Quaderno n. 73

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PREMESSE PROBLEMATICHE
SULLA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE (*)
Relatore:
prof. avv. Giovanni GIACOBBE
ordinario di istituzioni di diritto privato
nell’Università “La Sapienza” di Roma
1. -Sembra necessario premettere, prima di procedere alla analisi delle disposizioni che specificamente innovano nella disciplina
del processo cautelare una breve notazione in ordine alle origini della riforma, avuto riguardo alla impostazione che era stata adottata
dai compilatori del codice di rito civile.
Come è noto – e risulta in modo inequivoco dai lavori preparatori del codice del 1942 – la problematica dei provvedimenti cautelari e dei relativi procedimenti, aveva costituito oggetto di ampio
dibattito tra i processualisti. Codesto dibattito si è articolato anche
dopo l’entrata in vigore del nuovo codice, soprattutto perché si era
notato, forse a ragione che, la disciplina dei procedimenti cautelari – che pure corrispondeva ad una linea di pensiero che riconduceva alle elaborazioni dei più noti processualisti dell’epoca – non
corrispondeva ad un criterio unitario e sistematico: forse non si inseriva a pieno titolo nel sistema processuale introdotto con il codice del 1942.
Non essendo questa la sede per ripercorrere le tappe di quel dibattito, sarà solo sufficiente ricordare tra le altre, la fondamentale
opera di P. CALAMADREI, dedicata per l’appunto al tema dei pro-
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 18 al 21 gennaio 1994.
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cedimenti cautelari. Il legislatore della novella, cui ci si riferisce, ha
perseguito l’intento di dare un assetto unitario alla disciplina dei procedimenti cautelari.
Codesto intendimento emerge, non soltanto dalla intitolazione
della parte dedicata a tale disciplina, ma anche, e si direbbe soprattutto, dalle singole disposizioni che sembrano rispondere all’indicato disegno unitario, Peraltro, il legislatore degli anni ‘90, non poteva non tenere conto dell’ampio ed approfondito dibattito che si era
sviluppato nella dottrina e nella giurisprudenza nel corso della applicazione del codice del 1942.
2. – Nel cinquantennio di applicazione del quarto libro del codice di procedura civile, segnatamente nella parte relativa ai procedimenti cautelari erano emersi problemi di varia e diversa natura,
dai quali, pur nella complessità della loro articolazione, emergeva in
modo specifico la difficoltà di ricondurre la materia, e la disciplina
ad essa dedicata, ad unicità di sistema.
Tra i tanti aspetti della indicata problematica, si evidenziava la
questione concernente la immutabilità del provvedimento cautelare
fino alla decisione definitiva di merito: disciplina questa, che, se rispondeva alla logica originaria del codice di rito civile, relativa all’utopia o illusione dei compilatori di esso di avere realizzato un processo estremamente rapido ed immediato, certamente non corrispondeva – e non ha corrisposto – alla concreta attuazione di quel codice ed alla durata dei processi.
Invero, nella pratica realizzatasi attraverso l’esperienza operativa, il principio della immutabilità del provvedimento cautelare fino
alla decisione conclusiva del processo, attuantesi mediante il giudicato, se, in astratto, costituiva idonea misura diretta a tutelare la posizione della parte che aveva ottenuto la cautela, nella concretezza
del rapporto determinava grave e talvolta irreparabile incisione della posizione soggettiva della controparte.
Si tratta di uno degli aspetti più significativi della problematica
della tutela cautelare, in ordine ai quali opportunatamente è intervenuto il legislatore della novella.
3. -Un diverso aspetto della problematica applicativa del codice
del 1942 si referisce al rapporto intercorrente tra la disciplina cautelare tipica e la disciplina cautelare atipica, ormai comunemente in24
dividuata con il richiamo al famoso o famigerato art. 700 c.p.c., la
cui applicazione ha permeato larga parte della evoluzione del processo civile dagli anni sessanta in poi, coinvolgendo rilevanti questioni di diritto sostanziale.
Come è noto, la lentezza del processo civile e la conseguente inidoneità di esso di risolvere in modo adeguato e soddisfacente i conflitti di interesse davanti al giudice civile, ha comportato, attraverso
una prassi sempre più incisiva, tanto da potersi qualificare diritto vivente, l’uso alternativo degli strumenti cautelari atipici, rispetto all’ordinario processo di cognizione.
In tale contesto, dagli anni sessanta in poi, l’evoluzione del processo civile ha visto emergere come primaria la tutela cautelare atipica, rispetto all’ordinaria tutela cognitoria che, paradossalmente, ha
assunto un ruolo secondario, nella misura in cui la prima ha finito
per acquisire il ruolo di tutela anticipatoria del giudizio di merito.
Si tratta di un aspetto singolare della realtà processuale – che,
come già notato, ha avuto rilevanti incidenze di ordine sostanziale –
che si inserisce nella tendenza alla realizzazione di strumenti di tutela alternativi, in funzione della specificità degli interessi che si intendeva garantire.
Nell’indicato contesto si è inserita la tematica della cosiddetta
giustizia alternativa cautelare rispetto a quella cognitoria, tematica
che ha poi trovato ulteriori risvolti in quella del giudice, che, per
quanto attiene al processo civile, si è attuata attraverso la giurisprudenza pretorile realizzatasi mediante l’uso dello strumento
dell’art. 700 c.p.c.
4. – Il legislatore della riforma ha inteso porre rimedio alla descritta situazione, anzitutto disegnando un sistema processuale di cognizione di primo grado che dovrebbe risolvere, almeno in parte, i
problemi della crisi del processo civile.
Il condizionale è d’obbligo, essendo legittimo manifestare qualche perplessità in ordine alla idoneità delle nuove norme per conseguire il risultato perseguito.
È ben vero che occorre guardare alla riforma con ottimismo e,
soprattutto, con spirito costruttivo. Tuttavia è altresì necessario sottolineare – richiamando l’attenzione dei responsabili del funzionamento del processo civile – che le carenze strutturali potranno difficilmente essere superate dagli aggiustamenti normativi.
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5. – Attraverso la riforma, il legislatore, già nella intitolazione
del complesso normativo dedicato ai procedimenti cautelari, ha dato all’interprete una chiara indicazione nel senso della perseguita unitarietà sistematica della disciplina cautelare.
Codesta indicazione si riflette ed incide in modo particolare e
specifico nella parte relativa alla tutela cautelare atipica, la quale,
proprio per questa ragione, ha perduto quel connotato di specificità
che di essa era proprio, secondo l’art. 701 del codice di procedura
civile.
Infatti, l’attribuzione di competenza esclusiva inderogabile al Pretore per tutta la materia dei provvedimenti di urgenza indipendentemente dalla causa di merito, e quindi dai criteri determinativi di
competenza per tale causa, aveva avuto come conseguenza la qualificazione del procedimento secondo una fisionomia peculiare che ne
aveva consentito la dilatazione alla quale si era fatto riferimento.
È ben vero – e bisogna dare atto di ciò – che nella ideologia del
legislatore del 1942 la tutela cautelare atipica aveva, come si suoleva dire, carattere e connotati di residualità, con chiusura della tutela della parte nell’ambito del processo civile sul terreno del sistema
di cautela. Tuttavia, come si è già osservato, sin dalla prima applicazione del codice di rito, questo strumento di tutela – come del resto dimostrato dalla copiosa letteratura che si è andata formando –
ha determinato una diversa qualificazione di codesto strumento processuale.
6. – Alla luce delle notazioni fin qui svolte, sembra potersi osservare che, attraverso la unificazione dei meccanismi determinativi
della competenza in ordine alla tutela cautelare, il procedimento atipico di cui all’art. 700 c.p.c. ha perduto quella notazione di peculiarità e specificità, come si è notato, ad esso derivante dalla competenza funzionale inderogabile del pretore prevista dall’art. 701 c.p.c.
Ovviamente non è questa la sede per ricercare le ragioni di fondo che hanno ispirato il legislatore degli anni ‘90 nella attuazione
di una riforma che certamente può essere definita una svolta nella
disciplina del procedimento cautelare. Tuttavia, non può farsi a meno di notare che indubbiamente non di secondaria importanza sono state le preoccupazioni che erano sorte a seguito di alcuni indirizzi della giurisprudenza pretorile determinatosi nel corso degli ultimi 20 anni.
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In particolare non può non farsi riferimento a certe tendenze,
attraverso le quali, utilizzandosi lo strumento cautelare atipico, si sono determinate radicali modificazioni di rapporti di diritto sostanziale, pubblico e privato, secondo modalità che hanno suscitato
profonde perplessità.
Ed è proprio in relazione a questi indirizzi giurisprudenziali, che,
a partire dagli anni ‘80, alcuni Tribunali, tra i quali quelli di Roma
e Milano, avevano tentato di introdurre dei meccanismi di controllo
incidendo sul profilo della immutabilità del provvedimento cautelare fino alla sentenza definitiva del procedimento.
Si è trattato di lodevoli tentativi della giurisprudenza, in ordine
ai quali, tuttavia, sotto il profilo della rigorosa applicazione del sistema processuale allora vigente, non potevano e non possono non
manifestarsi motivate necessità.
7. – La novella degli anni ‘90 pone, come si è detto, in primo
piano l’obiettivo della unificazione della disciplina del procedimento
cautelare posto in diretto rapporto con la causa di merito attraverso il meccanismo determinativo della competenza.
Si è così risolto un conflitto giurisprudenziale tra magistratura
di merito e Corte di Cassazione in ordine alla interpretazione dell’art.
701 c.p.c., conflitto nella articolazione del quale si intrecciavano profili di natura processuale e aspetti di ordine sostanziale coinvolgenti questi ultimi la qualificazione della posizione giuridica soggettiva
oggetto di tutela.
In ordine alla scelta operata dal legislatore della riforma sembra
solo opportuno in questa sede prospettare alcune problematiche di
ordine pratico, relative alla incidenza che le carenze strutturali degli organi giudiziari potranno determinare circa il funzionamento del
nuovo processo cautelare.
In particolare, la diversa struttura dei Tribunali rispetto agli Uffici di Pretura potrà costituire ragione di divergenti orientamenti particolarmente negativi in tema di processo cautelare, proprio per la
delicatezza degli effetti che conseguono dalla misura cautelare sul
rapporto di diritto sostanziale.
Comunque, quali che siano le perplessità che possono essere manifestate l’interprete deve prendere atto della chiara ed univoca determinazione del legislatore il quale, attraverso la unificazione del
criterio determinativo della competenza ante causam ad emanare il
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provvedimento cautelare, tipico e/o atipico, ha inteso imprimere un
nuovo corso alla disciplina cautelare in aderenza al criterio di unificazione sistematica della materia.
Diverso, e di minore rilievo è il problema relativo alla competenza ad emettere il provvedimento cautelare in corso di causa, atteso che, per questo aspetto, nessuna innovazione è stata introdotta
rispetto al preesistente regime.
Restano, peraltro, aperti i profili problematici della individuazione del concetto di causa di merito.
8. – Un secondo profilo – relativo agli effetti della unificazione
dei procedimenti cautelari in unitarietà di disciplina giuridica – coinvolge il contenuto della tutela cautelare atipica, in relazione alla libertà delle forme, con esclusione di ogni rigore formale, salvo il rispetto del principio del contraddittorio.
In vero, l’art. 669 sexies dispone che il giudice, sentite le parti,
omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, deve provvedere.
Si tratta di una disposizione che merita particolare attenzione.
Infatti, in essa si colgono profili di particolare rilievo, nella misura in cui la esclusione di ogni formalità è correlata alla esigenza
– esplicitamente richiamata – di rispetto del contraddittorio: esigenza che trova indiretta conferma nella disposizone contenuta nel secondo comma dello stesso articolo laddove la mancata audizione delle parti opera, in ipotesi, soltanto quando la detta convocazione potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento.
Emerge dalla indicata disciplina che il legislatore ha inteso limitare quell’ampio margine di discrezionalità che era attribuito al
giudice nell’ambito del procedimento cautelare e, segnatamente, al
pretore, nell’ambito della procedimento cautelare atipico. Si tratta
dunque, di un procedimento, che per un verso, assegna al giudice
ampiezza di poteri, per altro verso, contiene significative limitazioni
dirette alla realizzazione di una più incisiva garanzia delle parti del
processo.
9. – Volendo trarre una breve linea conclusiva dalle rapide notazioni svolte, sembra potersi osservare che la nuova normativa contenente la disciplina del procedimento cautelare se, per un verso,
sembra corrispondere a quella esigenza di sistematicità che da più
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parti era stata richiamata, per altro verso, ha comportato una drastica delimitazione della rilevanza del procedimento cautelare atipico che, certamente, ha le sue giustificazioni, ma che, altrettanto certamente, suscita non poche perplessità.
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LE LINEE GENERALI DELLA LEGGE 26 NOVEMBRE
1990 N. 353 (*)
Relatore:
Avv. Alberto BUFFA
Avvocato in Torino
1. La prima osservazione di carattere generale riguarda la scelta fatta dal legislatore a favore del sistema della novellazione che, per
dichiarate ragioni di urgenza, ha sostituito la lungamente progettata
riforma integrale del codice di procedura civile.
Si tratta, a mio giudizio, di scelta molto discutibile in quanto
una novella di notevole estensione e di profonda incidenza concreta
inserisce, in un sistema esistente e retto da una logica interna, elementi nuovi che possono creare disarmonie, problemi interpretativi
e tentazioni di superare difficoltà di attuazione con adattamenti di
comodo. Inoltre, la modifica con disposizioni “ad intarsio” ed interventi a “pelle di leopardo” comporta collegamenti faticosi e pericolo
di errore nei riferimenti.
1.1. Nel nostro caso, peraltro, occorre dare atto di due fatti positivi: da un lato, l’esistenza di un’armonia sistematica tra le linee di
fondo della novella ed il codice nel quale essa è stata innestata; dall’altro, l’uso di una buona tecnica legislativa.
1.1.1. Per quanto concerne quest’ultima, abituati, come siamo,
ad una congerie di leggi mal scritte, con periodi interminabili, tal-
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 17 al 21 maggio 1993.
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volta costruiti con sintassi da brivido, trovare un testo di buona fattura è fatto non comune. Sembra di essere tornati ai testi di anni
lontani quando nelle norme si trovavano parole chiare, terminologia
esatta e precisione di concetti; ed anche l’impostazione sistematica
appare corretta.
1.1.2. Quanto all’armonia sistematica, cui poco prima accennavo, non è difficile ravvisare nella novella un ritorno allo spirito che
aveva animato l’attuale codice.
In sintesi, i grandi processualisti che posero mano a quella poderosa, integrale riforma, puntarono, con una trasformazione radicale, sulla concentrazione e sulla oralità. Ma in pochi anni ci si rese conto della prevalente forza delle abitudini, sicché, anche per una
certa pigrizia di giudici ed avvocati e per la già allora pesante mancanza di strutture, la trattazione scritta prese ben presto il sopravvento. Con la novella del 1950, poi, a seguito dell’apertura delle dighe istruttorie sino al momento della precisazione delle conclusioni, il sistema originario fu letteralmente rovesciato, rimanendo l’oralità di cui all’art. 180 c.p.c. un’enunciazione puramente retorica.
Oggi si è cercato di recuperare quello spirito, accentuandone la
portata, attraverso un rigido sistema di preclusioni e di termini perentori. Inoltre, la prima udienza di trattazione costituisce, nelle intenzioni del legislatore, il perno del nuovo processo di primo grado
e, nell’ambito di essa, un significato particolare deve essere attribuito “all’obbligo del giudice di interrogare liberamente le parti”. Qui vi
è un chiarissimo riferimento alla ormai ventennale esperienza del
processo del lavoro; ma alcuni commentatori ritengono che questo
interrogatorio generalizzato costituisca, nella maggior parte dei casi, una perdita di tempo.
Non mi sento di condividere questo punto di vista. Al contrario,
la mia personale esperienza di presidente o di membro di collegi arbitrali (rituali od irrituali) mi ha convinto che un buon interrogatorio delle parti, condotto con attenzione, equilibrio e, se mi consentite, con un po' di fantasia, aiuta molto ad entrare nel vivo della vertenza e di scorgerne aspetti che rimarrebbero altrimenti nascosti.
1.2. In conclusione, sulla ispirazione di fondo della novella, mi
sembra di poter dire che essa è pienamente coerente con lo spirito
del codice.
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2. Tenuta necessariamente presente la successiva legge 374/91
istitutiva del Giudice di pace, mi sembra che le linee generali e qualificanti della riforma possano essere ravvisate in questi punti:
– la sostanziale unificazione delle regole concernenti le eccezioni di incompetenza e l’abbreviazione del limite temporale, entro il
quale esse possono venire sollevate dalle parti e rilevate dal giudice;
– la nuova ripartizione delle competenze, con l’istituzione del
giudice di pace:
– l’istituzione del giudice monocratico in Tribunale:
– la modifica della struttura del processo di cognizione di primo grado, con l’introduzione di un rigoroso sistema di preclusioni e
di termini perentori;
– la previsione, all’interno di questo processo, di provvedimenti
di condanna per pagamento di somme e consegna;
– la provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado;
– la totale collegialità del procedimento di appello ed il divieto
di proporre in esso nuove eccezioni e mezzi di prova;
– l’attribuzione alla Corte di Cassazione del potere di decidere la
causa nel merito, quando accolga il ricorso per violazione o falsa applicazione di legge e non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto;
– l’introduzione, in capo alla sezione dei procedimenti cautelari, di una parte generale che ha il suo aspetto più rilevante nella possibilità di modifica e revoca dei provvedimenti e della loro reclamabilità immediata davanti al giudice superiore.
2.1. Dall’elencazione esposta sub 3 appare subito come “nessuna importante innovazione sia stata introdotta nel procedimento esecutivo”. E questo è certamente un grave difetto della riforma, perché, in quella sede, rallenta ancora il già lentissimo incedere del processo civile.
2.2. Tutti i principi elencati sub 3, ad eccezione della modifica dei
procedimenti cautelari, hanno un intento acceleratorio; e tra essi occorre, a mio parere, enucleare quelli che l’accelerazione vogliono raggiungere anche attraverso profonde modifiche di struttura. Parlo, segnatamente, della nuova ripartizione delle competenze, dell’istituzione del giudice monocratico in Tribunale e del Giudice di pace, nel
processo di cognizione di primo grado e della totale collegialità del
giudizio di appello.
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Le altre modifiche, pur significative, non toccano la struttura del
processo e di esse farò subito breve cenno.
2.3. Le limitazioni temporali alle eccezioni di incompetenza, meritano, a mio avviso, totale approvazione.
2.3.1. L’unificazione dei termini (prima udienza di trattazione)
entro i quali devono essere sollevate dalle parti e rilevate dal Giudice le eccezioni di incompetenza per materia e per valore, devono considerarsi modifica positiva; così come l’abbreviazione del termine preclusivo che, in ordine alle eccezioni di incompetenza territoriale, viene anticipato salvo per quanto concerne quelle di cui all’art. 28 c.p.c.,
alla comparsa di risposta.
Valutazione altrettanto positiva deve essere data sul regime stabilito dall’art. 38 c.p.c., in merito alla decisione delle questioni di incompetenza. Tutto ciò che favorisce la più rapida individuazione e
definizione delle questioni di competenza, consente, infatti, di giungere, in tempi più ragionevoli, a stabilire chi, nel merito, abbia torto o ragione.
2.3.2. In questa linea di pensiero si pone pure, e positivamente,
l’art. 367 c.p.c. che, nell’ipotesi di ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione per regolamento di giurisdizione, consente al giudice a quo, mediante ordinanza, di non sospendere il processo ove ritenga l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata.
2.4. Mi lascia, invece, perplesso, anche sotto il profilo deflattivo,
l’innovazione che, rovesciando una secolare tradizione, ha sancito la
provvisoria esecutività della sentenza di primo grado.
È vero che la nuova formulazione dell’art. 282 c.p.c. potrà indurre la parte che intenda resistere soltanto per guadagnare del tempo, ad evitare che un giudizio che dovrebbe essere breve ed al termine del quale la sentenza sarebbe provvisoriamente esecutiva. Ma,
non sono affatto sicuro della diminuzione degli atti d’appello; al contrario, essi potrebbero aumentare, sia per la speranza, da parte del
soccombente, di ottenere la sospensione di cui all’art. 283 c.p.c., sia
per l’effetto psicologico della provvisoria esecutività sulla parte vincitrice che, galvanizzata dalla concreta vittoria, potrebbe chiudere
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più facilmente la porta a quelle ragionevoli transazioni che talvolta
una sentenza non convincente induce a stipulare.
Resta comunque il fatto che la provvisoria esecutorietà può essere
molto pericolosa e tale da provocare, in taluni casi, danni irreparabili.
L’innovazione mi sembra, quindi, un’inutile forzatura, specie tenendo conto del fatto che il giudizio di appello dovrebbe essere veramente molto rapido.
2.5. Bene si inseriscono, nell’intento acceleratorio, i provvedimenti interinali anticipatori di condanna di cui all’art. 186 bis e ter.
In proposito, è stato da taluno osservato che, normalmente, la
parte che resiste contesta tutto e, che, quindi, raramente il giudice
istruttore potrà pronunciare l’ordinanza per il pagamento di somme
non contestate.
Non ritengo di condividere simili affermazioni: se anche i casi
di contestazione parziale fossero pochi, la loro esistenza giustificherebbe pur sempre la previsione normativa.
Anche in merito all’ordinanza di ingiunzione di pagamento o di
consegna, è stato avanzato il dubbio circa la pratica utilità di tale
previsione. Ove esistano i presupposti per ottenere un decreto ingiuntivo, è difficile immaginare, secondo taluni studiosi, che una parte non se ne sia avvalsa ed abbia scelto il giudizio ordinario, per poi
inserire in esso quanto avrebbe potuto chiedere prima.
L’osservazione appare sensata: ritengo però che solo il tempo potrà dirci se queste perplessità sono giustificate. Può darsi che la realtà
sia più favorevole di quanto si immagina e che la portata della modifica sia quindi incisiva.
2.6. Totalmente consenziente mi trova la nuova formulazione
dell’art. 384 c.p.c. che consente alla Cassazione quando accolga il ricorso per violazione o falsa applicazione di legge di fissare il principio
di diritto e di decidere la causa nel merito ove non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto.
L’eliminazione, in questo caso, del giudizio di rinvio evita una
fase che, senza ragione sufficiente, rallenta notevolmente il corso del
processo.
2.7. E qui mi sia concessa una parentesi. Ben altre sarebbero, a
mio giudizio, le riforme necessarie in ordine al giudizio di cassazio34
ne, sia per ridurre drasticamente il numero dei ricorsi, sia per consentire alla Suprema Corte di essere veramente regolatrice ed unificatrice della giurisprudenza.
2.7.1. Ritengo, anzitutto, che dovrebbe essere ripresa l’innovazione che il progetto ROGNONI voleva introdurre con la soppressione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (possibilità di ricorso per omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio).
Sono perfettamente conscio del fatto che questo punto di vista
non è condiviso da buona parte dei miei colleghi; ma ciò non mi esime dall’esporre onestamente un pensiero che ho sempre avuto in merito a questo motivo di impugnazione che obbliga la Cassazione ad
esaminare questioni di fatto. È un lavoro enorme (l’esperienza insegna che i ricorsi sono in grande maggioranza basati sul numero 5
dell’art. 360) e di scarsa utilità pratica, vista la modesta percentuale
di accoglimento. Ove il motivo di impugnazione in discorso fosse
abolito, la Corte Suprema potrebbe svolgere veramente il compito
per il quale è stata istituita e sarebbe molto meno oberata di lavoro; con un effetto deflattivo ed acceleratorio di grande portata.
2.7.2. Altra grande riforma sarebbe quella di rendere vincolante,
per tutti i giudici e per alcuni anni, un principio di diritto stabilito
dalla Cassazione a sezioni unite.
Ricordo che, secondo l’art. 65 dell’ordinamento giudiziario, la
Suprema Corte assicura “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei
limiti delle diverse giurisdizioni”. Principi solenni, ma abbastanza illusori. Un vecchio studio di Nicola JAEGER faceva discendere la forza del precedente, anche se non vincolante, dall’uso delle stesse argomentazioni logiche trovate buone, dall’abitudine e da una certa pigrizia mentale dei giudici. In realtà si può tranquillamente affermare che lo spirito, in se stesso certamente apprezzabile, di indipendenza del singolo giudice (particolarmente accentuato negli ultimi
anni) ha reso molto meno automatico l’adeguamento al precedente,
anche costante, della Corte di Cassazione. E non va dimenticato che
l’oscillazione interpretativa di questo stesso organo è notevole, sicché non è raro a distanza di poco tempo vedere una sezione semplice staccarsi dalla pronuncia delle sezioni unite e, nell’ambito di
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una stessa sezione semplice, constatare pronuncie opposte sullo stesso punto di diritto. Questo crea uno sconcerto veramente grande e,
di fatto, rende tendenzialmente declamatorio il principio di cui all’art.
65 dell’ordinamento giudiziario.
So benissimo che la tesi da me sostenuta, oltre a comportare
problemi di ordine costituzionale, si pone contro il tradizionale principio (indubbiamente rafforzato dall’art. 101 secondo comma Cost.)
in base al quale ogni giudice può liberamente decidere, anche in linea di diritto, secondo scienza e coscienza, al di la di quanto ritenga la Cassazione. Mi rendo, inoltre, conto della diminuzione che la
modifica recherebbe al contributo che la dialettica interpretativa tra
i giudici di merito e Suprema Corte reca all’evoluzione ed al miglioramento del diritto sostanziale. Ma si pensi, per converso, a quante migliaia di azioni non verrebbero neppure intentate sapendo, per
certo, che esse sarebbero destinate a sconfitta; e si aggiunga, la quantità di pareri sicuri sull’opportunità o meno di iniziare una lite che
l’avvocato potrebbe dare al cliente.
In sintesi, si tratta di una scelta fondamentalmente tra una giurisprudenza costante ed una giurisprudenza oscillante in perpetua ricerca della maggiore perfezione possibile. Personalmente propendo per
la giurisprudenza costante, anche considerando che il contributo della giurisprudenza di merito nell’evoluzione del diritto e nell’affinamento dei principi resterebbe pur sempre fondamentale data l’infinita varietà dei casi e delle questioni che l’evoluzione di traffici e dei
contratti, specialmente con le figure nuove, pone continuamente.
La parentesi aperta vuol essere soltanto il richiamo ad un problema che esigerebbe studi e dibattiti approfonditi nel quadro dell’integrale riforma del codice di procedura civile.
2.8. Chiusa la parentesi, torno alla pur buona riforma di cui
all’art. 384 c.p.c. per confermare che, comunque, si tratta, a mio avviso, di un notevole progresso.
3. Veniamo ora a quelle che ho dinanzi definito modifiche strutturali, cominciando dall’istituzione del giudice di pace e del giudice
monocratico in Tribunale.
3.1. Lascio al Prof. COSTANTINO la trattazione della legge istitutiva del giudice di pace, non senza però affermare che, a mio giu36
dizio, un’idea fondamentalmente buona si è risolta in una occasione
malamente sprecata.
Si è già parlato, da parte di molti ed ironicamente, di “giudici
di serie B” e di “giudici della terza età”. Ma a parte le battute, il rischio di un cattivo funzionamento del giudice di pace esiste veramente per gli stravaganti criteri di scelta legislativamente stabiliti che
possono aprire una falla di grandi proporzioni nella giustizia civile.
Basti pensare che, secondo stime attendibili, circa la metà delle cause sarebbe di competenza di codesti signori che, privi, nella maggior
parte dei casi, di qualsiasi pratica processuale e sulla base di antichi e pallidi ricordi di diritto, dovrebbero dirigere, istruire e concludere un giudizio che sarà di difficile conclusione anche per i giudici togati di vasta esperienza.
Comunque, la riforma è stata varata nel modo che conosciamo
ed il tempo ci dirà quali saranno state le conseguenze dell’impostazione scelta.
3.2. Di grande rilievo appare l’introduzione del giudice monocratico in Tribunale. La questione, come tutti sanno, è stata oggetto
di molte discussioni e mi sembra che nessuno abbia posto in dubbio il valore della collegialità; né si può ritenere che gli enormi ritardi nel processo civile tra il momento della precisazione delle conclusioni e la decisione collegiale (a Torino tra un anno e tre anni circa) siano addebitabili al Collegio, dipendendo essi invece dal carico
del giudice istruttore che sarà poi relatore in fase di decisione. In
questo senso, del resto, si erano pronunciati sia il Consiglio Superiore della Magistratura nel suo parere del 9 febbraio 1989, sia la relazione ACONE-LIPARI.
È stato, però, giustamente osservato che la collegialità, di fatto,
non funzionava, che essa era divenuta una vuota forma e che, di conseguenza esistendo una monocraticità occulta, tanto valeva renderla
ufficiale per legge. In proposito, il Comitato direttivo centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, nella seduta del 6 novembre 1988,
affermò che il giudice collegiale di primo grado è un lusso non più
consentito sul piano dell’efficienza e della razionalità del sistema.
Ritengo che, stando le cose come nella maggior parte dei casi è
stato possibile verificare, l’introduzione del giudice monocratico in
Tribunale sia da considerarsi un fatto positivo, Piuttosto, quello che
non convince del tutto è la riserva di collegialità prevista in nove ca37
si dall’art. 48 dell’Ordinamento giudiziario. A parte i giudizi di appello, sono enumerate ipotesi scarsamente convincenti, (ad es. lo scioglimento di contratti commerciali complessi come quelli bancari ed
i contratti atipici che tanta parte hanno oggi nello sviluppo del mondo degli affari e che costituiscono zone grigie di non facile interpretazione e di grande rilievo pratico.
In tema di monocraticità, è bene anche rilevare come il risultato della riforma sia molto diverso da quanto affermato nella relazione ACONE-LIPARI alla Commissione Giustizia. In tale testo si legge che “l’attuale proposta va valutata nella prospettiva della istituzione del giudice unico e monocratico di primo grado... L’istituzione di un unico giudice monocratico, di primo grado, infatti, costituiva un’antica aspirazione .... la meta di questa evoluzione dovrebbe consistere nel ripartire la competenza in primo grado tra l’istituendo giudice di pace ed un unico magistrato togato, eventualmente
a struttura ambivalente (monocratico e collegiale);.... Appare ragionevole sopportare,nel breve periodo, il costo di una sostanziale duplicazione di uffici giudiziari (pretore e giudice monocratico di Tribunale) con l’espressa riserva di procedere ad una loro fusione”.
Quando la riforma entrerà interamente in vigore, noi avremo, in
realtà, ben sei giudici di primo grado, dei quali cinque monocratici:
il conciliatore (per le cause in quel momento pendenti – art. 44 L.
374/91), il giudice di pace, il pretore, il pretore del lavoro ed il giudice istruttore del Tribunale in funzione dei giudice unico. Esaurite
le pendenze del conciliatore, avremo comunque ancora cinque giudici di primo grado,dei quali quattro monocratici ed uno collegiale
(il Tribunale, quando per esso la collegialità è prevista).
3.3 Sembra quindi di poter concludere che la razionalizzazione
di cui si parlava nella relazione ACONE-LIPARI non solo non sia stata attuata ma che di essa sia stata resa molto difficile una futura realizzazione. In altri termini, sarebbe stato logico impostare, in primo
luogo, la suddivisione delle competenze tra giudici di pace e giudici
togati; poi rivedere le circoscrizioni giudiziarie, (meglio distribuendo i giudici secondo le varie esigenze) e, infine, procedere al varo
della riforma.
3.4 Il giudice monocratico di Tribunale è, comunque, stato introdotto e, ripeto, malgrado l’alto valore della collegialità, la modifi38
ca merita approvazione. Si aggiunga poi che, in piena coerenza col
sistema adottato il giudice monocratico avrà poteri molto maggiori
di oggi nella guida del processo, come tra poco vedremo trattando
un’altra delle linee portanti della riforma: i principi regolanti la trattazione della causa.
In sintesi, si può dire che mentre, ancor oggi, le parti generalmente conducono l’istruttoria come vogliono, di fronte ad un giudice che poco o nulla conosce degli atti sino al momento in cui trattiene la causa a riserva, in base alla riforma lo sviluppo del giudizio
dovrà risentire fortemente dell’impostazione data dal giudice istruttore. Alcuni hanno anche affermato che la novella manifesta nel giudice molto maggiore fiducia; mentre altri, al contrario, hanno osservato che la stessa rigidezza del sistema delle preclusioni e dei termini perentori e, in particolare, il sistema dei reclami (segnatamente per quanto concerne i provvedimenti cautelari) portano ad un ridimensionamento dei poteri discrezionali del giudice e, di conseguenza, ne limitano la libertà di conduzione del processo, con un
continuo controllo, segno di fondamentale sfiducia.
A me pare che il sistema posto in essere sia coerente con lo spirito della riforma: maggiori poteri e, di conseguenza, anche maggiore
controllo sull’esercizio degli stessi., I due punti appaiono tra loro ben
collegati ed ogni discussione sulla maggiore o minore fiducia concessa al giudice mi sembra puramente accademica.
4. Le norme sulla trattazione della causa, in particolare quelle concernenti la prima udienza di trattazione con le annesse preclusioni e
termini perentori costituiscono certamente la parte centrale della riforma, quella che dovrà incidere maggiormente sulla struttura del procedimento di primo grado.
L’esposizione del sistema creato dalla novella e l’esegesi delle singole norme spetterà nei prossimi giorni agli altri relatori. Per quanto mi concerne, sempre per restare nel campo delle linee generali,
ritengo che due punti debbano essere posti in rilievo: l’obbligo alle
parti di dire “tutto e subito” quanto ritengono utile per la difesa delle proprie ragioni e le condizioni di oggettivo vantaggio nelle quali è
stato posto l’attore rispetto al convenuto.
4.1. Il sistema delle preclusioni e dei termini perentori di cui all’art.
183, costringeranno le parti a scoprire le loro carte all’inizio del pro39
cesso; e questo è certamente l’effetto di avere modellato la riforma, in
questa parte fondamentale, sull’esperienza del processo del lavoro.
Non vi è dubbio che si tratta di una vera e propria rivoluzione
rispetto al modo attuale di condurre il processo da parte dei difensori; oggi infatti molti elementi vengono gradualmente immessi nel
procedimento o per ragioni tattiche o perché si tratta di questioni di
fatto e di argomenti giuridici che lo sviluppo stesso della causa fa
gradualmente emergere.
Su questa riforma fondamentale mi sembra opportuna qualche
riflessione.
4.1.1. Il “tutto e subito” è la naturale conseguenza della oralità
e della concentrazione volute dalla novella: non è infatti immaginabile che possa essere orale e concentrato un procedimento in cui gli
argomenti della trattazione siano frazionati e si trascinino nel tempo; e sotto questo profilo, si tratta di una innovazione positiva.D’altra parte, non si può tacere qualche notevole perplessità in ordine
all’astrattezza eccessiva cui appare improntato il principio del “tutto
e subito”. Nel processo del lavoro, le questioni sono certo numerose, ma infinitamente più limitate di quelle che formano oggetto degli ordinari procedimenti e, soprattutto, palesano un alto grado di
ripetitività. Nel processo del lavoro, quindi, il gettare sul tappeto tutte le proprie carte ha non soltanto fondamento teorico, ma una sua
pratica, concreta attuabilità.
Dubito, invece, che ciò sia sempre possibile nell’ordinario processo civile, poiché in esso si possono manifestare ed intrecciare numerose questioni di rilevante complessità. L’esperienza insegna come
molti problemi sorgano o vengano chiariti attraverso la dialettica processuale; ed ogni avvocato conosce la sostanziale impossibilità di
scorgere subito tutti i fatti ed argomenti rilevanti, sia pure dedicando alla causa ogni diligenza ed attenzione.
Inoltre, questo sistema costringe ad affastellare fatti ed argomenti nel tentativo di non dimenticare nulla. Già è normale che, nelle sue difese, l’avvocato avanzi molte tesi, principali e subordinate,
sia perché, oggettivamente, non è sempre facile centrare il cuore del
problema, sia perché egli non può immaginare quali saranno i fatti
e gli argomenti convincenti per il giudice.
Alcuni hanno affermato che, con la riforma, l’opera dell’avvocato nel prosieguo del giudizio, sarà quella di tagliare e ridurre. E fin
40
qui nulla di male; ben più grave appare il fatto che il rigido sistema
delle preclusioni e dei termini perentori renda impossibile sottoporre successivamente al giudice fatti ed argomenti decisivi. A me sembra che tra l’inaccettabile sistema attuale e quello posto in essere dalla novella si potessero adottare regole più elastiche in ragione della
particolare complessità di molte cause, senza dover ricorrere alla rimessione in termini di cui all’art. 184 bis c.p.c. della quale sarà assai difficile, nella maggior parte dei casi, ravvisare gli estremi.
4.2. Non vi è poi dubbio alcuno ( e molti, in scritti e convegni, lo
hanno fatto rilevare) che, con la riforma, l’attore viene favorito rispetto
al convenuto; ed anche qui si è verificato un totale rovesciamento di
situazione. Sino ad oggi, la posizione del convenuto era, per lo meno
all’inizio, abbastanza comoda, potendo il suo difensore limitarsi ad
una semplice, totale contestazione, per poi sviluppare le difese nel lungo corso del giudizio; e ciò anche approfittando del fatto che il giudice istruttore normalmente poco o nulla conosceva della causa sino
al momento in cui doveva prendere provvedimenti istruttori. Con il sistema delle preclusioni e dei termini perentori adottati, il “tutto e subito” diventa un grosso problema per il convenuto, specie tenendo presente che, molte volte, la parte si reca dall’avvocato per le più svariate ragioni, molto tardi, mentre per converso, l’attore ha avuto tutto il
tempo che gli era necessario per preparare il suo attacco.
Ritengo che questo sia un punto molto criticabile della riforma.
Il fatto che una parte si renda attrice, nulla dice sulla bontà dei suoi
argomenti e sulla maggiore o minore ragione che essa può avere;ed
assicurare alle parti, in contraddittorio tra loro, pari possibilità di
difesa è una esigenza di civiltà processuale.
Lo scompenso rilevato potrà provocare ingiustizie, facendo anche ricadere sulla parte gli errori e le manchevolezze del difensore.
Mi auguro, quindi, che le prime esperienze rapidamente portino ad
una modifica che non presenterebbe alcuna difficoltà tecnica e che
non toccherebbe la sostanza della riforma ed il suo intento acceleratorio.
5. Altro principio qualificante della riforma è senza dubbio quello della struttura del giudizio di appello che ha le sue caratteristiche
nella collegialità totale e nel divieto assoluto di nuove eccezioni e mezzi di prova, salvo che il collegio non le ritenga indispensabili ai fini
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della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver
potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non
imputabile.
5.1. Il lusso della collegialità che, come abbiamo rilevato il processo civile italiano non si può, secondo le autorevoli opinioni dianzi ricordate, concedere in primo grado, trionfa totalmente in appello. E ciò dimostra come il legislatore sia perfettamente convinto del
valore di una collegialità che funzioni effettivamente, mediante quello scambio di idee ed esperienze che costituisce sicura garanzia per
le parti.
5.2. Per quanto riguarda il divieto di nuove domande, eccezioni
e mezzi di prova, il nuovo sistema riduce l’appello ad una revisio
prioris instantiae.
Indubbiamente, la semplificazione e l’accelerazione saranno notevoli, ma non sono del tutto convinto che il sistema adottato sia il
migliore; è chiaro, ad esempio, che la produzione di nuovi documenti
non farebbe perdere neppure un giorno di tempo. Occorre peraltro
riconoscere che la scelta fatta è del tutto coerente con quel “tutto e
subito” che è uno degli assi portanti della novella.
5.3. In conclusione su questo punto, ritengo che il valore della
collegialità nella quale credo profondamente, venga abbastanza sprecato con il divieto totale di domande, eccezioni e prove. E, sotto questo profilo, risulta unicamente frutto di rigore sistematico il principio secondo il quale anche la regolare costituzione del giudizio debba essere constatata dal collegio, quando ben altri argomenti di riesame ed approfondimento gli vengono sottratti.
Il tempo dirà se la drastica riduzione della materia del giudizio
di appello, gioverà, o meno, all’equilibrio tra l’accelerazione ed il
buon giudizio.
6. Una delle più importanti modifiche della novella riguarda l’introduzione nel libro IV, Capo III, della sezione riguardante i procedimenti cautelari in generale.
6.1 Si tratta di una razionalizzazione di carattere organico che
da una impostazione sistematica a quattro delle cinque sezioni del
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Capo III con l’applicazione, inoltre dell’art. 669 septies ai provvedimenti di istruzione preventiva.
Questa parte generale non ha goduto,da parte di taluno, di molto apprezzamento, essendo stata considerata un inutile appesantimento accademico. Io ritengo invece che si tratti di un buon progresso nel quadro del libro sui procedimenti speciali del quale molte volte si è lamentata l’approssimazione.
Per quanto concerne i quattordici articoli di questa parte generale, mi soffermerò unicamente su quelli che ritengo fortemente innovativi.
6.2. L’unificazione delle norme sulla competenza di cui agli articoli 669 ter e quater appare modifica positiva per l’apporto che ne
discende di semplicità e chiarezza.
6.3. Estremamente importante (si tratta, a mio giudizio, di una
delle norme più significative dell’intera novella) è l’introduzione della possibilità:
– della revoca e modifica del provvedimento cautelare nel corso
dell’istruzione;
– del reclamo immediato contro tali provvedimenti previsto
dall’art. 669 terdecies;
– dall’inefficienza del provvedimento cautelare ex art. 669 novies
comma III, quando con sentenza, anche non passata in giudicato, è
dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso.
6.3.1 Per quanto concerne quest’ultima ipotesi, cade finalmente
l’assurdo principio in base al quale, respinta nel merito con sentenza, la domanda di chi aveva ottenuto il provvedimento, restava in vita (normalmente per molti anni), la misura cautelare, sino al passaggio in giudicato della pronuncia con la quale veniva dichiarato
inesistente il diritto a protezione del quale essa era stata concessa.
Si tratta di un principio che ha pesato moltissimo per decenni
ed in modo profondamente ingiusto, causando spesso danni irreparabili. Si pensi ad esempio ad un sequestro di azienda. Ottenuta, a
volte completamente a torto, la misura cautelare, il sequestrante aveva praticamente messo a terra l’avversario che, ove l’azienda non
avesse già subito danni irreparabili, aveva la sola alternativa di una
disastrosa transazione.
43
6.3.2 Altrettanto bene può dirsi della revoca prevista dall’art. 669
decies se si verificano mutamenti delle circostanze.
6.3.3 Infine, la reclamabilità immediata al giudice superiore.
Qui i pareri espressi sono diversi, in quanto da taluno è stata
fortemente criticata l’introduzione di una sorta di doppio grado di
giurisdizione all’interno dei procedimenti cautelari.
È stato, in primo luogo, detto che la disciplina complessiva porta una commistione tra due modelli processuali diversi (quello della revocabilità o modificabilità da parte del giudice che ha emesso
il provvedimento e quello, contrapposto, dell’impugnazione davanti
ad un giudice superiore, con una conseguente incoerenza sistematica).
Inoltre, e questa è l’obiezione più forte, si è sostenuto che i tribunali, in formazione collegiale, verranno inondati da ricorsi contro
i sequestri concessi, dovendosi ragionevolmente immaginare che i difensori dei soggetti colpiti dal provvedimento cautelare non rinuncino alla possibilità di ottenere l’annullamento del provvedimento da
parte del giudice superiore.
6.4. In linea teorica, non mi convince l’asserita disarmonia sistematica tra revoca e reclamo, rispondendo essi ad esigenze totalmente diverse (per la revoca occorrono, infatti mutamenti di situazioni).
In concreto poi, l’importanza ed il peso di provvedimenti cautelari è tale da farmi vedere con favore la possibilità di un reclamo
che costituirà certo un appesantimento di lavoro, ma consentirà, molte volte, di porre immediatamente rimedio a gravi errori che possono avere conseguenze definitive per la parte colpita.
Si tratterà forse come taluno ha sostenuto di “formalismo delle garanzie” ma, troppe volte abbiamo constatato l’effetto devastante di una misura cautelare iniziale presa a carico di chi, nel merito, troppo tardi ha poi avuto ragione. Non mi sembra quindi peso
troppo gravoso quello che potrebbe derivare dalla reclamabilità immediata. Non mi nascondo certo i pericoli dell’appesantimento del
processo (anche se troppo poco tempo è passato per giungere in merito a qualche conclusione) ma, ove il procedimento di primo grado sia veramente rapido, non riesco a vedere rischi così gravi in
questo sistema garantista che costituisce indubbiamente la giusta
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reazione a decenni di uso disinvolto dei procedimenti cautelari tipici e dell’art. 700 c.p.c. sul cui uso ed abuso (indubbiamente originato dall’intollerabile lentezza dei giudizi) non è necessario spendere parole.
7. Questi mi sembrano i principi generali di maggiore e più evidente rilievo.
A questo occorre porsi la domanda: questa riforma migliorerà in
concreto, il funzionamento del procedimento civile?
7.1. Partiamo da una constatazione: l’attuale stato di sfacelo della giustizia civile. I dati sono impressionanti e presso i grandi centri la durata delle cause è tale da risolversi, sostanzialmente, in una
denegata giustizia. Di qui il moltiplicarsi degli arbitrati (specie irrituali) che sottraggono ai giudici ordinari questioni di grande valore
e rilievo giuridico e consentono solo alle imprese ed alle persone abbienti una giustizia rapida ed efficiente. E questo costituisce, dal punto di vista sociale e dello stato di diritto, una grave sconfitta.
7.2. Alla domanda se la riforma migliorerà la giustizia civile, si
potrebbe sbrigativamente rispondere che non si vede come la situazione sia suscettibile di ulteriori peggioramenti. Ma non si può onestamente tacere una pesante e ragionevole preoccupazione causata
da un vecchio vizio che in parte è dovuto, direi, al nostro carattere
nazionale, e in parte, ad una sorta di spirito astratto ed accademico. Quando qualcosa non funziona, la prima soluzione italiana è quella di creare o modificare una legge, pensando che, attraverso di essa, i problemi trovino soluzione.
Questo non riguarda soltanto la giustizia ma un po' tutta la vita del nostro Paese. Mancano mezzi di trasporto e parcheggi? L’unica soluzione logica sarebbe quella di costruirli, ma la più adottata è
quella di emanare disposizioni che limitino, impediscano, multino,
con il risultato che nulla si risolve e tutto si aggrava.
Lo stesso accade con la Giustizia che, se non erro, “vanta” la minor quota di spesa tra i Ministeri italiani. Le strutture sono del tutto carenti, mancano personale e mezzi di ogni genere. Inoltre, l’organizzazione e la ripartizione del lavoro è quanto mai arretrata ed
irrazionale; sicché esistono sedi nelle quali i giudici sono oberati di
lavoro ed altre assai meno gravate.
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Si tratta di situazioni che Voi conoscete molto meglio di me. Sono certo, però, che sino ad ora nulla si è fatto nel campo delle strutture per rendere possibile l’applicazione delle nuove norme,. Di qui
la grossa incognita stessa di far funzionare il sistema riformato. E ciò
tanto più considerando che la novella, quando entrerà integralmente in vigore, esigerà un modo totalmente diverso di lavorazione da parte di giudici e di avvocati.
7.2.1. Il giudice infatti dovrà dirigere l’udienza conoscendo perfettamente gli atti, per essere in grado di svolgere tutte le funzioni
che sono previste dalla legge, con particolare riguardo alla necessità
di prendere, con rapidità, le decisioni sull’indirizzo dell’istruttoria
che, come abbiamo visto, costituiscono una delle linee fondamentali della riforma. Questo significa che egli dovrà trattare in una mattina, al massimo quattro, cinque cause, calcolando che ciascuna di
esse richiederà normalmente almeno 45 minuti di tempo. Si imporrà,
quindi, un considerevole aumento delle udienze ed il giudice dovrà
aumentare di molto la sua presenza in ufficio.
7.3.1 Per quanto concerne l’avvocato, egli dovrà dimenticarsi totalmente l’invio in udienza di un sostituto che chieda ed ottenga dal
collega e dal giudice il solito rinvio. Anch’egli dovrà essere a conoscenza piena dello stato della causa, dei problemi che possano sorgere e dovrà essere in grado di prendere quelle decisioni che la difesa esigerà in quel momento.
Una vera e propria rivoluzione.
Aggiungo che, per quanto concerne gli avvocati, la riforma renderà sempre più necessaria la costituzione di associazioni professionali al fine di avere, in studio, più persone in grado di gestire le cause. Se si vorrà porre in atto quella valida difesa che il cliente ha diritto di pretendere e la giustizia ha bisogno di vedere posta in atto,
anche l’organizzazione del lavoro dell’avvocato dovrà cambiare.
Non so se uno degli effetti indiretti del codice sarà, nel tempo,
quello di distinguere, nell’ambito dello stesso ufficio, tra coloro che
si occupano di questioni stragiudiziali e coloro che trattano le cause. Penso che, a medio e lungo termine, questo sia uno degli eventi prevedibili, anche se una soluzione di questo genere suscita in me
qualche perplessità. Ritengo, infatti, necessario, anche per l’avvocato che svolga la maggior parte della sua attività nel campo stragiu46
diziale, mantenere un contatto diretto con la trattazione delle cause. A mio giudizio, non si può fare un buon contratto e non si possono risolvere i problemi societari,se non si ha bene in mente (e
non soltanto attraverso la lettura delle riviste) la patologia di queste vicende e non si conoscono gli infiniti problemi che la pratica
processuale pone in evidenza e che devono essere risolti prima in
modo che le liti non sorgano, essendo state previste e, per quanto
possibile, eliminate o ridotte al minimo le eventuali ragioni di contesa.
8. Se me lo consentite, vorrei ancora fare un passo avanti che
ritengo strettamente collegato con il tema di cui stiamo trattando.
Sono, infatti, profondamente convinto che il reclutamento degli avvocati e dei giudici, in Italia, non sia fatto bene.
8.1. Per quanto concerne i giudici, è sbagliato non sottoporre i
candidati ad una selezione attitudinale ed attuare una scelta sulla sola conoscenza di un vastissimo numero di norme di diritto, Dimostrazione, questa, di capacità intellettiva e mnemonica che, se pur
necessaria, nulla dice in merito a quelle doti di capacità di ascolto
e di equilibrio che sono indispensabili per esercitare questo difficilissimo mestiere.
Un diverso sistema di reclutamento dovrebbe prevedere, a mio
avviso, una lunga scuola di formazione e di selezione, sull’esempio
(che risulta aver dato buoni frutti) dell’Ecole Nationale de Magistrature francese. Così come appare necessaria la modifica dell’attuale disincentivante avanzamento per anzianità, che non premia certo i più
preparati e laboriosi.
So benissimo che la mia opinione contrasta con il pensiero dominante e non ignoro che il metodo rigorosamente selettivo proposto può, a volte, dar luogo ad abusi; ma si tratta di rischi che ben
non possono essere corsi per correggere il sistema attuale che, a mio
avviso, presenta difetti maggiori.
8.2. Passiamo ora agli avvocati: secondo dati recenti, siamo, in
Italia, circa 60.000. Un numero spaventoso (non paragonabile a quello degli altri Paesi industrializzati) che non garantisce doti di moralità e competenza tali da consentire il buon esercizio di questo difficile, duro e delicato mestiere.
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Anche questo problema deve essere affrontato e risolto con senso
di responsabilità. A mio giudizio, chi vuole diventare avvocato dovrebbe, in primo luogo, frequentare, dopo l’Università, una scuola di
specializzazione pluriennale fortemente selettiva; sicché solo coloro che
abbiano felicemente superato tale corso, possano, dopo un periodo di
pratica, affrontare l’esame per esercitare la professione. Si avranno così avvocati seriamente preparati; né si dica, come talora si sente affermare, che la selezione avviene naturalmente nel corso di pochi anni. A parte la considerazione che ciò non è sempre vero, perché conosciamo tutti molti avvocati che hanno ottimi clienti solo perché vantano buone conoscenze, lo scarto quando avviene, si verifica a seguito di ripetuti casi dannosi per i clienti e questo non è accettabile.
8.3. Non ignoro, e lo ripeto per chiarezza ed onestà, che quanto accennato su questi delicati argomenti (che meriterebbero da soli approfonditi dibattiti) non solo non è condiviso da moltissimo giudici e colleghi, ma, in sede legislativa, troverebbe opposizioni fortissime ed oggi insuperabili, anche di ordine corporativo. Ma non si
potrà negare che, malgrado le presenze di moltissimi buoni magistrati ed avvocati, la situazione debba essere profondamente modificata. È difficile immaginare quando ciò sarà possibile, ma il problema si riproporrà con sempre maggiore peso ed occorrerà necessariamente trovare una soluzione.
9. Torno ora al tema e concludo. Le linee generali della riforma
mi sembrano tracciate con formale e sostanziale coerenza. Certo si
sarebbe potuto fare meglio o addirittura (come ho detto all’inizio di
questa relazione) intervenire incisivamente sulle strutture, limitarsi
a pochi ritocchi, per poi procedere, con basi operative molto più solide, alla totale riforma del codice. Ma oggi la legge esiste; in parte
è entrata in vigore ed in parte troverà prossimamente applicazione.
E qui si possono fare due previsioni ed un augurio.
9.1. È chiaro che se le strutture non miglioreranno, un semplice calcolo del numero delle cause vecchie e nuove induce a ritenere
che in un tempo più o meno lungo, il sistema si arenerà nuovamente.
9.2. In secondo luogo, la riforma non potrà avere effetti positivi, se giudici ed avvocati non dimostreranno lealtà e buona volontà
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nell’applicazione della riforma. È un problema di strutture, abbiamo
detto, e di organizzazione ; ma è anche un problema di uomini; se
essi non si impegneranno seriamente, nessun risultato potrà essere ottenuto.
9.3. L’augurio è che, anche nell’attuale carenza di strutture, giudici ed avvocati vogliano veramente attivarsi perché la riforma sia
applicata.
Personalmente lo ritengo un dovere morale; così come penso che
solo un atteggiamento positivo nei confronti della riforma, potrà consentire un graduale miglioramento della giustizia civile.
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CAPITOLO II
GIURISDIZIONE, COMPETENZA
E CONNESSIONE
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L’INDIVIDUAZIONE DEL GIUDICE NELLA RIFORMA
DEL PROCESSO CIVILE (*)
Relatore:
prof. Giorgio COSTANTINO
ordinario di diritto processuale civile
nella Università di Bari
SOMMARIO: 1. - I giudici “ordinari”. 2. - La struttura degli organi giudiziari “ordinari”. Le circoscrizioni giudiziarie. 3. - L’estensione del principio della perpetuatio jurisdictionis allo jus superveniens. 4. - La questione di competenza. 4.1. - La preclusione del rilievo e dell’eccezione di incompetenza:
la prima udienza di trattazione. 4.2. - La decisione della questione di competenza. 4.2.1. - Segue … nel processo ordinario di cognizione innanzi ai
giudici togati. 4.2.2. - Segue … nel processo ordinario di cognizione innanzi al giudice di pace, nel processo semplificato di opposizione alle ingiunzioni amministrative e innanzi alle commissioni tributarie. 4.2.4. Segue … nei processi sommari e in quelli esecutivi. 4.3. - Segue … Il regolamento di competenza d’ufficio. 5. - I nuovi criteri di competenza.
5.1. - Le controversie attribuite alla competenza del giudice di pace. 5.1.1.
- La competenza fino a lire cinque milioni. 5.1.2. - La competenza fino
a lire trenta milioni. 5.1.3. - La competenza per materia. I. - art. 7, co.
4°, n. 1. II. - art. 7, co. 4°, n. 2. III. - art. 7, co. 4°, n. 3. IV. - art. 7, co.
4°, n. 4. 5.1.4. - L’incompetenza per materia cautelare. 5.2. - Le controversie attribuite alla competenza del pretore. 6. - I rapporti tra magistrati
addetti al medesimo ufficio. 6.1. - I rapporti tra le sezioni della pretura.
6.2. - I rapporti tra giudice unico e collegio in tribunale. 7. - La connessione di cause. Cenni sulle modifiche in tema di sospensione per pregiudizialità.
(*) Queste pagine sono parte di un commento alle leggi di riforma della giustizia civile in preparazione per i tipi della UTET e hanno costituito oggetto della relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 17 al 21 maggio 1993.
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1. I giudici “ordinari”
L’art. 45 l. 21 novembre 1991, n. 374, intitolato Dei giudici, dispone: “1. Il primo comma dell’articolo 1 dell’ordinamento giudiziario, approvato con r.d. 30 gennaio 1941, n.12, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente: “La giustizia nella materia civile e
penale è amministrata: a) dal giudice di pace; b) dal pretore; c) dal
tribunale ordinario; d) dalla corte di appello; e) dalla corte di cassazione; f) dal tribunale per i minorenni; g) dal magistrato di sorveglianza; h) dal tribunale di sorveglianza””.
L’art. 102, co. 1°, Cost., peraltro, stabilisce che “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. E l’art. 64 r.d. 30 gennaio
1941, n. 12, sull’ordinamento giudiziario, prevede il tribunale regionale delle acque pubbliche.
Gli artt. 409, n.2, c.p.c., 9 l. 14 febbraio 1990, n. 29, 47 l. 3 maggio 1982, n. 203, e 26 l. 11 febbraio 1971, n. 11, inoltre, attribuiscono alla competenza delle sezioni specializzate agrarie istituite
dall’art. 1, co. 2°, l. 2 marzo 1963, n. 320, le controversie in materia
di contratti agrari.
Sono anche destinate a sopravvivere alle leggi di riforma autonome funzioni giurisdizionali del presidente del tribunale (1).
Ai sensi degli artt. 669 ter e quater e per effetto della espressa
abrogazione degli artt. 672, 673 e di ogni altra disposizione incompatibile, infatti, scompare il potere del presidente del tribunale di
concedere provvedimenti cautelari (2).
Ma, ai sensi dell’art. 669 quaterdecies, ne sopravvive la competenza a disporre l’istruzione preventiva ante causam (3).
(1) Sulle conseguenze della violazione dei criterii per la designazione del presidente supplente, ai sensi dell’art. 104 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, sull’ordinamento
giudiziario, nel senso della invalidità dei provvedimenti emessi, ma per l’attribuzione
dell’onere della prova alla parte che denunci tale violazione, v. Cass. 29 ottobre 1983,
n. 7161, in Giust. civ., 1984, I, 3124; nonché Cass. 2 ottobre 1972, n. 2806, in Mass.
(2) Anche nel caso in cui il provvedimento cautelare sia chiesto in corso di causa e l’istruttore non sia stato ancora designato ovvero il processo sul merito sia sospeso o interrotto, il presidente deve comunque provvedere alla designazione ai sensi dell’art. 669 ter, ult. cpv., espressamente richiamato dall’art. 669 quater, co. 2°.
(3) V. Cass. 13 gennaio 1982, n. 185, in Foro it., 1982, I, 1987; v. anche infra.
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Va, inoltre, verificata la sopravvivenza della competenza del medesimo presidente del tribunale a sospendere l’efficacia esecutiva del
titolo nella opposizione a precetto cambiario, ai sensi dell’art. 64 r.d.
14 dicembre 1933, n. 1669, in quella a precetto fondato su assegni,
ai sensi dell’art. 56 r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736, e nell’opposizione avverso l’ingiunzione “fiscale”, ai sensi dell’art. 3 r.d. 14 aprile
1910, n. 639, nonché ad ordinare, su richiesta dell’intendente di finanza, l’iscrizione di ipoteca legale sui beni del trasgressore di norma tributaria, ai sensi dell’art. 26, l. 7 gennaio 1929, n. 4 (4).
A mero titolo esemplificativo, inoltre, basti pensare ai poteri attribuiti al presidente nei processi di separazione e di divorzio, ai sensi dell’art. 708 c.p.c. e dell’art. 4 l. 1° dicembre 1970, n. 808 (modificato dalla l. 6 marzo 1987, n. 75) (5); alla competenza per il procedimento speciale per la tutela del diritto al mantenimento dei figli minori, di cui all’art. 148 c.c. (6); a quella a pronunciare decreti
di ingiunzione, ai sensi dell’art. 637 c.p.c. (7); alla competenza ad accertare l’impossibilità di funzionamento o la continuata inattività dell’assemblea delle società di capitali e a nominarne i liquidatori (8),
a designare gli esperti per la valutazione dei beni e dei crediti oggetto di conferimento, ai sensi dell’art. 2343 c.c. (9), a nominare gli
arbitri in caso di disaccordo tra le parti o tra gli arbitri da esse nominati (10), a pronunciare sui ricorsi contro il rifiuto di un pubbli-
(4) V. Trib. Lecce, 24 dicembre 1985, in Foro it., Rep. 1986, voce Tributi in genere, n. 1247; Cass., 29 novembre 1983, n. 7162, id., Rep., 1984, voce cit. n. 1091;
Trib. Venezia, 25 marzo 1983, id., Rep. 1983, voce cit., n. 542. V. C. CONSOLO, Tutela d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per rimuovere la ipoteca e/o il sequestro fiscale?, in Rass.
trib., 1988, I, 267 ss., ora, con altri saggi sul tema in Dal contenzioso al processo tributario, Milano, 1992, VII, Ipoteca e sequestro fiscale, p. 700 ss., sub 3, p. 771 ss.
(5) V., tra le ultime, nel senso che il presidente dispone di un’autonoma competenza in materia, App. Perugia, 29 gennaio 1987, in Foro it., Rep. 1987, voce Separazione di coniugi, n. 41.
(6) V. Trib. Venezia, 27 novembre 1986, in Foro it., Rep., 1989, voce Filiazione,
n. 76; Trib. Milano, 25 giugno 1987, id., Rep., 1988, voce Matrimonio, n. 146.
(7) V. da ultima, in riferimento alla fattispecie prevista dall’art. 409, n. 3, c.p.c.,
Trib. Roma, 16 aprile 1988, in Foro it., Rep. 1990, voce Ingiunzione (procedimento),
n. 17.
(8) Trib. Ascoli Piceno, 7 agosto 1982, in Foro it., Rep. 1983, voce Società, n. 467.
(9) Trib. Napoli, 28 novembre 1986, in Foro it., Rep., 1987, voce Società, n. 361.
(10) V; App. Palermo, 20 luglio 1988, in Foro it., Rep., 1989, voce Arbitrato, n. 81.
55
co depositario al rilascio di copie di atti (11), a nominare il curatore speciale, ai sensi dell’art. 80 c.p.c. (12).
L’elenco dei giudici ordinari di cui all’art. 1 r.d. 30 gennaio 1941,
n. 12, sull’ordinamento giudiziario, quale modificato dall’art. 45 l. 21
novembre 1991, n. 374, quindi, va integrato con l’indicazione del tribunale delle acque, del tribunale superiore delle acque, delle sezioni
agrarie e del presidente del tribunale.
La cognizione delle controversie civili, quindi, anche dopo l’entrata in vigore delle leggi di riforma, è attribuita al giudice di pace,
al pretore, al tribunale, al tribunale per i minorenni, alla sezione
specializzata agraria, al presidente del tribunale, alla corte di appello, alla sezione per i minorenni della corte di appello, alla sezione agraria della medesima corte, al tribunale delle acque, al tribunale superiore delle acque, alla Corte di cassazione. E sopravvive, fino all’esaurimento delle controversie pendenti, il giudice conciliatore.
Tra tutti questi organi giudiziari, può sorgere una questione di
competenza.
In realtà, la disciplina della competenza e quella dell’ordinamento
giudiziario sono strettamente interdipendenti, e, storicamente, è sempre avvenuto che la prima si sia adeguata alla seconda, e non viceversa, come potrebbe sembrare ragionevole debba avvenire (13): i criteri di competenza sono stati disegnati in funzione degli organi giudiziari esistenti; non è mai avvenuto, invece, che questi ultimi siano
stati creati in funzione di un razionale riparto di competenze.
A ben vedere, questa osservazione vale anche in riferimento alla istituzione del giudice di pace: la nuova figura di giudice onorario non è stata creata in funzione della attribuzione al medesimo di
una serie di controversie predeterminate.
(11) App. Bari, 16 luglio 1984, in Foro it., 1984, I, 3029.
(12) Nel senso che la competenza spetta al presidente del tribunale ordinario in
riferimento all’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale, per difetto di veridicità, v. Cass., 7 novembre 1990, n. 10738, in Foro it., Rep. 1990, voce Filiazione,
n. 40; Cass., 26 maggio 1990, n. 4919, ibid., n. 39.
(13) Cfr., L. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile
5ª, Torino, 1923, II, p. 1 ss.
56
L’ambito di competenza del giudice di pace, infatti, è stato delineato prevalentemente in base alle “esigenze di funzionalità della giustizia togata” (14). Non si è pensato, cioè, ad un organo specializzato, ma, nella prospettiva già indicata nel d.d.l. delega per la riforma
generale del codice (15), ad un giudice capace di assorbire un contenzioso con ridotti profili tecnici.
2. La struttura degli organi giudiziari “ordinari”. Le circoscrizioni giudiziarie
Sebbene i requisiti richiesti per l’accesso a ciascuna delle funzioni di magistrato “togato”, siano i medesimi, sebbene, inoltre, l’art.
107, co. 3°, Cost., espressamente disponga che “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” e nonostante le
esigenze di razionalizzazione sottese alle leggi di riforma, la pluralità degli organi giudiziari “ordinari” sopravvive ad esse.
Anche la riforma delle circoscrizioni giudiziarie si scontra con
difficoltà che, dall’unità, nessun legislatore è riuscito a superare: le
tabelle allegate al r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, sull’ordinamento giudiziario, infatti, pur ripetutamente modificate, riflettono ancora l’organizzazione giudiziaria degli Stati preunitari.
Per quanto riguarda questo aspetto, gli ultimi provvedimenti legislativi possono essere il punto di partenza per una riforma da tempo auspicata.
(14) Nella Risoluzione approvata dal C.S.M. il 18 maggio 1988 (in Foro it., 1988,
V, 249 ss., n. 8, si contestava giustamente l’opportunità di estendere la competenza
degli attuali giudici onorari: «se si conserva l’attuale figura del conciliatore (...) è sconsigliabile estendere la competenza di tale giudice (...); esigenze di funzionalità della
giustizia “togata” spingerebbero in tal senso, ma probabilmente ciò servirebbe soltanto
a creare un’area di “denegata giustizia”».
(15) La Relazione presentata nell’ottobre 1985, nella IX Legislatura, alla Commissione Giustizia del Senato dal sen. Nicolò LIPARI è pubblicata in Giust. civ., 1985,
II, p. 520 ss., e in Riv. trim. dir. proc. civ., 1986, p. 318 ss.
Cfr. A. PROTO PISANI, voce Codice di procedura civile (riforma del) , in Enc.
giur. it., vol. **, 1991.
57
Ai sensi dell’art. 2, co. 1°, l. 21 novembre 1991, n. 374, infatti,
“gli uffici del giudice di pace hanno sede in tutti i capoluoghi dei
mandamenti esistenti fino alla data di entrata in vigore della legge
1° febbraio 1989, n. 30”: l’effettiva collocazione degli uffici, la pianta organica e il regolamento di attuazione sono stati approvati con
il d.P.R. 28 agosto 1992, n. 404. L’art. 1 della legge n. 30 del 1989, a
sua volta, modificando l’art. 30 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, sull’ordinamento giudiziario, ha stabilito che “la pretura ha sede in ogni
capoluogo di provincia”. Ma l’art. 42 del decreto del 1941 ugualmente
stabilisce che “il tribunale ha sede in ogni capoluogo determinato
nella tabella A annessa al presente ordinamento”.
Non essendo stato possibile, infatti, modificare radicalmente le
tabelle allegate all’ordinamento giudiziario, né sopprimere alcun organo giudiziario, il legislatore ha tentato di aggirare il problema.
Con l. 8 agosto 1977, n. 532, è stato ridotto il numero dei componenti i collegi giudicanti e si è modificata la disciplina relativa alla sottoscrizione dei provvedimenti resi da organi collegiali (16). Con
la legge n. 30 del 1989 sono state istituite le preture “circondariali”
e le altre preture sono state trasformate in “sezioni distaccate” (17).
Con la l. 26 novembre 1990, n. 353, il tribunale è stato trasformato
in organo generalmente monocratico. Con la l. 21 novembre 1991,
n. 374, si è istituito il giudice di pace. Il risultato è che tanto i tri-
(16) L’art. 56 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, a seguito di quella modifica, dispone:
“La corte di appello giudica con il numero invariabile di tre votanti”. L’art. 67, a sua
volta, stabilisce “La corte suprema di cassazione in ciascuna sezione giudica col numero invariabile di cinque votanti. Giudica a sezioni unite col numero invariabile di
nove votanti”.
(17) Cfr. la Circolare del C.S.M. del 10 marzo 1989, n. 3885, e quella del Ministro del 21 aprile 1989, n. 62/4/8/1, in Documenti giustizia, 1989, 1-2, 127 e 149; v. anche il d.l. 15 maggio 1989, n. 173, intitolato Interpretazione autentica degli artt. 2 e 5
della l. 1° febbraio 1989, n. 30, convertito in l. 11 luglio 1989, n. 251, sul quale v. la
Circolare del Ministro del 26 luglio 1989, n. 62/4 (in Documenti giustizia, 1989, 7, 95).
Nel senso che i rapporti tra sezioni della medesima pretura non danno luogo a
questioni di competenza, v. Cass. 22 agosto 1991, n. 8983, in Foro it., 1991, I, 3343.
Anche per indicazioni, v. N. RASCIO, In tema di competenza territoriale sull’opposizione ad ordinanza-ingiunzione e di rapporti tra pretura circondariale e sezioni distaccate, ibid., I, 3254; nonché B. CAPPONI, Appunti su incompetenza e vizi di costituzione del giudice nel nuovo processo civile, in Documenti giustizia, 1991, 11, 109 ss. V.
anche, infra in questo capitolo.
58
bunali, quanto le preture hanno sede negli stessi luoghi (18) e i giudici di pace hanno sede nei capoluoghi “dei mandamenti” (19), dove, fino al 1989, avevano sede le preture. Tanto il giudice di pace,
quanto il pretore, quanto il tribunale sono organi monocratici (20).
Il collegio del tribunale coincide numericamente con quello della corte di appello.
L’evidente irrazionalità del sistema, peraltro, va considerata nella prospettiva di una sua evoluzione secondo le linee indicate dal
d.d.l. delega per la riforma generale del codice: la meta dovrebbe
consistere nella ripartizione delle competenze in primo grado tra il
giudice di pace e un unico organo monocratico e nella previsione di
un unico giudice di appello a formazione collegiale.
Le sedi di tali uffici peraltro dovrebbero riflettere esigenze obiettive e non tradizioni campanilistiche che, ad oggi, non si è riusciti
a superare.
(18) Quelli indicati nella tabella “A”, cioè in tutti i capoluoghi di provincia e nella altre sedi ivi indicate. L’unico capoluogo di provincia non compreso nella tabella
“A” è Caserta: cfr. la l. 12 novembre 1990, n. 340, intitolata Modifica alle circoscrizioni delle preture di Caserta e Santa Maria Capua Vetere.
(19) Già indicati nella tabella “B”.
(20) Ai sensi dell’art. 48, co. 3°, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, quale modificato
dall’art. 88 della legge di riforma, infatti, “il tribunale, salve le disposizioni relative alla composizione delle sezioni specializzate, quando giudica in forma collegiale decide con il numero invariabile di tre votanti”. I casi riservati alla decisione collegiale
sono quelli indicati dal co. 2° della disposizione e cioè
“1) nei giudizi di appello;
2) nei giudizi nei quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero;
3) nei giudizi devoluti alle sezioni specializzate;
4) nei procedimenti in camera di consiglio;
5) nei giudizi di opposizione, impugnazione, revocazione e in quelli conseguenti a dichiarazioni tardive di crediti di cui al r.d. 16 marzo 1942, n. 267, al d.l. 30
gennaio 1979, n. 26, convertito, con modificazioni, dalla l. 3 aprile 1979, n. 95, e alle altre leggi speciali disciplinanti la liquidazione coatta amministrativa;
6) nei giudizi di omologazione del concordato fallimentare e del concordato preventivo;
7) nei giudizi di responsabilità da chiunque promossi contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali e i liquidatori e ogni altra controversia
avente per oggetto rapporti sociali nelle società, nelle mutue assicuratrici e società
cooperative, nelle associazioni in partecipazione e nei consorzi;
8) nei giudizi di cui agli artt. 784 e seguenti del c.p.c.;
9) nei giudizi di cui alla l. 13 aprile 1988, n. 117”.
59
Per raggiungere tale obiettivo che si è dimostrato non perseguibile per legge, il legislatore ha mostrato di fare affidamento sulle iniziative della magistratura e del potere esecutivo: si spera che dove il
Parlamento non è riuscito possano riuscire il Consiglio superiore della magistratura ed il Ministro della giustizia. La razionalizzazione
della organizzazione giudiziaria è affidata a norme di produzione secondaria; alla delegificazione (21).
In generale, infatti, l’art. 7 bis, co. 1°, r.d. 30 gennaio 1941, n.
12, sull’ordinamento giudiziario, quale modificato dall’art. 3 d.P.R.
22 settembre 1988, n. 449, attribuisce al C.S.M., su proposta dei consigli giudiziari, “la ripartizione degli uffici giudiziari (...) in sezioni,
la destinazione dei singoli magistrati alle sezioni (...), la assegnazione alle sezioni dei relativi presidenti (...), il conferimento delle specifiche attribuzioni processuali individuate dalla legge, la formazione dei collegi giudicanti”.
Tutto ciò è destinato ad essere aggiornato “ogni biennio” (22).
Per quanto riguarda il giudice di pace, l’art. 2, co. 2° e 3°, l. 21
novembre 1991, n. 374, stabilisce che il Ministro, su proposta dei
consigli giudiziari e dei comuni interessati, ha sia il potere di istituire sedi distaccate, sia quello di accorpare diversi uffici, con l’unico limite “che la popolazione complessiva risultante dall’accorpamento non superi i cinquantamila abitanti” (23).
(21) Cfr. con specifico riferimento agli aspetti qui considerati, anche per indicazioni, A. PIZZORUSSO, Indipendenza del magistrato e assegnazione di funzioni, in Questione giustizia, 1991, 2, p. 288 ss. Cfr. anche la circolare del C.S.M. n. 1923/17/91, intitolata Formazione delle tabelle di composizione degli uffici giudiziari per il biennio 1992/1993.
(22) La norma così prosegue:
“2. Le deliberazioni di cui al comma 1 sono adottate dal Consiglio superiore della magistratura, valutate le eventuali osservazioni formulate dal Ministro di grazia e
giustizia ai sensi dell’articolo 11 della legge 24 marzo 1958, n. 195, e possono essere
variate nel corso del biennio per sopravvenute esigenze degli uffici giudiziari, sulle
proposte dei presidenti delle corti di appello, sentiti i consigli giudiziari. I provvedimenti in via di urgenza, concernenti le tabelle, adottati dai dirigenti degli uffici sulla assegnazione dei magistrati, sono immediatamente esecutivi, salva la deliberazione
del Consiglio superiore della magistratura per la relativa variazione tabellare.
3. Per quanto riguarda la corte suprema di cassazione il Consiglio superiore della magistratura delibera sulla proposta del primo presidente della stessa corte”.
(23) Il potere di “accorpare diversi uffici” implica evidentemente quello di sopprimere quelli accorpati: cfr. il d.P.R. 24 agosto 1992, n. 404, nonché la pianta organica degli uffici del giudice di pace.
60
Per quanto riguarda gli uffici di pretura, l’art. 35 r.d. 30 gennaio
1941, n. 12 (modificato dall’art. 17, l. 11 agosto 1973, n.n. 449), stabilisce che “nelle preture costituite in sezioni sono biennalmente designate le sezioni alle quali sono devoluti promiscuamente o separatamente gli affari civili, gli affari penali e i giudizi in primo grado
di appello, nonché separatamente le controversie di lavoro”; e l’art.
39, co. 3° e 4° e 5° (sostituito prima dall’art. 8, d.P.R. 22 settembre
1988, n. 449, poi dall’art. 6, l. 1° febbraio 1989, n. 30, ed infine,
dall’art. 3, d.l. 28 luglio 1989, n. 273), prevede che “all’assegnazione
dei magistrati alle varie sezioni si provvede per ogni biennio a norma dell’art. 7 bis e che “i magistrati assegnati alle sezioni distaccate possono, sulla base di criteri obiettivi e predeterminati in sede tabellare, anche svolgere funzioni presso la pretura circondariale o presso altre sezioni distaccate”.
Per quanto concerne, infine, i tribunali, l’art. 46, co. 2° e 3°, r.d.
30 gennaio 1941, n. 12, (modificato dall’art. 18, l. 11 agosto 1973, n.
533, e dall’art. 13, d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449), stabilisce che
“sono biennalmente designate le sezioni alle quali sono devoluti, promiscuamente o separatamente, gli affari civili, gli affari penali e i
giudizi in grado di appello, nonché separatamente le controversie di
lavoro” e che “a ciascuna sezione nella formazione delle tabelle ai
sensi dell’art. 7 bis, debbono essere destinati i magistrati nel numero richiesto dalle esigenze del servizio, tenuto conto del numero dei
processi pendenti e della urgenza della definizione delle controversie”.
Uno degli obiettivi di questa disciplina consiste nel tentare di
realizzare, mediante norme di produzione secondaria, quanto,
dall’unità d’Italia non si è riuscito a fare (24).
Per effetto della normativa ora sinteticamente riassunta, il legislatore si è liberato in larga parte del problema della organizzazio-
(24) Il legislatore non è quasi mai riuscito a sopprimere alcun ufficio giudiziario, mentre le esigenze connesse alle modificazioni socio-economiche hanno spesso
determinato la istituzione di nuovi uffici giudiziari: v., da ultime, le leggi 11 febbraio
1992, n. 125, n. 126 e n. 127, istitutive dei tribunali e delle preture circondariali di
Nola, di Torre Annunziata e di Nocera Inferiore.
61
ne degli uffici giudiziari e, quindi, della corrispondente responsabilità di ogni inefficienza imputabile a difetti di organizzazione.
Questo compito è prevalentemente affidato alla stessa magistratura, nonché, per quanto riguarda gli uffici del giudice di pace, al
Ministro della giustizia, al C.S.M., ai Consigli giudiziari e ai Consigli degli ordini degli avvocati e dei procuratori.
Appare evidente che solo attraverso il contributo di ciascuno dei
soggetti interessati alla efficienza del processo civile, sarà possibile
pervenire, attraverso gli strumenti di delegificazione resi disponibili,
ad una razionale organizzazione degli uffici, cosicché un eventuale
successivo intervento del legislatore possa consistere nella presa d’atto di quanto sia stato già realizzato.
Sul piano strettamente processuale, il contributo delle leggi di
riforma consiste nella semplificazione delle questioni di competenza; in particolare,
a) nella modificazione dell’art. 5 c.p.c. sulla perpetuatio jurisdictionis,
b) in quella dell’art. 38 c.p.c. sul rilievo e sulla eccezione di incompetenza,
c) nella istituzione del giudice di pace, nella attribuzione a quest’ultimo di una serie di controversie e nella conseguente revisione
dell’ambito di competenza dei giudici togati, e, in particolare, del pretore, presso il quale sono concentrate tutte le controversie “di locazione, di comodato e di affitto”, ai sensi degli artt.8, n. 3, e 447 bis c.p.c.,
d) nell’escludere che i rapporti tra i magistrati addetti al medesimo ufficio e precisamente, alla pretura circondariale o al tribunale, in formazione collegiale o monocratica, diano luogo a questioni
di competenza; nonché
e) nella semplificazione delle questioni inerenti la connessione
di cause, ai sensi dell’art. 40 c.p.c.,
f) nell’adeguamento al c.p.p. del 1988 della disciplina della sospensione e nella previsione di strumenti di controllo nei confronti
dei provvedimenti dichiarativi della sospensione per pregiudizialità,
g) nella soppressione, infine, dell’effetto sospensivo automatico
del regolamento di giurisdizione.
Se, dunque, il legislatore della riforma non è riuscito a fare ordine tra la pluralità degli organi giudicanti, ha fornito alcuni strumenti affinché tale irragionevole pluralità non costituisca un intralcio alla trattazione delle cause.
62
Il miglioramento della organizzazione degli uffici resta invece
una questione affidata all’Esecutivo e agli operatori.
3. L’estensione del principio della “perpetuatio jurisdictionis” allo “jus
superveniens”
L’art. 2 l. 26 novembre 1990, n. 353, modifica l’art. 5 c.p.c. ed
estende il principio della perpetuatio jurisdictionis non solo allo “stato di fatto”, ma anche alla “legge vigente” al momento della proposizione della domanda (25).
Nella relazione presentata dalla Commissione Giustizia del Senato all’Aula (26), si legge: “L’art. 5 c.p.c. non era considerato dalla
proposta governativa, ma i problemi suscitati da recenti riforme hanno richiamato l’attenzione della dottrina sulla rilevanza del principio
della perpetuatio jurisdictionis e sulla ingiustificata limitazione della
sua applicabilità ai soli mutamenti di fatto (27). È apparso, allora,
opportuno intervenire in sede legislativa, stabilendo espressamente
che ogni mutamento sopravvenuto, tanto di fatto, quanto di diritto,
non incide più sulla individuazione del giudice competente, che va
compiuta, in ogni caso, in riferimento allo stato di fatto e alla legge
vigente al momento della proposizione della domanda”.
(25) Cfr. A. ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, p.
41 ss.; L. MONTESANO, G. ARIETA, Il nuovo processo civile, Napoli, 1991, p. 1 ss.;
G. TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, p. 8 ss.; A.
PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, p. 36 ss.; G.
VERDE, L. DI NANNI, Codice di procedura civile (legge 21 novembre 1990, n. 353),
Torino, 1991, p. 3 ss.; S. LA CHINA, Diritto processuale civile. Le disposizioni generali, Milano, 1991, p. 183 s.; F.P. LUISO, C. CONSOLO, B. SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 1991, p. 7, ss.; (S. SATTA) C. PUNZI, Diritto processuale civile
11ª, Padova, 1992.
(26) Pubblicata in Documenti giustizia, 1990, 4, 157 ss.; nonché id., 1991, tra il
resoconto della seduta del 17 gennaio 1990 e quello della seduta del 28 febbraio .
(27) Cfr. infatti, sul punto, R. ORIANI, La “perpetuatio jurisdictionis” (art. 5 c.p.c.),
in Foro it., 1989, V, 35 ss.; ID., Novità e conferme in tema di “perpetuatio jurisdictionis”, id., 1990, I, 2544; ID. Commento all’art. 2 l. 26 novembre 1990, n. 353, in Nuove
leggi civ., 1992, p. 2 ss.; nonché Ultimissime sull’art. 5 c.p.c., in nota a Pret. Parma, 5
novembre 1992, in Foro it., 1993, I, 2058.
