03 | LUDOVICA RAMBELLI UNO SPETTACOLO DI ARTE VARIA GLI IMPERDONABILI IL CAFÉ CYRANO LA COMPAGNIA IL CANOVACCIO «Attori e scene dipinte si presero il mio Amore, e non le cose di cui sono emblemi» W. B. Yeats, forse. Una premessa è necessaria: la scrittura in scena è completamente diversa da qualunque partitura si sia immaginata. Quello che qui di seguito tenterò di evocare è lo spirito che anima uno spettacolo, assolutamente non la scansione esatta delle scene, degli eventi narrati: in breve questo che segue è tutto tranne un copione, cosa sia lascio al lettore deciderlo. Prima di iniziare, però, è necessario descrivere la situazione di chi scrive, e il luogo dove lavora, gli strumenti che usa. Questo luogo non è un teatro, ma uno studio, con la scrivania piena di appunti sparpagliati, libri aperti e variamente sottolineati e, soprattutto, chi scrive ha nelle orecchie un suono, più suoni, le musiche che ha appuntato 87 e che gli danno il clima – mancando l’orchestra – in cui vuole provare. Per queste prove aperte al pubblico – il pubblico sono i futuri lettori – manca l’elemento più importante. La vera materia di uno spettacolo: gli attori. Gli attori sempre, e in un lavoro come questo più che mai, non sono esecutori: creano forse più del drammaturgo/ regista poiché intercettano, rielaborano e rendono vivo ciò che questi ha sognato di vedere. Né il regista né gli attori sanno tutto di un’opera: questa ha sempre la sua propria vita, è mutevole, cambia ogni sera: attori e regia non sono le due metà che fanno il tutto, per il tutto ci vuole sempre quel misterioso e mutevolissimo quid, che rende l’opera teatrale viva. Si può costruire a mio avviso un canovaccio per uno spettacolo di questo genere – e il genere verrà chiarito nelle pagine a seguire – praticamente con qualsiasi materiale. Sono stata quindi obbligata a scegliere materiali tra l’immensa mole in teoria a disposizione e ad attenermi a quelli scelti, altrimenti questo testo non avrebbe mai visto la fine, ripeto: in scena cambia tutto, e lo ripeterò fino alla nausea, in scena è assolutamente necessario che cambi tutto. Elemento principe per questo lavoro è la musica, sarà uno spettacolo in musica, e sarebbe fantastico avere una piccola orchestrina, ancor meglio non così piccola, che accompagni i numeri, i testi e i balletti. Non avendo un’orchestra nel mio studio mi sono andata a cercare le più belle orchestre americane degli anni ruggenti. Potendo permetterselo perché non farlo. A loro è affidato l’arduo compito di costringere il pubblico a sopportare certe intemperanze del drammaturgo e le, non sempre gradite, interpretazioni degli attori. Così ho seguito uno schema piuttosto semplice, e per altro in uso anche ai tempi del teatro di varietà, a ogni 88 esibizione, o romanza, o testo – talvolta se ne possono sopportare anche un paio di seguito – alternare balletti. Dovete immaginarle queste ballerine sgambettanti che vengono a salvare la situazione e a trasformare i fischi in applausi dopo una canzone d’amore, un brano recitato, l’esibizione di un mago improvvisato. Per avere un’idea dell’atmosfera, potete guardare qualche film, alternando i ricordi di scalcinati varietà del Fellini di Luci del varietà o di Roma, con un qualsiasi film americano che, con ben altri mezzi, metteva in scena balletti anche di 20 elementi, contro le 8 gambe 8 dei nostrani. Anche per questo ho scelto le grandi orchestre americane: in Italia le copiavamo, avevamo tutti il mal di swing. Quasi tutti gli intermezzi, quindi, vengono da una raccolta che si chiama Stardust, ovvero Polvere di Stelle, che immagino ricordi a tutti qualcosa. Le altre canzoni provengono da materiali d’archivio, da il Fonografo Italiano o da raccolte molto simili; interverrò sui testi, per adattarle alle necessità della messa in scena. Non può mancare il cantante d’opera e ho chiamato Beniamino Gigli in persona. Del resto faceva avanti e indietro tra l’America e la Ciociaria, in quegli anni a cavallo tra la prima, la seconda e la terza, ah no, la terza poi non c’è stata, guerra. La terza guerra è l’oggi. E il varietà, con la sua apparente brillantezza, è genere di guerra. I libri, poi. Un libro fondamentale, la fonte di questa fantasticheria, è Dei miei sospiri estremi, l’autobiografia di Luis Buñuel1: lì ho trovato il clima, 1 Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, SE, Milano 1991; prima edizione, Mon dernier soupir, 1982. 