore, è quello che dirige dal vivo, interrompe
i numeri che non funzionano, dice le cose più caustiche, se necessario si assume
lo scomodo ruolo di Cyrano ed è, anche, illusionista. (Questo personaggio
si chiama Zio con qualche assonanza con Dio, il regista a teatro è un dio
minore, ma ha il potere di immaginare la realtà; dio immagina, il diavolo
prevede. “Mio Zio!” sentiremo esclamare. Chi lo grida non vuole evitare una
bestemmia, lo fa in tutta verità, dice esattamente quel che dice).
In sei formano il balletto. Cugine e ziette, alcune hanno numeri singoli o
formano trii canori.
Zia Pappi, vedette procace, non giovanissima, zia acquisita.
Zia Nanà, la caratterista, bruttina e comica, in aperto contrasto con la
vedette, anche trasformista.
Zia Bibina, una zitella assai romantica.
C’è il cantante sentimentale tombeur des femmes: un lontano cugino di
cui sono tutte innamorate: a richiesta, il bellone ipnotizza le signore.
La macchietta, fratello del capocomico, a cui il capocomico fa da spalla,
esegue anche numeri di magia.
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La caratterista, che all'occorrenza fa i trasformismi.
Con la ragazzina fanno tredici, anche a tavola: ma la ragazzina scappa di
qua e di là, impossibile tenerla seduta. È uno spiritello molesto: forse non
esiste.
(13 attori + 4 musicisti = 17).
IL CANOVACCIO
Ecco un’ipotesi di sceneggiatura – là dove la musica riesce a suggerirla –
e un tentativo di spiegare uno spettacolo a chi, per il momento, non ha la
possibilità di vederlo: giacché questi sono gli appunti di un progetto.
Dimenticavo, è uno spettacolo di un genere nuovo: Autobiografico apocalittico. E qui ci vogliono fischi assordanti: “Presto! In scena le ballerine!
Sipario! Sipario!”.
Buio, si comincia sempre col buio. Dà sicurezza, ma forse no: allora
luce fiochetta di ingresso pubblico. Scena parzialmente illuminata; attori e
attrezzisti che si affaccendano, per dare l’aria di spettacolo contemporaneo
Tutto questo solo per ascoltare, per intero, un’aria bellissima di Beniamino
Gigli: Elegie, di Jules Mussenet, registrata alla Scala nell’aprile del 1935. Per
confondere le acque subito e non cominciare con una nota troppo alta o
troppo leggera.
È una nenia che addormenta, l’incipit di un sogno, e questo sogno
contiene uno spettacolo.
Una voce fuori scena inizia il monologo di Cyrano, in cui dichiara di non
volersi uniformare allo stile dei suoi contemporanei arrampicatori di scene,
il famoso No Grazie (magari è proprio lo Zio a recitare, così, fuor di scena,
un monologo che ama, con velleità d’attore serio quando gli tocca fare il
varietà).
Orsù che dovrei fare? ...
Cercarmi un protettore, eleggermi un signore,
e dell’edera a guisa, che dell’olmo tutore
accarezza il gran tronco e ne lecca la scorza
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arrampicarmi, invece di salire per forza?
No, grazie! Dedicare, com’usa ogni ghiottone,
dei versi ai finanzieri? Far l’arte del buffone
pur di vedere alfine le labbra di un potente
atteggiarsi a un sorriso benigno e promettente?
No, grazie! Saziarsi di rospi? Digerire
lo stomaco per forza dell’andare e venire?
Consumar le ginocchia? Misurar le altrui scale?
Far continui prodigi di agilità dorsale?
No, grazie! Accarezzare con mano abile e scaltra
La capra e intanto il cavolo innaffiare con l’altra?
È aver sempre il turibolo sotto de l’altrui mento
Per la divina gioia del mutuo incensamento?
No, grazie! Progredire di girone in girone,
diventare un grand’uomo tra cinquanta persone,
e navigare con remi di madrigali, e avere
per buon vento i sospiri di vecchie fattucchiere?