63
La questione si era posta, infatti, in relazione alla l. 17 maggio
1985, n. 210, che ha determinato il trasferimento delle controversie instaurate dai dipendenti delle Ferrovie dello Stato innanzi al tribunale
amministrativo regionale, innanzi al pretore-giudice del lavoro; nonché in riferimento alla modifica dell’art. 38 disp. att. c.c. compiuta con
la l. 4 maggio 1983, n. 184, che ha determinato il trasferimento delle
azioni per il riconoscimento della paternità naturale di minorenni dal
tribunale ordinario al tribunale per i minorenni (28). Analoghi problemi sono stati suscitati dall’art. 9 l. 14 febbraio 1990, n. 29, che ha
unificato i criterii di competenza in materia di contratti agrari, stabilendo in ogni caso la competenza delle sezioni specializzate, nonché
in relazione alla istituzione di nuovi uffici della Avvocatura dello Stato, ai sensi degli artt. 25 c.p.c. e 7 r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611 (29).
Il problema è destinato, poi, ad assumere aspetti drammatici in
riferimento alla attribuzione al giudice ordinario di tutto il contenzioso in materia di pubblico impiego, ai sensi dell’art. 2 della legge
n. 421 del 1992 e dell’art. 68 del d.P.R. n. 29 del 1993.
In questi e in consimili casi, l’ingiustificata omissione di una
adeguata disciplina transitoria, idonea ad evitare la trasmigrazione
dei processi, ha convinto il legislatore a provvedere, in generale, che
i criterii di individuazione del giudice fornito di giurisdizione e di
competenza siano determinati in riferimento alla situazione di fatto
e di diritto esistente al momento in cui la domanda è proposta.
Al pari del testo previgente, la norma, pertanto, rinvia alla disciplina dettata in funzione della individuazione del momento in cui
la domanda è proposta; ancora al pari del testo previgente, inoltre,
la norma non regola i casi in cui lo jus superveniens attribuisca la
giurisdizione o la competenza ad un giudice che ne fosse originariamente privo.
(28) Per indicazioni, v. R. ORIANI, opp. citt.
(29) V., in riferimento alla sostituzione ope legis del ministero del tesoro - ufficio liquidazioni ad un soppresso ente mutualistico, Cass. 12 aprile 1990, n. 3099, in
Foro it., Rep. 1990, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 120; Cass., 16 febbraio
1989, n. 930, id., Rep. 1989, voce Competenza civile, n. 76; v. anche, in riferimento alla istituzione di nuovi uffici della avvocatura dello Stato, la l. 7 maggio 1986, n. 151,
intitolata “Istituzione della corte d’appello autonoma di Campobasso”.
64
Secondo alcuni dei primi commenti, infine, la norma impone di
distinguere le ipotesi in cui la disciplina sopravvenuta si limiti a modificare i criterii di collegamento, in base ai quali si determina la giurisdizione e la competenza, da quelli in cui muti integralmente la disciplina del rapporto controverso (30); e si è posto in evidenza come
la norma non sia comunque applicabile alle ipotesi in cui lo jus superveniens introduca nuove fattispecie di immunità giurisdizionale (31).
Per quanto riguarda la prima delle questioni indicate, mentre nei
processi che iniziano con atto che prima si notifica e poi si deposita, l’art. 39 ult. cpv. (pur collocato nel primo libro del codice ma applicabile all’atto di citazione, introduttivo del processo ordinario) individua tale momento nella notificazione, nei processi che iniziano
con atto che prima si deposita e poi si notifica, la giurisprudenza,
aderendo alle indicazioni in tal senso della dottrina, ha individuato
l’inizio del processo nel momento in cui l’atto introduttivo è depositato nella cancelleria del giudice adìto (32).
Anche sulla seconda questione, la giurisprudenza più recente, recependo le indicazioni della dottrina,ha ribadito che tanto il fatto,
quanto la legge sopravvenuti, attributivi della giurisdizione o della
competenza al giudice originariamente privo dell’una o dell’altra, consentono che il processo, pur malamente iniziato, si radichi innanzi
a quell’organo giudiziario (33).
(30) Cfr. V. ANDRIOLI, Sulla riforma del processo civile, in Riv. dir. civ., 1991, I,
218 s.; A. ATTARDI, op. loc. cit.; A. PROTO PISANI, op. loc. cit.; F.P. LUISO, C. CONSOLO, B. SASSANI, op. loc. cit.;nonché R. VACCARELLA, La giurisdizione: presupposto
processuale o modo d’essere del diritto sostanziale dedotto in giudizio, in Giust. civ., 1990,
I, 1500, in nota a Cass. 1° marzo 1990, n. 1583; A. FINOCCHIARO, Perpetuatio jurisdictionis e jus superveniens in tema di giurisdizione e di competenza, id., 1991, 330.
(31) Cfr. S. LA CHINA, op. loc. cit.; (S. SATTA) C. PUNZI, op. loc. cit.
(32) V. Cass., s.u., 11 maggio 1992, n. 5597 e 16 aprile 1992,n. 4676, in Foro it.,
1992, I, 2091, con mia nota Successione di leggi nel tempo, criterii di competenza e controversie relative a rapporti di lavoro parasubordinato; il principio era stato affermato
da Cass. 10 marzo 1990, n. 1945, in Foro it., 1990, I, 2556. In senso critico v. G. MONTELEONE, Litispendenza nelle controversie di lavoro: una svista della Corte di Cassazione, in nota a Cass. 5597/1992, in Riv. dir. proc., 1993, p. 574 ss.
(33) V. Cass. 21 febbraio 1990, n. 1292, in Foro it.,1990, I, 850 e 2545, con nota di R. ORIANI, cit.; e in Corriere giur., 1990, 354, con nota di V. TAVORMINA; e,
nello stesso senso, v. Cass. 22 agosto 1991, n. 8983, id. 1991,I, 3343; v. anche, in generale, L.P. COMOGLIO, Il principio di economia processuale, I, Padova, p. 80 ss.
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Sul punto, tuttavia, la lettera dell’art. 5 “novellato” potrebbe indurre a sostenere l’assoluta irrilevanza di ogni legge sopravvenuta,
pur attributiva della giurisdizione o della competenza. Senonché, la
ratio della disposizione, ribadita dalla recente giurisprudenza in riferimento ai mutamenti di fatto (34), induce a privilegiare una interpretazione sistematica della disposizione, idonea a impedire la trasmigrazione del processo, grazie alla giurisdizione o alla competenza sopravvenute.
In riferimento, poi, ai limiti posti dall’art. 38 all’eccezione o al
rilievo di qualunque specie di incompetenza, la questione dovrebbe
assumere comunque una rilevanza limitata: il fatto o la legge sopravvenuti non possono, infatti, essere dedotti a fondamento dell’eccezione o del rilievo dell’incompetenza dopo la prima udienza di trattazione; dopo tale momento, la questione di competenza è definitivamente preclusa, né potrebbe ammettersi, a tal fine e per tale ragione, una rimessione in termini, ai sensi dell’art. 184 bis: dopo la
prima udienza, nel sistema del nuovo processo civile, non vi è più
spazio per l’ingresso di questioni di competenza.
La rimessione in termini ai sensi dell’art. 184 bis, invece, appare necessaria, allorché lo jus superveniens modifichi non soltanto i
criterii di giurisdizione o di competenza, ma anche la disciplina sostanziale del rapporto controverso.
Lo jus superveniens, infatti, può essere dedotto anche innanzi alla corte di cassazione o in sede di rinvio, quando la nuova disciplina sia sopravvenuta dopo la proposizione del ricorso (35). In tale
ipotesi, la corte è tenuta a “rinviare la causa, per nuovo esame, al
giudice del merito con riguardo al fatto nuovo nell’ambito del sopravvenuto schema normativo” (36).
(34) Cfr. ancora Cass. 21 febbraio 1990, n. 1292, e Cass. 22 agosto 1991, n. 8983,
citt.
(35) Cass., 17 ottobre 1989, n. 4158, in Foro it., Rep. 1989, voce Cassazione civile, n. 26; Cass., 12 aprile 1988, n. 2874, id., Rep. 1988, voce Redditi (imposte), n.
311; Cass., 12 marzo 1983, n. 1870, in Giust. civ., 1983, I, 1406.
(36) Così Cass. 14 novembre 1987, n. 8370, in Foro it., Rep. 1987, Distanze legali, n. 17.
66
Soltanto nel caso in cui le nuove norme siano entrate in vigore
prima della pronuncia della decisione impugnata, la parte è tenuta a
denunciarne il contrasto con quelle applicate dai giudici del merito.
Tutto ciò, però, non ha nulla a che fare con il principio della
perpetuatio jurisdictionis, ampliato dal novellato art. 5 c.p.c. Questo
principio si limita a rendere irrilevanti, in riferimento alla giurisdizione e alla competenza, non solo i mutamenti di fatto, ma anche le
leggi sopravvenute dopo la proposizione della domanda (37).
4. La questione di competenza
Ai sensi dell’art. 38, co. 1°, c.p.c., quale “novellato” dall’art. 4 l.
26 novembre 1990, n. 353, “l’incompetenza per materia, quella per
valore e quella per territorio nei casi previsti dall’art. 28 sono rilevate, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di trattazione”; ai
sensi del secondo capoverso, “l’incompetenza per territorio, fuori dei
casi previsti dall’art. 28, è eccepita a pena di decadenza nella comparsa di risposta (...)”.
In relazione al rilievo e alla eccezione di incompetenza, pertanto, viene meno la rilevanza della distinzione tra criterii di competenza forte e criterii di competenza deboli (38): alla incompetenza per
territorio semplice, che può essere eccepita soltanto dal convenuto
nella comparsa di risposta (39), si contrappone ogni altra specie di
incompetenza, che può essere rilevata anche di ufficio dal giudice,
ma non oltre la prima udienza di trattazione. Oltre questo momen-
(37) Cfr., sul punto, R. VACCARELLA, La giurisdizione: presupposto processuale
o modo d’essere del diritto sostanziale dedotto in giudizio, cit.; nonché, A. FINOCCHIARO, Perpetuatio jurisidctionis e jus superveniens in tema di giurisdizione e di competenze, pure cit.
(38) V. soprattutto, R. ORIANI, Il nuovo testo dell’art. 38 c.p.c. (art. 4 l. 353/90)
in Foro it., 1991, 336; ID. Commento all’art. 4 l. 26 novembre 1990, n. 353, in Nuove leggi civ., 1992, p. 16 ss.; nonché, oltre le opere generali più volte richiamate, B.
CAPPONI, Appunti su incompetenza e vizi di costituzione del giudice nel nuovo processo civile, cit.; e A. FINOCCHIARO, La disciplina dell’incompetenza sulla base del
novellato art. 38 c.p.c., in Giust. civ., 1991, II, 213.
(39) Non anche nel “primo scritto difensivo”, come stabilito dal testo previgente.
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to, la questione di competenza deve ritenersi definitivamente preclusa.
Il rilievo di ufficio, peraltro, va comunque coordinato con il principio generale deducibile dall’art. 157, co. 3°, c.p.c., ai sensi del quale le nullità, comprese quelle non formali, non possono essere eccepite dalla parte che vi ha dato causa. Ne consegue che l’attore potrà
sollecitare l’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice, ma non potrà
ritenersi legittimato a proporre una specifica eccezione di incompetenza (40): alla sua richiesta non potrà applicarsi la regola della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, salvo il caso in cui l’attore
contesti la competenza del giudice rispetto alla domanda riconvenzionale eventualmente proposta dal convenuto.
4.1. La preclusione del rilievo e dell’eccezione di incompetenza: la
“prima udienza di trattazione”
In relazione al momento nel quale l’incompetenza può essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice, si è posto in evidenza che la norma, collocata nel primo libro del codice intitolato
“Disposizioni generali” e, quindi, applicabile ad ogni processo, di cognizione, cautelare ed esecutivo richiede all’interprete l’individuazione dell’“omologo della prima udienza di trattazione nel rito ordinario” (41).
A) Essa si riferisce chiaramente alla Prima udienza di trattazione del processo ordinario di cognizione innanzi al tribunale e, grazie al rinvio di cui all’art. 311 c.p.c., innanzi al pretore: così è, infatti, intitolato l’art. 183 c.p.c., quale “novellato” dall’art. 17 l. 26 novembre 1990, n. 353.
B) Ancora ai sensi dell’art. 311 c.p.c., l’espressione prima udienza di trattazione può anche applicarsi alla prima udienza del processo
(40) Nel senso che l’eccezione di incompetenza territoriale del giudice adìto (fuori dei casi di competenza inderogabile) è un’eccezione in senso proprio rimessa alla
parte interessata, v. Cass., 30 marzo 1983, n. 2334, in Foro it., Rep. 1983, voce Competenza civile, n. 140; Cass., 7 aprile 1983, n. 2457, ibidem, n. 139; Cass., 22 febbraio 1982, n. 1096, id., Rep. 1982, voce cit., n. 134.
(41) Così A. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit., p. 15.
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innanzi al giudice di pace, vuoi nel caso in cui tale organo applichi
il rito ordinario e, quindi l’art. 320 c.p.c. quale “novellato” dagli artt.
44 l. 26 novembre 1990, n. 353, e 29 l. 21 novembre 1991, n. 374,
vuoi in quello in cui applichi il rito speciale per la opposizione alle
ingiunzioni amministrative di cui all’art. 23 l. 24 novembre 1981, n.
689, nelle ipotesi previste dall’art. 7, co. 3° e co. 4°, n. 4, c.p.c., quale “novellato” dall’art. 2 l. 21 novembre 1991, n. 374 (42).
C) Nel processo speciale applicabile alle controversie di lavoro
subordinato e parasubordinato, ai sensi dell’art. 409, nn. 1,3,4 e 5
c.p.c., a quelle previdenziali, ai sensi dell’art. 442 c.p.c., a quelle agrarie, ai sensi degli artt. 409, n. 2, c.p.c., 9 l. 14 febbraio 1990, n. 29,
47 l. 3 maggio 1982, n. 203 e 26 l. 11 febbraio 1971, n. 11, a quelle
di locazione, di comodato e di affitto ai sensi dell’art. 8, n. 3, e 447
bis c.p.c., invece, all’art. 38 corrisponde l’art. 428, ai sensi del quale
l’incompetenza “può essere eccepita dal convenuto soltanto nella memoria difensiva di cui all’art. 416 ovvero rilevata d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza di cui all’art. 420”.
Su questa norma non ha inciso la “Novella”.
L’udienza di discussione, comunque si intenda interpretare l’art.
428 c.p.c., non coincide con la “prima udienza di trattazione”, alla quale si riferisce l’art. 38, co. 1°: quel processo, regolato da una disciplina speciale, insensibile alle modificazioni della normativa generale,
avrebbe dovuto, secondo le previsioni del legislatore, esaurirsi in un’unica udienza; ma l’esperienza indica che ciò non avviene; ciascuna delle udienze successive è ancora udienza di discussione, cosicchè, secondo un’interpretazione meramente letterale, in ciascuna di esse, l’incompetenza potrebbe ancora essere rilevata, anche d’ufficio (43).
(42) Cfr. B. CAPPONI, Commento all’art. 29 l. 21 novembre 1991, n. 374, in Il
giudice di pace. Commento alla L. 374/1991, Napoli, 1992, p. 197 ss. Cfr. anche infra.
(43) Nel senso che “l’udienza di discussione entro la quale il pretore, a norma
del 1° comma dell’art. 428 c.p.c., deve rilevare (anche ai fini della richiesta di regolamento ex art. 45 c.p.c.) la propria incompetenza territoriale non è soltanto la prima udienza fissata per la discussione ma anche quella successiva cui la causa sia stata rinviata per la discussione stessa, dovendo in tal caso detta prima udienza ritenersi
non celebrata”, v. Cass., 24 aprile 1986, n. 2906, in Foro it., Rep. 1986, voce Lavoro e
previdenza (controversie), n. 158. Sul coordinamento tra le due disposizioni, v. soprattutto B. CAPPONI, opp. citt.,; G. VERDE, L. DI NANNI, Codice di procedura civile (legge 26 novembre 1990, n. 353), cit., p. 10 ss.
69
Gli inconvenienti della interpretazione letterale sono evidenti; senonché adducere inconvenientes...
È, peraltro, opportuno tentare di individuare ogni argomento utile a garantire la prevalenza della nuova norma generale contenuta
nell’art. 38 c.p.c. sulla previgente norma speciale di cui all’art. 428
c.p.c.
Nel sistema del nuovo processo civile, dopo il primo incontro tra
giudice e parti (id est: dopo la prima udienza di trattazione) ogni questione relativa alla individuazione del giudice (ordinario) deve ritenersi definitivamente preclusa.
Il che risponde ad una elementare esigenza di semplificazione:
l’accesso alle diverse funzioni giudicanti è, come si è rilevato, il medesimo; “i magistrati - ai sensi dell’art. 107, co. 3° Cost. - si distinguono per diversità di funzioni”; non vi è alcuna obiettiva ragione
per consentire un tardivo rilievo di questioni relative alla individuazione del giudice (ordinario).
Sennonché il nuovo principio generale deve fare i conti con la
disciplina speciale di ciascun procedimento e, in particolare, con l’art.
428 c.p.c., che consente il rilievo e/o l’eccezione dell’incompetenza
“non oltre l’udienza di cui all’art. 420”: per le regole in tema di successione di leggi nel tempo, il nuovo art. 38 non si applica alle controversie di lavoro subordinato e parasubordinato, a quelle previdenziali, a quelle agrarie, a quelle di locazione, di comodato e di affitto.
L’evidente antinomia merita, peraltro, di essere risolta.
La stessa normativa speciale sembra offrirne i criterii: “l’udienza di cui all’art. 420”, sebbene sia quella di discussione, al pari di
ogni udienza del rito speciale, è quella nella quale il giudice è tenuto ad interrogare liberamente le parti a tentare di conciliarle. Non è
ragionevolmente sostenibile che, qualora il processo non si concluda alla prima udienza, tali adempimenti debbano essere compiuti in
ciascuna udienza di discussione.
Allo stesso modo, si potrebbe sostenere che l’incompetenza debba essere eccepita o rilevata nella prima udienza di discussione, indipendentemente da quanto stabilisce il “novellato” art. 38 c.p.c. e
dai principii in tema di successione di leggi nel tempo: è la stessa
normativa speciale che, in sintonia con la regola generale, preclude,
ai sensi dell’art. 428 c.p.c., il rilievo o l’eccezione di incompetenza
dopo il primo utile incontro tra giudice e parti.
70
D) Nel procedimento per convalida di sfratto, l’applicabilità del
rito speciale e, quindi, dell’art. 428 c.p.c. consegue al mutamento di
rito, ai sensi del “novellato” art. 667 c.p.c., comunque successivo alla fase sommaria e alla prima udienza di trattazione, nella quale possono essere pronunciati i provvedimenti sommari di cui agli artt. 663,
664 e 665 c.p.c.: l’incompetenza, pertanto, può essere eccepita dal
convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice soltanto in tale udienza, ai
sensi dell’art. 38 c.p.c., quale “novellato” dall’art. 4 l. 26 novembre
1990, n. 353.
E) Nel procedimento per ingiunzione ex art. 633 ss. c.p.c., l’applicazione della disposizione implica che l’incompetenza possa essere eccepita con l’atto di opposizione ovvero rilevata d’ufficio dal giudice nella prima udienza di tale giudizio.
F) Nel procedimento per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 l. 20 maggio 1970, n. 300, in quello per la repressione dei comportamenti discriminatori tra i sessi ex art. 15 l. 15 dicembre 1977, n. 903, e in quello per la tutela del diritto al mantenimento dei minori ex art. 148 c.c., nei quali il provvedimento a cognizione sommaria suscettibile di opposizione è pronunciato all’esito di una fase in contraddittorio, invece, il nuovo testo dell’art. 38
induce a ritenere preclusa la questione di competenza non eccepita
o rilevata nella prima udienza di trattazione: ciò significa che, in queste ipotesi, l’incompetenza non potrà essere dedotta con l’opposizione, qualora non sia stata eccepita o rilevata nella fase sommaria.
G) Tale soluzione, necessitata dalla collocazione della norma
“novellata” e, quindi, dalla idoneità di essa a regolare “l’intera materia regolata dalle leggi anteriori”, in base ai principii dettati in tema di successione di leggi nel tempo e, in particolare, all’art. 15 disp. prel., appare applicabile anche ai procedimenti in camera di
consiglio ex artt. 737 ss. c.p.c.: nei procedimenti unilaterali, l’incompetenza potrà essere rilevata d’ufficio dal giudice e potrà essere fatta valere con il reclamo; in quelli, invece, nei quali sia prevista la comparizione delle parti in camera di consiglio, l’incompetenza potrà essere eccepita o rilevata entro tale occasione e, soltanto qualora ciò sia avvenuto, le parti potranno dedurla in sede di
reclamo, oltre che con il regolamento di competenza ai sensi degli
artt. 42 e 43 c.p.c.
H) Nel procedimento cautelare ex art. 669 bis ss. c.p.c., destinato a concludersi, ai sensi dell’art. 669 sexsies, sempre con ordinanza
71
dopo la comparizione delle parti all’udienza, questa è l’unica occasione per eccepire o per rilevare la violazione dei criterii di competenza di cui agli artt. 669 ter e quater.
Sennonché l’espressa previsione, ai sensi dell’art. 669 septies, co.
1°, della riproponibilità del ricorso anche nel caso in cui sia stata dichiarata l’incompetenza, esclude l’operatività, in tale modello procedimentale, di preclusioni in riferimento alla eccezione o al rilievo
della incompetenza e, quindi, va negata l’applicabilità, in tale sede
del “novellato”, art. 38 c.p.c.
Qualora, peraltro, il provvedimento cautelare sia invocato nel
corso del giudizio di merito, alla questione di competenza potranno
applicarsi le regole proprie di tale giudizio e, quindi, non soltanto
l’art. 38 c.p.c., ma, soprattutto, gli artt. 183, 320 o 420 e 428 c.p.c.
o 23 l. 24 novembre 1981, n. 689, a seconda che si tratti di un processo ordinario innanzi al tribunale o al pretore, innanzi al giudice
di pace o un processo speciale.
I) Nei processi esecutivi, il riferimento alla prima udienza di trattazione di cui all’art. 38, co. 1° in esame, consente l’eccezione o il rilievo dell’incompetenza nell’udienza fissata per l’assegnazione o la
vendita dei beni mobili, ai sensi degli artt. 530 e 569 c.p.c.; ovvero,
nell’esecuzione esattoriale, in quella per la distribuzione del ricavato dalla vendita mobiliare ex art. 74 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602,
o in quella fissata per il primo incanto, ai sensi dell’art. 81, co. 1°,
lett. c), d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602; in quella fissata per la comparizione del terzo debitor debitoris, ai sensi dell’art. 547 c.p.c.; in
quella fissata per la determinazione delle modalità dell’esecuzione,
ai sensi dell’art. 612 c.p.c. (44). Il che non esclude che l’incompetenza possa essere fatta valere anche prima dell’udienza mediante
opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., che costituisce il rimedio generale per la tutela “di quanti nel processo esecutivo operano” (45).
(44) Cfr. A. PROTO PISANI, op. loc. cit.
(45) Così R. ORIANI, L’opposizione agli atti esecutivi, Napoli, 1987, p. 14 e passim cap. I.
72
4.2. La decisione della questione di competenza.
4.2.1. Segue ... nel processo ordinario di cognizione innanzi ai giudici togati.
Ai sensi del terzo comma dell’art. 38, quale “novellato” dall’art.
4 l. 26 novembre 1990, n. 353, “le questioni di cui ai commi precedenti sono decise ai soli fini della competenza, in base a quello che
risulta dagli atti e, quando sia reso necessario dall’eccezione del convenuto o dal rilievo del giudice, assunte sommarie informazioni”.
La tecnica presa a modello dal legislatore della riforma per la
definizione delle questioni di competenza è quella prevista dall’art.
14 c.p.c. per la determinazione del valore delle “cause relative a somme di denaro e a beni mobili” (46). Nel corso dei lavori parlamentari, peraltro, è stata segnalata l’insufficienza di quella disciplina in
riferimento alle ipotesi in cui l’individuazione del giudice competente sia subordinata ad accertamenti di fatto (47). Cosicché è stata inserita la possibilità di assumere “sommarie informazioni” (48).
Nell’interpretazione della disposizione, si tratta, quindi, di coordinare i limiti al rilievo o all’eccezione di incompetenza con la decisione
della questione di competenza nei diversi modelli processuali, nei
quali la disposizione generale riesce applicabile; occorre, poi, verificare i rapporti tra le “sommarie informazioni” che possono essere
assunte per la decisione della questione di competenza, con l’istruzione della causa.
Nel processo ordinario di cognizione innanzi al tribunale, in formazione collegiale o monocratica, e innanzi al pretore, la preclusione dell’eccezione o del rilievo della questione di competenza oltre la
“prima udienza di trattazione” non incide sulla trattazione e sulla decisione della questione di competenza: il “rilievo”, infatti, ai sensi
(46) Cfr. A. PROTO PISANI, op. loc. cit., V. anche sull’art. 14 c.p.c. il mio I nuovi criteri di competenza civile, in Foro it., 1985, V, 44 ss.
(47) V. F. P. LUISO, Osservazioni sul d.d.l. 1288/S/X, in Documenti giustizia, 1988,
10, p. 105 ss.
(48) Cfr. I lavori preparatori della riforma del processo civile, in Documenti giustizia, 1991, 10.
73
dell’art. 38 in esame, rientra nei poteri ordinatori del giudice (istruttore, unico o pretore), mentre la trattazione e la decisione restano
regolate dagli artt. 183, co. 3°, 187, 279, co. 2°, n. 1 e n. 3, c.p.c.
(49).
Ne consegue che, ai sensi degli artt. 38 e 183, co. 3°, nella “prima udienza di trattazione”, il giudice (l’istruttore, il giudice unico
del tribunale o il pretore), può indicare la questione di competenza
rilevabile d’ufficio della quale ritiene opportuna la trattazione; ai sensi degli artt. 187, co. 2° e 3°, e 189, poi, può (a) decidere (o far decidere dal collegio) immediatamente la questione di competenza così rilevata o (b) rinviare la decisione unitamente al merito. In sede
di decisione, il collegio, il giudice unico o il pretore possono, (a) ai
sensi dell’art. 279, n. 1, declinare la competenza, (b) ai sensi dell’art.
279, n. 3, dichiarare la competenza e decidere il merito della causa,
e possono, (c) ai sensi dell’art. 279, n. 4, dichiarare la competenza
con sentenza non definitiva e impartire distinti provvedimenti per
l’ulteriore istruzione della causa.
La circostanza che, nelle materie attribuite al tribunale in formazione collegiale, la questione di competenza possa essere decisa
solo se ed in quanto le parti l’abbiano tempestivamente eccepita o
l’istruttore l’abbia tempestivamente rilevata non costituisce, a ben vedere, una abnormità (50).
Per effetto del nuovo testo dell’art. 38, infatti, l’incompetenza è
una “condizione che impedisce la trattabilità della causa nel merito”,
solo se ed in quanto eccepita dalle parti o rilevata d’ufficio dal giudice “entro la prima udienza di trattazione”. In riferimento, poi,
all’art. 183, co. 3°, “novellato” dell’art. 17 l. 26 novembre 1990, n.
353, nonché alla nuova struttura del processo ordinario di cognizione, si può fondatamente sostenere che, in generale, al giudice (quindi anche al collegio), al momento della decisione, sia precluso il rilievo di ogni questione non tempestivamente rilevato della tratta-
(49) Cfr., anche per ulteriori indicazioni, G. RAMPAZZI, Commento all’art. 4 l.
26 novembre 1990, n. 353, in Le riforme del processo civile, Bologna-Roma, 1992, p.
39 s.
(50) Cfr. A. ATTARDI, op. cit., p. 30.
74
zione; di ogni questione, cioè, alla quale le parti non abbiano avuto
la possibilità di far sentire le proprie ragioni. La soluzione, infine,
coincide con quella già operante per la connessione, che, ai sensi
dell’art. 40, co. 2°, non può essere rilevata al momento della decisione qualora non sia stata rilevata o eccepita entro la prima udienza (51).
In riferimento alla alternativa tra decisione immediata e differita, unitamente al merito, della questione di competenza, va, dunque, considerato il problema delle “sommarie informazioni” di cui
all’art. 38, co. 3°, quale “novellato” dall’art. 4 l. 26 novembre 1990,
n. 353.
Le “sommarie informazioni” che non implicano l’osservanza delle forme prescritte per l’istruzione probatoria (52), possono essere
assunte vuoi immediatamente, contestualmente alla eccezione o al
rilievo della incompetenza, vuoi prima della trattazione della causa
nel merito, vuoi unitamente alla trattazione del merito, nel contesto
della istruzione probatoria.
Ciascuna di queste soluzioni appare legittima e compatibile con
la disciplina positiva. La scelta dipende da valutazioni di opportunità che il giudice può compiere nell’esercizio dei poteri attribuitigli dall’art. 175 c.p.c., ai sensi del quale può esercitare “tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento”.
Qualora, pertanto, la questione di competenza si manifesti verosimilmente fondata e sia opportuna una decisione immediata, il
giudice potrà, nella stessa prima udienza o in una udienza successiva appositamente fissata, assumere le “sommarie informazioni” che
si rendano necessarie, invitare, quindi, le parti a precisare le conclusioni e decidere la causa ovvero, nelle cause riservate al collegio,
rimetterla a questo.
Qualora, invece, la questione di competenza appaia prima facie pretestuosa, il giudice potrà invitare le parti ad adempiere agli
oneri di allegazione e di qualificazione, previsti dall’art. 183, co. 3°,
(51) Cfr. R. ORIANI, op. cit., 334; A. PROTO PISANI, op. cit., p. 16.
(52) V., anche per indicazioni, B. CAPPONI, Le “informazioni” del giudice civile,
in Riv. trim. proc. civ., 1990, p. 911 ss.
75
4° e 5°, quale “novellato” dall’art. 17 l. 26 novembre 1990, n. 353,
riservandosi di assumere le “sommarie informazioni” nel contesto
della istruzione probatoria, nella consapevolezza, comunque, che
l’assunzione delle prove in funzione della decisione di merito è altra cosa rispetto alle “sommarie informazioni” di cui all’art. 38, co.
3° (53).
Poiché, peraltro, l’assunzione di “sommarie informazioni” prescinde dal principio della disponibilità delle prove e può comprendersi nei poteri di cui all’art. 175 c.p.c., è anche possibile che il giudice pretenda da chi eccepisce l’incompetenza in base a fatti che non
risultano ex actis che produca nella medesima prima udienza le prove di cui intende avvalersi.
Anche questa è una soluzione legittima e compatibile con la disciplina positiva, ma sarebbe opportuno che, mediante appositi provvedimenti di delegificazione intesa come autoregolazione, essa fosse concordata tra tutti i magistrati addetti al medesimo ufficio, nonché con la classe forense, al fine di evitare che la nuova disciplina
del processo civile abbia differenti applicazioni nelle diverse aule del
medesimo ufficio giudiziario e che le parti ignare della pur legittima prassi applicativa si vedano preclusa una facoltà prevista dalla
legge.
4.2.2. Segue ... nel processo ordinario di cognizione innanzi al
giudice di pace, nel processo semplificato di opposizione alle ingiunzioni amministrative e innanzi alle commissioni tributarie
Le forme previste nel processo ordinario di cognizione innanzi
ai giudici togati sono destinate ad operare anche innanzi al giudice
di pace e al pretore nel processo semplificato di opposizione alle ingiunzioni amministrative.
Ai sensi dell’art. 320, co. 2°, c.p.c., quale “novellato” dall’art. 44
l. 26 novembre 1990, n. 353, e dall’art. 29 l. 21 novembre 1991, n.
374, infatti “se la conciliazione non riesce, il giudice di pace invita
(53) Cfr. ancora B. CAPPONI, op. ult. cit.
76
le parti a precisare definitivamente i fatti che ciascuna pone a fondamento delle domande, difese ed eccezioni, a produrre i documenti e a richiedere i mezzi di prova da assumere”; ai sensi, poi, del capoverso successivo “quando sia reso necessario dalle attività svolte
dalle parti in prima udienza, il giudice di pace fissa per una sola volta una nuova udienza per ulteriori produzioni e richieste di prova”;
e, ai sensi dell’art. 321, “novellato” dagli artt. 45 l. 26 novembre 1990,
n. 353, e 30 l. 21 novembre 1991, n. 374, “il giudice di pace, quando ritiene matura la causa per la decisione, invita le parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa”.
Una disciplina non sostanzialmente diversa è dettata dall’art. 23
l. 24 novembre 1981, n. 689; ai sensi del comma 7°, “appena terminata l’istruttoria, il pretore - o il giudice di pace - invita le parti a
precisare le conclusioni ed a procedere nella stessa udienza alla discussione della causa, pronunciando subito dopo la sentenza mediante
lettura del dispositivo”. Ne consegue che anche il giudice di pace e il
pretore nel processo semplificato di opposizione alle ingiunzioni amministrative, nella prima udienza, possono indicare le questioni di
competenza rilevabili d’ufficio delle quali ritengono opportuna la trattazione; poi, qualora la questione si manifesti verosimilmente fondata e sia opportuna una decisione immediata, potranno assumere le
“sommarie informazioni” che si rendano necessarie a deciderla immediatamente, ovvero, qualora la questione di competenza appaia prima facie pretestuosa, rinviarne la decisione unitamente al merito.
In sede di decisione, il giudice di pace, per effetto del rinvio contenuto nell’art. 311, può declinare la competenza, dichiararla e decidere il merito della causa, oppure dichiararla con sentenza non definitiva e impartire distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione
della causa.
Sebbene nel processo semplificato di opposizione alle ingiunzioni amministrative, l’art. 23 l. 24 novembre 1981, n. 689, non preveda espressamente, a differenza dell’art. 420 co. 4°, c.p.c., la pronuncia di sentenze non definitive, né, per tale processo speciale, possa ritenersi operante il rinvio di cui all’art. 311 c.p.c., tale possibilità
non può neppure ritenersi esclusa.
L’art. 39 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (“novellato” dall’art. 1 l.
22 maggio 1989, n. 198) richiama, “in quanto compatibili” con la disciplina specifica del processo innanzi alle commissioni tributarie “le
norme contenute nel primo libro del c.p.c.” e, quindi, anche l’art. 38
77
“novellato” dall’art. 4 l. 26 novembre 1990, n. 353: ne consegue che,
nell’ancora vigente processo tributario, l’ultimo momento utile per
eccepire o per rilevare l’incompetenza è l’udienza di cui all’art. 20
d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, “novellato” dall’art. 12 d.P.R. 3 novembre 1981, n. 739.
La materia ha ora trovato autonoma e specifica regolazione
nell’art. 5, co. 2°, d.P.R. 31 dicembre 1992, n. 546, ai sensi del quale “L’incompetenza della commissione tributaria è rilevabile, anche
d’ufficio, soltanto nel grado al quale il vizio si riferisce”.
Il nuovo processo tributario si sottrae, quindi, alla applicazione del “novellato” art. 38 c.p.c.
A ben vedere, tuttavia, gli effetti sono i medesimi: tanto nel caso in cui, ai sensi dell’art. 33 d.P.R. n. 546 del 1992, il ricorso sia deciso in camera di consiglio, quanto in quello in cui, ai sensi del successivo art. 34, sia chiesta la trattazione alla pubblica udienza, la
questione di competenza è destinata ad essere preclusa dopo il primo incontro tra giudice e parti.
In relazione alla garanzia costituzionale del diritto alla difesa ex
art. 24 Cost. e al principio del contraddittorio, infatti, non appare
ammissibile che alcun giudice e, quindi, anche le commissioni tributarie possano rilevare d’ufficio l’incompetenza o qualsivoglia altra
questione di rito o di merito, senza aver provocato il contraddittorio tra le parti.
Il che non pone particolari problemi allorché la controversia sia
tratta all’udienza pubblica, ai sensi dell’art. 34 d.P.R. 31 dicembre
1992, n. 546. Rilevata, invece, d’ufficio l’incompetenza in camera di
consiglio ex artt. 5 e 33, la commissione dovrebbe fissare una nuova camera di consiglio, prima della quale le parti potranno depositare le memorie e le repliche previste dal secondo e dal terzo capoverso dell’art. 32 e potranno altresì chiedere la trattazione in pubblica udienza.
In ogni caso, quindi, anche nel nuovo processo tributario, la questione di competenza è destinata ad essere preclusa dopo il primo
incontro tra giudice e parti.
4.2.4. Segue ... nei processi sommari e in quelli esecutivi
Nel procedimento per convalida di sfratto, la questione di competenza eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice nella
78
prima udienza di trattazione, destinata alla pronuncia dei provvedimenti sommari di cui agli artt. 663, 664 e 665 c.p.c., va decisa nella stessa prima udienza ai sensi degli artt. 426, 427 e 667, quest’ultimo “novellato” dall’art. 73 l. 26 novembre 1990, n. 353.
Nel procedimento per ingiunzione ex art. 633 ss. c.p.c., l’incompetenza, eccepita con l’atto di opposizione ovvero rilevata d’ufficio
dal giudice nella prima udienza di tale giudizio, implica l’applicazione delle regole operanti nel processo ordinario innanzi ai giudici
togati o al giudice di pace.
Nel procedimento per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 l. 20 maggio 1970, n. 300, in quello per la repressione
dei comportamenti discriminatori tra i sessi ex art. 15 l. 15 dicembre 1977, n. 903, in quello per la tutela del diritto al mantenimento
dei minori ex art. 148 c.c., nonché nei procedimenti in camera di
consiglio ex artt. 737 ss. c.p.c. bi- o plurilaterali, la questione di competenza è decisa in ogni caso con decreto all’esito del procedimento
sommario.
Nel procedimento cautelare ex art. 669 bis ss. c.p.c., l’ordinanza conclusiva del procedimento conterrà la decisione sulla competenza, ma l’espressa previsione della riproponibilità della domanda
in caso di declinatoria di competenza induce ad escludere che tale
provvedimento, a differenza dei decreti appena considerati, sia suscettibile di impugnazione per regolamento di competenza, ai sensi
degli artt. 42 e 43 c.p.c.
L’art. 175 c.p.c. è espressamente richiamato dall’art. 484, co. 4°,
c.p.c. in riferimento ai processi esecutivi. Nell’ambito di tali ampi poteri, pertanto, anche il giudice dell’esecuzione può assumere “sommarie informazioni” sulla questione di competenza eccepita dalle parti o rilevata d’ufficio, salva comunque l’ipotesi in cui la questione di
competenza sia dedotta con l’opposizione agli atti ex art. 617 c.p.c.,
nel qual caso saranno applicabili le forme previste per il processo
ordinario o per quello semplificato.
4.3. - Segue. Il regolamento di competenza d’ufficio
L’irrilevanza della distinzione tra criterii di competenza forti e
criterii di competenza deboli conseguente alla modificazione dell’art.
38 c.p.c. è destinata ad influire anche sulla interpretazione di altre
disposizioni, pur non oggetto di riforma.
79
In particolare, si è prospettata l’abrogazione per incompatibilità,
ai sensi dell’art. 15 disp. prel., l’art. 45 c.p.c. sul regolamento di competenza d’ufficio (54): il presupposto per l’applicabilità della disposizione, infatti, era la rilevabilità, in base al vecchio testo dell’art. 38
c.p.c., della incompetenza per materia o per territorio funzionale in
ogni stato e grado del processo (55).
Si è obiettato, tuttavia, che, nel silenzio delle leggi di riforma sul
punto, la abrogazione per incompatibilità dovrebbe essere l’extrema
ratio (56).
Occorre, tuttavia, ribadire che la l. 26 novembre 1990, n. 353, e
la l. 21 novembre 1991, n. 374, sono espressamente destinate ad abbracciare “l’intera materia regolata dalle leggi anteriori” e, quindi,
come si è già osservato, la nuova disciplina è destinata a prevalere
su ogni disposizione incompatibile, anche se non espressamente abrogata.
In base ai principii dettati in tema di successione di leggi nel
tempo, inoltre, l’interprete è tenuto ad interpretare la normativa previgente alla luce di quella sopravvenuta e non viceversa.
L’omissione dell’indicazione dell’art. 45 c.p.c. tra le norme espressamente abrogate dall’art. 89 l. 26 novembre 1990, n. 353, o dall’art.
47 l. 21 novembre 1991, n. 374, non assume, pertanto, un rilievo decisivo, ma riflette l’obiettiva difficoltà della elaborazione di una disciplina tecnica, quale quella processuale nelle aule parlamentari.
La questione risiede, piuttosto, nel verificare la compatibilità della disposizione con la nuova disciplina generale sull’eccezione e sul
rilievo dell’incompetenza.
L’art. 45 c.p.c., infatti, non è norma speciale, come, ad esempio,
l’art. 428 c.p.c., capace di sopravvivere ad una nuova disciplina generale.
(54) V. anche per indicazioni sulla genesi dell’istituto, R. ANNECHINO, Note sul
regolamento di competenza di ufficio., in Dir. giur., 1990, 625; e G. OLIVIERI, Il regolamento di competenza resta inapplicabile nei giudizi davanti ai giudici di pace? in Giust. civ., 1992, II, 281 ss.
(55) Cfr. R. ORIANI, op. cit.: A. PROTO PISANI, op. loc. cit.
(56) V. G. TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, cit., p. 26, in
nota.
80
Con la “novellazione” dell’art. 38 sono venuti meno i presupposti di applicazione della disposizione: vuoi i presupposti funzionali,
cioè la distinzione tra criterii di competenza forti e criterii di competenza deboli, vuoi soprattutto quelli strutturali.
La questione di competenza, infatti, è definitivamente preclusa
dopo la prima udienza di trattazione. In seguito a una pronuncia declinatoria di competenza, il processo, ai sensi dell’art. 50 c.p.c., continua innanzi al giudice dichiarato competente. Ne consegue che la
prima udienza innanzi al giudice ad quem non può mai essere considerata la prima udienza di trattazione, anche nel caso in cui in essa le parti possano svolgere alcune delle attività previste dagli artt.
183 o 320 c.p.c. L’ipotesi si presta ad essere regolata dall’art. 187, co.
4°, c.p.c., quale “novellato” dall’art. 22 l. 26 novembre 1990, n. 353:
innanzi al giudice del processo riassunto, le parti potranno articolare nuovi mezzi di prova, ma non potranno né proporre nuove domande ed eccezioni, né potranno modificare le domande e le eccezioni già proposte; con la precisazione delle conclusioni innanzi al
giudice poi dichiaratosi incompetente, è definitivamente preclusa l’attività di allegazione e quella di modificazione, perché in quella occasione è stato definitivamente determinato il thema decidendum.
In proposito non potrebbero neppure invocarsi le soluzioni accolte in riferimento al processo semplificato di cui agli artt. 413 ss.
c.p.c. (57): in quel processo, infatti, l’incompetenza può essere eccepita o rilevata entro l’udienza di discussione di cui all’art. 420 c.p.c.;
e tale è indubbiamente anche l’udienza innanzi al giudice dichiarato incompetente.
Appunto in riferimento alla differente disciplina dettata nel rito
semplificato e alla incompatibilità dell’art. 45 c.p.c. con il testo “novellato” dell’art. 38, piuttosto che di abrogazione, appare corretto af-
(57) Cfr. Cass., 24 aprile 1986, n. 2906, in Foro it., Rep. 1986, voce Lineamenti
e previdenza (controversie ), n. 158: “l’udienza di discussione entro la quale il pretore,
a norma del 1° comma dell’art. 428 c.p.c., deve rilevare (anche ai fini della richiesta
di regolamento ex art. 45 c.p.c.) la propria incompetenza territoriale non è soltanto
la prima udienza fissata per la discussione ma anche quella successiva cui la causa
sia stata rinviata per la discussione stessa, dovendo in tal caso detta prima udienza
ritenersi non celebrata”.
81
fermare l’inapplicabilità del regolamento di competenza d’ufficio in
tutti i processi nei quali si applica l’art. 38 (58).
A tal proposito, occorre, infine, considerare che le parti e il giudice hanno comunque avuto la possibilità di eccepire e di rilevare
l’incompetenza nella prima udienza di trattazione; che, inoltre, una
volta eccepita o rilevata l’incompetenza, le parti hanno la possibilità
di impugnare la decisione (definitiva o non definitiva, limitata alla
sola competenza o estesa anche al merito), anche con regolamento
di competenza, ai sensi degli artt. 42 e 43 c.p.c. Se nessuno si duole della decisione, non vi sono ragioni per tentare di sovvertire una
soluzione conforme alla lettera e alla ratio della nuova disciplina.
Anche in riferimento alle decisioni dei giudici di pace, nei confronti delle quali è precluso, ai sensi dell’art. 46 c.p.c., quale “novellato” dall’art. 39 l. 21 novembre 1991, n. 374, il regolamento di competenza, le parti hanno comunque la possibilità di dedurre l’incompetenza tempestivamente eccepita o rilevata con l’appello innanzi al
tribunale ai sensi dell’art. 341 c.p.c., quale “novellato” dall’art. 34 l.
21 novembre 1991, n. 374.
5. I nuovi criterii di competenza
Di fronte alle obiettive difficoltà di incidere sulle strutture giudiziarie, il legislatore della riforma ha, dunque, offerto un indubbio
contributo alla sdrammatizzazione della questione di competenza. Il
che, peraltro, rende ancor meno giustificabile la pluralità e la varietà
degli organi giurisdizionali prima indicata (59). Un secondo settore
di intervento riguarda il riparto di competenze, con l’attribuzione di
una serie di controversie al giudice di pace all’esplicito scopo di sopperire alle “esigenze di funzionalità della giustizia togata” (60).
(58) Nel senso che l’art. 38 non si applica alla incompetenza “per gradi”, in riferimento alla quale, quindi, può applicarsi l’art. 45 c.p.c., v. R. ORIANI, op. cit.
(59) Cfr. sopra il 1.
(60) Così la Risoluzione, cit., n. 8.
82
5.1. Le controversie attribuite alla competenza del giudice di pace
L’art. 7 c.p.c. “novellato” dall’art. 17 l. 21 novembre 1991, n. 374,
attribuisce al giudice di pace un triplice ambito di competenza (61).
Il comma 1°, infatti, prevede una competenza entro il valore di
cinque milioni “per le cause relative ai beni mobili (...), quando dalla legge non siano attribuite alla competenza di altro giudice”.
I commi 2° e 3° prevedono una competenza, entro il valore di
lire trenta milioni, per le “cause di risarcimento del danno prodotto
dalla circolazione di veicoli e di natanti” e per quelle “di opposizione alle ingiunzioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, salvo che con la sanzione pecuniaria sia stata anche applicata una sanzione amministrativa accessoria”.È fatta comunque salva “la competenza del pretore in funzione di giudice del lavoro e per le cause di
opposizione alle ingiunzioni in materia di previdenza ed assistenza
obbligatorie”.
Il comma 4°, infine, attribuisce al giudice di pace, senza limiti
di valore (a) “le cause relative ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi
riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi”, (b) quelle“relative alla misura ed alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case”, (c) quelle “relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o
di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che
superino la normale tollerabilità” e (d) quelle “di opposizione alle
sanzioni amministrative irrogate in base all’articolo 75 del t.u. approvato con d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309”.
A ben vedere, quelli previsti dai primi tre capoversi sono criterii di competenza misti: per materia e per valore; la competenza è
determinata, infatti, in riferimento a specifiche controversie, con il
limite del valore. Il criterio del comma 4°, invece, è stabilito con
(61) Cfr., soprattutto, C. CECCHELLA, Commento all’art. 17 l. 21 novembre 1991,
n. 374, in Il giudice di pace, cit., p. 106 ss.; S. CHIARLONI, Commento all’art. 17 l. 21
novembre 1991, n. 374, in Le riforme del processo civile; S. DEL CORE, La competenza civile del giudice di pace, in Giur. merito.
83
esclusivo riferimento alla materia. La distinzione, tuttavia, ha un mero valore descrittivo, in quanto, come si è avuto modo di constatare, ai sensi del “novellato” art. 38 c.p.c., l’unica distinzione rilevante
è tra l’incompetenza per territorio semplice e ogni altra specie di incompetenza.
Nelle controversie “il cui valore non eccede lire un milione”, ai
sensi dell’art. 82, co. 1°, c.p.c., quale “novellato” dall’art. 20 l. 21 novembre 1991, n. 374, le parti possono stare in giudizio personalmente.
In quelle “il cui valore non eccede lire due milioni”, ai sensi
dell’art. 113, co. 2° c.p.c., quale “novellato” dall’art. 21 l. 21 novembre 1991, n. 374, “il giudice di pace decide secondo equità”: il legislatore della riforma, infatti, ha soppresso il riferimento ai “principii regolatori della materia”, introdotto nel 1984 e rivelatosi fonte di
complicazioni (62).
Le controversie attribuite alla competenza del giudice di pace,
infine, sono regolate dal rito ordinario secondo la disciplina contenuta nel capo III del titolo II del libro II del c.p.c., ad eccezione di
quelle di opposizione alle ingiunzioni amministrative previste dal
comma 3° e dal n. 4 del comma 4°, alle quali, invece, si applica il
rito speciale di cui all’art. 23 l. 24 novembre 1981, n. 689 (63).
5.1.1. La competenza fino a lire cinque milioni
Per quanto riguarda le controversie previste dal primo comma,
può essere opportuno sottolineare che si tratta di un ambito di competenza determinato a negativis: l’art. 812 c.c., infatti, indica i crite-
(62) V., da ultima, Cass. 15 giugno 1991, n. 6794, in Foro it., 1991, I, 2717, con
nota di M. MONNINI (Il giudizio di equità del conciliatore all’esame delle sezioni unite: una volta per tutte si materializza l’“Araba fenice” della c.d. giustizia minore), alla
quale si rinvia per indicazioni sul dibattito sviluppatosi sull’argomento.
(63) Nel senso, invece, della applicabilità del rito ordinario con “qualche aggiustamento”, v. C. CECCHELLA, op. loc. ult. cit. Per le opposizioni alle sanzioni pecuniarie in materia di circolazione, l’art. 205, co. 2° e 3°, d.P.R. 30 aprile 1992, n. 285,
espressamente dispone: “2. Nei casi indicati dal co. 3 dell’art. 7 c.p.c., nel testo sostituito dall’art. 17 l. 21 novembre 1991, n. 374, l’opposizione è proposta innanzi al giudice di pace del luogo della commessa violazione. Resta ferma la competenza del pretore quando, con la sanzione pecuniaria, sia stata anche applicata una sanzione amministrativa accessoria. 3. Il giudizio di opposizione previsto dal comma 2 è regolato dalle disposizioni di cui agli articoli 22 e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689”.
84
ri per individuare i beni immobili; il comma terzo dispone che “sono mobili tutti gli altri beni” (64). Ne consegue che la portata precettiva dell’art. 7, co. 1°, c.p.c., quale “novellato” dall’art. 17 l. 21 novembre 1991, n. 374, è nel senso che sono attribuite alla competenza del giudice di pace tutte le controversie che non riguardano beni
immobili, fino ad un valore di lire cinque milioni e purché non siano attribuite alla competenza di altro giudice per ragioni di materia.
In relazione a tale ultima precisazione, può essere anche opportuno rilevare che la competenza si determina comunque in base
al rapporto dedotto in giudizio.
Sono, pertanto, destinate ad essere sottratte alla competenza del
giudice di pace tutte le controversie su crediti che traggano origine
da rapporti attribuiti alla competenza per materia di altri giudici, anche nel caso in cui l’esistenza di tali rapporti, dedotti come causae
petendi, non sia contestata e il giudizio abbia per oggetto esclusivamente il pagamento di somme nei limiti della competenza del giudice di pace: basti pensare, ad esempio, alle controversie dirette al
pagamento di retribuzioni, di canoni di locazione o di affitto di fondi rustici, di contributi previdenziali, ecc. (65).
Sono, invece, destinate ad essere attribuite alla competenza del
giudice di pace le controversie sulla interpretazione, applicazione ed
esecuzione di contratti che abbiano ad oggetto diritti su beni immobili allorché il valore del diritto controverso non superi lire cinque milioni: in tal caso, infatti, il diritto dedotto in giudizio è il diritto di credito nascente dal contratto, non il diritto reale, la cognizione del quale è sottratta al giudice di pace.
5.1.2. La competenza fino a lire trenta milioni
Il secondo e il terzo comma attribuiscono al giudice di pace, entro il valore di lire trenta milioni, tutte le controversie che abbiano
(64) Anche per indicazioni, v. M. COSTANTINO, Beni in generale. Proprietà, in
Trattato di dir. priv., diretto da P. RESCIGNO, I, Torino, 1982.
(65) V., in riferimento a tale ultima fattispecie, nel senso dell’esclusione della
competenza del conciliatore, Cass. 19 novembre 1991, n. 12380, in Foro it., 1992, I,
386.
85
ad oggetto diritti al risarcimento dei danni provocati della circolazione dei veicoli o dei natanti, nonché le opposizioni alle ingiunzioni amministrative, ai sensi dell’art. 23 l. 24 novembre 1981, n. 689.
In relazione alle prime, può essere opportuno porre in evidenza che
la competenza del giudice di pace non è limitata alle controversie relative a danni a cose, come pure si era prospettato nel corso dei lavori preparatori; la competenza del giudice di pace si estende a qualunque controversia sul risarcimento danni provocato dalla circolazione di veicoli, indipendentemente dall’ambito di applicazione della disciplina di cui all’art. 2054 c.c. o della legge sulla assicurazione
obbligatoria: sono, quindi, ad esempio, destinate ad essere comprese nella previsione legislativa anche le controversie sui danni provocati da collisione tra sciatori (66).
In relazione alle seconde, occorre porre in evidenza che il comma terzo esclude espressamente vuoi i casi in cui, “con la sanzione
pecuniaria sia stata anche applicata una sanzione amministrativa accessoria”, vuoi “le cause di opposizione alle ingiunzioni in materia
di previdenza ed assistenza obbligatorie”.
Quest’ultima limitazione va coordinata con quanto previsto
dall’art. 2, co. 3° e 4°, d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito nella l.
7 dicembre 1989, n. 389 (67): questa disposizione, infatti, consente
agli enti pubblici che gestiscono forme obbligatorie di previdenza ed
assistenza sociale (a) di avvalersi “del potere di ordinanza ingiunzione, di cui all’articolo 35 della l. 24 novembre 1981, n. 689”, ovvero (b) di emettere ingiunzioni, ai sensi del regio decreto 14 aprile
1910, n. 639, ovvero (c) di richiedere “decreti ingiuntivi”; il comma
4° precisa che “l’opposizione alle predette ingiunzioni è proposta, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla notificazione dell’ingiunzione, o dell’ordinanza - ingiunzione, al pretore in funzione di
(66) Nel senso che in tali ipotesi non opera l’inversione dell’onere della prova
prevista dall’art. 2054 c.c., v. Cass., 30 luglio 1987, n. 6603, in Dir. e pratica assic.,
1987, 863, con nota di M. ANTINOZZI, La responsabilità dello sciatore, Trib. Bolzano,
7 novembre 1984, in Resp. civ., 1985, 105; Trib. Torino, 11 novembre 1983, in Arch.
circolaz., 1985, 124.
(67) Intitolato “Disposizioni urgenti in materia di evasione contributiva, di fiscalizzazione degli oneri sociali, di sgravi contributivi nel Mezzogiorno e di finanziamento
dei patronati”.
86
giudice del lavoro” e che “il giudizio di opposizione è regolato dagli
articoli 442 ss. c.p.c.”.
La limitazione contenuta nell’ultima parte dell’art. 7, co. 3°, c.p.c.,
quale “novellato” dalla l. 21 novembre 1991, n. 374, a ben vedere, ribadisce quanto già avrebbe potuto sostenersi in base ai principi in
tema di successioni di leggi nel tempo: la legge generale successiva
non abroga le leggi speciali anteriori; gli artt. 442 c.p.c., 35 l. 24 novembre 1981, n. 689, e 2 d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, conv. nella l. 7
dicembre 1989 n. 389, quali norme speciali resistono alla nuova disciplina generale della competenza.
Nella medesima prospettiva, avrebbe potuto essere affermata la
sopravvivenza della competenza esclusiva della corte di appello di
Roma per i reclami contro le sanzioni amministrative sull’esercizio
dell’attività bancaria: in tal senso era, infatti, l’art. 90 l. 7 marzo 1938,
n. 141. Senonché la materia è ora regolata dall’art. 34 d.P.R. 14 dicembre 1992, n. 481, che non differisce dal precedente: l’ultimo capoverso di tale disposizione espressamente stabilisce che “ovunque
sia richiamato l’art. 90 della legge bancaria si intende richiamato il
presente articolo”.
Ne consegue che, vuoi per la specialità della materia, vuoi perché la disciplina è stata ripetuta in una disposizione più recente, anche le opposizioni alle sanzioni amministrative previste dalle leggi
sull’esercizio dell’attività bancaria sono sottratte alla competenza del
giudice di pace.
Appare, invece, corretto ritenere che la competenza del giudice
di pace si estenda anche ai casi in cui l’azione tenda alla ripetizione di quanto versato per la contestazione di violazioni alla disciplina della circolazione stradale.
In tali ipotesi, infatti, gli artt. 142 e 142 bis d.P.R. 15 giugno
1959, n. 393, “novellati” dagli artt. 23 e 24 l. 24 marzo 1989, n. 122,
consentono la formazione dei ruoli, ai sensi dell’art. 27 l. 24 novembre 1981, n. 689, e, quindi, l’esecuzione forzata secondo le norme del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (68), indipendentemente dal-
(68) Sulla quale v. il mio Le espropriazioni forzate speciali. Lineamenti generali,
Milano, 1984.
87
la notificazione della ordinanza-ingiunzione e della conseguente attribuzione del potere di impugnativa della medesima (69).
In particolare, il comma 1° dell’art. 142 bis stabilisce che “il
sommario processo verbale per il quale non sia stato effettuato il
pagamento previsto dall’articolo 138 e non sia stato presentato ricorso a norma dell’articolo 142, co. 1°, costituisce titolo esecutivo
per la somma pari alla metà del massimo della sanzione pecuniaria edittale” (70). Ciò comporta che chi non abbia tempestivamente contestato “il sommario precesso verbale”della polizia stradale o
dei vigili urbani si trova esposto alla esecuzione esattoriale senza
aver ricevuto la notificazione della ordinanza-ingiunzione del prefetto e, quindi, senza aver avuto la possibilità di impugnarla innanzi
ad un organo giudiziario ai sensi dell’art. 23 l. 24 novembre 1981,
n. 689.
(69) L’art. 142, intitolato Ricorso e rapporto al prefetto, dispone:
“1. Il trasgressore nel termine di sessanta giorni dall’accertamento o dalla notificazione della violazione, può proporre ricorso al prefetto del luogo della commessa
violazione, da presentarsi allo stesso ufficio o comando cui appartiene l’organo accertatore. (...)
3. Il prefetto procederà ai sensi dell’articolo 18 della legge 24 novembre 1981, n.
689 (...)
5. Qualora nel termine di sessanta giorni dall’accertamento o dalla notificazione della violazione non sia stato proposto ricorso e non sia avvenuto il pagamento in
misura ridotta non si applica la norma di cui al primo e al secondo comma dell’articolo 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689.
L’art. 142 bis, intitolato Riscossione dei proventi delle sanzioni pecuniarie, a sua
volta, dispone:
“1. Il sommario processo verbale per il quale non sia stato effettuato il pagamento previsto dall’articolo 138 e non sia stato presentato ricorso a norma dell’articolo 142, primo comma, costituisce titolo esecutivo per la somma pari alla metà del
massimo della sanzione peciniaria edittale (...)
4. Si applicano i commi terzo, quarto, quinto, sesto e settimo dell’articolo 27 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in quanto compatibili”.
A tale disciplina, dal 1° gennaio 1993, corrispondono gli artt. 194 ss. del nuovo
codice della strada approvato con d.P.R. 30 aprile 1992, n. 285; in particolare, la sezione I del capo I del titolo IV, intitolata “Degli illeciti amministrativi importanti sanzioni amministrative pecuniarie ed applicazione di queste ultime”.
(70) La disposizione è riprodotta nel nuovo codice della strada, all’art. 203, co.
3°, d.P.R. 30 aprile 1992, n. 285, ai sensi del quale “Qualora nei termini previsti non
sia stato proposto ricorso e non sia avvenuto il pagamento in misura ridotta, il verbale, in deroga alle disposizioni di cui all’art. 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689,
costituisce titolo esecutivo per una somma pari alla metà del massimo della sanzione amministrativa edittale”.
88
Il che, tuttavia, non esclude, anzi impone, che gli sia consentito di agire per la ripetizione di quanto sia stato tenuto a pagare in
base alla cartella esattoriale notificatagli.
Prescindendo dai profili di legittimità costituzionale di tale disciplina, che fa risorgere il famigerato solve et repete, tali controversie
non differiscono da quelle di impugnativa delle ordinanze-ingiunzioni
del prefetto di cui all’art. 23 l. 24 novembre 1981, n. 689, attribuite alla competenza del giudice di pace secondo il rito speciale: è ragionevole presumere, infatti, che, in pratica, la questione acquisterà rilevanza soprattutto in riferimento alla individuazione del rito applicabile, in quanto comunque potrà affermarsi la competenza del giudice
di pace ai sensi del primo capoverso della disposizione.
Le controversie in esame, peraltro, se possono essere agevolmente
individuate, pongono altri problemi: quelle sul risarcimento dei danni provocati dalla circolazione dei veicoli soggetti alla assicurazione
obbligatoria, che rientrano nella più ampia previsione del comma 2°,
sono regolate anche dalle disposizioni di cui alla l. 24 dicembre 1969,
n. 990, nonché da quelle del d.l. 24 dicembre 1976, n. 857, convertito nella l. 26 febbraio 1977, n. 39: occorre, pertanto, coordinare le
disposizioni processuali contenute in tali provvedimenti legislativi
con la disciplina del procedimento innanzi al giudice di pace (71).
E analoghi problemi di coordinamento si pongono in riferimento alle opposizioni alle ingiunzioni amministrative, regolate dal procedimento previsto dall’art. 23 l. 24 novembre 1981, n. 689.
5.1.3. La competenza per materia. - Il terzo gruppo di controversie, previsto dal comma 4° dell’art. 7, comprende fattispecie tra loro
eterogenee.
I. - art. 7, co. 4°, n. 1. - Le cause “relative ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regola-
(71) Il d.d.l. sulla riforma della assicurazione obbligatoria rinviato alle Camere
dal Presidente della Repubblica giace ancora in Parlamento. Le più significative innovazioni processuali rigurdano l’interrogatorio libero delle parti e il tentativo obbligatorio di conciliazione, comunque previsti in generale dai “novellati” artt. 183 e 320
c.p.c., nonché la necessità del litisconsorzio tra più danneggiati. Qualora sia approvato, è evidente, che anche tale disciplina dovrà essere coordinata con quella del procedimento innanzi al giudice di pace.
89
menti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi”
erano già attribuite alla competenza del pretore, ai sensi del previgente testo dell’art. 8, n. 2, c.p.c.
In riferimento alle prime, la giurisprudenza ha da tempo chiarito
che l’adozione di apposizione di termini presuppone l’esistenza di un
confine certo e determinato e mira ad ottenere soltanto che la linea
di demarcazione tra proprietà contigue sia resa possibile e riconoscibile mediante la collocazione di segni esteriori che indichino materialmente il tracciato, mentre l’azione di regolamento di confini presuppone l’incertezza tra i confini dei fondi contigui, che può derivare
tanto dalla mancanza di qualsiasi limite (incertezza oggettiva) tanto
dalla contestazione sul confine esistente (incertezza soggettiva).
Ne consegue che, mentre le prime, già attribuite alla competenza per materia del pretore, appartengono a quella del giudice di pace, le seconde rientrano tra quelle relative a beni immobili, assoggettate alla regola della distribuzione della competenza per valore in
base ai criteri posti dall’art. 15 c.p.c. (72).
Per quanto riguarda le seconde, la giurisprudenza ha compreso
nella previsione dell’abrogato art. 8, n. 2, c.p.c., anche l’actio negatoria servitutis relativa all’osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o degli usi con riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi (73).
Occorre, tuttavia, considerare che l’art. 40, co. 6°, quale “novellato” dall’art. 5 l. 26 novembre 1990, n. 353, e dall’art. 19 l. 21 novembre 1991, n. 374, dispone che il simultaneus processus si realizzi in
ogni caso innanzi ai giudici togati: dal 2 gennaio 1993, pertanto, allorché l’azione diretta ad ottenere il rispetto delle distanze delle piantagioni dal confine si accompagni ad un’azione accessoria di danni per
un importo superiore a lire cinque milioni, questa azione accessoria,
in deroga a quanto previsto dall’art. 31 c.p.c., eserciterà la propria vis
(72) Cfr. Cass. 30 novembre 1988, n. 6500, in Foro it., Rep. 1988, voce Proprietà
(azioni a difesa), n. 12; nonché, anche per indicazioni, A. GAMBARO, voce Apposizione di termini e regolamento di confini (azioni per), in Enc. giur., II, Roma, 1988.
(73) Cfr. Cass. 8 febbraio 1985, n. 1746, in Foro it., Rep. 1985, voce Competenza civile, n. 90, che ha affermato la competenza del pretore, senza limiti di valore ai
sensi dell’art. 31 c.p.c., anche sulla domanda accessoria di risarcimento del danno.
90
atractiva sulla domanda principale ed entrambe le domande potranno
essere proposte al giudice (togato) competente per valore (74).
II. - art. 7, co. 4°, n. 2. - Le cause “relative alla misura ed alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case” ingiustificatamente divise dall’improvvido legislatore del 1984 tornano ad essere unificate.
Queste controversie, infatti, sono destinate ad essere individuate a negativis: si tratta delle liti tra condomini che non implicano né conflitti di natura reale tra proprietà individuali e proprietà comune, né conflitti sulla ripartizione delle spese. Questa era la ratio della disciplina
del condominio del 1934, fusa nei codici del 1942. Soltanto con la legge del 1984, l’interprete è stato chiamato alla individuazione in positivo di tale specie di controversie (75). La questione è ora superata
con il ripristino della originaria formulazione della disposizione.
III. - art. 7, co. 4°, n. 3. - Le cause “relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti
e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità” coincidono solo in parte con quelle previste dell’art. 844 c.c.
Questa norma riguarda i conflitti di natura reale sull’uso di proprietà vicine, non anche la tutela della salute o il risarcimento dei
danni subìti a causa delle immissioni moleste: l’esercizio dell’azione
prevista dall’art. 844 c.c., esperibile esclusivamente dal proprietario,
infatti, può dar luogo tanto alla inibitoria dell’uso incompatibile,
quanto alla liquidazione di una indennità per il diminuito valore del
bene, indennità che non corrisponde al risarcimento del danno (76).
(74) V. infra.
(75) V., anche per indicazioni, il mio I nuovi criterii di competenza civile, in Foro it., 1985, V, 44 ss.
(76) Nel senso che la tutela ex art. 844 c.c. è alternativa a quella risarcitoria, v.
Trib. Biella, 22 aprile 1989, in Foro it., 1990, I, 3303, con nota di SIMONE; nel senso
che l’art. 844 c.c. e la legge n. 615 del 1966 contro l’inquinamento atmosferico tutelano oggetti diversi essendo destinati, rispettivamente, alla salvaguardia della proprietà
fondiaria l’una, e alla tutela della salute pubblica l’altra, v. Cass. 20 dicembre 1990, n.
12091, id., Rep. 1990, voce Proprietà, n. 27; nel senso che l’azione ex art. 844 c.c. ha
natura reale e va inquadrata nel paradigma tipologico della negatoria servitutis, v. Trib.
Latina, 13 ottobre 1989, id., Rep. 1990, voce Proprietà, n. 28; nel senso che l’ambito di
applicazione dell’art. 844 c.c. non coincide con quello dell’art. 32 Cost. sulla tutela della salute, v. Cass., 11 settembre 1989, n. 3921, id., Rep. 1989, voce cit. 21.
91
Le controversie attribuite alla cognizione del giudice di pace
dall’art. 7, co. 4°, n. 3, c.p.c., quale “novellato” dall’art. 17 l. 21 novembre 1991, n. 374, invece, comprendono tanto i conflitti tra “proprietari”, quanto quelli tra “detentori” “di immobili adibiti a civile
abitazione”.
Il quarto capoverso della disposizione, pertanto, non contraddice la previsione del primo comma: non attribuisce alla competenza
del giudice di pace conflitti di natura reale su beni immobili.
La previsione del co. 4°, n. 3, è analoga a quella del precedente
n. 2: la norma considera esclusivamente i conflitti sull’uso di proprietà vicine. Sono, invece, sottratte alla competenza del giudice di
pace vuoi le controversie che abbiano per oggetto diritti reali su beni immobili, vuoi, ai sensi del “novellato” art. 40 c.p.c., quelle sul risarcimento danni, allorché il valore di questi superi la somma di lire cinque milioni.
IV. - art. 7, co. 4°, n. 4. - Il n. 4, infine, richiama l’art. 75 del
d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, che riproduce in parte l’art. 15 l. 26
giugno 1990, n. 162: si tratta delle opposizioni alle sanzioni amministrative per violazioni alla legge sulla droga, sulle quali non ha inciso il referendum abrogativo del 18 aprile 1993.
In particolare, si tratta delle sanzioni amministrative “della sospensione della patente di guida, della licenza di porto d’armi, del
passaporto e di ogni altro documento equipollente o, se trattasi di
straniero, del permesso di soggiorno per motivi di turismo, ovvero
del divieto di conseguire tali documenti, per un periodo da due a
quattro mesi”, che possono essere comminate a “chiunque, per farne uso personale, illecitamente importa, acquista o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope in dose non superiore a quella media giornaliera”.
Ai sensi del comma secondo, tuttavia, “in luogo della sanzione,
e per una sola volta, il prefetto ha il potere di definire il procedimento con il formale invito a non fare più uso delle sostanze stesse, avvertendo il soggetto delle conseguenze a suo danno”. In ogni
caso, prima di comminare la sanzione amministrativa, il prefetto, ai
sensi del comma sesto, è tenuto a convocare “dinanzi a sé o ad un
suo delegato la persona segnalata per accertare, a seguito di colloquio, le ragioni della violazione, nonché per individuare gli accorgimenti utili per prevenire ulteriori violazioni”. All’esito del colloquio
con l’interessato o, se minore, con i suoi familiari, il prefetto può in92
vitarlo a sottoporsi ad un “programma terapeutico e socio-riabilitativo”; qualora tale programma sia rifiutato o interrotto, il prefetto è
tenuto a riferirne al p.m. per l’applicazione di misure di sicurezza
previste dall’art. 76 dello stesso d.P.R.
Mentre l’“invito a non fare più uso delle sostanze stesse (avvertendo il soggetto delle conseguenze a suo danno”) è, per una sola
volta, alternativo alla comminatoria della sanzione amministrativa,
questa può concorrere con l’invito a sottoporsi ad un “programma
terapeutico e socio-riabilitativo”.
Poi, tanto nel caso in cui il programma sia rifiutato, quanto in
quello in cui sia interrotto, “competente a irrogare la sanzione è il
pretore del luogo in cui è stato commesso il fatto o, se si tratta di
minorenni, il tribunale per i minorenni”: in tal caso, infatti, il comportamento sanzionato è il rifiuto o l’interruzione del “programma
terapeutico e socio-riabilitativo”.
La competenza del giudice di pace, pertanto, è limitata alla opposizione alle sanzioni amministrative eventualmente concorrenti con
l’invito a sottoporsi ad un “programma terapeutico e socio-riabilitativo”; esula invece dalla competenza del giudice onorario ogni questione conseguente al rifiuto o all’interruzione di tale programma.
L’art. 7, co. 4°, n. 4, c.p.c. quale “novellato” dalla l. 21 novembre 1991, n. 374, si riferisce espressamente alle “sanzioni amministrative irrogate in base all’articolo 75 del testo unico approvato con
d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309”. Sennonché l’art. 77 dello stesso decreto commina la sanzione amministrativa del pagamento di una
somma da lire centomila a lire un milione a “chiunque in un luogo
pubblico o aperto al pubblico, ovvero in un luogo privato ma di comune o altrui uso, getta o abbandona in modo da mettere a rischio
l’incolumità altrui siringhe o altri strumenti pericolosi utilizzati per
l’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope”. E l’art. 84 punisce con la sanzione amministrativa da lire dieci milioni a lire cinquanta milioni la propaganda pubblicitaria di sostanze stupefacenti.
In base alla lettera della disposizione, in tali casi la competenza del giudice di pace potrebbe essere affermata esclusivamente ai
sensi del comma 2°; cioé allorché la sanzione pecuniaria non superi lire trenta milioni, mentre l’impugnazione delle ordinanze ingiunzioni che comminano sanzioni per un importo maggiore dovrebbero essere attribuite alla competenza del pretore ai sensi dell’art. 23
l. 24 novembre 1981, n. 689.
93
Questa interpretazione letterale, tuttavia, richiede una verifica alla luce della ratio della disposizione e del sistema.
A ben vedere, la questione si pone con esclusivo riferimento alle
opposizioni avverso le sanzioni previste dall’art. 84, in quanto quelle
previste dall’art. 77 sono comunque destinate ad essere attribuite al giudice di pace ratione valoris, ai sensi del comma secondo dell’art. 7 c.p.c.
Il divieto di propaganda pubblicitaria di sostanze stupefacenti,
sancito dell’art. 84 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, peraltro, va considerato anche in riferimento alle previsioni dell’art. 8 l. 6 agosto 1990,
n. 223, intitolata “Disciplina del sistema radio-televisivo pubblico e
privato”. Ai sensi del co. 5° di tale disposizione, infatti, è espressamente vietata la pubblicità radiofonica e televisiva “dei medicinali e
delle cure mediche disponibili unicamente con ricetta medica”.
L’inosservanza delle previsioni dell’art. 8 (nonché degli artt. 9, 20,
21 e 26 e l’inadempimento dell’obbligo di rettifica) è sanzionata dall’art.
31 l. 6 agosto 1990, n. 223, all’esito di un procedimento amministrativo ivi descritto, con “l’irrogazione della sanzione amministrativa del
pagamento di una somma da lire dieci milioni a lire cento milioni e,
nei casi più gravi, la sospensione dell’efficacia della concessione o
dell’autorizzazione per un periodo da uno a dieci giorni”. L’art. 31, co.
4°, a tal fine espressamente rinvia alla l. 24 novembre 1981, n. 689.
Ne consegue che, a seguito della novella di cui alla l. 21 novembre 1991, n. 374, anche le opposizioni avverso le sanzioni amministrative per violazione della disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato, entro il limite di valore di lire trenta milioni
e purché non si accompagnino a sanzioni accessorie, sono attribuite alla competenza del giudice di pace.
In questa prospettiva, può giustificarsi l’interpretazione letterale
del n. 4 del co. 4° dell’art. 7 c.p.c.: soltanto per le opposizioni avverso le sanzioni specificamente previste dall’art. 75 d.P.R. 9 ottobre
1990, n. 309, la competenza del giudice di pace non soffre limite di
valore. In ogni altro caso in cui non siano previsti particolari criterii di competenza (77), e, quindi, anche in quelli previsti dal d.P.R.
(77) Come avviene in materia previdenziale e bancaria.
94
9 ottobre 1990, n. 309, opera il vero criterio generale, in base al quale il giudice di pace è competente entro il limite di valore di lire trenta milioni e purché alla sanzione pecuniaria non si accompagnino
sanzioni accessorie.
5.1.4. - L’incompetenza in materia cautelare
Ai sensi degli artt. 669 ter e quater, il conciliatore non ha il potere di concedere provvedimenti cautelari, ma l’art. 39 l. 21 novembre 1991, n. 374, sostituisce ogni riferimento al “conciliatore” o al
“giudice conciliatore” con quello al “giudice di pace”. Ne consegue
che gli artt. 669 ter e quater vanno letti nel senso il giudice di pace
non ha il potere di concedere provvedimenti cautelari.
Per le controversie attribuite alla competenza del giudice di pace è, quindi, destinata a sopravvivere la dicotomia tra giudice della
cautela e giudice del merito, esclusa in generale dai menzionati artt.
669 ter e quater.
È, peraltro, ragionevole ritenere che il giudice sia comunque competente a sospendere l’efficacia esecutiva dell’ordinanza-ingiunzione,
ai sensi dell’art. 22 ult. cpv., l. 24 novembre 1981, n. 689, vuoi perché, in generale, i provvedimenti sull’esecuzione provvisoria sono sottratti all’applicazione del nuovo procedimento cautelare, vuoi perché
tale potere gli è espressamente attribuito, per le ordinanze in materia di circolazione stradale, dall’art. 205 d.P.R. 30 aprile 1992, n. 285,
vuoi, infine, perché al giudice di pace è espressamente attribuito il
potere di sospendere l’esecuzione provvisoria delle proprie sentenze,
ai sensi dell’art. 373, co. 2°, quale novellato dall’art. 63 l. 26 novembre 1990, n. 353, e, quindi, gli è specificamente (sia pure in un diverso ambito) attribuito un potere di inibitoria (78).
L’incompetenza del giudice di pace in materia cautelare comporta, tra l’altro, che tale organo giudiziario sia privo del potere di
(78) Nel senso, invece, che il giudice di pace non abbia neppure il potere di sospendere l’efficacia dell’ordinanza ingiunzione, perché tenuto ad applicare il rito ordinario, non quello speciale di cui agli artt. 22 s. l. 24 novembre 1981, n. 689, v. C.
CECCHELLA, Commento all’art. 17 l. 21 novembre 1991, n. 374, cit., p. 117.
95
emanare l’ordinanza provvisionale di cui all’art. 24 l. 24 dicembre
1969, n. 990: il riferimento allo “stato di bisogno” del danneggiato
impone, infatti, che si riconosca a tale provvedimento natura cautelare e, quindi, l’applicabilità ad esso del nuovo procedimento di cui
agli artt. 669 bis ss. c.p.c., ai sensi dell’art. 669 quaterdecies (79).
Si è, tuttavia, obiettato che “la disciplina particolare della legge
n. 990 dovrebbe ritenersi prevalente sulla disciplina generale posteriore del procedimento cautelare” (80).
Sennonché il giudizio di compatibilità, richiesto dalla seconda
parte dell’art. 669 quaterdecies indica che le norme dettate per singoli provvedimenti cautelari “previsti dal codice civile e dalle leggi
speciali”, sono destinate a sopravvivere solo se ed in quanto, nell’ambito della specifica materia considerata, sia possibile riconoscere loro il carattere della specialità; solo se ed in quanto, cioè, esse regolino aspetti non considerati dagli artt. da 669 bis a 669 terdecies c.p.c.
o rispondano ad esigenze specifiche della situazione sostanziale cautelanda: in questa prospettiva, è possibile, ad esempio, affermare la
sopravvivenza delle competenza del giudice delegato al fallimento a
concedere i provvedimenti cautelari previsti dagli artt. 146, co. 3°, e
151, ult. cpv., r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (81), oppure delle norme
che regolano l’esecuzione dei provvedimenti cautelari a tutela dei diritti sui beni immateriali (82).
L’art. 24 l. 24 dicembre 1969, n. 990, invece, non può essere
considerato, nella parte in cui indica il giudice competente a pronunciare il provvedimento cautelare ivi previsto, norma speciale, come tale capace di resistere alla applicazione degli artt. 669 ter e 669
quater.
Da queste disposizioni può dedursi, per un verso, il principio generale della identità del giudice della cautela con il giudice del me-
(79) Cfr., anche per indicazioni, il mio Commento all’art. 669 quaterdecies c.p.c.
“Ambito di applicazione”, in Nuove leggi civ., 1992, p. 400 ss., p. 419.
(80) Così B. CAPPONI, Commento all’art. 29 l. 21 novembre 1991, n. 374, in Il
giudice di pace, cit., p. 200.
(81) In tal senso v. Trib. Milano, 19 marzo 1993, in Foro it., 1993, I, 1682.
(82) Cfr. M. SCUFFI, La tutela cautelare speciale in materia brevettuale, in Corriere giur., 1992, 7, 812 ss.
96
rito e, per altro verso, la (pure generale) incompetenza del giudice
di pace in materia cautelare.
Pertanto, come si è rilevato, occorre prescindere, nella interpretazione della nuova disciplina, dall’inevitabile forza di inerzia delle soluzioni recepite in base a quella previgente e tentare, invece, di ricostruire
il sistema in base ai principii deducibili dalla nuova normativa.
Questa, si ripete, esclude, in generale, la competenza del giudice di pace ad emettere provvedimenti cautelari. L’interprete, quindi,
allorché constati che la scelta legislativa non pone questioni di legittimità costituzionale, non può tentare di sovvertirla, a causa di
presunti inconvenienti.
D’altro canto, quelli lamentati nelle controversie di risarcimento
danni provocati dalla circolazione dei veicoli, in riferimento alla competenza a pronunciare l’ordinanza di cui all’art. 24 l. 24 dicembre
1969, n. 990, non sono diversi da quelli che possono verificarsi nelle controversie “relative ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo
al piantamento degli alberi e delle siepi”, in quelle “relative alla misura ed alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case” o in
quelle “relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità”, per quanto riguarda la competenza in
tema di denunce di nuova opera o di danno temuto o in tema di
provvedimenti d’urgenza.
Anche in questi casi, come in ogni controversia attribuita alla
competenza del giudice di pace, in base al principio generale deducibile dagli artt. 669 ter e quater, è destinata a sopravvivere la dicotomia tra giudice della cautela e giudice del merito.
Non va, peraltro, trascurato che il giudice di pace è comunque
competente a pronunciare i provvedimenti previsti dagli artt. 186 bis
e 186 ter c.p.c. (83): nelle cause di risarcimento del danno prodotto
(83) Cfr. C. CECCHELLA, Commento all’art. 22 l. 21 novembre 1991, n. 374, in
Il giudice di pace, cit., p. 166 s.; nonché M. FABIANI, I provvedimenti a funzione prevalentemente deflattiva, in Foro it., 1993, I, 1993.
97
dalla circolazione di veicoli e di natanti, non è infrequente il caso in
cui la controversia abbia ad oggetto esclusivamente l’ammontare del
danno, perché il danneggiato non ritiene congrua la somma offertagli dall’assicuratore del danneggiante; in tale ipotesi, è, quindi, ben
possibile che l’assicuratore sia condannato a pagare immediatamente, ai sensi del menzionato art. 186 bis, la somma offerta. Né può
escludersi la possibilità che il giudice di pace pronunci sentenze di
condanna provvisionale, ai sensi dell’art. 278, co. 2°, c.p.c.
L’organizzazione degli uffici, le strutture giudiziarie e la semplicità delle forme del procedimento, infine, inducono a ritenere non
irragionevoli i tempi dei processi innanzi al giudice di pace e, quindi, ridotte le esigenze di cautela per le controversie attribuite alla
competenza di tale organo giudiziario.
Anche questa, tuttavia, è una delle scommesse sulle quali si fonda il successo della riforma, perché si tratta di verificare come l’organizzazione degli uffici, le strutture giudiziarie e la semplicità delle forme del procedimento, pur previste dalla legge, saranno concretamente attuate.
In ogni caso, il dovere dell’interprete è quello di leggere le disposizioni, secondo il significato dalle medesime deducibile e in armonia con il sistema risultante dalla nuova disciplina. E questa esclude, in generale, la competenza del giudice di pace ad emettere provvedimenti cautelari. Non appare quindi corretto tentare di sovvertire in via interpretativa tale scelta legislativa.