89 2 Massimo Scaglione, Saluti e baci, La Stampa, Torino 2001. 3 Anthony Burgess, Shakespeare. Il ritratto dell’uomo e del poeta, Rusconi, Milano 1981. 4 Angela Bianchini, a cura di, Romanzi medievali d’amore e d’avventura, Garzanti, Milano 1981 5 Cristina Campo, Gli Imperdonabili, Adelphi, Milano 1987. 6 Apuleio, Le Metamorfosi o L’Asino D’Oro, BUR, Milano 2005. 90 il titolo e le bevande da servire al pubblico. Un secondo libro è il Cyrano di Bergerac di Edmond Rostand, che ritroverete nel titolo dello spettacolo, ed è una dedica a tutti i Cyrano tra di noi, persi nello struggente desiderio d’essere amati, apprezzati, e non potere perché qualcuno più furbo ci ha fregato amante, e versi. Cyrano è diventato un mito in scena, ma in vita è stato più che bistrattato: il personaggio, famosissimo, si è completamente sostituito all’originale. Sembra l’archetipo dell’estasi e della dannazione dell’attore, del teatrante in generale e dell’artista nel senso più pieno: è giusto piangerci sopra un poco, tra un balletto e l’altro. C’è sul mio tavolo un libretto che si chiama Saluti e baci2, una storia del Varietà, del Café Chantant, della Rivista, dell’Avanspettacolo e altri succedanei, prezioso per orientarsi tra i nomi che indicano, in fondo, sempre lo stesso genere: uno spettacolo d’Arte Varia, che mi sembra una definizione bellissima. C’è una biografia romanzata di Shakespeare, a firma di Anthony Burgess3 , primo perché senza Shakespeare teatro non ce n’è, fosse pure come nume tutelare, e poi perché descrive meglio di chiunque altro la confusione che alberga nella biblioteca, nella cultura e nella vita degli autori di teatro: ce ne saranno pure di diversissimi, coltissimi, intellettualissimi ma io non sono tra questi. Sono un’autodidatta pasticciona e confusa, e nella descrizione che Burgess dà del regista/drammaturgo mi rispecchio perfettamente. Potrebbe anche bastare, ma ci si è infilato anche un libro di racconti medievali che servirà per il siparietto sugli idioti che vedono la Madonna e gli idioti che invece non la vedono, ma sono esponenzialmente più idioti di quelli che per loro fortuna ancora la vedono. Questa faccenda che l’umanità si divida in idioti che vedono e idioti che non vedono non è mia: si trova da qualche parte tra le formidabili intemperanze teoriche di Carmelo Bene, l’ultimo grande uomo di teatro del ‘900. Niente paura: quello sugli idioti e la Madonna è uno di quei numeri presto fischiati e immediatamente sostituiti da procaci ballerine hawaiane di Santa Maria Capua Vetere e dintorni. Per il siparietto sulla Madonna, il titolo del libro da cui trarrò spunto è Romanzi medievali d’amore e d’avventura4. L’ultimo libro è Gli Imperdonabili5 – potrebbe fare il suo buon servizio come sottotitolo – che mi ha permesso di ricordare la favola che preferivo da bambina, quella dei Cigni Selvatici, ma di questo più avanti. Troverò il modo di infilare da qualche parte sette o nove cigni fatati, pure se mi toccherà di trasformarli in boys. Questo libro lo firma Cristina Campo. C’è un altro libro che chissà perché si è voluto nascondere pieno di polvere tra gli altri. Apuleio, Le Metamorfosi6. Vediamo se riesco a infilare tra le eccentricità anche un Asino ghiotto di Rose Rosse. GLI IMPERDONABILI Terminato questo lungo preambolo, bisogna che entri nella questione più specifica riguardo alla messa in scena. Per far questo devo scrivere ciò che, iniziando le prove, sarebbe materia viva da comunicare agli attori. È bene ricordare che l’attore inventa, non esegue: dunque all’attore il regista/drammaturgo deve dire tutto ciò che sa, perché questi poi possa farne la propria opera. Ne risulta che per dare qualche indizio in più sullo spettacolo che sto