No, grazie! Pubblicare presso un buon editore,
pagando, i propri versi! No, grazie dell’onore!
[…]
Scoprire ingegno eletto
agli incapaci, ai grulli, alle talpe dare ali,
lasciarsi sbigottire dal rumor dei giornali?
E sempre sospirare, pregare a mani tese:
pur che il mio nome appaia nell’inserto del mese?
No, grazie! Calcolare, tremare tutta la vita,
far più tosto una visita che una strofa tornita,
scrivere suppliche, farsi qua e là presentare?...
Grazie no! Grazie no!
La scena è sistemata, un istante di buio totale tanto per
far capire che finalmente lo spettacolo inizia, e il pubblico
deve pur sedersi e smettere di chiacchierare e cincischiare
cappotti e programmi.
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Il pubblico è sempre e comunque fastidiosissimo:
insomma il pezzo è finito e nel silenzio gravido di
promesse, una voce infantile continua a recitare il No
Grazie.
La scena s’illumina e ci fa scorgere la fanciulletta
in piedi su di un tavolo delle feste, di una qualsiasi
famiglia italiana del secolo scorso, che aveva una sua
qualche poesia e, soprattutto, era affollato.
Lo faremo anni ‘30, ma io stessa ancora negli anni
‘70 ne vedevo di convincenti.
La ragazzina termina il monologo.
Grazie, no! No Grazie! Ma… cantare,
sognar sereno e gaio, libero, indipendente,
aver l’occhio sicuro e la voce possente,
mettersi quando piaccia il feltro di traverso,
per un sì, per un no, battersi per un verso!
Lavorar, senza cura di gloria o di fortuna,
a qual sia più gradito viaggio, nella luna!
Nulla che sia farina d’altri scrivere, e poi
modestamente dirsi: ragazzo mio, tu puoi
tenerti pago al frutto, pago al fiore, alla foglia
pur che nel tuo giardino, nel tuo, tu li raccolga!
Poi, se venga il trionfo, per fortuna o per arte,
non dover darne a Cesare la più piccola parte,
aver tutta la palma della meta compita,
e disdegnando d’essere l’edera parassita,
pur non la quercia essendo, o il gran tiglio
fronzuto
salir anche non alto, ma salir senza aiuto! 13
13 Edmond Rostand,
Cyrano Di Bergerac,
atto II, scena VIII;
traduzione di Mario Giobbe.
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Applausi sperticati dei parenti.
Una voce: A Cesare, t’amo fregato! (un pernacchio
rumorosissimo).
Un’altra: Quercia? Te sarai massimo massimo un
cespuglietto di erba mala!’
Attacca Ciribiribin, qui nella versione del Trio Lescano
che ha una notevole somiglianza con certe zie zitelle dei
miei ricordi. I parenti tutti costruiscono una pantomima
in cui sbaciucchiano la piccolina fino a costringerla
a nascondersi sotto il tavolo; spada e cappello con
pennacchio fortunosamente salvati e nascosti alle amorose
intemperanze.
A seguire lo Zio Capocomico, in smoking, si stacca dal
gruppo e attacca A sera non si sa dove andare – mutuato,
e magari riscritto con maggior cattiveria dall’originale
di Rodolfo De Angelis – e finalmente dà il benvenuto al
pubblico del Café Cyrano e chiacchiera familiarmente
con gli astanti. Presenta gli attori, i parenti cioè, come una
compagnia di Varietà. Anticipa qualche numero ed è tempo
di un bel balletto distensivo: Don’t be that way.
Finito il balletto, è il momento di annunciare la pioggia,
insomma il clima meteorologico/metafisico del nostro
trattatello apocalittico.
Il primo di un’infilata di numeri, tutti immancabilmente
interrotti e fischiati, è Tango Tango, nell’imperdibile
interpretazione di Zia Nanà.
A suivre.
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