5.2. Le controversie attribuite alla competenza del pretore
L’art. 8, “novellato” sia dall’art. 2 l. 26 novembre 1990, n. 353,
sia dall’art. 18 l. 21 novembre 1991, n. 374, attribuisce alla competenza del pretore (a) “le cause, anche se relative a beni immobili, di
valore non superiore a lire venti milioni, in quanto non siano di competenza del giudice di pace”, nonché, indipendentemente dal valore,
(b1) le azioni possessorie e le denunce di nuova opera e di danno
temuto, salvi, rispettivamente, i disposti di cui agli artt. 704 e 668
c.p.c., e (b2) le cause di locazione, di comodato e di affitto, salva,
comunque, la competenza delle sezioni specializzate agrarie.
Come già in base alla previgente disciplina, la disposizione non
esaurisce l’ambito di competenza dell’organo monocratico: infatti, vanno aggiunte, innanzi tutto, le controversie di lavoro subordinato e pa98
rasubordinato, ai sensi dell’art. 409, nn. 1, 3, 4 e 5 c.p.c. e quelle previdenziali, ai sensi dell’art. 442 c.p.c., nonché numerose altre ipotesi
riconducibili essenzialmente a due tendenze legislative: la prima, più
risalente, attribuiva al pretore, che aveva allora uno status diverso dagli altri magistrati togati, controversie considerate socialmente meno
importanti; la seconda, affermatasi soprattutto a cavallo degli anni ‘60
e ‘70, tendeva, invece, ad allargare la competenza del pretore, nella
prospettiva della istituzione di un unico giudice di primo grado (84).
Con la istituzione delle preture circondariali e la trasformazione dei tribunali in organi (generalmente) monocratici, tale prospettiva appare oggi meno lontana, ma la sua realizzazione dipende, ancora una volta, da come sarà attuata la riforma in esame e, in particolare, dal modo in cui sarà vissuta la contraddizione della coesistenza di due organi giudiziari monocratici con la medesima competenza territoriale.
Con specifico riferimento alle previsioni di cui all’art. 8 c.p.c., il
testo “novellato” ripristina, nel primo capoverso, l’inciso “salva la
competenza ...”, soppresso dalla legge n. 399 del 1984: la mancanza
di esso, previsto nel testo del 1940, avrebbe potuto giustificare l’affermazione di una competenza alternativa (85).
A) Il n. 1 del secondo comma ha posto difficili questioni di coordinamento (86).
Nella ripetuta consapevolezza della obiettiva opinabilità di ciascuna soluzione, appare ragionevole ritenere che la portata precettiva della disposizione non sia innovativa rispetto alla situazione precedente, anche in riferimento a quanto stabilito dagli artt. 669 bis ss.:
- il pretore, cioè, resta competente per le azioni possessorie, vuoi
in relazione alla pronuncia dei provvedimenti anticipatori, vuoi in
relazione al merito;
(84) Cfr. il mio I nuovi criterii di competenza civile, cit.
(85) Cfr. ancora il mio I nuovi criterii di competenza civile, cit.
(86) Anche per indicazioni sul dibattito già sviluppatosi sull’argomento, v. A.
PROTO PISANI, Diritto sostanziale e processo nelle ragioni di Corte cost. 3 febbraio
1992, n. 25 e nelle possibili ricadute sul processo possessorio della applicazione degli
artt. 669 bis e seguenti c.p.c., in nota a Trib. Verona, 16 febbraio 1993, Pret. Taranto,
16 aprile 1993, e Pret. L’Aquila, 26 febbraio 1993, in Foro it., 1993, I, 2011.
99
- per le denunce di nuova opera e di danno temuto, invece, la
competenza del pretore è limitata alla pronuncia dei provvedimenti
cautelari previsti dagli artt. 1171 e 1172 c.c., mentre la cognizione del
merito è attribuita al giudice competente per materia o per valore;
- la competenza del pretore è esclusa nel caso in cui l’azione di
reintegra ex art. 1168 c.c. o di manutenzione ex art. 1170 c.c. o le
azioni enunciative ex artt. 1171 s. c.c. siano esercitate nel corso del
giudizio petitorio, pendente innanzi a un diverso organo giudiziario;
- ai sensi degli artt. 669 ter, co. 3°, e 669 quater, co. 3°, peraltro,
la competenza del pretore sussiste anche in tale ultima ipotesi, allorché il giudizio di merito penda innanzi al giudice di pace, comunque incompetente in materia cautelare e, grazie al rinvio contenuto nell’art. 703, co. 2°, c.p.c., anche in materia possessoria (87).
Il caso più controverso è evidentemente il primo, in riferimento
al quale è stata recentemente ricordata un’autorevole e risalente interpretazione, peraltro non condivisa dalla giurisprudenza (88): si era
sostenuto che il procedimento possessorio si esaurisse nella pronuncia
dei provvedimenti a cognizione sommaria; che, cioè, il procedimento potesse concludersi con ordinanza e non dovesse proseguire fino
alla sentenza.
In riferimento alla nuova disciplina del procedimento cautelare,
la tesi può trovare un nuovo fondamento.
La regola generale della identità tra giudice della cautela e giudice del merito, espressa dagli artt. 669 ter e quater, infatti, non trova eccezione soltanto per le denunce di nuova opera e di danno temuto. Prescindendo dai casi espressamente previsti dalle disposizioni appena richiamate, nonché dagli artt. 669 quinquies e 818 c.p.c.
(89), la dicotomia tra giudice della cautela e giudice del merito è destinata a sopravvivere sia in materia fallimentare, ai sensi degli artt.
(87) Cfr. soprattutto, F.P. LUISO, C. CONSOLO, B. SASSANI, La riforma del processo civile, cit., p. 14; M. ACONE, Commento all’art. 4 l. 26 novembre 1990, n. 353,
in Nuove leggi civ., 1992, p. 11.
(88) V. ancora A. PROTO PISANI, op. loc. ult. cit.
(89) Cioé (a) quello in cui la cognizione del merito sia attribuita alla cognizione del giudice di pace, (b) di arbitri (rituali), (c) di un giudice straniero e (d) quello
in cui il provvedimento cautelare sia chiesto in pendenza dei termini per le impugnazioni.
100
146, co. 3°, e 151, ult. cpv., r.d. 16 marzo 1942, n. 267, sia, con specifico riferimento alla competenza pretorile, nei casi previsti dagli
artt. 915, co. 1°, c.c., 8, co. 5°, l. 8 febbraio 1948, n. 47 (come novellato dall’art. 42, l. 5 agosto 1981, n. 416, ed esteso agli esercenti
imprese radiotelevisive dall’art. 10, l. 6 agosto 1990, n. 223): queste
disposizioni espressamente prevedono che i provvedimenti siano emanati dal “pretore”. Il che è coerente con quanto previsto dall’abrogato art. 702, non anche con quanto stabilito dall’art. 669 ter, co. 1°.
Anche gli artt. 915, co. 1°, c.c., 8, co. 5°, l. 8 febbraio 1948, n.
47, pertanto, in quanto compatibili con gli artt. 669 bis ss. c.p.c., ai
sensi dell’art. 669 quaterdecies, sono destinati ad integrare la previsione dell’art. 8, co. 2°, n.1: il pretore conserva integra la propria
competenza in materia possessoria e per la pronuncia dei provvedimenti cautelari di denuncia di nuova opera e di danno temuto, ai
sensi degli artt. 1171 e 1172 c.c., per la riparazione di sponde ed argini, ai sensi dell’art. 915 c.c., e per la “rettifica” ai sensi dell’art. 8,
co. 5°, l. 8 febbraio 1948, n. 47 (come novellato dall’art. 42, l. 5 agosto 1981, n. 416, ed esteso agli esercenti imprese radiotelevisive
dall’art. 10, l. 6 agosto 1990, n. 223).
In tali ultime ipotesi, in deroga al principio generale di cui all’art.
669 ter e in considerazione delle specifiche esigenze della situazione
sostanziale cautelanda, è conservata la dicotomia tra giudice della
cautela e giudice del merito.
B) Il n. 3, infine, attribuisce alla competenza ratione materiae del
pretore le controversie “di locazione, di comodato e di affitto”. La
disposizione va coordinata con gli artt. 447 bis, ai sensi del quale tali controversie sono regolate dal rito speciale di cui agli artt. 413 ss.,
e con l’art. 667, ai sensi del quale, esaurita la fase sommaria del procedimento per convalida di licenza o di sfratto, il processo prosegue
innanzi al pretore nelle forme del rito speciale.
In base al comminato disposto di tali articoli, viene meno il groviglio di competenza e di rito creato dal legislatore del 1978 (90).
(90) Cfr., da ultimo, A. PROTO PISANI, Rapporti tra competenza, rito e merito
nella legge n. 392 del 1978 (nel rito speciale del lavoro), in Foro it., 1981, V, 185 ss., e
in Nuovi studi di diritto processuale del lavoro, Milano, 1992, p. 261 ss.
101
Assume, inoltre e finalmente, rilevanza l’espressione “controversie in materia di locazione” (nonché di comodato e di affitto), che,
fino ad oggi, al cospetto dell’irragionevole frazionamento dei criterii
di competenza e di rito non ne aveva alcuna (91).
6. I rapporti tra magistrati addetti al medesimo ufficio
La trasformazione (per effetto della l. 1° febbraio 1989, n. 30)
della pretura in un unico ufficio diffuso su tutto il territorio del circondario e del tribunale (per effetto della modificazione dell’art. 48
r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 sull’ordinamento giudiziario) in organo
giudiziario con struttura ambivalente possono essere considerate nella prospettiva prima indicata, della semplificazione di ogni questione inerente l’individuazione del giudice (92).
(91) V. la mia voce Controversie in materia di locazione di immobili urbani, in
Noviss. Dig. it. Appendice, II, Torino, 1981, c. 728 ss.; nonché La riforma delle locazioni commerciali. Profili processuali, in Foro it., 1986, V, 105 ss. Sulle questioni di rito, cfr. il mio Commento all’art. 70 l. 26 novembre 1990, n. 353, (art. 447 bis “Norme
applicabili alle controversie in materia di locazione, di comandato e di affitto”), in
Nuove leggi civ., 1992, p. 286 s.
(92) Cfr. sopra, in questo capitolo. In senso critico, per il modo surrettizio con
il quale tale semplificazione è stata realizzata, ma senza tener conto delle difficoltà
di una revisione dell’organizzazione giudiziaria, v. R. VACCARELLA, Le linee generali del nuovo processo civile: a proposito dei “provvedimenti urgenti” approvati dal Senato, in Documenti giustizia, 1990, 4, 11 ss.
Per indicazioni, sulla trasformazione del tribunale, v., da ultimi, G. TRISORIO
LIUZZI, Commento agli artt. 31 e 88 l. 26 novembre 1990, n. 353, in Nuove leggi civ.,
1992, p. 142 ss. e p. 443 ss.; e P.L. NELA, Commento agli artt. 31 e 88 l. 26 novembre 1990, n. 353, in Le riforme del processo civile, cit. p. 321 ss. e p. 846 ss.
Nel corso dei lavori preparatori, la modificazione della struttura del tribunale era
stata auspicata più che in riferimento ai problemi posti dalla collegialità (P.L. NELA,
op. cit., p. 847, in nota), a quelli relativi alla dicotomia istruttore - collegio: cfr. il mio
Appunti sulle proposte di riforma urgente del processo civile, in Documenti giustizia, 1988,
n. 10, p. 7 ss.: “la dicotomia istruttore - collegio, infine, mal si concilia con un modello processuale che prevede l’operatività delle preclusioni a conclusione di un’articolata
fase preparatoria: l’impegno del giudice in questa fase, infatti, è anche funzionale ad
una economia di lavoro in sede di decisione. Ma, se la decisione è resa dal collegio e a
grande distanza di tempo, può diventare comprensibile un disimpegno del giudice nella fase preparatoria”. Sulla dicotomia istruttore - collegio, v. ora F. CIPRIANI, Alle origini del codice di procedura civile, Napoli, 1992, spec. cap. III.
102
Al cospetto di giudici professionali, che “si distinguono soltanto
per diversità di funzioni”, ai sensi dell’art. 107 Cost., infatti, l’importanza attribuita alle questioni di competenza si manifesta prevalentemente come un retaggio storico dell’epoca delle giurisdizioni
personali, ma è priva di obiettive basi razionali.
Tanto nell’una, quanto nell’altra delle ipotesi considerate, l’unicità dell’ufficio giudiziario esclude che i problemi di attribuzione degli “affari” ai magistrati addetti ai medesimi diano luogo a questioni di competenza: in questo senso, per le preture circondariali, in
base all’art. 1, co. 2°, d.l. 15 maggio 1989, n. 173, convertito nella l.
11 luglio 1989, n. 251 (93), all’esito di un serrato ed ampio dibattito, si è già espressa la corte di cassazione (94); e pure in questo senso è l’art. 274 bis, co. 4°, introdotto dall’art. 31 l. 26 novembre 1990,
n. 353, ai sensi del quale “alla nullità derivante dalla inosservanza
delle disposizioni di legge relative alla composizione del tribunale
giudicante si applicano gli artt. 158 e 161, co. 1°”.
Tanto nell’una, quanto nell’altra ipotesi, la soluzione accolta non appare destinata a sollevare questioni di legittimità costituzionale, in riferimento al principio del giudice naturale ex art. 25 Cost.: l’espressione
“giudice precostituito per legge”, infatti, va riferita all’ufficio giudiziario,
non al singolo magistrato incaricato della trattazione della causa (95).
(93) “La violazione dei criterii di cui al comma 1°, nonché di quelli indicati nella tabella di composizione degli uffici, è rilevata, anche d’ufficio, non oltre la prima
udienza (..). Il pretore decide immediatamente con ordinanza”.
(94) V. Cass. 14 agosto 1993, n. 397, in Foro it., 1993, I, ...; Pret. Bari, 22 giugno
1992, id., 1993, I, 307; Cass. 22 agosto 1991, n. 8983, id., 1991, I, 3343, cit. Anche per indicazioni sull’ampio dibattito che ha preceduto tale pronuncia, v. N. RASCIO, In tema di
competenza terrritoriale sull’opposizione ad ordinanza - ingiunzione e di rapporti tra pretura circondariale e sezioni distaccate, ibid., I, 3254; e, soprattutto, B. CAPPONI, Appunti su
incompetenza e vizi di costituzione del giudice nel nuovo processo civile, in Documenti giustizia, 1991, 11, 109 ss.; v. anche per ulteriori indicazioni, in senso critico nei confronti
della soluzione legislativa condivisa dalla giurisprudenza, G. RANA, Pretura: direzione, organizzazione e garanzie della giurisdizione, in Documenti giustizia, 1993, 4, 607 ss.
(95) Cfr. tra le ultime, Cass., 5 novembre 1987, Adamoli, in Foro it., Rep. 1988,
voce Corte d’assise, n. Cass., 10 aprile 1985, Sibilia, id., Rep. 1986, voce Competenza
penale, n. 15; Cass., 22 novembre 1983, De Rose, id., Rep. 1985, voce Ordinamento giudiziario, n. 109; nonché, con specifico riferimento alla irrilevanza del principio costituzionale nei rapporti tra sede principale e sede distaccata della pretura, Cass., 26 marzo 1983, n. 2115, id., Rep. 1983, voce Competenza civile, n. 171, secondo la quale “La
sede distaccata di una pretura non è un ufficio giudiziario autonomo, distinto da quello della sede del capoluogo e dotato di una propria competenza territoriale; (segue)
103
Ne consegue che le questioni relative alla applicazione degli artt.
2 e 5 l. 1° febbraio 1989, n. 30, e 1 d.l. 15 maggio 1989, n. 173, convertito nella l. 11 luglio 1989, n. 251, e, rispettivamente, 48 r.d. 30
gennaio 1941, n. 12, sull’ordinamento giudiziario, e 274 bis c.p.c.,
quale “novellato” dall’art. 31 l. 26 novembre 1990, n. 353, non possono essere poste a fondamento di un’eccezione di “incompetenza”,
non sono destinate ad essere decise con un provvedimento che abbia forma o sostanza di sentenza e non possono essere dedotte con
regolamento, necessario o facoltativo, di competenza. Tali questioni,
invece, vanno decise con un provvedimento meramente ordinatorio,
destinato ad essere assorbito nella decisione di merito; esse, pertanto, potranno essere dedotte soltanto con l’appello o con il ricorso ordinario per cassazione dalla parte soccombente nel merito; il giudice dell’impugnazione, constatata la violazione delle disposizioni prima richiamate da parte del giudice di primo grado, non essendo né
l’una, né l’altra ipotesi compresa tra quelle di rimessione della causa al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354 c.p.c., dovrà decidere la causa nel merito (96).
Tanto nell’una, quanto nell’altra ipotesi, si tratta di problemi interni all’ufficio giudiziario.
Le affinità, tuttavia, si arrestano qui.
Infatti, mentre per quanto riguarda i rapporti tra le diverse sezioni della pretura, il problema investe vuoi la trattazione, vuoi la
decisione della controversia, per quanto riguarda i rapporti tra giudice unico e collegio del tribunale, la questione assume rilevanza
esclusivamente in sede di precisazione delle conclusioni e, quindi, in
sede di decisione.
(segue (95)) pertanto, la ripartizione dei compiti fra capoluogo e sede distaccata (al
pari della distribuzione del lavoro fra sezioni o magistrati dello stesso ufficio) non attiene alla competenza in senso tecnico (...) né la trattazione di una causa da parte del
magistrato del capoluogo, anziché da parte del magistrato addetto alla sede distaccata comporta un distoglimento dal giudice naturale precostituito per legge, giacché
l’espressione “giudice naturale” si riferisce al singolo ufficio giudiziario e non alle persone fisiche che vi sono addette”.
(96) Cfr., soprattutto, B. CAPPONI, op. ult. cit.; al quale, adde, anche per ulteriori indicazioni, G. TRISORIO LIUZZI e P.L. NELA, opp. locc. citt.
104
Il richiamo, inoltre, alla disciplina sui vizi di costituzione del
giudice di cui agli artt. 158 e 161, co. 1°, c.p.c., si manifesta pertinente soltanto per i rapporti tra giudice unico e collegio, per i quali, peraltro, è espressamente contenuto nell’art. 274 bis c.p.c. (97): la
violazione degli artt. 2 e 5 l. 1° febbraio 1989, n. 30, e 1 d.l. 15 maggio 1989, n. 173, convertito nella l. 11 luglio 1989, n. 251, non incide sulla “costituzione” dell’organo giudicante, ma implica soltanto
una violazione tabellare.
Mentre, infine, l’art. 274 bis c.p.c. specifica il contenuto del provvedimento con il quale il giudice unico o il collegio si spogliano della controversia (98), l’art. 1, co. 2°, d.l. 15 maggio 1989, n. 173, convertito nella l. 11 luglio 1989, n. 251, si limita ad attribuire al pretore il potere di rilevare con ordinanza, anche d’ufficio e non oltre
la prima udienza, la violazione dei criterii tabellari, ma non indica
le conseguenze del rilievo.
Posta, quindi, in evidenza la ratio comune ad entrambe le discipline e l’affinità delle conseguenze della rispettiva violazione, è opportuno esaminarle partitamente.
6.1. - I rapporti tra le sezioni della pretura
Per quanto riguarda le preture circondariali, ai sensi dell’art. 1,
co. 1°, d.l. 15 maggio 1989, n. 173, convertito nella l. 11 luglio 1989,
n. 251, “(...) nelle sezioni distaccate presso le quali è istituito l’ufficio di cancelleria sono trattati gli affari civili e gli affari penali che
a norma del c.p.c. e delle altre leggi vigenti e del c.p.p. rientrano nel
territorio delle sezioni” (99).
(97) Cfr. A. PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., p. 439.
(98) “Il collegio, quando rileva che una causa, rimessa davanti a lui per la decisione, deve essere decisa dal giudice istruttore in funzione di giudice unico, rimette
la causa dinanzi a quest’ultimo con ordinanza non impugnabile. Il giudice istruttore
provvede ai sensi dell’articolo 190 bis.
Il giudice istruttore, quando rileva che una causa, riservata per la decisione davanti a sé in funzione di giudice unico, deve essere rimessa al collegio, provvede ai
sensi degli articoli 187, 188 e 189. (...)”.
(99) L’individuazione degli ex mandamenti nei quali è conservato l’ufficio di cancelleria è compiuta biennalmente con norma di produzione secondaria.
105
L’unificazione dell’ufficio implica, tra l’altro, che siano unici i registri di cancelleria di cui all’art. 29 disp. att. c.p.c.
La parte che si costituisce per prima, pertanto, dovrebbe farlo
nella cancelleria centrale, chiedendo al cancelliere di questa l’iscrizione a ruolo e, provocando così l’assegnazione della causa alla sezione e al magistrato incaricato dell’affare: ai sensi degli artt. 168 e
168 bis c.p.c., nei processi che iniziano con citazione, ai sensi dell’art.
166 c.p.c., l’attore dovrebbe depositare nella cancelleria centrale della pretura, entro dieci giorni dalla notificazione della citazione, la
nota di iscrizione e il proprio fascicolo, affinché la causa sia iscritta nel ruolo generale e designati la sezione e il magistrato; ai sensi
degli artt. 415, 638, 669 ter c.p.c. e delle altre corrispondenti disposizioni, nei processi che iniziano con ricorso, il ricorrente dovrebbe depositare nella cancelleria centrale l’atto introduttivo, affinché, ugualmente, siano designati la sezione e il magistrato; nei
processi esecutivi, l’ufficiale giudiziario dovrebbe depositare nella
cancelleria centrale gli atti di cui agli artt. 518 e 543 c.p.c., affinché il cancelliere provveda agli adempimenti previsti dagli artt. 484
e 488 c.p.c.
Ma la prassi, com’è noto, non è in questo senso. Alla previsione
di un unico registro di cancelleria ex art. 29 disp. att. c.p.c. si è reagito attribuendo una numerazione per saltum agli affari attribuiti a
ciascuna sezione, presso la quale é conservato un autonomo registro:
la numerazione di quelli delle sezioni distaccate non parte dal numero uno, ma da un numero successivo, cosicché ciascuna sezione
distaccata continua, da questo punto di vista, ad operare come le ex
preture mandamentali.
Il che, in mancanza della pur prevista informatizzazione degli
uffici, non costituisce un grave problema; anche in tribunale, le norme sulla designazione della sezione e del magistrato hanno subìto
una semplificazione dalla prassi: le istanze di fallimento, i ricorsi per
la separazione dei coniugi o per lo scioglimento del matrimonio o i
verbali di pignoramento ex art. 557 c.p.c., ad esempio, non sono solitamente depositati nella cancelleria centrale dell’ufficio, ma in quella della sezione tabellarmente incaricata di tali “affari”. In questi casi, è considerato implicito il provvedimento del presidente del tribunale di assegnazione dell’“affare” alla sezione.
In pretura, la questione acquista rilevanza, perché l’ufficio è diffuso sul territorio, cosicché l’errore nella individuazione della sezio106
ne e del magistrato non implica soltanto il trasferimento dell’“affare” da una stanza all’altra del medesimo edificio.
Ma ciò non toglie che la questione sia formalmente identica: la
facoltà concessa alle parti di chiedere direttamente al cancelliere della sezione (del tribunale o della pretura) l’iscrizione della causa a
ruolo, depositando innanzi a questo l’atto di citazione già notificato
o il ricorso, presuppone comunque un provvedimento di assegnazione del capo dell’ufficio (presidente del tribunale o pretore dirigente).
Ne consegue che l’eventuale errore nella individuazione della sezione e, quindi, del magistrato, tempestivamente rilevato ai sensi
dell’art. 1, co. 2°, d.l. 15 maggio 1989, n. 173, convertito nella l. 11
luglio 1989, n. 251, non consente il diretto trasferimento dell’“affare” alla sezione e al magistrato ai quali competono, ma implica la
trasmissione del fascicolo al capo dell’ufficio, affinché provveda, questa volta esplicitamente, ad una nuova assegnazione (100).
La necessità della trasmissione degli atti al capo dell’ufficio, affinché questi provveda ad una nuova assegnazione può trovare, seppure indirettamente, un fondamento positivo negli artt. 273, co. 2°,
e 247 co. 2°, c.p.c., ai sensi dei quali, allorché, per la stessa causa o
per cause connesse pendano innanzi al medesimo ufficio, ma innanzi
a giudici diversi, distinti procedimenti, il capo dell’ufficio provvede
ad una nuova assegnazione: le disposizioni appena richiamate confermano che lo spostamento della causa da una sezione all’altra del
medesimo ufficio non può essere disposto dal magistrato incaricato
dell’affare, ma presuppone comunque un provvedimento di assegnazione del dirigente.
Il pretore, pertanto, con l’ordinanza con la quale rileva la violazione dei criterii indicati dall’art. 1, co.1°, d.l. 15 maggio 1989, n.
173, convertito nella l. 11 luglio 1989, n. 251, nonché di quelli indicati nella tabella di composizione degli uffici, è tenuto a trasmettere gli atti al capo dell’ufficio, affinché provveda ad una nuova assegnazione.
(100) In questo senso, Pret. Monza, 15 marzo 1991, in Foro it., 1991, I, 2250;
nonché Pret. Bari, 14 giugno 1992, id., 1993, I, 307.
107
Il secondo capoverso della disposizione appena richiamata preclude l’eccezione di parte o il rilievo d’ufficio “oltre la prima udienza” e stabilisce che la questione sia risolta immediatamente. Non può
escludersi, tuttavia, né la possibilità che il giudice si riservi, ai sensi dell’art. 186 c.p.c., né che conceda termine alle parti per il deposito di memorie, né che “assuma informazioni”.
Una ragionevole interpretazione della disposizione, infatti, induce a ritenere, anche in sintonia con il “novellato” art. 38 c.p.c., definitivamente preclusa ogni questione relativa alla individuazione della sezione della pretura “oltre la prima udienza”; induce altresì ad
affermare che ogni questione relativa ai rapporti interni all’ufficio
debba essere risolta con un provvedimento meramente ordinatorio,
destinato ad essere assorbito nella decisione di merito e non autonomamente impugnabile.
Ma, appunto in riferimento a quanto stabilito dal “novellato” art.
38 c.p.c. per le questioni di competenza, non appare ragionevole negare la possibilità della riserva ex art. 186 c.p.c., ovvero quella della
concessione di un termine per il deposito di memorie, ovvero ancora quella di “assumere informazioni”.
La portata precettiva dell’avverbio immediatamente può essere
ragionevolmente intesa nel senso che ogni questione relativa alla violazione dei criterii indicati dall’art. 1, co. 1°, d.l. 15 maggio 1989, n.
173, convertito nella l. 11 luglio 1989, n. 251, nonché di quelli indicati nella tabella di composizione degli uffici, debba essere risolta
non solo separatamente e prima della decisione di merito, ma, soprattutto, prima della trattazione di esso. Tali questioni pregiudiziali di rito sfuggono all’applicazione dell’art. 187, co. 3° (applicabile
anche innanzi al pretore grazie al rinvio contenuto nell’art. 311 c.p.c.):
il pretore non può risolverle unitamente al merito, ma è tenuto a risolverle, con un provvedimento meramente ordinatorio, prima di procedere alla trattazione.
Il che può contribuire a indicare una soluzione per i casi in cui
la violazione tabellare sia eccepita o rilevata nell’ambito di procedimenti a cognizione sommaria: ad esempio, in quelli cautelari, nel procedimento per ingiunzione ex artt. 633 ss. c.p.c., nel procedimento
per convalida di licenza o di sfratto, ex artt. 657 ss. c.p.c., nel procedimento per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 l.
20 maggio 1970, n. 300, o in quello per la repressione dei comportamenti discriminatori tra i sessi ex art. 15 l. 15 dicembre 1977, n. 903.
108
La riconosciuta necessità che la questione sia risolta prima della trattazione del merito consente di affermare che il pretore, che ritenga di non essere il magistrato incaricato dell’affare, non abbia il
potere o la facoltà di rigettare il ricorso cautelare o quello per decreto ingiuntivo o quello ex art. 28 l. 20 maggio 1970, n. 300, ma, ai
sensi dell’art. 1, co. 2°, d.l. 15 maggio 1989, n. 173, convertito nella
l. 11 luglio 1989, n. 251, debba limitarsi a trasmettere il fascicolo al
pretore dirigente, affinché provveda ad una nuova, esplicita assegnazione della causa.
Il che non esclude che, nella realtà delle sezioni distaccate, al fine di accelerare i tempi, la cancelleria inviti il ricorrente a ritirare il
ricorso e a ripresentarlo alla sezione tabellarmente competente, mentre la trasmissione degli atti al dirigente sia disposta soltanto in caso di rifiuto.
Nei casi, invece, in cui sia eccepita o rilevata nell’ambito di processi a cognizione piena dopo la pronuncia di provvedimenti a cognizione sommaria, occorre distinguere le ipotesi in cui la questione deve ritenersi definitivamente preclusa da quelli in cui possa essere legittimamente sollevata.
Nel giudizio di opposizione al decreto di repressione della condotta antisindacale e nella fase di merito successiva al procedimento
per convalida, infatti, la questione tabellare deve ritenersi ormai preclusa, perché le parti sono già comparse all’udienza: l’udienza successiva alla pronuncia dell’ordinanza ex art. 667 c.p.c. e la prima udienza del giudizio di opposizione non sono la prima udienza, nella quale, a pena di decadenza, la violazione tabellare va eccepita o rilevata.
La prima udienza del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo o del giudizio di merito successivo alla pronuncia di un provvedimento cautelare ante causam, invece, è l’occasione utile per eccepire o rilevare la violazione dei criterii di cui all’art. 1, co. 2°, d.l.
15 maggio 1989, n. 173, convertito nella l. 11 luglio 1989, n. 251.
Sennonché la riconosciuta necessità che la questione sia risolta
prima della trattazione del merito consente di affermare che il pretore, che ritenga di non essere il magistrato incaricato dell’affare, non
abbia il potere di modificare o di revocare il decreto opposto o il
provvedimento cautelare, ma debba limitarsi, anche in questo caso,
a trasmettere gli atti al dirigente.
In riferimento ai rapporti tra le diverse sezioni della pretura, che
- si ripete ancora - non danno luogo a questioni di competenza, inol109
tre, non riesce applicabile l’art. 645 c.p.c.: anche qualora l’opposizione sia proposta a una sezione diversa da quella alla quale appartiene il magistrato che ha emesso il decreto, si tratta comunque di
magistrati addetti al medesimo ufficio giudiziario. Non può neppure escludersi che sia tabellarmente previsto che l’opposizione sia assegnata ad un magistrato diverso da quello che ha emesso il decreto. E analoghe considerazioni potrebbero ripetersi per il caso in cui
il giudizio di merito sia instaurato innanzi a una sezione della pretura diversa da quella alla quale è assegnato il magistrato che ha
concesso il provvedimento ante causam.
Tanto nei processi ordinari, quanto in quelli speciali, tanto nei
processi a cognizione piena, quanto in quelli sommari, la regola
espressa dall’art. 1, co. 2°, d.l. 15 maggio 1989, n. 173, convertito
nella l. 11 luglio 1989, n. 251, non trova eccezioni: in ogni caso il
pretore che ritenga di non essere il magistrato incaricato dell’affare
deve limitarsi a trasmettere gli atti al dirigente per una nuova assegnazione.
Vuoi l’ordinanza con la quale il pretore rigetta l’eccezione, vuoi
quella del capo dell’ufficio che designa un diverso magistrato, infine, non sono autonomamente impugnabili.
La questione, tuttavia, può essere dedotta con l’appello avverso la decisione di merito dalla parte soccombente, ma il tribunale
constatata l’eventuale violazione delle disposizioni prima richiamate da parte del giudice di primo grado, dovrà decidere la causa nel
merito.
6.2. Segue. I rapporti tra giudice unico e collegio in tribunale
Per quanto riguarda il tribunale, l’art. 48 r.d. 30 gennaio 1941,
n. 12, sull’ordinamento giudiziario, prevede la decisione collegiale “1) nei giudizi di appello; 2) nei giudizi nei quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero; 3) nei giudizi devoluti alle
sezioni specializzate; 4) nei procedimenti in camera di consiglio;
5) nei giudizi di opposizione, impugnazione, revocazione e in quelli conseguenti a dichiarazioni tardive di crediti di cui al r.d. 16
marzo 1942, n. 267, al d.l. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito, con
modificazioni, dalla l. 3 aprile 1979, n. 95, e alle altre leggi speciali disciplinanti la liquidazione coatta amministrativa; 6) nei giudizi di omologazione del concordato fallimentare e del concorda110
to preventivo; 7) nei giudizi di responsabilità da chiunque promossi contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori
generali e i liquidatori e ogni altra controversia avente per oggetto rapporti sociali nelle società, nelle mutue assicuratrici e società
cooperative, nelle associazioni in partecipazione e nei consorzi; 8)
nei giudizi di cui agli artt. 784 e seguenti del c.p.c.; 9) nei giudizi di cui alla l. 13 aprile 1988, n. 117”.
Sennonché la questione dei rapporti tra giudice unico e collegio si pone in alcune soltanto di tali ipotesi.
Nei giudizi di appello, in quelli devoluti alle sezioni specializzate, nei procedimenti in camera di consiglio ed in quelli riservati alla decisione collegiale ma regolati dal rito speciale di cui agli artt.
413 ss. c.p.c. non esiste la figura del giudice istruttore. In tutte queste ipotesi è prevista non solo la decisione, ma anche la trattazione
collegiale, cosicché il problema esula dall’art. 274 bis e riguarda, invece, il rito applicabile.
Nei giudizi di appello regolati dal rito ordinario, non dovrebbe
essere proprio possibile che la controversia arrivi innanzi al giudice
singolo, perché, con l’iscrizione della causa a ruolo, in parziale deroga agli artt. 168 e 168 bis c.p.c., designata la sezione dal presidente
del tribunale, il presidente di questa deve fissare direttamente l’udienza collegiale di cui all’art. 350 c.p.c., quale “novellato” dall’art. 38 l.
26 novembre 1990, n. 353. L’eventuale errore del presidente del tribunale o del presidente della sezione, che designino anche il giudice istruttore, comporta che questi rimetta immediatamente il fascicolo, affinché l’abnorme provvedimento sia revocato.
Qualora, poi, una controversia regolata dal rito speciale ex artt.
413 ss. c.p.c. sia instaurata innanzi al tribunale nelle forme del rito
ordinario, il giudice istruttore dovrà provvedere ai sensi dell’art. 426
c.p.c.
Ugualmente, pur in mancanza di una corrispondente disciplina,
qualora una controversia da trattarsi in camera di consiglio sia instaurata nelle forme del rito ordinario, il giudice istruttore, indipendentemente dall’art. 274 bis, inapplicabile alla fattispecie, dovrà disporre il mutamento di rito.
Tanto nell’una, quanto nell’altra ipotesi, peraltro, il mutamento
di rito comporta anche la trasmissione della causa al presidente affinché provveda, in osservanza alle regole tabellari, a fissare direttamente l’udienza collegiale.
111
Per le controversie, infine, attribuite alle sezioni specializzate
(101), la questione riguarda addirittura la competenza del tribunale.
Questo, in tal caso, dovrà spogliarsi della causa con una sentenza
declinatoria di competenza, ai sensi dell’art. 279, co. 2°, n.1.
Appare, tuttavia, legittimo chiedersi se tale sentenza debba essere pronunciata dal giudice istruttore in funzione di giudice singolo oppure dal collegio.
Milita in favore della prima soluzione il rilievo per il quale, ai
sensi dell’art. 48 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, “novellato” dall’art. 88
l. 26 novembre 1990, n. 353, la regola generale è la struttura monocratica del tribunale e, quindi, salvo le eccezioni specificatamente
previste, da interpretare comunque restrittivamente, la decisione deve essere resa dal giudice singolo e non dal collegio. La riserva di
collegialità prevista dal n. 3 della disposizione, inoltre, opera in riferimento ai collegi integrati dagli “esperti” e non in relazione al tribunale in composizione ordinaria; in terzo luogo, la portata precettiva della disposizione opera in relazione al merito delle controversie attribuite alla competenza delle sezioni specializzate.
La questione peraltro si manifesta priva di conseguenze: qualora, infatti, la sentenza declinatoria di competenza (pronunciata dal
giudice singolo o dal collegio) sia impugnata, ai sensi dell’art. 42
c.p.c., con regolamento di competenza, l’eventuale vizio di costituzione del giudice ex artt. 158, 161, co. 1°, e 274 bis, co. 1° e 2°, non
impedisce alla corte di cassazione di affrontare la questione di competenza; qualora, invece, la sentenza non sia impugnata e passi in
giudicato, la formazione del giudicato interno, ai sensi degli artt. 161,
co.1°, e 274 bis, co. 4°, preclude definitivamente tanto l’eccezione,
quanto il rilievo d’ufficio.
(101) Cioé alle sezioni specializzate agrarie ex artt. 409, n. 2, c.p.c., 9 l. 14 febbraio 1990, n. 29, 47 l. 3 maggio 1982, n. 203, e 26 l. 11 febbraio 1971, n. 11, al tribunale per i minorenni ex art. 38 disp. att. c.c., ai collegi integrati dai rappresentanti degli ordini professionali per l’impugnazione delle deliberazioni di questi ultimi: nel
senso, infatti, che “i collegi integrati competenti a prununciarsi sui ricorsi avverso le
decisioni dell’ordine professionale hanno natura non già di “giudici speciali”, bensì di
“sezioni specializzate””, v. Corte cost., 18 luglio 1989, n. 424, in Giur. cost., 1989, I,
1972; in riferimento alla impugnazione delle deliberazioni dell’ordine dei giornalisti,
v., da ultima, Trib. Bari, 3 aprile 1992, in Foro it., 1992, I, 1554.
112
In ogni caso, occorre ribadire che anche l’ipotesi prevista dal
n. 3 dell’art. 48 o.g. esula dall’ambito di applicazione dell’art. 274
bis.
La questione dei rapporti tra giudice unico e collegio, ai sensi
dell’art. 274 bis, si pone, invece, soltanto nei casi in cui, non solo
operi la riserva di collegialità, ma sia anche prevista l’applicazione
del rito ordinario di cui agli artt. 163 ss. c.p.c. e la figura del giudice istruttore.
In questi casi (che, si ripete, coincidono solo in parte con quelli in cui è prevista la riserva di collegialità), la questione è destinata ad emergere all’udienza di precisazione delle conclusioni, allorché
il giudice istruttore decida di riservarsi per la decisione in funzione
di giudice unico o di rimettere la causa al collegio.
Introitata la causa per la decisione, il collegio o il giudice unico, ai sensi dei primi due capoversi dell’art. 274 bis, se rilevano che
la causa deve, invece, essere decisa, rispettivamente, dal giudice unico o dal collegio, devono fissare una nuova udienza di precisazione
delle conclusioni.
L’art. 274 bis, co. 1° e 2° implica, dunque, che il provvedimento
con il quale il giudice istruttore si riserva per la decisione o rimette
la causa al collegio possa essere modificato vuoi dallo stesso giudice istruttore, in funzione di giudice unico, vuoi dal collegio: la rimessione della causa in trattazione sopravviene, infatti, quando, una
prima deliberazione delle questioni poste dall’art. 48 o.g. è stata già
compiuta all’udienza di precisazione delle conclusioni.
La norma consente, dunque, al giudice istruttore, assunte le funzioni di giudice unico, di mutare opinione ed al collegio di manifestare un’opinione diversa da quella espressa all’udienza dal suo componente.
La ratio della necessità della fissazione di una nuova udienza di
precisazione delle conclusioni può cogliersi in riferimento all’esigenza di provocare, anche in applicazione dell’art. 183, co. 3°, c.p.c., il
contraddittorio delle parti sulla assegnazione della causa al collegio
o al giudice unico. È poi rimessa alle parti la valutazione dell’opportunità di presentare nuove comparse conclusionali o di rinviare
a quelle depositate in occasione della prima rimessione.
Il collegio provvede, ai sensi del primo comma della disposizione, con “ordinanza non impugnabile”, il giudice unico, ai sensi del
secondo capoverso, “ai sensi degli articoli 187, 188 e 189”.
113
Si è ritenuto pertanto il giudice istruttore vincolato alla decisione del collegio (102): l’“ordinanza non impugnabile”, infatti, ai sensi dell’art. 177, co. 3°, n. 2, non può essere né revocata, né modificata.
Sennonché il contenuto del provvedimento del collegio consiste
nella rimessione della causa all’istruttore, affinché provveda ai sensi
dell’articolo 190 bis; affinché, cioè, si riservi per la decisione quale
giudice singolo.
L’espressa previsione della “non impugnabilità” e quindi della
non modificabilità e della non revocabilità, ai sensi dell’art. 177, co.
3°, n. 2, c.p.c., impone al giudice istruttore di far precisare le conclusioni e di riservarsi per la decisione. Non gli preclude, tuttavia,
in questa sede e, semmai, sulla base degli argomenti e degli elementi
forniti dalle parti all’udienza o nelle nuove comparse conclusionali,
di applicare il secondo capoverso dell’art. 274 bis e di rimettere nuovamente la causa in trattazione.
D’altro canto, se, secondo la prevalente interpretazione, il giudice istruttore fosse vincolato dall’ordinanza collegiale anche in sede
di decisione, la fissazione di una nuova udienza di precisazione delle conclusioni sarebbe affatto inutile, perché le parti non avrebbero
alcuna possibilità di interloquire sulla attribuzione della causa al collegio o al giudice singolo, in violazione non solo degli artt. 183, co.
3°, c 101 c.p.c., ma soprattutto dell’art. 24 Cost., perché ogni questione relativa all’applicazione dell’art. 48 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12,
sarebbe sottratta al contraddittorio delle parti.
A ben vedere, la tecnica divisata dall’art. 274 bis, in astratto e
sul piano formale, rischia di dar luogo a un circulus inextricabilis.
Infatti, può avvenire che, precisate le conclusioni ai sensi degli
artt. 187 ss. c.p.c., il giudice unico, riservatosi per la decisione, rimetta la causa in trattazione al fine di trasmetterla al collegio; sennonché quest’ultimo, qualora non condivida la decisione del suo componente, deve comunque fissare un’ulteriore udienza di precisazione
delle conclusioni, affinché il giudice istruttore si riservi nuovamente
(102) In questo senso, ATTARDI, op. cit., p. 35; G. TARZIA, op. cit., p. 176; G.
TRISORIO LIUZZI, Commento all’art. 31 l. 26 novembre 1990, n. 353, cit., p. 145.
114
per la decisione in funzione di giudice unico. Il giudice istruttore, a
sua volta, se, all’udienza di precisazione delle conclusioni, può ritenersi vincolato a riservarsi per la decisione quale giudice unico, non
lo è più in sede di decisione; potrebbe, quindi, fissare una quarta
udienza di precisazione delle conclusioni, al fine di rimettere, poi, la
causa al collegio. E così via.
L’eventualità di un conflitto tra collegio e giudice istruttore, formalmente e astrattamente possibile, non è, tuttavia realistica. Essa
presuppone che il giudice istruttore si trovi sempre in minoranza e
che vi sia una insanabile conflittualità tra i componenti il collegio,
tale da impedire ad uno dei suoi componenti di accettare la volontà
della maggioranza.
Il rischio, quindi, si manifesta prevalentemente teorico. Appare
corretto, tuttavia, rassegnarsi ad affrontarlo, in riferimento alla esigenza di garantire comunque il contraddittorio delle parti alla nuova udienza di precisazione delle conclusioni.
Per contro, i rischi della diversa soluzione si manifestano effettivi, perché, nella parte in cui sottrae al contraddittorio delle parti
la questione relativa alla attribuzione della causa al giudice singolo
o al collegio, induce a dubitare della legittimità costituzionale della
disciplina.
Negare, dunque, l’esistenza di ogni vincolo sulla interpretazione dell’art. 48 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, sull’ordinamento giudiziario, quale “novellato” dall’art. 88 l. 26 novembre 1990, n. 353,
in sede di decisione, non solo risponde alla lettera e alla ratio
dell’art. 274 bis, ma, a ben vedere, sottrae la disposizione ad eventuali dubbi di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 24,
co. 2° Cost.
7. La connessione di cause. Cenni sulle modifiche in tema di sospensione per pregiudizialità
L’art. 5 l. 26 novembre 1990, n. 353, ha aggiunto tre capoversi
all’art. 40, al fine di regolare i casi in cui le cause connesse siano regolate da diversi riti. L’art. 19 l. 21 novembre 1991, n. 374, a sua volta, ha aggiunto altri due commi in riferimento alle ipotesi di connessione tra cause attribuite alla competenza del giudice di pace e
cause attribuite alla competenza dei giudici togati.
115
Anche questo intervento del legislatore della riforma può essere
letto come un contributo alla semplificazione dei problemi relativi
alla individuazione del giudice. La coesistenza di diversi riti, infatti,
aveva posto la questione della realizzazione del simultaneus processus tra cause soggette a riti diversi (103).
Il problema si era già posto in relazione alla connessione tra cause “commerciali”, soggette al rito sommario, e cause “civili”, soggette al rito formale, a seguito della abolizione dei tribunali di commercio nel 1888; tra cause di lavoro e cause ordinarie, sia prima, sia
dopo la Novella del 1973. La generalizzazione del rito sommario nel
1901, la compatibilità tra rito speciale e rito ordinario prima del 1973
e la tendenziale onnicomprensività delle formule legislative adottate
negli artt. 409 e 442 c.p.c., tuttavia, avevano contribuito a ridurre la
rilevanza pratica delle questioni.
Essa, invece, ha assunto una notevole importanza con la legge
del 1978 in tema di locazione di immobili urbani, che ha irragionevolmente frammentato i criterii di competenza e i riti per le controversie nascenti dal medesimo rapporto (104).
Con l’unificazione prevista dai “novellati” artt. 8, n. 3, e 447 bis,
c.p.c., il problema dovrebbe tornare ad assumere un rilievo affatto
marginale, perché, se si prescinde dalle controversie in materia di locazione di immobili urbani, l’esperienza ha dimostrato che sono rari i casi di connessione di cause soggette a riti diversi, nei quali si
pone il problema della ammissibilità della trattazione congiunta (105).
(103) Cfr. soprattutto G. TARZIA, Connessione di cause e processo simultaneo
(Relazione al XVI Convegno nazionale dell’Associazione italiana tra gli studiosi del
processo civile - Trieste 2-3 ottobre 1987), in Atti, Rimini, 1989, e in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1988, p. 397 ss.
(104) Cfr., anche per indicazioni, la mia voce Controversie in natura di locazione di immobili urbani, in Noviss. Dig. it. - Appendice, II, Torino, 1981, c. 728 ss., spec.
il 29; nonché, da ultimo, A. PROTO PISANI, Rapporti tra competenza, rito e merito
nella legge n. 392 del 1978 (e nel rito speciale del lavoro), in Foro it., 1981, V, 185 ss.,
e in Nuovi studi di diritto processuale del lavoro, Milano, 1992, p. 261 ss.
(105) Il problema potrebbe, peraltro, conservare attualità in riferimento a quanto deciso da Cass. 17 ottobre 1991, n. 10960 (in Foro it., 1992, I, 1483), secondo la
quale “L’eterogeneità delle obbligazioni (...) e l’assenza di qualsiasi collegamento, sia
pure indiretto (...) non impediscono la chiamata in garanzia (impropria) (...) non trovando la realizzazione del simultaneus processus ostacoli né nei criteri di giurisdizione, né in quelli di competenza”.
116
In tali ipotesi, il nuovo testo dell’art. 40 (in parte qua già in vigore dal 1° gennaio 1993) dispone la prevalenza del rito ordinario su
ogni rito speciale e del rito del lavoro sul rito ordinario.
A ben vedere, la nuova formulazione fornisce una base normativa alle soluzioni già accolte dalla giurisprudenza.
Pur in mancanza del “novellato” art. 40 c.p.c., si è già affermata,
infatti, l’ammissibilità del cumulo tra cause soggette a riti diversi:
- nei casi di connessione tra controversie agrarie, regolate dal rito speciale (ai sensi degli artt. 409, n. 2, c.p.c., 9 l. 14 febbraio 1990,
n. 29, 47 l. 3 maggio 1982, n. 203, e 26 l. 11 febbraio 1971, n. 11),
e controversie sulla prelazione e sul riscatto, regolate invece dal rito ordinario (106);
- nei casi in cui “sia richiesto il pagamento cumulativo di prestazioni professionali in materia civile di natura giudiziale e stragiudiziale o il pagamento cumulativo di prestazioni giudiziali in materia civile e di prestazioni (giudiziali o stragiudiziali) in materia penale”; e si è affermato che “il procedimento ordinario, che è il solo
consentito per le prestazioni stragiudiziali civili e per le prestazioni
in materia penale, attrae nella sua sfera, per ragioni di connessione,
la materia propria del procedimento speciale” (107).
Per le ipotesi di connessione tra cause attribuite alla competenza del giudice di pace e dei giudici togati, poi, gli ultimi capoversi
del medesimo art. 40, aggiunti dalla l. 21 novembre 1991, n. 374, stabiliscono, con la significativa eccezione delle ipotesi di connessione
soggettiva ex art. 33, la vis atractiva della competenza dei secondi.
Il che, di fatto, potrà consentire alle parti di sottrarsi alla competenza dei giudici onorari, perché, in ciascuna delle fattispecie previste dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c., sarà sufficiente la propo-
(106) Cfr. Cass., 10 dicembre 1987, n. 9158, in Foro it., Rep. 1987, voce Contratti
agrari, n. 342, secondo la quale “La domanda di riscatto di un fondo rustico, ai sensi dell’art. 8, l. n. 590 del 1965, pur appartenendo alla cognizione del tribunale in composizione ordinaria, resta attratta nella competenza della sezione specializzata agraria per ragioni di connessione o di pregiudizialità, ove la domanda principale che determina la competenza del giudice specializzato riguardi il rapporto agrario”; nello
stesso senso, Cass., 2 settembre 1982, n. 4786, id., Rep. 1982, voce Agricoltura, n. 217.
(107) Cass., 23 maggio 1981, n. 3391, in Foro it., Rep. 1981, voce Avvocato, n. 177.
117
sizione di una domanda connessa sottratta alla competenza dei giudici onorari per determinarne l’incompetenza.
Basti pensare alla relazione tra causa principale e cause accessorie, ai sensi dell’art. 31 c.p.c.: tale disposizione stabilisce che la
causa accessoria è attratta innanzi al giudice della causa principale.
Tuttavia, se quest’ultima è attribuita alla competenza del giudice
di pace, mentre la domanda accessoria eccede la competenza di quest’ultimo, il processo dovrà radicarsi innanzi al giudice togato, competente per la causa accessoria: si consideri, ad esempio, la relazione tra
cause “relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore,
esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la
normale tollerabilità” e cause di danni; ai sensi della norma generale,
queste ultime sono attratte dalla competenza per materia del giudice
della causa principale; sennonché, se quest’ultimo è il giudice di pace,
ai sensi dell’art. 40 “novellato” dalla l. 21 novembre 1991, n. 374, è la
causa principale che viene attratta dalla causa accessoria. E gli esempi potrebbero ripetersi per ciascuna delle ipotesi previste dall’art. 7 c.p.c.
Il che, peraltro, dovrebbe almeno contribuire a risolvere il problema della ammissibilità del cumulo tra cause destinate ad essere decise secondo equità e cause destinate ad essere decise secondo diritto:
l’espressa previsione della vis atractiva della competenza dei giudici togati presuppone l’ammissibilità del cumulo e consente di affermare la
prevalenza del giudizio secondo diritto su quello secondo equità.
In funzione del medesimo obiettivo di semplificare ogni questione relativa alla individuazione del giudice, nel corso del dibattito parlamentare, si è tentato di adeguare la disciplina della sospensione per pregiudizialità al nuovo codice di procedura penale e si è
prevista la impugnabilità dei provvedimenti dichiarativi della sospensione per pregiudizialità con regolamento di competenza (108).
(108) V., soprattutto, G. TRISORIO LIUZZI, Disposizioni in tema di rapporti tra
processo penale e processo civile nel nuovo codice di procedura penale, in Nuove leggi
civ., 1990, 887; ID., Commento agli artt. 6 e 35 l. 26 novembre 1990, n. 353, in Commento alla legge 26 novembre 1990, n. 353, id., 1992, 2, e in Provvedimenti urgenti per
il processo civile - Legge 26 novembre 1992, n. 353, come modificata dalla l. 21 novembre 1991, n. 374, a cura di F. CIPRIANI e G. TARZIA, Padova, 1992.
118
Sennonché alla cancellazione del rinvio all’art. 3 dell’abrogato
c.p.p. e degli aggettivi “civile” o “amministrativa” nell’art. 295 c.p.c.
non è seguito analogo intervento nel testo del successivo art. 297 c.p.c.:
questo contiene ancora i riferimenti vuoi all’art. 3 dell’abrogato c.p.p.,
vuoi alla “controversia” pregiudiziale “civile” o “amministrativa”.
In realtà, come è stato posto in evidenza, la questione dei rapporti tra processo penale e processo civile aveva già trovato compiuta
soluzione nella nuova disciplina del primo con la definitiva soppressione della prevalenza dell’accertamento del fatto compiuto dal
giudice penale in sede civile (109), cosicché è in quel contesto che
occorre ricercare la disciplina applicabile.
Prescindendo, quindi, dai problemi relativi al fondamento della
sospensione per pregiudizialità (110), è opportuno soffermare l’at-
(109) Cfr. ancora G. TRISORIO LIUZZI, Disposizioni in tema di rapporti tra processo penale e processo civile nel nuovo codice di procedura penale, cit.; M. SCAPARONE, Rapporti tra processo civile e processo penale, in Enc. giur., Roma, 1991, voL.
XXV; M.G. CIVININI, Sospensione del processo civile per c.d. “pregiudizialità” penale:
questioni teoriche e riflessi pratici, in Foro it., 1991, V, 363; B. CAPPONI, A proposito
di nuovo processo penale e sospensione del processo civile, ibidem, 348; da ultimo, v.
F. TOMMASEO, Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, relazione al Convegno sul tema, Trento, 18 - 19 giugno 1993.
(110) Che hanno formato oggetto di un recente ampio dibattito: cfr. M. VELLANI, Considerazioni sulla sospensione del processo civile alla luce del nuovo c.p.p. e dei
provvedimenti urgenti per il processo civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1991, 751; S.
MENCHINI, voce Sospensione: processo civile di cognizione, in Enc. dir., Milano, 1990,
vol. XLIII, 1 ss.; G. VERDE, Brevi considerazioni su cognizione incidentale e pregiudizialità, in Riv. dir. proc., 1989, 175; A. PROTO PISANI, In tema di sospensione del processo civile di cognizione, in Studi senesi, 1988, 261; A. ATTARDI, Conflitto di decisioni e sospensione necessaria del processo, in Giur. it., 1987, IV, 417; G. TRISORIO LIUZZI, La sospensione del processo civile di cognizione, Bari, 1987; A. D’ALESSIO, voce Sospensione del processo civile di cognizione, in Nss. dig. it. - Appendice, VII, Torino, 1987,
464; L. MONTESANO, Condanna senza liquidazione e condanna generica, impugnazione della condanna generica durante il giudizio liquidativo e sospensione del processo civile, in Giur. it., 1986, I, 1, 771; N. GIALLONGO, Note in tema di sospensione, pregiudizialità e connessione nel processo di cognizione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1985,
616; F. CIPRIANI, Le sospensioni del processo civile per pregiudizialità, in Riv. dir. proc.,
1984, 239; L. MONTESANO, La sospensione per dipendenza di cause civili e l’efficacia
dell’accertamento contenuto nella sentenza, in Riv. dir. proc., 1983, 385.
Tali problemi appaiono destinati a trovare un nuovo ambito di applicazione in
riferimento a quanto stabilito dall’art. 2 della legge n. 421 del 1992 e al d.P.R. n. 29
del 1993, i quali nell’attribuire al giudice ordinario la giurisdizione in materia di pubblico impiego, hanno comunque riservato al giudice amministrativo la cognizione di
alcuni aspetti del rapporto.
119
tenzione sul nuovo testo dell’art. 42, che consente l’impugnazione con
regolamento di competenza soltanto dei provvedimenti che dichiarano la sospensione.
Giustamente si è escluso che la norma implichi violazione del
principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.
Certamente chi subisce un provvedimento di sospensione si trova nella stessa situazione vuoi nel caso in cui la sospensione sia dichiarata per ragioni di pregiudizialità, ai sensi dell’art. 295, vuoi nel
caso in cui sia dichiarata perché è stato proposto regolamento di giurisdizione oppure perché è stato proposto ricorso per cassazione avverso la riforma di una sentenza non definitiva, ai sensi dell’art. 129
bis disp. att. c.p.c.
È anche indubbio, però, che le ipotesi siano formalmente diverse.
Ed è anche diverso il caso in cui sia respinta la richiesta di sospensione perché il giudice non ravvisa il nesso di pregiudizialità.
Soltanto in questo caso, la parte non aveva tutela, traducendosi il
provvedimento sospensivo in una ipotesi di denegata giustizia: chi invoca il provvedimento sospensivo negato, infatti, conserva comunque
la possibilità di impugnare la decisione di merito, resa nonostante la
pendenza di una “controversia” pregiudiziale “civile” o “amministrativa”, deducendo la violazione dell’art. 295 c.p.c. o invocando comunque la decisione resa sul rapporto pregiudiziale.
120
LA COMPETENZA DOPO LA RIFORMA
Relatore:
prof. avv. Giovanni VERDE
ordinario di diritto processuale civile
nell’Università di Napoli
1. – Sul piano logico, prima che giuridico, la competenza indica la sfera di attribuzioni di un determinato soggetto. I giuristi nel
campo sostanziale, adoperano a tal fine il termine di “legittimazione”. È un termine, questo, che peraltro non si adatta appropriatamente al processo ed alla sfera di attribuzioni del giudice. Ciò per
due ragioni; da un lato, il giudice viene scelto dalla parte con un atto di investitura, pur se tale investitura deve tenere conto di criteri
legali di predeterminazione; dall’altro lato, la sfera di attribuzioni è
destinata a svolgersi nel tempo in una serie conseguenziale di atti fino al provvedimento finale, cosicché il criterio legittimante è fondato su di un potere che normalmente non si consuma in un singolo
atto. Questa differenza essenziale non può non avere riflessi sulle
concrete discipline. Ed infatti, mentre i sostanzialisti non hanno alcun problema a riportare la legittimazione tra i requisiti di validità
dell’atto, per i processualisti la sistemazione della competenza presenta maggiori problemi.
Non è il caso di andare troppo indietro nel tempo, perché ci sono state epoche storiche, anche non lontane, in cui, essendo la giustizia riguardata come attività propria del sovrano e da lui delegata
per via di concessione graziosa, si riteneva possibile che il sovrano
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 31 gennaio al
4 febbraio 1994.
121
trasferisse ad altri determinate attribuzioni giurisdizionali che diventavano così oggetto di rapporti anche patrimoniali (ad es. per atto tra vivi o tramite disposizioni testamentarie). In queste epoche era
ovvio ritenere che l’atto di individuazione del giudice, compiuto dai
litiganti, non potesse avere alcuna incidenza sulla competenza. Il giudice, spogliato della sua competenza, era privato di un suo diritto e
poteva reagire vietando al magistrato erroneamente adito di decidere (con la cd. inhibitio). In questo modo nasceva un conflitto, che il
sovrano doveva risolvere non sul potere-dovere del giudice di decidere la controversia, ma sul suo diritto, quasi considerato come un
diritto patrimoniale, a giudicare.
Questa concezione più non regge negli Stati moderni in cui la
giustizia è sempre resa in nome del popolo, nel cui interesse è organizzata attraverso le forme ed i canali istituzionali. In questo sistema, la sfera di attribuzioni del giudice non è più determinata in
funzione del suo diritto, ma del suo potere-dovere di giudicare.
Che cosa succede allora, se la parte individua un giudice piuttosto che un altro erroneamente applicando i criteri di legge? Nel secolo scorso, quando ancora non era chiara la distinzione tra diritto
sostanziale e diritto processuale (ed il secondo si appiattiva sul primo in posizione chiaramente ancillare), si era portati a costruire fra
gli istituti del secondo ricalcando gli schemi del primo. Fu allora elaborata la dottrina del “rapporto giuridico processuale”, del quale la
competenza del giudice non poteva non porsi come presupposto. Ne
conseguiva che la scelta di un giudice incompetente, viziando fin
dall’origine tale rapporto, impediva al giudice di provvedere sul merito in quanto, come nel campo del diritto sostanziale il difetto di legittimazione è causa di invalidità dell’atto, così il difetto di competenza inficia il rapporto ab origine, obbligando il giudice a chiudere
in ogni caso il processo con una sentenza di carattere processuale.
Si è detto che questa era la conseguenza di una concezione gerarchica e pubblicistica della competenza, in quanto mirava soprattutto ad impedire che un giudice sottoordinato potesse costringere
un giudice sovraordinato a decidere cause per le quali non fosse stato competente ovvero potesse sottrargli competenze. E si è aggiunto
che questa sistemazione è stata completamente rielaborata dal codice del ‘42 che ha accolto una nozione privatistica e funzionale della
competenza disciplinata con l’intento di garantire soprattutto il corretto funzionamento della giustizia.
122
Il rilievo può essere condiviso soltanto in parte, perché la concezione pubblicistica o privatistica dell’istituto processuale non sembra aver svolto nella vicenda un ruolo di qualche rilievo. È qui avvenuto ciò che si è verificato in molti altri settori del diritto in generale e di quello processuale in particolare, nei quali l’esplorazione
dei giuristi è valsa ad affinare le discipline positive, legando le conseguenze giuridiche delle fattispecie a quanto è strettamente necessario per conseguire gli obiettivi voluti. In questo senso si è cercato
di eliminare dalla disciplina degli istituti il “troppo ed il vano”. Il che
vuol dire, nel campo del processo, che gli studiosi si sono industriati
ad individuare le forme essenziali, separandole dai formalismi inutili ed ingombranti (una ricerca che il legislatore sciatto e prevaricatore dei tempi attuali ha relegato tra le attività d’antiquariato), collegando soltanto alle violazione delle prime sanzioni che possono avere influenza sulla sorte delle tutele.
Nel settore della competenza, già nell’ottocento ciò era stato intuito, quando si era distinta una competenza derogabile da una competenza inderogabile. Nel fare ciò si era osservato che i criteri di
competenza, tutti volti a garantire che il giudice non sia scelto dalla parte, ma secondo criteri obiettivi e precostituiti, in taluni casi sono disponibili dalle parti perché non presidiano alcun ulteriore interesse pubblico. Chiovenda, che pur non ha mai ufficialmente abbandonato la tesi secondo cui la competenza è requisito di ammissibilità della domanda e, quindi, del rapporto processuale, aveva proposto nel suo progetto del 1920 che il giudice adito, nel dichiararsi
incompetente, indicasse quello competente, così ponendo la base per
la trasmigrazione del processo.
Come avviene in molti luoghi della sua opera, Chiovenda non si
era reso conto (o, forse, pure rendendosene conto, non se ne preoccupava più di tanto) che in tal modo minava alla base la sua concezione della competenza. Nel momento in cui affermava che il primo giudice incompetente, non poteva chiudere il processo, negava
inevitabilmente che la competenza potesse essere requisito della domanda e del rapporto processuale. Nella ricerca volta ad eliminare
il “troppo e il vano”, la dottrina successiva, svolgendo compiutamente
l’intuizione chiovendiana, ha rivolto la sua attenzione ai seguenti punti nodali: a) la disciplina dei criteri di competenza è una disciplina
di “garanzia” in quanto mira a che sia rispettato il principio del giudice neutrale; b) questa disciplina può, in quanto garanzia, essere
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derogata dalle parti; c) dipende da una scelta di diritto positivo stabilire se la derogabilità costituisca regola o eccezione; d) è egualmente problema di diritto positivo quello del regime di derogabilità
o della inderogabilità; e) nel risolvere tale problema si deve tenere
conto del fatto che il processo è un fenomeno destinato a prolungarsi nel tempo.
2. – Diventa chiaro, a questo punto, che la disciplina della competenza non solo può variare da ordinamento a ordinamento (ed infatti è stata diversa nel codice del 1865, in quello del 1942 e nelle
riforme del 1973 e del 1990), ma può essere diversa nell’ambito di
uno stesso ordinamento.
La disciplina degli artt. 38, 42 ss. e 50 è chiaramente ritagliata
sulle esigenze del processo di cognizione ordinario nell’ambito di uno
stesso grado di giudizio. È qui, infatti, che è possibile dire, senza margini di dubbio, che l’istanza di parte rivolta al giudice incompetente
ha pur sempre il valore di evocazione di una normativa di cui si chiede applicazione giudiziale, così che si possono escogitare meccanismi
interni al processo, considerato come fenomeno unitario, per consentire il passaggio della istanza e della lite da uno ad altro giudice.
Fuori da questo campo, tuttavia, la scelta non è obbligata. Se,
per esempio, si propone ricorso per decreto ingiuntivo ad un giudice incompetente, il legislatore può tanto prevedere che il giudice adito nel dichiararsi incompetente indichi il giudice dinanzi al quale il
processo può essere trasferito, quanto stabilire che il giudice debba
rigettare l’istanza. Se il Tribunale fallimentare si ritiene incompetente, egualmente si può così prevedere che debba rigettare il ricorso quanto che debba individuare il tribunale competente. Se il cittadino chiede un provvedimento cautelare al giudice incompetente,
non diversamente è possibile un doppia soluzione: o il rigetto o un
provvedimento che consenta la traslazione. Se la parte chiede un
provvedimento di volontaria giurisdizione al giudice incompetente, è
possibile allo stesso modo pensare così che egli debba rigettare il ricorso come che debba trasferirlo ad altro giudice.
In qualche caso, poi, la possibilità di trasferimento altrove del
processo sembra ostacolata dal fatto che gli atti compiuti dall’ufficio
giudiziario e necessari per la stessa nascita del processo non sono
esportabili: si pensi al processo di espropriazione, per il quale bisogna ritenere che, trasferito il processo ad altro giudice, restino fer124
mi e validi gli atti compiuti da organi collegati all’ufficio giudiziario
e pur tuttavia dotati di loro autonomia, quali gli ufficiali giudiziari.
In altre parole, poiché il pignoramento è atto dell’ufficiale giudiziario, il trasferimento del processo dinanzi ad altro giudice sarebbe
possibile solamente se si ammettesse una convalida del pignoramento
eseguito dall’ufficiale giudiziario privo di legittimazione.
Quando il legislatore, in queste ed in altre simili ipotesi non detta norme particolari sul regime della competenza ovvero delle norme che espressamente escludono la possibilità della translatio (come
è nel caso dell’art. 669 septies) il richiamo agli artt. 38, 42 ss. e 50
c.p.c. è non solo errato, ma addirittura fuorviante.
Avviene, infatti, che in questi settori ci si sforzi di applicare con
arbitrari adattamenti norme riferite a situazioni affatto diverse e tese ad obiettivi diversi. Bisogna considerare che, mentre è ragionevole ipotizzare che secondo la disciplina dei predetti articoli, la competenza non si pone più come requisito di validità della domanda
giudiziale, e quindi come condizione per la sua ammissibilità, negli
altri casi sopra analizzati la competenza sembra invece conservare
tale carattere.
3. La riforma del 1990 ha chiaramente avuto influenza soltanto
sulla disciplina della competenza segnata dagli artt. 38, 42 ss. e 50
c.p.c. e, quindi, riguarda la competenza nel primo grado del processo ordinario di cognizione (salvo a verificare se ed in quali limiti
possa essere applicata altrove).
Il legislatore ha inciso sulla contrapposizione derogabilità-inderogabilità, allargando l’ambito della derogabilità e ciò ha fatto soprattutto modificando quella parte del fenomeno che taluno ha ricondotto al profilo dinamico della disciplina sulla competenza. Per
effetto della riforma l’individuazione del giudice competente, benché
originariamente errata, viene ad essere convalidata dal comportamento successivo delle parti e/o del giudice.
Era questa una soluzione già prescelta quanto ai criteri di competenza territoriale derogabile ed oggi estesa, sia pure con qualche
limitazione, a tutti gli altri criteri. In sostanza, con la nuova formula dell’art. 38 si stabilisce che la competenza originaria è convalidata se vi è l’adesione esplicita o implicita delle parti e del giudice quale si formalizza all’udienza regolata dall’art. 183 c.p.c.. In questo modo, si inverte il rapporto fissato nell’art. 6 c.p.c. (non a caso intito125
lato alla inderogabilità convenzionale della competenza) che pone per
l’appunto l’inderogabilità come regola e la derogabilità come eccezione.
Dottrina e giurisprudenza, inconsciamente legate alla tralaticia
concezione della competenza come presupposto del processo, sono
state indotte a riternere che i patti contrari a criteri di competenza
inderogabile sono assolutamente nulli siccome patti contrari alla legge e con oggetto impossibile. Non si è dato alcun rilievo al profilo
dinamico della competenza e non si è mai dubitato che si potesse
ritenere contraddittoria la nullità (e quindi la non convalidabilità)
del patto e la conferma a posteriori della competenza del giudice adito, pur originariamente incompetente, per effetto di vicende processuali successive (si pensi ai casi in cui, essendoci stata espressa pronunzia sulla propria competenza da parte del giudice adito la parte
interessata al rilievo dell’incompetenza non abbia proposto impugnazione sul punto).
Proprio la prospettiva funzionale, dalla quale si è posto con assoluta decisione il legislatore del 1990, rende chiaro che la lettura
dell’art. 6 come implicante una definitiva ed insanabile nullità del
patto in deroga, già discutibile prima della riforma, diventa inaccettabile oggi. Oramai quei patti, ove impongano nel settore della competenza per materia, valore e territorio inderogabile, non possono
più essere ritenuti nulli, perché non hanno un oggetto giuridicamente
impossibile: essi sono irrilevanti o inopponibili al processo sempre
che nel costituirsi tempestivamente la parte interessata muova l’eccezione o nella prima udienza il giudice rilevi l’incompetenza.
Si dirà che la conferma della competenza pattizia in questo caso è tanto l’effetto della convalida del patto di deroga quanto della
preclusione verificatasi nel momento in cui si realizza il meccanismo
predisposto dall’art. 38. È una considerazione esatta, giacché il meccanismo della convalida sarebbe sostenibile solamente se il giudice
non avesse alcun potere di rilevare d’ufficio la propria incompetenza e quindi l’invalidità o l’inopponibilità del patto.
Questa considerazione è a mio avviso corretta, ma può essere
accolta a condizione di ritenere che la riforma non ha completamente
superato il principio della Kompetenz-Kompetenz ed ha lasciato ai
giudici un sia pur limitato potere di controllo sulla correttezza degli
atti di parte in base ai quali sono stati individuati come competenti
(il che consente di relegare tra le aspirazioni de jure condendo, e non
126
tra le realizzazioni de jure condito l’abrogazione del regolamento di
competenza d’ufficio ex art. 45). Sembra, insomma che l’art. 38 finisca col porsi come tappa intermedia e non già come punto d’arrivo di un’evoluzione in atto, in base alla quale si vuole che la disciplina della competenza non sia più a presidio di alcuna esigenza di
tipo pubblicistico, ma serva ad una corretta gestione del servizio affidata al controllo esclusivo delle parti.
Se e quando ciò dovesse avvenire, la possibilità di far rilevare
l’invalidità del patto in deroga sarebbe riservata esclusivamente alla
parte e, forse, sarebbe addirittura inutile prevedere un divieto, Oggi
non è ancora così ed a mio avviso è bene che non sia. Di conseguenza, l’unica osservazione attualmente possibile è che, ove le parti non abbiano eccepito ed il giudice non abbia rilevato l’invalidità
del patto in deroga, non avrebbe senso che il giudice lo dichiarasse
invalido pur avendo accettato di trattare l’affare giudiziario in deroga ai normali criteri.
4. – Se la disciplina della competenza serve a garantire che giudice della controversia sia il giudice precostituito per legge, non è possibile consentire che la parte, manovrando la domanda introduttiva
in modo da alterare i criteri di riferimento possa scegliere un giudice diverso da quello che sarebbe il giudice naturale della causa.
È questo un principio preposto alla difesa di un valore, quello
della terzietà del giudice, al quale si è disposti a dare credito maggiore o minore a seconda delle opzioni ideologiche. Una diffusa tendenza, che oggi tende a farsi strada, ragiona in questo modo: la difesa del principio ha dei costi in termini di maggior lunghezza e complessità del processo, perché si lega inevitabilmente all’esigenza di
garantire adeguati controlli sulla competenza e quindi dà spazio ad
impugnative fondate su questioni meramente processuali; questa difesa non merita approvazione incondizionata, posto che, nel nostro
sistema, tutti i giudici sono eguali e si distinguono fra loro soltanto
per diversità di funzioni; di conseguenza, una volta che si sia validamente instaurato il contraddittorio dinanzi ad un giudice inizialmente incompetente e non sia sorta la relativa questione, non è necessario e neppure utile che la questione sia artificiosamente tenuta
in vita; se, poi sorge questione, la stessa deve essere decisa rapidamente ed in maniera da chiuderla definitivamente; di conseguenza,
se gli accertamenti necessariamente sommari in ordine alla compe127
tenza fossero smentiti dall’istruttoria successiva, ciò non potrebbe influire sulla competenza definitivamente fissata, anche se delle nuove acquisizioni probatorie il giudice deve tener conto ai fini della decisione del merito.
È la filosofia che emerge dalla nuova formulazione dell’art. 38
c.p.c. ed in particolare dal suo ultimo comma.
È, tuttavia, probabile che il legislatore del 1990 abbia configurato la disposizione pensando ad un’applicazione dell’istituto quale
non si avrà e, comunque è auspicabile che non si abbia. Si è scritta la norma, infatti come se l’ipotesi normale sia quella per la quale, sorta la questione di competenza e raccolte, se necessario, le sommarie informazioni, il giudice inviti le parti a precisare le conclusione e riservi la causa per la decisione. Se ciò avvenisse, le conseguenze pratiche sarebbero disastrose, perché qualunque parte volesse allungare i tempi del processo, solleverebbe eccezione di incompetenza per provocare una decisione immediata sia pure di rigetto
(con riserva di proporre successivo regolamento di competenza). Per
scongiurare tale pericolo, la dottrina suggerisce alla giurisprudenza
di fare uso dell’art. 187 co. 3° che si ritiene (direi per una sorta di
stato di necessità) non incompatibile con l’art. 38 e pertanto suggerisce al giudice di rinviare la decisione sulla questione di competenza, anche quando la rilevi d’ufficio, al momento in cui deciderà il
merito. In questo modo, emerge la contraddizione, perché, mentre
l’istruttoria sulla competenza resta sommaria, la decisione sulla questione può essere ritardata ad un momento in cui le acquisizioni probatorie operate ai fini del merito consentano di ritenere superata
quella iniziale raccolta di elementi.
Per difendere la scelta del legislatore, attribuendogli una coerenza sistematica che, forse, non gli è appartenuta, si è detto che già
il legislatore del 1940 aveva inserito una disciplina non diversa limitatamente alla competenza per valore. L’art. 10, nella su formulazione originaria rimasta immutata, stabilisce che l’attore ha la possibilità di determinare il valore della causa ai soli fini della competenza. È, peraltro, una disposizione imposta da ragioni di opportunità pratica e di economia processuale assai evidenti, resa accettabile dalla previsione di numerose disposizioni integratrici con cui sono stati dettati criteri standardizzati per pervenire alla determinazione del valore della controversia in relazione al bene preteso con
la domanda giudiziale (si vedano gli art. 11, 12, 13 e 15 c.p.c.).
128
Per un solo settore, quello delle controversie relative a crediti di
danaro e a beni mobili, il legislatore non aveva trovato criteri di valutazione che potessero essere standardizzati, e si è dovuta rimettere alla determinazione dalla parte. Ma anche qui è intervenuto, da
un lato, ponendo una presunzione di valore, che in caso di mancata determinazione non può superare il limite massimo della competenza del giudice adito, e dall’altro lato stabilendo che, in caso di
contestazione del valore dichiarato o presunto, “il giudice decide, ai
soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli atti e
senza apposita istruzione” (art. 14).
Non era facile immaginare una disciplina diversa per questo caso, e tuttavia la disposizone immediatamente ebbe a creare un problema interpretativo, perché venne subito in rilevo l’antinomia cui
dà luogo in maniera generale l’attuale formulazione del nuovo art.
38; da una parte l’art. 4 co. 2° fa pensare ad una pronuncia sulla
competenza immediata e allo stato degli atti; dall’altro lato, l’art.
187 co. 3° dà al giudice il potere di disporre che la questione di
competenza sia decisa unitamente al merito, Quando ciò avviene (ed
è nella generalità dei casi) il giudice, nel valutare la sua competenza, dovrà o non tenere conto delle prove raccolte successivamente
e che gli avranno meglio precisato il valore del bene in contestazione?
La dottrina aveva risolto il problema, individuando nell’art. 14
co. 2° una regola secondo la quale, anche quando il giudice avesse
rinviato la decisione sulla competenza ad un momento successivo,
comunque sulla competenza avrebbe deciso allo stato degli atti e con
valutazione efficace ai soli fini della competenza. In questo modo
pur ritenendosi competente, il giudice avrebbe potuto risolvere nel
merito questioni il cui valore fosse superiore o inferiore ai suoi limiti di competenza.
Si è discusso e si discute se tale soluzione sia l’embrione di
una soluzione generalizzabile per ogni tipo di competenza ovvero
se sia una soluzione eccezionale limitata alla sola competenza per
valore nelle causa relativa a beni mobili o a somme di danaro. Le
numerose prese di posizione si possono sostanzialmente raggruppare intorno a due orientamenti di fondo: alcuni ritengono che l’indagine in ordine alla competenza possa essere tenuta distinta dall’indagine sul merito; altri affermano, invece, che tale possibilità costituisce un artificio non generalizzabile. Insomma fino ad oggi, per
129
i primi l’art. 14 co. 2° ha contenuto un principio di carattere generale e per i secondi ha rappresentato una norma sicuramente eccezionale.
Il problema, assai impegnativo sotto il profilo teorico, non ha
avuto particolare risonanza, in quanto la prassi non ha registrato,
nel campo della competenza per valore, molte ipotesi di conflitto. Il
problema, invece, si è evidenziato in relazione alla competenza per
materia, in tutti i casi in cui l’eccezione del convenuto, mirando a
qualificare diversamente il rapporto controverso, veniva a modifiche
anche il criterio di competenza. Era (ed è) inaccettabile in questi casi, legare la competenza alla domanda giudiziale, perché si sarebbe
lasciato (e si lascerebbe) l’attore arbitro nella scelta del giudice competente, sofisticando l’esposizione del fatto e le qualificazioni giuridiche. È per questa ragione che, nel campo delle controversie agrarie, nel quale l’esposto pericolo ebbe a presentarsi più di frequente,
si diede rilievo all’eccezione con cui il convenuto deduceva che si era
di fronte ad un rapporto agrario (contrariamente alla tesi dell’attore
secondo il quale si era di fronte ad un normale rapporto di locazione) per affermare il principio della competenza della sezione specializzata agraria tutte le volte in cui l’eccezione non fosse apparsa
prima facie infondata. Si è finito, in tal modo, col privilegiare la posizione del convenuto, che si è lasciato sostanzialmente arbitro nell’individuazione del giudice competente; ma era, questo, un prezzo che
il sistema ha inevitabilmente pagato all’ideologia prevalente che ha
individuato, nel conflitto tra i proprietari e gli affittuari, questi ultimi come soggetti da privilegiare.
La vicenda non va tanto iscritta al principio, che taluno ha inteso desumere dal sistema positivo, per il quale la natura della causa ai fini della competenza va dedotta tenendo conto non solo della
domanda, ma anche delle successive posizioni assunte dalle parti,
quanto va ricondotta ad una applicazione del criterio secondo il quale, già prima della riforma, era possibile avere nel settore della competenza per materia una decisione “allo stato degli atti” (ossia, sulla base della valutazione di non manifesta infondatezza dell’eccezione sollevata dal convenuto). Ed infatti, il ricordato orientamento giurisprudenziale produsse un ulteriore problema, giacché non era chiaro come si sarebbe dovuta comportare la sezione specializzata se nel
momento della decisione sul merito si fosse convinta che il rapporto controverso non era agrario.
130
È stato, allora, inevitabile ritenere che il giudice possa qualificare diversamente il rapporto, pur tenendo ferma la sua competenza. Una diversa soluzione, infatti, avrebbe creato ulteriori e più complessi problemi, l’alternativa ulteriore oscillando fra due poli: dare
prevalenza alla decisione sul rapporto anche ai fini della competenza è così ritenere caducato l’effetto preclusivo della decisione sulla
competenza; ovvero tener ferma la competenza, ma escludere che la
sezione possa decidere nel merito, essendo la controversia sottratta
al suo potere decisorio.
5. – In questo contesto ha operato il legislatore del ‘90, che,
nell’ultimo comma dell’art. 38, ha espressamente generalizzato la soluzione accolta dall’art. 14 co. 2°. Oramai tutte le questioni di competenza “sono decise, ai soli fini della competenza, in base a quello
che risulta dagli atti e, quando sia reso necessario dall’eccezione del
convenuto o dal rilievo del giudice, assunte sommarie informazioni”.
Poiché l’interpretazione corrente del nuovo art. 38 è nel senso
che esso non sia incompatibile con l’art. 187 co. 3°, cosicché il giudice ben potrà rinviare alla decisione di merito l’esame della questione sulla competenza, tempestivamente eccepita o rilevata, il problema ora esaminato si pone per ogni e qualsiasi controversia. Qualora il giudice rinvii al merito la decisione sulla competenza, potrà
avvenire che nella sentenza ponga a base della valutazione relativa
alla competenza elementi diversi da quelli che riterrà acquisiti ai fini del merito. Ad es., se il luogo di conclusione del contratto ha importanza non solo per individuare il giudice competente, ma anche
per stabilire la legge regolatrice del rapporto, potrà avvenire che il
giudice ritenga acquisito allo stato degli atti un determinato luogo
ai fini della competenza e ritenere che il contratto è stato concluso
altrove ai fini della valutazione di merito.
La disarmonia potrà non piacere, ma della stessa non si può fare a meno per le richiamate esigenze di economia processuale. E sarà
una mera disarmonia, e non un’antinomia, dal momento che il giudice adito se in concreto non fosse stato il giudice investito della
controversia, in astratto avrebbe avuto la possibilità di deciderla, rientrando la controversia tra quelle per le quali gli è riconosciuto potere decisorio.
La disarmonia si trasforma in una vera e propria antinomia, invece, tutte le volte in cui la rinnovata valutazione dei presupposti
131
della competenza, quale il giudice va ad effettuare dopo aver acquisito tutti i dati necessari per la decisione del merito, faccia emergere che la controversia rientra fra quelle per le quali il legislatore
esclude già in astratto (e in via generale) che il giudice adito abbia
potere decisorio. Se, ad esempio, il legislatore individua un determinato giudice e non altro come componente per le cause relative
ad immobili o a diritti immobiliari, l’essere il bene controverso mobile o immobile è oggetto di un’indagine che va fatta non solo per
individuare il giudice competente, ma anche per stabilire se quel giudice possa decidere nel merito. Se il legislatore affida al pretore del
lavoro le controversia di cui all’art. 409 co. 3°, stabilire se vi sia un
rapporto di parasubordinazione serve non solo ad individuare come
competente il giudice del lavoro, ma anche a stabilire che sulla controversia decida lui e non altri. Se la legge affida al giudice di pace
le controversie per risarcimento dei danni prodotti dalla circolazione di veicoli e natanti fino ad un determinato ammontare (art. 7
c.p.c. come novellato dall’art. 17 l. n. 374/91), accertare che il veicolo ha prodotto il danno mentre “circolava” costituisce presupposto
non solo della competenza, ma anche del potere decisorio del giudice di pace.