immaginando, devo tentare di scrivere ciò che direi ai miei attori nel corso delle prove. Intendiamoci: ci sono mille e mille cose che mi 91 verranno in mente solo osservando gli attori lavorare, e quelle non posso proprio scriverle, ma qualcosina in mente già ce l’ho e posso provare a raccontarla. Per non tediare cercherò di limitarmi a pochissime considerazioni, il resto e il meglio, spero, verranno più tardi. Inoltre, parte di quello che sto per scrivere si trova anche, in altra forma, nelle pagine precedenti e in quelle che seguono, ma è necessario ripeterlo e precisarlo. Una prima questione, la più semplice, riguarda proprio il teatro, anzi il Teatro: c’è bisogno che qualcuno dica a voce alta, molto chiaramente, magari in versi, magari con una buona dose di abilità e, soprattutto, lo dica in scena che lo stato del teatro è drammatico – mi si perdoni il facile gioco – e che bisognerebbe cacciare la plus part dei mentecatti che occupano la scena teatrale a calci nel sedere giù dal palcoscenico: esattamente come Cyrano fa con l’attore Montfleury, nella terza scena del primo atto del testo di Rostand. La seconda riguarda il genere che mi sono scelta, il Varietà, e s’incastra con la terza, legata all’epoca nostra presente, l’Oggi. Una questione che non riguarda solo il teatro. Questa è la parte più difficile, più delicata. L’ultima è questione assolutamente personale, autobiografica. Per la questione del Teatro basta spigolare qua e là in Rostand. Oggi come ieri, la scena teatrale è invasa da miserabili imbroglioni che, con la scusa dei progetti, delle operazioni interessanti e con l’aiuto complice e interessato dei potentucoli di turno si accaparrano, dopo un apprendistato in ruffianeria, prebende, considerevoli fino a ieri, che oggi sempre più s’immiseriscono, con grande soddisfazione di chi scrive. Qualcuno ancora sciala, ma sono rimasti in pochissimi, destinati a diminuire ancora e ancora. Tale questione è talmente poco interessante da non 92 volermi soffermare oltre. Aggiungo solo che il mio primo attore, se avrò la fortuna di trovarne uno scampato alla mediocrità, lo dirà chiaro in scena. Non ti curar di loro, ma guarda e passa oltre. Per ciò che è più importante, invece, per dare un’idea del come vorrei trattare l’Oggi e il Varietà, preferisco fare un esempio e chiedo aiuto a uno dei libri che compongono la breve bibliografia di questo scritto: Gli Imperdonabili, appunto. Quello che segue è una citazione alla lettera dal capitolo che dà il titolo al libro tutto: «La passione della perfezione viene tardi. O, per meglio dire, si manifesta tardi come passione cosciente. Se era stata una passione spontanea, l’attimo, fatale in ogni vita, del ‘generale orrore’, del mondo che muore intorno e si decompone, la rivela a se stessa: sola selvaggia e composta reazione. In un’epoca di progresso puramente orizzontale, nella quale il gruppo umano appare sempre più simile a quella fila di cinesi condotti alla ghigliottina di cui è detto nelle cronache della rivolta dei Boxers, il solo atteggiamento non frivolo appare quello del cinese che, nella fila, leggeva un libro. Sorprende vedere altri azzuffarsi a sangue, in attesa del loro turno, sul preferito tra i carnefici operanti sul palco. Si ammirano due o tre eroi che ancora lanciano vigorose frondate all’uno o all’altro carnefice imparzialmente (poiché è noto che di un solo carnefice si tratta, anche se le maschere si avvicendano). Il cinese che legge, in ogni modo, mostra sapienza e amore alla vita». Questo potrei leggerlo prima di iniziare le prove, o potrei farlo più tardi, in un momento qualunque, potrei anche recitarlo a memoria, al bar durante una pausa, sbagliando qualcosa, ma mantenendone il senso. Aggiungerò anche ciò che l’autrice mette in testa al capitolo, citando Ezra Pound: Venite, mie canzoni, parliamo di perfezione: ci renderemo passabilmente odiosi. 