Si apre a questo punto un nuovo tema di indagine, dal momento
che di solito la competenza si identifica con il potere decisorio. Ma
se è vero che l’una e l’altro procedono normalmente appaiati, non è
detto che siano la stessa cosa. È ben possibile, infatti, che un giudice sia (in astratto e in generale) fornito di potere decisorio e non sia
competente, come avviene in tutti i casi in cui il giudice sia stato
scelto in violazione dei criteri di competenza territoriale. L’assorbimento completo del potere decisorio nella competenza, a ben vedere, presuppone l’eliminazione dei criteri di competenza diversi da
quelli territoriali, perché, soltanto in questo caso tutti i giudici avrebbero lo stesso potere decisorio, che si distribuirebbe tra i vari uffici
(o giudici) dislocati sul territorio in funzione di esigenze organizzative (onde pervenire ad un’equa distribuzione degli affari tra i vari
uffici giudiziari) e di rispetto della terzietà del giudice (onde evitare
il sospetto che la parte possa scegliersi il proprio giudice). Ma se il
legislatore individua come competente un ufficio o giudice piuttosto
che un altro in relazione al particolare tipo di controversia da decidere, vuol dire che gli riconosce un’idoneità a decidere che agli altri
uffici o giudici manca e, quindi, gli riconosce un particolare potere
132
decisorio. In questi casi è già molto che l’ordinamento, per una scelta dettata da ragioni di economia processuale, renda possibile una
sorta di convalida, per effetto della quale se parti o giudici non sollevano la questione il giudice adito viene ad avere un potere decisorio dal quale era stato escluso (ed è presumibile che prassi e dottrina cercheranno di forzare il sistema normativo, individuando casi in
cui l’indagine sul potere decisorio sarà possibile nonostante il mancato tempestivo rilievo dell’incompetenza: si pensi ai casi di c.d. competenza funzionale). Più difficile è giustificare tale soluzione, quando le parti, sollevando la questione, hanno ritenuto di non voler dare deleghe particolari.
In questa seconda ipotesi, il legislatore non ha potuto (e voluto)
escludere la possibilità di valutazioni preliminari, quali del resto ha
ammesso anche nel campo della giurisdizione. Ed infatti, non va dimenticato che il regolamento di giurisdizione investe la S.C. del dovere di decidere sul giudice quale che sia lo stato della causa di merito e, quindi anche sulla base delle sole prospettazioni delle parti,
che successivamente potrebbero essere contraddette. La regola fissata dall’art. 386 viene letta, non senza perplessità, nel senso che il
giudice, nei limiti della qualificazione in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo data dalla Corte alla situazione sostanziale
dedotta in giudizio, resta libero di accertare se quest’ultima esiste o
non in concreto e può quindi pervenire alla ricostruzione di una fattispecie diversa da quella prospettata dall’attore.
Questa esperienza non può essere esportata nel settore della competenza, in cui le situazioni controverse sono tendenzialmente omogenee (mentre nel campo della giurisdizione almeno tendenzialmente non sono tali). Dalla stessa è, tuttavia, ricavabile una linea di tendenza, secondo cui la decisione che serve ad individuare il giudice
della controversia pregiudica il suo potere decisorio nei limiti di ciò
che è strettamente indispensabile. Non è molto, ma almeno è una
traccia per avviare una rimeditazione del problema.
Si potrebbe pensare che la nuova regola è stata fissata dall’art.
38 u.c. in relazione a quella che era la fattispecie presa in considerazione dal legislatore e che sicuramente non riguardava la decisione sulla competenza rinviata al tempo in cui si sarebbe deciso il merito (ipotesi affermata successivamente, e non senza contrasti, dalla
dottrina). E di conseguenza si potrebbe ritenere che la regola di giudizio ivi espressa (lo stato degli atti o il risultato delle sommarie
133
informazioni eventualmente disposte) riguardi il solo caso in cui il
giudice, non avvalendosi del potere di accorporamento delle questioni
di competenza e di merito ex art. 187 co. 3°, inviti subito le parti a
precisare le conclusioni sulla questione processuale, fissando l’udienza per la decisione ai soli fini della competenza. In tal modo, nel caso di utilizzazione del potere ex art. 187 co. 3°, resterebbe aperta la
possibilità per il giudice di ritenersi incompetente anche sulla base
delle acquisizioni probatorie ottenute in corso di causa e ai fini del
merito.
La disarmonia tra le due ipotesi, giacché in un caso la decisione sulla competenza avverrebbe sulla base di un giudizio di verosimiglianza e nell’altro sulla base di un convincimento pieno, può apparire tollerabile, ove si pensi che nel primo caso bisogna comunque preservare l’effetto preclusivo della decisione sulla competenza.
Si vuol dire che, in un sistema in cui il giudice provvede sulla competenza con sentenza, è inevitabile, quando si ammettano decisioni
anticipate sul tale oggetto, collegare alle stesse una preclusione, che
impedisca di rimettere in discussione l’individuazione del giudice.
Non sono certo che questa sia la soluzione praticabile o l’unica
soluzione praticabile. Sicuramente mi sembra migliore e più coerente
con il sistema complessivo di quella per la quale le qualificazioni sarebbero fatte sulla base di indagini sommarie e prevarrebbero, ai limitati fini della competenza, su quelle definitive, in modo da consentire che si radichi in capo ad un giudice un potere decisorio che
non ha. Se si seguisse questa strada, tutte le norme attributive della competenza sarebbero applicate non quando il criterio che ne è a
base è effettivamente utilizzabile, ma anche quando lo stesso appare prima facie utilizzabile.
6. – Si è detto che la nozione e la disciplina della competenza
nel nostro sistema non costituiscono un blocco monolitico. Se ne ha
la conferma quando si saggia se i problemi finora esaminati possano investire anche i procedimenti sommari, cautelari, in camera di
consiglio e quelli esecutivi. Ha senso, in questi casi, porre il problema del rapporto tra valutazioni definitive per il merito?
In realtà, la questione di cui mi sono occupato ben si adatta ad
un processo ordinario che si snoda in una pluralità di fasi e soprattutto che apre la via del trasferimento del processo davanti ad un altro giudice. Negli altri casi non avrebbe senso chiedersi, ove il giu134
dice abbia rigettato per incompetenza la richiesta di decreto ingiuntivo o di misura cautelare o di provvedimento volontario, se tale valutazione è avvenuta o meno allo stato degli atti? Qui sorge un problema di rimedi eventuali contro il provvedimento negativo.
Allo stesso modo, ove il giudice abbia accolto una delle dette
istanze, chi ritiene di essere pregiudicato dal provvedimento, ha il
potere di impugnarlo e di chiederne l’annullamento. L’art. 38 non entra in gioco e non sarà possibile opporre che, prima facie, la competenza sussisteva o non sussisteva.
In questi casi, piuttosto, il problema dell’applicazione degli artt.
38, 42 ss. e 50 c.p.c. riguarda le fasi successive, quando il destinatario passivo del provvedimento voglia reagire, dal momento che la
reazione si rivolge ad un giudice individuato non già in relazione ai
criteri fissati negli artt. 7 ss. c.p.c., ma per il legame stabilito dalla
legge tra il giudice che ha emesso il provvedimento e quello incaricato di sottoporlo a controllo.
Il tema è stato dibattuto soprattutto in relazione all’opposizione
a decreto ingiuntivo ed il caso di frequente presentatosi all’attenzione dei giudici è quello di un giudizio di opposizione nel cui ambito
si è introdotta una controversia di merito appartenente alla competenza funzionale di altro giudice. Qui la giurisprudenza ha affermato il carattere funzionale ed inderogabile della competenza del giudice dell’opposizione e su questa base è pervenuta alla esclusione della possibilità che egli si dichiari incompetente e trasferisca altrove la
causa.
La soluzione, a ben vedere, non tocca il cuore del problema, al
quale è possibile pervenire ponendo diversamente la questione. Bisogna chiedersi, infatti, che cosa succede se l’opposizione a decreto
ingiuntivo viene proposta davanti ad un giudice diverso dal giudice
dell’opposizione (se, ad es., emesso un decreto ingiuntivo dal presidente del tribunale di Roma, l’opposizione sia indirizzata al tribunale di Napoli). Parlare di competenza funzionale, in questo caso e
dopo la riforma dell’art. 38 c.p.c., serve a poco o, come osservavo in
premessa, può essere addirittura fuorviante. La prima domanda a cui
dare risposta è se in questo caso la competenza non continui ad essere requisito di validità dell’atto processuale, così come è stato prospettato da autorevole dottrina. I dubbi nascono considerando che
l’opposizione qui non si pone come atto che dà impulso al processo, ma come atto che consente al processo di “proseguire”. E per135
tanto è legittimo pensare che, in questi casi, l’atto di impulso, difforme dal modello legale quanto alla individuazione del giudice che ne
dovrebbe essere destinatario, non sia in grado di conseguire gli effetti suoi propri.
Tornando all’opposizione a decreto ingiuntivo si potrebbe dire,
allora, che l’opposizione non è validamente proposta ove sia inoltrata ad un giudice diverso da quello dell’opposizione. Una volta incardinata la causa davanti a quest’ultimo, che egli debba necessariamente trattenerla o non dipende da ulteriori valutazioni e, in particolare, dal ritenere che proposta l’opposizione, il decreto ingiuntivo
sia o non completamente assorbito nel giudizio di merito. Chi preferisce la prima soluzione, sarà incline a ritenere che il giudice dell’opposizione possa trasferire altrove l’intero processo, qualora sia stata
proposta una domanda che esula dalla sua competenza; chi è incline ad accettare la seconda soluzione, trova difficoltà ad ammettere
che il giudice della opposizione possa spogliarsi del controllo sul decreto.
È un problema, peraltro, destinato a sdrammatizzarsi col venir
meno dei criteri di competenza “forti”. Infatti, per effetto della riforma vi sono indubbie ripercussioni sugli artt. 30 ss. e sarà inevitabile interpretare queste disposizioni in maniera che sia consentito quasi sempre, nelle ipotesi di connessione, la trattazione simultanea della cause.
136
LE LINEE GENERALI DELLA LEGGE 26 NOVEMBRE
1990 N. 353; GLI INTERVENTI IN MATERIA DI
GIURISDIZIONE, DI COMPETENZA E DI
CONNESSIONE, ANCHE CON RIFERIMENTO ALLA
NORMATIVA SUL GIUDICE DI PACE (*)
Relatore:
prof.ssa Elena MERLIN
professore associato nell’Università di Urbino
1. Premessa.
Vengo dunque a parlare delle innovazioni introdotte dalle due
leggi di riforma in tema di connessione di cause. Il discorso è piuttosto complesso e tecnicamente impegnativo e tocca d’altra parte una
materia di enorme rilievo pratico. Basti pensare che la realizzazione
del processo simultaneo sulle cause connesse si pone per lo più come alternativa a quell’incidente che da tempo viene percepito come
una sorta di denegatio di tutela, e cioè alla sospensione necessaria di
uno dei due giudizi.
2. La necessità di un “rito del processo simultaneo”.
Le innovazioni del 1990 consistono nella introduzione di 3 nuovi commi, che ora rappresentano rispettivamente il terzo, quarto e
quinto dell’art. 40.
L’intento del legislatore è evidentemente di eliminare l’ostacolo
che alla realizzazione del processo simultaneo derivava dalla diversità
dei riti cui sono soggette le cause connesse. Le nuove decisioni non
incidono in alcun modo invece sull’ostacolo che alla realizzazione del
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 28 giugno al 2
luglio 1993.
137
processo simultaneo può derivare dalla presenza di competenze diverse e non suscettibili di proroga secondo i criteri, assai equivoci,
fissati dagli articoli 31 e segg. in tema di competenza per connessione. In altre parole, può dirsi che i nuovi 3 commi entrano in gioco
solo se si sia già constatata la possibilità di concentrare le cause connesse presso un medesimo ufficio giudiziario, che sia per entrambe
originariamente competente o lo sia divenuto per proroga in applicazione dei suddetti criteri di competenza per connessione (1 ??).
In particolare, non è inutile ricordare che, secondo l’opinione
più diffusa anche in giurisprudenza, alla stregua degli articoli 31 e
ss. la competenza per territorio semplice dovrebbe ritenersi sempre
derogabile; la competenza per valore sarebbe pure derogabile, ma
soltanto all’“insù” e cioè in favore del giudice superiore, salvi solo i
casi (che sono quelli di accessorietà e garanzia negli articoli 31 e 32)
in cui è espressamente prevista la deroga alla competenza per valore anche all’“ingiù”, vale a dire in favore del giudice inferiore. Del
tutto generalmente inderogabili (sia all’insù che all’ingiù, così come
per tutte le ipotesi di connessione qualificata) sarebbero invece, secondo questa dominante interpretazione, le competenze per materia
e quelle funzionali (2 ??).
In questo quadro, dal quale in sostanza emerge come già le competenze per materia e funzionali finiscono per rendere impossibile
(1) Per le indicazioni di giurisprudenza favorevole all’interpretazione di cui nel
testo (basata sull’idea della inderogabilità assoluta delle competenze per materia e funzionali e della derogabilità della competenza per valore del giudice superiore solo nei
casi espressamente previsti), v. MENCHINI, Sospensione del processo civile, in Enc.
dir., XLIII, Milano 1990, 34 nota 183. Tra i commentatori della riforma essa si ritrova esplicitamente sostenuta da ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova 1991, 22-23.
(2) È con rammarico che i commentatori rilevano il fatto che il legislatore non
abbia voluto prendere posizione anche sul problema delle deroghe di competenza, come pure si era proposto (TARZIA, Una proposta di riforma parziale del processo civile, in Giur. it., IV, 1988, spec. 4 s. dell’estr.): v. ad es. LUISO (– CONSOLO-SASSANI), La riforma del processo civile, I, Milano 1991, 26, anche se non manca chi ritiene che i nuovi due commi dell’art. 38 siano già sufficienti a sosteneere una rinnovata lettura degli artt. 31 ss.: v. spec. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo
civile, Napoli 1991, 20 ss., e, dal punto di vista dei nuovi commi 6 e 7 dell’art. 40,
LUISO (-CONSOLO– SASSANI), La riforma del processo civile, Milano 1993, 255.
138
la trattazione simultanea delle cause connesse, può ben intendersi
con quale e quanta insofferenza si guardasse alla circostanza che a
tale ostacolo debba poi finire per sovrapporsi, sempre in senso impeditivo del processo simultaneo, la diversità dei riti.
Il problema è “esploso”, se così si può dire, con la introduzione
del nuovo rito speciale del lavoro nel 1973 (3). Esso si presentava infatti così marcatamente diverso rispetto al rito ordinario da indurre
subito gli interpreti ad escludere la soluzione, prima praticata, del
cumulo delle cause connesse nel rispetto del rito per ciascuna di esse originariamente previsto. E la esclusione della “convivenza dei riti diversi” all’interno del medesimo processo si tradusse naturalmente
in una regola di inammissibilità del cumulo delle cause soggette a
riti diversi (4). L’occasione per il manifestarsi delle difficoltà pratiche fu offerta però non tanto dalle controversie di lavoro (dato il carattere generale ed onnicomprensivo della competenza fissata dall’art.
409) (5), quanto dalle controversie locatizie, poiché la legge c.d.
dell’equo canone (la 392/1978) estese il rito del lavoro soltanto ad alcune singole controversie inerenti il rapporto di locazione (art. 46
della legge). Esemplare della complicazione così creata e poi al centro del dibattito fu il caso della connessione fra la causa di sfratto
per morosità, soggetta al rito ordinario, e la causa intentata dal conduttore per la determinazione del canone legale, soggetta invece al
rito del lavoro (6).
(3) Per ampia illustrazione al riguardo v. spec. PROTO PISANI, Sulla tutela giurisdizionale differenziata, oggi in Appunti sulla giustizia civile, Bari 1982, 231 ss., e
TARZIA, Connessione di cause e processo simultaneo, in Pregiudizialità e connessione
nel processo civile, Atti del XVI Convegno Nazionale Associazione ital. fra gli studiosi
del proc. civ., Rimini 1989, 58 ss.
(4) V. tra i primi spec. ANDRIOLI (-PROTO PISANI-PEZZANO-BARONE), Le
controversie in materia di lavoro, 1ª ed., Bologna-Roma, 153 ss., TARZIA, Manuale del
processo del lavoro, 1ª ed., Milano, 69 ss..
(5) Per ampio riesame delle diverse ipotesi prospettabili v. comunque PROTO
PISANI (-ANDRIOLI-BARONE-PEZZANO), Le controversie in materia di lavoro, 2ª ed.,
Bologna-Roma 1987, 382 ss.
(6) Non mancavano però pronunce che episodicamente affermavano la possibilità che la causa connessa abbia vis actractiva anche del rito: v. ad es. Cass. 4 giugno
1981 n. 3620, in Foro it., 1981, 2181 (la domanda di regresso proposta dall’Inail nei
confronti del datore di lavoro responsabile dell’infortunio di lavoro attrae al rito del
lavoro anche la causa ordinaria scaturente dalla domanda di garanzia impropria pro-
139
Il problema delle controversie locatizie è stato risolto alla radice e in modo quasi completo dalla Novella, che con i nuovi artt. 2
n. 3, 447 bis, e 667, generalizza per le cause di locazione e comodato di immobili urbani la competenza per materia del pretore e la
estensione del rito del lavoro, in quella versione attenuata che si vede riflessa nell’art. 447 bis (7).
Nonostante ciò il legislatore ha preferito egualmente introdurre
delle regole generali di determinazione del “rito del processo simultaneo”, e probabilmente bene ha fatto anche perché ancora non può
dirsi quanto la tendenza degli ultimi decenni alla proliferazione dei
riti speciali sarà contrastata proprio dalla introduzione ad opera della Novella di un più efficiente rito ordinario.
3. L’ambito di applicazione dei nuovi commi 3 e 4 dell’art. 40: in particolare, il richiamo “selettivo” agli artt. 31 ss.
Lasciando per il momento da parte l’analisi dei criteri dettati
dalle nuove disposizioni per individuare il rito prevalente, veniamo
subito ad occuparci del loro nuovo ambito di applicazione.
Mi sembra chiaro anzitutto che esso non coincide con quello
spettante al 1° comma dell’articolo 40. E ciò sotto vari profili.
– In primo luogo il 1° comma dell’art. 40 si occupa soltanto
dell’ipotesi in cui le cause connesse siano state separatamente proposte davanti a giudici diversi e vengano successivamente riunite. I
commi 3 e 4 prendono invece più generalmente in considerazione le
posta dal datore di lavoro), nonché, su analoga fattispecie, Cass. 17 aprile 1990, n.
3162, Mass. Giur. it., 1990, 469-470, e, in materia locatizia, Cass. 26 giugno 1981 n.
4149, id., 1981, I, 2168. Per analoghi tentativi di superamento del problema in via interpretativa v. tra gli altri PROTO PISANI, Tutela giurisdizionale differenziata, cit., 239
ss., 296 ss., TARZIA, Sulla tutela giurisdizionale delle locazioni urbane, cit., 70 ss., LUISO, Procedimento di convalida di sfratto ecc., in Giust. Civ. 1982, II, 71 ss., GARBAGNATI, Effetti sulla competenza della domanda riconvenzionale di determinazione
dell’equo canone, in Giur. It. 1985, I, 1, 1130, CONSOLO, Determinazione del canone
locativo e risoluzione per morosità etc. in Giur. It., 1983, I, 1, 642.
(7) Sulla versione “attenuata” del rito del lavoro nel nuovo art. 447 bis v. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit., 6 ss., TARZIA, Lineamenti del
nuovo processo di cognizione., Milano 1991, 30 ss.
140
ipotesi di “ cause cumulativamente proposte o successivamente riunite”, comprendendo così anche il caso in cui non vi sia stata alcuna necessità di assumere un provvedimento di riunione in base al 1°
comma (8).
– In secondo luogo le regole dettate dai commi 3 e 4 sono destinate ad applicarsi anche nei casi in cui il cumulo avviene per riunione che sia però disciplinata da norme diverse dal 1° comma
dell’art. 40. Penso qui – oltre che all’ipotesi della riunione disposta
per continenza in base all’art. 39, 2° comma, interpretato dalla giurisprudenza, secondo un indirizzo che condivido, in senso assai estensivo anche al caso in cui la riunione sia disposta in base all’art. 274,
poiché le cause pendono davanti al medesimo ufficio giudiziario (9).
Ma può pensarsi anche al caso in cui si tratti di riunione di cause
di competenza del tribunale ed attribuite rispettivamente, in base alla nuova disciplina, alla funzione decisoria del collegio oppure del
giudice unico; riunione che è disciplinata dal nuovo art. 274 bis (10)
(in sostanza il giudice istruttore dovrà ritenersi legittimato a disporre la riunione prevista dall’art. 274 bis anche se una delle due cause risulti soggetta a un rito speciale, come può essere se si tratta di
rito camerale su diritti, e ciò in diretta applicazione delle regole fissate dai nuovi commi dell’art. 40).
– In terzo luogo la differenza attiene al fatto che il 3° comma richiama figure qualificate di connessione (e tra esse nemmeno tutte
dato il mancato richiamo dell’art. 33), anziché discorrere, come è nel
1° comma, genericamente di “connessione”. In particolare sono richiamate espressamente, come si vede, le figure dell’accessorietà, della garanzia, della pregiudizialità, della compensazione e della riconvenzione.
(8) Conf. LUISO (-CONSOLO-SASSANI), La riforma del processo civile, I, Milano 1991, 23, TARZIA, Lineamenti, cit., 34.
(9) Conforme rilievo in ATTARDI, Le nuove disposizioni cit., 26, LUISO, op. loc.
ult. cit., TARZIA, op. loc. ult. cit..
(10) Un accenno, sebbene non chiarissimo in proposito, in ATTARDI, Le nuove
disposizioni cit., 271.
141
Il legislatore ha inteso così ricollegarsi, come è noto, alla proposta di chi, posto di fronte al problema della derogabilità o meno
dei riti per ragioni di connessione, aveva autorevolmente suggerito
di distinguere tra due diverse specie di connessione, e cioè la connessione per coordinazione e la connessione per subordinazione (11).
I casi di coordinazione corrispondono in questa visione a quelli in cui alla connessione non si accompagna il rischio, in caso di
separata decisione, di un vero e proprio conflitto pratico di giudicati (nel senso che le contrastanti pronunce potrebbero materialmente
convivere senza interferenze reciproche), di modo che il cumulo stesso risponde soltanto ad esigenze di economia e di mera armonia logica tra i giudicati. Esempio tipico sarebbe dato dal litisconsorzio facoltativo fondato su mera identità della causa petendi, quale è quello della pluralità di danneggiati in un medesimo sinistro che agiscano insieme contro il comune danneggiante; oppure da talune ipotesi di domanda riconvenzionale compatibile (12) o anche dalla connessione c.d. impropria data dalla identità di singole questioni.
La connessione per subordinazione (intesa la subordinazione sia
in termini di vera e propria pregiudizialità sia in quelli di interdipendenza fra domande, sia ancora come idonea a comprendere i casi del cumulo alternativo, condizionale ed eventuale di azioni o ancora di concorso di azioni) corrisponde invece ai casi in cui la separata decisione sulle domande connesse importa il rischio di un
conflitto pratico di giudicati (13). Esempio tipico è dato dalla domanda riconvenzionale incompatibile, quale è quella di annullamento
o risoluzione di un contratto proposta a fronte della domanda di esecuzione del medesimo. Ma vi si facevano altresì rientrare talune ipotesi particolari di litisconsorzio facoltativo, e cioè quelle c.d. di litisconsorzio unitario in cui pure emerge con nettezza una esigenza di
(11) E, cioè, come è noto, alla proposta di TARZIA, Connessione di cause, cit. 44
ss., oggi ripresa in ID., Lineamenti cit., 33 ss.. Una distinzione non dissimile terminologicamente impostata come “connessioni deboli” e “connessioni forti” in FABBRINI, Connessione, in Enc. Giur. Treccani, Roma 1988.
(12) TARZIA, Connessione di cause, cit., 62.
(13) TARZIA, op. cit., 63, e 72 per il litisconsorzio “alternativo e condizionale”.
142
coordinamento dell’assetto dei diversi rapporti sostanziali (14) (si
pensi al campo delle obbligazioni solidali e alla esigenza di coordinamento imposta dal “gioco” dei regressi interni).
Naturalmente questo tipo di distinzione coinvolge in ampia misura una valutazione di tipo latamente discrezionale, poiché al fine
di stabilire la ricorrenza di una connessione dell’uno o dell’altro tipo l’interprete non può che affrontare il quesito intorno all’eventuale rischio del conflitto pratico delle pronunce (la cui valutazione finisce per dipendere da opzioni non strettamente “legali”) o quantomeno intorno alla esigenza del coordinamento tra le situazioni sostanziali. E difatti l’autore della proposta aveva esplicitamente parlato della necessità di recuperare, da una risalente tradizione, una
nozione “discrezionale” della connessione in contrapposizione a quella nozione “legale” agganciata a presupposti predeterminati dal legislatore (15), cui in qualche modo sembra essere andato il favore del
codice del 1942.
Le cose, come si vede, non sono però poi andate così in sede di
traduzione della proposta in termini normativi. Infatti, nel nuovo 3°
comma (come anche nel 6° a proposito del giudice di pace, sicché il
discorso può svolgersi unitariamente da questo punto di vista), la nozione di connessione per subordinazione è data in termini di stretta
legalità (e cioè con richiamo a singole, ben determinate figure legali di connessione) e non certo di discrezionalità; né si fa riferimento esplicito al pericolo di “inconciliabilità delle pronunce” che dovrebbe essere sotteso a questo tipo di connessione.
La scelta è probabilmente dovuta a ragioni di semplicità o di
aderenza al disegno originario del codice. Sulla sua tenuta tecnica è
oggi possibile interrogarsi sotto due diversi profili.
(14) Sul litisconsorzio facoltativo ma “unitario” (comprrendente anche le ipotesi di domande incompatibili tra parti diverse o di domande relative a rapporti plurisoggettivi), v. COSTANTINO, Contributo allo studio sul litisconsorzio necessario, Napoli 1979, 146 ss., CIVININI, Note per uno studio sul litisconsorzio “unitario” ecc., in
Riv. trim. dir. e proc. civ., 1983, 429 ss.
(15) TARZIA, op. ult. cit., spec. 47, 52.
143
L’uno è quello relativo alla congruità dei richiami positivamente operati, dal punto di vista della effettiva corrispondenza di tali figure ad ipotesi di connessione per “subordinazione”.
Il dubbio può porsi, come si è notato (16) per il richiamo non
discretivo alla riconvenzionale, e dunque all’art. 36, poiché si finisce
così per comprendere anche ipotesi, in materia di riconvenzionale
compatibile, che non sembrano porre problemi di conciliabilità pratica delle pronunce. Si pensi ad esempio al caso in cui l’attore chieda l’adempimento di una prestazione sulla base di un contratto di
durata e il convenuto chieda il risarcimento dei danni causati da un
inadempimento dell’attore relativo però ad un diverso precedente episodio di esecuzione del contratto (17). Se ciò è vero, esigenze di semplicità hanno forse sconsigliato di distinguere tra tipo e tipo di riconvenzionale (18) e la scelta non merita di essere censurata (19).
Semmai, ma il discorso ha rilievo soprattutto per il 6° comma e dun-
(16) V. spec. PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 32-33.
(17) PROTO PISANI, op. loc. ult. cit. fa anche l’esempio della “domanda di consegna del bene a fronte della domanda principale di pagamento del prezzo”; tuttavia,
sebbene si tratti indubbiamente di domanda riconvenzionale compatibile (i.e. il cui accoglimento non presuppone il rigetto della domanda principale), il collegamento appare qui piuttosto forte in virtù del nesso sinallagmatico tra le due prestazioni: difatti PROTO PISANI precisa che il caso può tributarsi all’area della connessione debole solo se
il contratto-causa petendi non sia contestato nella sua esistenza, validità od efficacia.
(18) Così giustificano la mancata distinzione PROTO PISANI, op. loc. ult. cit. e
TARZIA, Una proposta, cit., 5 nota 3.
(19) In sostanza, in virtù della mancata distinzione, la connessione per comunanza di “titolo” è sufficiente ad attrarre la riconvenzione nell’area della connessione
per subordinazione. Non così invece se non si tratti di domande riconvenzionali, come è nel caso di domande connesse per il titolo ma tra parti diverse (ad es. la causa
ordinaria di risarcimento del danno derivante da un sinistro e la causa previdenziale
nei confronti dell’Inail per il medesimo sinistro), oppure di domande connesse per il
titolo proposte dal medesimo attore nei confronti del medesimo convenuto (ad es. più
domande relative a distinte prestazioni maturate nel tempo sulla base di un contratto di durata). Vero è però anche che se il “titolo” è rappresentato da un contratto è
difficile immaginare l’operatività di riti diversi, i quali si applicano in virtù della “materia”, sicché la disparità sembra sussistere solo per l’ipotesi in cui il “titolo” sia dato da un fatto storico.
144
que a proposito del giudice di pace (20), si potrà continuare in ipotesi siffatte a ritenere il cumulo come opportuno solo per esigenze
di economia e così continuare a fare applicazione della possibilità di
separazione delle cause.
Si è poi dubitato della opportunità del richiamo alla connessione per compensazione (21). Tuttavia i dubbi non hanno a mio avviso ragione di sussistere (22). Anzi proprio perché i due crediti compensabili possono trarre origine da rapporti completamente diversi
(si pensi al credito comune opposto in compensazione a un credito
di lavoro o a un credito locatizio), quello della compensazione è il
campo che potrà offrire le più notevoli e frequenti occasioni di applicazione delle nuove regole sul rito. Basti pensare che, se la deroga non fosse ammessa, il giudice si troverebbe nella impossibilità di
assicurare la trattazione simultanea sul credito principale e sul controcredito contestato anche se egli sia competente per entrambi con
conseguente necessità di fare ricorso alla sospensione necessaria del
(20) Nel senso che solo qui si tratta di evitare che, attraverso la riconduzione en
bloc della riconvenzionale all’area della connessione per subordinazione, il giudice debba considerarsi obbligato a disporre lo “spostamento della competenza” dell’intera causa al giudice superiore senza poter provvedere alla separazione delle domande. Sul
punto v. infra nel testo.
(21) PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 32, che accosta il caso a quello
della riconvenzionale compatibile appena menzionato. In effetti l’art. 35 non era richiamato neppure nella proposta di TARZIA, Connessione, cit., 62, e ID., Una proposta di riforma parziale, cit., 5 e 17 dell’estr. Ciò è dovuto al fatto che l’A. sembra presupporre che, anche quando il controcredito sia contestato, di esso si decida incidenter tantum ai soli fini dell’eccezione di compensazione, e cioè nei limiti dell’importo
compensabile. Questa è la premessa che consente all’A. di considerare come connessione per “coordinazione” l’ipotesi della domanda riconvenzionale proposta per la “parte eccedente la quantità opposta in compensazione”. Secondo l’interpretazione dell’art.
35 qui seguita, invece, la contestazione determina la necessità di decidere del controcredito con efficacia di giudicato anche se esso sia contenuto nei limiti di importo del credito principale oppure se, essendo superiore, dell’esubero non è richiesto il
pagamento in via riconvenzionale. Ecco dunque perché, una volta separate le “cause”
sui due crediti, il giudice non potrebbe comunque decidere dell’eccezione di compensazione se non incorrendo nel rischio del conflitto di giudicati relativamente al
controcredito stesso.
(22) Naturalmente, è sottinteso che il richiamo all’art. 35 ha “un significato (…)
solo se, sollevata dal convenuto l’eccezione di compensazione, il controcredito sia contestato e diventi, di conseguenza, oggetto di un accertamento incidentale”: per tutti
ATTARDI, Le nuove, cit., 25.
145
processo (23). Semmai l’alternativa avrebbe potuto essere data da
una applicazione allargata in casi siffatti della condanna con riserva
disciplinata nell’art. 35, come invero è già previsto in altri ordinamenti (24).
Da altro punto di vista si tenga presente che, contrariamente a
quanto si è sostenuto (25), anche per la compensazione può darsi
l’ipotesi che le due cause connesse (quelle sul credito e sul controcredito) pendano separatamente (26): basti pensare al caso del convenuto che eccepisce in compensazione un credito in precedenza esercitato in via di azione e dunque oggetto di un separato processo pendente; poiché la sua eccezione non può ritenersi impedita dalla litispendenza, l’ipotesi rientra appunto linearmente nella connessione
per compensazione. Vero è in proposito soltanto che affinché i separati processi relativi a crediti reciproci delle medesime parti possano considerarsi connessi nel senso voluto dalla norma è necessario che in almeno uno dei due sia stata sollevata l’eccezione di compensazione (27).
(23) Infatti, nelle ipotesi di controcredito soggetto ad un rito diverso (oppure
spettante alla competenza inderogabile di altro giudice) non si riteneva di consueto
applicabile la condanna con riserva dell’eccezione di compensazione, che è esplicitamente prevista nell’art. 35 solo per l’ipotesi in cui opera la deroga alla competenza
per connessione e il credito principale sia fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile. Per la esclusione del ricorso alla condanna con riserva in assenza
dei requisiti fissati dall’art. 35 (sebbene a proposito della domanda riconvenzionale)
anche quando il processo simultaneo non sia attuabile per ragioni di competenza o
rito, v. ad es. PROTO PISANI, Tutela giurisdizionale differenziata, cit., 240.
(24) Così in particolare il par. 302 della Zpo tedesca che consente in linea del
tutto generale l’adozione della condanna con riserva (in alternativa al cumulo e alla
trattazione congiunta) in tutte le ipotesi in cui tra i due crediti compensabili non vi
sia connessione per il titolo.
(25) ATTARDI, Le nuove, cit., 25, PROTO PISANI, La nuova, cit., 32.
(26) Prevista, nel 3° comma, accanto a quella delle cause “cumulativamente proposte”.
(27) Salva l’incidenza di quell’orientamento giurisprudenziale – che andrebbe effettivamente rimeditato – che, per il caso di crediti reciproci derivanti da un medesimo rapporto, parla di “mero calcolo di dare e avere” e di rilevabilità d’ufficio della
“impropria compensazione”: esso dovrebbe infatti condurre a rigore a considerare le
cause relative ai crediti reciproci come legate da connessione per subordinazione anche se non sia stata sollevata l’eccezione di compensazione.
146
L’altro profilo di valutazione della tenuta tecnica del rinvio selettivo agli artt. 31 e ss. è di assai maggiore rilievo ai fini della complessiva interpretazione della norma. L’interrogativo che occorre qui
porsi è, in sostanza, se tale rinvio selettivo vada inteso in senso letterale e tassativo, come sembrerebbe nelle intenzioni del legislatore,
oppure invece in senso solo “indicativo”, e dunque con una valenza
di natura essenzialmente “sistematica”. Ebbene, la mia impressione
è che la scelta per l’interpretazione dei rinvii in chiave letterale e tassativa aprirebbe la via a rilevanti difficoltà e che sia così la seconda
– quella, per così dire, “sistematica” – la prospettiva da coltivare.
Per persuadersene, si comincia a notare che le definizioni di connessione stigmatizzate negli artt. 31 e ss. sono tutte ritagliate sull’ipotesi che le domande connesse vengano sin dall’origine proposte nel
medesimo processo. Proprio perciò non è affatto detto che a tali definizioni risulti poi possibile continuare a riferirsi là dove se ne debba fare applicazione, come nel nostro caso, anche se le domande siano proposte separatamente. L’osservazione ha rilievo pratico soprattutto a proposito della riconvenzione, la quale evidentemente si definisce come tale essenzialmente in virtù del fatto di essere proposta
da parte di chi assume il ruolo del convenuto e di essere inserita sin
dall’origine nel medesimo processo.
Se così è, cosa dovremmo dire allora delle ipotesi di domande
contrapposte e incompatibili tra le medesime parti, ma separatamente
proposte in via principale? Si pensi, ad esempio, al caso in cui siano separatamente proposte domanda di adempimento di un contratto
e domanda di annullamento del medesimo; oppure alle contrapposte domande di risoluzione e simulazione dello stesso contratto e così via. In questi casi non sembra possa dirsi a rigore che tra le domande esista un nesso di “riconvenzionalità” nel senso presupposto
dall’art. 36. Né il problema potrebbe sempre risolversi assumendo
che l’oggetto del richiamo non sia di per sé la nozione di “riconvenzione”, ma il nesso di connessione per il titolo che compare all’art.
36 in quanto presenta tra domande contrapposte tra le medesime
parti: fuori dal richiamo resterebbero comunque le ipotesi in cui il
collegamento tra le due domande incompatibili sia dato dal petitum
anziché dalla causa petendi, come è ad esempio nel caso in cui esse
siano tese al riconoscimento di contrapposti diritti reali di godimento
sul medesimo bene che si escludano a vicenda. Significativi da questo punto di vista sono anche i casi di domande proposte dalla me147
desima parte che costituiscano esercizio di azioni concorrenti come
può essere l’azione diretta ad ottenere il conseguimento di una controprestazione contrattuale rispetto all’azione di arricchimento senza causa relativa al medesimo episodio di vita (28). Si tratta di casi
che senza dubbio rientrerebbero, visto il pericolo di inconciliabilità
delle pronunce, nell’area della connessione per subordinazione e che
pure non appare semplice assoggettare alle nuove disposizioni per il
tramite del richiamo all’art. 36.
Certo per almeno alcuni di questi casi la riconduzione al campo
di applicazione dei nuovi commi dell’art. 40 potrebbe essere comunque guadagnata adottando una nozione “ampia” di pregiudizialità e
dunque per il tramite del rinvio all’art. 34. E però non può non notarsi come sia proprio con riguardo ai casi di contrapposte domande incompatibili o interdipendenti che la giurisprudenza ha sovente
avuto occasione di escludere il ricorrere della pregiudizialità ai fini
dell’applicazione della sospensione necessaria (ex art. 295) (29). Né
mi pare comunque corretto che la comprensione delle singole ipotesi nel campo di applicazione delle nuove disposizioni debba essere
fatta dipendere da qualificazioni di così grande rilievo dogmatico, anziché dalla semplice e piana constatazione della presenza di un rischio di “pronunce inconciliabili”. D’altro canto che le figure di connessione delineate dagli artt. 31 ss. non possano proporsi come puntuale riferimento ai fini ora in discorso mi sembra constatazione imposta anche dal fatto che esse si presentano senza dubbio nell’originario impianto del codice come figure di “connessione c.d. qualificata”, ma qualificata, si badi, perché impegnative di una proroga del-
(28) Naturalmente, non interessa qui stabilire se il caso esemplificato rappresenti veramente un’ipotesi di concorso di azioni, oppure di mera concorrenza di causa petendi della medesima azione. Importante è solo avvertire che senz’altro possono
esservi casi di connessione per subordinazione (come appunto quelli del concorso di
azioni o delle domande alternative) che non sembrano pienamente riconducibili alle
definizioni di cui agli artt. 31 ss.
(29) Cfr. le indicazioni in MANDRIOLI, Corso di dir. proc. civ., 8ª ed., II, Torino 1991, 267 nota 3 e 269 nota 7, ove si segnala che la sospensione viene negata ove
manchi “un rapporto di antecedenza logica necessaria” dell’un giudizio rispetto all’altro, come ad es. nei casi di contrapposte domande di risoluzione o annullamento, di
risoluzione o simulazione, o di nullità e scioglimento del matrimonio.
148
le competenze ordinarie, e non certo, o comunque non necessariamente, perché implicanti un rischio di giudicati inconciliabili.
Il problema si pone in termini di ancor maggiore evidenza se si
pone mente all’esclusione dell’art. 33 dall’area della connessione per
subordinazione. Se i rinvii andassero intesi in senso letterale e tassativo, dovremmo qui concludere nel senso che l’intera categoria del
processo litisconsortile sia escluso dal campo di applicazione delle
nuove disposizioni, con la sola eccezione, fatta salva dal richiamo
espresso all’art.32, del litisconsorzio originato dalla proposizione di
una domanda di garanzia. Ma la conclusione non può non lasciare
insoddisfatti se si pensa che in tal modo si escluderebbero casi in
cui l’esigenza di coordinamento tra le discipline sostanziali dei rapporti si pone in termini non equivocabili.
Penso, in particolare, ai casi di garanzia c.d. impropria, come
può darsi, ad esempio, se il datore di lavoro, convenuto dall’Inail o
dal lavoratore in relazione a un infortunio sul lavoro, abbia a chiamare in garanzia il suo assicuratore per la responsabilità civile (30).
Anche qui la comprensione del caso nell’area delle nuove disposizioni finirebbe per dipendere da opzioni assai impegnative, e cioè
dalla possibilità, da sempre dibattuta e per lo più esclusa, di ricondurre anche la garanzia impropria alla disciplina dettata dall’art. 32
(31), o comunque di inquadrarla in termini di pregiudizialità (32).
Lo stesso è a dirsi per le ipotesi di litisconsorzio c.d. unitario, e cioè
quelle ipotesi in cui, pur essendo facoltativo, il litisconsorzio realizza un cumulo di cause inscindibili nella trattazione e decisione: esempi classici ne sono le domande relative alle obbligazioni solidali oppure le domande tra parti diverse legate da incompatibilità (33).
(30) Altro esempio offerto dalla prassi è quello del lavoratore chiamato in garanzia (considerata impropria).
(31) In senso negativo v. ad es. ATTARDI, Le nuove disposizioni, cit., 24, e Cass.
4 febbraio 1987 n. 1080. In senso diverso v. la recente Cass. 3182/1990 cit. Per la esclusione della garanzia impropria dall’area dei nuovi commi dell’art. 40 v. anche LUISO,
La riforma, II, cit., 245s. (che però dubita della correttezza dell’opinione che esclude
la sua riconducibilità all’art. 32) e PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 33.
(32) V. spec. PROTO PISANI, Note in tema di limiti soggettivi della sentenza civile, in Foro it., 1983, I, 2383ss., par. 2.5.
(33) Identico rilievo quanto alla esclusione del litisconsorzio unitario in PROTO
PISANI, op. loc. ult. cit..
149
D’altro canto, per considerare oggi non decisivo il mancato richiamo dell’art. 33 non può non essere rilevante ricordare che esso
è stato tecnicamente giustificato con un’osservazione che non si attaglia più al contenuto della norma. Infatti, si osservava che la esclusione dell’art. 33 si giustificava col fatto che non può ammettersi che
il mutamento del rito “sia opera di una mera scelta dell’attore” (34):
ma il rilievo si collegava a sua volta al fatto che ci si muoveva allora nella prospettiva che vedeva la scelta del rito prevalente in linea
generale agganciata al criterio della causa in ragione della quale viene determinata la competenza (35), e non invece operata, come è oggi nel 3° comma, in linea generale ed astratta in ragione del “tipo”
di rito. Ed è evidente che in tale diversa prospettiva, la circostanza
che l’art. 33 lasci all’attore di scegliere il giudice territorialmente competente per la causa litisconsortile non varrebbe più a legittimare
l’equazione secondo cui gli è rimesso altresì di scegliere a suo piacimento il rito del processo simultaneo – che è stabilito, almeno nel
3° comma, in modo del tutto indipendente da quello in cui operano
le deroghe di competenza (36).
A proposito delle ipotesi litisconsorzio unitario autorevole dottrina ha ora osservato che nei casi eccezionali in cui le cause dovessero essere soggette a riti diversi (dal punto di vista del giudice
di pace a diverse competenze non derogabili) “l’esigenza superiore
di prevenire il formarsi di giudicati (nella sostanza praticamente)
contraddittori” dovrebbero trovare tutela negli “accorgimenti interpretativi” che già la dottrina e la giurisprudenza avevano messo in
atto prima della Novella del 1990, anziché nella applicazione dei criteri dettati dai nuovi commi dell’art. 40 (37). Ad esempio questa stes-
(34) Così TARZIA, Una proposta , cit., 5, poi seguito su questo punto dal legislatore.
(35) Così infatti era formulata la proposta di TARZIA, op. loc. ult. cit..
(36) Il problema dell’”arbitrio” dell’attore nella scelta dell’attore potrebbe oggi al
più proporsi, riconducendo anche taluni tipi di controversie litisconsortili, alla nuova
disciplina, solo per il 4° comma, e cioè per l’ipotesi di concorso di diversi riti speciali.
Esso potrebbe superarsi, però, facendo applicazione in casi siffatti del criterio subordinato della prevalenza del giudice (territorialmente competente) per la causa di maggior valore.
(37) PROTO PISANI, op. loc. ult. cit..
150
sa dottrina argomentava, prima, nel senso della generale prevalenza
del rito speciale e della attrazione della causa connessa presso il giudice inferiore competente per materia (38), e dunque argomentava
in favore di regole che non sono compiutamente coincidenti con quelle fissate dalle nuove disposizioni (39).
Come già anticipavo, credo, invece, che l’ostacolo debba essere
superato alla radice interpretando i richiami (agli artt. 31-32-34-3536) in senso non letterale e tassativo, e così facendo applicazione delle nuove norme in tutti i casi in cui il processo simultaneo risulti
opportuno per la presenza di una obiettiva esigenza di coordinamento
dei rapporti sul piano sostanziale, che renda non meramente teorica o logica la inconciliabilità delle pronunce. Tale lettura sistematica consentirebbe in particolare sia di assoggettare alle nuove regole
ipotesi di connessione che non compaiono tra quelle espressamente
richiamate (ed in particolare alcune ipotesi di processo litisconsortile), sia in linea più generale di fare applicazione di tali regole prescindendo dal fatto che il singolo caso si lasci puntualmente ricondurre alle definizioni positive di connessione espressamente richiamate. Punto di riferimento logico e funzionale di siffatta interpretazione potrebbe essere dato dalla nozione di connessione che positivamente fornisce la Convenzione di Bruxelles del 1968 al fine di consentire la riunione delle cause: assai pragmaticamente infatti l’art. 22
della Convenzione definisce come connesse “le cause aventi tra di loro un legame così stretto da rendere opportune una trattazione e decisioni uniche per evitare soluzioni tra di loro incompatibili ove le
cause fossero trattate separatamente” (40).
L’interpretazione che propongo è diretta in sostanza a garantire
una coerente applicazione delle nuove norme ed in quanto tale sottende evidentemente anche un giudizio di valore positivo circa i cri-
(38) Cfr. PROTO PISANI (-ANDRIOLI-BARONE-PEZZANO) Le controversie, 2ª
Ed., cit., spec. 384, 386-387.
(39) Infatti, dal punto di vista della competenza, i nuovi commi 6 e 7 privilegiano la regola della attrazione presso il giudice superiore anche in deroga alla competenza per materia del giudice inferiore (o del giudice di pace).
(40) D’altro canto alla valorizzazione dell’art. 22 della Convenzione già accennava, e non solo de lege ferenda, TARZIA, Connessione di cause, cit., 46.
151
teri dettati per la scelta del rito. La scelta effettuata per la tendenziale prevalenza del rito ordinario e la contemporanea salvezza assicurata al processo del lavoro in senso stretto valgono infatti a mio
avviso a mettere il nucleo delle nuove regole al riparo da brusche eccezioni di incostituzionalità. Tanto è necessario precisare perché non
mancano, invece di affacciarsi interpretazioni che, sulla scorta di una
certa sospettosa insofferenza per le nuove regole, sono dichiaratamente dirette a fornire una lettura restrittiva degli stessi rinvii letterali degli artt. 31 ss.
4. Il rito “prevalente” nei nuovi commi 3 e 4 dell’art. 40.
Veniamo adesso al contenuto delle nuove disposizioni. La direttiva prescelta è quella della creazione del “rito del processo simultaneo”, individuato nel 3° comma del rito ordinario per l’ipotesi di sua
concorrenza con un rito speciale. Vistosa eccezione alla regola, è data dalla prevalenza del rito del lavoro sul rito ordinario, assicurata
però soltanto quando una delle controversie connesse sia effettivamente di lavoro ai sensi dell’art. 409 o abbia natura previdenziale/assistenziale ai sensi dell’art. 442. Ciò vuol dire, in sostanza, che se la
causa connessa è soggetta al rito del lavoro, ma non rientra tra quelle di cui agli artt. 409 e 442 (perché è, ad esempio, di natura locatizia), torna ad essere applicabile la regola della prevalenza del rito
ordinario.
Non è qui più utile, credo, dibattere sulla opportunità delle scelte compiute (41), e in particolare sulla scelta di determinare il rito
prevalente con un criterio astratto e predeterminato. Basta soltanto
ricordare che la scelta di principio a favore del rito ordinario e a
(41) Esse corrispondono agli auspici di VERDE, Considerazioni sul progetto Vassalli (a proposito di riforme parziali e urgenti del processo civile), in Foro it., 1989, V,
250ss. 264. Diverso il criterio presente nel progetto governativo (corrispondente ai
suggerimenti di TARZIA, Connessione di cause e processo simultaneo, 441 ss.), che
coincideva con quello ora previsto al 4° comma per le cause soggette a differenti riti speciali: sul punto v. lo stesso TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, cit., 39.
152
scapito del rito speciale risulta motivata con il rilievo secondo cui il
primo è in fondo il rito “previsto da legislatore per la generalità delle controversie” e che “offra maggiori garanzie” (42). Ed in effetti la
scelta risponde all’idea di un “rilancio” del processo ordinario che
non poteva mancare nel momento in cui se ne rinnovano così incisivamente le strutture (43) ed assume quindi anche il valore di un
apprezzato segnale di inversione di tendenza rispetto alla linea della decodificazione e differenziazione degli statuti processuali disordinatamente seguita negli ultimi decenni proprio sulla base della insofferenza per il modello ordinario.
Ovvia è anche la ragione della inversione della regola a proposito delle controversie ex artt. 409 e 442, che danno luogo alla prevalenza del rito speciale e all’assoggettamento allo stesso della controversia “ordinaria” (44). La predisposizione di un rito speciale per
questo tipo di controversie appare qui infatti dettata non da semplici ragioni tecniche o di “accelerazione”, bensì da esigenze di natura
in senso lato politica (vale a dire, si colloca sul piano delle modalità
di tutela di determinate situazioni sostanziali) (45). Lasciar cedere
in questo ambito il rito speciale al rito ordinario avrebbe veramente significato porre un grave limite ad una esperienza ventennale di
enorme impatto sociale. Basti pensare che l’eventualità del processo
simultaneo – e la prevalenza del rito ordinario – ben avrebbe potuto essere innescata dalla semplice eccezione di compensazione del
datore di lavoro fondata su un credito non di lavoro. Certo è vero
che, in virtù della generalizzata prevalenza assicurata al rito del lavoro, esso finirà per doversi applicare anche nelle ipotesi in cui la
causa di lavoro non avrebbe forza attrattiva dal punto di vista della
(42) V. VERDE, op. loc. ult. cit., e la Relazione Acone-Lipari in Doc. Giust., 1991
n. 10, 11.
(43) V. per questa direttrice VERDE, Unicità e pluralità dei riti nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1984, 681ss., 684ss., anche se il rilievo era collegato alla creazione di un processo ordinario “agile e moderno”, che non sembra del tutto coincidere invero con quello che “uscirà” dalla riforma.
(44) Sul punto v. ancora VERDE, Unicità, cit., 681.
(45) Cfr. in proposito VERDE (-DI NANNI), Codice di procedura civile. Legge 26
novembre 1990 n. 353, Torino 1991, 15 s.
153
competenza, come è se essa sia la causa di garanzia (46) od accessoria rispetto ad una causa principale soggetta dal rito ordinario (47).
Ma è anche vero che non sarebbe stato facile introdurre qui una sottodistinzione tra tipo e tipo di connessione, ulteriore rispetto a quella già implicita nel richiamo selettivo agli artt. 31 e ss. (48).
Per quanto riguarda il campo di applicazione della regola di prevalenza del rito ordinario, e dunque l’individuazione degli “altri” riti speciali, si pensa di consueto al rito camerale su diritti, al rito in
materia di sanzioni amministrative di cui alla L. 689/1981, al contenzioso elettorale (d.p.r. 570/1960 modificato dalla L. 1147/1966)
(49). Ma le ipotesi che più spesso daranno occasione di applicare la
regola saranno senza dubbio le controversie non di lavoro o non previdenziali cui si applichi il rito del lavoro in senso lato. I casi sono
quelli delle controversie in materia di locazione di immobili urbani
ex art. 447 bis, alle controversie agrarie nelle leggi 203/1982 (art. 47)
e 29/1990 (art. 9) – ad eccezione di quelle comprese nella previsio-
(46) Anche se, in linea pratica, è assai più facile che la controversia di lavoro
sia la principale e la controversia ordinaria sia di garanzia. Per un caso opposto v.
tuttavia Trib. Salerno 28 gennaio 1983, in Foro it., 1983, I, 2009 (in quel caso, a fronte di una domanda ordinaria di risarcimento dei danni innanzi al tribunale, il convenuto propose domanda di garanzia nei confronti del terzo lavoratore dipendente del
convenuto medesimo). Questi erano i casi in cui la dottrina mostrava perplessità nel
lasciar prevalere il rito del lavoro, anche se propensa ad argomentare in linea generale in senso opposto: v. spec. PROTO PISANI (-ANDRIOLI-PEZZANO-BARONE), Le
controversie, 2ª ed., cit., 389 (anche se poi l’A. sembra estendere la perplessità alla
“pregiudizialità” in generale).
(47) Per le connessioni da pregiudizialità, compensazione, riconvenzione (artt.
34-35-36) il dubbio non ha vero spessore, poiché non v’è qui una forza attrattiva “a
senso unico” dell’una causa sull’altra già dal punto di vista della competenza v. infra
nel testo.
(48) D’altra parte, si rammenti che l’assoggettamento della causa principale al
rito del lavoro proprio della causa accessoria o di garanzia presuppone che anch’essa rientri originariamente nella competenza del pretore e quindi sia contenuta nel limite tipico della sua competenza per valore (o in altra sua competenza per materia),
poiché gli artt. 31 e 32 non consentono certo l’attrazione della principale alla competenza prevista per la causa accessoria o di garanzia: v. sul punto ATTARDI, Le nuove disposizioni, cit., 26 e TARZIA, Lineamenti, cit., 35-36.
(49) Anche se per il rito camerale su diritti si pone la questione (sollevata da
TARZIA, Lineamenti, cit., 35, 39 nota 53) se per applicazione dell’art. 40 occorra una
norma ad hoc che consenta la conversione nel rito ordinario. Per un esempio concreto può pensarsi alla connessione tra una domanda di scioglimento del matrimonio
e la causa di nullità dello stesso.
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ne dell’art. 409 n. 2 –, nonché delle controversie in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (art. 3 L.
95/1979) o in materia di liquidazione coatta di società fiduciarie o
di revisione (art. 2 L. 430/1986). Per fare un solo esempio concreto
si pensi al caso del legame tra una causa locatizia e la controversia
ordinaria sulla proprietà del bene locato.
Per l’ipotesi di concorrenza tra più riti speciali, il 4° comma dà
prevalenza al rito previsto per la causa in ragione della quale viene
determinata la competenza e, in subordine, al rito previsto per la
causa di maggior valore. Non molte saranno le occasioni di dare concreta applicazione alla norma (50), e forse non è un male, poiché
debbo ammettere una certa diffidenza per l’idea della prevalenza di
un rito speciale assicurata in astratto, e cioè senza sapere quale esso sia tra i vari che possono trovarsi disciplinati nelle leggi speciali.D’altro canto, la regola non si applica al caso di concorso del rito
del lavoro con altro rito speciale se una delle controversie appartiene a tipi di cui agli artt. 409 e 442; infatti, come già molti hanno notato, in casi siffatti deve farsi applicazione, per ragioni di logica, al
principio della prevalenza assoluta del rito del lavoro fissato dal 3°
comma. E ciò anche se la regola di prevalenza del rito del lavoro è
espressamente fissata dal 3° comma solo per l’ipotesi di sua concorrenza con il rito ordinario, anziché con altro rito speciale (51). Gli
(50) Per taluni esempi v. PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 34-35 (domanda soggetta al rito del lavoro in senso lato e domanda soggetta al rito camerale
ex art. 710 o ex art. 9 L. 898/1970 o ex art. 29 L. 794/1942 ovvero ad una domanda
ex art. 23 L. 689/1981), e TARZIA, Lineamenti, cit., 39 nota 53 (causa di locazione e
causa di affrancazione ex art. 2 ss. L. 607/1966, domanda di rettificazione di attribuzione di sesso ex L. 164/1982 e domanda di scioglimento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili). Non può invece ravvisarsi la presenza di diversi riti speciali nel caso di concorso tra il rito del lavoro in senso stretto e il rito del lavoro in
senso lato (quale, ad es., quello delle controversie locatizie): v. infra.
(51) Conf. LUISO (-CONSOLO-SASSANI), La riforma, cit., 25, PROTO PISANI,
La nuova disciplina, cit., 34, TARZIA, Lineamenti, cit., 39. Contra ATTARDI, Le nuove, cit., 27, ove prospetta la prevalenza del rito “locatizio” rispetto al rito della causa
di lavoro, nell’ipotesi in cui la causa locatizia sia di maggior valore ai sensi del 4°
comma (il presupposto dell’A. è anche che due modelli procedimentali integrino veramente diversi riti speciali: sul punto v. infra), CAPPONI (-VACCARELLA-CECCHELLA), Il processo civile, cit., 56.
155
esempi che vengono addotti sono piuttosto quelli della connessione
tra una causa locatizia e una causa di divorzio nelle fasi soggette al
rito camerale.
Ciò detto, accennerei qui ad alcune delle questioni interpretative sollevate dalle nuove regole sulla individuazione del rito del processo simultaneo.
– Il primo punto attiene alla stessa nozione di rito speciale. In
proposito occorre subito avvertire, come già hanno fatto la maggior
parte dei commentatori (52), che per “rito speciale” si intende rito
speciale nelle forme ma a “cognizione piena ed ordinaria” (in tal senso è speciale, appunto, il rito del lavoro). Non si tratta più di un mero rito speciale quando ci si trovi di fronte invece ad un vero e proprio procedimento speciale, e cioè di un procedimento che, oltre che
essere differenziato nelle forme, è fondato sulla tecnica della cognizione sommaria. Il caso può essere quello dei provvedimenti cautelari o dei provvedimenti sommari-interinali (quali i provvedimenti
immediati nel giudizio possessorio): e qui l’inoperatività della regola di prevalenza del rito ordinario per connessione è indubitabile,
poiché di fatto non ricorre proprio la fattispecie di connessione: manca infatti il presupposto essenziale della figura che è dato dalla nozione tecnica di “causa”, intesa come pendenza di un procedimento
contenzioso volto all’accertamento con efficacia di giudicato delle situazioni soggettive. Vi è poi la diversa categoria dei provvedimenti
sommari “con aspirazione a divenire definitivi”, e cioè dei provvedimenti fondati su una cognizione sommaria ma potenzialmente idonei al giudicato, quali paradigmaticamente sono il procedimento per
ingiunzione ex artt. 633 ss., il procedimento per convalida di sfratto
ex artt. 657 ss., il procedimento di opposizione alle ingiunzioni per
sanzioni amministrative di cui all’art. 23 della legge n. 689 del 1981
o ancora il procedimento di repressione della condotta antisindacale. E qui occorre avvertire che il presupposto della connessione e il
(52) V. ad es. PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 34, TRISORIO LIUZZI,
Le nuove leggi civ. comm. 1992, 34, NELA, in La riforma del processo civile, a cura di
CHIARLONI, Bologna 1992, 48 nota 1 in prospettiva generale v. il panorama tracciato da PROTO PISANI, La tutela differenziata, cit., 213 ss., 219 ss.
156
conseguente problema del rito può correttamente porsi soltanto nella fase a cognizione piena e non in quella a cognizione sommaria, e
così a proposito della fase di opposizione al decreto ingiuntivo o alla convalida o al decreto reso ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori
(53). In questa medesima prospettiva dovrebbe guardarsi anche al
procedimento sommario di verifica del passivo di cui agli articoli 94
e seguenti della legge fallimentare, con conseguente operare della
connessione solo nella fase di cognizione piena, e cioè di opposizione allo stato passivo. Il tema è tuttavia, per ovvi motivi, particolarmente complesso sicché esso non può qui essere trattato neppure in
via di sintesi. Ricordo soltanto che si è da più parti notato che la
nuova regola di prevalenza del rito ordinario sembra poter porre in
discussione il principio affermato da una consolidata giurisprudenza, secondo cui la causa ordinaria connessa potrebbe essere attratta
alla competenza dal tribunale fallimentare e al rito speciale delineata dagli artt. 95 ss. legge fallimentare (54).
Il grosso problema cui non si può non accennare è senza dubbio quello del rito camerale sui diritti, quale si ritrova ad esempio
in alcune fasi del processo di divorzio. Non è facile qui anzitutto stabilire anche soltanto se si tratti di processi sommari ed in che senso: si parla in proposito, è vero, di una cognizione “deformalizzata
e sommaria”, ma il significato della formula non è sempre chiaro.
Certo si potrebbe ragionare nel senso di considerare il rito camerale come rito a cognizione piena nei soli casi in cui è indiscusso che
il provvedimento in cui esso sfocia è destinato ad assumere l’autorità del giudicato e che di sommario vi sono solo le forme della cognizione ma non la sua “qualità”. E però anche così non può non
segnalarsi la pericolosità della comprensione del rito camerale nel
(53) Così TARZIA, Lineamenti, cit., 36, ID, Connessione di causa, cit., 59.
(54) V. spec. TARZIA, Lineamenti, cit., 37 s. nota 50, CAPPONI, in Corr. giur.
1991, 28, ID., Il processo civile, cit., 56-57; per diverse soluzioni v. PROTO PISANI,
La nuova disciplina, cit., 35s., TRISORIO LIUZZI, op. cit., 34 s. NELA, op. cit., 60 ss.
e amplius, FABIANI, Prime impressioni su alcune interferenze tra la riforma del c.p.c.
e la legge fallimentare, in Foro it., 1991, I, 2170 ss. Esclude in linea generale la configurabilità di connessione in senso proprio tra cause fallimentari e cause ordinarie,
LUISO (-CONSOLO-SASSANI), La riforma, I, cit., 26.
157
campo di applicazione delle nuove regole, se si pensa che esso dovrebbe in tal modo poter prevalere su un altro rito speciale ma non
camerale in osservanza del criterio dettato dal 4° comma. Il punto
rimane insomma tra quelli di più problematica soluzione nella interpretazione delle nuove regole.
– Il secondo punto attiene alle versioni “gemmate” dei riti. Il quesito intorno alla effettiva presenza di un rito speciale può porsi infatti anche in quei casi in cui il processo è disciplinato da un complesso di regole speciali, ma non tali da determinarne la radicale autonomia rispetto al modello originario da cui è “gemmato”. Basti
pensare in questo senso anzitutto allo stesso giudizio avanti al pretore e al conciliatore (55) e oggi avanti al pretore e al giudice di pace rispetto al processo avanti al Tribunale. La rilevanza pratica del
quesito è data anche dal fatto che l’ambito di applicazione delle nuove regole è delimitato a figure particolari di connessione (tramite il
rinvio, pur “sistematicamente” interpretato, agli articoli 31, 32, 34,
35 e 36), sicché ammettendo la presenza di una diversità di riti, se
si tratta di un diverso tipo di connessione (quella, cioè, per “coordinazione”), il processo simultaneo dovrebbe tornare ad essere inammissibile pur quando la legge consente la deroga alla competenza.
Ad esempio si pensi al caso di connessione meramente soggettiva di
cui all’articolo 104 o del litisconsorzio facoltativo di cui agli articoli 33 e 103 c.p.c.: ammesso qui che la causa di competenza del giudice di pace possa essere attratta alla competenza del Tribunale già
in base alle regole vigenti (come in certi limiti è pacifico, visti gli
artt. 10 e 11) (56), l’ostacolo al cumulo e alla rimessione all’insù potrebbe essere dato proprio dal fatto che questi casi non sono tra quelli per cui le nuove regole consentono la deroga al rito.
Lo stesso problema può porsi, si badi, nel caso di cumulo di causa di lavoro e causa non di lavoro soggetta al rito del lavoro in senso lato. Infatti, la estensione del rito del lavoro a cause di diversa
(55) Sulla “specialità” del procedimento avanti il pretore e il conciliatore, v. PROTO PISANI, Sulla tutela giurisdizionale differenziata, cit., 222.
(56) Sulla derogabilità all’”insù” della competenza per valore in caso di litisconsorzio, v. infra.
158
natura non avviene per lo più en bloc, bensì mediante richiamo selettivo delle singole disposizioni: tipico esempio ne è la tecnica usata nell’art. 447 bis per le controversie locatizie. Ed anche qui ravvisare nel rito del lavoro applicato a causa di lavoro e nel rito del lavoro nella versione “locatizia” un caso di concorso di differenti riti
speciali (57) potrebbe voler dire escludere l’ammissibilità del cumulo in alcune ipotesi di connessione, ed in particolare in quelle non
implicate dal richiamo alle singole figure.
Certo i casi di connessione che sarebbero destinati a rimanere
fuori dall’ambito di realizzabilità del cumulo sono quelli che destano minore preoccupazione poiché non sembrano porre per lo più un
problema di coordinamento pratico dei giudicati. E però, se si tiene
presente che per questi stessi casi il codice favorisce il cumulo fino
al limite di ammettere deroghe alla competenza, mi sembra francamente eccessivo che il cumulo debba poi essere impedito dalla diversità del procedimento “gemmato” rispetto al modello originario.
In sostanza, mi pare che si debba qui escludere del tutto la ricorrenza di un vero e proprio rito speciale. Pur ammettendo infatti
la delicatezza del punto mi pare che di rito speciale possa parlarsi
solo nei casi di vera e propria autonomia del corpo normativo destinato a disciplinare il singolo processo, e non invece dove, accanto a una serie di disposizioni speciali, vi sia poi un rinvio residuale
alle norme del modello originario, oppure ancora vi sia un rinvio
nella sostanza “globale” ancorché concepito come selettivo ad un modello originario chiaramente identificato. La prima ipotesi ricorre per
il procedimento avanti al pretore, conciliatore o giudice di pace rispetto al procedimento davanti al tribunale visto quanto ancora oggi dispone l’art. 311; e la seconda per il processo del lavoro fuori dalla sua sede visto che esso è per lo più richiamato con la tecnica del
rinvio selettivo ma nella sostanza globale, come è ad esempio per le
controversie locatizie nell’art. 447 bis. Sicché, in altre parole, il processo avanti al pretore potrà considerarsi un rito diverso rispetto al
rito del lavoro ma non rispetto al processo avanti al Tribunale, e la
(57) Come vi ravvisa ad es. ATTARDI, Le nuove disposizioni, cit., 27, e, a quanto sembra, LUISO, op. ult. cit., 25.
159
controversia locatizia potrà considerarsi soggetta a un rito diverso
rispetto a quello ordinario ma non rispetto al rito del lavoro.
Peraltro della esattezza di questa impostazione si trova indiretta conferma proprio nei nuovi commi 6 e 7 dell’art. 40, visto che il
legislatore ha ben dato mostra di preoccuparsi, nei rapporti tra il
giudice professionale e il giudice laico, della deroga alla competenza, ma non certo della deroga al rito.
Due sono le conseguenze della esclusione dei casi di concorso
tra rito-modello e rito-gemmato dalle fattispecie di concorso di riti
diversi. L’una è quella, già accennata, per cui il cumulo delle cause
connesse potrà ritenersi ammissibile indipendentemente dalla tipologia di connessione e dunque anche al di fuori del campo di applicazione dei nuovi commi 3, 4, 6 e 7 dell’art. 40. L’altra è che il cumulo potrà essere disciplinato più elasticamente alla stregua di una
regola, anziché di stretta prevalenza dell’un rito sull’altro come è nei
nuovi commi 3 e 4, di convivenza dei due modelli all’interno del medesimo processo (58).
In particolare, nei limiti in cui le differenze tra i due modelli
contigui non sono di natura solo procedimentale e attengono ad
aspetti propri della tutela, dovrebbe risultare possibile continuare
ad assicurare il loro contemporaneo rispetto all’interno del medesimo processo. Così è, ad esempio, per il caso di cumulo tra causa di
lavoro e causa locatizia, per il quale può così affermarsi, anziché la
prevalenza tout court del rito della causa di lavoro, la possibilità
che, all’interno del medesimo processo e nella convivenza dei due
modelli contigui, si assicuri almeno il rispetto di quelle norme che
attengono al piano della tutela. Ad es. per la causa locatizia cumu-
(58) Secondo la soluzione già praticata nei rapporti tra rito del lavoro e rito ordinario prima del 1973. Un accenno nel senso della “convivenza” dei riti a proposito
della causa locatizia connessa con una causa di opposizione ad ingiunzione amministrativa in TARZIA, Lineamenti, cit., 40 nota 54 (secondo il quale, data “l’identità e
l’affinità dei riti” vi è “la possibilità di un loro coordinamento”). Per parte nostra sospendiamo però il giudizio quanto al rito delineato dall’art. 23 della L. 689/1981, poiché se è vero che esso è palesemente “ispirato” al rito del lavoro, non sembra però
rappresentarne una versione nata “per gemmazione” e, rispetto a quanto è a dirsi per
il rito locatizio, mostra maggior grado di autonomia. In proposito rinvio a VACCARELLA, in Le nuove leggi civ. comm., 1982, 1151 ss.
160
lata con la causa di lavoro la disciplina della esecutorietà della sentenza dovrebbe comunque ritrovarsi nell’art. 447 bis ultimo comma,
e non nell’art. 431.
– Terza questione. Si è autorevolmente affacciata la incostituzionalità del terzo comma della norma là dove assicura la prevalenza
del rito del lavoro sul rito ordinario solo per le cause previdenziali
e di lavoro e non invece per le altre cause cui il legislatore ha esteso questo rito (59). Primo esempio rilevante è proprio quello della
causa locatizia che se connessa con altra causa ordinaria dovrebbe
cedere al rito ordinario.
Qui a mio avviso bisogna distinguere. L’assoggettamento di determinate categorie di controversie al rito del lavoro può rispondere
a due ragioni diverse: l’una è quella della estrema rilevanza sociale
degli interessi che vi sono sottesi e in particolare la presenza sul piano sostanziale di una parte più debole; l’altra è semplicemente quella di assicurare una maggiore efficienza alla amministrazione giudiziaria di un certo tipo di controversie, anche in relazione alla loro
tendenziale tipicità e così facilità di impostazione tecnica (60). Tipico esempio di quest’ultima evenienza è dato a mio avviso dalle controversie locatizie, posto che l’art. 447 bis esclude dal richiamo proprio tutte quelle norme del rito del lavoro che presuppongono un intento di tutela di interessi di una parte socialmente debole.
Ebbene, se si tiene conto che l’eccezione che il 3° comma fa per
le cause di lavoro previdenziali è proprio dovuta alla rilevanza sociale degli interessi in gioco, ne segue che la discriminazione tra queste cause e le altre cause soggette al rito del lavoro potrà ritenersi
irragionevole, e così sospetta di incostituzionalità, solo se il rito del
(59) TARZIA, Lineamenti, cit., 36. La tesi è respinta, ma con motivazione assai
succinta, da CAPPONI (-VACCARELLA-CECCHELLA), Il processo civile, cit., 56. VERDE (-DI NANNI), Codice di procedura civile, cit., si pone il dubbio di incostituzionalità
a livello più generale, osservando se sia ragionevole far dipendere il rito (che spesso
ha valenza anche sostanziale, come è nel caso delle norme sulle prove o sui criteri di
giudizio) da vicende “occasionali ed estrinseche” di connessione, ma ammette poi che
il dubbio potrebbe essere coltivato solo in “una chiave di esasperato garantismo”.
(60) V. in proposito soprattutto PROTO PISANI, Problemi della c.d. tutela giurisdizionale differenziata, cit., 306 ss.
161
lavoro risulti essere stato esteso dal legislatore in vista della tutela
degli interessi di una parte socialmente debole. Ove invece l’estensione risulti motivata – e naturalmente a tal fine bisognerà guardare soprattutto al tipo di norme estese con la tecnica del rinvio, giacché è solo il legislatore e non certo l’interprete a poter dare positiva
espressione a questo tipo di valutazioni – solo da ragioni di efficienza
non vi sarà spazio per parlare di discriminazione irragionevole. Così sarà mi pare sia per le controversie locatizie, nonché per quelle in
materia di amministrazione delle grandi imprese o di liquidazione
coatta delle società fiduciarie.
– La quarta ed ultima questione attiene alla interpretazione del
criterio dettato dal 4° comma della norma per l’ipotesi di concorso
di più riti speciali (esempio causa di locazione e causa di divorzio,
causa promossa in materia di amministrazione controllata e causa
di opposizione a sanzioni amministrative: in effetti, come si è già
detto, gli esempi non sono molti) (61). Come va letto il criterio della prevalenza del rito della causa in ragione della quale viene determinata la competenza?
Ci si riferisce qui evidentemente alla idoneità in base agli articoli 31 ss. dell’una causa connessa ad attrarre l’altra avanti al giudice per essa competente. Per esempio, secondo l’articolo 31 la domanda accessoria è tendenzialmente (62) attratta alla competenza
del giudice della causa principale sicché è il rito speciale previsto per
quest’ultima a dover prevalere. Lo stesso è a dirsi per la domanda di
garanzia che è soggetta secondo l’articolo 32 alla vis actractiva della causa principale quanto alla competenza.
Ci si chiede però se questo criterio possa operare anche quando
in realtà le due cause connesse siano originariamente soggette alla
competenza del medesimo giudice di modo che non vi è in senso stret-
(61) Peraltro visto che i riti speciali presuppongono normalmente una competenza per materia e visto che la competenza per materia viene di consueto ritenuta
inderogabile per connessione, la norma dovrebbe avere spazio di applicazione solo se
le due competenze per materia incidano sul medesimo giudice (ad es. il pretore).
(62) Solo tendenzialmente perché quanto al valore opera invece una vicendevole vis actractiva presso il giudice superiore, essendo espressamente richiamata nell’art.
31 la norma (art. 10, 2° comma) che prevede il cumulo del valore delle due cause.
162
to una causa in ragione della quale viene determinata la competenza
(63). La risposta positiva è fondata sull’osservazione secondo cui occorre qui fare riferimento alla vis actractiva della causa in senso astratto e potenziale, e cioè indipendentemente dal fatto che essa non si
esplichi nel caso di specie (64). Ad esempio, posto che secondo l’art.
31 è la domanda principale ad attrarre l’accessoria e non viceversa,
sarebbe sempre il rito speciale della domanda principale a dover prevalere anche se la vis actractiva sulla competenza non abbia avuto
spazio per operare nel caso di specie, poiché entrambe le domande
spettano sin dall’origine alla competenza del medesimo giudice.
La soluzione può essere seguita solo parzialmente. Essa può funzionare egregiamente nei casi in cui veramente dagli artt. 31 ss. si
deduce la presenza di una vis actractiva a senso unico, e, cioè, che
è sempre solo una delle due cause che può esplicare vis actractiva
rispetto all’altra e non viceversa, come nei due casi appena menzionati della accessorietà e della garanzia. Essa non funziona più invece negli altri casi di connessione – pregiudizialità, compensazione,
riconvenzione –, poiché dagli artt. 34, 35 e 36 emerge in realtà una
potenzialità attrattiva a doppio senso. Basti qui fare l’esempio della
pregiudizialità: è vero che se la causa pregiudiziale è di competenza
per materia o per valore di un giudice superiore essa attrae presso
quest’ultimo anche la causa dipendente: lo dice espressamente l’articolo 34 dove prevede la rimessione globale della causa all’insù, sicché è la pregiudiziale a doversi sin qui considerare dotata di forza
attrattiva rispetto alla dipendente. Ma è anche vero che dall’articolo
34 si desume di consueto che la causa pregiudiziale può essere trattenuta e decisa dal giudice della dipendente quando la prima spetti
alla competenza per territorio semplice di un altro giudice oppure
alla competenza per valore di un giudice inferiore. In questi casi, in
sostanza, è piuttosto la causa dipendente ad avere forza attrattiva
sulla competenza per la pregiudiziale. Identico è il ragionamento per
gli articoli 35 e 36.
(63) Per indicazioni della dottrina che risponde in senso assolutamente negativo al quesito v. infra.
(64) In questo senso TARZIA, Lineamenti, cit., 39.
163
Se ciò è vero, allora mi pare debba concludersi in questo senso:
il criterio della prevalenza del rito speciale della causa in ragione della quale viene determinata la competenza può avere applicazione anche quando le due cause appartengono sin dall’origine alla competenza
del medesimo giudice, ma solo se – operando una forza attrattiva a
senso unico – risulti possibile la sua applicazione in chiave astratta e
potenziale (65). Fuori da questi casi – e cioè a mio avviso in presenza di connessione di cui agli articoli 34, 35 e 36 – il criterio può trovare applicazione solo se in concreto ed effettivamente le due cause
appartengono alla competenza di due giudici diversi e si sia realizzata la deroga alla competenza per connessione. In mancanza, e cioè, se
le due cause appartengono sin dall’origine alla competenza del medesimo giudice, dovrà farsi applicazione del criterio subordinato che dà
prevalenza al rito della causa di maggior valore (66).
Quanto appunto al criterio della causa di maggior valore mi limito a segnalare che, pur essendo qui in gioco un problema di rito
e non di competenza, le regole da seguire dovrebbero essere quelle
della determinazione del valore della causa ai fini della competenza,
dettate agli articoli da 10 a 15 del codice (67).
(65) Nel medesimo senso sembra LUISO (-CONSOLO-SASSANI), La riforma, cit.,
25, dove osserva che “il criterio sussidiario del maggior valore si applica, quindi, allorché le due cause ricadano nella competenza ordinaria di un unico giudice, e la connessione fra di esse rientra fra quelle, per le quali non è prevista la vis actractiva di una
delle due: come accade nelle ipotesi regolate dagli artt. 34, 35 e 36 in cui è la causa
di competenza del giudice superiore che attrae quella di competenza del giudice inferiore; e non rileva che la causa attraente sia la pregiudiziale o la dipendente, la causa principale o quella di compensazione, o la riconvenzionale” (mio il c.vo).
(66) Ritengono invece, pur senza motivazione, che il criterio della causa di maggior valore operi sempre (e quindi per ogni tipo di connessione, compresi quelli di
cui agli artt. 31 e 32) quando le due cause siano di competenza del medesimo giudice, VERDE, Considerazioni, cit., 264, COSTANTINO, Appunti sulle proposte di riforma
urgente del processo civile, in Doc. giust., 1988, X, 22 s., ATTARDI, Le nuove disposizioni, cit., 26-27, PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 35, CAPPONI (-VACCARELLA-CECCHELLA), op. cit., 57.
(67) Quid se le due cause siano dello stesso valore o di valore indeterminabile?
PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 35, propone, non a torto, di fare ricorso al
criterio della prevenzione (al quale, in alternativa, accosterei quello della “maggiore
importanza” o della “precedenza logica” dell’una causa rispetto all’altra). ATTARDI,
Le nuove disposizioni, cit., 27, considera inapplicabile la nuova disciplina e non realizzabile il processo simultaneo (ma la scelta mi pare troppo rinunciataria).
164
5. Il nuovo 5° comma: il rinvio agli artt. 426, 427 e 439 per il mutamento di rito.
Breve può essere il discorso relativo al nuovo 5° comma dell’art.
40. Esso rinvia per il mutamento di rito reso necessario dalle nuove regole alle norme già dettate in materia per il processo del lavoro, e cioè
agli artt. 426, 427 e 439: norme, queste, che sono invero di interpretazione tutt’altro che semplice ma che sono da tempo oggetto di una attenta elaborazione dottrinale alla quale appare opportuno rinviare.
Piuttosto si può notare che il rinvio è letteralmente limitato ai
casi del 3° comma, e cioè di concorso del rito ordinario con altro rito; ma non si dubita che le norme richiamate possano per quanto di
ragione trovare applicazione anche nel caso di passaggio da un rito
speciale ad altro rito speciale.
La formulazione letterale della norma fa ancora pensare (là dove si parla di “causa trattata” e di rito “divenuto applicabile”) che
l’ipotesi tenuta presente sia stata soprattutto quella delle cause separatamente proposte davanti al medesimo giudice (68) o a giudici
diversi e poi riunite. Tuttavia, non può dubitarsi del fatto che la norma vada applicata anche alle ipotesi in cui le due domande siano
state sin dall’origine proposte nel medesimo processo e siano state
“trattate” con un rito diverso da quello divenuto applicabile, come
può essere se è il rito della domanda proposta per seconda (69) (e
(68) In proposito mi pare certo che la separata proposizione, pur quando lo stesso sia il giudice competente per entrambe le cause, debba avvenire secondo il rito originariamente proprio di ciascuna, non potendo certo la parte fare già affidamento sul
“rito del processo simultaneo”, che comunque presuppone la previa realizzazione del
cumulo (e dunque l’adozione di un provvedimento di riunione anche ex art. 274 c.p.c.).
(69) Anche in un caso siffatto è dunque inevitabile che la proposizione della domanda connessa avvenga con un rito diverso da quello fissato ai nuovi commi 3 e 4,
come “rito del processo simultaneo”: la domanda viene infatti inserita in un processo già pendente del quale è così inevitabile rispettare in prima battuta le “forme”. V.
in proposito la nota prec. L’unica ipotesi in cui effettivamente può prospettarsi che
la proposizione avvenga sin dall’inizio con il “rito del processo simultaneo” è quello
in cui esso coincida con quello della domanda che (provenendo dall’attore) è proposta per prima, sia poi la domanda connessa contestualmente avanzata dallo stesso attore (ad es. domanda accessoria o di accertamento incidentale proposta insieme alla
principale) oppure dal convenuto (ad es. eccezione di compensazione di credito “ordinario” nel processo del lavoro).
165
dunque dal convenuto) a dover prevalere: basti pensare, ad esempio,
al credito di lavoro eccepito in compensazione in una causa ordinaria (70).
6. I nuovi commi 6 e 7 in tema di connessione di cause di competenza del giudice di pace.
Quanto ai commi 6 e 7 introdotti dalla L. 374/1991, si è giustamente osservato (71) che si tratta di norme sulla competenza per connessione più che sulla riunione di cause connesse: il rilievo tende ad
evidenziare la differenza di oggetto tra la nuova disciplina e quella
di cui agli originari commi dell’art. 40, che, come ho già detto, è in
effetti dato soltanto dalla riunione di cause connesse e separatamente
proposte davanti a giudici diversi, senza alcun riferimento peraltro
in proposito al problema della competenza per connessione. Le nuove disposizioni, da un lato, si occupano invece, al 6° comma, anche
dell’ipotesi in cui le cause connesse siano cumulativamente proposte
davanti allo stesso giudice, e, dall’altro, anche a proposito del caso
della proposizione separata avanti a giudici diversi, compiono, al 7°
comma, un espresso riferimento alla proroga della competenza per
connessione.
Il corpo normativo cui occorre dunque riferirsi per percepire le
innovazioni contenute nei commi 6 e 7 è essenzialmente rappresentato dagli artt. 31 ss., contenenti la disciplina ordinaria sulla competenza per connessione. La novità è racchiusa nella regola secondo
cui la competenza per connessione è sempre fissata in favore del giudice professionale, presso il quale la causa originariamente di competenza del giudice di pace potrà essere direttamente proposta oppure riunita.
(70) Così esattamente ATTARDI, La nuova, cit., 28, PROTO PISANI, La nuova
disciplina, cit., 36.
(71) LUISO (-CONSOLO-SASSANI), La riforma, II, cit., 237 ss., v. anche CAPPONI (-VACCARELLA-CECCHELLA), Il processo civile, cit., 60, che lamenta una certa “disomogeneità” di contenuto della norma novellata.
166
Di fatto, poiché il giudice di pace è in linea verticale il primo
nella piramide dei giudici civili, la regola si traduce in una proroga
di competenza a favore del giudice superiore. Anche per questa ragione non mi paiono pienamente persuasive le censure di incostituzionalità da alcuni avanzate dal punto di vista della violazione del
principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, 1° co.
Cost.) e della distinzione fra i magistrati solo per diversità di funzioni (art. 107, 3° co. Cost.); censure che sono in particolare fondate sul rilievo secondo cui “nel codice non esistono disposizioni fondate su identica ratio”, nel senso che “nella sistematica del codice,
le regole sul processo simultaneo e, in generale, sulla connessione
sono strutturate come regole tecniche che individuano il giudice competente non per caratteristiche soggettive di questi, bensì per caratteristiche oggettive dei procedimenti connessi” (72).
Ebbene, la censura va accolta con estrema cautela poiché il confronto tra le nuove regole sul giudice di pace e la originaria “sistematica del codice” non può certo nutrirsi di dati certi ed assoluti. Si
consideri che, già in base agli artt. 31 ss. (almeno alla stregua di
quella interpretazione corrente che all’inizio rammentavo), il giudice superiore si vede preferito in quanto tale al giudice inferiore poiché negli artt. 34, 35 e 36 la competenza per valore si considera derogabile solo all’”insù”; l’inversione di tendenza nelle nuove regole
sembra pertanto ridursi alla derogabilità anche della competenza per
materia in quanto spettante al giudice di pace. Tuttavia, anche a tale proposito va tenuto presente che la generale esclusione della derogabilità della competenza per materia del giudice inferiore negli
artt. 31 ss. non è affatto un dato certo, ed è piuttosto il frutto di una
interpretazione corrente e convenzionale, cui, soprattutto di recente,
la dottrina non manca di dare alternative, leggendo gli articoli 34,
35 e 36 proprio alla luce di un principio di indefettibile attrazione
della causa connessa presso il giudice superiore in deroga anche al-
(72) CAPPONI (-VACCARELLA-CECCHELLA), Il processo civile, cit., 61 ss.
167
la competenza per materia di quello inferiore (73). Interpretazioni,
queste, che paiono trarre oggi alimento proprio dalla modifica dell’art.
38, 1° comma, implicante un forte ridimensionamento della importanza delle competenze per materia.
In una situazione siffatta, credo possa dirsi che la unica divergenza certa ed indiscutibile tra la nuova disciplina e quella “ordinaria” vada colta a proposito degli articoli 31 e 32. Solo queste due
norme, infatti, con chiarezza escludono una generale proroga di competenza a favore del giudice superiore ed anzi espressamente consentono la deroga alla sua originaria competenza per valore a vantaggio del giudice inferiore competente per materia. Le due ipotesi
andranno appunto diversamente trattate ove il giudice inferiore sia
un giudice di pace, nel senso che sarà la causa di garanzia od accessoria ad attrarre alla sua competenza (del pretore o del tribunale) la causa principale spettante al giudice di pace (74). Ed è quindi semmai solo in questo ambito che potrà con saldezza valutarsi la
censura di incostituzionalità, che pure però non mi pare possa fondarsi solo sul rilievo della “disparità di trattamento” tra giudice professionale e giudice onorario, poiché, come giustamente è stato osservato, vi è qui “carenza di una situazione protetta: nel senso che
il giudice di pace non ha alcun diritto di decidere la causa” (75).
Piuttosto deve notarsi che il 6° comma sembra legittimare la parte a proporre direttamente la domanda che sarebbe di competenza
del giudice di pace davanti al tribunale o al pretore davanti al quale pende la domanda connessa. Nessun dubbio se con ciò si intende
soltanto alludere alla proposizione congiunta sin dall’origine delle
(73) V. LUISO (-CONSOLO-SASSANI), La riforma, II, cit., spec. 240 s. Anche
PROTO PISANI, La nuova, cit., 20 ss., e VERDE (-DI NANNI), Codice di procedura civile, cit., 16, ritengono che le innovazioni della Novella posssano fare da sfondo per
una rilettura degli artt. 31 ss. dal punto di vista delle deroghe di competenza per connessione. Rilettura peraltro da tempo intrapresa dalla dottrina: indicazioni in MENCHINI, Sospensione, loc. cit.
(74) Il rilievo vale anche per l’ipotesi in cui le due cause siano state separatamente proposte (e dunque nel confronto tra il 1° comma dell’art. 40 e il nuovo 7° comma) nel senso che sarà ad esempio il giudice di pace a dover pronunciare la connessione e disporre la rimessione anche se davanti a lui penda la causa principale e davanti al pretore o al tribunale la causa accessoria: conf. ATTARDI, Le nuove, cit., 300.
(75) LUISO, op. cit., 255.
168
due domande oppure all’inserimento della seconda (ad es. come domanda di garanzia, oppure riconvenzionale) all’interno del processo
già pendente davanti al giudice superiore. Qualche perplessità può
darsi invece se la norma fosse intesa nel senso che la parte sia legittimata a proporre la domanda davanti al giudice superiore competente per connessione anche se la proposizione avviene in via separata (76): proposizione separata che può talora essere l’unica via
possibile, come è ad es. se nell’ambito del processo pendente siano
già scaduti i termini per la proposizione di domande nuove. La lettura in tal senso – che appare in contrasto con quanto di consueto
è sostenuto dalla giurisprudenza a proposito della disciplina ordinaria in tema di competenza per connessione di cui agli artt. 31 ss.
(77) – va a mio avviso evitata, poiché finirebbe per spogliare il giudice di pace del compito di verificare egli stesso i presupposti della
riunione (compreso quello relativo al legame tra le due cause e di
pronunciare la connessione ai sensi del 7° comma in casi in cui, proprio in ragione della modalità “separata” della proposizione, non v’è
giustificazione effettiva per tale “spoliazione”. Persa, in altre parole,
l’opportunità di proposizione sin dall’origine cumulata, la parte non
può a mio avviso “saltare” il giudice di pace e deve davanti a lui proporre la domanda connessa per poi provocare il provvedimento di
riunione in base al 7° comma.
Quanto alla delimitazione del campo di applicazione dei nuovi
commi in virtù del richiamo alle figure qualificate di connessione,
vale quanto ho già esposto a proposito delle regole sul rito.
(76) In effetti, non sembra che un ostacolo decisivo alla lettura prospettata possa provenire dall’inciso secondo cui (la proposizione davanti al giudice superiore deve avvenire) “affinché (le due cause) siano decise nel medesimo processo”. L’inciso
ben potrebbe essere inteso infatti come allusivo alla finalità ultima perseguita dalla
parte, ottenibile anche con la proposizione “separata” poi seguita dalla riunione ex
art. 274 c.p.c.
(77) V. ad esempio, a proposito dell’art. 31, Cass. 7 settembre 1991 n. 9435, Foro It. Rep., 1991, voce Competenza civile n. 104: l’accessorietà può importare deroga
alle ordinarie regole di competenza unicamente qualora le cause connesse siano originariamente inserite nel medesimo processo ad opera dell’attore, ovvero, separatamente proposte, siano successivamente riunite per ordine del giudice, senza perciò
autorizzare ad adire un giudice incompetente per il solo fatto che presso quest’ultimo penda la causa principale”.
169
Si pone poi la questione del rapporto intercorrente tra la nuova
speciale disciplina dei commi 6 e 7 e la disciplina “comune” od “ordinaria” della connessione. Per disciplina “comune” è da intendersi
quella di cui agli artt. 31 ss. quando si tratti di cause connesse cumulate sin dall’origine nel medesimo processo, e quindi nel confronto
con il 6° comma dell’art. 40; ed è da intendersi la disciplina dettata
dall’art. 40, 1° e 2° comma, quando si tratti di cause connesse separatamente proposte davanti a giudici diversi, e quindi nel confronto
con il 7° comma dell’art. 40.
Occorre anzitutto stabilire in che ambito la disciplina “comune”
continui a trovare applicazione anche davanti al giudice di pace. Per
quanto riguarda la disciplina ordinaria di cui algi artt. 31 ss., essa
dovrebbe essere applicabile anche al giudice di pace essenzialmente
in due casi. Il primo è ovviamente quello in cui vi sia un problema
di rapporti tra il giudice professionale e il giudice onorario, ma non
ricorra la connessione per subordinazione. Così, oltre che nell’ipotesi di cumulo oggettivo semplice di cui all’art. 104, nel caso di litisconsorzio facoltativo semplice (e cioè non unitario) che rimane disciplinato dagli artt. 33 e 103, di modo che la possibilità del cumulo
presso il giudice superiore potrà darsi in tal caso solo nei limiti in
cui a livello generale si ritenga desumibile dagli artt. 33 e 103 (e in
ispecie dal 2° comma di quest’ultimo) una regola di derogabilità della competenza per valore del giudice inferiore (78). Il secondo è quello in cui le cause connesse spettino alla competenza di due diversi
giudici di pace, sicché sia in gioco solo un problema di deroga alla
competenza per territorio (79) da risolversi alla stregua dei criteri im-
(78) In questo senso v. ad es. LUISO (-CONSOLO-SASSANI), La riforma, II, cit.,
245 e Cass. 10 febbrraio 1990 n. 974. Lo stesso è a dirsi circa il cumulo di più domande verso lo stesso soggetto ex art. 104: la attrazione al tribunale o al pretore della causa di competenza del giudice di pace sarà possibile solo se la competenza di
quest’ultimo sia fissata per ragioni di valore (derogabile ex art. 10, 2° comma, richiamato dall’art. 104) e non per ragioni di materia.
(79) Per l’esclusione della applicazione delle nuove regole (intese come espressive di una regola di derogabilità delle competenze “forti” del giudice di pace, comprese
quelle funzionali), ai rapporti tra i diversi giudici di pace v. ATTARDI, Le nuove, cit.,
304, LUISO (-CONSOLO-SASSANI), La riforma, II, cit., 250, CAPPONI (-VACCARELLA-CECCHELLA), Il nuovo processo civile, cit., 60, 65.
170
pliciti negli artt. 31 ss. Lo stesso dovrebbe dirsi per la disciplina della riunione delle cause connesse separatamente proposte, che continua ad essere quella dell’art. 40, 1° comma, anziché del 7° comma,
se la riunione deve essere disposta al di fuori dei casi di connessione per subordinazione o deve operare tra diversi giudici di pace (80).
Diverso quesito è se anche nei casi in cui deve farsi applicazione dei nuovi commi 6 e 7, la disciplina da questi fissata debba o possa essere integrata con alcune parti di quella “ordinaria”.
Ad esempio, a proposito della riunione delle cause separatamente
proposte, ci si interroga intorno alla permeabilità delle regole fissate dal 7° comma alla disciplina fissata dal 2° comma dell’art. 40 per
la riunione in generale. In particolare, ci si chiede se anche il giudice di pace, nel disporre la riunione in favore del pretore o del tribunale ai sensi dei nuovi commi, debba osservare il limite della rilevazione della connessione alla prima udienza. Mi pare preferibile
in proposito la risposta negativa, e dunque quella che consente al
giudice di pace di disporre la riunione anche rilevando la connessione oltre la prima udienza (81), e ciò perché, anche a prescindere
dal rilievo che si tratta qui di provvedere alla riunione di cause connesse per subordinazione, gioca in tal senso un motivo di ordine letterale. Il 7° comma, col precisare che il giudice di pace “deve” rimettere al giudice superiore e pronunziare sulla connessione “anche
d’ufficio”, mi sembra delineare una disciplina in qualche modo autonoma della riunione rispetto a quella fissata dal 2° comma, di cui
deve dunque tendenzialmente escludersi l’applicabilità. La valutazione di “economicità” della riunione in relazione allo “stato” rispettivo delle cause connesse può invece considerarsi consentita da principii di ordine generale e così consentita anche al giudice di pace,
indipendentemente dalla questione della applicazione del 2° comma
dell’art. 40.
(80) Conf. ATTARDI, Le nuove, cit., 301, LUISO, op. cit., 250s., 252.
(81) Conf. PROTO PISANI, La nuova, cit., 437. Contra LUISO (– CONSOLO-SANSONI), La riforma, cit., 247ss., spec. 250, che vede nell’applicabilità dei due limiti (ed
in ispecie in quello relativo alla “prima udienza”) una garanzia rispetto alle manovre
“poco corrette” e manipolazioni, e CAPPONI (-VACCARELLA– CECCHELLA), Il processo civile, cit., 66.
171
Tendenzialmente positiva è la risposta da fornire quanto alla “integrabilità” della disciplina del 6° comma ad opera di quella “ordinaria” delineata dagli artt. 31 ss. Infatti, pur messi fuori gioco gli
artt. 31 ss. dal punto di vista delle deroghe di competenza (che sono appunto autonomamente disciplinate nelle nuove disposizioni),
rimane da stabilire se essi possano applicarsi in quelle parti in cui
apprestano delle alternative allo spostamento di competenza per connessione.
L’interrogativo appare di grande importanza pratica soprattutto
per l’ipotesi della compensazione, visto che l’art. 35 consente, a determinate condizioni, di evitare la rimessione dell’intera causa presso il giudice superiore per il tramite della condanna con riserva sul
credito principale e rinvio all’”insù” della sola eccezione di compensazione del convenuto. Lo stesso è a dirsi a proposito della domanda riconvenzionale, poiché, attraverso il rinvio che l’art. 36 compie
all’art. 35, deve ritenersi possibile che il giudice eviti la rimessione
globale della causa all’insù e trattenga la domanda principale, adottando, in ipotesi di riconvenzionale compatibile, un provvedimento
di separazione delle domande, e, in taluni casi di riconvenzionale incompatibile, accogliendo con riserva la domanda principale. Siffatti
strumenti potrebbero in effetti mostrarsi di grande utilità anche davanti al giudice di pace, se si tiene presente che proprio la compensazione e la riconvenzione realizzano ipotesi di cumulo di cause che
più facilmente possono prestarsi a manipolazioni o manovre da parte del convenuto che voglia spogliare della causa il giudice di pace
approfittando della regola della “prevalenza” del giudice togato. La
risposta può essere comunque nettamente positiva (82), anche perché non credo che il rapporto tra i commi 6 e 7 dell’art. 40 e la disciplina “comune” vada impostata in termini di rigida e reciproca
autoesclusione, e ciò almeno al di fuori dei singoli punti in cui veramente si vede emergere un intento di autonoma regolamentazione
per il giudice di pace.
(82) Conf. LUISO (-CONSOLO-SASSANI), La riforma, cit., 242 ss.; contra ATTARDI, Le nuove disposizioni, cit., 304.
172
All’interrogativo, infine, se il giudice professionale potrà doversi
trovare a pronunciare la connessione a favore del giudice di pace mi
pare debba darsi risposta negativa. Infatti, alla stregua della disciplina ordinaria rimasta applicabile – e dunque essenzialmente alla
stregua degli artt. 33 e 104 – le deroghe di competenza, pur quando
toccano la ripartizione verticale, operano sempre in favore del giudice superiore, e dunque in favore del pretore o del tribunale e non
certo del giudice di pace (83).
(83) Prospetta invece, richiamandosi agli artt. 33, 104 e 39, 2° comma, un cumulo di cause presso il giudice di pace in deroga alle competenze dei giudici professionali, CAPPONI (-VACCARELLA– CECCHELLA), Il nuovo, cit., 68; la prospettazione non è tuttavia tecnicamente realistica per i motivi di cui nel testo.
173
CAPITOLO III
IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO:
L’INTRODUZIONE DELLA CAUSA
(CITAZIONE, COMPARSA DI RISPOSTA,
COSTITUZIONE DELLE PARTI,
INTERVENTO E CHIAMATA IN CAUSA)
175
LA CITAZIONE E LE SUE NULLITÀ (*)
Relatore:
prof. avv. Vittorio DENTI
ordinario di Procedura Civile presso la Facoltà
di Giurisprudenza dell’Università di Pavia
1. L’atto di citazione costituisce la struttura portante del processo
di cognizione, in un duplice significato: a) quello della determinazione dell’oggetto del giudizio, e quindi del thema decidendum, in fatto e in diritto, della causa; b) quello della determinazione del quadro in cui operano i poteri rispettivi delle parti e del giudice nella
individuazione delle questioni rilevanti ai fini della decisione.
a) Sotto il primo profilo, il ruolo della citazione non va enfatizzato. L’oggetto del giudizio, infatti, rappresenta un quid che si forma progressivamente nel corso della causa, in forza dei poteri di modificazione che sono riconosciuti alle parti sia in primo grado che in
appello e dei poteri officiosi attribuiti al giudice nel rilievo delle eccezioni di merito. Neppure la quaestio facti subisce limitazioni nella
sua individuazione, in forza del potere delle parti di dedurre nuove
prove in appello, sia pure subordinatamente, secondo il nuovo rito,
alla valutazione della loro indispensabilità ai fini della decisione o
della impossibilità della parte di produrle in primo grado. Ricordo,
d’altronde, che neppure il giudizio di rinvio opera senza ulteriori variazioni sul tema di fatto, essendo possibile comunque deferire il giuramento decisorio.
(*) Sintesi della relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 28
giugno al 2 luglio 1993, predisposta dall’autore.
177
Questa elasticità della progressiva determinazione della quaestio
iuris e della quaestio facti è una caratteristica degli ordinamenti che
conoscono l’appello come riesame della causa, secondo il modello
francese, e contrasta con i sistemi che esaltano il giudizio di primo
grado, attribuendo alle impugnazioni un ruolo sostanzialmente cassatorio.
b) Sotto il secondo profilo, in un processo che conserva il suo
carattere essenzialmente dispositivo, il gioco dei poteri rispettivi
dell’attore e del convenuto (che rappresentano poteri-oneri, nel perseguimento del risultato finale della causa) ha il suo punto di partenza nella sollecitazione dei poteri decisori del giudice mediante la
formulazione della domanda. Nasce dalla citazione, quindi, la trama
di contrappunti che dall’esercizio di un potere danno luogo al sorgere di un onere, e da questo ad ulteriori poteri, in un contraddittorio potenzialmente senza limiti, se non scattassero le preclusioni.
Un legislatore che intenda regolare la fase introduttiva del giudizio
– come in genere fanno i legislatori contemporanei – sotto il segno
della concentrazione, secondo il classico insegnamento chiovendiano, deve, quindi, anzitutto preoccuparsi di ancorare il più possibile
all’atto di citazione la individuazione del thema probandum e del thema decidendum.
2. Una ricognizione dei problemi che pone la struttura dell’atto
di citazione deve necessariamente muovere dal ruolo che alla difesa
tecnica è attribuito nella proposizione della domanda giudiziale. Ove
non sia previsto il ministero del difensore, infatti, la esposizione dei
fatti prevale su quella delle ragioni di diritto: non a caso il contenuto della domanda, nel giudizio avanti il giudice di pace, è dato
dalla “esposizione dei fatti” e dalla “indicazione dell’oggetto”. E ciò
senza trascurare che la possibilità di proposizione verbale della domanda può comportare una collaborazione del giudice con la parte
nella sua formulazione.
La scelta attuale del nostro legislatore, come dimostra anche il
regime delle nullità della citazione, sembra andare nella direzione di
un accentuato tecnicismo nella formulazione delle difese delle parti,
come, del resto, nella conduzione di tutta la fase introduttiva e preparatoria del giudizio. Ricordo che anche l’esercizio dei poteri del
giudice, ai sensi del novellato art. 163, nella richiesta di chiarimenti alle parti e nella indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio, ha
178
il suo punto di riferimento nei “fatti allegati”, ove per “fatti” si intende, ovviamente i “fatti costitutivi” del diritto dedotto in giudizio.
Tale scelta pone delicati problemi di politica del diritto, in quanto muove dalla premessa della effettiva uguaglianza delle parti, o della parità delle armi, nella condotta del processo, e sembra relegare
tra i ricordi patetici quella figura del “litigante debole” cui faceva da
contrappunto la “funzione ausiliaria” del giudice. E ciò in un contesto ideologico in cui sembra perdere peso il problema del patrocinio
dei non abbienti, la cui soluzione appare rinviata sine die per il processo civile.
Infine, la disciplina dell’atto di citazione può essere influenzata
dalla previsione di quelle tecniche che nei paesi di common law vanno sotto il nome di discovery e che si traducono nella possibilità per
le parti di prendere conoscenza, prima del processo, delle fonti di
prova a disposizione dell’avversario, al fine della preparazione degli
atti introduttivi del giudizio. Un ordinamento, come il nostro, che
non conosca queste tecniche, deve necessariamente prevedere che
l’adattamento delle difese avvenga all’interno del processo, garantendo alle parti il medesimo grado di conoscenza delle ragioni di fatto e di diritto dell’avversario.
3. Se queste sono le linee portanti della funzione dell’atto di citazione nel processo di cognizione, è opportuno chiedersi a quali
esigenze si è ispirato il legislatore nel novellarne la disciplina, e se
questa costituisca un quid novi rispetto al codice del 1940, come rimodellato dalla riforma (o controriforma, secondo i punti di vista)
del 1950.
Secondo i giuristi che ritengono di essere più vicini alle fonti ispiratrici della riforma, la stella polare sarebbe stato l’insegnamento secondo cui il processo deve mirare alla decisione di merito sulla domanda e l’absolutio ab instantia deve costituire un evento eccezionale, legittimo solo quando inevitabile. Si tratterebbe, quindi, di dare la
massima estensione alla regola della rinnovazione degli atti processuali nulli, sancita dall’art. 162 c.p.c., senza peraltro ledere il potere
dispositivo delle parti sul processo. Questa direttiva, ovviamente, trova la sua principale applicazione nel regime della nullità della citazione laddove è previsto, dal nuovo testo dell’art. 164, il potere del
giudice di disporre d’ufficio la rinnovazione della citazione non solo
per vizi della vocatio in ius, ma anche per vizi della editio actionis.
179
Non vi è motivo per dissentire da questa ricostruzione della ratio legis, anche se è difficile armonizzarla con le finalità di una riforma che aveva preso le mosse dalla esigenza primaria di accelerazione dei tempi della giustizia civile. Se ci si pone da questo punto di
vista, le uniche riforme coerenti sono la previsione, con le note limitazioni, del giudice monocratico in primo grado e la possibilità di
emanare, nel corso del giudizio, ordinanze di pagamento o di consegna, con la finalità di scoraggiare le difese meramente dilatorie.
Sotto questo aspetto, peraltro, la riforma avrebbe dovuto essere più
drastica, sia restringendo la riserva di collegialità, sia ammettendo
l’ordinanza di condanna anche nel caso di manifesto fumus boni iuris della domanda.
Fermo il giudizio di incoerenza della Novella rispetto alle finalità di politica legislativa della riforma, le innovazioni in tema di atto di citazione non vanno enfatizzate, pur nell’apprezzamento della
attribuzione al giudice, in materia di nullità, di poteri che tendono
a rendere possibile la decisione della causa nel merito.
4. Quanto alle modalità dell’atto introduttivo del giudizio, si è
preferito mantenere la struttura della citazione, anziché adottare quella del ricorso, già sperimentata nel processo del lavoro; e ciò senza
che, nel corso dei lavori preparatori, siano state addotte consistenti
ragioni per tale scelta. Ricordo, tuttavia, che l’esigenza di assicurare
l’effettiva trattazione della causa alla prima udienza è stata soddisfatta attribuendo al giudice istruttore il potere di differire la data
dell’udienza stessa fino ad un massimo di quarantacinque giorni rispetto a quella fissata nella citazione.
Mantenuta la forma, le varianti rispetto al contenuto dell’atto di
citazione sono di scarso rilievo. Né la indicazione specifica del termine di comparizione, né l’avvertimento degli effetti della tardiva costituzione (già previsto per il decreto ingiuntivo) costituiscono innovazioni significative, anche se l’avvertimento si inserisce in un filone garantistico che ha caratterizzato recentemente la disciplina dei
procedimenti amministrativi. Il risvolto negativo delle innovazioni è
dato dal verificarsi di nuove ipotesi di nullità della citazione sotto il
profilo della vocatio in ius, rilevanti soprattutto in caso di contumacia del convenuto.
Saggiamente, a mio avviso, si è scelto di non mutare le formule che concernono la individuazione del petitum e della causa peten180
di. Se è vero, infatti, che l’espressione “la cosa oggetto della domanda” ha un vago sapore retrò, è anche vero che la dizione più corretta (“l’effetto giuridico che si chiede al giudice di dichiarare”) ha una
eccessiva coloritura dottrinale, in quanto richiama la correlazione
fattispecie-effetto giuridico delle note costruzioni concettuali, nonché
la tripartizione tra effetti di accertamento, di condanna e costitutivi,
anch’essa di ispirazione prevalentemente teorica. Quanto alla “esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda”, la variante suggerita nel corso della eleborazione della riforma, intesa a precisare che per “fatti” dovevano intendersi i
“fatti storici”, è stata fortunatamente abbandonata, poiché avrebbe
aperto inopportune discussioni sulla portata della precisazione. E ciò
anche in considerazione del rilievo che la nozione di “fatto”, come
elemento costitutivo della fattispecie, implica la distinzione tra i c.d.
fatti principali e i c.d. fatti secondari, rilevante ai fini delle preclusioni che operano nel corso della fase preliminare del giudizio.
È appena il caso di aggiungere che l’individuazione del thema
decidendum nell’atto di citazione assume rilievo sotto due profili essenziali: a) la determinazione dei limiti oggettivi del giudicato; b) la
distinzione tra mutatio ed emendatio libelli, rilevante ai fini della possibilità per le parti, nella prima udienza di trattazione, di “modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate” (art.
183, 4° comma). Al riguardo, sarà sempre utilizzabile l’ampia elaborazione giurisprudenziale formatasi sul codice vigente, con attenta
sensibilità per le esigenze di tutela delle singole situazioni sostanziali.
In tema di causa petendi, d’altronde, resta valida la distinzione
tra le due categorie dei “diritti autodeterminati” e dei “diritti eterodeterminati” (o, come altri dice, “autoindividuati” ed “eteroindividuati”), una distinzione che riecheggia la antica contrapposizione tra
le teoriche della “sostanziazione” e della “individuazione” nella identificazione dell’azione. Semplificando i termini del problema, che si
riflette sulla novellata disciplina delle nullità, si possono ricondurre
alla prima categoria i diritti reali (e, più in generale, gli status) ed
alla seconda i diritti di obbligazione, essendo irrilevante per i primi
la individuazione del fatto costitutivo, che è invece essenziale per i
secondi.
Per concludere, non sembrano fondati i rilievi di chi ha ravvisato nella disciplina dell’atto di citazione la manifestazione di un fa181
vor actoris: chi prende l’iniziativa della lite necessariamente fruisce
di un vantaggio cui può fare da contrappeso soltanto una certa elasticità delle difese consentite al convenuto, sia pure sotto il controllo del giudice, come prevede il testo novellato dell’art. 183.
5. La parte di gran lunga più importante della riforma concerne
le nullità della citazione, totalmente riscritte dall’art. 164 seguendo la
direttiva della distinzione tra le nullità che concernono la vocatio in
ius e quelle che concernono la edictio actionis, col dichiarato proposito di far salvi, per le prime, gli effetti processuali e sostanziali della domanda, e, per le seconde, di perseguire comunque la sanatoria
con efficacia ex nunc. Prima di analizzare la nuova normativa, occorre premettere che restano fuori del suo ambito i vizi c.d. extraformali dell’atto di citazione, quali, ad esempio, il difetto di rappresentanza o dello ius postulandi; vizi non riconducibili in toto alla
sanatoria prevista dall’art. 182, che esclude dalla sua previsione sia la
legitimatio ad causam che la rappresentanza del difensore. È noto che
di fronte a questo tipo di nullità si tende a far ricorso alla discussa
categoria dell’inesistenza, caratterizzata, appunto, dalla insanabilità
del vizio. Le nullità cui fa riferimento l’art. 184 sono quindi nullità
formali, sia pure del tipo che REDENTI definiva di contenuto-forma.
Un’altra avvertenza preliminare riguarda il rilievo delle nullità
nelle fasi di impugnazione, ed in particolare la portata dell’art. 354
c.p.c., che taluni interpreti tendono a forzare, al fine di estendere le
ipotesi di rimessione al primo giudice, generalmente considerate tassative. Si tratta di un aspetto importante della disciplina delle nullità, che sicuramente andrebbe rimeditato, alla luce della giurisprudenza costituzionale, che esclude la garanzia del doppio grado di giurisdizione dai principi che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale. Tendenzialmente, il rilievo delle nullità dell’editio actionis, non sanate in primo grado, non dovrebbe escludere il potere del
giudice di appello di disporre la rinnovazione o la integrazione degli atti, al fine della pronuncia sul merito.
Fatti questi rilievi, la disciplina delle nullità della citazione può
essere così sintetizzata:
Vocatio in ius. Si tratta della omissione o della assoluta incertezza della indicazione del tribunale adito, della individuazione delle parti (intese in senso processuale, e non come soggetti del rapporto controverso), della indicazione della udienza di comparizione,
182
della inosservanza dei termini a comparire; infine, della mancanza
dell’avvertimento di cui al n. 7 dell’art. 163. Tutti questi vizi sono sanati dalla costituzione del convenuto con efficacia ex tunc, come era
previsto dal precedente testo dell’art. 164, mentre la novità della novellazione è data dal potere-dovere del giudice, in caso di contumacia del convenuto, di ordinare d’ufficio la rinnovazione della citazione; il che presuppone la indicazione delle parti viziate. La mancata rinnovazione ha per effetto la cancellazione della causa dal ruolo e la conseguente estinzione del processo. Si può aggiungere che
l’art. 164 non indica il momento in cui il rilievo della nullità, nella
contumacia del convenuto, deve avvenire, anche se la sedes naturale è la prima udienza di trattazione. Nulla vieta, peraltro, che il rilievo avvenga nell’ulteriore corso del processo, salvi i problemi che
concernono la tardiva costituzione del convenuto, secondo la previsione del 3° comma dell’art. 164.
Editio actionis. Si tratta, in tal caso, della omissione o assoluta
incertezza della determinazione dell’oggetto della domanda, ovvero
della mancata “esposizione dei fatti” costituenti la ragione della domanda stessa. In proposito, il primo rilievo da avanzare è dato dalla omissione, nel riferimento al contenuto della citazione, degli “elementi di diritto” che entrano a costituire la causa petendi. Omissione deliberata o del tutto casuale? Molto probabilmente, si è voluto
sintetizzare il riferimento al n. 4 dell’art. 163, intendendo esprimere
il principio della esigenza di individuare esattamente il rapporto sostanziale dedotto in giudizio, ferma la diversa disciplina dei diritti
autodeterminati e di quelli eterodeterminati.
Il problema più delicato, che porrà non poche difficoltà nella applicazione della Novella, è costituito dal rilievo della nullità da parte del giudice e dalla indicazione degli elementi in relazione ai quali la domanda deve essere rinnovata o integrata, in relazione alla avvenuta costituzione o meno in giudizio del convenuto. La innovazione prende le mosse da un principio di collaborazione tra il giudice e le parti, nella determinazione del thema decidendum, certamente condivisibile, anche se una certa dose di scetticismo è di rigore, come sempre accade quando sono in gioco i poteri officiosi del
giudice. In questa prospettiva, peraltro, non è da escludere, come
giustamente è stato prospettato, che la collaborazione si estenda anche al convenuto, il quale può avere interesse alla più esatta individuazione dell’oggetto del giudizio.
183
Fermo che la sanatoria, per i vizi della editio actionis, opera ex
nunc, e quindi non impedisce il verificarsi delle decadenze già maturate, resta il delicato problema degli effetti della mancata rinnovazione o integrazione della citazione da parte dell’attore. Non credo che, come è stato sostenuto, il processo debba in tal caso essere
definito “in rito”, ossia con una pronuncia (processuale) di inammissibilità della domanda. Ritengo, invece, che il mancato assolvimento, da parte dell’attore, dell’onere di individuazione dell’oggetto
del giudizio e dei fatti costitutivi della domanda abbia per conseguenza il rigetto “nel merito” della domanda stessa, analogamente a
quanto accade nell’ipotesi di difetto dell’interesse ad agire. Anche in
questo caso, infatti, la decisione non può considerarsi meramente
“processuale”, anche se la diversa classificazione finisce con l’avere
più un significato teorico che una diversa portata pratica.
184
LA DISCIPLINA DELLA NULLITÀ
DELL’ATTO DI CITAZIONE (*)
Relatore:
prof. Andrea PROTO PISANI
titolare della cattedra di diritto processuale civile
presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze
SOMMARIO: 1. I tre sottoatti da cui è composto l’atto di citazione - 2. Gli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale e il problema della nullità
dell’atto di citazione - 3. La disciplina della nullità dell’atto di citazione
nel nuovo testo dell’art. 164 - 4. Analisi dei problemi posti dalla nuova
disciplina - 4.1. Conseguenze della mancata sanatoria della citazione nulla per vizi relativi alla vocatio in ius in ordine ad effetti sostanziali ricollegati alla mera proposizione della domanda giudiziaria - 4.2. Cenni
sulle conseguenze della rinnovazione effettuata oltre il termine perentorio fissato dal giudice o con rinnovazione a sua volta invalida - 4.3. Mancato rilievo tempestivo da parte del giudice di vizi inerenti alla vocatio in
ius - 4.4. Conseguenze in appello (e in Cassazione) delle nullità non sanate della citazione di primo grado per vizi inerenti alla vocatio in ius 4.5. I problemi posti dal richiamo del 4° comma dell’art. 164 al requisito della esposizione dei fatti, e il sottoatto preparatorio della prima udienza - 4.6. Problemi minori inerenti alla nullità del sottoatto di esercizio
dell’azione - 4.7. Conseguenze in appello (e in Cassazione) delle nullità
non sanate della citazione di primo grado per vizi inerenti all’esercizio
dell’azione.
1. I tre sottoatti da cui è composto l’atto di citazione
L’atto di citazione è l’atto introduttivo del processo ordinario di
cognizione.
(*) Rielaborazione della relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 23 al 27 febbraio 1993.
185
Secondo la disciplina dell’art. 163 c.p.c. – così come modificato
dall’art. 7 l. 14 luglio 1950 n. 581 e dall’art. 7 l. 26 novembre 1990
n. 353 – la citazione è un atto formalmente unitario che contiene,
però, tre sottoatti, scindibili sul piano strutturale e soprattutto funzionale.
In particolare la citazione contiene:
a) L’atto di esercizio dell’azione: è l’atto con il quale si “fa valere
un diritto in giudizio”, in conformità a quanto dispongono gli art.
24, 1° comma, Cost. (“tutti possono agire in giudizio per la tutela
dei propri diritti e interessi legittimi”), 99 (“chi vuole fare valere un
diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”) e
81 c.p.c. (“nessuno può fare valere nel processo in nome proprio un
diritto altrui”), 2907 (“alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede
l’autorità giudiziaria su domanda di parte”) e 2697 c.c. (“chi vuole
fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”). A livello di struttura sono requisiti di forma-contenuto di tale atto gli elementi di cui ai nn. 2, 3 e 4 dell’art.
163, nella misura in cui l’indicazione delle parti, della “cosa oggetto
della domanda”, dei “fatti e degli elementi di diritto”, e delle “conclusioni” servono per l’individuazione del diritto fatto valere in giudizio (ma v. le precisazioni che saranno svolte infra con riferimento
ai requisiti di cui al n. 2 e al n. 4 dell’art. 163) e del provvedimento
giurisdizionale (di mero accertamento, di condanna, costitutivo) richiesto.
b) L’atto di vocatio in ius: è l’atto di attivazione del contraddittorio, in conformità a quanto dispongono l’art. 24, 2° comma, Cost.
(“la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”) e 101 c.p.c. (“il giudice non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata”). A livello di struttura sono requisiti di forma-contenuto di tale atto gli elementi di cui ai nn. 1, 2 (nei limiti entro cui
sono funzionali alla mera individuazione di attore e convenuto, su
cui v. infra), 7 dell’art. 163 e 163 bis, nella misura in cui l’indicazione del giudice davanti al quale la domanda è proposta, delle parti,
del giorno dell’udienza di comparizione, l’avvertimento che la costituzione oltre i termini di venti o dieci giorni (prima dell’udienza indicata dall’art. 166) implica la decadenza di cui all’art. 167 e l’assegnazione di termini a comparire non inferiori a quelli indicati nell’art.
163 bis servono a consentire al convenuto l’esercizio tempestivo dei
186
suoi poteri difensivi. La attivazione del contraddittorio non è esaurita dalla redazione della citazione in conformità del modello legale,
ma ricomprende anche la fase della notificazione, secondo quanto
previsto dall’ultimo comma dell’art. 163 (“L’atto di citazione...è consegnato...all’ufficiale giudiziario, il quale lo notifica a norma degli
art. 137 ss.”).
c) La citazione contiene, infine, un terzo nucleo che, secondo la
terminologia accolta da Augusto Cerino Canova, può qualificarsi “atto preparatorio dell’udienza”. Questo nucleo è costituito dagli elementi di cui al n. 4 dell’art. 163, nella misura in cui questi non siano indispensabili per l’individuazione dello stesso diritto fatto valere in giudizio e del provvedimento giurisdizionale richiesto. Riterrei,
invece, che “l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione” (art. 163, n. 5) sia estranea alla citazione quale “atto
preparatorio dell’udienza”: e ciò perché il sistema quale emerge dai
novellati art. 183 e 184 è chiarissimo nel non richiedere, ai fini dello svolgimento della pur centralissima prima udienza di trattazione,
la preventiva indicazione dei mezzi di prova.
L’analisi funzionale completa e chiarisce quella strutturale.
aa) Scopo dell’atto di esercizio dell’azione è il mettere il giudice in condizione di emanare una pronuncia di merito che accerti
l’esistenza o inesistenza del diritto fatto valere in giudizio nel rispetto del principio della domanda. Destinatario di tale atto è anzitutto il giudice, in quanto il potere di assicurare la tutela giurisdizionale dei diritti è condizionato alla proposizione di una domanda
di parte.
bb) Scopo dell’atto di vocatio in ius è il mettere il convenuto in
condizione di difendersi. Destinatario di tale atto è quindi unicamente il convenuto, in quanto l’esercizio tempestivo dei poteri di difesa (eccezioni, prove, domande riconvenzionali) del convenuto è di
fatto condizionato alla conoscenza tempestiva del processo, e la vocatio in ius ha per scopo proprio il provocare tale conoscenza tempestiva.
cc) Lo scopo della c.d. attività preparatoria dell’udienza, infine,
non concerne né il consentire al giudice l’esercizio della funzione giurisdizionale, né il realizzare il principio del contraddittorio; attiene
al consentire che il processo, quale serie di atti diffusa nel tempo e
destinata a concludersi con la statuizione di merito del giudice, si
187
svolga in modo ordinato, ragionevole e non alluvionale. A tale riguardo la soppressione, operata dalla l. 353/90, della irrazionale sovrapposizione tra fase preparatoria e fase istruttoria consentita dal
vecchio testo dell’art. 184 e l’attribuzione invece alla prima udienza
di trattazione ex art. 183 del ruolo centrale per la definitiva fissazione – sotto la direzione del giudice, in un contesto di stretta collaborazione tra giudice parti e difensori – del thema decidendum e
del thema probandum, sono circostanze destinate a rivitalizzare al
massimo questo terzo scopo della citazione, ancorché gli elementi ad
esso funzionali si colgano con una nettezza di certo inferiore rispetto a quella degli elementi funzionali all’atto di esercizio dell’azione
e all’atto di vocatio in ius.
2. Gli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale e il problema della nullità dell’atto di citazione
Il legislatore ricollega alla notificazione dell’atto di citazione una
serie di effetti: processuali e sostanziali.
a) Effetti processuali quali la c.d. perpetuatio iurisdictionis (cioè
la irrilevanza, rispetto alla determinazione della giurisdizione e della competenza, dei mutamenti della “legge vigente” e dello “stato di
fatto” successivi al momento della proposizione della domanda: art.
5 c.p.c.), la litispendenza (cioè la carenza di potere del giudice successivamente adito a pronunciarsi sul merito della domanda già proposta davanti ad altro giudice: art. 39 c.p.c.) ed il corrispondente fenomeno dell’impedimento del giudicato (a seguito della proposizione dell’atto d’appello, del ricorso per cassazione o dell’atto di revocazione, nei termini previsti dagli art. 325, 326 e 327 c.p.c.), la c.d.
perpetuatio legitimationis oggi espressamente disciplinata dall’art. 111
c.p.c., ecc.
b) Effetti sostanziali c.d. conservativi, diretti a rendere irrilevanti
fatti estintivi o modificativi del diritto fatto valere in giudizio che si
verifichino durante la pendenza del processo: quali la sospensione
della prescrizione ex art. 2945 c.c.; l’impedimento della decadenza ex
art. 2964 ss. c.c.; l’opponibilità della sentenza ai terzi aventi causa
dal convenuto che abbiano trascritto il proprio titolo di acquisto dopo la trascrizione della domanda ex art. 2652 e 2653 c.c. o acquistato il diritto dopo la proposizione della domanda ex art. 808 c.c.;
188
l’obbligo del convenuto in azione di rivendica di custodire il bene rivendicato ex art. 948 c.c., ecc.
c) Effetti sostanziali c.d. attributivi, diretti a far conseguire all’attore vittorioso le stesse utilità che avrebbe conseguito ove il diritto
litigioso riconosciutogli fosse stato soddisfatto al momento stesso della domanda: quali la restituzione dei frutti da parte del possessore
di buona fede ex art. 1148, 535, 807, 561, 329, c.c., ecc.; la corresponsione degli interessi sugli interessi ex art. 1283 c.c.; la decorrenza dell’obbligo alimentare ex art. 445 c.c., ecc.
d) Effetti sostanziali, infine, conseguibili a seguito di esercizio
giudiziale o anche stragiudiziale del diritto: quali l’interruzione della prescrizione (limitatamente ai rapporti obbligatori, la cui prescrizione è suscettibile di essere interrotta anche attraverso la costituzione in mora) ex art. 2943 c.c.; l’impugnazione delle rinunzie e transazioni in materia di lavoro ex art. 2113 c.c.; l’impugnazione del licenziamento ex art. 6 l. 15 luglio 1966 n. 604, ecc.
Problema centrale in tutte queste ipotesi è comprendere se questi effetti sono ricollegati ad un atto di citazione valido sia come atto di esercizio dell’azione sia come atto di vocatio in ius sia come
atto preparatorio dell’udienza, o invece sono ricollegati al solo sottoatto di esercizio dell’azione ricompreso nell’atto formalmente unitario di citazione; così che, in questo secondo caso, le eventuali nullità inerenti solo al sottoatto di vocatio in ius o al sottoatto preparatorio dell’udienza non impedirebbero il prodursi degli effetti processuali e sostanziali che il legislatore ricollega alla notificazione della citazione.
In termini molto concreti: l’eventuale domanda giudiziale o atto d’appello proposti con un atto di citazione nullo quale vocatio in
ius per mancata indicazione della data della prima udienza, o per
mancanza dell’”avvertimento” previsto dal nuovo testo del n. 7 dell’art.
163, o per assegnazione di termini a comparire inferiori a quelli previsti dall’art. 163 bis, sono idonei o no a provocare gli effetti della
litispendenza ex art. 39 c.p.c., ovvero ad interrompere la prescrizione ex art. 2943 c.c. (specie là dove si sia alla presenza di un diritto
la cui prescrizione non è suscettibile di essere interrotta attraverso
un atto stragiudiziale di costituzione in mora), ovvero ad impedire
il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, ovvero – ancora ed infine – a produrre gli altri effetti sostanziali conservativi o
attributivi sopra menzionati? E discorso del tutto analogo può esse189
re fatto riguardo ad atto di citazione valido come atto di esercizio
dell’azione e come atto di vocatio in ius, ma invalido come atto preparatorio dell’udienza.
Il problema, come ognun vede, è problema di grossissimo rilievo pratico. È problema che non trova soluzione esplicita nelle disposizioni che prevedono i singoli effetti processuali o sostanziali
giacché in esse il legislatore si è limitato a ricollegare i singoli effetti
processuali o sostanziali alla “domanda giudiziale” (art. 5 c.p.c., 2652,
2653, 808, 948, 1148, 535, 807, 561, 329, 1283, 445 c.c.), “alla notificazione dell’atto con il quale si inizia il giudizio, sia questo di cognizione ovvero conservativo o esecutivo” (art. 2943 c.c.), o “a qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà” (art. 2113 c.c., ma v. in senso affine anche
l’art. 6 l. n. 604 del 1966): così che diviene più che legittimo, ed anzi doveroso, quanto meno chiedersi se per domanda giudiziale debba intendersi l’atto di citazione nella sua interezza o invece il solo
sottoatto relativo all’esercizio dell’azione.
Accanto a tale immensa rilevanza pratica, il tema della nullità
dell’atto di citazione ha, anche e prima, grosso rilievo teorico: come
infatti osservava Enrico Redenti, l’atto di citazione rappresenta il “caso esemplificativo tipico, col quale cimentare le nozioni”, i concetti
relativi alle nullità degli atti per difetto di requisiti di forma-contenuto “anche perché si presta a molte analogie”.
È un tema che costringe a saggiare la correttezza di nozioni fondamentali in tema di nullità degli atti quali:
– la nozione di scopo e i limiti in cui si può avere la convalidazione oggettiva prevista dall’art. 156, 3° comma, e la convalidazione
soggettiva ex art. 157, 2° comma;
– i rapporti tra nullità, rinnovazione e rimessione in termini;
– la rilevabilità della nullità su istanza della parte nel cui interesse è posto il requisito di forma-contenuto allo scopo di consentirle l’esercizio di un potere, e la compatibilità fra sanatoria e rilievo della nullità;
– la rilevabilità d’ufficio della nullità, ove il requisito di formacontenuto sia funzionale ad un potere dell’ufficio o il vizio abbia messo la parte (nel cui interesse era previsto il requisito) nell’impossibilità di partecipare al processo;
– le conseguenze nel giudizio d’appello (e di cassazione) delle
nullità non sanate verificatesi nel corso del giudizio di primo grado.
190
3. La disciplina della nullità dell’atto di citazione nel nuovo testo dell’art.
164
La l. 353/1990 ha integralmente riscritto l’art. 164 relativo alla
nullità della citazione risolvendo molti dei problemi esistenti precedentemente ed in particolare dando una risposta chiara al quesito illustrato retro, ma inevitabilmente aprendone dei nuovi.
La nuova disciplina dettata dal testo novellato dell’art. 164 può
essere così sintetizzata:
a) Si distinguono nettamente i vizi relativi alla vocatio in ius, dai
vizi relativi all’esercizio dell’azione.
b) La disciplina della nullità conseguente a vizi relativi alla vocatio in ius (e cioè all’omissione o assoluta incertezza sul giudice adìto o sulla persona dell’attore o del convenuto, alla mancanza dell’indicazione della data della prima udienza o dell’avvertimento di cui
all’art. 163, n. 7, ovvero all’assegnazione di termini a comparire inferiori a quelli previsti dalla legge) è contenuta nei primi tre commi
dell’art. 164 ed è assimilata alla disciplina della nullità della notificazione così come prevista dall’art. 291 (rimasto invariato a seguito
della novella operata dalla l. 353/90).
La nullità è rilevabile d’ufficio solo in caso di mancata costituzione del convenuto; alla rilevazione della nullità deve accompagnarsi
l’ordine di rinnovazione entro un termine perentorio; la rinnovazione ritualmente effettuata dà luogo ad una fattispecie sanante a carattere retroattivo a seguito della quale “gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima
notificazione”; se la rinnovazione non viene eseguita il processo si
estingue ai sensi dell’art. 307, 3° comma.
La costituzione spontanea del convenuto sana retroattivamente
i vizi della citazione e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della notificazione della citazione originariamente nulla. All’atto della costituzione il convenuto
può dedurre l’inosservanza dei termini a comparire o la mancanza
dell’avvertimento di cui al n. 7 dell’art. 163, allo scopo di ottenere la
fissazione da parte del giudice di una nuova prima udienza di trattazione “nel rispetto del termine”.
Il significato pratico di questa nuova disciplina è notevolissimo:
l’atto di citazione di primo grado o d’appello nullo per assegnazione
di termini a comparire minori di quelli stabiliti dalla legge o per
191
mancata indicazione della data della prima udienza è suscettibile di
sanatoria retroattiva tramite la rinnovazione entro un termine perentorio fissato dal giudice o la costituzione spontanea del convenuto. Dire che la sanatoria ha carattere retroattivo significa dire che
l’atto di citazione originariamente nullo per assegnazione dei termini minimi a comparire minori di quelli stabiliti dalla legge o per
mancata indicazione della data della prima udienza sarà egualmente idoneo a produrre l’effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione ex art. 2943 e 2945 c.c., ovvero a impedire il giudicato (ove si
tratti di atto di citazione d’appello). E lo stesso vale, ovviamente, riguardo agli altri vizi indicati dal 1° comma dell’art. 164.
c) La disciplina della nullità conseguente a vizi relativi all’esercizio dell’azione (e cioè all’omissione o assoluta incertezza sul diritto fatto valere in giudizio) è contenuta negli ultimi tre commi
dell’art. 164 e segue queste linee di fondo: – la nullità è rilevabile
sempre d’ufficio anche in caso di costituzione del convenuto, e ciò
perché la costituzione non ha di per sé alcuna efficacia sanante riguardo a tali vizi; – alla rilevazione della nullità deve accompagnarsi
anche la messa in moto di un meccanismo di sanatoria consistente
nell’integrazione della domanda ovvero nella rinnovazione della citazione a seconda che il convenuto si sia costituito o no; – la sanatoria non ha carattere retroattivo e di conseguenza gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono solo dal momento dell’integrazione o della rinnovazione; – in caso di integrazione della domanda (in quello della rinnovazione della citazione
non vi era necessità di previsione) il giudice fissa una nuova udienza ex art. 183 prima della quale il convenuto deve effettuare le attività previste a pena di decadenza dall’art. 167; – se la rinnovazione o l’integrazione non viene eseguita il processo si estingue in forza della regola generale contenuta nell’art. 307, 3° comma (che l’art.
164, 5° comma, a differenza dell’art. 164, 2° comma, non richiama
esplicitamente).
Questa nuova disciplina delle nullità conseguenti a vizi relativi
all’esercizio dell’azione è coerente al rilievo secondo cui la costituzione del convenuto (tempestiva o tardiva) non può avere di per sé
mai alcuna efficacia sanante riguardo a tali vizi. Posto infatti che i
requisiti inerenti all’esercizio dell’azione sono funzionali all’individuazione del diritto fatto valere in giudizio dall’attore, individuazione che costituisce il presupposto indispensabile per la pronuncia di
192
merito, ne segue che alla presenza di vizi di tale specie la costituzione del convenuto – di per sé, ove non accompagnata da attività
di allegazioni integrative – non sarà mai capace di supplire al vizio
e di porre il giudice in condizione di emanare una pronuncia di merito. Ne segue – pena la violazione del fondamentalissimo principio
della domanda – che, in caso di vizi inerenti all’esercizio dell’azione,
il giudice conserva anche dopo la costituzione del convenuto il potere-dovere di rilevare d’ufficio le nullità conseguenti a difetto di requisiti di forma-contenuto funzionali e a consentire l’esercizio del
suo potere giurisdizionale. La sanatoria di vizi inerenti all’esercizio
dell’azione può conseguire non alla mera costituzione del convenuto, bensì solo ad attività di allegazioni integrative poste in essere (dal
convenuto e soprattutto) dall’attore; tale attività di integrazione, in
conformità ai principi generali in tema di nullità degli atti (art. 162),
deve essere sollecitata dal giudice contestualmente al rilievo della
nullità, e consisterà nella rinnovazione integrale della citazione ove
il convenuto non si sia costituito, e nella mera integrazione della domanda ove il convenuto si sia costituito: in entrambe le ipotesi si dovrà svolgere una nuova prima udienza di trattazione ex art. 183, e
anteriormente ad essa il convenuto potrà svolgere le attività indicate a pena di decadenza dell’art. 167.
È, infine, del tutto ovvio che se manca o è assolutamente incerta l’indicazione del diritto fatto valere in giudizio, l’atto di citazione
difetta del parametro indispensabile alla cui stregua determinare effetti processuali della specie determinazione della competenza o giurisdizione (e ciò anche ove queste siano determinate sulla base di
criteri generali che prescindano dalla particolarità del diritto fatto
valere in giudizio, come accade in ipotesi di foro generale o residenza in Italia dello straniero, poiché egualmente l’assenza di individuazione del diritto fatto valere impedisce il controllo in ordine al
se la competenza o la giurisdizione non siano escluse dalla presenza di un foro esclusivo o da altre circostanze), litispendenza, perpetuatio legitimationis ex art. 111 o effetti sostanziali della specie interruzione o sospensione della prescrizione, impedimento della decadenza, anatocismo, obbligo del possessore di buona fede di restituire i frutti, ecc. Diviene di conseguenza ragionevole prevedere che
gli effetti sostanziali e processuali potranno prodursi solo a far data
dal momento in cui, a seguito dell’integrazione della domanda o della rinnovazione della citazione, la nullità sia stata sanata.
193
4. Analisi dei problemi posti dalla nuova disciplina
Come è inevitabile anche la nuova disciplina dell’art. 164 pone
problemi. Esaminiamone alcuni, anche allo scopo di saggiare in tal
modo il significato di alcuni rilievi svolti retro trattando in generale
delle nullità processuali per vizi di forma-contenuto.
4.1. Conseguenze della mancata sanatoria della citazione nulla per
vizi relativi alla vocatio in ius in ordine ad effetti sostanziali ricollegati alla mera proposizione della domanda giudiziale
La disciplina dei vizi di cui al 1° comma dell’art. 164, vizi tutti
relativi alla sola vocatio in ius, è ricalcata sulla falsariga di quella
della nullità della notificazione di cui all’art. 291.
Ne consegue che, in assenza di sanatoria prodotta da costituzione spontanea del convenuto, gli effetti sostanziali e processuali in
tanto si produrranno a far data dalla prima notificazione, in quanto la citazione sia stata (validamente) rinnovata entro il termine perentorio fissato dal giudice. Ove, invece, la rinnovazione non sia effettuata, il processo si estingue ai sensi dell’art. 307, 3° comma.
Ciò significa che, in assenza di rinnovazione, gli effetti sostanziali e processuali non si produrranno, nonostante la valida notificazione di una citazione valida come atto di esercizio dell’azione, ma
viziata come atto di vocatio in ius.
Una simile disciplina non pone problemi sia riguardo agli effetti processuali i quali sono sempre funzionali ad un processo che non
si estingue, sia riguardo a quegli effetti sostanziali (della specie restituzione dei frutti da parte del possessore di buona fede ex art. 1148
c.c., corresponsione degli interessi sugli interessi ex art. 1283 c.c., decorrenza dell’obbligo alimentare ex art. 445 c.c., obbligo del convenuto in rivendica di custodire il bene ex art. 948 c.c., opponibilità
della sentenza ai terzi aventi causa dal convenuto ex artt. 2652 e 2653
c.c., sospensione della prescrizione ex art. 2945, 2° comma, c.c., ecc.)
il cui prodursi è subordinato alla conclusione del processo con una
sentenza di merito di accoglimento della domanda dell’attore (o almeno con sentenza definitiva: art. 2945, 2° comma, c.c.) e ciò sempre alla mancata estinzione del processo.
Più delicata si presenta la vicenda riguardo ad effetti sostanziali
della specie interruzione della prescrizione ex art. 2943 c.c. o impe194
dimento della decadenza conseguibile anche in via stragiudiziale (tipo impugnazione del licenziamento ex art. 6 l. 604/66 o impugnazione delle rinunce e transazioni ex art. 2113 c.c.). Effetti di questo tipo sono ricollegati dal legislatore alla mera proposizione della domanda giudiziale notificata alla controparte, e si verificano anche in
caso di estinzione del processo. In ipotesi di questa specie, stando alla lettera del 2° comma dell’art. 164 (e del 1° comma dell’art. 291),
gli effetti sostanziali in tanto si producono in quanto si sia verificata
la fattispecie sanante costituita dalla rinnovazione della citazione: in
assenza di tale fattispecie l’atto di citazione originariamente nullo per
vizi inerenti alla vocatio in ius non dovrebbe essere capace di produrre effetti sostanziali neanche della specie ora in esame (senza che
a nulla possa valere la circostanza che norme quali ad es. l’art. 2945,
3° comma, c.c. dispongono che l’effetto interruttivo rimane fermo in
caso di estinzione del processo, perché evidentemente disposizioni di
questo tipo si riferiscono alla estinzione di un processo validamente
instaurato e non alla estinzione conseguente alla mancata sanatoria
della citazione originariamente invalida). Col che nella sostanza – sia
pure unicamente a queste limitate ipotesi – l’interprete si ritrova a
dover fare i conti con una realtà non molto diversa da quella precedente alla l. 353/90; di conseguenza, riguardo ad ipotesi quali quelle
delle impugnative di licenziamenti o di rinunce e transazioni, nonché
di interruzione della prescrizione riguardo a diritti rispetto ai quali
la prescrizione può essere interrotta anche da atti stragiudiziali di costituzione in mora, sarà relativamente agevole – facendo ricorso alla
disciplina della conversione degli atti nulli di cui all’art. 1424 c.c. e
159, 3° comma, c.p.c. – ritenere che l’atto di citazione nullo per vizi
inerenti alla sola vocatio in ius possa valere come impugnazione stragiudiziale ex art. 6 l. 604/66 o 2113 c.c. ovvero come atto di costituzione in mora; riguardo invece alle ipotesi residuali di atto di citazione con cui si sia fatto valere in giudizio un diritto diverso da un
rapporto obbligatorio, cioè un diritto la cui prescrizione non può essere interrotta in via stragiudiziale tramite atti di costituzione in mora, sarà giocoforza dover procedere ad interpretazioni correttive della lettera del 2° comma dell’art. 164 novellato (della stessa identica
specie di quelle prospettate dalla dottrina sotto il vigore del vecchio
testo dell’art. 164), e ritenere (facendo leva anche sull’art. 159, 2° comma) che l’effetto interruttivo della prescrizione è ricollegato dall’art.
2943 ad una fattispecie processuale comprensiva del solo sottoatto
195
dell’atto di citazione relativo all’esercizio dell’azione: con la conseguenza che le invalidità proprie del solo sottoatto di vocatio in ius
non sono capaci di impedire il prodursi dell’effetto interruzione della prescrizione ricollegato dal legislatore alla notificazione del solo atto con il quale si fa valere un diritto in giudizio.
4.2. Cenni sulle conseguenze della rinnovazione effettuata oltre il
termine perentorio fissato dal giudice o con rinnovazione a sua volta
invalida
Sinora si è considerata soltanto l’ipotesi in cui l’attore non abbia provveduto in modo alcuno ad effettuare la rinnovazione disposta dal giudice. È ora da accennare molto rapidamente a due possibili complicazioni.
Si consideri innanzi tutto l’ipotesi in cui l’attore provveda si a
rinnovare la citazione anteriormente alla nuova prima udienza fissata dal giudice, ma la rinnovazione sia effettuata oltre il termine perentorio fissato dal giudice. In tal caso esigenze di economia processuale inducono a superare l’inosservanza del termine perentorio e ritenere che la rinnovazione avrà sì efficacia sanante della originaria
citazione invalida (ed impedirà quindi che il processo si debba concludere per estinzione o con sentenza di rigetto in rito), ma tale sanatoria non avrà efficacia retroattiva: opererà cioè dalla data della notificazione rinnovata e non da quella della prima notificazione.
Si consideri, poi, l’ipotesi in cui la rinnovazione sia effettuata sì
entro il termine perentorio fissato dal giudice, ma in modo ancora
una volta invalido per vizi inerenti alla vocatio in ius. Pur non nascondendomi un certo qual grado di opinabilità, sarei propenso a dare a questa ipotesi soluzione identica a quella data all’ipotesi immediatamente precedente: e quindi ritenere che la citazione invalidamente rinnovata (ove a sua volta sanata dalla costituzione spontanea
del convenuto o tramite seconda valida rinnovazione) abbia sì efficacia sanante (nel senso su precisato) della citazione originaria, ma
con efficacia non retroattiva.
La soluzione accolta per entrambe queste ultime ipotesi, riguardo agli effetti processuali e riguardo agli effetti sostanziali della specie di quelli di cui agli artt. 1148, 1283, 445, 948, 2652, 2653, 2945,
2° comma, c.c. non pone problema alcuno, essendo libero il legislatore di individuare il momento cui ricollegare il prodursi di tali ef196
fetti. Riguardo, invece, ad effetti sostanziali della specie impedimento della decadenza ex art. 6 l. 604/66 o 2113 c.c. ovvero interruzione della prescrizione ex art. 2943 c.c., si ripropongono gli stessi identici problemi esaminati retro, problemi che quindi andranno risolti
nello stesso modo sopra prospettato.
4.3 Mancato rilievo tempestivo da parte del giudice di vizi inerenti alla vocatio in ius
Di grossa delicatezza – per la quantità di principi che coinvolge
– è il problema suscitato dall’ipotesi in cui il giudice, nella mancata
costituzione del convenuto, ometta di rilevare nella prima udienza
l’esistenza di uno dei vizi inerenti all’atto di vocatio in ius di cui
all’art. 164, 1° comma.
– Può nel successivo corso del processo effettuare un simile rilievo? e a quali effetti?
– Ed il convenuto, costituitosi tardivamente, ha ancora il potere di eccepire tale nullità ed ottenere la rinnovazione-rimessione in
termini (nella sostanza il regredire del processo alla fase preparatoria) sulla base della eccezione di nullità, o invece si applica l’art. 294
il quale, ai fini della rimessione in termini, richiede che la nullità
della citazione abbia impedito la conoscenza del processo?
Il problema, come dicevo, è delicatissimo oltre che di grosso rilievo pratico.
Sono prospettabili tre soluzioni:
A) Prima soluzione: – si fa leva sulla circostanza che il potere di
rilievo d’ufficio dei vizi indicati nell’art. 164, 1° comma, non è formalmente limitato alla prima udienza (e che soprattutto appare difficile considerarlo tale riguardo a vizi della specie mancata indicazione del giudice o mancata indicazione dell’attore ex art. 163 nn. 1
e 2 che possono ben avere impedito al convenuto la conoscenza del
processo);
– e di conseguenza si ritiene che in ogni fase del giudizio di primo grado il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità, disporre la rinnovazione ex art. 162 degli atti ai quali si estende la nullità e, nella
sostanza, fare regredire il processo alla fase descritta dal secondo
comma dell’art. 164.
Rilievi critici: una simile soluzione comporta l’abrogazione dell’art. 294, in quanto ragioni di coerenza sistematica impongono di
197
ritenere che anche in ipotesi di costituzione tardiva il convenuto possa ottenere la rinnovazione-rimessione in termini indipendentemente dalla prova che la nullità della citazione gli ha impedito la conoscenza del processo (cosa che i vizi di cui all’art. 163 n. 7 e all’art.
163-bis non impediscono mai);
– si sanziona poi oltre misura l’attore che sia incorso in errori
anche di scarso rilievo (art. 163 n. 7 e 163-bis) privilegiando il convenuto furbo che, nonostante la conoscenza del processo, sia rimasto
alla finestra ritardando al massimo la sua costituzione in giudizio.
B) Seconda soluzione: – si distingue la rinnovazione degli atti
nulli dalla rimessione in termini e si afferma che la rinnovazione degli atti nulli comporta solo rinnovazione degli atti nel contraddittorio della parte che ha subito la nullità, ma non anche la rimessione
nell’esercizio di poteri processuali che dovevano essere esercitati in
una fase del processo oramai superata;
– e di conseguenza si ritiene che in ogni fase del giudizio di primo grado il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità, disporre la rinnovazione ex art. 162 degli atti dipendenti dall’atto nullo senza però
che questo significhi fare ritornare automaticamente il processo alla situazione della prima udienza, poiché la rimessione in termini
sarebbe pur sempre subordinata alla prova da parte del convenuto
tardivamente costituitosi che la nullità della citazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo (cosa che i vizi di cui agli artt.
163 n. 7 e 163-bis – cioè i vizi di gran lunga più frequenti della citazione – non impediscono mai).
Rilievi critici: ammettere la rinnovazione senza la rimessione in
termini significa porsi in contrasto col dato basilare della teoria degli atti processuali secondo cui un atto nullo per vizi di forma va
rinnovato proprio in quanto la nullità ha impedito alla controparte
l’esercizio di un potere: così che rinnovazione senza rimessione in
termini non ha senso;
– non esiste contrapposizione tra atti e poteri processuali: gli atti processuali non sono altro che atti di esercizio di poteri processuali; i requisiti di forma-contenuto indispensabili per il raggiungimento dello scopo sono funzionali a consentire agli altri soggetti del
processo di esercitare quei poteri processuali che la norma attribuisce loro nel segmento di procedimento che segue il compimento del
singolo atto di cui si tratta. La legge in tanto sanziona con la nullità un atto processuale per difetto di requisiti di forma-contenuto,
198
in quanto il singolo vizio non ha consentito alla controparte (alle
parti o al giudice, a seconda che si tratti di atti di parte o del giudice) di esercitare il potere processuale – di compiere gli atti del procedimento – che la norma gli attribuisce nel segmento di procedimento che segue il compimento del singolo atto di cui si tratta. In
questo contesto di teoria generale del processo, saldamente ancorato alla nozione fondamentale di scopo cui sono funzionali i requisiti di forma-contenuto, non diviene più pensabile separare le discipline della nullità ex artt. 156, 159, 162, 164 e della rimessione in
termini ex art. 294. Rinnovare gli atti nulli non significa altro che rimettere gli altri soggetti del processo nella possibilità di esercitare
quei poteri processuali che non avevano potuto esercitare a causa
del difetto del requisito di forma-contenuto funzionale all’esercizio
dei poteri stessi. Rimettere in termini una parte a causa della nullità di atti che le hanno impedito l’esercizio del potere processuale,
altro non è se non consentire la rinnovazione degli atti nulli in modo tale da consentire ai soggetti del processo di esercitare quei poteri che non avevano potuto esercitare a causa della nullità (altra cosa, che non interessa in questa sede, è la rimessione in termini che
sia conseguenza del mancato esercizio del potere per causa genericamente non imputabile: art. 184-bis e art. 294 nella parte in cui prevede la rimessione in termini non solo in caso di nullità della citazione o della notificazione che abbia impedito la conoscenza del processo, ma anche allorché la costituzione sia stata impedita da causa
non imputabile). Alla stregua di questi rilievi l’art. 294 ben lungi
dall’essere disposizione distinta dagli artt. 156, 159, 162, 164, ne costituisce invece la necessaria e coerente integrazione.
C) Terza soluzione (preferibile): – si fa leva sull’art. 294 secondo cui il contumace tardivamente costituitosi in tanto può essere rimesso in termini in quanto la nullità della citazione gli abbia impedito la conoscenza del processo, e sulla impossibilità – alla stregua
della teoria generale delle nullità processuali – di distinguere tra innovazione e rimessione in termini;
– nonché sul rilievo centrale che, ai fini delle sanatorie delle nullità per vizi formali, ha non solo la convalidazione soggettiva ex art.
157, 2° comma secondo cui la nullità si sana se la parte, nel cui interesse era stabilito il requisito, non eccepisce la nullità “nella prima istanza o difesa successiva o alla notizia di esso”, cioè nel primo atto del
processo successivo alla conoscenza dell’atto viziato (e/o del processo);
199
– e su tale base si individua una stretta coerenza, se non addirittura identità, tra il momento ultimo entro il quale la parte può eccepire la nullità ai sensi dell’art. 157, 2° comma, e la rimessione in
termini ex art. 294 subordinata alle nullità della citazione (o della
notificazione) che abbiano impedito la conoscenza del processo.
Alla stregua di questa soluzione – che reputo nettamente preferibile perché è la sola ad essere coerente con la teoria delle nullità
formali esposta in precedenza – occorre distinguere a seconda dei vizi della citazione indicati nell’art. 164, 1° comma:
a) Vizi consistenti nella mancata indicazione del giudice o dell’attore (art. 163 nn. 1 e 2): impediscono la conoscenza del processo e
quindi impediscono al convenuto di costituirsi tempestivamente (o
almeno entro la prima udienza) ed eccepire la nullità (allo scopo di
ottenere la fissazione di una nuova prima udienza anteriormente alla quale potere svolgere le attività difensive indicate nell’art. 167);
impediscono di conseguenza l’operare dell’art. 157, 2° comma, se non
a seguito di una attività che porti a conoscenza del convenuto il processo;
– di conseguenza se tali vizi sono eccepiti dal convenuto all’atto della costituzione tempestiva o tardiva comportano sempre rimessione in termini ex art. 294, con la necessità di fare ritornare il
processo alla fase preparatoria; se non sono rilevati dal giudice nella prima udienza, possono (e devono) essere rilevati anche nell’ulteriore corso del processo determinando una piena rinnovazione-rimessione in termini.
b) Vizi consistenti nella mancata indicazione della data o dell’avvertimento (art. 163 n. 7) o nell’assegnazione di termini minimi a
comparire inferiori a quelli previsti dall’art. 163-bis: si è alla presenza
di requisiti voluti dal legislatore a tutela del corretto e tempestivo
esercizio dei poteri difensivi del convenuto, la cui mancanza però
non impedisce al convenuto la conoscenza del processo e quindi la
possibilità di costituirsi tempestivamente o almeno entro la prima
udienza; di conseguenza i vizi ora in esame non impediscono l’operare dell’art. 157, 2° comma, perché non impediscono al convenuto
di costituirsi almeno entro la prima udienza (ne segue che in queste
ipotesi appaiono come eccezionali la previsione della rilevabilità d’ufficio prevista dall’art. 164, 2° comma e la rimessione in termini prevista dall’art. 164, 3° comma: si tratta di automatismi limitati alla
prima udienza che il legislatore ha probabilmente voluto per elimi200
nare in limine litis ogni dubbio anche psicologico sulla valida instaurazione del processo);
– di conseguenza se tali vizi, nella mancata costituzione del convenuto, non sono rilevati dal giudice entro la prima udienza si sanano (non in forza del mancato rilievo d’ufficio bensì) in forza del
principio generale espresso dall’art. 157, 2° comma; non sono più rilevabili d’ufficio in un momento successivo perché la nullità si è sanata ex art. 157, 2° comma; in caso di costituzione tardiva del convenuto non danno luogo a rinnovazione-rimessione in termini ex art.
294, perché non hanno impedito la conoscenza del processo.
4.4. Conseguenze in appello (e in Cassazione) delle nullità non sanate della citazione di primo grado per vizi inerenti alla “vocatio ius”
La complessa indagine svolta al paragrafo precedente sarebbe
monca se non fosse completata, sia pure per rapidi e sintetici cenni, dall’analisi dei provvedimenti che il giudice d’appello (e la Corte di cassazione) deve emanare ove tramite l’appello sia fatto valere dal convenuto soccombente la nullità non sanata della citazione
di primo grado per vizi inerenti alla vocatio in ius ex art. 164, 1°
comma.
Una premessa si impone: a seguito della pronuncia della sentenza di primo grado le nullità non sanate della citazione sono destinate, in forza del principio della estensione della nullità agli atti
dipendenti ex art. 159, 1° comma, a riverberarsi sulla sentenza. In
particolare, a seguito della pronuncia della sentenza di primo grado
la disciplina della rilevabilità e della sanatoria delle nullità della citazione contenuta nei primi tre commi dell’art. 164 e nell’art. 294
cessa di avere rilievo almeno immediato, in quanto la disciplina è
data immediatamente dall’art. 161 e quindi dalle regole proprie
dell’appello (e del ricorso per cassazione): così che non ha senso il
parlare o il porsi il problema della sanatoria in appello delle nullità
della citazione di primo grado.
Ne segue innanzi tutto che la nullità potrà essere fatta valere in
via di appello principale o incidentale unicamente da parte del convenuto praticamente soccombente; il convenuto praticamente vittorioso potrà tutt’al più far valere la nullità in via di appello (o di ricorso per cassazione) incidentale condizionato ove si ritenga ammissibile tale figura.
201
In secondo luogo, alla presenza di una nullità non sanata della
citazione di primo grado per vizi inerenti alla vocatio in ius, il giudice d’appello, ove tale nullità sia fatta valere tramite l’appello (e nei
limiti in cui sia eccepita la nullità per derivazione ex art. 159, 1°
comma), dovrà fare applicazione del principio generale contenuto
nell’ultimo comma dell’art. 354 in tema di conseguenze della dichiarazione in appello della nullità degli atti del giudizio di primo
grado e, previa rinnovazione– rimessione in termini in appello degli
atti nulli del procedimento di primo grado, pronunciarsi sul merito
della domanda dell’attore; la particolarità della disciplina dell’appello, ed in particolare il divieto di domande nuove ex art. 345, 1° comma, escluderà la proposizione in appello di domande riconvenzionali
o di chiamate in causa di terzi, ma la perdita di tali poteri processuali non arrecherà un pregiudizio irreparabile alla difesa del convenuto appellante, in quanto questi avrà poteri pieni in punto di eccezioni e di prova (sempre, ovviamente che si tratti di nullità non
sanate ai sensi dell’art. 157, 2° comma) (1).
(1) Una simile soluzione – del tutto coerente con i principi generali del nostro
giudizio d’appello e con le ristrette modalità entro cui il principio del doppio grado
è realizzato nel nostro ordinamento positivo – si rivela però sistematicamente non
coerente con la diversa soluzione accolta dall’art. 354, 1° comma, per la contigua ipotesi della nullità della notificazione della citazione di primo grado.
Si tratta però di incoerenza che è propria della tassatività delle ipotesi di rimessione della causa al giudice di primo grado previste dall’art. 354, 1° e 2° comma,
e dell’impossibilità di fare leva sul principio del contraddittorio o sul principio del
doppio grado per superare lo sbarramento di tale tassatività.
Detto questo, mi sembra però doveroso aggiungere che lo sviluppo coerente dei
rilievi svolti, circa la rilevanza centrale che assume l’art. 294 ai fini della stessa esistenza di nullità della citazione e della notificazione (v. retro), importerebbe di superare l’irrazionale interpretazione tradizionale secondo cui la rimessione al giudice di
primo grado per nullità della notificazione debba essere disposta sol che il convenuto-appellante provi il difetto di uno dei requisiti della notificazione richiesti a pena di
nullità dall’art. 160 e di ritenere invece che in tanto la rimessione al giudice di primo grado possa essere disposta (dal giudice d’appello e dalla Corte di cassazione) in
quanto il convenuto-appellante abbia provato anche che lo specifico motivo di nullità
della notificazione gli abbia impedito di aver conoscenza del processo di primo grado. Col che per un verso l’art. 354 cesserebbe di essere norma in insanabile contraddizione con l’art. 294, per altro verso l’incoerenza tra conseguenze in appello della
202
4.5. I problemi posti dal richiamo del 4° comma dell’art. 164 al
requisito della esposizione dei fatti e il sottoatto preparatorio della prima udienza
Di rilievo prevalentemente teorico è il problema posto dal quarto comma dell’art. 164 laddove dispone la nullità della citazione, non
solo per mancanza o assoluta incertezza del requisito stabilito dal n.
3 dell’art. 163 (cioè per mancanza o assoluta incertezza in ordine al
diritto fatto valere in giudizio, cosa che, ove sia azionato un diritto
eterodeterminato, potrà ben dipendere anche dalla mancanza o assoluta incertezza in ordine ai fatti costitutivi allegati), ma anche “se
manca l’esposizione dei fatti di cui al n. 4” dell’art. 163.
La disposizione è destinata a suscitare problemi solo ove sia fatto valere in giudizio un diritto c.d. autodeterminato. Qualora, infatti, sia dedotto in giudizio un diritto c.d. eterodeterminato la citazione, quale atto di esercizio dell’azione, sarà nulla, non solo in caso di
mancata indicazione dei fatti costitutivi, ma anche in caso di assoluta incertezza in tale indicazione.
Ove, invece, sia fatto valere in giudizio un diritto c.d. autodeterminato, la nuova formulazione del 4° comma dell’art. 164 impone di
ritenere che se vi sia assoluta mancanza (non solo incertezza) nell’indicazione dei fatti costitutivi e se tale mancanza non sia stata integrata ai sensi del successivo 5° comma dell’art. 164, il giudice debba chiudere il processo in rito (tramite l’ordinanza di estinzione del
nullità della citazione per vizi inerenti alla vocatio in ius e per vizi della notificazione, pur continuando a sussistere, si ridurrebbe di molto sul piano quantitativo.
È appena il caso, infine, di rilevare che le soluzioni accolte riguardo alle conseguenze in appello delle nullità non sanate della citazione di primo grado per vizi inerenti alla vocatio in ius e alla sua notificazione, trovano applicazione anche nell’ipotesi in cui tali nullità (non sanate) siano fatte valere con ricorso per cassazione. In
caso di nullità della citazione per vizi inerenti alla vocatio in ius la Corte di cassazione dovrà disporre il rinvio della causa ad un giudice di pari grado a quello che ha
pronunciato la sentenza d’appello, perché innanzi a questi, ai sensi dell’art. 354, ultimo comma, si svolga la rinnovazione-rimessione in termini degli atti e dei poteri del
giudice di primo grado consentiti nel corso del giudizio di appello, mentre in ipotesi
di nullità della notificazione la Corte di cassazione dovrà disporre il rinvio della causa al giudice di primo grado, perché davanti a questi si svolga la rinnovazione-rimessione in termini degli atti e dei poteri del giudizio di primo grado.
203
processo ex art. 307, 3° comma): la mancata indicazione dei fatti costitutivi è cioè sanzionata anche nei diritti c.d. autodeterminati sul
piano della nullità e non su quello del rigetto in merito sulla base della regola di giudizio fondata sull’onere della prova ex art. 2697 c.c.
Questa innovazione (di cui probabilmente il legislatore storico
non ha avuto piena consapevolezza) può forse trovare giustificazione nell’esigenza di esaltare la funzione – lo scopo ex art. 156 – preparatoria della prima udienza di trattazione. Non mi sembra cioè irragionevole ipotizzare che nel contesto di un processo in cui alla prima udienza ex art. 183 è attribuito un ruolo centrale per la definitiva determinazione, a seguito di una stretta collaborazione tra giudice parti e difensori, del thema decidendum e del thema probandum,
il legislatore abbia voluto esaltare il ruolo di quel terzo nucleo dell’atto di citazione costituito dai requisiti di forma-contenuto funzionali (non alla vocatio in ius o all’esercizio dell’azione bensì solo) alla
preparazione della prima udienza. Non appare cioè irragionevole consentire che in questa udienza possano essere effettivamente svolte
sotto la direzione del giudice tutte quelle complesse attività indicate
dal nuovo testo dell’art. 183 e che, in un processo ispirato a forti preclusioni, l’assoluta mancanza (non la sola incertezza) nella indicazione dei fatti costitutivi, ove non integrata, sia sanzionata, anche in
caso di deduzione in giudizio di diritti c.d. autodeterminati tramite
la chiusura in rito del processo e non, sulla base della regola di giudizio fondate sull’onere della prova ex art. 2697 c.c., con sentenza di
merito di rigetto dell’istanza.
In questa ottica, il richiamo del 4° comma dell’art. 164 alla mancanza di esposizione dei fatti, va inteso come attribuzione di autonoma rilevanza al sottoatto preparatorio della prima udienza di discussione costituito dalla “esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda”. Il legislatore ha elevato a
livello di requisito di forma-contenuto richiesto a pena di nullità solo la mancanza assoluta nell’indicazione dei fatti e non anche l’incertezza assoluta in tale indicazione o la mancata indicazione degli
elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda. Si tratta di
scelta coerente con l’essenzialità dell’esposizione dei fatti anteriormente alla prima udienza di trattazione allo scopo di consentire (al
convenuto di prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda ex art. 167, 1° comma, e soprattutto) al giudice di
svolgere nella prima udienza quella attività di direzione dell’udienza
204
e di collaborazione con le parti ritenuta indispensabile per la corretta determinazione definitiva del thema decidendum e del thema probandum.
Ove il convenuto si sia costituito e, nonostante l’assoluta mancanza nell’indicazione da parte dell’attore nell’atto di citazione dei
fatti costitutivi del diritto c.d. autodeterminato fatto valere in giudizio, lo svolgimento della prima udienza ex art. 183 abbia consentito
egualmente la corretta determinazione del thema decidendum e del
thema probandum, è da ritenere che la nullità del sottoatto preparatorio dell’udienza non possa più essere pronunciata, perché l’atto ha
raggiunto egualmente il suo scopo ex art. 156, 3° comma: e di conseguenza il giudice non possa, né debba, disporre alcuna integrazione ulteriore.
Nella sostanza al richiamo contenuto nel 4° comma dell’art. 164
alla mancata esposizione dei fatti, pur in caso di deduzione in giudizio di un diritto c.d. autodeterminato, finisce per giocare come possibilità attribuita al giudice, ove il convenuto si sia costituito, di disporre un rinvio della prima udienza di trattazione ex art. 183 per
consentire che, anteriormente alla nuova prima udienza, si svolgano
quelle attività preparatorie che l’originaria mancata indicazione dei
fatti non aveva consentito. Si tratta cioè dell’introduzione nel sistema di un limitato fattore di elasticità nella sostanza rimesso al potere discrezionale del giudice.
4.6. Problemi minori inerenti alla nullità del sottoatto di esercizio
dell’azione
Individuata in tal modo la funzione del requisito dell’esposizione dei fatti anche laddove non siano indispensabili ai fini della individuazione del diritto fatto valere in giudizio, restano da risolvere
alcune questioni residuali.
Innanzi tutto, nonostante la lettera del 5° comma dell’art. 164,
è da ritenere che, ove sia fatto valere in giudizio un diritto c.d. autodeterminato per la cui individuazione non è necessaria l’indicazione dei fatti costitutivi, la nullità della citazione quale atto preparatorio dell’udienza non impedisca all’atto di citazione di produrre
sin dalla sua notificazione tutti gli effetti sostanziali e processuali: e
ciò sulla base di una linea di ragionamento del tutto identica a quella seguita sotto il vigore del precedente testo dell’art. 164 per soste205
nere, in via di interpretazione correttiva, tale idoneità per l’atto di
citazione nullo per vizi inerenti alla sola vocatio in ius.
In secondo luogo il quarto comma dell’art. 164 non richiama,
quale motivo di nullità dell’atto di esercizio dell’azione, la mancanza o l’assoluta incertezza del requisito di cui al n. 2 dell’art. 163.
La soluzione mi sembra corretta perché il n. 2 dell’art. 163 si riferisce alla mera indicazione dell’attore e del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono: come tale
esso individua un requisito di forma-contenuto funzionale alla mera
vocatio in ius.