93 Ma questo potrei dirlo altrove, in un altro momento. È un indizio, uno dei tanti, dal senso molteplice, mutevole. Dipende da chi ascolta, dall’aria che soffia, dal clima, da mille variabili. Cosa l’attore riterrà importante, cosa penserà che intenda parlando di perfezione, mentre si prova un Varietà? Ci sarà qualcuno che deciderà semplicemente di rendersi odioso, fino farsi buttar fuori dalla compagnia, o, al contrario, riuscirà, senza volere e senza sapere, a essere perfetto. Qualcuno se ne ricorderà quando racconterò, chissà quando e per quale intento, che Mata Hari, dinanzi al plotone d’esecuzione, ha trovato il tempo di ringraziare il suo pubblico che imbracciava il fucile, gettando baci, come sul finale di un balletto. Sarà lo stesso gettar baci e inchinarsi, e leggere libri? Amleto gira con un libro in mano quando prepara lo spettacolo della propria morte, ripete parole, parole, ma il libro non gli dà sollievo, né gli salva la pelle, come invece accade al cinese di cui sopra, a leggerne l’intera storia. Il Varietà è contenitore incredibilmente elastico, fatto apposta per essere forzato a dire l’indicibile. O perlomeno ad alludere a ciò che è scomodo: il copione è poco più di un canovaccio, un’infilata di numeri. Le battute sono a discrezione dell’attore, ce n’è abbastanza da fare impazzire qualunque censore, reale o immaginario. E poi, come si fa a prevedere il senso che prenderanno i numeri messi l’uno dietro l’altro? Può darsi che finiscano per dare all’insieme un senso altro, imprevisto. Ma desiderato, invocato dall’autore. E sullo sfondo, una guerra che come il carnefice è sempre una soltanto, cambia solo maschera. Può 94 bastare? Certo che no, ma non posso fare di meglio. Passiamo all’ultima faccenda, l’autobiografia. Ogni spettacolo è autobiografico, in un certo senso. Ma non in modo lineare, razionale: non i miei ricordi, ma i ricordi che non ricordo, mi si perdoni il pastiche. L’autobiografia di cui parlo è a posteriori: chiedo a un lavoro di far affiorare non ciò che ho dimenticato, ma ciò che non ho mai saputo di sapere. Lo riconoscerò come mio solo alla fine: sarò il primo e il più attento spettatore, il più commosso e il più entusiasta. Nulla di quanto vedrò era stato progettato. IL CAFÉ CYRANO Tutta nel titolo la mia storia di Café Cyrano, uno spettacolo ancora non realizzato a cui continuo a pensare e, dunque, sottilmente a lavorare da anni. È il primo mio lavoro pensato ad alta voce e per iscritto. Qui tenterò, forse maldestramente, di raccontare un processo creativo, il mio, che come ogni processo creativo è unico nel suo genere. Ma procediamo con disordine, come vuole l’invenzione. Cominciamo da Cyrano, cioè Cyrano de Bergerac, gran staffilatore dei costumi teatrali, degli arrampicatori senza talento, spadaccino e poeta, amante riamato soltanto troppo tardi, segnato da un marchio di nascita, in questo caso il marchio inevitabile è l’immenso deturpante naso. Un personaggio che diventa presto mito. Il vero Cyrano7, Savinien de Cyrano , nato nel 1619, fu scrittore di teatro quasi mai rappresentato poiché per l’epoca scandaloso. Il Cyrano che 7 Nato nel 1619 a Parigi da Abel de Cyrano, Savinien, all’età di vent’anni, aggiunge al proprio cognome quello di un feudo che il padre aveva ereditato e nel frattempo già venduto: da Bergerac. Nel 1639 si arruola nella compagnia delle Guardie, composta in gran parte da gentiluomini guasconi, e viene soprannominato dai cadetti ‘il demonio della bravura’. Patisce nel ’40 una sciabolata alla gola durante un assedio e decide di abbandonare la carriera militare. Rientrato a Parigi, prende lezioni di danza e segue le lezioni del filosofo Gassendi, maestro di moderno epicureismo, legge Luciano, Tommaso Moro, Campanella. I contemporanei gli attribuiscono, vere o false che siano, varie prodezze, come quella d’aver messo in fuga cento uomini armati alla porta di Nesle. La sua opera di gran lunga più importante L’Autre Monde ou les Etats et Empires de la Lune – una sorta di fantasmagorica utopia di un mondo perfetto – è nota agli intellettuali parigini prudentemente manoscritta per vari passaggi considerati ‘scandalosi’. La sua unica tragedia, la Mort d’Agrippine, andata in scena nel 1653, gli scatena contro l’accusa di ateismo per un’ambigua battuta: Frappons, voilà l’Hostie. Nel 1654 il destino, o i nemici che si è procurato, gli giocano un brutto scherzo: una trave gli piomba sulla testa, lo ferisce gravemente. Povero, malato, Cyrano trova riparo a Sannois, presso un cugino. Qui muore ancora giovane, il 28 luglio 1655. Cfr. Guido Davico Bonino, a cura di, Edmond Rostand, Cirano Di Bergerac, Oscar Mondadori, Milano 1985, pp. 6-8. 