È da considerare però che un diritto si individua non solo attraverso le sue componenti oggettive (contenuto ed eventualmente fatti
costitutivi), ma anche attraverso le sue componenti soggettive, cioè
tramite l’indicazione dei soggetti che (alla stregua delle affermazioni
dell’attore) sono parti del rapporto sostanziale dedotto in giudizio. Ne
segue che ove la mancanza o assoluta incertezza nell’indicazione dei
soggetti di cui al n. 2 dell’art. 163 concerna non solo le c.d. parti in
senso formale (soggetti degli atti e degli effetti del processo), ma anche le parti del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, si avrà nullità della citazione ai sensi del 4° comma dell’art. 164 per assoluta incertezza in ordine alle componenti soggettive del diritto fatto valere
in giudizio e l’atto di citazione sarà idoneo a produrre effetti sostanziali e processuali solo a seguito della sanatoria, non retroattiva, costituita dalla rinnovazione o dall’integrazione di cui al 5° comma
dell’art. 164; e lo stesso sarà da ritenere quando – in caso di scissione tra parti in senso formale, e parti del rapporto sostanziale – l’atto di citazione individui correttamente le parti in senso formale, ma
non anche le parti del rapporto sostanziale fatto valere in giudizio.
4.7. Conseguenze in appello (e in Cassazione) delle nullità non sanate della citazione di primo grado per vizi inerenti all’esercizio dell’azione
Si è visto retro come la nullità non sanata della citazione di primo grado per vizi inerenti alla vocatio in ius, ove fatta valere dal convenuto soccombente tramite l’appello, comporti piena possibilità di
conclusione del giudizio d’appello con una pronuncia di merito sulla
domanda proposta dall’attore in primo grado, previa rinnovazione-rimessione in termini in appello degli atti nulli del procedimento di
206
primo grado, in applicazione della regola generale enunciata dall’ultimo comma dell’art. 354 riguardo alle conseguenze della dichiarazione in appello della nullità degli atti del giudizio di primo grado.
La soluzione è radicalmente diversa ove tramite l’appello sia fatta valere la nullità non sanata della citazione di primo grado per vizi inerenti all’esercizio dell’azione. In ipotesi di tale specie il giudice
d’appello, ove tale nullità sia fatta valere attraverso il mezzo di gravame (ché altrimenti il principio della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione ex art. 161, 1° comma, gli preclude
la rilevabilità del vizio), dovrà chiudere il giudizio con una sentenza
di absolutio ab instantia di mero rito dichiarativa della nullità della
sentenza di primo grado e dell’intero procedimento; per un verso, infatti, la rimessione al giudice di primo grado è esclusa dal carattere
tassativo delle ipotesi di rimessione indicate nell’art. 353 e nei primi
due commi dell’art. 354; per altro verso nel corso del giudizio d’appello – stante il divieto di domande nuove e la relativa inammissibilità rilevabile d’ufficio sanciti dall’art. 345, 1° comma – non sono
più possibili quelle attività di allegazioni integrative che solo se svolte nel corso del giudizio di primo grado (spontaneamente alla prima
udienza o in ottemperanza all’ordine del giudice) possono consentire la legittima emanazione di una pronuncia di merito, nonostante
il vizio inerente all’esercizio dell’azione.
Analogamente, in caso di nullità non sanata dell’atto di citazione di primo grado per vizi inerenti all’esercizio dell’azione, la Corte
di cassazione dovrà disporre la cassazione senza rinvio della sentenza
di primo e di secondo grado.
[giugno 1994]
207
IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO: CITAZIONE,
EVENTUALE NULLITÀ DELLA STESSA,
COSTITUZIONE DEL CONVENUTO, EVENTUALE
INTEGRAZIONE DEL CONTRADDITTORIO
E CHIAMATA DI UN TERZO IN CAUSA (*)
Relatore:
dott. Fabio Massimo GALLO
giudice del Tribunale di Roma
Una breve premessa
La riforma del processo di cognizione contenuta nella l. 353 del
26 novembre 1990 è dichiaratamente finalizzata ad accelerare lo svolgimento del processo civile dopo le numerose condanne inflitte allo
Stato italiano dalla Corte Europea di Strasburgo per l’eccessiva durata dei procedimenti.
Lo scopo della legge viene perseguito, dal Legislatore, attraverso una serie di interventi , tra i quali non rientra - a mio parere - la
disciplina della citazione, che rimane sostanzialmente immutata se
non per alcune previsioni innovative (ma non travolgenti) in tema di
nullità.
Forse più pregnanti e decisivi appaiono altri interventi, quali l’introduzione del giudice monocratico (sia pure con riserva di collegialità), la modifica degli artt. 38 e 40 c.p.c., la stessa soppressione
dell’udienza di rinvio nell’art 181, e soprattutto la modifica del 282
con la dichiarazione della provvisoria esecutività della sentenza; un
discorso a sé richiederebbero i procedimenti d’urgenza, che escono
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 17 al 21 gennaio
1994.
208
fortemente ridimensionati dalla riforma, mentre non vedo una portata di grande rilievo negli articoli 186 bis e, soprattutto 186 ter.
Per quanto riguarda l’atto introduttivo del giudizio, in particolare, si deve rilevare come sia mancata la volontà (o forse il coraggio) di sostituire la vecchia citazione a udienza fissa con il ricorso,
unico atto in grado di assicurare, ed imporre, concentrazione della
domanda e dei mezzi di prova.
Il sistema che scaturisce dalla nuova formulazione degli articoli 163, 163 bis, 164, 166, 167, 183, 184 e 184 bis c.p.c. rappresenta
poco più di un recupero del testo originario del codice, prima della
novella del 1950, e molto, molto meno rispetto al sistema introdotto per le controversie di lavoro dalla l. 533 del 1973.
La citazione
Rimane, come si è detto, il sistema della citazione a udienza fissa, e nel testo dell’art. 163 c.p.c. l’unica innovazione è rappresentata dall’aggiunta dell’avvertimento, al convenuto, che la costituzione
tardiva implica le decadenze di cui all’art. 167.
Tuttavia, la citazione si inserisce oggi in un mutato contesto processuale, caratterizzato da una più rigorosa disciplina delle preclusioni (anche se più elastica rispetto al rito del lavoro) ed in particolare
da una posizione del convenuto resa più difficile sul piano difensivo,
tanto che da più parti si lamenta una posizione svantaggiata del contenuto rispetto a quella di chi agisce; indubbiamente, l’attività defensionale del convenuto incontra maggiori limitazioni, prima di tutto
temporali, dato che la costituzione deve avvenire almeno venti giorni
(o dieci , in caso di abbreviazione dei termini) prima dell’udienza fissata nell’atto di citazione, sicché dal combinato disposto degli articoli 163 bis e 166 risultano quaranta giorni a disposizione per la completa articolazione delle difese, mentre l’attore, oltre ovviamente alla
disponibilità iniziale di tempo prima di articolare la propria domanda, conserva ancora la facoltà di costituirsi in udienza, utilizzando così tutto il tempo per meglio precisare la propria difesa nell’udienza ex
art. 183, e soprattutto la difesa del convenuto si trova a dover espletare la propria attività nel termine (peraltro non certo iugulatorio) di
quaranta giorni, anche se poi la prima udienza può essere differita dal
giudice ai sensi dell’art. 186 bis, u.c.,in misura anche rilevante trat209
tandosi pacificamente di termini ordinatori, come purtroppo avviene
nel processo del lavoro in alcuni uffici, quali Roma, dove il numero
di processi impedisce il rispetto dei termini indicati dal Legislatore del
1973; con la differenza che, nel rito lavoristico, il convenuto riceve fin
dall’inizio la notificazione del decreto di fissazione d’udienza insieme
al ricorso, sicché è subito messo in condizione di scadenzare la propria difesa in vista dell’effettiva data della prima udienza.
È opportuno anche ricordare che la Corte Costituzionale, con
decisione n. 13 del 1977 (Foro It. 1977, I, 259) ebbe a dichiarare
infondato il dubbio sulla legittimità costituzionale in ordine alle preclusioni a carico del convenuto nel processo del lavoro, proprio per
il motivo che le preclusioni stabilite dall’art. 416 c.p.c. dovevano ritenersi operanti a carico del ricorrente nella propria attività attrice.
Analogamente, la Suprema Corte di cassazione (n. 4896 del giorno 11/8/81) ha affermato che la sanzione della decadenza, ancorché
espressamente comminata solo per il convenuto dall’art. 416, deve
intendersi operante anche nei confronti del ricorrente che non assolva il proprio onere di specificazione e di produzione.
Per le considerazione che precedono, ritengo che l’art. 163 vada
letto con particolare rigore, come pure l’art. 164 (su cui torneremo)
perché, se da un lato è certamente vero che il processo deve tendere
a concludersi con una decisione di merito e non meramente processuale è pari indiscutibile che tale esigenza non può spingere il giudicante né a comprimere il diritto di difesa di una delle parti né a dilatare i rinvii con una continua alternanza di integrazioni e difese,
violando il dettato degli articoli 183 e 184, e frustando la ratio legis,
vanificando, in poche parole, lo sforzo del Legislatore, unico soggetto cui competono le scelte di fondo in un ordinamento democratico.
Ciò detto, rileviamo che la citazione mantiene la sua struttura di
atto unitario contenente però tre diversi nuclei: l’atto di esercizio
dell’azione, l’ atto di attivazione del contraddittorio (vocatio in ius) e
l’atto preparatorio all’udienza, costituito dagli elementi di cui ai n. 4
e 5 perché la preventiva indicazione dei mezzi di prova, pur non essendo indispensabile stante la possibilità di integrazione all’udienza
ex art. 183, si presenta però come sistematicamente connesso all’editio actionis, mentre la formulazione dei mezzi di prova all’udienza di
cui all’art. 183 (in vista della pronuncia del G.I. alla successiva udienza ex art. 184) risulta soltanto un momento eventuale, anche se è facile intuire che sarà continuamente utilizzato tale strumento.
210
Esamineremo poi singoli aspetti della citazione con riferimento
alle ipotesi di nullità.
Nullità della citazione
La disciplina delle nullità risente direttamente della composita
struttura della citazione, come sopra delineata.
Il vecchio testo dell’art. 164 sanciva la nullità della citazione in
caso di omissione o assoluta incertezza degli elementi di cui ai numeri 1,2 e 3; in caso di mancata indicazione dell’udienza di comparizione dinanzi al giudice istruttore; se assegnava un termine per
comparire minore di quello stabilito dalla legge.
Dunque, nulla si diceva circa la mancanza, o l’assoluta incertezza, dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, e delle
conclusioni; venivano assoggettati al medesimo regime vizi attinenti alla vocatio in ius e all’esercizio dell’azione; la costituzione del
convenuto sanava sempre ogni vizio della citazione (di ogni genere,quindi) ed infine la sanatoria aveva sempre efficacia ex nunc, con
salvezza dei diritti quesiti, cioè degli effetti sostanziali e processuali maturati a favore del convenuto nel periodo dalla notificazione
dall’atto di citazione nullo alla costituzione del convenuto.
Nella vecchia (e perdurante, stante l’ulteriore rinvio al 3 luglio
84) disciplina, si presentano alcuni rilevanti problemi: anzitutto, non
regola ex professo i rapporti con gli articoli 156, 157 e 159; nulla dice, a differenza del 291, sulla rinnovazione o non ex art. 162; sembra consentire che la costituzione sani anche i vizi relativi all’esercizio dell’azione. Inoltre il capoverso dell’art. 164 prevede, per l’ipotesi di nullità poi sanata della citazione, sempre la salvezza dei diritti quesiti, anche in difetto dei requisiti della vocatio in ius. Ancora, l’art. 164 non fa differenza tra costituzione tempestiva e costituzione tardiva, generando una serie di questioni di coordinamento con
gli articoli 156, 3° comma, 162 e 294.
Poi, l’art. 354 non prende in esame l’ipotesi della nullità della citazione di primo grado in relazione all’appello e alla cassazione.
Un approfondimento dello studio sulla nullità della citazione è
scaturito, in dottrina, a seguito dell’introduzione del rito del lavoro,
che segna una distinzione evidente tra esercizio dell’azione e vocatio
in ius.
211
Infatti il processo del lavoro ha come atto introduttivo il ricorso, nel quale viene svolta la domanda e con il quale deve altresì essere compiutamente operata l’esplosione dei fatti e degli elementi di
diritto posti alla base della domanda, nonché l’indicazione dei mezzi di prova; il contraddittorio viene invece attivato mediante il decreto pretorile di fissazione dell’udienza, decreto da notificarsi unitamente al ricorso.
Tale distinzione comporta una serie di conseguenze di rilievo, ad
esempio poiché la litispendenza si determina con il deposito del ricorso e non con la successiva notifica, la nullità del decreto o comunque i vizi dello stesso non impediscono il sorgere ab origine di
alcuni effetti processuali; così come la notifica del ricorso assume
valore interruttivo della prescrizione anche se il decreto di fissazione è irrimediabilmente viziato.
Per altro verso, ha assunto rilevanza , ai fini dell’atto di citazione (sulla scorta dell’esperienza giuslavorista) dell’allegazione dei fatti costitutivi quanto meno per i diritti c.d. eterodeterminati, cioè per
quei diritti per l’individuazione dei quali è indispensabile l’indicazione del fatto costitutivo perché possono sussistere più volte, con lo
stesso contenuto, tra le parti (é il caso dei diritti d’obbligazione).
La nuova disciplina risulta certamente più analitica e puntuale
della precedente, e risolve molti (non tutti) i dubbi in materia. Sulla base della nuova formulazione dell’art. 164 c.p.c. appare chiara la
distinzione tra vizi relativi alla vocatio in ius e quelli concernenti
l’editio actionis.
La sanzione della nullità, per il primo gruppo, concerne le ipotesi di omissione o assoluta incertezza del giudice adito; dell’identificazione delle parti e della data d’udienza; di assegnazione di un termine a comparire inferiore a quello di legge; di omesso avvertimento in ordine alle decadenze di cui all’art. 167.
Sono fattispecie che non richiedono particolare esame, salvo che
per ricordare come l’identificazione delle parti debba avvenire, per
giurisprudenza costante, attraverso l’esame complessivo dell’atto, al
di là di formalismi ma valutando se comunque, in concreto,sia sufficientemente individuato il convenuto (cfr. tra le altre, Class. Sez. I
22.1.87 n. 562; Sez. I 2.4.92 n. 4019; Sez. Lav. 17.6.92 n. 7420).
Quanto al motivo di nullità costituito dal mancato avvertimento che in caso di costituzione tardiva il convenuto incorrerà nelle decadenze di cui all’art. 167, si segnala, per completezza, un orienta212
mento (Tarzia) secondo cui l’avvertimento dovrebbe indicare espressamente le decadenze stesse, e non soltanto per relationem con il richiamo all’articolo del codice. Francamente mi sembra che tale opinione, estremamente garantista, vada al di là della lettera della legge e del principio di comune diligenza, e ritengo sufficiente il rinvio
all’art. 167 per richiamare l’attenzione del convenuto, uomo medio,
sulla necessità di difendersi tempestivamente.
Il codice detta partitamente le regole da seguire in presenza delle nullità predette, relative alla chiamata in giudizio, e distingue il
caso in cui il convenuto si costituisca, da quello di mancata costituzione.
In tale ultima ipotesi, il giudice, rilevata la nullità della citazione, dispone d’ufficio la rinnovazione della citazione stessa entro un
termine perentorio; la rinnovazione ritualmente eseguita sana ab initio i vizi, sicché gli effetti processuali e sostanziali della domanda si
producono dalla data della prima notificazione.
La mancata rinnovazione della citazione comporta la cancellazione dal ruolo e l’estinzione ex art. 307, 3° comma (art. 154, 2° comma).
Nel silenzio della legge, sembra preferibile ritenere che, retroagendo la sanatoria, mantenga (o riprenda) valore la prima notifica
anche ai fini dell’individuazione del giudice originariamente adìto,
con la conseguenza che il secondo giudice dovrà dichiarare la litis
pendenza, o adottare i provvedimenti ai fini della riunione: è infatti
il primo procedimento che prosegue, e non il secondo.
In relazione alla costituzione del convenuto, si osserva anzitutto che la sanatoria opera retroattivamente, ferma restando la possibilità di remissione in termini, o comunque di svolgere le attività difensive essenziali per il rispetto del contraddittorio.
Si pone il problema se la costituzione cui fa riferimento il 3°
comma dell’art. 164 sia soltanto quella tempestiva, e comunque non
oltre la prima udienza, o qualsiasi costituzione anche avvenuta oltre la prima udienza. A tale proposito, propenderei per la prima ipotesi, dal momento che il 3° comma dell’art. 164 appare, sistematicamente, legato in modo intrinseco al 2° comma, che si riferisce al
convenuto non ancora costituito ma contumace, situazione che si
realizza soltanto nella prima udienza; inoltre, e soprattutto, perché
la costituzione tardiva è espressamente disciplinata dall’art. 294
c.p.c..
213
Dobbiamo poi esaminare due questioni, relative all’ipotesi di rinnovazione effettuata oltre il termine perentorio e di rinnovazione a
sua volta invalida.
Sono ipotesi che potranno presentarsi nella realtà degli uffici
giudiziari, e sulle quali già si riscontra una diversificazione di posizioni in dottrina.
Quanto alla rinnovazione tardiva, PROTO PISANI (in Foro it.
1991, parte V, La nuova disciplina della nullità dell’atto di citazione)
afferma che la rinnovazione avrà comunque efficacia sanante ma non
con efficacia retroattiva, opererà cioè dalla data della notificazione
rinnovata e non da quella della prima notificazione.
Poiché tale soluzione si presenta come un ibrido, dettato forse più
dallo sforzo di salvare comunque il processo che non da argomentazioni di natura sistematica ricavabili dai principi generali, riterrei più
soddisfacente la tesi del VERDE (Codice di Procedura Civile, VERDEDI NANNI, ed. Utet 1993, pag. 88) secondo cui la tardiva rinnovazione della citazione comporta ugualmente l’applicazione dell’art. 307, 3°
comma, con conseguente estinzione del processo (si tratta infatti di
termine definito perentorio dallo stesso art. 164, 2° comma).
Per l’ipotesi di rinnovazione a sua volta viziata, ancora il PROTO PISANI (ibidem) propende per la possibilità di ulteriore valida
rinnovazione, mentre VERDE-DI NANNI (op. cit.) escludono la possibilità di un nuovo ordine di rinnovazione. Personalmente seguirei
tale orientamento, che mi pare più coerente con il disegno legislativo teso ad impedire rallentamenti più o meno voluti dell’iter processuale. In tal caso, si dovrà scegliere tra l’estinzione ex art. 307, o la
sentenza di assoluzione del convenuto dall’osservanza del giudizio,
come proposto dal BALENA (Le nuove leggi civili). Francamente, per
ragioni di speditezza processuale propenderei per l’estinzione, ravvisando nell’irregolarità della rinnovazione una fattispecie corrispondente alla mancata rinnovazione; nessun pregiudizio sostanziale deriva all’una o all’altra parte dalla scelta di una delle soluzioni sopra
prospettate.
Il 3° comma dell’art. 164 prevede altresì che, se il convenuto costituitosi deduce l’inosservanza dei termini a comparire, o la mancanza dell’avvertimento previsto dal n. 7 dell’art. 163, il giudice fissa una nuova udienza nel rispetto dei termini.
Tale norma è evidentemente destinata a permettere al convenuto di espletare compiutamente la sua attività difensiva, e demanda
214
alla valutazione dell’interessato l’opportunità o non di dedurre la lesione del proprio diritto di difesa; se però il convenuto deduce quanto sopra, non ha necessità di dimostrare di non aver potuto articolare le proprie difese: il pregiudizio risulta presunto, iuris et de iure,
e non abbisogna di prova e neppure di deduzione.
È altresì opportuno, a questo punto, prendere in esame una ipotesi non contemplata dal codice, ma possibile nella realtà: l’ipotesi
che il giudice si accorga, soltanto dopo l’udienza ex art. 183, magari avendo dichiarato la contumacia del convenuto, che la citazione è
colpita da uno dei vizi di cui all’art. 164, 1° comma.
Dovrebbe trovare applicazione, in questo caso, il principio fondamentale, di portata generale, contenuto nell’art. 156. Pertanto il
giudice mantiene, nella contumacia del convenuto, il potere di dichiarare d’ufficio la nullità, ma solo se il vizio ex art. 164, 1° comma, sia tale da aver impedito al convenuto di conoscere l’esistenza
del processo, e in tal caso il giudice dovrà disporre la rinnovazione
della citazione, essendo poi rimessa alla volontà del convenuto la
scelta se costituirsi o non, e se far valere o non la nullità degli atti
dipendenti dalla citazione nulla.
Le nullità derivanti da vizi della editio actionis sono disciplinate nei commi 4, 5 e 6 dell’art. 164.
Esse derivano dalla omissione o dalla assoluta incertezza della
“determinazione della cosa oggetto della domanda” (n. 3 dell’art. 163)
o dalla mancata esposizione “dei fatti...costituenti le ragioni della domanda”. Ciò perché tali lacune rendono l’atto inidoneo ad individuare il diritto che si vuole far valere.
L’omissione, o l’assoluta incertezza, relativamente alla determinazione della cosa oggetto della domanda, era già prevista come causa di nullità nel precedente sistema. È invece innovativa la previsione della mancata esposizione dei fatti di cui al n. 4 (dell’art. 163).
Si deve subito sottolineare che, in riferimento al n. 4 dell’art.
163, il Legislatore ha sanzionato con la nullità soltanto la mancata
esposizione (e non l’assoluta incertezza) dei fatti costituenti le ragioni della domanda; non ha preso in considerazione, ai fini della
nullità, gli elementi di diritto, né le conclusioni.
In effetti, non mi pare che, ai fini della editio actionis, il nuovo
sistema configuri un intervento rivoluzionario; ma soltanto un blando correttivo, per mitigare appena il magmatico sistema nato con la
novella del 1950.
215
Comunque, qualcosa di più viene richiesto all’attore, e non si
può non sottolineare che, anche se la norma parla soltanto di omissione dei fatti (e non di assoluta incertezza) tuttavia sono facilmente ipotizzabili, e purtroppo riscontrabili, casi in cui l’esposizione dei
fatti costituenti le ragioni della domanda è talmente confusa, contraddittoria ed incerta da essere equiparata all’omissione: interpretando dunque in modo sostanziale e non formale la nozione di omissione, essa dovrebbe abbracciare anche quelle ipotesi in cui l’esposizione sia solo apparente, tale perciò da non giustificare diverso trattamento dall’omissione pura e semplice; e ciò, nel rispetto della ratio legis, che è quella, già ricordata, di sottrarre il nostro Paese ad
altre critiche e condanne internazionali, nonché, perché no, di dare
realizzazione concreta all’art. 24 della Costituzione, permettendo agli
uffici giudiziari di svolgere il loro lavoro e di non rimanere incagliati
in un mare di rinvii.
La dottrina ritorna, riguardo alla mancata esposizione dei fatti,
alla distinzione tra diritti c.d. eterodeterminati (per i quali l’indicazione del fatto costitutivo ha valore non solo come tema di prova,
ma prima ancora come requisito di validità dell’atto) e diritti c.d. autodeterminati (diritti assoluti in genere) in relazione ai quali il fatto
costitutivo, la causa petendi, non è necessario per la loro individuazione (essi sono individuati sulla base della sola indicazione del contenuto, inteso come bene che ne costituisce l’oggetto e come rapporto giuridico che ne costituisce il fondamento) ma rileva unicamente come tema di prova (PROTO PISANI, cit.).
Sulla base di tali considerazioni, il citato Autore sostiene che,
ove venga fatto valere il giudizio un c.d. diritto autodeterminato, anche la mancanza dell’esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda non dovrebbe comportare la nullità della citazione, salvo eventualmente il rigetto della domanda ai sensi dell’art. 2697 c.c.
È certo peraltro, come riconosciuto dallo stesso insigne scrittore, che la mancata indicazione dei fatti costitutivi è sanzionata di
nullità, ai sensi del 4° comma art. 164, anche per i c.d. diritti autodeterminati.
Il successivo comma 5° prevede due forme di sanatoria per le
nullità di cui al 4° comma: la rinnovazione della citazione, se il convenuto non si è costituito; l’integrazione, se il convenuto è costituito. Come si vede, la costituzione del convenuto non sana di per sé
il vizio dell’editio actionis, ma consente un intervento correttivo (l’in216
tegrazione) di minore ampiezza rispetto alla rinnovazione. Del resto,
soltanto un’attività dell’attore può sanare il vizio relativo alla domanda, né può trovare applicazione, per il 4° comma, l’art. 294 c.p.c.
perché quest’ultimo è idoneo soltanto ai casi di vizi nella vocatio in
ius.
Se l’attore non esegue l’ordine di integrazione, per il quale la legge stabilisce la perentorietà del termine, si dovrà scegliere tra l’applicazione dell’art. 307 (che però non fa menzione di tale tipo di atti) e la pronuncia di rito, con sentenza.
Se poi l’attore rinnovasse la citazione o procedesse all’integrazione senza eliminare il vizio, il giudice non potrebbe concedere nuovo termine. La conseguenza dovrebbe essere, ancora una volta, l’estinzione del processo; o la sentenza dichiarativa della nullità.
Come già detto, la costituzione del convenuto, in presenza di vizi relativi all’esercizio del diritto, ha effetto sanante ex nunc.
Quanto al tipo di udienza da fissare, l’u.c. dell’art. 164 prevede
che, in caso di integrazione, il giudice fissa l’udienza ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 183 (e cioè l’udienza per le deduzioni istruttorie); per l’ipotesi di rinnovazione, il giudice dovrebbe invece fissare
l’udienza ex art. 183 nel rispetto dei termini a comparire.
L’omissione degli elementi di diritto non costituisce motivo di
nullità, evidentemente perché se l’elemento di diritto è indispensabile per l’individuazione del diritto fatto valere in giudizio rientra nei
requisiti del n. 3 dell’art. 163; altrimenti, vige il principio generale
iura novit curia.
Le conclusioni, poi, possono essere precisate in prima udienza,
con l’autorizzazione del giudice, ferma restando l’identità del bene
giuridico sostanziale (art. 163, n. 3).
Le nullità in sede di gravame
Rimane immutato il principio dell’assorbimento delle nullità nei
mezzi di gravame.
Immutato altresì resta l’art. 354 c.p.c. che prevede la tassatività
dei casi di rimessione al giudice.
Tuttavia l’accentuata distinzione tra ipotesi di nullità connesse a
vizi della vocatio in ius ed ipotesi di nullità afferenti l’esercizio del
diritto lasciano prevedere sviluppi giurisprudenziali, anche tenuto
217
conto delle costruzioni dottrinali già formulate che tendono a valorizzare la differenza tra le varie fattispecie.
La costituzione del convenuto e la comparsa di risposta.
Si è già visto come la disciplina della costituzione del convenuto abbia subito significative innovazioni.
La prima modifica concerne il termine per la costituzione, anticipato a 20 giorni e, in caso di abbreviazione, a 10.
A differenza dei termini a comparire (60 giorni liberi) l’art. 166
prevede un termine non libero, e perciò comprensivo del dies ad
quem, secondo l’art. 155, I c. (cfr. Cass. 21/1/84 n. 526).
Trattandosi di termine a ritroso, dettato nell’interesse dell’attore (e
del giudice che deve necessariamente giungere preparato all’udienza di
trattazione) ove il termine scada in un giorno festivo, non verrà posticipato bensì anticipato al giorno feriale immediatamente precedente.
Poiché il convenuto viene già a trovarsi nella gravosa posizione
di doversi difendere entro 40 giorni al massimo, appare opportuno
un uso estremamente limitato dell’istituto dell’abbreviazione dei termini, che non è stato soppresso legislativamente.
Il primo comma dell’art. 167 dispone, innovativamente, che il
convenuto debba prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda. Tale integrazione deriva direttamente
dall’art. 416, u.c. che disciplina la costituzione del convenuto nelle
cause di lavoro. Si tratta tuttavia di una previsione programmatica,
non colpita da alcuna sanzione.
Il secondo comma, invece, è assai più incisivo, in quanto stabilisce l’onere, a pena di decadenza, di proporre le eventuali domande
riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano
rilevabili d’ufficio.
Direi che tale norma costituisce il fulcro della nuova disciplina
dell’istruttoria, e costituisce la prima barriera di preclusioni a carico del convenuto, che si pone in simmetria processuale con la barriera a carico dell’attore, risultante dall’art. 163 e concernente le allegazioni che determinano l’oggetto della domanda (art. 163, 3° comma n. 3 e n. 4) e l’indicazione dei mezzi di prova.
Tanto lo sbarramento a carico dell’attore che a carico del convenuto sono in certa misura elastici, in virtù delle disposizioni degli
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articoli 183 e 184, ma la possibilità di correggere gli atti introduttivi si esaurirà nella prima udienza, quanto alle domande, e nella successiva, quanto ai mezzi di prova.
Infine, l’ultimo comma dell’art. 167 regola la chiamata in causa
di un terzo.
L’art. 167 contiene dunque un nucleo di disposizioni (il 1° comma) la cui inosservanza non comporta sanzioni processuali: infatti il
convenuto potrà proporre, fino alla comparsa conclusionale, le mere difese in diritto, ossia la contestazione dell’efficacia giuridica dei
fatti allegati dall’attore.
Così pure, potrà svolgere le mere difese in fatto, contestando genericamente o specificamente l’esistenza o le modalità di svolgimento dei fatti posti a fondamento della pretesa avversaria; tale attività
difensiva è però consentita soltanto fino alla prima udienza, non può
cioè essere più espletata dopo che sia stato definito il thema probandum. Il contumace che si costituisca dopo tale momento potrà
solo limitarsi a contestare i fatti costitutivi ex adverso allegati.
Le eccezioni in senso lato, ossia rilevabili anche d’ufficio, possono essere proposte anche e soltanto fino alla prima udienza di trattazione.
A pena di decadenza, invece, devono essere dedotte le eccezioni
non rilevabili d’ufficio, e devono essere svolte le domande riconvenzionali, per le quali non è prevista una istanza di differimento d’udienza come invece nell’art. 418 c.p.c.
Alla rigorosa disciplina della domanda riconvenzionale deve soggiacere altresì, stante l’eadem ratio, la domanda di accertamento incidentale ex art. 34.
L’integrazione del contraddittorio e la chiamata di un terzo in causa.
L’art. 102 non ha subito modifiche e pertanto sussiste l’obbligo
per il giudice di disporre, in ogni stato e grado del procedimento,
l’integrazione del contraddittorio (con l’obbligo, per le parti, di eseguire).
Si tratta di una sorta di mina vagante, nel nuovo sistema caratterizzato da fasi scandite piuttosto nettamente, ma non vi è rimedio,
data ovviamente la rilevanza della questione. È evidente che il chiamato in causa ai sensi dell’art. 102 non potrà subire preclusioni e
219
dovrà essere rimesso in termini, ai sensi dell’art. 164 o quanto meno dell’art. 294.
Quanto all’intervento volontario, qualche modifica è stata apportata all’art. 268, limitando la possibilità dell’intervento fino alla
precisazione delle conclusioni, ed eliminando dal secondo comma
l’inciso “se l’intervento ha luogo dopo la prima udienza”; in effetti,
nel nuovo sistema con la prima udienza è già maturata la preclusione delle nuove domande, sicché l’intervento che non sia solo adesivo deve avvenire entro il termine di costituzione del convenuto.
Il terzo che intervenga alla prima udienza potrà proporre le domande ed eccezioni che sono conseguenza delle domande riconvenzionali o delle eccezioni del convenuto.
Analogamente, l’attore può, nella prima udienza, chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo se l’esigenza di tale
chiamata scaturisce dalle difese del convenuto.
La chiamata di un terzo in causa ad opera del convenuto può
invece avvenire soltanto se il convenuto ne faccia dichiarazione a pena di decadenza nella comparsa di costituzione, chiedendo contestualmente lo spostamento dell’udienza al fine di rispettare i termini di cui all’art. 163 bis.
Infine, se il terzo chiamato intende a sua volta chiamare in causa un terzo, deve farne dichiarazione a pena di decadenza nella comparsa di risposta ed essere poi autorizzato dal giudice ai sensi del
terzo comma dell’art. 269.
L’art. 270 (chiamata del terzo per ordine del giudice) non ha
subìto modificazioni. In questa ipotesi, può esercitare ampi poteri
difensivi, fino alla proposizione di domande riconvenzionali. A fronte di tale attività difensiva, alle altre parti devono essere riconosciuti i corrispondenti poteri processuali di difesa, come nell’ipotesi di
intervento volontario per integrazione del contraddittorio (art. 268,
2° comma; art. 183, 4° comma, ultima parte).
220
IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO: CITAZIONE,
EVENTUALE NULLITÀ DELLA STESSA,
COSTITUZIONE DEL CONVENUTO, EVENTUALE
INTEGRAZIONE DEL CONTRADDITTORIO
E CHIAMATA DI UN TERZO IN CAUSA (*)
Relatore:
dott. Gaetanino ZECCA
presidente della sezione lavoro
del Tribunale di Roma
1) Premessa: anticipazioni di un’esperienza e memoria.
Mi considero onorato per l’incarico ricevuto di partecipare a questo incontro di studio che è solo una parte di un importante progetto che il CSM ha avviato per dare concreto corso ad una esigenza di formazione sistematica e continua che non può restare affidata né alla diligenza solitaria del singolo né a individuali intuizioni
del mutamento ordinamentale complessivo (ordinamento scritto e ordinamento “vivente”) e degli effetti che esso porta sul piano della
adeguatezza professionale e dello svolgimento del ruolo.
Mi considero fortunato per la sorte di avere, in una sede di confronto collettivo, interlocutori come voi che certamente siete portatori di motivazioni, osservazioni, esperienze maturate nelle realtà più
diverse e tanto più preziose quanto più capaci di far emergere i problemi ma anche il senso – oggi – della giurisdizione prima che quelli, comunque esemplari, del processo civile.
In premessa devo solo notare che i diversi rinvii della entrata in
vigore della L. 26/11/1990 n. 353 consentono di riflettere solo su possibili applicazioni pratiche e non su esperienze di applicazione. A
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 17 al 21 maggio
1993.
221
proposito di esperienze sarà in ogni caso utile avere memoria, sia
specifica che complessiva, della ricca (ricca di luci e di ombre) esperienza applicativa della legge 533/1973. In punto di primi passi che
preparano l’esperienza specialmente sul versante non trascurabile della organizzazione e della struttura (la rilevanza del rapporto tra processo e organizzazione è esplicitato da VERDE: Profili del processo
civile Napoli 1991 pg. 9; e da TARZIA: Strutture giudiziarie, regole e
prassi del processo nella crisi della giustizia civile in Riv. giur. sarda,
1988 pg. 547) sarà anche utile ricordare la relazione della commissione istituita dal Presidente del Tribunale di Roma in ordine a “Profili e problemi organizzativi derivanti dall’applicazione della L.
26/11/1990 n. 353 (in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura n. 7 1992 pg. 378) e la serie di interventi di Claudio VIAZZI (Quaderni cit. pg. 197), che svolgerà una relazione sul tema in
quinta giornata di questo incontro.
2) Profilo sintetico
Si deve anzitutto ricordare che il processo novellato è essenzialmente caratterizzato dal principio di eventualità, dal divieto di
nova in appello, dall’allargamento della monocraticità in primo grado e dalla attribuzione alla Cassazione di poteri decisionali del merito. Quanto allo specifico argomento della relazione si deve ricordare nell’ordine: 1) che l’art. 163 sul contenuto della citazione
è visibilmente mutato solo per l’aggiunta di un onere di invito e di
avvertimento; 2) che la disciplina della nullità della citazione è completamente ridisegnata dalla novella all’art. 164; 3) che la costituzione del convenuto vede all’art. 166 anticipato il termine per la
costituzione (venti giorni prima anziché cinque) al fine di consentire lo scambio di conoscenze tra le parti e gli adempimenti imposti anche all’attore a pena di decadenza, e all’art. 167 impone al
convenuto una serie articolata di adempimenti anche a pena di decadenza, con adeguate modifiche del regime della ritardata costituzione (art. 171 co. 2); 4) che mentre sembrano non modificati i
presupposti degli interventi e delle chiamate è tuttavia ridisegnata
in conseguenza della reintroduzione del principio di eventualità
l’intera attuazione processuale d’essi (268 termine per l’intervento,
269 chiamata del terzo in causa, 271 costituzione del terzo chiamato).
222
3) Il giudizio di primo grado: la citazione.
3.1) La citazione come forma della domanda.
La citazione è una forma (argomenta dall’art. 414 c.p.c.) della
domanda con la quale si introduce un giudizio ordinario di cognizione per far valere un diritto in giudizio (“tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti” art. 24 Cost.; “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda” art. 99 c.p.c.; “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su
domanda di parte” art. 2907 c.c.;).
La citazione opera peraltro sul piano della relazione tra i protagonisti del processo (le parti e il giudice) poiché l’esercizio dell’azione e l’esercizio della giurisdizione non possono realizzarsi senza la
chiamata dei destinatari dell’azione con i quali essa citazione (con il
completamento delle notifiche) deve valere a integrare il contraddittorio e a dare ingresso ad una legittima cognizione del giudice (“la
difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”
art. 24 co. 2 Cost.; “il giudice... non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa” art. 101 c.p.c.).
3.2. Le funzioni di strumento della domanda e di chiamata: editio actionis e vocatio in ius
E’ bene rammentare che la legge 533/73 sul processo del lavoro
affidava l’introduzione del giudizio a ricorso di parte che si completava con una chiamata in giudizio della parte resistente ad opera di
un decreto del giudice sicché offrì alla riflessione dei processualisti
una regolazione nella quale l’esercizio dell’azione e la vocatio in ius
sono nettamente separati e affidati all’iniziativa di soggetti processuali diversi. Fu quasi necessaria la riflessione che gli effetti sostanziali e gli effetti processuali della domanda erano di volta in volta
da ricollegare o al deposito del ricorso o alla notificazione d’esso senza che sull’uno e sull’altro sottoatto potesse gravare la irregolarità o
invalidità del ben distinto decreto del giudice inteso a fissare l’udienza. Si cominciava ad affermare che il sottoatto di esercizio dell’azione nullo era assolutamente inidoneo a produrre effetti sostanziali e
processuali e che la sua nullità non poteva essere sanata dalla mera
223
costituzione del resistente mentre la nullità del sottoatto di chiamata in giudizio non annullava gli effetti sostanziali e processuali della domanda e poteva essere sanata dalla mera costituzione del resistente. Non è errato affermare che queste acquisizioni diventarono
il fondamento della regolazione delle nullità della citazione poi tradotta nella novella 353 del 1990.
La dottrina e la giurisprudenza accolgono dunque una distinzione che individua nella citazione (almeno) due profili e due scopi
a quei profili correlati sicché discorrono di editio actionis e di vocatio in ius (qui si tace del III elemento o “atto preparatorio dell’udienza”). Tale distinzione dicono accolta nella struttura dell’art. 163 c.p.c.
novellato secondo la particolare conferma che a tale distinzione verrebbe dalla modulazione della regola delle nullità contenuta nell’art.
164 c.p.c. novellato.
La citazione o la notifica dell’atto di citazione producono effetti processuali (perpetuatio jurisdictionis, litispendenza) ed effetti sostanziali intesi a neutralizzare fatti estintivi o modificativi del diritto fatto valere in giudizio per il tempo di pendenza del processo o a
neutralizzare meccanismi estintivi o decadenziali o ad attribuire alla parte vittoriosa le utilità che avrebbe ottenuto con l’attribuzione
del diritto fin dalla proposizione della domanda. La distinzione della citazione in sottoatti di editio actionis e di vocatio in ius porta il
problema di verificare quali di questi effetti sostanziali e processuali sia impedito dalla nullità dell’atto o del solo sottoatto (se per esempio alla nullità della citazione per omessa indicazione del tribunale
davanti al quale la domanda è proposta segua o no la interruzione
della prescrizione del diritto fatto valere e se segua o no sospensione della stessa prescrizione).
3.3) Citazione a udienza fissa e tempi del processo
Dopo l’esperienza della legge 11/8/1973 n. 533 che per il processo
del lavoro vuole che la domanda sia proposta con ricorso (art. 414
c.p.c. che si intitola “Forma della domanda”), la novella 26/11/1990
n. 353 ha conservato per il processo ordinario il mezzo di introduzione della domanda con citazione a comparire a udienza fissa, già
proprio del c.p.c. del 1940 limitandosi a modificare esplicitamente il
solo regime dell’invito al convenuto. In realtà il tenore di altre norme della novella relative al ruolo del giudice nel processo, alla rein224
troduzione del principio di eventualità, alla scansione del processo
(anche mediante uno strumentario di decadenze) in fasi distinte che
prevedono il separato sviluppo di trattazione, istruzione probatoria
e decisione, e, infine, il nuovo regime delle nullità della regolazione
della citazione stessa e del suo contenuto. Rinviando a quanto di più
si dirà oltre circa la regolazione delle nullità, conviene esprimere subito una considerazione circa un non trascurabile effetto pratico della conservazione della citazione come mezzo di introduzione della
domanda. I ricorsi proposti davanti al giudice del lavoro richiedono
l’intervento del Giudice (del Presidente del collegio in appello) che
fissa entro cinque giorni dal deposito e con decreto, l’udienza di discussione. Accade nei grandi uffici dove esiste un rapporto particolarmente sfavorevole tra numero di giudici addetti e numero di cause da decidere, che la prima udienza sia fissata – in relazione al numero massimo di cause trattabili in una udienza e alla “occupazione” del ruolo -, che la prima udienza sia fissata a distanza di cinque
anni dal deposito del ricorso con violazione dei termini di rito ma
anche con una frapposizione di “tempi morti” inaccettabili per l’utente e idonea a provocare i fulmini della Corte di Giustizia europea
per violazione dell’art. 6 (“ogni persona ha diritto a un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole...”) della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4/11/1950, resa esecutiva in Italia il 26/10/1955 con
L. 4/8/1955 n. 848). Nei grandi uffici dove la dimensione dei “tempi
morti” è insopportabile per utenti e operatori ogni provvedimento
che porti a soluzioni meramente processuali della controversia è sentito come formalisticamente punitivo e sproporzionatamente formale. Più i tempi del processo sono lunghi e più difficile è dichiarare
decadenze, nullità, improcedibilità.
Invece, a proposito dell’art. 163 c.p.c. novellato, è stato osservato che con la citazione a udienza fissa è la parte che sceglie il tempo della prima udienza e certamente tale scelta sarà intesa a determinare lo svolgimento della prima udienza entro un termine ragionevole. Si può però rilevare che l’art. 168 bis co. 5 novellato, consente al giudice istruttore un decreto di differimento entro il termine massimo di 45 giorni e che tale termine può essere violato per
le stesse ragioni per le quali sono violati i termini di cui agli artt.
415 co. 3, 435 c.p.c.. La soluzione del problema della ragionevole
speditezza dei processi non si trova dunque sul solo piano della nor225
ma processuale regolatrice di termini ma anche per un verso sul piano di norme processuali che incidendo sulla tecnica di redazione della sentenza e sui modi di trattazione delle controversie consentano
a ciascun giudice di esaurire un numero di processi maggiore di quello che fino ad oggi risulta possibile e per altro verso sul piano dell’apprestamento di risorse umane (numero di giudici e uffici del giudice orientati al solo obiettivo della “produzione” di costui) adeguato
alla massa di processi che attendono la risposta della giurisdizione.
3.4. I contenuti della citazione – l’art. 163 co. 3
Il contenuto dell’atto di citazione prescritto dall’art. 163 c.p.c.
novellato co. 3 n. 7, si arricchisce dell’onere per l’attore di invitare il
convenuto a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell’udienza di comparizione originariamente fissata o di dieci giorni prima di
quella anticipata su istanza del convenuto ai sensi dell’art. 163 bis
co. 3 c.p.c., con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui all’art. 167 c.p.c.. Tale invito con avvertimento non è tanto una manifestazione del dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c. quanto una “sicura” indispensabile in un
processo assistito da decadenze (artt. 167, 183 e 184 c.p.c.) che se lasciate come trappole finirebbero per impedire proprio la funzione
fondamentale del processo di assicurare una soluzione nel merito alla controversia insorta. La mancata osservanza dell’onere di invito
con avvertimento dà luogo a nullità sanabile per rinnovazione della
citazione (per ordine del giudice in caso di mancata costituzione del
convenuto) o per fissazione di nuova udienza (per il caso che il convenuto si costituisca e deduca la mancanza dell’avvertimento) che
consenta il rispetto dei termini ex art. 164 come dopo si dirà.
Tuttavia il sistema delle preclusioni al quale fa seguito il divieto
di nova in appello, sistema inteso a ridare centralità al processo di I
grado e a imporre al giudice e alle parti la piena conoscenza della materia litigiosa fin dagli atti introduttivi, porta l’art. 163 a significati
nuovi delle stesse altre regole già contenute nel vecchio testo.
Il contenuto della domanda regolato ai nn. 1-6 dell’art. 163 c.p.c.
La determinazione della cosa oggetto della domanda (il vantaggio
concreto che si intende ottenere in forza di provvedimento del giudice vantaggio individuato tra tutti quelli ottenibili col far valere in giudizio quel certo diritto; p.e. il risarcimento e non la reintegrazione co226
me conseguenza di impugnativa di licenziamento) diventa il punto fermo sul quale, salve le eventuali precisazioni e le modifiche di cui all’art.
183 co. 3 e 4, si snoda l’intero meccanismo processuale.
L’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti la domanda con le relative conclusioni diventano l’elemento identificativo della domanda che deve essere completo fin dalla notifica della
citazione. Ferma restando l’immutabilità dei fatti allegati (che riguarderebbe solo i fatti principali), la domanda potrà essere precisata o modificata al più entro l’udienza di trattazione (o più precisamente entro la prima udienza o con le memorie autorizzate in
tale udienza). L’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto realizza il potere di allegazione della parte, potere da tenere distinto
dall’onere di articolare prove di cui è cenno al successivo n. 5 dello
stesso art. 163. È stato osservato che solo i fatti e non anche le ragioni di diritto debbono essere fissati fin dalla citazione e non è pacifico che l’esposizione dei fatti costituisca oggetto indispensabile della citazione (a pena di nullità) secondo che quei fatti siano costitutivi di un diritto eteroindividuato o di un diritto c.d. autoindividuato. Per diritti eteroindividuati o eterodeterminati una accreditata dottrina processualistica intende i diritti (e sarebbero la maggior parte)
che possono simultaneamente sussistere più volte e con lo stesso
contenuto tra gli stessi soggetti (un diritto di credito) e dunque sono individuati non tanto dall’indicazione del loro contenuto (ammontare del credito) quanto e meglio dalla indicazione del fatto che
li costituisce e che identifica la causa petendi.
Diritti autoindividuati o autodeterminati sarebbero quelli che non
possono sussistere simultaneamente con lo stesso contenuto fra gli
stessi soggetti (il diritto di proprietà, gli altri diritti reali e forse i diritti assoluti in genere e i diritti della personalità); tali diritti sarebbero individuati sulla base della sola indicazione del loro contenuto, mentre il fatto costitutivo rileverebbe solo in punto di prova.
Profilo non abbastanza indagato è quello della procedimentalizzazione e formalizzazione di situazioni di serie assunte come tipiche
dal diritto per dar luogo a conseguenze pure tipizzate. Nell’esperienza
del diritto del lavoro è possibile individuare diritti, violazioni e tutele così tipizzate che la semplice enunciazione del fatto (e necessariamente della sua precisa collocazione temporale) e la domanda
del rimedio o della prestazione di legge possono forse risultare sufficienti per l’instaurazione del contraddittorio e l’esercizio della giu227
risdizione (p.e. domanda di prestazione di invalidità dal dicembre
1985 con voluto riferimento al modello pratico di gestione di massa
dei processi di previdenza e assistenza obbligatoria).
L’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione
sembra essere sottoposta a decadenza ex art. 284 co. 2 nonché ex art.
184 co. 1 che ammette solo nuovi mezzi di prova e 184 bis che richiama le decadenze di cui agli artt. 183 e 184. In questa dimensione
l’art. 163 costituisce la norma fondante della distinzione tra attività assertoria e attività probatoria poi confermata dall’art. 184 c.p.c..
Si deve da ultimo osservare che i contenuti possono essere catalogati come elementi della editio actionis (n. 3 e 4 ma anche il n.
2 in quanto mezzi indispensabili alla identificazione del soggetto contro il quale la domanda è proposta e nei confronti del quale deve costituirsi il contraddittorio) o della vocatio in ius (il n. 1, il n. 2, il n.
7). La distinzione, come già si è detto, ha rilevanti effetti sostanziali in tema di prescrizione dei diritti e in relazione al regime delle
nullità della citazione diversamente costruite secondo che la nullità
attenga alla editio o alla vocatio. E’ stato osservato che il legislatore
si è limitato a ricollegare i singoli effetti processuali o sostanziali alla “domanda giudiziale”, p.e. nell’art. 5 c.p.c. e negli artt. 808, 948,
1148, 1283, 2652, 2653, c.c., o alla “notificazione dell’atto col quale
si inizia il giudizio, nell’art. 2943, o a “qualsiasi atto scritto anche
stragiudiziale del lavoratore, idoneo a renderne nota la volontà,
nell’art. 2113 c.c., sicché la produzione degli effetti riferita puramente
e semplicemente alla domanda giudiziale chiede di verificare se per
domanda giudiziale si intende l’atto di citazione in tutte le sue componenti o solo di editio actionis.
4) Nullità della citazione
La disciplina della nullità della citazione è completamente ridisegnata.
4.1) Nullità della vocatio
La citazione è nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto alcuno dei requisiti stabiliti ai nn. 1 (indicazione del tribunale da228
vanti al quale la domanda è proposta) e 2) dell’art. 163 (nome cognome residenza dell’attore, nome cognome residenza o domicilio o
dimora del convenuto ecc.), se manca l’indicazione della data
dell’udienza di comparizione, se è stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge ovvero manca l’avvertimento previsto dal n. 7 dell’art. 163. In caso di mancata costituzione del convenuto la nullità è rilevata d’ufficio e d’ufficio è disposta
entro un termine perentorio la rinnovazione. La rinnovazione sana
ex tunc la nullità e determina con efficacia ex tunc il prodursi di effetti sostanziali e processuali della citazione. La mancata rinnovazione è sanzionata da ordine di cancellazione della causa dal ruolo
con immediata estinzione ex art. 307 co. 3. La rinnovazione è imposta entro un termine perentorio sicché passato quel termine la rinnovazione non ha efficacia rilevante nel processo e il giudice dovrebbe ordinare la cancellazione della causa dal ruolo (contra PROTO PISANI: La nuova disciplina della nullità dell’atto di citazione, Foro it. V 194 1992). Nel caso che con la rinnovazione entro il termine perentorio sia ripetuto o rinnovato un vizio della vocatio non sanato dalla costituzione del chiamato, è da dubitare che possa essere
disposta una ulteriore rinnovazione ed è forse preferibile la conclusione che il giudice ordini la cancellazione della causa dal ruolo ex
art. 164 co. 2 c.p.c..
Il terzo comma dell’art. 164 per il quale la costituzione del convenuto sana i vizi della citazione e restano salvi gli effetti sostanziali e processuali di cui al 2° comma, si riferisce alla costituzione
avvenuta nei termini di cui all’art. 166 c.p.c. e comunque non oltre la prima udienza di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c.; la costituzione oltre tale udienza, possibile solo nel caso di mancata rilevazione da parte del giudice della nullità e di conseguente mancata rinnovazione, sana la nullità ma impone al convenuto di accettare la causa nello stato in cui si trova salva la rimessione in
termini dell’art. 294 c.p.c. subordinata ad una piuttosto inafferrabile opinione del giudice ed ad una conseguente probatio semi diabolica dell’impedimento che negò la conoscenza del processo o della causa non imputabile che si oppose alla costituzione. Invece nel
caso di inosservanza del termine a comparire e di omesso avvertimento ex n. 7 la rimessione dovrebbe operare indipendentemente
dalla previsione dell’art. 294 e, invece, per la diretta prescrizione
dell’art. 164 co. 3.
229
4.2.) Nullità della editio actionis
La citazione è altresì nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel n. 3 dell’art. 163 (la determinazione della cosa oggetto della domanda) ovvero se manca l’esposizione dei fatti (si badi bene, non anche degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, né l’indicazione delle conclusioni) di cui al n. 4 dello stesso articolo.
Gli ultimi 3 commi dell’art. 164 regolano le nullità dell’atto di
esercizio dell’azione. Tali nullità sono rilevabili d’ufficio anche dopo la costituzione del convenuto posto che la mera costituzione
ove l’atto di citazione sia caratterizzato da omessa indicazione o
da assoluta incertezza sul diritto fatto valere in giudizio non basta a produrre quei mancanti requisiti di forma-contenuto che consentono l’esercizio della giurisdizione dando un oggetto alla pronuncia di merito che si richiederebbe. La sanatoria di nullità inerenti all’esercizio dell’azione può derivare solo dal compimento di
attività di integrazione quando il convenuto sia costituito e da rinnovazione della citazione quando non sia costituito (“Il giudice rilevata la nullità ai sensi del comma precedente, fissa all’attore un
termine perentorio per rinnovare la citazione o, se il convenuto si
è costituito, per integrare la domanda”). La sanatoria avrà effetto
dalla integrazione o dalla nuova notifica (“Restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione”) e in ognuno dei due casi il convenuto
sarà messo in condizione di proporre tutte le sue difese, di indicare i mezzi di prova e i documenti, di formulare conclusioni, proporre domande riconvenzionali e dichiarare di voler chiamare un
terzo in causa, tutto come stabilito all’art. 167 c.p.c. salva la rifissazione di una prima udienza di trattazione ai sensi dell’art. 183
c.p.c.
5) Costituzione del convenuto
E’ disciplinata dall’art. 166 novellato, ma anche in questo caso
le modificazioni profonde si evidenziano solo in riferimento alla disciplina considerata agli artt. 167, 168 bis e 171 novellati sotto lo
specifico profilo delle decadenze introdotte. Il convenuto deve co230
stituirsi (art. 166 novellato) a mezzo di procuratore o personalmente
nei casi consentiti dalla legge almeno venti giorni (o dieci in caso
di abbreviazione) prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione. Il termine è computato con esclusione del dies a
quo ed inclusione del dies ad quem. Il termine minimo a comparire fissato dall’art. 163 bis novellato è invece un termine libero (non
meno di 60 o di 120 gg.) ed è abbreviabile su istanza dell’attore per
le cause che chiedono pronta spedizione fino a metà del minimo o
anticipabile fino al rispetto del termine minimo non osservato dalla scelta di udienza dell’attore, su istanza del convenuto. Il regime
delle decadenze è diversamente modulato in relazione alle deduzioni istruttorie, consentite fino ai termini previsti dall’art. 184
c.p.c., e alle domande riconvenzionali nonché alle eccezioni in senso stretto.
Infatti nella comparsa di risposta il convenuto, come il resistente del processo del lavoro, deve proporre tutte le sue difese (e
dunque quelle in fatto e quelle in diritto di cui all’art. 416). Il convenuto deve prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda e deve indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione senza che
sia comminata decadenza (come nel caso dell’art. 416 c.p.c.) per la
mancata indicazione dei mezzi istruttori detti. Le preclusioni che riguardano le deduzioni istruttorie scattano infatti dopo la chiusura
della fase di allegazione ex art. 184 co. 2. Invece le eccezioni processuali e di merito non rilevabili di ufficio (o eccezioni in senso
stretto) devono essere proposte con la comparsa di risposta a pena
di decadenza ex art. 167 co. 2. Eccezioni di merito sono quelle espressamente affidate al rilievo della parte che chiede siano adottate a
fondare la decisione, mentre per eccezioni processuali non rilevabili di ufficio si possono intendere i rilievi relativi a condizioni o presupposti processuali per la pronuncia di merito (incompetenza territoriale derogabile, carenza di giurisdizione nei confronti del convenuto, opponibilità di patto compromissorio rituale). Se il convenuto vuol proporre domande relative a diritti diversi da quello individuato dall’attore dovrà proporre domande riconvenzionali o domande di accertamento incidentale; ma se il convenuto vuol far valere diritti nello stesso processo nei confronti di un terzo, dovrà farne dichiarazione nella comparsa di risposta pure a pena di decadenza.
231
6) Interventi e chiamate
Si deve ora considerare la disciplina contenuta negli artt. 268
novellato per l’intervento volontario ex art. 105 c.p.c., 269 novellato
per la chiamata di un terzo in causa a norma dell’art. 106 c.p.c., 270
immutato per la chiamata del terzo jussu iudicis.
In ogni caso la reintroduzione nel processo civile del principio
di eventualità con le connesse decadenze produce decadenze derivate sia in ordine al potere di allegazione sia in ordine al potere di dedurre mezzi di prova dell’interventore. Il tema è molto controverso
in relazione alle particolari ragioni su cui si costruisce ogni intervento principale e segnatamente l’intervento col quale il terzo pone
una autonoma domanda contro tutte e due le parti.
6.1) Intervento volontario: gli artt. 267, 268, 105 c.p.c.
Ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per
far valere in confronto di tutte le parti o di alcune di esse un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo
medesimo (105 co. 1 c.p.c.).
Può altresì intervenire, per sostenere le ragioni di alcuna delle
parti, quando vi ha un proprio interesse (105 co. 2 c.p.c.) dando luogo ad un intervento in via adesiva dipendente.
L’intervento può aver luogo fino a che non vengano precisate le
conclusioni (ex 189 novellato e 190 bis dopo l’esaurimento della fase istruttoria – come ritiene LUISO: La riforma del processo civile,
Milano 1991 pg. 152 – o ex art. 183 novellato a conclusione della fase di trattazione in fine della prima udienza di trattazione sia pure
intesa in senso complesso?)
Il secondo comma dell’art. 268 impone che il terzo non possa
compiere atti che al momento dell’intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte, salvo che comparisca volontariamente per
l’integrazione necessaria del contraddittorio. Ogni preclusione che
abbia colpito un potere delle parti originarie cancella quello stesso
potere che in parallelo sarebbe spettato all’interventore. È stato però
osservato che tale interpretazione varrebbe per via indiretta ad abrogare lo stesso istituto dell’intervento ex art. 105 e si è concluso che
in caso di intervento principale le preclusioni possono colpire il terzo solo in quanto egli voglia compiere atti riferibili alla situazione
232
sostanziale dedotta in lite dalle originarie parti del processo e non
possano colpirlo in quanto egli voglia compiere atti riferibili alla situazione sostanziale da lui dedotta in giudizio con la domanda di intervento. Sembra invece non contrastata la piena applicazione dell’art.
268 e delle preclusioni derivate che esso stabilisce per l’intervento
adesivo dipendente. Si è comunque richiamata la rimessione in termini di cui all’art. 184 bis novellato a favore del terzo che subisce
un pregiudizio per la sua situazione sostanziale ad opera di collusioni o colpevoli inerzie di ambedue o di una delle parti ed ha necessità di intervenire (troppo tardi, quando sarebbero maturate tutte le decadenze di cui all’art. 268 c.p.c.) proprio a causa di quelle
collusioni o di quelle male gestioni della lite che, come si è detto,
involge una sua situazione sostanziale.
6.2) Chiamata di un terzo in causa
L’art. 269 novellato disciplina separatamente la chiamata del terzo ad opera del convenuto e quella ad opera dell’attore.
Il convenuto che vuole chiamare un terzo in causa deve dichiararlo – a pena di decadenza – nella comparsa di risposta e deve chiedere contestualmente al giudice istruttore lo spostamento della prima
udienza. Sembrerebbe che il giudice istruttore debba, senza sindacato alcuno, provvedere al decreto che fissa la nuova udienza e tuttavia il convenuto, al fine di veder accolte anche sul punto le sue domande nel merito, dovrà indicare le ragioni che ex art. 106 c.p.c. giustificano la chiamata e i provvedimenti che chiede nei confronti del
terzo stante la specifica previsione dell’art. 269 co. 1 novellato e il ragionevole obbligo di effettuare la chiamata in forma di citazione.
La chiamata del terzo per interesse dell’attore è consentita solo
ove tale interesse sia sorto a seguito e a causa delle difese svolte dal
convenuto (contestazioni relative alla c.d. legittimazione passiva o alla c.d. legittimazione attiva) ma il giudice istruttore può non consentire la chiamata (art. 269 co. 3 “il giudice istruttore se concede
l’autorizzazione”).
L’udienza fissata per la chiamata del terzo è per costui la prima
udienza di trattazione (art. 271 novellato). Le altre parti sono legate tra loro ai tempi (e alle decadenze) del loro iniziale processo, mentre il terzo non risentirà delle preclusioni verificate (e che tuttavia
non dovrebbero essersi verificate ancora se la chiamata avverrà nei
233
tempi dell’art. 269 c.p.c.). Peraltro la situazione delle parti originarie del processo si orienterà rispetto al terzo come posizione di attore o di convenuto con ogni conseguente articolazione di oneri e
tempi.
6.3) Chiamata del terzo per ordine del giudice (art. 270 c.p.c.)
Tale chiamata può essere disposta dal giudice, per una udienza che fissi all’uopo, in ogni momento. Si deve ritenere che in questo caso, benché la chiamata sia affidata alla diligenza delle parti,
ciascuna di esse, anche quella che ha provveduto alla citazione che
difficilmente avrà i contenuti di cui all’art. 163 c.p.c., si trovi in una
particolare condizione con la necessità di proporre a tale udienza appositamente fissata le domande e le eccezioni che il provvedimento
del giudice e la costituzione del terzo vadano a cagionare.
7) Recenti interventi della Corte Costituzionale e della Suprema Corte
in tema di perdita di un potere processuale per decorso senza colpa della parte di un termine perentorio e il 184 bis della novella
L’ordinanza 12/6/1991 n. 270 della Corte Costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata in riferimento all’art. 24 della Costituzione la questione di legittimità costituzionale degli artt. 153, 690
e 702 c.p.c. nella parte in cui non consentono di rimettere in termini il ricorrente che, per causa a lui non imputabile, non abbia rispettato il termine perentorio per la notifica alla controparte del ricorso e del decreto emesso ai sensi dell’art. 700 c.p.c. inaudita altera parte. Tale provvedimento è pubblicato (Foro Italiano I 1711 e ss.)
con due provvedimenti della Corte di Cassazione (Cass. 23/2/1992
sent. n. 2317 e Cass. 12/2/1992 ordin. n. 123) e una tagliente nota di
PROTO PISANI. La sentenza della Cassazione pur ritenendo una proposta questione di costituzionalità per l’impossibilità di rimessione
in termini da decadenza conseguita a proposizione di appello proposto con citazione anziché con ricorso e dunque oltre il termine di
trenta giorni imposto dalla nuova legge sul divorzio (6/3/87 n. 74 entrata in vigore il 12/3/1987) irrilevante ai fini di causa, aveva tuttavia motivato sulla non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità. A sua volta la pubblicata ordinanza della Cassazione,
234
nell’affermare che l’impugnazione proposta contro una parte deceduta dopo la pubblicazione della sentenza e notificata nel domicilio
eletto presso il procuratore è valida ove non si dimostri che la controparte era a conoscenza di tale evento, ha ritenuto non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 co. 2 Cost. la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 369 co. 2 n. 3 c.p.c.
nella parte in cui sanziona con l’improcedibilità il mancato tempestivo deposito della procura conferita con atto separato senza prevedere alcun meccanismo di sanatoria idoneo a consentire il deposito tardivo della procura stessa.
La breve ordinanza della Corte Costituzionale si fonda su una
prima considerazione che la garanzia costituzionale del diritto di difesa non implica la illegittimità di un termine perentorio al fine di
accelerare il corso del processo e quindi la risposta alla domanda di
giustizia (la nota critica sembra trascurare il dato fondamentale che
ogni provvedimento di conclusione in rito di una controversia accelera la risposta a tutte le altre domande di giustizia ancorché tranci
la specifica domanda detta improcedibile o altrimenti perenta). L’altra considerazione è che inerisce alla stessa natura dei termini processuali la loro improrogabilità, con la connessa impossibilità di concedere provvedimenti di sanatoria in caso di inutile decorso, per motivi di certezza e di uniformità della cui ragionevolezza non può dubitarsi.
La sentenza della Corte di Cassazione si fonda invece sulla scusabilità dell’errorre cagionato nella parte dalla introduzione quasi surrettizia di disposizione di legge notevolmente ambigua tale da compromettere l’effettività della tutela giurisdizionale e da richiedere il
rimedio (non previsto dalla legge) della rimessione in termini. A sua
volta l’ordinanza della Corte di Cassazione ritiene di sollevare di ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 369 co. 2 c.p.c.
sul rilievo che la drastica sanzione della improcedibilità che precluda l’espletamento di un giudizio di legittimità in presenza di un inadempimento essenzialmente formale e dunque al di fuori di una funzione processuale apprezzabile, violi il diritto delle parti ad un “giudizio equo”. Ha affermato la Corte che, qualora una norma rituale
preclusiva non trovi ragione né nella tutela delle situazioni di contraddittorio, né incida in misura apprezzabile sulla ragionevole durata del processo, in essa assume rilievo prevalente l’aspetto sanzionatorio per il mancato rispetto della ritualità, incomparabile in linea
235
logica con il diritto al giudizio. Secondo la Corte il diritto vivente
vuole che le declaratorie di improcedibilità non abbiano carattere
meramente sanzionatorio e devono essere eccezionali le situazioni rituali che pongano nel nulla l’esercizio della giurisdizione nella lettura della causa, anche in fase di legittimità, con la previsione di preclusioni perentorie e di improcedibilità conseguenti.
L’art. 184 bis novellato disciplina la rimessione in termini per le
decadenze previste agli artt. 183 e 184 consentendola solo per verosimiglianza o per prova ex art. 294 della non imputabilità della causa che ha determinato l’incorrere in decadenza. Le preclusioni e le
decadenze, che peraltro sembrano uno strumento fondamentale e
qualificante del processo novellato, realizzano, ove ragionevolmente
disciplinate con possibilità non contraddittorie e non generalizzate
di sanatoria, la effettività di un contraddittorio pieno tra le parti, l’interesse di tutte le parti di tutti i processi ad un giudizio equo da svolgere in tempo ragionevole, un meccanismo di soluzione del processo differenziato secondo la diligenza delle parti e dei difensori che,
in un processo fondamentalmente dispositivo, non possono paralizzare il processo, poi lamentarne la lentezza e infine reclamare una
soluzione nel merito quale che sia stato l’impulso scelto e impresso
in proprio.
Per concludere su questo punto, che mi sembra possa sollecitare riflessioni di grande portata sistematica e forti conseguenze applicative, rimetto agli ascoltatori ogni valutazione e ogni approfondimento.
8) Considerazioni conclusive
Si affrontano sul piano della lettura della novella (e si affrontavano sul piano della applicazione del codice del 1940 e della legge
533/73) due tendenze completamente opposte: una che tende a privilegiare come fondamentalissimo il principio per cui ogni processo
tende ad una decisione della controversia nel merito sicché le preclusioni, le nullità, le forme devono essere sempre compatibilizzate
per quanto possibile con questo principio e una che, considerando i
processi non nella singolarità di ciascuna vicenda ma nella massa
che egualmente si propone ad una struttura sproporzionatamente fragile, anche nei meccanismi di conclusione in rito dei processi vede
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una possibilità di trattamento differenziato dei processi secondo l’impulso effettivamente dato dalle parti e lo strumento per consentire
non ad una singola controversia isolata in laboratorio, ma al maggior numero possibile di controversie di un insieme storico considerato, la decisione nel merito che sia veramente cercata dall’iniziativa puntuale delle parti.
237
IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO: CITAZIONE,
EVENTUALE NULLITÀ DELLA STESSA,
COSTITUZIONE DEL CONVENUTO, EVENTUALE
INTEGRAZIONE DEL CONTRADDITTORIO
E CHIAMATA DI UN TERZO IN CAUSA (*)
Relatore:
dott. Camillo BELFIORE
consigliere Pretore Dirigente presso la
pretura circondariale di Genova
Introduzione
Questa relazione si propone di tracciare le linee fondamentali e
gli aspetti specifici della novellazione relativa agli atti di parte destinati, nel pensiero del legislatore e nella logica di una razionale impostazione del processo, a segnare i confini del thema decidendum,
e a determinare in modo tendenzialmente irreversibile l’area della res
in iudicium deducta.
Mi piace citare, all’inizio del mio dire, le considerazioni espresse al riguardo dal Consiglio Superiore della Magistratura, considerazioni che mi sembra meritino totale adesione: “Il processo stesso
educa o diseduca. Diseduca quando, per avere un oggetto mutevole,
sempre suscettibile di variazioni e sorprese, solo in apparenza funzionali al concetto di difesa, tanto le parti quanto il giudice finiscono per essere travolti da un meccanismo di deresponsabilizzazione,
nel quale si impoveriscono le nozioni stesse di difesa e di contraddittorio. Mentre educa quando, mirando a conseguire, attraverso
un’articolata fase iniziale, un suo oggetto responsabilmente definito,
si può parlare di esso come di un progetto razionale, realmente co-
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 31 gennaio al 4
febbraio 1994.
238
struito sul contraddittorio delle parti e realmente funzionale al corretto dispiegarsi dei poteri direttivi del giudice”.
Mi pare assai significativo che questa risoluzione del nostro organo di autogoverno sia riportata nella relazione della Commissione
Giustizia del Senato che accompagna il disegno di legge sfociato poi
nella legge 353 del 1990: segno che le esigenze di etica processuale
esposte dal C.S.M. avevano una reale verità. Ed è un peccato che i
buoni propositi del legislatore tardino tanto a tradursi in realtà.
Per conseguire gli indicati obiettivi era necessario prevedere
che, come si disse a suo tempo riguardo al rito del lavoro, le parti mettessero fin dal principio tutte le carte in tavola; si doveva cioè
tradurre in termini normativi l’irrinunciabile esigenza di giungere
alla prima udienza con un materiale assertivo almeno tendenzialmente definito e preventivamente conosciuto da tutti i protagonisti del processo, parti e giudice. Perciò la risoluzione del C.S.M. sopra citata segnalava questi strumenti: “1) per l’attore, allegazione
nell’atto introduttivo, a pena di decadenza, dei fatti storici posti a
fondamento della domanda; 2) per il convenuto, allegazione nella
comparsa di risposta, a pena di decadenza, dei fatti storici modificativi, impeditivi ed estintivi e, sempre a pena di decadenza, proposizione delle eccezioni in senso stretto di merito e di rito, nonché proposizione di domande riconvenzionali; 3) costituzione del
convenuto anticipata rispetto all’udienza, pena la decadenza di cui
al punto 2”.
La legge di riforma ha inteso dare una risposta alle segnalate
esigenze con le norme contenute negli articoli da 7 a 13, che modificano l’attuale regime processuale in tema di: contenuto della citazione, termini per comparire, nullità della citazione, costituzione del
convenuto, comparsa di risposta, designazione del giudice istruttore,
ritardata costituzione delle parti. Questo gruppo di norme attiene alla fase preparatoria del giudizio, nella quale già si collocano le prime disposizioni in tema di preclusioni e decadenze.
La citazione
1. Le nuove disposizioni relative all’atto introduttivo del giudizio sono di portata alquanto limitata, essendo rimasto invariato pressoché tutto l’art. 163, tranne il n. 7) del terzo comma.
239
Le conclamate esigenze di accelerazione e razionalizzazione del
processo avrebbero consigliato di adottare un meccanismo di introduzione del processo idoneo a far sì che il giudice fosse posto in condizione non solo di conoscere tutti gli aspetti del processo prima
dell’udienza, ma anche di svolgere in quella udienza quei compiti assai svariati e complessi che il nuovo art. 183 gli assegna. Sarebbe
stato quindi opportuno lasciare al giudice il potere di fissare l’udienza di comparizione delle parti, tenendo conto di una razionale utilizzazione del proprio tempo in funzione della concreta possibilità di
trattare effettivamente la causa. Proprio per questa ragione il rito del
lavoro impone che l’atto introduttivo del giudizio sia un ricorso, per
lasciare al giudice la scelta della data di udienza. Si è preferito invece lasciar fermo il primo comma dell’art. 163, secondo il quale la
domanda si propone mediante citazione a comparire a udienza fissa. Si è rimediato, per far salva l’esigenza indicata, aggiungendo un
sesto comma all’art. 168 bis. In forza di tale norma il giudice istruttore può differire, con decreto da emettere entro cinque giorni dalla presentazione del fascicolo, la data della prima udienza fino a un
massimo di quarantacinque giorni, stabilendosi però che le eventuali decadenze vanno in ogni caso riferite alla data di udienza indicata in citazione. Il termine di 45 giorni, al pari di quello di 60 giorni previsto per il giudice del lavoro, è meramente ordinatorio, ovvero, secondo l’arguta definizione del REDENTI, è un termine “canzonatorio”. Il grande giurista definiva in tal modo quei termini, la cui
inosservanza è priva di sanzione. Un commentatore suggerisce che,
se il termine dei 45 giorni non sia rispettato, le parti possono chiedere l’anticipazione dell’udienza, parallelamente a quanto stabilito
nell’art. 163 bis, ultima parte.
Peraltro questo autore si affretta ad aggiungere che la richiesta
deve comunque fare i conti con il carico di lavoro del giudice.
2. Poiché la riforma del 1990 non risponde solo alle dichiarate
esigenze di accelerazione dell’iter processuale, ma ha costituito l’occasione per varie modifiche di tipo razionalizzante, si poteva cogliere tale occasione per eliminare nel n. 2 del terzo comma dell’art. 163
l’impropria espressione “o la ditta”, a proposito delle indicazioni che
la citazione deve contenere se attore o convenuto è una persona giuridica, una associazione non riconosciuta o un comitato, dato che la
ditta è un segno distintivo dell’azienda e quindi un concetto estraneo ai soggetti collettivi contemplati nella norma. Si poteva appro240
fittare dell’occasione anche per aggiungere a quei soggetti collettivi
una categoria a suo tempo dimenticata dal legislatore, quella delle
società prive di personalità giuridica.
3. Ma lasciamo stare ciò che non è stato fatto e vediamo in che
cosa consistono le novità introdotte al n. 7) del terzo comma.
Si tratta di due aggiunte al precedente testo. Con la prima si prescrive che venga specificato in citazione il termine per la costituzione del convenuto (venti giorni prima della udienza, o dieci giorni in
caso di abbreviazione dei termini); con la seconda si prescrive che
il convenuto venga avvertito che la costituzione oltre i suddetti termini implica la decadenza di cui all’art. 167.
La mancanza di questo avvertimento è espressamente sanzionata con la nullità della citazione. Ci si può chiedere se, per assolvere
l’obbligo del menzionato avvertimento sia sufficiente la pura e semplice riproduzione, in citazione, del testo legislativo o se, invece, si
debbano menzionare esplicitamente le decadenze, quali risultano dal
testo novellato dell’art. 167. Personalmente propendo per questa seconda soluzione.
Infatti, la mera riproduzione della norma, col semplice richiamo
dell’art. 167, senza specificare cosa sta scritto in questo articolo, si
risolverebbe in un puro formalismo, privo di concreta portata pratica, per il quale la sanzione di nullità che ne accompagna l’omissione, sarebbe del tutto ingiustificata. A dire il vero lo stesso problema
può porsi riguardo all’invito al convenuto di costituirsi ai sensi e nelle forme stabiliti nell’art. 166, che è stato mantenuto anche nella nuova formulazione. Ci si potrà perciò chiedere, riguardo a tale invito,
se basti menzionare l’art. 166 o se si debba indicare nella citazione
il contenuto di tale articolo.
La risposta finora data dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti è nel senso che la formulazione generica e addirittura l’omissione dell’invito non comporta alcuna nullità, non trattandosi di elemento indispensabile dell’atto, in quanto teso ad esprimere conseguenze scaturenti da norme che si presumono note ad ogni cittadino. Si può però ritenere che, trattandosi di una precisa prescrizione
della legge, tendente a rendere edotto il convenuto delle cose che deve fare per difendersi, l’omissione dell’invito o la sua formulazione
priva della specificazione degli oneri incombenti al convenuto pregiudichi, nel pensiero del legislatore, la possibilità dell’atto di raggiungere il proprio scopo.
241
Si potrebbe perciò configurare, quali conseguenze dell’omissione dell’invito o della sua formulazione in termini generici: a) la nullità per effetto del secondo comma dell’art. 156; b) la sua sanatoria,
ai sensi del terzo comma dello stesso articolo, se l’atto ha comunque
raggiunto lo scopo a cui è destinato (e cioè la regolare costituzione
del convenuto).
La soluzione più rigorosa mi pare s’imponga certamente con riguardo alla formulazione generica dell’avvertimento circa le decadenze, la cui omissione è sanzionata da espressa censura di nullità,
tanto più che la presunzione assoluta di conoscenza della legge da
parte di tutti i cittadini comincia ad essere posta in discussione e comunque va accompagnata con l’uso di strumenti idonei a consentire la conoscenza reale, almeno di ciò che interessa in modo immediato e diretto il cittadino.
4. Un secondo aspetto problematico è quello della possibilità di
estensione dell’invito e dell’avvertimento di cui stiamo parlando al
processo del lavoro. Negli artt. 414 e 415, che disciplinano, nel rito
del lavoro, il contenuto del ricorso, il termine di comparizione e la
notificazione al convenuto, costituendo il parallelo degli artt. 163,
163 bis e 164 – concernenti il rito ordinario – non si parla affatto di
invito al convenuto a costituirsi nel termine e con le forme di legge,
né di avvertimento circa le decadenze in cui il convenuto stesso può
incorrere ai sensi dell’art. 416. Può darsi che l’invito e l’avvertimento di cui parliamo non siano apparsi necessari al legislatore del 1973,
in considerazione del fatto che, nella grande maggioranza dei casi,
il convenuto è un datore di lavoro o un istituto previdenziale, che
godono di ampie possibilità di difendersi anche se non “invitati” e
“avvertiti”. Vi è però un certo margine di ipotesi, in cui il convenuto è un piccolo imprenditore, spesso sprovveduto e digiuno di leggi.
Per costui l’invito e l’avvertimento sarebbero certo opportuni. Senza
dire che una interpretazione che escludesse questi ammennicoli dal
processo del lavoro si scontrerebbe col principio, pacificamente accettato, che, per quanto non previsto espressamente riguardo al rito
speciale, si applicano le norme non incompatibili disciplinanti il processo ordinario, e si scontrerebbe soprattutto col principio di parità
di cui all’art. 3 Cost., apparendo ingiustificata una disparità di trattamento per il convenuto nel processo del lavoro, al quale convenuto può invece riconoscersi la medesima necessità di essere informato degli oneri a suo carico e delle connesse decadenze.
242
5. L’art. 163, al n. 7 del terzo comma, di cui ci stiamo occupando, conserva l’inciso (a proposito delle indicazioni che devono
essere contenute nella citazione): “l’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione”, che si trova anche nella formulazione attuale
della norma. E’ conservata perciò la scelta della citazione a udienza fissa. La disposizione va letta in relazione al successivo art. 163
bis. Quest’ultimo semplifica il sistema previgente, riducendo a due
soli i termini di comparizione, ossia quei termini che devono intercorrere fra il giorno di notificazione della citazione e il giorno
dell’udienza da indicare in citazione. Nella Novella sono previsti: il
termine di 60 giorni se il luogo della notificazione si trova in Italia
e quello di 120 giorni se il luogo della notificazione si trova all’estero. Da notare che i termini suddetti valgono sia per i giudizi davanti al tribunale che per i giudizi davanti alla pretura. Il sistema
attuale ha, come è noto, ben cinque termini per il tribunale e addirittura sei per la pretura, come si desume dall’attuale art. 313, la
cui normativa non esiste più nella Novella, che ha dato all’art. 313
tutt’altro contenuto. Come si vede, il termine minimo risulta dilatato rispetto al sistema previgente: evidentemente il legislatore ha
tenuto conto delle esigenze connesse ad una attenta preparazione
della difesa, non essendo più ammissibili le comparse di risposta
contenenti una generica contestazione delle allegazioni dell’attore,
con riserva di ulteriori difese, deduzioni e allegazioni. Perciò viene
assicurato un più ampio margine di tempo al convenunto per preparare le proprie difese.
È stata conservata la disposizione che consente la riduzione fino alla metà dei termini di comparizione nelle cause urgenti o, secondo la terminologia codicistica, che richiedono pronta spedizione.
Il termine di comparizione è espressamente dichiarato “libero”
dalla legge, per cui in esso non vanno computati né il dies a quo
(giorno della notificazione) né il dies ad quem (giorno dell’udienza).
6. Una sottolineatura particolare merita il n. 4 dell’art. 163, ancorché sia rimasto formalmente immutato. In esso si stabilisce che
la citazione debba contenere l’esposizione dei fatti e degli elementi
di diritto costituenti le ragioni della domanda. Quello che va rilevato è che questa disposizione acquista, nel contesto della riforma, un
valore più pregnante rispetto a quello che aveva nel previgente sistema. Ed invero, i “fatti” posti a base della pretesa debbono necessariamente essere indicati in citazione, non essendo consentito di
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enunciarli posteriormente ad essa. Questa regola si rivaca dall’art.
164, che stabilisce la nullità della citazione per l’ipotesi in cui manchi l’esposizione dei fatti di cui al n. 4 dell’art. 163. In sostanza il
requisito in parola acquista oggi un valore tutto particolare, in vista
dell’esigenza che la materia del contendere sia determinata fin dalle
prime battute. Di conseguenza, le eventuali precisazioni o modificazioni della domanda non potranno mai consistere nell’indicare per
la prima volta i fatti costitutivi della domanda, non indicati in citazione.
Le nullità della citazione
1. La normativa delle nullità della citazione e delle relative sanatorie è completamente ridisegnata dalla riforma. L’art. 164 è stato
infatti integralmente sostituito dall’art. 9 della legge n. 353. Le novità sono due. In primo luogo la previsione di due nuove ipotesi di
nullità: l’omissione dell’avvertimento al convenuto relativo alle decadenze conseguenti alla tardiva costituzione e l’omissione dell’esposizione dei fatti posti a fondamento della domanda. In secondo luogo
è stato disciplinato il regime delle sanatorie, mutando radicalmente
il sistema precedente.
Va avvertito che l’art. 164 non esaurisce il tema delle nullità della citazione, potendosi individuare altre fattispecie di invalidità, quali, ad esempio, la mancanza di sottoscrizione dell’atto o la mancanza di procura ad litem.
La nuova formulazione dell’art. 164 propone una articolata disciplina, il cui carattere saliente è costituito dalla demarcazione tra
vizi della vocatio in ius (e cioè degli elementi preordinati a provocare la costituzione in giudizio del convenuto) e vizi della editio actionis (attinenti, cioè, all’individuazione della res .. iudicium deducta). Per entrambi è previsto in caso di mancata costituzione del convenuto l’ordine di rinnovazione della citazione, ma mentre per i primi sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della prima citazione, per i secondi la sanatoria opera ex nunc e richiede comunque l’integrazione della domanda originariamente lacunosa.
I due gruppi di vizi della citazione, sanzionati con la nullità, sono i seguenti:
A) vizi attinenti alla vocatio in ius:
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1) omessa o assolutamente incerta indicazione dell’Ufficio giudiziario al quale è proposta la domanda;
2) omessa o assolutamente incerta indicazione di una delle parti (s’intende, allorché dal tenore complessivo dell’atto non sia possibile una sicura individuazione dell’attore o del convenuto);
3) omessa indicazione della data dell’udienza di comparizione (ipotesi alla quale è da equiparare l’incertezza assoluta circa tale data);
4) assegnazione di un termine a comparire inferiore al minimo;
5) omissione dell’avvertimento circa le decadenze.
B) Vizi attinenti alla editio actionis:
1) omessa o assolutamente incerta determinazione della cosa oggetto della domanda;
2) mancata esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda.
2. Conviene esaminare partitamente le varie situazioni che possono verificarsi in presenza di vizi riguardanti la vocatio in ius e le
relative sanatorie.
Aa) Se il convenuto non si costituisce, il giudice deve rilevare
d’ufficio la nullità e ordinare all’attore la rinnovazione della citazione. In concreto, il giudice indicherà all’attore il vizio riscontrato, fisserà nuova udienza nella quale il convenuto dovrà comparire (trattandosi di un processo che continua e non di un processo nuovo, la
fissazione della nuova udienza non può essere lasciata alla libera
scelta dell’attore) e stabilirà il termine perentorio entro il quale deve essere notificata la nuova citazione, esente dai vizi che travagliavano la prima; naturalmente, nel fissare queste date, il giudice deve
mettere l’attore in condizione di rispettare il termine minimo di comparizione.
Aa) 1. Se l’ordine non viene eseguito, il giudice dispone la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue (art. 307,
terzo comma). Rimangono ovviamente salvi gli effetti sostanziali della domanda (ad es., l’interruzione della prescrizione).
Aa) 2. Se l’ordine viene eseguito, i vizi rimangono sanati e gli
effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dalla prima notificazione.
Aa) 3. Se l’ordine viene eseguito, ma senza rispettare il termine
perentorio fissato dal giudice, il processo si estingue solo se il convenuto eccepisce la tardività prima di ogni altra sua difesa (art. 307
ult. comma); altrimenti l’effetto sanante si dispiega appieno.
245
Quanto agli effetti della rinnovazione della citazione, per quel
che concerne la posizione processuale del convenuto, sembra debba escludersi che l’ordine di rinnovazione della citazione comporti
automaticamente la rimessione in termini del convenuto, salvando
incondizionatamente costui dalle preclusioni di cui all’art. 167. Bisogna, infatti, tener conto della disposizione di cui al terzo comma
dell’art. 164, in forza del quale è consentita al convenuto costituito la rimessione in termini solo quando la nullità derivi da insufficienza del termine di comparizione o da mancanza dell’avvertimento circa le decadenze, ed inoltre della disposizione di cui al primo comma dell’art. 294, in forza del quale il contumace può essere ammesso, allorché si costituisca, a compiere attività che gli sarebbero precluse solo ove dimostri che la nullità della citazione o
della sua notificazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo. Sembra perciò doversi ritenere che la rimessione in termini
del convenuto, che si costituisca in seguito alla rinnovazione della
citazione, debba essere regolata secondo la disciplina dell’art. 294;
e cioè nel senso che la rimessione in termini sia operante solo rispetto a quelle attività che gli sono state impedite dal vizio della
citazione.
Ab) Se il convenuto si costituisce, dice il terzo comma del nuovo art. 164, rimangono sanati i vizi della citazione e restano salvi gli
effetti sostanziali e processuali, che si producono fin dal momento
della prima notificazione. Se si vuole, si può adoperare al riguardo
la tradizionale espressione sanatoria ex tunc. Con l’avvertenza però
che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si ricollegano
propriamente alla editio actionis e non possono perciò rimanere pregiudicati dai vizi che riguardano la vocatio in ius: Questo significa
che gli effetti che la citazione è idonea a determinare di per se’, indipendentemente dall’esito del giudizio, si producono ugualmente,
anche senza la rinnovazione (si pensi, analogamente all’esempio fatto sopra, all’interruzione della prescrizione).
Ab) 1. Se il convenuto si costituisce in termini, nonostante la nullità derivante da inosservanza del termine di comparizione o da mancanza dell’avvertimento, e nulla eccepisce, la nullità rimane sanata. Se,
invece, eccepisce la nullità, il giudice fissa una nuova udienza, che per
il convenuto sarà ad ogni effetto la prima udienza, rispetto alla quale
soltanto vanno calcolati i termini per il compimento delle attività difensive e si potranno verificare le eventuali decadenze.
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Ab) 2. Se il convenuto si costituisce in termini, nonostante la
presenza di una nullità derivante da taluno degli altri vizi della vocatio in ius diversi da quelli sopra indicati, la costituzione rimuove
ogni effetto della nullità, essendo stato comunque raggiunto lo scopo dell’atto. In tal caso, il convenuto eccepirebbe invano la nullità,
dal momento che la sua costituzione tempestiva opera la convalidazione della citazione. Salvo a dimostrare che il vizio della citazione
gli ha realmente impedito di usufruire concretamente del termine
minimo per approntare la difesa: in questa ipotesi, anche se la legge nulla dice al riguardo, sembra potersi ritenere che il convenuto
debba ottenere dal giudice la rimessione in termini, per un evidente parallelismo con la situazione di cui all’art. 294 (che però riguarda il contumace).
Ab) 3. Se il convenuto si costituisce tardivamente, e cioè dopo
la prima udienza, ove non faccia valere la nullità all’atto della costituzione, il vizio rimane sanato ad ogni effetto, dato che i vizi della
citazione sono rilevabili d’ufficio solo se il convenuto non è costituito.
Ab) 4. Può avvenire che il convenuto, costituendosi tardivamente, eccepisca taluna delle nullità derivanti dall’omessa o incerta indicazione dell’ufficio giudiziario o delle parti o dell’udienza. In tal
caso, egli può ottenere, a norma dell’art. 162, primo comma, la rinnovazione degli atti processuali compiuti prima della sua costituzione e che, per propria natura, debbano compiersi nel contraddittorio
delle parti. Può altresì ottenere la rimessione in termini, che gli dia
modo di compiere attività che gli sarebbero altrimenti precluse, se
dimostri che il vizio era tale da impedire la completa conoscenza del
processo (ad esempio, l’omessa o incerta individuazione della parte
attrice potrebbe avergli impedito di sollevare tempestivamente eccezioni riguardanti la parte medesima e i rapporti con essa ovvero di
chiamare tempestivamente in giudizio un terzo per essere garantito
rispetto alla pretesa attorea).
Rimane il problema, variamente risolto in dottrina, se la rinnovazione degli atti nulli compiuti medio tempore sia condizionata alla rimessione in termini ovvero possa e debba essere disposta indipendentemente da questa e come mero effetto del propagarsi della
nullità agli atti successivi dipendenti da quello nullo.
Ab) 5. Può verificarsi che il convenuto, costituendosi tardivamente,
eccepisca la nullità derivante dall’inosservanza del termine minimo di
247
comparizione. Non sembra corretto ritenere che, in questo caso, egli
abbia automaticamente diritto alla rimessione in termini, attraverso
la fissazione di una nuova prima udienza. Nella logica della norma
di cui all’art. 164, terzo comma, la fissazione della nuova udienza è
correlata alla considerazione che il convenuto, per potersi costituire
in termini, non ha potuto usufruire dei 20 o 10 giorni consentitigli
dalla legge per predisporre la difesa. Ma se egli non si è costituito in
termini, la ratio della norma vien meno e questa risulta inapplicabile. Gli resta la possibilità di usufruire della disposizione, che si è già
citata, dell’art. 294, che consente la rimessione in termini del contumace, laddove la tardiva costituzione sia dipesa da causa a lui non
imputabile. Resta altresì la possibilità di ottenere la rinnovazione degli atti compiuti medio tempore e che siano inficiati dalla nullità iniziale, negli stessi limiti enunciati sopra.
Ab) 6. Può verificarsi che il convenuto, costituendosi tardivamente, eccepisca la nullità derivante dall’omissione dell’avvertimento circa le decadenze. Anche qui bisogna risalire alla ratio della norma che sanziona di nullità la mancanza dell’avvertimento. Scopo e
motivo di tale norma è la necessità di rendere edotto il convenuto
dell’onere di approntare tempestivamente le proprie difese, in modo
da potersi costituire in termini ed evitare così le decadenze.
Si sostiene perciò da taluni che, presupponendo la norma la costituzione in termini del convenuto, se la costituzione avviene invece tardivamente, viene troncato il nesso di causalità tra il vizio indicato e le decadenze maturate in danno del convenuto, anche perché si tratta di un vizio che non impedisce al convenuto di aver conoscenza del processo. Si sostiene invece da altri che le decadenze
incorse debbano considerarsi conseguenza dell’omissione dell’avvertimento, per cui il giudice deve senz’altro fissare una nuova udienza, ossia rimettere in termini il convenuto.
3. Conviene ora esaminare le situazioni che possono verificarsi in
presenza di vizi riguardanti la editio actionis e le relative sanatorie.
Va precisato, al riguardo, che nella nuova formulazione dell’art.
164, costituisce motivo di nullità l’omissione (o incertezza assoluta)
sia del petitum che della causa petendi. Dal che si desume che, nel
processo delineato dalla riforma, tutti gli elementi della domanda devono indefettibilmente aver ingresso fin dal primo atto del processo,
non solo perché sia determinata fin dall’inizio in tutti i suoi aspetti
la materia del contendere, ma anche perché vada salvaguardata l’ul248
teriore funzione della citazione quale atto preparatorio della trattazione della causa. D’altra parte le preclusioni poste a carico del convenuto trovano giustificazione solo in presenza di corrispondenti preclusioni a carico dell’attore:diversamente si porrebbero seri problemi di costituzionalità.
Ba) Se il convenuto non si costituisce, il giudice, rilevata la nullità, dispone la rinnovazione della citazione entro un termine perentorio, con le modalità di cui si è detto a proposito dei vizi riguardanti la vocatio in ius.
Ba) 1. La legge non dice quali siano le conseguenze della inottemperanza all’ordine di rinnovazione. La sanzione di estinzione per
la mancata rinnovazione è disposta espressamente nell’art. 164 solo
riguardo ai vizi della vocatio in ius, ma non è ripetuta a proposito
dei vizi della editio actionis. Ciò ha fatto pensare a qualche autore
che il regime sia diverso per i due casi e che, nel secondo caso, il
processo debba proseguire nonostante l’inosservanza dell’ordine di rinnovazione, per concludersi con una sentenza di rigetto in rito.
Qualche altro autore ritiene invece che debba dichiararsi l’estinzione del processo, in virtù della disposizione del terzo comma
dell’art. 307, che però dovrebbe essere eccepita dalla parte interessata, mentre l’ipotesi che si sta esaminando è che la parte interessata non sia costituita.
Resta da rilevare che in questo caso, a differenza di quanto avviene riguardo ai vizi della vocatio in ius, gli effetti sostanziali della
domanda non possono prodursi, proprio in conseguenza della mancanza o assoluta incertezza degli elementi oggettivi della domanda.
Ba) 2. Se l’ordine viene eseguito, la nullità viene sanata, ma con
effetto ex nunc, ossia dal momento della notificazione della nuova
citazione. Infatti, come dice il quinto comma dell’art. 164, restano
ferme le decadenze e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione. Gli effetti preclusivi per il convenuto vanno riferiti alla nuova udienza fissata dal giudice.
Bb) Se il convenuto si costituisce, e in qualunque momento si
costituisca, sia che sollevi, sia che non sollevi l’eccezione, il giudice deve ordinare all’attore di integrare la domanda. Ciò perché non
può evidentemente ammettersi che il processo sia istruito e giunga ad una decisione di merito su una domanda non determinata o
incerta. Anche in caso di integrazione la sanatoria ha effetto ex
nunc.
249
Bb) 1. L’ultimo comma dell’art. 164 dispone che l’integrazione della domanda avvenga nei modi di cui all’art. 183, ultima parte, e cioè
mediante una memoria da depositare in un termine perentorio fissato dal giudice, non superiore a 30 giorni. La norma aggiunge che si
applica l’art. 167. Per dare un senso a questa disposizione (che apparrebbe fuor di luogo, dal momento che riguarda la comparsa di risposta, mentre nella ipotesi in esame si suppone che tale comparsa
sia stata già depositata), si deve ritenere che essa significhi che è data facoltà al convenuto di apprestare ulteriori difese, rese necessarie
dall’integrazione della domanda, difese da far valere con un successivo atto, assoggettato alla stessa disciplina della comparsa di risposta.
In pratica, il giudice fisserà una nuova udienza, che avrà la stessa natura processuale della prima udienza, e assegnerà, rispettivamente
all’attore e al convenuto, termini intermedi per integrare le rispettive
difese. Le preclusioni opereranno con riferimento alla nuova udienza.
Bb) 2. La norma non dice che cosa succede se la domanda non
viene integrata nel termine perentorio fissato dal giudice. Esclusa
l’applicabilità dell’art. 307 (che parla di integrazione del giudizio e
non di integrazione della domanda), sembra che non rimanga altra
via che dichiarare con sentenza la nullità della citazione, salvo che
la trattazione della causa abbia comunque consentito di colmare ogni
lacuna.
La costituzione del convenuto
1. È rimasta invariata la norma relativa alla costituzione dell’attore, ma significative novità riguardano invece la costituzione del
convenuto.
Il termine minimo è stato dilatato dagli attuali cinque giorni (o
tre, in caso di abbreviazione dei termini) a venti giorni (o dieci, in
caso di abbreviazione) prima dell’udienza fissata in citazione, cosicché diventa indifferente a questo fine il rinvio fino a 45 giorni disposto dal giudice istruttore: in altri termini, il tempo a disposizione del convenuto per preparare la difesa lo stabilisce solo l’attore,
s’intende nei limiti di legge.
Non c’è più nell’art. 166, quale risulta dalla Novella, l’inciso (presente invece nel testo attuale): “ computato nel termine il giorno della costituzione”. Il che significa che, attualmente, non si tratta di un
250
termine “libero”. E’ però da ritenere che l’omissione, volontaria o involontaria che sia, non abbia comportato alcuna modificazione al riguardo e che, quindi, non voglia significare che il termine di 20 o
10 giorni prima dell’udienza debba considerarsi di “giorni liberi”. In
base alla regola generale contenuta nell’art. 155, perché un termine
sia “libero” occorre che la legge lo preveda espressamente come tale, anche se si tratta di un termine da computare a ritroso, andando all’indietro a partire da una certa data. Non c’è più nel testo
dell’art. 166 neppure la previsione, secondo la quale il convenuto deve depositare, con la comparsa di risposta, “le copie necessarie per
altre parti”. Questa omissione risulta incomprensibile, priva com’è di
razionale giustificazione.
L’anticipazione della costituzione del convenuto rispetto alla data dell’udienza si giustifica: a) con l’esigenza di consentire all’attore
di prendere visione per tempo delle difese avversarie, in modo da poter proporre alla prima udienza le domande e le eccezioni che siano conseguenza delle difese del convenuto e da poter chiedere la
chiamata in causa del terzo (vedansi gli artt. 183, quarto comma, e
269, terzo comma); b) con l’esigenza di consentire al giudice la conoscenza di tutto l’oggetto del contendere prima dello svolgimento
dell’udienza.
2. Lo strumento fondamentale per le difese del convenuto è la
comparsa di risposta. Il testo novellato dell’art. 167 introduce delle
importantissime novità, veramente caratterizzanti della riforma.
a) Accanto alla disposizione, già presente nel vecchio testo, secondo la quale “il convenuto deve proporre tutte le sue difese” viene aggiunto l’inciso, parallelo a quello dell’art. 416, ultimo comma,
“prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della
domanda”. A dire il vero nell’art. 416 la disposizione ha un tono più
severo, in quanto si pretende che il convenuto prenda “posizione in
maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione”.
Non sembra però che possano essere diverse, nel rito ordinario
rispetto al rito del lavoro, le conseguenze derivanti da una contestazione formulata in termini generici, sia perché mancherebbe una razionale giustificazione della diversità, sia perché consentire una contestazione generica si porrebbe in contraddizione con l’impianto generale della riforma, sia perché non si spiegherebbe il minor rigore riservato al convenuto, rispetto all’attore, obbligato a indicare, a pena
di nullità della citazione, i fatti costituenti le ragioni della domanda.
251
Quali possono essere, allora, le conseguenze di una contestazione generica? Sembra doversi escludere che essa comporti ammissione dei fatti dedotti dall’attore o che possa considerarsi “non contestazione” ai fini dell’ordinanza di pagamento delle somme non contestate (ma le opinioni al riguardo sono divergenti). L’opinione che
appare più conforme allo spirito della legge sembra essere quella per
cui la contestazione generica può essere valutata come argomento di
prova a carico del convenuto, ai sensi del secondo comma dell’art.
116, nel quadro del suo complessivo comportamento processuale.
Sarà ammissibile, e in quali limiti, una contestazione non generica, ma contenuta in un atto cronologicamente successivo alla comparsa di risposta? A questo riguardo la legge non pone sbarramenti
decadenziali, per cui sembra potersi ritenere che siffatta contestazione possa essere effettuata fino alla prima udienza di trattazione, visto
che, in relazione a tale udienza, l’art. 183, quarto comma, consente a
entrambe le parti di precisare domande, eccezioni e conclusioni.
b) Si prevede poi che il convenuto indichi i mezzi di prova di
cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione. Non
si rinviene, perciò, in questa formulazione l’inciso “specificamente”
contenuto nel testo attuale, il che – senza peraltro voler dilatare l’importanza dell’omissione – sembra dare un tono meno severo alla norma rispetto a prima. L’obbligo di indicare i mezzi di prova in comparsa di risposta non è sanzionato, a differenza di quanto previsto
nel rito del lavoro (art. 416, terzo comma). Il quesito se siano possibili richieste istruttorie in momenti e atti successivi ha avuto risposte contrastanti. Da una parte si è osservato che la possibilità di
ampliare le richieste istruttorie è consentita dall’art. 184 solo limitatamente ai mezzi istruttori “nuovi”, e cioè diversi da quelli “vecchi”
che si presuppongono formulati prima, e cioè in comparsa di risposta. D’altra parte si sottolinea che l’art. 184 non riporta la limitazione contenuta nell’art. 420, che limita la possibilità di indicare nuove prove ai mezzi istruttori che la parte non aveva potuto chiedere
prima. Secondo la prima delle esposte tesi, la disposizione in esame
renderebbe tassativo l’onere di indicazione dei mezzi di prova in comparsa di risposta; secondo l’altra, sarebbe ancora possibile tale indicazione all’udienza di trattazione o nel termine in essa concesso.
c) Molto più incisivo è l’art. 167 riguardo alle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, stabilendo che la loro mancata formulazione in comparsa di risposta importa decadenza.
252
Analoga decadenza è prevista per le domande riconvenzionali.
Per identità di ratio con queste ultime si dovrebbe ritenere che anche le domande di accertamento incidentale, da decidere con efficacia di giudicato, debbano essere proposte, a pena di decadenza, con
la comparsa di risposta. La decadenze è prevista anche per la chiamata di un terzo in causa, di cui ci si occuperà in seguito. Al riguardo è da rilevare che la posizione del convenuto diviene simmetrica a quella dell’attore, perché neppure questi può proporre altra
domanda in corso di causa o chiamare in causa un terzo, salvo che
tali attività siano rese necessarie dalle domande o dalle eccezioni del
convenuto (e solo alla prima udienza).
Al convenuto incorso nelle cennate decadenze resterà comunque
la possibilità di dedurre eccezioni basate su fatti rilevabili d’ufficio (ad
esempio, eccezione di nullità), di far valere le mere difese, di contestare i fatti costitutivi; secondo qualche autore, potrà ancora allegare
fatti impeditivi, estintivi o modificativi e dedurre le relative prove.
d) Benché rimaneggiata, è stata confermata la norma “salvagente”, per cui se una delle parti si è costituita entro il termine rispettivamente a lei assegnato, l’altra parte può costituirsi successivamente fino alla prima udienza.
Restano però ferme le decadenze previste dall’art. 167: cioè il
convenuto non potrà più proporre le domande riconvenzionali e le
eccezioni non rilevabili d’ufficio. Gli sono ovviamente consentite quelle attività di cui poc’anzi si è detto riguardo al convenuto che sia comunque incorso nelle cennate decadenze.
Ma se è l’attore a usufruire della possibilità di costituirsi all’udienza (posto che il convenuto si sia costituito tempestivamente, iscrivendo la causa a ruolo) la difesa del convenuto potrebbe subirne pregiudizio, a causa della mancata possibilità di esaminare il fascicolo
dell’attore coi documenti ivi contenuti. Perciò, in caso di tardiva costituzione dell’attore, il giudice sarà tenuto a regolare i tempi delle
diverse attività da compiere nella prima udienza in modo da consentire al convenuto ogni possibilità di difesa.
L’intervento del terzo
L’ultimo argomento da trattare, secondo l’intitolazione della presente relazione, riguarda l’integrazione del contraddittorio e la chia253
mata del terzo in causa, e cioè l’ingresso nel processo di soggetti diversi da quelli originari e in aggiunta a questi. Ho ritenuto di dover
modificare in qualche modo l’argomento perché, da un lato, non ci
sono nella legge di riforma novità riguardo all’integrazione del contraddittorio, essendo rimasta immutata la disciplina del litisconsorzio necessario, e, dall’altro lato, la chiamata del terzo concerne solo
l’intervento coatto, ma lascerebbe fuori l’intervento volontario, per il
quale la riforma ha introdotto qualche novità. Parleremo perciò di
tutte le modificazioni introdotte dagli articoli 28, 29 e 30 della legge di riforma nella disciplina dell’intervento del terzo.
L’intervento volontario
1. La riforma dell’art. 268 si è resa necessaria per adeguare la
disciplina dell’intervento alla nuova struttura del processo. La prima
modifica riguarda il termine entro il quale è consentito l’intervento
volontario. Mentre nel testo ancora in vigore il momento ultimo per
l’intervento è individuato nella rimessione della causa al collegio, nel
testo novellato tale momento coincide con la precisazione delle conclusioni, per l’ovvia ragione che la decisione collegiale è limitata a
talune materie e non ha più carattere generale.
2. Nel testo attuale si dice che, se l’intervento avviene dopo la
prima udienza, il terzo non può compiere attività che non sono più
consentite alle altre parti. Il riferimento alla prima udienza è un relitto della originaria stesura del codice, nella quale alla prima udienza scattavano delle preclusioni. Spostato con la controriforma del
1950 il momento delle preclusioni fino alla precisazione delle conclusioni, in pratica nessuna attività è impedita all’interveniente. Nella Novella del 1990 ritornano le preclusioni e il terzo deve accettare
il processo nello stato in cui si trova.
Nel nuovo testo dell’art. 268 si stabilisce che il terzo non può compiere atti che al momento dell’intervento non sono più consentiti ad
alcun’altra parte. E’ scomparso il riferimento alla prima udienza, per
cui sembra che la disciplina sia identica, in qualunque momento avvenga l’intervento. Ma la norma si presta ad una duplice interpretazione. Si può intenderla nel senso che l’attività del terzo non incontra
limitazioni finché almeno una delle parti non è ancora incorsa nelle
preclusioni; oppure nel senso che le limitazioni all’attività dell’interve254
niente cominciano nel momento in cui si verificano le preclusioni per
almeno una delle altre parti e riguardano gli atti a questa preclusi.
Sembrerebbe più consona allo spirito della riforma questa seconda e
più rigorosa interpretazione. Se ne dovrebbe desumere che gli interventi principale e litisconsortile, in quanto determinano la formulazione di una domanda nuova, siano ammissibili solo nel termine previsto per la costituzione del convenuto, analogamente a quanto avviene nel processo del lavoro (art. 419). Nessuna limitazione può incontrare invece l’intervento adesivo, che non introduce una domanda nuova, salve eventuali preclusioni di altro genere, ad esempio istruttorie.
Quindi, secondo questa interpretazione, scaduto il termine per la costituzione del convenuto (20 o 10 giorni prima dell’udienza indicata
in citazione), sarebbe ammissibile solo l’intervento adesivo.
Si è da taluno prospettata una interpretazione estremamente liberale, nel tentativo di evitare una eccessiva compressione della facoltà di intervento volontario, proponendo di ritenere sempre possibile ogni forma di intervento fino alla precisazione delle conclusioni,
con il conseguente superamento di ogni preclusione in danno dell’interveniente, sia per quanto concerne la possibilità di introdurre una
domanda nuova, sia per quanto concerne allegazioni e richieste istruttorie. Ma, a parte il contrasto evidente col tenore letterale della norma, siffatta interpretazione porrebbe un serio problema di costituzionalità, configurando un intervento sciolto da ogni limite a fronte
delle altre parti, vincolate alle già verificatesi preclusioni.
3. Anche il testo novellato dell’art. 268 lascia ferma la disposizione per cui l’attività processuale del terzo non trova limiti di sorta quando l’intervento volontario viene spiegato dal litisconsorte necessario per l’integrazione del contraddittorio.
Costui infatti avrebbe dovuto essere parte in causa fin dal primo momento e i suoi diritti nel processo non possono subire compressioni per effetto della negligenza o inavvedutezza dell’attore, che
non abbia provveduto a convenirlo in giudizio.
L’intervento coatto
1. La chiamata del terzo va operata notificandogli una citazione
contenente tutti gli elementi indicati nell’art. 163 e nel rispetto dei
termini di cui all’art. 163 bis.
255
Posta questa regola, che vale per ogni tipo di chiamata in causa di un terzo, ed eliminato opportunamente l’attuale riferimento alla prima udienza (che avrebbe comportato in pratica l’impossibilità
di chiamare il terzo nel rispetto del termine di comparizione), la legge distingue nettamente le due ipotesi di chiamata nel processo su
istanza dell’attore e su istanza del convenuto.
2. Quest’ultima, che è statisticamente prevalente, viene disciplinata nel secondo comma del novellato articolo 269.
Il convenuto ha l’onere di dichiarare il suo intendimento e, contestualmente, di chiedere al giudice istruttore lo spostamento della
prima udienza, in modo da poter citare il terzo in osservanza del termine a comparire previsto dall’art. 163 bis, affinché il terzo possa
usufruire del termine a difesa. Il giudice, entro cinque giorni dalla
richiesta, fisserà con decreto la nuova udienza; il decreto sarà comunicato dalla cancelleria alle parti costituite; la citazione al terzo
sarà notificata a cura del convenuto, il quale indicherà in tale citazione l’udienza fissata dal giudice col decreto di cui s’è detto.
3. L’adempimento delle due condizioni poste a carico del convenuto (dichiarazione di chiamata e richiesta di spostamento
dell’udienza) è imposto a pena di decadenza e va fatto nella comparsa di risposta.
Qualche problema sorge riguardo al coordinamento di questa
norma con gli articoli 167 e 171. L’art. 167 conferma che la dichiarazione di chiamata va fatta nella comparsa di risposta, ma non prevede che questo onere sia assoggettato allo stesso termine, scaduto
il quale scattano per il convenuto le altre preclusioni. In altre parole, non è detto espressamente nella legge che in convenuto, per poter chiamare il terzo deve costituirsi almeno 20 giorni prima
dell’udienza indicata in citazione. Ciò ha fatto pensare a qualcuno
che la facoltà di chiamare il terzo è consentita al convenuto anche
se questi (tempestivamente costituitosi l’attore) si costituisce solo alla prima udienza, ai sensi dell’art. 171. In primo luogo è da osservare che l’art. 167, ultimo comma, rimanda all’art. 269 nella sua interezza, per cui è a quest’ultima norma che bisogna far riferimento
per la disciplina dell’intervento coatto e, come abbiamo visto, l’art.
269 pone a carico del convenuto i due adempimenti di cui s’è detto
a pena di decadenza. Ma, se il convenuto si costituisce solo alla prima udienza, e non 20 giorni prima, che senso avrebbe chiedere lo
spostamento della prima udienza? In secondo luogo, l’art. 171 non
256
prevede alcuna sanatoria per le decadenze in cui è incorso il convenuto che non si costituisce nel termine assegnatogli. La norma di cui
al secondo comma dell’art. 269 ha perciò un senso solo considerando che il convenuto si costituisca tempestivamente, entro il termine
in cui scattano per lui le preclusioni. Del resto, questa soluzione è
in armonia con la ratio del nuovo processo, che intende assicurare
la presenza di tutti i soggetti del processo fin dalla prima udienza.
Si deve perciò ritenere che il convenuto che si costituisce direttamente alla prima udienza sia decaduto dalla possibilità di chiamare
in causa un terzo, non potendo osservare entrambi gli adempimenti posti a suo carico a pena di decadenza.
4. Ma se l’attore avesse notificato la citazione al convenuto con
tanto anticipo, rispetto all’udienza, da consentire al convenuto di citare il terzo per tale udienza, rispettando il termine di cui all’art. 163
bis, sarà possibile al convenuto di chiamare il terzo, saltando i due
adempimenti suddetti? Non sembra che sussistano veri ostacoli a dare al quesito una risposta positiva. Infatti, al giudice non è consentita alcuna valutazione circa l’ammissibilità della chiamata in causa
del terzo, né circa l’effettiva esistenza della comunanza di causa, con
riferimento alla istanza del convenuto. L’istanza che questi rivolge al
giudice è solo preordinata ad ottenere lo spostamento della prima
udienza e non l’autorizzazione alla chiamata, che non è affatto prevista dalla legge. Perciò se è possibile chiamare il terzo, dandogli il
previsto termine a difesa, senza spostare l’udienza, sarà anche possibile citarlo direttamente per tale udienza.
5. Se è invece l’attore che intende chiamare in causa un terzo,
deve chiedere l’autorizzazione al giudice. Questa autorizzazione è subordinata a due condizioni: a) che l’interesse dell’attore a chiamare
in causa il terzo sia sorto a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta; b) che l’istanza sia fatta nella prima
udienza. Riguardo alla prima condizione va chiarito che non qualsiasi circostanza riferita nella comparsa di risposta potrà far sorgere l’interesse dell’attore a chiamare il terzo; bisogna invece che si
tratti di una circostanza dedotta dal convenuto a fondamento di una
sua eccezione. Tuttavia, data l’ampia formulazione dell’art. 106, che
consente a ciascuna parte di chiamare nel processo un terzo, al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende di essere garantita,
si deve ritenere che l’attore possa fare a meno dell’autorizzazione del
giudice, se non c’è bisogno di spostare l’udienza (come ora vedre257
mo), ad esempio se il giudice istruttore ha di sua iniziativa differito
tale udienza usufruendo del noto termine di 45 giorni. Riguardo alla seconda condizione va aggiunto che l’osservanza del termine è posta a pena di decadenza e che il giudice, concedendo l’autorizzazione, deve fissare una nuova udienza, per consentire la chiamata del
terzo nel rispetto del termine di comparizione, e deve fissare anche
il termine perentorio entro il quale la notificazione dovrà avvenire.
Ovviamente, l’autorizzazione sarà concessa in tutti i casi in cui
è consentito il simultaneus processus.
6. Mentre in caso di chiamata ad istanza dell’attore il giudice
deve indicare il suddetto termine perentorio, come è anche stabilito
dall’art. 271 per il caso di chiamata ad istanza del terzo, nulla di ciò
è previsto in caso di chiamata ad istanza del convenuto. Basterà perciò che la citazione del terzo ad opera del convenuto sia notificata
in un qualsiasi giorno che consenta l’osservanza dei termini di comparizione.
7. Il testo novellato dell’art. 269 non consente al terzo di costituirsi all’udienza, prevedendo invece che egli si costituisca nello stesso termine e con le stesse modalità previste a proposito della costituzione del convenuto, ossia con comparsa di risposta da depositare in cancelleria almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione fissatagli.
L’ultimo comma dell’art. 269 ribadisce, per le parti originarie,
l’operatività delle preclusioni con riferimento alla prima udienza di
trattazione. Ciò, evidentemente, per impedire che le parti possano
prendere occasione dalla chiamata del terzo per sfuggire alle preclusioni in cui fossero già incorse e possano a tale scopo effettuare
pretestuose chiamate di terzo a fini dilatori. Però è anche prevedibile che all’udienza di comparizione del terzo le parti originarie sentano il bisogno di aggiornare le proprie deduzioni, eccezioni e difese; perciò è previsto che chiedano al giudice, in tale udienza, un termine perentorio per depositare memorie.
8. Poiché nessuna modifica è stata apportata alla norma di cui
all’art. 270, la chiamata del terzo iussu iudicis può essere disposta
in ogni momento della fase istruttoria, per una udienza che lo stesso giudice fisserà.
9. In relazione alla costituzione del terzo il nuovo art. 271 ribadisce che essa deve avvenire nei termini e nei modi previsti dagli
artt. 166 e 167, primo comma, parallelamente a quanto previsto per
258
il convenuto. Egli può anche chiedere la chiamata di un quarto. Si
ritiene da taluni che la chiamata di questo quarto non è assoggettata agli stessi limiti previsti per la chiamata ad istanza dell’attore e
che sull’istanza di chiamata il giudice non ha poteri discrezionali.
Ma se questo è vero, rimane difficilmente spiegabile la necessità
dell’autorizzazione del giudice, pure espressamente prevista.
10. Deve ritenersi che il terzo possa compiere attività ormai precluse alle parti originarie: è stato chiamato da altri ad entrare in un
giudizio, al quale era rimasto fino a quel momento estraneo, e deve
quindi avere ogni possibilità di difendersi. Deve perciò essergli consentito di proporre domande riconvenzionali, sollevare eccezioni non
rilevabili d’ufficio, chiedere l’ammissione di mezzi istruttori.
Qualche problema sorge però se il terzo è stato chiamato iussu
iudicis e l’ordine è stato dato non in limine litis, ma a preclusioni
già maturate per le altre parti.
Vero è che questo tipo di chiamata in causa non concreta una
domanda nei confronti del terzo, ma è anche vero che in ogni caso
a questo terzo non possono essere opposte preclusioni ed egli deve
poter svolgere tutte le proprie difese.
Ma anche le altre parti potrebbero avere interesse a contrastare
codeste difese, senza essere inceppate da preclusioni e decadenze. Il
testo della legge non offre soluzioni, che andranno individuate in via
interpretativa. Se non si vuole denunciare di incostituzionalità la norma che consente al giudice di ordinare l’ingresso nel giudizio di un
soggetto quando le altre parti sono vincolate alle preclusioni già maturate e quindi inceppate nelle difese rispetto a nuovi fatti o nuove
prospettazioni, bisognerà ammettere anche in questo caso quel che
è previsto per il caso di chiamata su istanza dell’attore (art. 269, ultimo comma), e cioè la fissazione di un termine per il deposito di
memorie contenenti precisazioni e modificazioni delle domande e
delle eccezioni proposte, in replica alle difese svolte dal terzo.
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L’INTRODUZIONE DELLA CAUSA IN PRIMO GRADO
DOPO LA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE
(citazione, comparsa di risposta, intervento e chiamata in causa)(*)
Relatore:
Dott. Giacomo OBERTO
Giudice presso il Tribunale di Torino
SOMMARIO: (I) La posizione dell’attore: 1. Le modifiche introdotte dalla novella del ‘90
al contenuto dell’atto di citazione. - 2. Il nuovo regime delle nullità dell’atto di citazione. Premessa. - 3. La nullità dell’atto di citazione inteso come
vocatio in ius. a) La natura eccezionale delle forme di sanatoria. La rinnovazione dell’atto di citazione. b) La costituzione tempestiva del convenuto. c) La costituzione tardiva del convenuto. 4. La nullità dell’atto di citazione inteso come editio actionis. - 5. I nuovi termini per comparire e la
costituzione dell’attore. - (II) La posizione del convenuto: 6. La costituzione del convenuto. a) I termini per la costituzione del convenuto. b) I termini per l’allestimento delle difese da parte del convenuto. c) L’esame del
fascicolo dell’attore. - 7. La comparsa di risposta. - (III) L’intervento di terzi e la chiamata di un terzo in causa: 8. Premessa. - 9. L’intervento di terzi. - 10. La chiamata di un terzo in causa. a) La chiamata in causa da parte del convenuto. b) La chiamata in causa da parte dell’attore. c) Costituzione e poteri del terzo chiamato. - 11. L’intervento iussu iudicis.
I - LA POSIZIONE DELL’ATTORE
1. Le modifiche introdotte dalla novella del ’90 al contenuto dell’atto
di citazione
Le modifiche introdotte dalla l. 26 novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile) al contenuto dell’atto di citazione potrebbero apparire, ad una prima lettura, di assai poco mo-
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 23 al 27 febbraio 1993.
260
mento (1). Una volta constatata la conservazione del “vecchio” sistema della citazione a udienza fissa ed il mancato ritorno alla situazione anteriore alla novella del ’50 (fissazione dell’udienza di comparizione da parte del presidente del tribunale) (2), si deve infatti rilevare che il nuovo testo dell’art. 163 c.p.c. differisce dal previgente
solo perché esso impone all’attore (cfr. il terzo comma, n. 7) di inserire nel proprio atto introduttivo l’“avvertimento” (3) al convenuto
che la costituzione di quest’ultimo oltre i termini di cui all’art. 166
c.p.c. comporterà le decadenze di cui all’art. 167 c.p.c.
In realtà il contenuto dell’atto di citazione, dopo la riforma del
‘90, risulta pesantemente influenzato da due principi fondamentali,
che non emergono dal testo dell’art. 163 c.p.c., e più precisamente:
a) dalla nuova disciplina delle nullità dell’atto introduttivo ex art.
164 c.p.c. (in particolare dalla previsione, alla stregua di una fattispecie invalidante, dell’omessa esposizione dei fatti di cui al n. 4
dell’art. 163 c.p.c.);
b) dal nuovo regime delle preclusioni in ordine alle deduzioni
tanto istruttorie che di merito, così come risultante dai nuovi artt.
183, quarto e quinto comma, e 184 c.p.c.
(1) Sull’argomento cfr. in generale ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo
civile e il progetto del Senato sul giudice di pace, Padova, 1991, p. 53 ss.; CARPI, COLESANTI e TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, Appendice di
aggiornamento a cura di F. CARPI e M. TARUFFO, Padova, 1991, p. 38 ss.; CONSOLO, LUISO e SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 1991, p. 33 ss.; MANDRIOLI, Le modifiche del processo civile, Torino, 1991, p. 36 s.; PROTO PISANI, La
nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, p. 65 ss., 110 ss.; TAVORMINA, Commento agli artt. da 7 a 35, l. 26 novembre 1990, n. 353, in Corriere giuridico, 1991, p.
40 ss.; VERDE, Commento all’art. 163 c.p.c., in VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile. Legge 26 novembre 1990, n. 353, Torino, 1991, p. 20; BALENA, Commento agli artt. da 7 a 9 nel Commentario alla l. 26 novembre 1990, n. 353, a cura di
G. TARZIA e F. CIPRIANI, in Nuove leggi civ. comm., 1991, p. 50 ss.; LASAGNO, Commento all’art. 7, l. 353/90, in Le riforme del processo civile, a cura di CHIARLONI, Bologna, 1992, p. 75 ss.
(2) Si tenga però presente la possibilità per l’istruttore di differire sino ad un
massimo di quarantacinque giorni la data della prima udienza ai sensi del novellato
art. 168 bis ult. cpv. c.p.c.
(3) Si noti che questo termine, che è parso a taluno “poco elegante e per il più
alquanto sinistro” (v. TAVORMINA, op. cit., p. 40) non era comunque ignoto al nostro codice di rito: cfr. art. 641 c.p.c.
261
Questo secondo aspetto esula dai limiti della presente indagine
(4). Al riguardo sarà sufficiente constatare, con la più attenta dottrina, che la citazione non potrà più limitarsi, come in precedenza,
ad un atto ad explorandum, ovvero all’enunciazione di un mero programma di domanda, destinato ad essere integrato successivamente
nel corso del processo. Essa dovrà invece essere redatta con la consapevolezza che la prima udienza di trattazione costituirà l’ultimo
momento utile per proporre le domande e le eccezioni che siano conseguenza delle difese svolte dal convenuto e per limitate messe a punto (previa autorizzazione del giudice) delle domande e delle conclusioni formulate nell’atto di citazione (5).
2. Il nuovo regime delle nullità dell’atto di citazione. Premessa
Come rilevato nella Relazione della Commissione Giustizia del Senato, il nuovo regime delle nullità dell’atto introduttivo del giudizio
fa perno sulla tradizionale distinzione tra le sue due funzioni di vocatio in ius (e dunque di atto diretto all’instaurazione del contraddittorio) e di editio actionis (cioé di atto contenente l’esercizio del diritto d’azione) (6), distinzione che appare anche “visivamente” rappresentata dalla ripartizione interna dell’art. 164 c.p.c., i cui primi
tre commi disciplinano l’invalidità relativa al primo dei due aspetti
(4) Sull’argomento delle preclusioni nel nuovo rito si fa rinvio, per tutti, ad ATTARDI, Le preclusioni nel giudizio di primo grado, in Foro it., 1990, V, c. 385 ss.; OBERTO, Il giudizio di primo grado dopo la riforma del processo civile, in Giur. it., 1991, IV,
c. 313 ss.
(5) PROTO PISANI, La crisi del processo civile: prospettive di ripresa per effetto
della riforma, testo provvisorio dattiloscritto della relazione tenuta all’incontro di studi per magistrati organizzato dal C.S.M. sul tema: “La riforma del processo civile” e
tenutosi a Roma dal 2 al 5 maggio 1991, p. 6 s.; ID., La nuova disciplina del processo civile, cit., p. 112.
(6) Per i riferimenti dottrinali sulla materia della nullità dell’atto di citazione in
generale e sulla distinzione tra vocatio in ius e editio actionis si fa rinvio a LASAGNO,
op. cit., p. 84 s. Si noti poi che alcuni autori attribuiscono alla citazione una terza
funzione, rappresentata dal fatto di costituire un atto (o “sottoatto”) preparatorio
dell’udienza; ciò in relazione agli elementi di cui all’art. 163, n. 4, c.p.c. “nella misura in cui questi non siano indispensabili per l’individuazione dello stesso diritto fatto
valere in giudizio e del provvedimento giurisdizionale richiesto” (PROTO PISANI, La
nuova disciplina del processo civile, cit., p. 53 s.).
262
(violazione del disposto dei numeri 1, 2 e 7 dell’art. 163 c.p.c.), mentre i rimanenti tre commi attengono al secondo (violazione del disposto dei numeri 3 e 4 dell’art. 164 c.p.c.).
Il diverso trattamento giuridico può essere schematicamente rappresentato come segue.
Le nullità attinenti alla vocatio in ius sono disciplinate in maniera simile a quanto previsto dall’art. 291 c.p.c. in materia di nullità della notificazione dell’atto di citazione, con conseguente ordine
di rinnovazione di quest’ultimo, ovvero sanatoria per effetto della costituzione del convenuto tranne che, nei casi di violazione del termine a comparire o di mancanza dell’“avvertimento” di cui al n. 7
dell’art. 163 c.p.c., il convenuto chieda una nuova udienza nel rispetto dei termini; le due forme di sanatoria (rinnovazione dell’atto
introduttivo o costituzione del convenuto) hanno effetto retroattivo.
Le nullità attinenti alla editio actionis non sono invece sanate dalla costituzione del convenuto (7), ma impongono al giudice in ogni caso l’emanazione di un ordine diretto alla rinnovazione integrale dell’atto introduttivo (se il convenuto non si è costituito), oppure alla mera
integrazione della domanda (ove il convenuto si sia costituito). La sanatoria conseguente a tale attività (rinnovazione o integrazione) non
ha però effetto retroattivo: l’attore è dunque sanzionato più gravemente rispetto alle ipotesi di cui ai primi tre commi dell’art. 164 c.p.c.
3. La nullità dell’atto di citazione inteso come vocatio in ius.
a) La natura eccezionale delle forme di sanatoria. La rinnovazione dell’atto di citazione
Ciò premesso, varrà la pena soffermarsi su alcuni degli aspetti
maggiormente problematici evidenziati ad oggi dalla dottrina che si
è occupata delle disposizioni in esame, distinguendo le questioni attinenti alla vocatio in ius da quelle relative all’editio actionis.
(7) In dottrina si osserva infatti che riconoscere un effetto sanante alla costituzione del convenuto equivarrebbe, in questa ipotesi, ad attribuirgli il potere di proporre la domanda (cfr. per tutti, LASAGNO, op. cit., p. 108).
263
Cominciando dalle prime, andrà subito osservato che l’efficacia
sanante conferita dal terzo comma dell’art. 164 c.p.c. alla costituzione del convenuto o alla rinnovazione dell’atto di citazione va vista come fenomeno di natura eccezionale in quanto in contrasto con
il principio generale secondo cui “quod nullum est, nullum producit
effectum”, confermato in materia processuale dal primo comma
dell’art. 159 del codice di rito che, estendendo gli effetti della nullità
agli atti dipendenti da quelli originariamente viziati, ribadisce la tendenziale irrilevanza di questi ultimi.
Ora, proprio dalla considerazione del carattere eccezionale delle sanatorie sopra individuate possono essere fatte discendere alcune importanti conseguenze.
In primo luogo, in assenza di una specifica fattispecie sanante
sul punto, non sembra accoglibile la tesi che vorrebbe fare comunque salvi gli effetti processuali della domanda (si pensi in particolare alla litispendenza (8)), indipendentemente dal verificarsi della sanatoria (9). Ammettendo infatti che il giudice adito per secondo possa dichiarare la litispendenza sulla base di un precedente giudizio
instaurato di fronte ad altro giudice con citazione nulla, si immagini che cosa accadrebbe se, successivamente, la rinnovazione dell’atto introduttivo disposta nel primo procedimento non dovesse venire
effettuata. Le inevitabili conseguenze sarebbero, da un lato, l’estinzione del primo procedimento (cfr. art. 164 cpv, u.p., c.p.c.) e, dall’altro, la perdita delle attività processuali pur validamente poste in essere nel secondo (10).
La natura eccezionale delle fattispecie sananti sopra evidenziate
deve poi indurre a rispondere negativamente alla domanda se l’atto
introduttivo nullo e non sanato possa ugualmente produrre gli effetti
(8) Cfr. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile , cit., p. 55, che
a tale ipotesi aggiunge, a titolo esemplificativo, le ipotesi della perpetuatio iurisdictionis (art. 5 c.p.c.) e della perpetuatio legitimationis (art. 111 c.p.c.).
(9) PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit. p. 74 s. n. 42,
propone un’interpretazione correttiva della lettera dell’art. 164, secondo e terzo comma, c.p.c., nel senso che gli effetti processuali della domanda siano prodotti dalla notifica di un atto di citazione valido sul piano della editio actionis, a nulla rilevando,
sotto questo profilo, la presenza di eventuali vizi della vocatio in ius.
(10) Cfr. LASAGNO, op. cit., p. 93.
264
sostanziali che derivano direttamente dalla proposizione della domanda giudiziale, a prescindere dal fatto che essa dia o meno luogo ad una sentenza (11).
Tra questi effetti andrà citata l’interruzione della prescrizione ex
art. 2943 c.c., che potrà ritenersi operante solo di fronte ad un atto
valido, anche sotto il profilo della editio actionis (12), a meno che la
citazione non possieda comunque i requisiti di cui all’art. 1219 c.c.
La conclusione non sembra derivare, come invece vorrebbe una
parte della dottrina, dalla regola della conversione dell’atto nullo (13).
Basti pensare, al riguardo, agli effetti tipici della costituzione in mora (dagli interessi al “maggior danno” ex art. 1424 c.c.): ebbene, essi - ancorché non ricollegati dalla legge all’instaurazione di un giudizio - si producono pacificamente dalla notifica dell’atto introduttivo, qualora questa non sia stata preceduta da una richiesta scritta
stragiudiziale; e ciò, ovviamente, anche (ed anzi è questa l’ipotesi
normale) se la citazione è valida, senza che pertanto si debba attendere la conversione di alcunché. Proprio questa considerazione deve
indurre a individuare nella citazione un atto avente sin dall’inizio
una duplice valenza: processuale e sostanziale ad un tempo, con la
conseguenza che la nullità del primo aspetto (sanata o non sanata)
non dispiega di per sé effetti sul secondo.
Sempre in considerazione del carattere eccezionale delle sanatorie previste dall’art. 164 c.p.c. andrà osservato che, se la rinnovazione è effettuata con atto a sua volta nullo, al giudice non resterà
che disporre una seconda rinnovazione, e così via, senza che, per evitare il paventato regressus ad infinitum (14), possa prospettarsi la tesi di un invito alla precisazione delle conclusioni, con successiva declaratoria con sentenza della nullità: il rilievo della nullità obbliga
infatti comunque il giudice a disporre d’ufficio la rinnovazione (15),
(11) Contra LASAGNO, op. cit., p. 94.
(12) CARPI, COLESANTI e TARUFFO, op. cit., p. 45; MANDRIOLI, op. cit.,
p. 42.
(13) In questo senso v. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile,
cit., p. 76.
(14) LASAGNO, op. cit., p. 95.
(15) Sull’impossibilità che il giudice si limiti a dichiarare la nullità dell’atto di
citazione cfr. TAVORMINA, op. cit., p. 43.
265
con conseguente impossibilità di emanare un provvedimento di carattere conclusivo (16).
Il mancato rispetto dell’ordine di rinnovazione determina l’estinzione a norma dell’art. 307, comma terzo, c.p.c. L’espresso richiamo
a questa disposizione consente di concludere che il medesimo effetto deve ritenersi conseguente alla rinnovazione tardivamente effettuata, in quanto non compiuta “entro il termine perentorio stabilito
(...) dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo” (17). Si noti che l’estinzione dovrà essere eccepita dal convenuto a norma del
quarto comma dell’art. 307 c.p.c. (18).
b) La costituzione tempestiva del convenuto
La costituzione del convenuto, come si è già accennato, ha di
per sé efficacia sanante: questi non potrà dunque, costituendosi ai
sensi degli artt. 166 o 171 c.p.c., pretendere di far valere un vizio
della editio actionis, salvo che lamenti la fissazione di un termine a
comparire inferiore rispetto a quello legale, o il mancato inserimento nella citazione dell’“avvertimento” ex art. 163, n. 7, c.p.c.; ma ciò
al solo fine di ottenere la fissazione di una nuova udienza nel rispetto dei termini.
La prima conseguenza ricavabile a contrariis dalla lettura dell’art.
164, terzo comma, c.p.c., è che le violazioni diverse da quelle ivi contemplate (e dunque l’omissione o l’assoluta incertezza circa i requisiti stabiliti nei numeri 1 e 2 dell’art. 163 c.p.c.) non attribuiscono
al convenuto il diritto di richiedere la fissazione di una nuova udienza. La conclusione, sebbene criticata da parte della dottrina (19), tro-
(16) Diverso, ovviamente, dalla dichiarazione di estinzione per omessa riassunzione (su cui v. subito di seguito nel testo).
(17) CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. cit., p. 45; contra PROTO PISANI, La
nuova disciplina del processo civile, cit., p. 77, secondo cui la rinnovazione opererebbe comunque sanando l’ordinaria invalidità della citazione, escludendo quindi l’estinzione (ma la sanatoria non avrebbe in questo caso effetto retroattivo).
(18) BALENA, op. cit., p. 57.
(19) CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. cit., p. 46 s., secondo cui ogni forma di
violazione della vocatio in ius determinerebbe il potere del convenuto di richiedere la
fissazione di una nuova udienza.
266
va in realtà una sua giustificazione nel fatto che soltanto i vizi consistenti nella fissazione di un termine a comparire inferiore rispetto
a quello legale e nel mancato inserimento nella citazione dell’“avvertimento” ex art. 163, n. 7, c.p.c. rendono certo o altamente probabile che il convenuto non abbia potuto concretamente godere dello spatium temporis che la legge gli garantisce per allestire le proprie difese (20). Non va però esclusa, almeno in linea di principio,
una rimessione in termini ai sensi dell’art. 294 c.p.c., che il convenuto, anche se costituitosi nel termine ex art. 166 c.p.c. o comunque
all’udienza, potrebbe invocare dimostrando che quel vizio (omissione o assoluta incertezza circa i requisiti stabiliti nei numeri 1 e 2
dell’art. 163 c.p.c.) gli ha impedito di usufruire del termine legale minimo per approntare la propria difesa (21).
c) La costituzione tardiva del convenuto
L’effetto sanante della costituzione del convenuto, previsto
dall’art. 164 terzo comma c.p.c. in termini generali, è destinato a prodursi anche qualora il giudice non abbia d’ufficio disposto la rinnovazione e la costituzione si verifichi dopo la prima udienza.
Sul punto la dottrina ha correttamente sottolineato la necessità
di un coordinamento delle disposizioni in esame con l’art. 294 c.p.c.,
nel senso che qualsiasi violazione della vocatio in ius non concederà
mai (22) al convenuto, costituitosi dopo la prima udienza, il potere
(20) Cfr. BALENA, op. cit., p. 53 s. Più perplesso appare invece PROTO PISANI,
La nuova disciplina del processo civile, cit., p. 80 s., il quale si dichiara disposto a concedere al convenuto la facoltà di richiedere comunque la rifissazione dell’udienza per
uno qualsiasi dei vizi ex art. 164, primo comma, c.p.c., “purché questa soluzione sia
limitata all’ipotesi di costituzione del convenuto tempestiva o comunque entro la prima
udienza” (il corsivo è dell’autore).
(21) Cfr. BALENA, op. cit., p. 53 s.; LASAGNO, op. cit., p. 101. Si noti che l’art.
294 c.p.c. viene qui invocato a favore di una parte che non era contumace, essendosi costituita alla (o entro la ) prima udienza (in questo senso v. BALENA, op. loc. ultt.
citt., n. 17).
(22) E dunque anche nei casi di inosservanza del termine a comparire o di mancanza dell’avvertimento previsto dal n. 7 dell’art. 163 c.p.c.: la seconda parte del terzo comma dell’art. 164 c.p.c. va dunque intesa come applicabile al solo caso di costituzione tempestiva del convenuto (v. la nota seguente).
267
di richiedere la fissazione di una nuova prima udienza di trattazione nel rispetto dei termini, se non di fronte a violazioni così gravi
da non permettere al convenuto stesso neppure una frettolosa costituzione, meramente diretta ad ottenere il rilievo della nullità (23). in
caso contrario, l’efficacia sanante ex tunc conseguente alla costituzione del convenuto (così come di quella derivante dalla rinnovazione dell’atto di citazione disposta dal giudice ex officio) appare idonea a determinare la maturazione delle preclusioni di cui agli artt.
166 e 167 c.p.c. in danno del convenuto stesso.
Si noti che la rimessione in termini del convenuto ai sensi dell’art.
294 c.p.c. non comporta di per sé la rinnovazione di tutta l’attività
istruttoria sino a quel momento esplicata. A questo risultato si arriverebbe invece se, con una parte della dottrina, si dovesse affermare, in conseguenza della tardiva costituzione del convenuto, l’applicazione dell’art. 162 primo comma c.p.c. (24). Questa conclusione
sembra peraltro porsi in contrasto con il carattere retroattivo della
sanatoria disposta dall’art. 164, terzo comma, c.p.c. per effetto del
quale non solo l’atto viziato dovrebbe aversi per ritualmente compiuto, ma anche la propagazione ex art. 159 c.p.c. della nullità agli
atti dipendenti dovrebbe considerarsi (retroattivamente) inibita.
Per precisione andrà però rilevato che la Cassazione (25), esprimendosi sull’art. 291 c.p.c., norma dal contenuto analogo (in parte
(23) PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit., p. 82 ss.; l’autore mette in luce come il principio dell’art. 294 c.p.c. si ponga quale espressione delle regole generali in tema di nullità degli atti contenute negli artt. 156, 159, 162 c.p.c.;
in particolare, posto che ai sensi dell’art. 156 c.p.c. un atto è nullo solo ove manchi
di requisiti di forma-contenuto inerenti all’atto di vocatio in ius è il mettere il convenuto in condizione di difendersi, di esercitare tempestivamente i poteri di difesa, diviene logicamente coerente consentire la rinnovazione della prima udienza di trattazione (con tutti i poteri processuali che la legge ricollega a tale momento) solo ove il
convenuto, a causa del difetto dei requisiti di forma- contenuto richiesti a pena di
nullità dall’art. 164, primo comma, c.p.c., non abbia avuto la possibilità di esercitare
tempestivamente i poteri processuali direttamente o indirettamente collegati a tale
udienza: solo cioé ove lo specifico motivo di nullità abbia comportato la mancata tempestiva conoscenza del processo e quindi l’impossibilità di esercitarvi tempestivamente
i relativi poteri processuali. Nello stesso senso cfr. BALENA, op. cit., p. 55 s., il quale rileva anche come, a maggior ragione, dovrà concludersi che il convenuto potrà lamentarsi della mancata inserzione nell’atto introduttivo del noto “avvertimento” solo
se si sarà costituito almeno alla prima udienza.
(24) Cfr. BALENA, op. cit., p. 54.
(25) Cfr. Cass., 7 luglio 1975, n. 2654.
268
qua) alla disposizione in esame, ha affermato che la sanatoria conseguente alla rinnovazione dell’atto introduttivo non intacca il principio fondamentale del contraddittorio e non può perciò estendersi
a quelle attività - come l’ammissione e l’espletamento dei mezzi istruttori - rispetto alle quali la parte, avendo ignorato la pendenza del
giudizio, non è stata in grado di avvalersi delle garanzie predisposte
dal rito e di svolgere nel processo le attività consentite a tutela del
diritto. Da qui la necessaria applicazione dell’art. 162 c.p.c., con conseguente rinnovazione degli atti istruttori ai quali la nullità concernente l’introduzione del giudizio si estende.
4. La nullità dell’atto di citazione inteso come editio actionis
È noto che l’interpretazione prevalente del disposto dell’art. 163,
n. 3 e 4 , c.p.c. si fonda sulle seguenti tre uguaglianze:
a) cosa oggetto della domanda (n. 3) = petitum mediato;
b) conclusioni (n. 4) = petitum immediato;
c) fatti e elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda (n. 4) = causa petendi (26).
Ora, la modifica del quarto comma dell’art. 164 c.p.c. viene a
chiarire che non soltanto l’omissione o l’assoluta incertezza del requisito sub a) costituiscono motivo di nullità della citazione, ma anche la mancata esposizione della causa petendi (quanto meno sotto
il profilo dell’esposizione dei fatti).
Tre sono quindi i quesiti che sorgono immediatamente dall’“aggiunta” operata dalla novella:
- in primo luogo si tratta di vedere quale effetto sortisca la (sola) assoluta incertezza su di una (pur non mancante) “esposizione
dei fatti” di cui al n. 4 cit.;
- secondariamente occorre accertare quale rilievo abbia l’omessa specificazione degli elementi di diritto;
(26) Cfr. per tutti LASAGNO, op. cit., p. 104 (nonché p. 112 s., sulla questione
della riconducibilità o meno dell’esposizione degli elementi di diritto al concetto di
causa petendi, su cui v. anche infra, nota 29).
269
- infine bisogna appurare se la comminatoria della nullità investa anche l’ipotesi del mancato inserimento delle conclusioni.
Sul primo interrogativo la dottrina non ha mancato di rilevare,
sulla scorta dell’esame dei lavori preparatori, come la differente formulazione (rispetto al requisito di cui al n. 3) non sia il frutto di una
svista (27), con conseguente necessità di una lettura in senso restrittivo della disposizione in esame.
Si è peraltro aggiunto che, se l’incertezza è tale da rendere assolutamente impossibile l’identificazione del diritto, ovvero il proficuo
svolgimento della prima udienza di trattazione, essa andrà equiparata
alla mancanza (28). In questo caso potrebbe forse suggerirsi l’applicazione dell’art. 156 cpv. c.p.c., attesa l’inidoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo suo proprio, che è quello di rendere noto al convenuto (perché possa difendersi) e al giudice (perché possa decidere) su
quali elementi di fatto e di diritto l’attore fondi le sue pretese.
Il secondo quesito può risolversi sulla base della constatazione
per cui il legislatore non sembra aver voluto (ma verrebbe quasi da
dire: osato) intaccare il noto principio iura novit curia (29).
L’ultimo dei tre interrogativi testé prospettati, nati dal raffronto con
la precedente versione dell’art. 164 c.p.c., riguarda la mancanza delle
conclusioni (o la loro formulazione in maniera assolutamente incerta).
Al riguardo, una parte della dottrina, rilevato che tale mancanza non precluderebbe comunque una pronunzia sul merito, quanto
meno sotto la forma di una mera sentenza di accertamento, ha concluso nel senso dell’irrilevanza dell’omissione (30). La tesi, sebbene
(27) LASAGNO, op. cit., p.107.
(28) LASAGNO, op. loc. ultt. citt.
(29) Parzialmente in questo senso v. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit., p. 98, secondo cui, però, l’omissione o l’assoluta incertezza su di un
elemento di diritto indispensabile per l’individuazione della situazione giuridica fatta
valere dovrebbe determinare la nullità dell’atto per violazione dell’art. 163, n. 3, c.p.c.
Ma il problema è quello di vedere se, di fronte al principio iura novit curia, possa
concretamente immaginarsi l’esistenza di “elementi di diritto indispensabili per l’individuazione del diritto fatto valere”, oppure se tali “elementi” non costituiscano piuttosto valutazioni giuridiche dei fatti allegati (o non allegati) dall’attore, con conseguente applicazione anche a quest’ipotesi della regola iura novit curia.
(30) PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit., p. 98 s.; contra
ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, cit., p. 62; TARZIA, Lineamenti del
nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, p. 65 s.
270
aderente alla lettera dell’art. 164 c.p.c. (e soprattutto, ad una sua lettura a contrariis), sembra però da rigettarsi: le conclusioni, invero,
appaiono costituire un requisito formale indispensabile per il raggiungimento di un ben preciso scopo proprio dell’atto introduttivo,
che è quello di incardinare un processo caratterizzato dal principio
fondamentale del divieto di statuizioni extra o ultra petita partium
(cfr. art. 112 c.p.c.). La presenza del requisito in esame appare dunque indispensable perché il giudice possa comprendere fin dove gli
è consentito spingersi con la propria decisione. La sua assenza sembra quindi rendere applicabile l’art. 156 cpv. c.p.c. (31).
Se è vero che tra gli scopi cui tende l’atto di citazione vi é, come detto, anche quello di consentire al convenuto di prendere posizione e al giudice di individuare i limiti della propria indagine, non
sembra opportuno accogliere quel suggerimento di una parte della
dottrina che vorrebbe limitare la nullità per violazione dell’art. 163,
n. 4, c.p.c. al solo campo dei diritti c.d. “eterodeterminati”, a quelli
cioé che necessariamente richiedono, per la loro affermazione e deduzione in giudizio, la specificazione dei relativi fatti costitutivi (si
pensi per esempio alle obbligazioni pecuniarie) (32).
In realtà, anche nel campo dei c.d. diritti “autodeterminati” (come ad esempio la proprietà, i diritti della personalità, gli status) (33)
l’enunciazione degli elementi costitutivi appare necessaria al fine di
(31) Si pensi al caso in cui l’attore, in relazione ad un contratto concluso con il
convenuto, prospetti al giudice vizi attinenti tanto al sinallagma genetico che a quello funzionale, facendo comprendere che la “cosa oggetto della domanda” é la restituzione di quanto per sua parte consegnato. Ora, l’assenza di conclusioni impedirà al
giudice di sapere se la ripetizione andrà disposta previa declaratoria di invalidità del
negozio, ovvero per effetto della sua risoluzione.
(32) CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. cit., p. 49 s.; TARZIA, Lineamenti del
nuovo processo di congnizione, cit., p. 66; contra PROTO PISANI, La nuova disciplina
del processo civile.
(33) La distinzione tra diritti “autodeterminati” ed “eterodeterminati” é dovuta
a CERINO CANOVA, La domanda giudiziale e il suo contenuto, nel Commentario del
codice di procedura civile, diretto da ALLORIO, II, Torino, 1980, p. 177 ss., 186 ss. La
prima categoria ricomprenderebbe situazioni giuridiche soggettive (in particolare la
proprietà, i diritti reali di godimento e gli status) per la cui affermazione in giudizio
non si richiederebbe la specificazione dei fatti costitutivi. I diritti “eterodeterminati”,
caratterizzati invece dal fatto di poter intercorrere più volte tra i medesimi soggetti
(si pensi alle obbligazioni pecuniarie), richiederebbe necessariamente la specificazione del fatto costitutivo per individuare la res in iudicium deducta.
271
consentire al convenuto di muovere precise contestazioni su circostanze di fatto (e non già generiche negazioni delle altrui pretese),
che daranno luogo ad un’eventuale istruttoria sui punti controversi.
Così se l’attore si allega titolare della servitù di passaggio sul fondo x egli dovrà, per esempio, specificare che lo è in forza di contratto, ovvero di usucapione, ecc., al fine di consentire al convenuto di
contestare (sempre per esempio) la validità del contratto, oppure la
sussistenza dei presupposti per l’usucapione, e così via. Se io mi asserisco figlio legittimo di Tizio dovrò anche necessariamente far menzione di chi io alleghi essere mia madre, del matrimonio di quest’ultima con Tizio, nonché della mia data di nascita, per il necessario raffronto con quella delle nozze dei miei pretesi genitori, ecc. (34).
Anche per le violazioni relative alla editio actionis la rinnovazione invalida e quella tardiva daranno luogo, rispettivamente, ad un
(nuovo) ordine di rinnovazione e all’estinzione del processo (35). Lo
stesso è a dirsi per quanto attiene all’integrazione (da disporsi nel
caso di costituzione del convenuto), ancorché l’art. 307, terzo comma, c.p.c. non contenga alcun esplicito richiamo a tale istituto (36).
L’art. 164, quinto comma, c.p.c. non pone limiti temporali per
l’esplicazione delle attività in esso contemplate: ne consegue che, ancora una volta, è assolutamente irrilevante il momento in cui il convenuto si costituisce, così come quello in cui il giudice rileva la nullità (37).
Un ultimo problema investe il sesto comma della norma in esame, che si limita a richiamare il quinto comma dell’art. 183 c.p.c.,
laddove logica vorrebbe che la prima udienza a seguito della rinno-
(34) Sotto questo profilo sembra dunque preferibile la tesi che prende le mosse
dal dato letterale dell’art. 164, quarto comma, c.p.c., per concluderne che l’omessa
specificazione dei fatti di cui all’art. 163, n. 4, c.p.c., deve ritenersi sempre sanzionata dalla nullità, anche nel caso dei diritti c.d. “autodeterminati” (cfr. PROTO PISANI,
La nuova disciplina del processo civile, cit. p. 94 ss., secondo il quale la previsione di
cui all’art. ult. cit. non risponde tanto ad un’esigenza di completezza dell’atto introduttivo sul piano dell’editio actionis, quanto alla diversa esigenza di salvaguardia della possibilità di un’effettiva trattazione della causa in prima udienza).
(35) LASAGNO, op. cit., p. 109.
(36) Sul punto v. LASAGNO, op. cit., p. 109, il quale osserva che l’integrazione
sta alla rinnovazione come la parte sta al tutto, il che rende pienamente lecito applicare alla prima la disciplina prevista per la seconda.
(37) BALENA, op. cit., p. 63.
272
vazione avesse le caratteristiche della prima udienza di trattazione
(38). Non può pertanto escludersi che il legislatore, con la disposizione in esame, abbia voluto più semplicemente precisare che la fissazione di una nuova udienza è necessaria non solo quando venga
ordinata la rinnovazione della citazione, ma anche quando venga disposta l’integrazione della domanda e che, nel contempo, per quel
che concerne il convenuto, tale nuova udienza equivale sotto ogni
profilo all’udienza di prima comparizione che l’attore indica nell’atto di citazione (39). D’altro canto, la necessità che tutto “ricominci
da capo” sembra espressa dall’esplicito richiamo dell’art. 164 ult. cpv.
all’art. 167 c.p.c., cioé alla norma sulle decadenze a carico del convenuto.
5. I nuovi termini per comparire e la costituzione dell’attore
I termini per comparire sono stati per così dire “compattati” dal
nuovo primo comma dell’art. 163 bis c.p.c., passando dalle cinque
ipotesi in precedenza delineate dalla norma a due sole (sessanta giorni, se il luogo della notificazione si trova in Italia, e centoventi, se
si trova all’estero).
Rimangono invece invariati tanto il secondo che il terzo comma, che consentono l’abbreviazione fino alla metà dei termini per
comparire su istanza, rispettivamente, dell’attore e del convenuto. Lo
stesso è a dirsi per il “dimezzamento” ex lege dei termini di comparizione disposto dall’art. 645 cpv. c.p.c. nelle cause di opposizione a
decreto ingiuntivo, ciò che, come si vedrà, può dar luogo ad un serio inconveniente pratico in merito all’allestimento delle difese da
parte del convenuto (40).
La costituzione dell’attore deve avvenire - ex art. 165 c.p.c., rimasto invariato - entro dieci giorni dalla notifica della citazione, ovvero entro cinque giorni nel caso di abbreviazione di termini ai sensi dell’art. 163 bis cpv. c.p.c. Peraltro, ai sensi dell’art. 171 cpv. c.p.c.
(38) Cfr. LASAGNO, op. cit., p. 111.
(39) BALENA, op. loc. ultt. citt.
(40) Cfr. infra, § 6 b.
273
la costituzione potrà essere ritardata sino alla prima udienza, qualora il convenuto si sia costituito nei termini a lui assegnati dall’art.
166 c.p.c. (41). Diversamente dovrà trovare applicazione il disposto
dell’art. 171, primo comma, c.p.c., con conseguente “quiescenza” del
processo, che andrà riassunto ai sensi dell’art. 307 c.p.c., pena l’estinzione.
II - LA POSIZIONE DEL CONVENUTO
6. La costituzione del convenuto
a) I termini per la costituzione del convenuto
Ai sensi del novellato art. 166 c.p.c. il convenuto deve costituirsi almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione fissata
nell’atto di citazione, o almeno dieci giorni prima nel caso di abbreviazione di termini a norma del secondo comma dell’art. 163 bis
c.p.c., depositando in cancelleria il proprio fascicolo contenente la
comparsa di cui all’art. 167 c.p.c. con la copia della citazione notificata, la procura e i documenti che offre in comunicazione.
Al riguardo si potrà osservare come la nuova versione dell’art.
166 c.p.c. (a differenza della precedente) non imponga al convenuto
il deposito delle copie della comparsa necessarie per le altre parti.
Alla svista sembra possibile rimediare raccogliendo il suggerimento
(42) dell’applicazione dell’art. 73 cpv. disp. att. c.p.c., a mente del
quale nel fascicolo di parte vanno inserite, a pena di irricevibilità,
anche le copie degli atti che a norma dell’art. 168 cpv. c.p.c. debbono essere inserite nel fascicolo d’ufficio (tra cui sicuramente rientra
anche la comparsa di risposta).
(41) Anche questa disposizione può porre alcuni problemi in merito all’allestimento delle difese del convenuto: cfr. infra, § 6c.
(42) CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. cit., p. 57.
274
Passando ora al termine per la costituzione contemplato dalla
norma, va in primo luogo osservato come il relativo dies a quo sia
stato chiaramente individuato non già nel giorno dell’udienza di comparizione tout court, bensì in quello fissato nell’atto di citazione. Ne
consegue che nessun rilievo avranno sia il rinvio d’ufficio ex artt. 168
bis, quarto comma e 82 disp. att. c.p.c. (quando nel giorno fissato
per la comparizione l’istruttore designato non tiene, per un qualsiasi motivo, udienza), che il differimento sino ad un massimo di quarantacinque giorni consentito dallo stesso art. 168 bis, quinto comma, c.p.c.(43).
I termini di cui sopra (venti o dieci giorni) non possono essere
intesi come liberi: invero, non essendo tale requisito specificato dal
legislatore (a differenza che nell’art. 163 bis c.p.c.), dovrà trovare applicazione la regola fissata in via generale dall’art. 155, primo comma, c.p.c., con conseguente computo del dies a quo ed esclusione del
dies ad quem. Peraltro la particolarità del termine in discorso è che
esso va calcolato “a ritroso”, esattamente come avviene nel rito del
lavoro per effetto dell’art. 416 c.p.c.
Gioverà ricordare che, proprio con riguardo a tale disposizione,
si è affermato dalla giurisprudenza di legittimità (44) che “qualora
la legge non preveda espressamente che si tratta di termine libero,
con esclusione cioé nel computo stesso sia del giorno iniziale che di
quello finale, opera il criterio generale di cui all’art. 155 c.p.c., secondo il quale non vanno conteggiati il giorno e l’ora iniziali, computandosi invece quelli finali. Pertanto, in difetto della previsione
suddetta, anche il termine di dieci giorni prima dell’udienza di di-
(43) Si noti al riguardo la differenza rispetto alla disposizione transitoria contenuta nel terzo comma dell’art. 90, l. 353/90 (così come modificato dall’art. 2, terzo
comma, l. 4 dicembre 1992, n. 447), secondo cui la parte che intenda evitare la cancellazione della causa proposta anteriormente all’entrata in vigore delle nuove disposizioni deve proporre istanza per la prosecuzione del giudizio “non oltre la prima
udienza successiva alla data del 2 gennaio 1994”. Sembra evidente che, in questa fattispecie, la data cui far riferimento nel caso di spostamento d’ufficio di tale udienza
non sia quella originariamente prevista nell’ultimo provvedimento emesso anteriormente all’entrata in vigore della riforma, bensì quella dell’udienza effettivamente tenuta dall’istruttore (sul punto v. OBERTO, Il giudizio di primo grado, cit., c. 324).
(44) Cfr. Cass., 26 febbraio 1985, n. 1655.
275
scussione, previsto dall’art. 416 c.p.c. per la tempestiva costituzione
del convenuto nelle controversie di lavoro, va computato escludendo
il dies a quo, costituito dal giorno dell’udienza, ed includendo, come
l’ultimo utile per il compimento dell’atto, il decimo giorno precedente
l’udienza stessa” (45).
Per tornare quindi ai termini previsti dall’art. 166 c.p.c., se l’attore avrà fissato, per esempio, udienza di prima comparizione per il
giorno 21 giugno, il convenuto si potrà costituire fino al 1 giugno
compreso (o fino all’11 giugno, nel caso di abbreviazione di termini).
b) I termini per l’allestimento delle difese da parte del convenuto
Stando a quanto sopra illustrato, va subito constatato che al convenuto restano garantiti, nell’ipotesi “normale”, solo quaranta giorni
(60 - 20) per l’allestimento delle proprie difese. Il termine è stato ritenuto eccessivamente breve, in considerazione delle gravi decadenze
cui va incontro il convenuto per effetto dell’art. 267 c.p.c. (46). Ma le
perplessità sono destinate ad aggravarsi ulteriormente, si si considera che il periodo di cui sopra si riduce a venti giorni (30 - 10) nel caso di abbreviazione del termine a comparire ex art. 163 bis c.p.c. (47).
(45) Nello stesso senso cfr. TAVORMINA, op. cit., p. 43; contra COSTANTINO,
Commento agli artt. da 10 a 17, nel Commentario alla l. 26 novembre 1990, n. 353, a
cura di G. TARZIA e F. CIPRIANI, cit., p. 76, secondo cui il termine in discorso dovrebbe intendersi come libero.
(46) TARZIA, I provvedimenti urgenti sul processo civile approvati dal Senato, in
Riv. dir. proc., 1990, p. 741 ss.; SCHLESINGER, Introduzione al commento alla l. 26
novembre 1990, n. 353, in Corriere giuridico, 1991, p. 9 s.; TAVORMINA, op. cit., p.
43; RICCI, Le linee generali della riforma nel processo di cognizione di primo grado, in
Il nuovo processo civile tra volontà di giustizia e necessità di efficienza, Atti convegno
- Torino, 26 ottobre 1990 a cura di Luciano PANZANI, s.l., 1991, p. 49 (il quale osserva che “il nuovo processo è un processo nel quale, mentre l’attore può predisporre la sua domanda fruendo di tutto il tempo di cui egli ritiene di avere bisogno, il
convenuto deve predisporre la propria difesa nel lasso di tempo assegnatogli dalla controparte: é infatti l’attore che, fissando la prima udienza, assegna indirettamente al
convenuto il tempo a disposizione”).
(47) Nel senso che il sistema delle preclusioni dovrebbe indurre il presidente a
limitare al massimo la concessione di abbreviazione dei termini fino alla metà su richiesta dell’attore v. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit., p.
67.
276
Esiste poi un ulteriore problema, che il riformatore sembra avere ignorato. Si è già visto che l’abbreviazione del termine a comparire può essere non solo l’effetto dell’applicazione della norma testé
citata. Essa viene infatti disposta ex lege anche (e per un numero non
certo trascurabile di processi) nelle cause di opposizione a decreto
ingiuntivo dall’art. 645 c.p.c., in relazione alle quali non è però prevista alcuna riduzione del termine per la costituzione del convenuto.
La conclusione paradossale è che - se non si ritiene di poter operare un’estensione in via analogica dell’art. 166 c.p.c. ad ogni forma
di abbreviazione di termini di comparizione (48) - al convenuto potrebbero restare anche solo 10 giorni (30 - 20) per l’allestimento delle proprie difese. Soluzione quest’ultima che non mancherebbe di sollevare dubbi di legittimità costituzionale sia sotto il profilo di un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle altre ipotesi di abbreviazione di termini, sia sotto quello di una non sufficiente garanzia di esplicazione del diritto di difesa (49).
c) L’esame del fascicolo dell’attore
La costituzione del convenuto non è stata felicemente coordinata con la costituzione dell’attore. È noto infatti che quest’ultimo, se
deve rispettare i termini fissati dall’art. 165 c.p.c., può però anche
avvalersi della facoltà di “ritardare” la propria costituzione sino alla
(48) Cass., 7 aprile 1987, n. 3355 ha stabilito (peraltro in relazione alla sola posizione dell’attore) che, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, i termini di costituzione normalmente coincidono con quelli ordinari; peraltro, qualora
l’attore si avvalga della facoltà, in base all’ultimo comma dell’art. 645 c.p.c., di dimezzare il termine di comparizione, assegnando al convenuto in opposizione un termine a comparire inferiore a quello ordinario, é ridotto alla metà il termine all’attore stesso assegnato per la costituzione dall’art. 165 c.p.c.
(49) Se è vero infatti che il convenuto opposto è pur sempre colui che (quale
“attore sostanziale”) ha dato, in fin dei conti, inizio alla procedura mediante la presentazione del ricorso monitorio, é però anche vero che l’attore opponente può introdurre con l’atto di opposizione domande anche non strettamente connesse con il
rapporto oggetto del decreto e magari del tutto “a sorpresa” per il convenuto in opposizione.
277
prima udienza, qualora il convenuto si sia costituito nel termine a
lui assegnato. In tal caso, stabilisce la nuova versione dell’art. 171
cpv. c.p.c., restano ferme per il convenuto le decadenze di cui all’art.
167 c.p.c.
Ora, sembra veramente paradossale far scattare tali gravi preclusioni (50) a carico di un convenuto che, non avendo ancora potuto prendere visione dei documenti prodotti dalla sua controparte,
viene costretto a difendersi “alla cieca” (51). È vero che il convenuto potrebbe aggirare l’ostacolo evitando di costituirsi, così impedendo all’attore di costituirsi a sua volta all’udienza e costringendo quest’ultimo ad una riassunzione che, se non seguita da una costituzione tempestiva, darebbe luogo all’estinzione del processo ex art. 307
c.p.c. Ma, a parte il sapore di escamotage proprio di tale soluzione,
rimane comunque insuperabile (per lo meno per vie ... legali) l’ostacolo derivante dalla mancata modifica dell’art. 76 disp. att. c.p.c., che
attribuisce al solo convenuto costituito il diritto di prendere visione
dei documenti prodotti nel fascicolo depositato dall’attore.
Se è vero infatti che i documenti prodotti dall’attore possono essere visionati dal convenuto solo dopo la sua costituzione, ne consegue che quest’ultimo, nel momento in cui acquista il diritto di esaminare il fascicolo avversario depositato in cancelleria, è già incorso nelle preclusioni comminate dall’art. 167 c.p.c. L’inconveniente
(52) non sembra eliminabile attraverso una costituzione “pro forma”
del convenuto a mezzo di una comparsa destinata ad essere successivamente integrata, nemmeno se tale secondo atto dovesse essere
depositato nel rispetto dei termini ex art. 166 c.p.c.
(50) Su cui v. infra § 7.
(51) Si pensi, tanto per fare un esempio, al caso in cui l’attore, per comprovare
l’intervenuta consegna della merce al convenuto, menzioni nel proprio atto di citazione alcune “bolle d’accompagnamento” sottoscritte da (non meglio specificati) dipendenti di quest’ultimo. È evidente in questa ipotesi l’interesse della difesa del convenuto a prendere tempestivamente visione di quei documenti, al fine di svolgere gli
opportuni accertamenti (sull’effettiva presenza in quei giorni dei dipendenti apparenti firmatari, sulla riconducibilità agli stessi delle sottoscrizioni, ecc.), anche per poter
(tempestivamente) dedurre mezzi istruttori volti a contrastare quelle risultanze documentali.
(52) Che, come appare ovvio, ha una portata di carattere generale, anche al di
là dei casi di tardiva costituzione dell’attore.
278
L’argomento è già stato affrontato dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla memoria di cui all’art. 416 c.p.c. in relazione alla quale si è affermato che tale ultima disposizione “non consente di dividere in più atti una difesa concepita unitariamente”, osservandosi altresì che se “la legge processuale del lavoro ha inteso
riaffermare i principi di preclusione, oralità e concentrazione, ponendo tra l’altro precise scadenze temporali alle parti, per le loro reciproche contestazioni, le sue norme vanno interpretate restrittivamente”, con la conseguenza che “la memoria difensiva, come appare dal senso letterale delle disposizioni, è una sola, quindi eslcude
una pluralità di scritti, sia pure depositati in termini” (53).
Sarebbe quindi stato opportuno attribuire al difensore del convenuto la facoltà di prendere visione del fascicolo dell’attore sulla base della sola delega, senza costringerlo ad una costituzione che lo
espone ipso facto alle decadenze di cui all’art. 167 c.p.c., anche in
relazione a quelle argomentazioni sollevabili solo una volta presa visione dei documenti ex adverso prodotti.
Non rimarrà pertanto che ipotizzare, in alternativa, un generoso ricorso allo strumento della rimessione in termini ex art. 184 bis
c.p.c., ovvero la proposizione della questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 (per ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla posizione dell’attore) e 24 Cost.
7. La comparsa di risposta
Le attività che il convenuto deve esplicare nella comparsa di risposta, da depositarsi nei termini di cui all’art. 166 c.p.c., sono specificate dall’art. 167 c.p.c.
Di esse, quelle che vanno compiute a pena di decadenza sono
indicate al capoverso; si tratta, più precisamente:
a) delle domande riconvenzionali;
b) delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.
(53) Cfr. Cass., 6 luglio 1982, n. 4014, in Giust. civ., 1982, I, p. 2568.
279
Non essendo invece l’inciso “a pena di decadenza” ripetuto nel
primo comma, ne consegue che tanto la produzione di documenti,
quando l’indicazione di mezzi di prova dovranno ritenersi consentite anche successivamente, e ciò in parallelo con la posizione dell’attore, per il quale non è prevista alcuna decadenza in relazione al n.
5 dell’art. 163 c.p.c. (“indicazione specifica dei mezzi di prova”).
La disposizione va però a sua volta coordinata con il nuovo art.
184, primo comma, c.p.c., ai sensi del quale l’istruttore, su istanza
di parte, può assegnare un termine perentorio per produrre documenti e indicare nuovi mezzi di prova: ma è evidente che qui ci troviamo già nel campo delle deduzioni istruttorie, argomento che esula dai limiti della presente indagine (54).