95 8 Edmond Rostand (1868-1918). Quando, il 28 dicembre 1897, va in scena a Parigi Cyrano de Bergerac, Rostand non ha ancora trent’anni. Interpretata da Benoit Constant Coquelin, anzi scritta per lui, la comédie héroique en cinq actes en vers di Rostand ha un successo immediato, definitivo: la vera restituzione di Cyrano alla Francia, anzi la vera incarnazione della Francia in lui. Cfr. Guido Davico Bonino, a cura di, op. cit., 1985. 9 «Uno sgraffignatore di insignificanti quisquilie», questo è il vagabondo Autolico nel Racconto d’inverno; ed è Shakespeare, e, invero, è qualsiasi scrittore di teatro o di romanzi. Allo scrittore non serve altro che un po’ di roba approssimativa sulla terminologia psicoanalitica, non ha nessun bisogno di leggersi l’opera completa di Freud. Gli basta poter pescare qualcosa in un modesto glossario paperback, o chiacchierare con un uomo colto incontrato per caso su un autobus. Se hai bisogno della Mongrelia o di Cipango, prega un marinaio che è stato da quelle parti di parlargliene un po’. Si può sempre riconoscere lo scrittore di fantasia dalla sua biblioteca, il cui contenuto non è fatto per lusingare l’occhio, e nemmeno attesta nel suo proprietario una capacità di mediocri letture. Invece di falangi di ben rilegati e uniformi volumi, si trovano vecchie riviste d’ippica, sgualciti almanacchi astrologici, giornali umoristici, dizionari di seconda mano e di terz’ordine, libri di storia popolari dalle fonti parecchio sospette, taccuini e quaderni zeppi di appunti e fatti curiosi, slegati, trascritti durante una giacenza in ospedale o in un 96 conosciamo ha qualcosa di quello e, per il resto, è frutto della fantasia di Rostand8 . Spopola nell’800 sui palcoscenici di mezza Europa, assurgendo a mito, un po’ come Amleto. Da bambina avevo una nonna francese che me lo recitava e lo adoravo; in televisione negli anni ’70 c’era una versione a puntate in cui Cyrano era Domenico Modugno. Ho scoperto poi che Cyrano era tra gli eroi preferiti di Simone Weil bambina, e la risonanza è troppo gustosa per non approfittarne. Uno sgraffignatore di insignificanti quisquilie 9 , questo è il drammaturgo nella definizione che Anthony Burgess dà di Shakespeare: ed è proprio così, chi scrive per il teatro attinge a una quantità di materiali eterogenei, un’enorme cascione, così si chiama anche la cassa che contiene i copioni dei comici napoletani, in cui si può trovare di tutto. Dal vecchio giornale di moda e costume al trattatello di morale, dal robusto tomo di filosofia al romanzetto rosa. Nel mio caso particolare il cascione contiene anche un’enorme quantità di musica, di tutti generi, ed è componendo una partitura musicale che ho sempre progettato i miei lavori. Costruendo cioè una scaletta, che andrà poi riempita di testi, azioni, partiture di immagini. Anche Café Cyrano è in musica e il suono dominante è quello dei teatri di varietà, non solo e non sempre italiani. Un altro elemento è la stonatura, la nota differente, che evochi un cambio di prospettiva nella visione del lavoro. Spostamento che amo condividere con il pubblico: uno spiazzamento per entrambi, per entrambi un cambio di prospettiva. E in questo calderone possiamo intanto ritornare al titolo, che come già scritto tutto o quasi contiene: Café. Aggiungiamo a Café per prima cosa Chantant ed ecco il Café Chantant: l’antesignano del Varietà, uno spettacolo composito di arte varia, in cui si succedono alcuni numeri o brevi rappresentazioni di genere diverso, prevalentemente musicale, comico o drammatico, alternati con attrazioni e cioè esibizioni di abilità, agilità e virtuosismo, senza alcun legame o filo conduttore. L’atto di nascita del caffè concerto – o Cafè Chantant – non ha data certa, ebbe grande impulso in Francia e precisamente a Parigi nella seconda metà dell’Ottocento, ma già nell’Inghilterra del Seicento alcuni intraprendenti gestori di Caffè, se Caffè li si può già chiamare, avevano avuto l’idea di offrire ai propri clienti, oltre alle bibite, un intrattenimento teatrale improvvisato da comici di passaggio. Quel che a me importa sottolineare, è che c’è un legame sottile ma preciso che unisce libero pensiero10, teatro e luoghi – apparentemente non destinati allo spettacolo – che finiscono per essere i centri dove l’arte, nell’accezione più ampia possibile, trova rifugio in tempi bui. Piove sul bagnato, oggi come ieri, e non è mia intenzione lamentarmi ancora dello stato della cultura, del teatro e delle malversazioni dei raccomandati di turno che, ora come allora, rubano la scena a Cyrano. A Savignen proprio il grande Molière rubò più di una scena11. Accenno a questo per cercare di chiarire il clima di questo Café Cyrano: da un punto di vista meteorologico pioggia a catinelle, con qualche schiarita. E come clima dell’epoca nostra, beh, una negozio d’impagliatore d’animali. Quando Shakespeare ebbe finalmente una biblioteca – ammesso che ciò sia mai accaduto –, si può stare sicuri che non somigliava a quella di Bacone». Da Anthony Burgess, op. cit., 1981, p. 46. 10 «Non ci era lecito mettere per iscritto le nostre idee libere – fa dire Kesten a Diderot – ma nei nostri caffè la libertà sussurrava e scherzava con la Rivoluzione. […] I nostri caffè erano giornali parlanti e covi di congiurati. […] I salotti erano le scuole secondarie della Rivoluzione, i caffè le sue università. Nei caffè i filosofi contagiavano con le loro idee i ricchi e i potenti; poiché talora sono i sani a contagiare i malati. Noi filosofi civilizzavamo nei nostri caffè le classi elevate, i loro salotti civilizzavano noi. Al caffè come al salotto la società diventava democratica». Da Massimo Scaglione, op. cit, 2001, p. 9. 11 Ecco il destino mio: far da suggeritore, - e meritar l’oblio! Ricordate la sera in cui nell’ombra nera Cristiano vi parlò? È tutta in quella sera la mia vita. Ed intanto che in fondo io son restato, altri a cogliere il bacio della gloria è montato! È giusto, ed io consento s ull’orlo dell’avello Che Molière ha genio, che Cristiano era bello! Da Edmond Rostand, Cyrano di Bergerac, atto V, scena V; traduzione di Mario Giobbe. 97 12 «Il mio ingresso nel gruppo surrealista avvenne in modo molto semplice e molto naturale. Fui ammesso alle riunioni che si tenevano al Cyrano e più raramente da Breton, in rue Fontaine 42. Il Cyrano era un tipico caffè di Pigalle, popolare, con puttane e magnaccia. Ci andavamo generalmente tra le cinque e le sei. Le bibite si dividevano in Pernod, mandarino- curacao e Picon-birra (con un’ombra di granatina). Quest’ultima era la bevanda preferita del pittore Tanguy. Che beveva un primo bicchiere, e poi un secondo. Al terzo, doveva chiudersi il naso con due dita». Da Luis Buñuel, op. cit., 1991, p. 116; prima edizione, Mon dernier soupir, 1982. 98 guerra non dichiarata apertamente e perciò più sottile, pervasiva. Per un teatrante ogni sciocchezza è buona e vanno bene anche le predizioni Apocalittiche. Una certa ironia, che pure attiene al mestiere, mi fa dire che se questo lavoro vedrà le scene, la luce, lo farà in pieno gran finale del duemilaedodici, per cui non ci resterà che brindare in scena, sperando di vedere il tredici, che per me è numero fausto, e in questo caso lo sarà per l’umanità intera. Gli scherzi qui sono serissimi, e l’apocalittica c’entra: non tanto come catastrofe mondiale e meritatissima, ma come genere letterario. L’apocalittica è infatti letteratura visionaria, di sogno vigile: visioni parallele e contemporanee dello stesso oggetto, in forma diversa, flusso libero dell’inconscio. Per questo si scrive l’apocalisse di … e qui segue un nome qualsiasi. Che l’autore sia Giovanni o Ludovica quella Apocalisse è sua e di nessun’altro. È un modo assolutamente personale di dire l’indicibile. A voler esagerare l’apocalittica è una forma di autobiografia visionaria. Sostituisce a eventi, fatti e cronologia un mondo di immagini, di visioni, di sogni, raccattati qua e là, mai del tutto spiegati e compresi. A mio parere, costituiscono l’autobiografia dell’anima. È una storia frammentata e ricomposta di catastrofi varie. Laddove catastrofe nell’antica lingua dei Greci significava svolta. Rimane da dire che a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, mentre un anticristo in baffetti alla Charlot impazzava su e giù, a destra e a manca per l’Europa, i surrealisti, maestri del genere apocalittico così come l’ho appena descritto, s’incontravano al Cyrano, caffè in Place Blanche, a Parigi, luogo dove si svolgeva gran parte dell’attività surrealista, come ci racconta Buñuel12. Qui il cerchio si chiude dando motivo al mio lavoro. Poi c’è ancora una cosa: Café Cyrano è proprio il luogo in cui vorrei passare il tardo pomeriggio, all’imbrunire, certa di trovarvi qualcuno di quei fratelli, che non sono più. LA COMPAGNIA La compagnia del Café Cyrano conta un bel numero di attori e proprio come le compagnie di tanti varietà la fingeremo anche familiare. Poi c’è una piccola orchestra di quattro elementi che accompagna i numeri cantati, i balletti e, in sottofondo, i testi. Lo Zio Capocomico, presentatore, è quello che dirige dal vivo, interrompe i numeri che non funzionano, dice le cose più caustiche, se necessario si assume lo scomodo ruolo di Cyrano ed è, anche, illusionista. (Questo personaggio si chiama Zio con qualche assonanza con Dio, il regista a teatro è un dio minore, ma ha il potere di immaginare la realtà; dio immagina, il diavolo prevede. “Mio Zio!” sentiremo esclamare. Chi lo grida non vuole evitare una bestemmia, lo fa in tutta verità, dice esattamente quel che dice). In sei formano il balletto. Cugine e ziette, alcune hanno numeri singoli o formano trii canori. Zia Pappi, vedette procace, non giovanissima, zia acquisita. Zia Nanà, la caratterista, bruttina e comica, in aperto contrasto con la vedette, anche trasformista. Zia Bibina, una zitella assai romantica. C’è il cantante sentimentale tombeur des femmes: un lontano cugino di cui sono tutte innamorate: a richiesta, il bellone ipnotizza le signore. La macchietta, fratello del capocomico, a cui il capocomico fa da spalla, esegue anche numeri di magia. 99 La caratterista, che all'occorrenza fa i trasformismi. Con la ragazzina fanno tredici, anche a tavola: ma la ragazzina scappa di qua e di là, impossibile tenerla seduta. È uno spiritello molesto: forse non esiste. (13 attori + 4 musicisti = 17). IL CANOVACCIO Ecco un’ipotesi di sceneggiatura – là dove la musica riesce a suggerirla – e un tentativo di spiegare uno spettacolo a chi, per il momento, non ha la possibilità di vederlo: giacché questi sono gli appunti di un progetto. Dimenticavo, è uno spettacolo di un genere nuovo: Autobiografico apocalittico. E qui ci vogliono fischi assordanti: “Presto! In scena le ballerine! Sipario! Sipario!”. Buio, si comincia sempre col buio. Dà sicurezza, ma forse no: allora luce fiochetta di ingresso pubblico. Scena parzialmente illuminata; attori e attrezzisti che si affaccendano, per dare l’aria di spettacolo contemporaneo Tutto questo solo per ascoltare, per intero, un’aria bellissima di Beniamino Gigli: Elegie, di Jules Mussenet, registrata alla Scala nell’aprile del 1935. Per confondere le acque subito e non cominciare con una nota troppo alta o troppo leggera. È una nenia che addormenta, l’incipit di un sogno, e questo sogno contiene uno spettacolo. Una voce fuori scena inizia il monologo di Cyrano, in cui dichiara di non volersi uniformare allo stile dei suoi contemporanei arrampicatori di scene, il famoso No Grazie (magari è proprio lo Zio a recitare, così, fuor di scena, un monologo che ama, con velleità d’attore serio quando gli tocca fare il varietà). Orsù che dovrei fare? ... Cercarmi un protettore, eleggermi un signore, e dell’edera a guisa, che dell’olmo tutore accarezza il gran tronco e ne lecca la scorza 100 arrampicarmi, invece di salire per forza? No, grazie! Dedicare, com’usa ogni ghiottone, dei versi ai finanzieri? Far l’arte del buffone pur di vedere alfine le labbra di un potente atteggiarsi a un sorriso benigno e promettente? No, grazie! Saziarsi di rospi? Digerire lo stomaco per forza dell’andare e venire? Consumar le ginocchia? Misurar le altrui scale? Far continui prodigi di agilità dorsale? No, grazie! Accarezzare con mano abile e scaltra La capra e intanto il cavolo innaffiare con l’altra? È aver sempre il turibolo sotto de l’altrui mento Per la divina gioia del mutuo incensamento? No, grazie! Progredire di girone in girone, diventare un grand’uomo tra cinquanta persone, e navigare con remi di madrigali, e avere per buon vento i sospiri di vecchie fattucchiere? No, grazie! Pubblicare presso un buon editore, pagando, i propri versi! No, grazie dell’onore! […] Scoprire ingegno eletto agli incapaci, ai grulli, alle talpe dare ali, lasciarsi sbigottire dal rumor dei giornali? E sempre sospirare, pregare a mani tese: pur che il mio nome appaia nell’inserto del mese? No, grazie! Calcolare, tremare tutta la vita, far più tosto una visita che una strofa tornita, scrivere suppliche, farsi qua e là presentare?... Grazie no! Grazie no! La scena è sistemata, un istante di buio totale tanto per far capire che finalmente lo spettacolo inizia, e il pubblico deve pur sedersi e smettere di chiacchierare e cincischiare cappotti e programmi. 101 Il pubblico è sempre e comunque fastidiosissimo: insomma il pezzo è finito e nel silenzio gravido di promesse, una voce infantile continua a recitare il No Grazie. La scena s’illumina e ci fa scorgere la fanciulletta in piedi su di un tavolo delle feste, di una qualsiasi famiglia italiana del secolo scorso, che aveva una sua qualche poesia e, soprattutto, era affollato. Lo faremo anni ‘30, ma io stessa ancora negli anni ‘70 ne vedevo di convincenti. La ragazzina termina il monologo. Grazie, no! No Grazie! Ma… cantare, sognar sereno e gaio, libero, indipendente, aver l’occhio sicuro e la voce possente, mettersi quando piaccia il feltro di traverso, per un sì, per un no, battersi per un verso! Lavorar, senza cura di gloria o di fortuna, a qual sia più gradito viaggio, nella luna! Nulla che sia farina d’altri scrivere, e poi modestamente dirsi: ragazzo mio, tu puoi tenerti pago al frutto, pago al fiore, alla foglia pur che nel tuo giardino, nel tuo, tu li raccolga! Poi, se venga il trionfo, per fortuna o per arte, non dover darne a Cesare la più piccola parte, aver tutta la palma della meta compita, e disdegnando d’essere l’edera parassita, pur non la quercia essendo, o il gran tiglio fronzuto salir anche non alto, ma salir senza aiuto! 13 13 Edmond Rostand, Cyrano Di Bergerac, atto II, scena VIII; traduzione di Mario Giobbe. 102 Applausi sperticati dei parenti. Una voce: A Cesare, t’amo fregato! (un pernacchio rumorosissimo). Un’altra: Quercia? Te sarai massimo massimo un cespuglietto di erba mala!’ Attacca Ciribiribin, qui nella versione del Trio Lescano che ha una notevole somiglianza con certe zie zitelle dei miei ricordi. I parenti tutti costruiscono una pantomima in cui sbaciucchiano la piccolina fino a costringerla a nascondersi sotto il tavolo; spada e cappello con pennacchio fortunosamente salvati e nascosti alle amorose intemperanze. A seguire lo Zio Capocomico, in smoking, si stacca dal gruppo e attacca A sera non si sa dove andare – mutuato, e magari riscritto con maggior cattiveria dall’originale di Rodolfo De Angelis – e finalmente dà il benvenuto al pubblico del Café Cyrano e chiacchiera familiarmente con gli astanti. Presenta gli attori, i parenti cioè, come una compagnia di Varietà. Anticipa qualche numero ed è tempo di un bel balletto distensivo: Don’t be that way. Finito il balletto, è il momento di annunciare la pioggia, insomma il clima meteorologico/metafisico del nostro trattatello apocalittico. Il primo di un’infilata di numeri, tutti immancabilmente interrotti e fischiati, è Tango Tango, nell’imperdibile interpretazione di Zia Nanà. A suivre. 103