La costituzione tardiva del convenuto, ammessa dall’art. 171 cpv.
c.p.c. (quando l’attore si sia costituito ex art. 165 c.p.c.), lo espone
alle decadenze di cui all’art. 167 c.p.c., con conseguente impossibilità di proposizione:
a) delle domande riconvenzionali (il che naturalmente non impedirà al convenuto di far valere autonomamente le relative pretese) (55);
b) delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio;
c) della richiesta di chiamata di un terzo in causa (cfr. artt. 167,
terzo comma e 269, secondo comma, c.p.c.) (56).
L’attività che può ritenersi consentita al convenuto costituitosi
tardivamente ha ad oggetto innanzitutto la proposizione delle c.d.
“eccezioni in senso improprio”, dette anche “mere difese” (57), consistenti nella contestazione dei fatti costitutivi allegati dall’attore.
D’altro canto il convenuto potrà proporre le eccezioni (in senso
proprio) rilevabili d’ufficio (58), con le note conseguenze derivanti
dall’inesistenza, nel nostro sistema, di un principio generale che con-
(54) Sull’argomento si fa rinvio per tutti a CONSOLO, LUISO e SASSANI, op.
cit., p. 105 ss.; PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit., p. 154 ss.
(55) Devono ritenersi soggette alla preclusione in esame anche le domande di
accertamento incidentale ex art. 34 c.p.c. (cfr. ATTARDI, Le preclusioni nel giudizio di
primo grado, cit., c. 386).
(56) V. infra, § 10 a.
(57) COSTANTINO, op. cit., p. 74.
(58) Si noti che la distanza tra eccezioni rilevabili d’ufficio ed eccezioni rilevabili solo ope exceptionis è presa in considerazione anche dall’art. 416 cpv. c.p.c., relativamente al rito del lavoro, nonché dal riformato art. 345 c.p.c., in materia di appello.
280
senta di comprendere, tanto per le eccezioni processuali (59), che
per quelle di merito (60), quali siano rilevabili d’ufficio e quali no,
al di là dei casi in cui il problema sia stato chiaramente risolto dal
legislatore (61).
A questo punto occorre però precisare che sollevare eccezioni,
anche se rilevabili ex officio, può presupporre (ed anzi normalmente presuppone) l’introduzione di fatti nuovi rispetto a quelli esposti
nella comparsa di risposta e dunque implica nuove deduzioni di merito (62). Il problema diviene dunque quello di sapere se quest’attività possa ritenersi consentita una volta che siano maturate a carico di entrambe le parti le preclusioni comminate dall’art. 183, quarto e quinto comma, c.p.c. proprio in merito alla allegazione dei fatti materiali posti a supporto delle reciproche tesi difensive.
(59) Per un elenco di eccezioni processuali non rilevabili d’ufficio v. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit., p. 118 s.
(60) Secondo ORIANI, L’eccezione di merito nei provvedimenti urgenti per il processo civile, in Foro it., 1991, V, c. 8 ss., apparterrebbero alla categoria delle eccezioni di merito rilevabili ope exceptionis soltanto quelle per le quali la necessità di un’eccezione di parte è espressamente richiesta dalla legge, come nelle ipotesi dell’annullamento del contratto, della compensazione, della prescrizione, della decadenza. Tutti gli altri fatti modificativi, estintivi, ovvero impeditivi del diritto fatto valere dall’attore sarebbero rilevabili anche d’ufficio, come nel caso della nullità del contratto o
della sua risoluzione consensuale o di diritto, della presupposizione, della simulazione, della condizione o del termine, del pagamento, della novazione, della remissione,
della rinunzia al diritto, della compensatio lucri cun damno. Con particolare riguardo
alla nullità, si tenga presente che la regola della rilevabilità d’ufficio (peraltro sancita espressamente dalla legge: cfr. art. 1421 c.c.) va coordinata con il principio della
domanda: trovare il punto d’equilibrio tra le due regole non è sempre agevole, come
dimostra l’acceso dibattito sul punto (per tutti si fa rinvio a Cass., 11 marzo 1988, n.
2398 e Cass., 12 agosto 1987, n. 6899, in Foro it., 1989, I, c. 1936). Sull’argomento
delle eccezioni processuali e di merito cfr. anche RAMPAZZI, Commento all’art. 11,
l. 353/90, in Le riforme del processo civile, a cura di S. CHIARLONI, cit., p. 131 ss.
(61) Secondo PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit., p. 119,
il principio della normale rilevabilità d’ufficio delle eccezioni di merito troverebbe il
suo fondamento nell’art. 112 c.p.c. Ma la disposizione sembra limitarsi a ribadire (in
maniera, a dire il vero un po' ... lapalissiana) che il giudice non può rilevare d’ufficio
quelle eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti.
(62) Così, per esempio, eccepire l’intervenuta estinzione di un debito pecuniario
per pagamento significa introdurre allegazioni del tipo: “ho pagato a ..., con assegno
...”, concretanti vere e proprie deduzioni di merito (si noti che in questo caso sarà comunque necessario che l’assegno risulti ritualmente prodotto, o che il convenuto non
sia ancora incorso nella preclusione di cui al nuovo testo dell’art. 184 c.p.c.; sulla distinzione tra allegazione dei fatti estintivi, modificativi ed impeditivi, proposizione
dell’eccezione, e deduzione delle relative prove cfr. COSTANTINO, op. cit., p. 74).
281
Ora, la dottrina prevalente sembra rispondere positivamente al
quesito, ammettendo la tardiva introduzione di nuovi fatti a sostegno di eccezioni processuali e di merito rilevabili d’ufficio (ferme restando, ovviamente, le preclusioni in punto deduzioni probatorie) (63).
A conforto di tale impostazione si è anche addotta la modifica
subita dall’art. 183 c.p.c. nel testo approvato in via definitiva, rispetto a quello del progetto governativo. In particolare, l’abrogazione dell’inciso “ferma l’allegazione dei fatti storici”, di cui al quarto
comma del citato art. 183 del progetto governativo, denoterebbe l’intento di consentire alle parti una successiva deduzione di fatti storici che potrebbe forse essere posta a base, addirittura, di una mutatio libelli (64).
Peraltro la Relazione della Commissione Giustizia del Senato (n.
6.1.) chiarisce che i fatti storici “sono deducibili esclusivamente negli atti introduttivi” e a ciò si deve ancora aggiungere il dato testuale desumibile dal nuovo art. 183, terzo comma, c.p.c., a mente del quale il giudice deve richiedere alle parti i chiarimenti necessari “sulla base dei fatti allegati”, ciò che sembra dare a intendere che in quella sede non possano più essere, surrettiziamente,
introdotte deduzioni diverse da quelle contenute negli atti introduttivi (65).
(63) Cfr. per tutti PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit., p.
226 ss.; TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, p. 123 s.; TAVORMINA, op. cit., p. 45.
(64) CONSOLO, Un codice di procedura civile “seminuovo”, in Giur. it., 1990, IV,
c. 434.
(65) OBERTO, Il giudizio di primo grado, cit., c. 315. Alle stesse conclusioni sembra pervenire anche COSTANTINO, op. cit., p. 87, il quale mette in evidenza come il
rilievo d’ufficio presupponga comunque l’allegazione del fatto, per cui il giudice non
potrebbe mai trarre alcuna conseguenza giuridica da fatti non dedotti dalle parti, né
sarebbe ipotizzabile l’ingresso aliunde di nuovi fatti principali; d’altro canto, la soppressione, nel corso dei lavori preparatori, del riferimento ai fatti storici potrebbe anche significare che si sia ritenuto superfluo ribadire una limitazione comunque deducibile dal sistema.
282
II - L’INTERVENTO DI TERZI E LA CHIAMATA
DI UN TERZO IN CAUSA
8. Premessa
La riforma non ha toccato gli istituti del libro primo del codice
di rito deputati all’estensione (necessaria o facoltativa) del contraddittorio (artt. 102 ss. c.p.c.). Essa è invece intervenuta su quegli strumenti formali, contenuti nel libro secondo, tramite i quali le varie
ipotesi di litisconsorzio e di intervento concretamente si esplicano,
con il preciso scopo di armonizzare tali strumenti con i nuovi “ritmi” e le nuove “cadenze” del processo ordinario di cognizione, anche al fine di evitare ingiustificate disparità di trattamento rispetto
alla posizione e al diritto di difesa delle parti originarie.
Per usare le parole della Relazione della Commissione Giustizia
del Senato (n. 6.1.) si è perseguito un “adeguamento della tecnica
degli interventi e delle chiamate alla struttura della fase introduttiva del giudizio”, con i risultati - non sempre soddisfacenti - che si
tenterà di illustrare.
9. L’intervento di terzi
Volgendo innanzitutto l’attenzione all’istituto dell’intervento di
terzi, va subito notato come il nuovo primo comma dell’art. 268 c.p.c.
si limiti a contenere una mera modifica di tipo formale, venendo ad
indicare come termine ultimo per l’intervento stesso non più il momento della rimessione della causa al collegio, bensì quello della precisazione delle conclusioni. La norma in esame si coordina così con
la struttura normalmente monocratica dell’organo giudicante (66).
(66) CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. cit., p. 153; MANDRIOLI, op. cit., p. 97
ss., TAVORMINA, op. cit., 48; PERAGO, Commento all’art. 28, nel Commentario alla
l. 26 novembre 1990, n. 353, a cura di G. TARZIA e F. CIPRIANI, cit., p. 132 (cui si
fa rinvio anche per l’individuazione del momento in cui avviene la precisazione delle
conclusioni nel procedimento dinanzi al pretore, al giudice di pace, nonché nel rito
del lavoro).
283
Allo stesso tempo essa consente di “dribblare” il problema, dibattuto da anni, circa l’individuazione del momento di rimessione della
causa al collegio; termine coincidente, secondo taluni (e come parrebbe argomentabile sulla base dell’art. 189 c.p.c.), con quello in cui
l’istruttore invita le parti a precisare le proprie conclusioni e, secondo altri (arg. ex art. 190 c.p.c., nella versione anteriore alla l. 353/90),
con quello dell’effettiva precisazione delle stesse, nel corso dell’udienza all’uopo eventualmente fissata dall’istruttore (67).
Il nuovo capoverso dell’art. 268 c.p.c. continua ad essere articolato sulla distinzione tra l’intervento di cui all’art. 102 c.p.c. e quello previsto dall’art. 105 c.p.c., nel senso che il primo soltanto non incontra preclusioni di sorta, ma può essere liberamente effettuato sino al momento della precisazione delle conclusioni (68).
Per gli altri tipi di intervento (assai più ricorrenti nella pratica)
la limitazione (69) del potere del terzo a quei soli atti “che non sono più consentiti ad alcuna altra parte” acquista un significato nuovo alla luce del sistema delle preclusioni introdotto dalla l. 353/90,
sia con riferimento alle deduzioni istruttorie che a quelle di merito
(70).
Invero, poiché il convenuto deve, a pena di decadenza, proporre le proprie domande ed eccezioni nella comparsa di risposta ex art.
167 c.p.c., la preclusione che scatta decorso il termine previsto dall’art.
166 c.p.c. impedisce anche al terzo interveniente in via principale o
litisconsortile di svolgere un’attività che, per l’appunto, non è più
consentita ad alcuna parte, ossia di proporre proprio quella domanda nuova che costituisce il suo atto d’ingresso nel processo.
(67) Per i richiami dottrinali si fa rinvio a RAMPAZZI, Commento all’art. 28, l.
353/90, in Le riforme del processo civile, a cura di S. CHIARLONI, cit., p. 300, nota 4.
La giurisprudenza sembra orientata a far coincidere il momento della rimessione della causa al collegio con quello della effettiva precisazione delle conclusioni: cfr. Cass.,
13 gennaio 1979, n. 272; Cass., 8 aprile 1982, n. 2168; sul problema della sopravvivenza dell’udienza di “precisazione delle conclusioni” nel nuovo rito v. OBERTO, Il
giudizio di primo grado, cit., c. 320.
(68) Sui conseguenti problemi di tutela delle parti originarie nei confronti delle
nuove domande proposte dall’interveniente, cfr. infra, nel testo.
(69) In buona sostanza già esistente nella versione previgente della norma in esame.
(70) Cfr. RAMPAZZI, Commento all’art. 28, l. 353/90, cit., p. 299 s.
284
L’intervento principale autonomo e il litisconsortile (art. 105 primo comma c.p.c.) non saranno dunque più ammissibili sino alla precisazione delle conclusioni (71), ma dovranno ritenersi preclusi una
volta decorso il termine di costituzione del convenuto, con risultati
analoghi a quelli derivanti dall’applicazione, nel rito del lavoro,
dell’art. 419 c.p.c. (72).
Il testo della norma non consente di prospettare distinzioni tra
domande ed eccezioni proponibili solo dal terzo, così come tra domande ed eccezioni che già le parti originarie avrebbero potuto formulare. Ne consegue che, per esempio, decorsa la prima udienza di
trattazione, l’interveniente non potrà neppure eccepire l’incompetenza per materia, o quella per valore o per territorio funzionale ai sensi del novellato art. 38 c.p.c. (73).
In base a quanto sopra esposto appare evidente come, trascorsi
i termini di cui all’art. 166 c.p.c., al terzo non sarà possibile dispiegare se non un intervento meramente adesivo (art. 105, cpv. c.p.c.),
proprio perché questo non comporta la proposizione di alcuna domanda nuova, bensì la semplice richiesta di accoglimento o di rigetto di una o più delle domande già proposte dalle parti originarie (74).
La soluzione prospettata non ha mancato di sollevare notevoli
perplessità circa le insufficienti garanzie di piena esplicazione del diritto di azione e di difesa dei terzi (75), rilevandosi al riguardo che
essa finirebbe con l’abrogare surrettiziamente un istituto non secondario del processo civile (76).
(71) CARPI, COLESANTI e TARUFFO, op. cit., p. 99; TAVORMINA, op. cit., p.
48; PERAGO, Commento all’art. 28, l. 353/90, cit., p. 134.
(72) TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, cit., p. 97; nello stesso senso ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, cit., p. 107; MANDRIOLI, op. cit., p. 98. Si noti che nel processo del lavoro non è tardivamente consentito
neppure l’intervento adesivo (che invece sembra possibile esplicare, anche dopo il termine fissato per la costituzione del convenuto, nel rito riformato ordinario: v. subito
di seguito nel testo).
(73) In questo senso v. PERAGO, op. loc. ultt. citt.
(74) CARPI, COLESANTI e TARUFFO, op. cit., p. 100; TAVORMINA, op. cit., p. 48.
(75) PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo ordinario di cognizione di
primo grado e d’appello, in Foro it., 1991, V., c. 334.
(76) CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. cit., p. 153 ss.
285
Si è quindi proposta (77) un’articolata lettura del nuovo art. 268
c.p.c., tale da limitarne la portata preclusiva a quei soli atti riferibili alla “situazione sostanziale dedotta in giudizio dalle parti originarie” e non a quelle attività riferibili alla “situazione sostanziale dedotta in giudizio con la domanda di intervento”. Ora, a parte la improbabile conciliabilità della costruzione con la lettera della norma
in esame, resta pur sempre l’obiettiva difficoltà di distinguere tra di
loro le due predette “situazioni sostanziali”, specie se si tiene conto
del fatto che sono proprio la tendenziale unicità delle fattispecie dedotte (la proprietà del bene x, oggetto di rivendica nel processo tra
A e B in cui interviene C, ad infringendum iura utriusque litigatoris),
ovvero la loro stretta interrelazione (l’obbligazione che lega solidalmente B e C verso il creditore A), a giustificare, rispettivamente, l’intervento principale e quello litisconsortile.
D’altro canto, non appare nemmeno risolutivo il suggerimento
(peraltro valevole per il solo litisconsorzio facoltativo) concernente
l’applicazione dell’art. 103 cpv. c.p.c., con conseguente separazione
delle due (o più) cause (78): non si vede infatti per quale motivo lo
scioglimento del simultaneus processus potrebbe di per sé rimettere
in termini una parte già incorsa in una decadenza.
L’art. 268 c.p.c. non sembra poi neppure consentire una distinzione tra deduzioni istruttorie e deduzioni di merito (79), nel senso
che solo le prime cadrebbero sotto la regola in discorso e dunque
l’interveniente potrebbe proporre domande proprie (salvo poi vedersi costretto ad avvalersi del solo materiale probatorio raccolto sulla
base delle istanze delle parti originarie). Ciò significherebbe infatti
ridurre in maniera ingiustificata la portata dell’espressione “può compiere atti”, che, come tale, appare riferibile ad ogni forma di deduzione.
In definitiva, in assenza di una norma che operi una rimessione in termini a vantaggio dell’interveniente (ed anzi di fronte ad una
(77) CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. loc. ultt. citt.
(78) In questo senso v. CONSOLO LUISO e SASSANI, op. cit., p. 155.
(79) Come parrebbe invece suggerire RAMPAZZI, Commento all’art. 28, l. 353/90,
cit., p. 302.
286
disposizione che depone in senso opposto) non rimarrà che constatare come il partito più sicuro per il terzo possibile interveniente
principale o litisconsortile andato “fuori termine” sia quello di proporre una propria domanda autonoma.
Un ulteriore problema di cui l’art. 268 c.p.c. non sembra occuparsi riguarda la necessità di difesa delle parti originarie nei confronti delle domande (tempestivamente) proposte dall’interveniente
volontario. Al riguardo una parte della dottrina ha sollevato dubbi
circa la legittimità costituzionale della norma in esame (80). In realtà,
se si parte dal presupposto che il terzo si viene a trovare nelle stesse condizioni dei litiganti originari, deve anche concludersene che
questi ultimi potranno valersi delle facoltà concesse dagli artt. 183 e
184 c.p.c. anche al fine di difendersi dalle domande introdotte ex novo dal terzo (81).
Potrà invece suggerirsi il ricorso all’art. 184 bis c.p.c. al fine di
consentire alle parti originarie di contrastare le domande proposte
dal terzo intervenuto in corso di causa “per l’integrazione necessaria
del contraddittorio” ex art. 102 c.p.c.
10. La chiamata di un terzo in causa
a) La chiamata in causa da parte del convenuto
Il capoverso dell’art. 269 c.p.c. stabilisce innanzitutto che il convenuto che intende chiamare in causa un terzo deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al giudice istruttore lo spostamento della prima
udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto
dei termini dell’art. 163 bis c.p.c.
(80) ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, cit., p. 108, paventa la
censura di illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui essa non assicura pienamente il diritto alla difesa delle parti originarie nei confronti dell’interveniente
volontario, come è accaduto per l’art. 419 c.p.c. (cfr. Corte cost., 29 giugno 1983, n.
193).
(81) Sull’argomento cfr. anche PERAGO, op. loc. ultt. citt.; RAMPAZZI, op. ult.
cit., p. 304.
287
L’indicazione “a pena di decadenza” viene ad integrare la lacuna del terzo comma dell’art. 167 c.p.c., laddove si prevede per l’appunto (ma senza tale specificazione sulle conseguenze della relativa
omissione) che la dichiarazione dell’intenzione di chiamare un terzo
in causa vada effettuata nella comparsa di risposta (82); lo stesso vale anche per la richiesta di spostamento della prima udienza (83).
Con riferimento a quest’ultimo aspetto si ritiene da una parte
della dottrina non necessaria l’istanza di differimento della prima
udienza qualora sia ancora possibile citare direttamente il terzo alla prima udienza fissata dall’attore nel rispetto dei termini ex art.
163 bis c.p.c. (84).
Peraltro il dato normativo non sembra consentire una siffatta
conclusione, che appare del resto strettamente legata alla ben più
grave questione circa l’esistenza di un potere dell’istruttore di autorizzare la chiamata in causa, analogamente a quanto stabilito dal
previgente testo dell’art. 269 c.p.c.
Proprio con riguardo a questo aspetto non vi è dubbio che
l’espressione: “il giudice provvede” sembrerebbe far pensare all’eliminazione di ogni potere di delibazione in ordine alla sussistenza dei
presupposti per la chiamata in causa (85), anche se alcune considerazioni sembrano militare in senso opposto. Si pensi, innanzi tutto,
al fatto che lo spostamento della prima udienza di trattazione non è
previsto come automatico, ma si deve comunque attuare mediante
(82) CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. cit., p. 62; PERAGO, Commento all’art.
29, nel Commentario alla l. 26 novembre 1990, n. 353, a cura di G. TARZIA e F. CIPRIANI, cit., p. 137.
(83) Cfr. PERAGO, op. loc. ultt. citt., secondo cui la ratio della norma sarebbe
quella di assicurare il contemporaneo inizio della trattazione nei confronti di tutti i
soggetti che partecipano al processo, prevedendo un sistema di regole che permettano alla prima udienza di trattazione di essere la “prima”, ai sensi del novellato art.
183 c.p.c., sia per il terzo, sia per le parti originariamente costituite.
(84) CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. cit., p. 164; TAVORMINA, op. cit.,, p.
49; PERAGO, op. loc. ultt. citt.; RAMPAZZI, Commento all’art. 29, l. 353/90, in Le riforme del processo civile, a cura di S. CHIARLONI, cit., p. 309; contra ATTARDI, op.
cit., p. 110; MANDRIOLI, op. cit., p. 98.
(85) In questo senso v. CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. cit., p. 164; COSTANTINO, op. cit., p. 77; contra ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile,
cit., p. 110.
288
un provvedimento dell’istruttore. Non si può poi passare sotto silenzio l’irrazionalità della disparità di trattamento rispetto alla posizione dell’attore (quanto meno in taluni casi (86)) e dei terzi chiamati,
in relazione ai quali la necessità dell’autorizzazione del giudice è
espressamente indicata (artt. 269, terzo comma, e 271 c.p.c.).
Infine, se si ammette - come sembra pacifico - il potere dell’istruttore, qualora non condivida la scelta della difesa del convenuto, di
disporre la separazione delle cause ai sensi dell’art. 103 cpv. c.p.c.,
tanto vale riconoscere allo stesso giudice un potere di autorizzazione in via preventiva, se non altro per ragioni di economia processuale.
b) La chiamata in causa da parte dell’attore
Ai sensi del terzo comma dell’art. 269 c.p.c. l’attore può procedere alla chiamata di un terzo in causa soltanto se l’interesse a compiere tale atto sia sorto sulla base delle allegazioni difensive del convenuto e sempre previa autorizzazione del giudice (per esempio, il
convenuto indica quale responsabile del danno subito dall’attore un
altro soggetto, sulla base di fatti sino a quel momento non conosciuti
dall’attore, oppure rivolge verso quest’ultimo una domanda riconvenzionale per effetto della quale l’attore intende essere garantito da
un terzo).
L’“interesse” cui fa riferimento la norma in esame deve nascere
non già da semplici affermazioni difensive del convenuto, bensì da
allegazioni che quest’ultimo abbia dedotto a fondamento di sue eccezioni e il cui riscontro obiettivo potrebbe condurre al rigetto delle domande attoree (87).
La richiesta va effettuata a pena di decadenza nel corso della prima udienza. Su di essa deve esprimersi l’istruttore, concedendo o negando l’autorizzazione. Secondo quella parte della dottrina che nega
al giudice ogni forma di controllo sull’estensione del contraddittorio
(86) Cfr. al riguardo quanto illustrato infra .. 10 b.
(87) ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, cit., p. 109; nello stesso
senso cfr. MANDRIOLI, op. cit., p. 99, n. 1; TAVORMINA, op. cit., p. 49.
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a istanza del convenuto l’evidenziata disparità di trattamento si giustificherebbe in quanto la chiamata su istanza del convenuto esplicherebbe “una funzione di difesa in senso stretto consistendo quasi
sempre (...) nella proposizione contro il terzo di domande sospensivamente condizionate all’accoglimento della domanda originaria allo
scopo di assicurare al convenuto una difesa effettiva idonea a scaricare immediatamente sul terzo chiamato le conseguenze economiche
dannose della propria soccombenza nella causa originaria” (88).
In realtà, l’osservazione finisce con il “provare troppo”. Essa ben
potrebbe valere infatti, mutatis mutandis, per l’attore di fronte alle
domande riconvenzionali del convenuto, mentre il legislatore non
sembra tenere qui conto della posizione “sostanziale” delle parti. Ciò
conferma l’opportunità di un’estensione analogica della regola della
(necessaria) autorizzazione giudiziale anche al caso di chiamata su
istanza del convenuto, ovvero, in alternativa, la proposizione della
questione di legittimità costituzionale dell’art. 269 cpv. c.p.c. (nella
parte in cui, appunto, non prevede la necessità della predetta autorizzazione) per violazione dell’art. 3 Cost.
c) Costituzione del terzo chiamato
Ai sensi degli art. 269 quarto comma e 172 c.p.c. il terzo chiamato in causa deve costituirsi ex artt. 166 e 167 c.p.c. Si noti che di
quest’ultima disposizione viene richiamato (dall’art. 271 c.p.c.) il solo primo comma. Ne deriva una situazione di incertezza in materia
di applicazione al chiamato delle decadenze comminate dal capoverso dell’art. 167 c.p.c.
Non sembra però esservi dubbio sul fatto che in ogni caso il terzo, divenuto parte, dovrà sottostare alle preclusioni tanto istruttorie
che di merito di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c., come risulta anche
dal richiamo a tali disposizioni contenuto nell’ultimo comma dell’art.
(88) PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, cit., p. 143 s.; RAMPAZZI, Commento all’art. 29, l. 353/90, cit., p. 313 s.
290
269 c.p.c. Ed è chiaro che, se si ritiene che le preclusioni ultime citate in qualche modo logicamente presuppongano il sistema delle decadenze ex art. 167 cpv. c.p.c., sarà possibile ricavare un argomento
in favore dell’applicabilità al terzo anche del capoverso dell’art. 167
c.p.c. (89).
In dottrina non è peraltro mancato chi ha ritenuto di non poter
superare l’omesso richiamo del capoverso dell’art. 167 c.p.c.; conseguentemente si è ammessa la possibilità per il terzo di proporre domande riconvenzionali o eccezioni in senso stretto anche in una comparsa di risposta non tempestivamente depositata in cancelleria (90),
ma la conclusione sembra in assoluto contrasto con il sistema processuale complessivamente delineato dalla riforma, oltre che tale da
comportare una censura di illegittimità costituzionale per violazione
dell’art. 3 Cost. (91).
La disciplina della chiamata di un ulteriore terzo in causa (art.
271 c.p.c.) ricalca in parte quella prevista per la chiamata in causa
ad opera del convenuto ed in parte quella prevista per la chiamata
in causa per iniziativa dell’attore. Sotto il primo aspetto essa fa infatti obbligo al terzo di dichiarare la volontà di chiamare in causa
un altro soggetto nella comparsa di risposta; sotto il secondo essa
esige l’autorizzazione del giudice (92).
Con riguardo a quest’ultima si è affermato (93) che lo spazio per
una valutazione discrezionale appare assai esiguo, atteso che in questo campo (diversamente dalla chiamata su istanza dell’attore) non
vi sarebbe da accertare se l’interesse della parte sia o meno nato dalle difese dell’avversario. In realtà, rimane pur sempre, oltre alla valutazione della opportunità (94), quella della sussistenza dei presupposti allegati dalla parte che invoca l’autorizzazione.
(89) In questo senso cfr. infatti TAVORMINA, op. cit., p. 49.
(90) ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, cit., p. 112.
(91) RAMPAZZI, Commento all’art. 29, l. 353/90, cit., p. 319.
(92) CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. cit., p. 172.
(93) CONSOLO, LUISO e SASSANI, op. loc. ultt. citt.
(94) In questo senso sembra orientata RAMPAZZI, Commento all’art. 30, l. 353/90,
cit., p. 319.
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11. L’intervento iussu iudicis
L’art. 270 c.p.c. in materia di intervento iussu iudicis, formalmente non toccato dalla riforma, risulta indirettamente modificato
dal regime delle preclusioni che, vietando alle parti di presentare
nel corso del giudizio domande nuove, impedisce agli originari contendenti di proporre anche nei confronti del chiamato istanze diverse rispetto a quelle già formulate. Nemmeno il terzo, d’altro canto, potrà presentare domande sue, ma solo aderire a quelle già formulate da una delle parti, a meno di non voler ravvisare nell’ordine di intervento l’autorizzazione all’apertura di una nuova controversia (95).
Proprio quest’ultima via sembrerebbe indicata dal fatto che l’art.
270 c.p.c. continua a stabilire che la chiamata ai sensi dell’art. 107
c.p.c. può essere effettuata “in ogni momento”, anche se, a questo
punto, evidenti esigenze di garanzia del contraddittorio, sia nei confronti delle parti originarie (96) che del soggetto intervenuto (97),
imporrebbero l’applicazione dell’istituto della rimessione in termini
ex art. 184 bis c.p.c., ovvero la prospettazione di una questione di legittimità costituzionale.
Ma il coordinamento con il sistema introdotto dalla riforma
sembra suggerire piuttosto un’abrogazione implicita dell’inciso in
esame, nel senso che l’intervento potrà essere disposto soltanto nelle (per il vero assai rare) ipotesi in cui l’istruttore, presa visione
dell’atto di citazione prima che siano decorsi i termini di (tempestiva) costituzione del convenuto ai sensi dell’art. 166 c.p.c., si sia
(95) TAVORMINA, op. cit., p. 49.
(96) Osserva che le parti originarie rischiano di trovarsi di fronte alle deduzioni del terzo (con conseguente lesione del diritto di difesa) ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, cit., p. 113.
(97) Se infatti si concedesse al giudice di disporre l’intervento ex artt. 107-270
c.p.c., senza d’altro canto attribuire al terzo, divenuto parte, il diritto di formulare
proprie deduzioni (tanto di merito che istruttorie), quest’ultimo si troverebbe ad assistere, quale “conviato (forzoso) di pietra”, ad un processo destinato a concludersi
con una sentenza idonea a far stato anche nei suoi confronti!
292
accorto che l’attore ha omesso di convenire in giudizio qualche soggetto cui la causa è comune (98). È evidente che, in ogni caso, la
mancata emanazione dell’ordine di integrazione del contraddittorio
non impedirà agli interessati di far valere in autonoma sede le proprie eventuali pretese.
(98) PERAGO, Commento all’art. 29, l. 353/90, cit., p. 141 s., suggerisce una lettura dell’inciso in oggetto come limitata ad “ogni momento” precedente la determinazione del thema decidendum. L’intervento iussu iudicis potrebbe cioé essere legittimamente disposto fino a quando le parti non avessero esaurito il potere di modificare le rispettive domande ed eccezioni; aperta l’istruzione probatoria, il giudice non
potrebbe invece ordinare l’estensione soggettiva del rapporto processuale. In realtà il
momento preclusivo in ordine alla presentazione delle domande si verifica all’atto della scadenza dei termini previsti per la costituzione del convenuto: l’attività successivamente concessa dall’art. 183, quarto e quinto comma, c.p.c. ha infatti ad oggetto la
mera “modifica” di domande già presentate (sull’argomento si fa rinvio a OBERTO,
Il giudizio di primo grado, cit., c. 314 ss.).
293
LA COSTITUZIONE DEL CONVENUTO E DEI TERZI (*)
Relatore:
dott. Marco PIVETTI
assistente di studio presso
la Corte Costituzionale
1. La comparsa di risposta.
Il nuovo articolo 167 è in larga misura ispirato al modello descritto
dall’articolo 416 di cui riprende in gran parte il contenuto precettivo,
peraltro con alcune variazioni testuali e di sostanza delle quali occorre
comprendere il significato. Ma, per rendersi conto davvero di quanto
siano radicali le trasformazioni introdotte nella disciplina riguardante
la risposta del convenuto non sarebbe sufficiente il raffronto testuale
tra il vecchio ed il nuovo articolo 167, cosi come venti anni fa non
sarebbe stato sufficiente, allo stesso fine, il mero raffronto testuale tra
il vecchio articolo 167 e l’articolo 416. La svolta nella disciplina degli
atti introduttivi, infatti, non dipende solo dalle prescrizioni che li
riguardano direttamente, ma dipende soprattutto dal ruolo che a tali
atti è assegnato nel regime di preclusioni e decadenze. In altre parole:
non si comprende appieno che cosa significa la differenza tra vecchio
e nuovo 167 se non si ha a mente la differenza tra vecchi e nuovi articoli 183 e 184.
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 28 giugno al 2
luglio 1993.
294
2. L ‘obbligo di “prendere posizione”.
Rispetto all’articolo 416, leggermente diversa è la formula generale
con cui il nuovo articolo 167 descrive il contenuto che il convenuto ha
il dovere di dare alla comparsa di risposta. In essa egli “deve proporre
tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della sua domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende
avvalersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le conclusioni”.
Rispetto alla formula dell’articolo 416 notiamo che è saltata, innanzitutto, la precisazione secondo cui la presa di posizione che il convenuto deve esporre deve essere precisa e non deve essere limitata ad
una generica contestazione ed è anche saltata la precisazione che le
difese che il convenuto deve proporre sono sia quelle in fatto che quelle in diritto.
Quest’ultima variazione è del tutto irrilevante e corrisponde soltanto ad una migliore tecnicità della formulazione: posto il principio
secondo cui jura novit curia, l’omessa esposizione delle ragioni di
diritto non può avere, di regola, neppure nel processo del lavoro, alcuna rilevanza.
Ma anche la diversa formulazione dell’onere di prendere posizione
sui fatti esposti dall’attore a sostegno della sua domanda ritengo che
corrisponda soltanto ad una esigenza di maggiore asciuttezza linguistica, rispetto ad una formula, quella dell’articolo 416, che appariva ad
alcuni troppo sovrabbondante ed enfatica. Il contenuto precettivo,
credo che possa essere considerato lo stesso e identica è la funzione
che a questo precetto è collegata.
Per comprendere quale sia tale funzione occorre in primo luogo
richiamare la nuova disciplina dell’atto di citazione e ricordare che
viene ora considerata essenziale la specificazione non solo della cosa
oggetto della domanda, ma anche la specificazione delle ragioni di
fatto addotte a fondamento di essa. La funzione dell’onere imposto al
convenuto di prendere posizione è, cioè, quella – del tutto correlativa
ed omogenea all’onere imposto all’attore – di specificare le ragioni
della sua contestazione e di provocare, così, in congiunzione con la
nuova disciplina della citazione, ma anche in congiunzione con la
nuova disciplina dell’udienza di trattazione, l’immediata evidenziazione di tutti i fatti di causa e l’immediata circoscrizione di quelli controversi.
295
L’esperienza di molti anni di processo del lavoro – una felice esperienza – aveva dimostrato che l’ascrizione al convenuto dell’onere di
prendere posizione sui fatti esposti dall’attore era idonea a perseguire
efficacemente tale risultato ed aveva altresì dimostrato l’essenzialità di
questo risultato ai fini di una corretta impostazione del processo.
Il compito di individuare il significato precettivo di una espressione inedita, quale quella del prendere posizione, era apparso di una
qualche difficoltà, specie ad una parte della dottrina. Alcuni Autori
avevano accolto con scettica irrisione questa novità, e l’avevano definita una declamazione vuota di contenuto o a carattere meramente
pedagogico. Tali posizioni sono state sonoramente smentite dall’esperienza successiva delle prassi pretorili. Per i Pretori, infatti – ed occorre ricordare che le loro sentenze sono immediatamente esecutive e
che solo una piccolissima parte di esse arriva in Cassazione, sicché vi
è nei fatti una nomofilachia pretorile che non è ragionevole ignorare –
è stato naturale, di regola, assumere a fondamento della decisione un
fatto allegato dall’attore e che non fosse stato specificamente contestato dal convenuto. Questa pragmatica naturalezza, a prescindere
dalla maggiore o minore consapevolezza dei termini teorici della questione, è stata favorita dall’interrogatorio libero, posto in limine litis e
reso obbligatorio e quindi sede naturale di integrazioni, rettifiche,
precisazioni e chiarimenti. È questo istituto che ha consentito di recepire naturalmente, nelle prassi, il principio della non contestazione
perché è tale istituto che toglieva a tale principio i connotati della sanzione formale per l’inadempimento di un onere processuale e gli conferiva invece i caratteri di un criterio ragionevole di accertamento
della verità.
È utile ricordare che alcuni autori, commentando l’articolo 416,
avevano ricavato la definizione dell’onere così imposto al convenuto
proprio – con procedimento a contrario – dalla formula negativa: se
per prendere posizione non era sufficiente una contestazione generica,
prendere posizione significava contestazione specifica. Per questa
interpretazione era quindi necessario, ma era anche sufficiente, che la
contestazione fosse specificamente riferita al singolo fatto dedotto
dall’attore.
Proprio l’eliminazione dell’inciso “non limitata ad una generica
contestazione” consente ora di dare all’onere in esame un significato
più preciso ed anche più completo e più rigoroso, nonostante l’apparente riduzione del rigorismo sul piano della formulazione testuale.
296
Il significato al quale penso è sostanzialmente corrispondente in
larga misura a quello dell’articolo 138 del codice tedesco, secondo cui
“Le parti debbono chiarire le circostanze di fatto della causa in modo
completo e conforme alla verità. Ogni parte è tenuta ad esprimersi sui
fatti affermati dall’avversario. I fatti che non vengono espressamente
contestati sono da considerare come ammessi, se l’intenzione di contestarli non risulti aliunde. La dichiarazione di non essere a conoscenza
del fatto è ammissibile solo se relativa a fatti che non furono né atti
propri della parte, né oggetto della sua percezione”.
Mi sembra di poter dire che non sostanzialmente diverso è l’onere
che grava sul convenuto secondo il nuovo articolo 167.
Prendere posizione sui fatti esposti dall’attore significa appunto
non soltanto negarli o ammetterli, ma esprimersi su di essi e quindi
chiarire la propria versione delle circostanze di fatto della causa in
modo completo e conforme alla verità.
Il convenuto può prendere posizione sui fatti esposti dall’attore – e
cioè esprimersi compiutamente su di essi – in tre modi.
La prima ipotesi è che il convenuto ammetta esplicitamente o
implicitamente la verità dei fatti dedotti dall’attore; il che può avvenire, ad esempio, sia quando il convenuto contesta la domanda sostenendo la non idoneità giuridica dei fatti dedotti dall’attore a dar fondamento alla sua pretesa (mera difesa consistente nella contestazione
della qualificazione giuridica), sia quando il convenuto, proponendo
un’eccezione, deduce fatti ulteriori, impeditivi, modificativi o estintivi
del diritto che l’attore collega al fatto costitutivo da lui fatto valere.
La seconda ipotesi è che il convenuto neghi in modo esplicito o
implicito ma comunque specifico la verità dei fatti stessi, o di alcuni
di essi, o di alcuni degli elementi degli stessi o delle dedotte modalità.
In tutti questi casi, la negazione, per poter essere considerata conforme all’obbligo di prendere posizione, deve consistere nella affermazione positiva della non verità, dell’inesistenza del fatto dedotto ovvero di
alcuni specifici elementi o modalità di esso. Ma il convenuto può – e,
se del caso, deve – anche addurre elementi o modalità diverse e/o ulteriori rispetto a quelle affermate dall’attore e tali da dare al fatto una
valenza giuridica diversa; è da precisare, infatti, che la deduzione di
elementi o modalità del fatto diversi e ulteriori rispetto a quelli affermati dall’attore non ricorre solo quando si proponga un’eccezione. Ad
esempio, il convenuto per risarcimento del danno derivante da un
tamponamento può dedurre che il veicolo dell’attore si è inserito
297
repentinamente davanti al suo provenendo da una strada laterale con
obbligo di precedenza, oppure che il suo veicolo era fermo ed è stato
sospinto in avanti dal tamponamento di un altro veicolo. Il convenuto
al quale viene ascritto un certo comportamento di concorrenza sleale,
può addurre circostanze di fatto che rendono non scorretto quel
medesimo comportamento. Si tratta, in questi casi, di circostanze di
fatto nuove, diverse e ulteriori rispetto a quelle affermate dall’attore,
ma la deduzione di esse non concretizza un’eccezione.
La terza ipotesi è che il convenuto dichiari e giustifichi di essere in
condizione di non poter sapere se i fatti siano veri o no.
L’obbligo di prendere posizione impone al convenuto, quindi, di scegliere e di percorrere una di queste tre strade: non è più sufficiente che
egli neghi, sia pure specificamente la verità affermata dall’attore: è necessario che egli dia positivamente e chiaramente, con precisione e completezza, la sua versione della vicenda storica alla quale la pretesa si collega.
In altre parole, il convenuto – ma non solo lui – ha il dovere di dire
la verità: è questa la portata radicalmente innovativa che può essere
ascritta – e che io ritengo debba essere ascritta e che sia bene ascrivere
– al dovere di “prendere posizione”. E credo che se la giurisprudenza
avrà la capacità di imboccare questa strada molti degli esoterici problemi che la novella pone – come tutte le discipline processuali, del resto,
quando sono prese in considerazione in modo astratto e concettualistico e non in modo funzionale e pragmatico – potranno trovare una soluzione agevole, naturale ed adeguata alle esigenze reali del processo.
Sta qui una radicale differenza tra processo penale e processo civile
e quindi anche una radicale differenza tra il ruolo che il difensore
svolge nei due processi.
Mentre l’imputato ha il diritto di tacere ed anche quello di mentire
e certo né lui né il suo difensore hanno il dovere di collaborare attivamente all’accertamento della verità e alla attuazione della giustizia, le
parti del processo civile ed in particolare il convenuto, non hanno il
diritto di tacere e tanto meno quello di mentire, e neppure quello di
tenere un comportamento ambiguo o meramente passivo, ma hanno
anzi il dovere di comportarsi lealmente l’una con l’altra ed entrambe
con il giudice, e di collaborare all’accertamento della verità e ad una
sollecita definizione della lite.
È questo il significato, in sostanza, del dovere di comportarsi in
giudizio con lealtà e probità, stabilito dall’articolo 88 e del divieto di
agire o di resistere in giudizio con mala fede o colpa grave, stabilito
298
dall’articolo 96. L’articolo 167 per il convenuto e gli articoli 163, 164 e
183 per l’attore, come modificati, giungono finalmente a dare una
misura di effettività a queste regole fino ad oggi così disattese nel processo civile ordinario.
Gli effetti della violazione del dovere di prendere posizione – una
volta che si escluda che si tratta soltanto di una esortazione pedagogica, senza effetti giuridici – vanno distinti, a seconda che si tratti di
vera e propria non contestazione, oppure di contestazione generica.
3. La non contestazione.
La non contestazione del fatto ad opera della controparte costituita
esonera la parte che lo ha dedotto dall’onere di provarlo e consente/impone al giudice di considerarlo vero, salvo che la prova negativa risulti
aliunde. L’onere della prova, infatti, riguarda soltanto i fatti incerti e
soprattutto i fatti incerti perché controversi. L’esigenza della prova si
pone soltanto in conseguenza della contestazione e la sua portata è
limitata a quella della contestazione, salvo che non si tratti di materia
non disponibile.
Questa regola generale, è applicabile anche ora nel processo civile,
anche se è applicata in modo alquanto variabile, in particolare per
quanto riguarda due aspetti: il primo di essi riguarda le caratteristiche
che la non contestazione deve avere al fine di far presumere la verità
del fatto e quindi di esonerare colui che lo ha dedotto dall’onere di
provarlo; il secondo aspetto è quello che riguarda la rilevanza della
contestazione tardiva.
L’introduzione di un dovere di prendere posizione e il diverso
ambiente in cui tale dovere si colloca modificano entrambi i profili del
problema
Per quanto riguarda il primo profilo, la giurisprudenza ha a volte
affermato che per aversi fatto non contestato non è sufficiente l’omessa contestazione, ma è necessaria una sorta di tacita ammissione per
comportamento concludente e cioè l’adozione di una linea di difesa
incompatibile con la contestazione della verità di quel fatto.
Questa concezione restrittiva della nozione di “fatto non contestato” può ora essere superata.
L’esplicita imposizione al convenuto di un onere di dichiararsi sui
fatti affermati dall’attore consente di dare al problema una soluzione
299
più rigorosa, posto che ne risulta evidentemente esclusa, ormai,
l’ammissibilità di una linea di difesa passiva, esclusivamente affidata
al meccanismo dell’onere della prova.
In altre parole: la mancata contestazione – a fronte di un onere di
prendere posizione esplicitamente imposto dal dettato legislativo –
rappresenta appunto, di per se stessa, l’adozione di una linea di difesa
incompatibile con la negazione del fatto e quindi rende inutile provarlo, perché non controverso.
Questa regola rappresenta del resto la traduzione normativa di una
massima di comune esperienza ed un razionale criterio di accertamento della verità. Un fatto affermato da una parte e non negato dalla
parte che avrebbe l’interesse e la possibilità di negarlo e alla quale la
legge sottrae esplicitamente la facoltà di tacere, è un fatto che può
ritenersi per ciò solo accertato con un grado di attendibilità ben maggiore di quello collegabile ad altri elementi di prova.
Per quanto riguarda il secondo profilo, quello che riguarda la contestazione tardiva, vi è da ricordare che, secondo la giurisprudenza
dominante – sia quella civile che quella giuslavoristica – caratteristica
peculiare della non contestazione è la sua provvisorietà e quindi la sua
revocabilità. Quanto ai limiti temporali entro i quali il convenuto può
efficacemente contestare ciò che in origine non aveva contestato, la
giurisprudenza prevalente, a proposito del processo civile ordinario,
aveva ritenuto che la contestazione tardiva potesse intervenire fino
alla precisazione delle conclusioni e non oltre. Una soluzione coerente
con il carattere disordinato del modello processuale descritto dagli
articoli 183 e 184 e che non poneva molti problemi, posto che l’attore
aveva sempre la possibilità, in sede di precisazione delle conclusioni,
di formulare le richieste istruttorie necessarie a provare i fatti che fino
ad allora non erano stati contestati ed in ordine ai quali, quindi, poteva non aver neppur richiesto la prova. Dopo la precisazione delle conclusioni, la contestazione tardiva non era più ammissibile, proprio in
ragione del fatto che l’attore non poteva più proporre la prova.
Una criticabile giurisprudenza giuslavoristica della Cassazione –
peraltro spesso efficacemente disattesa dai giudici di merito – afferma
invece che nel processo del lavoro la contestazione tardiva è sempre
ammissibile, in ragione del fatto che l’articolo 416, pur stabilendo
l’onere di contestazione specifica nella comparsa di risposta non lo
prescrive a pena di decadenza. D’altro canto l’attore ha l’onere di proporre, a pena di preclusione, tutte le sue prove nel ricorso introdutti300
vo, sicché la non contestazione, essendo evento successivo alle deduzioni istruttorie del ricorrente, incide sull’ammissione delle prove ma
non sull’onere del ricorrente di proporre nel ricorso tutte le prove atte
a dimostrare tutti i fatti addotti come costitutivi del diritto fatto valere. Il risultato è che il giudice – a fronte di una contestazione formulata solo alla fine – deve, secondo questo indirizzo, riaprire l’istruttoria e
ammettere le prove dell’attore che prima non aveva ammesso perché
vertenti su fatti che risultavano non controversi. Le conseguenze negative di tale indirizzo sul principio di concentrazione processuale e di
unità e contestualità della prova sono assolutamente evidenti.
Ciò che mi preme sottolineare è che da tali soluzioni interpretative
– certo non improntate ad un eccessivo rigorismo si ricava un principio: che la non contestazione non può che divenire definitiva allorquando non sia più possibile, per l’altra parte, chiedere di provare i
fatti che prima legittimamente non aveva chiesto di provare perché
non contestati.
Quale che sia il fondamento di queste soluzioni interpretative
nell’ambito, rispettivamente, del vecchio processo civile e del processo
del lavoro, a me sembra evidente che esse, proprio in base ai loro presupposti, non possono più essere sostenute a proposito del nuovo processo civile.
Mi sembra decisiva, al riguardo, la considerazione del fatto che il
momento preclusivo per le deduzioni istruttorie non è collegato agli
atti introduttivi – e quindi, per l’attore, in un momento precedente alla
comparsa di risposta – ma è collocato dall’articolo 184 in un momento
successivo a quello in cui la non contestazione si verifica e precisamente in un momento successivo alla fase diretta alla fissazione del
tema controverso e quindi del thema probandum. Questo significa che
l’attore può anche non proporre alcuna prova prima dell’udienza di
trattazione, mentre, successivamente ha l’onere di proporre la prova
solo in ordine ai fatti contestati. Ne consegue che ammettere l’efficacia
della contestazione tardiva significherebbe ledere il contraddittorio e
la paritaria difesa, posto che l’attore, per effetto della preclusione di
cui all’articolo 184 primo e secondo comma, non sarebbe più ammesso a provare i fatti che fino ad allora aveva legittimamente ritenuto
pacifici.
Ne consegue che anche se l’onere di formulare le contestazioni
nella comparsa di costituzione non è imposto a pena di decadenza,
l’invariabilità del thema probandum viene a restringere di molto lo
301
spazio per i ripensamenti del convenuto: ritengo che il momento preclusivo sia rappresentato proprio dalla prima udienza di trattazione,
in sede di precisazione e modifica delle difese, ai sensi del quarto
comma dell’articolo 183 e quindi dopo che l’interrogatorio libero avrà
consentito al convenuto, opportunamente sollecitato e messo sull’avviso dal giudice, di chiarire consapevolmente la posizione che intende
manifestare sui fatti dedotti dall’altra parte. In sostanza, l’interrogatorio libero dovrebbe essere la sede in cui la non contestazione si trasforma in esplicita e leale ammissione oppure in un silenzio tale che
ad esso sia solo ragionevole applicare il criterio secondo cui “chi tace
acconsente”.
4. La contestazione generica.
Quanto ho detto fin qui vale per la vera e propria non contestazione, mentre solo in parte può essere applicato alla contestazione generica.
Per contestazione generica si deve intendere – a mio parere – non
solo quella negazione che è da considerare generica perché globale e
non riferita puntualmente agli specifici elementi di fatto dedotti
dall’attore (oltre un certo grado di genericità, peraltro, quale quella
espressa da alcune clausole di stile – del tipo “contesta tutto quanto ex
adverso dedotto” – la contestazione è da considerarsi tamquam non
esset), ma anche la negazione che non si accompagni alla propria versione della vicenda dedotta in causa.
Il valore della contestazione generica, così intesa, mi sembra da
ricercarsi più direttamente sul terreno della prova, piuttosto che sul
terreno dell’onere della prova, nel senso che esso andrà valutato come
un comportamento processuale suscettibile di fornire al giudice elementi di convincimento, ai sensi dell’articolo 116 c.p.c..
Anche qui si tratta di fare applicazione di un ragionevole criterio
presuntivo: se il convenuto, nonostante il comando della norma processuale, si difende in modo ambiguo o generico, significa che non ha
nulla da opporre ai fatti contro di lui dedotti e questo significa normalmente che tali fatti sono veri. Così come se alla versione dei fatti
esposta dall’attore il convenuto oppone una diversa versione che poi
risulta falsa, ciò costituisce un indizio circa la verità delle affermazioni dell’altra parte. Questo è un normalissimo criterio di interpretazio302
ne dei comportamenti umani nella normale vita di relazione; e il processo deve cercare di non discostarsi irragionevolmente dai caratteri
di un normale rapporto tra persone vere e reali né dai caratteri di un
razionale procedimento di accertamento della verità.
La mancanza di specificità della contestazione, nel senso che ho
detto, non esonera quindi l’attore dall’onere di provare i fatti costitutivi, ma lo attenua, potendo egli utilizzare, per dimostrare il suo assunto, anche gli elementi di convincimento desumibili da tale comportamento del convenuto. In quest’ ottica l’accertamento di un eventuale
momento preclusivo per la specificazione tardiva della contestazione
si presenta come un problema parzialmente diverso da quello relativo
alla contestazione tardiva. È possibile, probabilmente, adottare una
maggiore elasticità, ma fondamentale rimane il ruolo dell’interrogatorio libero e della richiesta di chiarimenti. In sostanza, è compito del
giudice assicurare che i termini fattuali della controversia siano non
soltanto fissati, ma anche compiutamente chiariti, affinché la prova
possa poi essere ammessa e possa svolgersi su temi chiari circoscritti e
su alternative ben delineate.
Soltanto se la genericità della contestazione permane anche dopo
l’interrogatorio libero – o meglio dopo un interrogatorio libero nel
quale il giudice abbia esercitato la sua funzione che è potere, ma è
soprattutto dovere – di sollecitare le specificazioni, le precisazioni, i
chiarimenti necessari – solo allora la genericità della contestazione
potrà assumere il valore di argomento di prova ai sensi dell’articolo
116.
A proposito dell’onere di contestazione che la novella impone al
convenuto, possiamo, in conclusione, fare alcuni rilievi che si collegano ad una generale chiave di lettura del sistema di preclusioni e decadenze attuato dalla novella e delle più rigorose regole processuali che
essa impone alle parti.
In funzione del sistema di preclusioni e decadenze, è stato previsto
che gli atti introduttivi di entrambe le parti debbano avere un adeguato grado di specificità e completezza: non quel grado massimo di completezza e di specificità che sarebbe necessario se le preclusioni fossero collegate esclusivamente agli atti introduttivi, ma certo con quel
grado di completezza e di specificità che è necessario per preparare
adeguatamente il segmento successivo della sequenza processuale,
quello al quale il sistema di preclusioni si collega, come momento
estintivo del potere di allegazione delle parti.
303
La disciplina è stata cosi resa più rigorosa; ma, al tempo stesso,
essa è stata articolata in modo tale da contemplare anche un sistema
di correzione, di modifica, di integrazione da attuare a seguito della
costituzione del contraddittorio, e tale, quindi, da sottrarre l’onere di
allegazione e di prova al principio di eventualità. Ed è anche previsto,
a questo fine, un ruolo attivo del giudice (in sede di interrogatorio
libero, di richiesta di chiarimenti, di segnalazione di questioni), senza
il quale preclusioni e decadenze avrebbero determinato pericolosi irrigidimenti, tali da allontanare il processo dal suo scopo, che è quello di
tutelare i diritti. Nel sistema delineato dalla riforma, il ruolo di oneri,
termini, preclusioni e decadenze varie non è quello di operare come
trabocchetti nei quali far inciampare l’altra parte – o, magari, entrambe le parti – ma è quello di operare come garanzie e cioè principalmente come regole da osservare e da attuare e non come falli da
fischiare.
A questo fine, ciò che vale è, innanzitutto, ovviamente, la capacità e
l’impegno dei difensori; ma la legge assegna al giudice un ruolo peculiare e impegnativo: che, appunto, non è principalmente ed essenzialmente quello di sanzionare le violazioni, ma di evitare che esse si verifichino.
5. Le eccezioni.
Quanto ho detto fin qui a proposito dell’onere di contestazione
riguarda le mere difese in fatto, le quali consistono, come ho già detto,
nella negazione totale o parziale dei fatti costitutivi dedotti dall’attore
o nella affermazione di modalità, circostanze o elementi del medesimo
fatto, diversi da quelli che l’attore ha affermato, ma non tali da rappresentare fatti impeditivi, estintivi o modificativi degli effetti giuridici
fatti valere dall’attore.
Il discorso è in parte diverso, in parte radicalmente diverso – ed è
comunque un discorso molto più complicato – per le eccezioni e cioè
per la deduzione di fatti impeditivi, estintivi o modificativi dell’efficacia giuridica dei fatti addotti come costitutivi.
Qui si pone innanzitutto il problema di distinguere tra eccezioni in
senso stretto, riservate esclusivamente alla parte, ed eccezioni in senso
lato, rilevabili anche d’ufficio. Secondo l’opinione da tempo assolutamente dominante e sostenuta dalla dottrina più autorevole, la regola
304
posta dall’articolo 112 è che le eccezioni sono sempre rilevabili anche
d’ufficio, se la legge o la natura di esse non impongano di considerarle
come riservate alla parte.
Per esemplificare: sono considerate rilevabili anche d’ufficio – nel
silenzio della legge – eccezioni di merito molto ricorrenti, quale quelle
di adempimento in generale e di pagamento in particolare.
Questa interpretazione dell’articolo 112 si basa su elementi di
carattere letterale, sui lavori preparatori, su considerazioni teoriche e
su considerazioni di giustizia processuale. Debbo confessare che personalmente ho qualche perplessità su questa interpretazione estensiva
della nozione di eccezione in senso lato. Ma in questa sede non credo
che mi competa mettere in discussione tale impostazione.
Per le eccezioni in senso stretto – quelle riservate alla parte – il
nuovo articolo 167 stabilisce che esse debbano essere proposte nella
comparsa di risposta a pena di decadenza, e l’articolo 171, secondo
comma, precisa che – per evitare la decadenza – occorre che la comparsa di risposta sia depositata nei termini.
Per le eccezioni in senso lato – quelle rilevabili anche d’ufficio –
l’articolo 167 nuovo testo, così come l’articolo 416, prescrive che esse
siano proposte nella comparsa di costituzione – in quanto fanno parte
delle difese – ma non impone alcuna decadenza, dato che quest’ultima
è espressamente limitata alle eccezioni non rilevabili anche d’ufficio.
Dalla rilevabilità d’ufficio e dalla non soggezione alla decadenza di cui
all’articolo 167 – e dall’inserimento di questi dati in un processo connotato da preclusioni e decadenze – sorgono numerosi e complicati
problemi, di cui il legislatore non appare essere stato consapevole (in
realtà, questa mancanza di consapevolezza è riscontrabile anche nei
vari progetti di riforma che hanno preceduto e ispirato la novella).
6. Le eccezioni in senso lato.
Si tratta di vedere, in sintesi, se e fino a quando, e a quali condizioni e con quali effetti le eccezioni in senso lato possano essere proposte dalla parte successivamente alla comparsa di risposta e se,
quando, in che modo e con quali effetti esse possano essere rilevate
d’ufficio anche se non proposte tempestivamente o non proposte
affatto dalla parte. Si tratta di vedere anche se il giudice possa rilevare tali eccezioni solo dalle allegazioni delle parti o se invece gli sia
305
consentito di rilevarle anche dal materiale probatorio ( documenti e
prove testimoniali).
Su questi temi sono state fornite, negli ultimi tempi, risposte che a
me paiono connotate da un atteggiamento iper protettivo nei confronti del convenuto e tali da scardinare l’ordinata sequenza processuale
immaginata dal legislatore della novella.
In sintesi si è sostenuto che la parte può allegare in ogni tempo fatti
estintivi, modificativi o impeditivi costituenti eccezioni in senso lato –
salvo a non poter fornire per essi la prova in virtù della preclusione di
cui all’articolo 184; e che il giudice può anch’egli rilevare in ogni
tempo tali fatti e può farlo anche se essi non sono stati dichiarati dalle
parti, ma risultino dal materiale probatorio.
Sul primo punto – quello che riguarda il potere della parte – ci si
scontra immediatamente con una contraddizione, che non è così semplice considerare solo apparente. L’articolo 167, infatti, stabilisce che
solo le eccezioni in senso stretto, quelle non rilevabili d’ufficio, debbono essere proposte a pena di decadenza nella comparsa di risposta
tempestivamente depositata. Dal che apparirebbe lecito desumere che
se il convenuto non propone nella comparsa di risposta le eccezioni in
senso lato, egli non decade dal potere di proporle successivamente.
Ma dalla lettura dell’articolo 183 si evince che in udienza il convenuto può solo precisare e, previa autorizzazione, modificare le eccezioni già proposte – sia quelle in senso lato che quelle in senso stretto:
il che appare significare che egli non può proporne di nuove, né in
senso lato, né in senso stretto – e quindi non può far valere fatti estintivi, modificativi o impeditivi nuovi e diversi rispetto a quelli già esposti nella comparsa.
La differenza rispetto alle eccezioni in senso stretto sembrerebbe
quindi essere soltanto che le eccezioni in senso lato, non essendo soggette alla decadenza di cui all’articolo 167, possono essere proposte
anche con la comparsa di risposta depositata tardivamente, ma prima
della prima udienza, ai sensi dell’articolo 171.
D’altro canto resta il fatto che certamente in quell’udienza il giudice
può rilevare d’ufficio tali fatti estintivi, impeditivi o modificativi.
Orbene sembra del tutto illogico che un’eccezione possa essere rilevata
d’ufficio e non possa invece anche essere sollevata dalla parte che vi
ha interesse. Si inseriscono qui, tra gli altri, alcuni importanti quesiti:
il rilievo dell’eccezione è una facoltà discrezionale del giudice o è un
suo obbligo ? quali sono le conseguenze dell’inottemperanza di questo
306
eventuale obbligo? in presenza di quali condizioni esso può ritenersi
violato? E può il giudice rilevare d’ufficio l’eccezione anche contro la
volontà della parte interessata?
Dalla illogicità del fatto che in un determinato momento del processo un’eccezione sia rilevabile dal giudice ma non proponibile dalla
parte può inferirsi la conseguenza che la possibilità, prevista dall’articolo 183, di modificare (previa autorizzazione) o precisare le eccezioni
proposte ma non di proporne di nuove si riferisce solo alle eccezioni
in senso stretto e non anche a quelle in senso lato, le quali sarebbero
quindi non solo liberamente modificabili in udienza, ma anche liberamente proponibili per la prima volta in tale occasione.
Ma il medesimo articolo 183 prevede, al quarto comma, che l’attore
può proporre in udienza le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni proposte dal
convenuto nella comparsa di risposta, mentre non prende neppure in
considerazione le eccezioni nuove proposte dal convenuto in udienza,
fatta eccezione per quelle che siano proposte in controreplica ai sensi
del quinto comma.
Un vero labirinto, quindi. Ma le difficoltà maggiori non sono neppur queste, a mio parere. Sono quelle che si collegano all’eventuale
possibilità per la parte di sollevare eccezioni in senso lato anche dopo
l’udienza di trattazione e anche per la prima volta in appello. Riguardo
a questo aspetto, e ai rischi che esso presenta di scardinare il modello
di una ordinata sequenza processuale, non mi pare persuasiva la
risposta di chi dice che tali rischi sono grandemente ridotti dal fatto
che, comunque, l’eccezione tardivamente proposta è destinata ad essere respinta, in quanto la parte, per effetto della preclusione dei cui
all’articolo 184, non potrebbe più provarla. Mi sembra infatti incongruo – ed anche contrastante con il diritto di difesa – un sistema che
consente di proporre un’eccezione ma non consente di provare i fatti
su cui essa si fonda. E rimane comunque senza possibilità di soluzione l’ipotesi che l’eccezione tardivamente proposta sia anche assistita
da elementi di prova, ma questi non possano essere considerati decisivi, in quanto le parti non sono state chiamate a confrontarsi su di essi,
deducendo controprove o prove a conferma. E vi sono poi le difficoltà
che si collegano all’eventuale potere-dovere del giudice di rilevare tali
eccezioni in qualunque momento – anche, quindi, dopo l’udienza di
trattazione – e magari di rilevarle non solo dalle allegazioni delle parti,
bensì anche dal materiale probatorio acquisito (e cioè di rilevare il
307
fatto estintivo, modificativo o impeditivo che comunque risulti dagli
atti). Ed anche qui sono difficoltà che non si limitano al rischio di
scardinare la sequenza processuale.
Non sono in grado di dare una ricetta esauriente e precisa che quadri questa spirale di problemi. Penso che sarà compito della giurisprudenza fornire risposte che superino l’eccesso di concettualismo che su
questo versante presenta a volte la dottrina e che, pur in coerenza con
i principi teorici e di valore coinvolti nella questione, dia ad essa una
sistemazione pragmaticamente congrua e compatibile con la funzionalità del processo.
Per contribuire a questa che allo stato è ancora solo una ricerca di
percorso, mi limiterò ad esporre alcuni spunti.
Seguendo le orme segnate da un saggio di Fabbrini e discostandomi invece dalle tesi prevalenti in dottrina, ritengo che proporre
un’eccezione di merito richiede, congiuntamente, due cose: b) allegare
un fatto; b) chiedere il riconoscimento e l’applicazione della sua efficacia impeditiva, estintiva o modificativa. Questa seconda attività è
diversa, a mio parere, sia dalla qualificazione giuridica del fatto dedotto in eccezione (qualificazione giuridica che spetta naturalmente al
giudice), sia dalla richiesta di rigetto totale o parziale della domanda
che naturalmente si collega alla proposizione dell’eccezione allo stesso
modo in cui naturalmente si collega alla prospettazione di una mera
difesa.
A me sembra che, di regola, salvo che non si tratti di materia sottratta alla disponibilità delle parti, il potere del giudice di rilevare d’ufficio
l’eccezione in senso lato significa rilevare ed applicare d’ufficio l’effetto
estintivo, modificativo o impeditivo, anche se non dedotto dalla parte
che vi aveva interesse, ma non implica anche il potere di considerare
allegati fatti che non siano stati allegati ma che risultino dal materiale
probatorio o che vengano allegati dalla parte tardivamente.
Del resto, per quanto riguarda l’ipotesi che il fatto risulti dal materiale probatorio, occorrerebbe chiarire che cosa si intende con questa
formula: chiarire cioè quando è che un fatto estintivo, impeditivo o
modificativo risulta dagli atti di causa. Con quale grado di certezza
deve risultare e come si raggiunge tale certezza? Non mi sembrerebbe
sufficiente che un elemento di prova rappresenti questo fatto, posto
che, non essendovi stato contraddittorio sul punto, nulla esclude che
tale elemento di prova sia da interpretare diversamente o sia smentito
o in qualche modo neutralizzato da altri.
308
Né mi sembra che sia tranquilizzante una soluzione che implica la
possibilità per qualunque teste di ampliare il thema decidendum, come
invece sarebbe se bastasse una deposizione che afferma un pagamento
mai prima menzionato per consentire al giudice di rilevare la relativa
eccezione.
Ed infine rimane oscuro il che fare nel caso che il materiale probatorio evidenzi un fatto estintivo solo in via possibilistica, oppure in
maniera generica, imprecisa e non chiara.
In linea di massima sarei quindi dell’idea che il giudice possa rilevare d’ufficio l’eccezione in senso lato solo se il fatto su cui essa si
basa risulta dalle allegazioni delle parti.
Tali allegazioni debbono peraltro essere state fatte tempestivamente. E per tempestivamente intendo dire entro l’udienza di trattazione.
E se sono fatte entro questo termine, su di esse può basarsi anche la
parte per proporre un’ eccezione in senso lato nuova e cioè non proposta nella comparsa di risposta.
Questo implica la necessita di superare le strettoie che possono
derivare da una lettura dell’articolo 183 che si lasci troppo influenzare
dalla minuziosa e bizantina analiticità della regolazione che è stata
scritta, per recepire invece il modello che tale norma delinea: un
modello di botta e risposta concentrate, ma non limitate, in definitiva.
La struttura dell’udienza di prima trattazione, può infatti consentire senza soverchi inconvenienti una interpretazione tale da legittimare
la parte a dedurre e il giudice a rilevare fatti impeditivi ecc. anche non
allegati negli atti introduttivi, ma risultanti ad esempio dalle risposte
all’interrogatorio libero, salvo a segnalarli alle parti, a norma del terzo
comma dell’articolo 183, quali questioni rilevabili d’ufficio delle quali
è opportuna la trattazione.
Al più potrebbe ritenersi consentito al giudice di segnalare alle
parti che dal materiale probatorio già acquisito (che in questa fase
può essere solo documentale ) emerge la possibile esistenza di una
fatto impeditivo, estintivo o modificativo, lasciando poi alle parti la
scelta di farlo valere.
Quel che sono orientato comunque a ritenere è che, dopo questa
udienza nessun fatto nuovo può essere efficacemente introdotto nel
thema disputandum, né dalle parti né dal giudice, fatta eccezione per i
fatti sopravvenuti.
Mantengo invece radicali perplessità di fronte alla soluzione prospettata da Proto Pisani, che consente il rilievo del giudice dal mate309
riale probatorio durante tutto il corso del processo, salva l’applicazione dell’articolo 184 bis.
Né credo che l’interpretazione che qui suggerisco sia suscettibile di
dar luogo al rischio di ingiustizie processuali e cioè al rischio che
l’incapacità o la trascuratezza di un difensore possano portare ad una
sentenza ingiusta perché non tiene conto di un fatto che è avvenuto e
che risulta dagli atti, ma di cui non si può tener conto perché non allegato o allegato tardivamente.
A questo riguardo richiamo quello che ho detto prima circa il significato del dovere di prendere posizione, e cioè di esplicitare in modo
preciso, chiaro ed esauriente la propria versione della vicenda storica
dedotta in giudizio, obbligo imposto al convenuto dall’articolo 167 e
ad entrambe le parti dalla previsione dell’interrogatorio libero.
Obbligo rispetto al quale la disciplina dell’articolo 183 attribuisce al
giudice un ruolo di maieuta.
In sostanza la novella prevede un momento in cui errori e lacune
possono essere rettificati gli uni, integrate le altre; un momento in cui
tutto può e deve essere chiarito ed esplicitato, anche perché – grazie
alla tendenziale completezza degli atti introduttivi – il giudice è stato
messo in grado di sapere, già prima della prima udienza, quali sono i
fatti intorno ai quali interrogare le parti, quali siano i chiarimenti da
chiedere e le questioni da segnalare: quale sia, in sostanza, l’ambito
controverso della fattispecie sottoposta al suo esame e quali siano i
termini concreti e specifici di essa.
In sostanza, questa è la fase in cui il sistema di preclusioni e decadenze – agganciato in prima battuta agli atti introduttivi – si coniuga
con il principio del contraddittorio e con il potere-dovere di direzione
del giudice per far sì che la necessità di una ordinata e rigorosa scansione temporale delle attività di esercizio dei poteri processuali delle
parti non si traduca in un processo che tende solo ad una giustizia
regolare sì, ma formale ed astratta, ma non sostanziale: dove, per giustizia sostanziale intendo una giustizia basata sull’accertamento della
verità e capace di riconoscere e di attuare diritti a chi ce li ha e di non
creare diritti abusivi a chi non ce li ha.
Ho detto che nell’udienza di trattazione il giudice è chiamato a
svolgere un ruolo di intervento, di partecipazione, di assistenza e di
direzione, e ho detto che questo ruolo è assolutamente essenziale.
Aggiungo che essenziale è anche che egli abbia la capacità professionale di svolgere questo ruolo, che egli ne abbia la volontà, che egli ne
310
senta il dovere, che egli ne abbia la possibilità. Capacità, volontà e
dovere rimandano alla necessità che il giudice civile sappia reinterpretare radicalmente il proprio ruolo rispetto a quello che è oggi: oggi, il
giudice civile è in realtà un giudice dimezzato, perché non è null’altro
che un facitore di sentenze; domani egli dovrà anche saper fare il processo, saperlo dirigere ed indirizzare.
L’accenno alla necessità che il giudice sia messo in grado, che abbia
la possibilità materiale di svolgere questo ruolo nell’udienza di trattazione, rimanda a due cose. La prima già risulta da ciò che ho detto: il
giudice civile deve arrivare all’udienza preparato, e cioè conoscendo il
processo. La seconda rimanda agli ostacoli materiali e precisamente al
sovraccarico di processi da cui i giudici civili sono oggi gravati e alle
condizioni in cui lavorano e agli strumenti di cui dispongono. Ma di
questi aspetti, che pure sono essenziali, occorrerà parlare in un altro
momento.
7. Domande riconvenzionali ed eccezioni in senso stretto.
Le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e
di merito non rilevabili d’ufficio debbono essere proposte – a pena di
decadenza – nella comparsa di risposta tempestivamente depositata
(v. articolo 171, secondo comma): e cioè depositata almeno 20 giorni
prima dell’udienza fissata nell’atto di citazione, oppure 20 giorni
prima della nuova udienza fissata a seguito dell’ordine di rinnovazione o di integrazione della citazione disposto ai sensi del secondo,
terzo o quinto comma dell’articolo 164, in caso di rilevata nullità
della citazione.
Questa decadenza non è in alcun modo sanabile, salvo il caso di
costituzione tardiva giustificata e di conseguente rimessione in termini ai sensi dell’articolo 294, nel caso che il convenuto dimostri che la
nullità della citazione o della sua notificazione gli ha impedito di avere
conoscenza del processo o che la costituzione è stata impedita da
causa a lui non imputabile .
La diversa rimessione in termini prevista dal nuovo testo dell’articolo 184 bis per il caso in cui la parte dimostri di essere incorsa in
decadenze per causa ad essa non imputabile, non appare applicabile
per consentire la proposizione tardiva di domande riconvenzionali e
di eccezioni non rilevabili d’ufficio, posto che detto articolo 184 bis si
311
riferisce, nel suo tenore letterale, solo alle decadenze previste dagli
articoli 183 e 184 e non anche a quelle previste dall’articolo 167.
Né soccorre l’articolo 183, quarto comma, seconda parte, posto che
tale norma consente la precisazione nonché, previa autorizzazione, la
modificazione di domande ed eccezioni e non anche la proposizione
in udienza di domande ed eccezioni nuove, salvo che non si tratti di
domande e di eccezioni in replica.
Quanto alla domanda riconvenzionale deve ritenersi che anche essa
sia nulla se manca o è assolutamente incerta la determinazione della
cosa oggetto della domanda stessa oppure se manca l’esposizione dei
fatti che ne costituiscono la ragione. La sanatoria a seguito di integrazione disposta dal giudice, prevista per la citazione, non ha qui modo
di operare, posto che tale sanatoria non supera le decadenze maturate.
È esattamente la stessa regola che si applica all’attore e quindi non
vi è ragione di sospettare una violazione del principio di uguaglianza.
Per quanto riguarda le eccezioni, in senso lato o in senso stretto, il
problema se la loro mancanza di specificità determini nullità o infondatezza non ha alcun rilievo, posto che in ogni caso la conseguenza è
quella dell’accoglimento della domanda.
Infine, per quanto riguarda le domande riconvenzionali, credo che,
quanto meno per analogia, la relativa disciplina si applichi anche alle
domande di accertamento con efficacia di giudicato dei rapporti pregiudiziali di cui all’articolo 34, ed anche alla domanda – di incerta qualificazione giuridica – che il convenuto proponga al fine provocare la quantificazione della domanda che l’attore abbia proposto in forma generica.
8. Le prove.
L’articolo 167, così come l’articolo 163, stabiliscono che gli atti
introduttivi contengano anche l’indicazione dei mezzi di prova. Qui
non vi è alcuna decadenza – a differenza di quanto accade nel rito del
lavoro – e neppure alcuna preclusione ricavabile dall’articolo 183. Si
tratta quindi di un semplice invito alla collaborazione per una più
accelerata definizione del processo. I mezzi di prova potranno essere
liberamente proposti tutti in udienza ovvero nel termine perentorio
assegnato alle parti dal giudice ai sensi dell’articolo 194.
Mi sembrano da scartare alcune tesi che fanno leva sulla formulazione della norma – secondo cui il giudice dà termine per indicare nuovi
312
mezzi di prova – per affermare che allora, perché tali mezzi di prova
siano nuovi occorre che ve ne siano di vecchi e cioè che vi siano mezzi
già proposti negli atti introduttivi. E si è aggiunto che, diversamente, si
potrebbe ammettere che il convenuto possa addurre prove negative del
diritto dell’attore nel termine all’uopo assegnato dal giudice, quando
ormai all’attore sarebbe precluso modificare o precisare la domanda.
Mi sembrano tesi da scartare per i seguenti motivi. L’ultimo rilievo
non tiene conto che, all’udienza l’attore sa o quanto meno viene a
sapere se il fatto dedotto come costitutivo del suo diritto è contestato
o meno dal convenuto: sa quindi se deve provarlo o se deve modificare
la domanda o altro. Nessuna esigenza di correttezza richiede – anzi –
di consentire all’attore di regolarsi a seconda che il convenuto proponga o meno prove della sua contestazione. La giustificazione a modificare domande ed eccezioni non deriva mai dalla richiesta di prove
contrarie ma può venire dalle domande ed eccezioni altrui e dalle
altrui contestazioni.
Per quanto riguarda la coppia nuovo-vecchio, essa mi sembra del
tutto inutilizzabile a fini interpretativi: a tacer d’altro, non si comprenderebbe quali e quante prove dovrebbero essere dedotte negli atti
introduttivi per legittimare la proposizione di altre prove in udienza o
nel termine di cui all’articolo 184.
9. La chiamata del terzo.
Un’altra decadenza espressamente collegata alla comparsa di risposta è quella prevista dal nuovo art. 269.2., secondo cui il convenuto
che intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza,
farne dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al giudice lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo ai sensi dell’art. 163 bis.
Un problema interpretativo – peraltro del tutto marginale – è se in
caso di costituzione tardiva del convenuto prima della prima udienza
ai sensi dell’articolo 171 si verifichi la decadenza in esame. Il problema
si pone, perché l’articolo 171 rende ferme le sole decadenze di cui
all’articolo 167, mentre quella in esame è contemplata dall’articolo 269.
Dalla formulazione dell’art. 269 sembra risultare che il giudice non
ha il potere di valutare l’ammissibilità della chiamata in causa del
terzo da parte del convenuto.
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Non sarebbe una novità, dato che anche secondo il vecchio testo del
primo comma dell’art. 269, il convenuto può chiamare in causa direttamente il terzo citandolo per la prima udienza. Il fatto è che, nella
nuova versione dell’art. 269, la chiamata in causa del terzo influisce sui
tempi del processo, sicché la situazione appare analoga all’ipotesi, prevista dal vecchio secondo comma dell’articolo 269, di chiamata in
causa richiesta dal convenuto alla prima udienza, ipotesi per la quale il
secondo comma dell’art. 269 vecchio testo richiede appunto l’autorizzazione (discrezionale) da parte del giudice. Vi è poi che l’attore, per chiamare in causa il terzo ha invece bisogno dell’autorizzazione il che può
apparire una disparità di trattamento normativo non agevolmente giustificabile e quindi indurre ad interpretare anche il secondo comma del
nuovo art. 269 nel senso che il giudice possa valutare l’ammissibilità
della proposta chiamata del terzo e quindi, eventualmente, respingere
l’istanza di spostamento della prima udienza. Ciò restituirebbe coerenza alla disciplina anche rispetto al nuovo art. 271, seconda parte, che,
con bizantina minuzia, ha inteso disciplinare anche la chiamata del
quarto da parte del terzo. Pensando ad un’ipotesi tipica, quella dei c. d.
tamponamenti a catena, un trattamento diversificato della posizione
del convenuto rispetto a quella del terzo sarebbe davvero ingiustificabile: comunque sono cose che possono sempre essere agevolmente risolte, con quella che è la regola maestra per l’interpretazione e l’applicazione delle norme processuali e cioè il principio di ragionevolezza.
Quale sia il tipo di valutazione che il giudice può compiere è problema non modificato dalla novella. Ritengo che il giusto favore del
legislatore per il simultaneus processus debba indurre a legittimare
una valutazione in termini di mera ammissibilità e non anche di
opportunità.
Anche l’attore può chiedere in udienza di chiamare in causa il
terzo, quando l’interesse a farlo nasce dalle difese del convenuto: non
solo da quelle svolte nella comparsa di risposta, come dice la norma,
ma anche da quelle legittimamente proposte in udienza nonché, ritengo, dalle precisazioni, modifiche e repliche proposte ai sensi dell’articolo 183 ultimo comma: il che significa che anche il convenuto può
chiedere in udienza di chiamare in causa il terzo se l’interesse a farlo
deriva dalle nuove controdomande o eccezioni che l’attore abbia legittimamente proposto in udienza ai sensi dell’articolo 183.
In definitiva non bisogna farsi impressionare dalla bizantina analiticità della regolazione descritta in queste norme fino al punto da rite314
nerle esaustive, e da ritenere non permesso tutto ciò che in esse non è
previsto. Dalle disposizioni in esame l’interprete deve estrarre il meccanismo e quindi applicarlo ragionevolmente ogni qual volta vi sia
identità di ratio.
In tutti questi casi, ferme le decadenze e preclusioni già verificate,
il giudice fissa una nuova udienza per la citazione del terzo e solo a
tale udienza darà poi l’eventuale termine per precisazioni, modifiche e
repliche ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 183.
Sintetizzando al massimo possiamo dire che alla costituzione del
terzo chiamato in causa – sia esso stato chiamato per ordine del giudice ai sensi dell’articolo 107 per comunanza di causa, ovvero sia stato
chiamato su istanza di parte, si applicano tutte le regole che disciplinano la costituzione del convenuto. E contro ciò che egli deduce le
altre parti possono fare tutto ciò che l’attore può fare nei confronti
delle difese del convenuto. In tutti questi casi il terzo non subisce alcuna preclusione, purché si costituisca tempestivamente nei termini di
cui all’articolo 166. La stessa necessità di costituirsi tempestivamente
per evitare preclusioni e decadenze sussiste anche per il litisconsorte
necessario che interviene per ordine del giudice ai sensi dell’articolo
102, secondo comma.
Sia in questa ultima ipotesi, sia nei casi di intervento iussu judicis
ex articolo 107, la chiamata può avvenire in qualunque momento del
processo. È ovvio che se avviene dopo la prima udienza, le parti, in
virtù del meccanismo che si è già descritto e che costituisce principio
generale del nuovo processo civile, possono replicare alle sue difese
proponendo a loro volta, nell’udienza fissata per la sua citazione,
domande, eccezioni modifiche e precisazioni che siano collegate alle
deduzioni del terzo.
10. Intervento volontario.
Secondo il nuovo articolo 268, l’intervento volontario può avvenire
durante tutto il corso del processo fino alla precisazione delle conclusioni.
Questa apparente liberalità appare peraltro smentita dal secondo
comma, dove si legge che – salvo il caso del litisconsorte necessario
che compare spontaneamente – il terzo non può compiere atti che al
momento dell’intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte.
315
Questo significa che se egli si costituisce dopo il termine per la
costituzione del convenuto non può più proporre domande né eccezioni non rilevabili d’ufficio; se si costituisce dopo l’udienza di trattazione
non può più proporre eccezioni in senso lato; se si costituisce dopo il
termine di cui all’articolo 184, non può più dedurre mezzi istruttori.
La portata di queste limitazioni appare quella di precludere l’intervento principale e quello adesivo autonomo dopo il termine di costituzione del convenuto, in contrasto con il tenore del primo comma ed in
conformità, invece, con quanto dispone nel processo del lavoro l’articolo 419.
Sono state peraltro proposte letture diverse ed in articolare si è suggerito che la limitazione dei poteri del terzo stabilita dal secondo
comma non riguarda la sua domanda, ma solo le istanze istruttorie e
le eccezioni. A me pare una soluzione pasticciata, perché è incongruo
consentire la proposizione di una domanda e non consentire quanto è
necessario fare per sostenerla.
La norma è certamente un rebus ed è uno di quelli rispetto ai quali
mi sembra preferibile una soluzione restrittiva, piuttosto che quella
che apra la via a repentini scardinamenti della sequenza processuale.
316
CAPITOLO IV
IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO:
LA PRIMA UDIENZA E LE PRECLUSIONI
317
IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO: LA PRIMA UDIENZA E
LE PRECLUSIONI (*)
Relatore:
dott. Luciano PANZANI
presidente del Tribunale di Alba
1. Introduzione.
La riforma del processo mira deliberatamente ad introdurre nel
giudizio di cognizione un momento di razionalità (cfr. relazione al
Senato) diretto ad assicurare che le parti ed il giudice arrivino alla
prima udienza non solo adeguatamente informati dei fatti di causa,
ma in modo tale che all’udienza si individui attraverso il contraddittorio già instauratosi tra le parti e l’intervento del giudice il vero
oggetto del processo e che questo possa svilupparsi nel suo ulteriore percorso su quelli che sono i punti essenziali ai fini del decidere,
senza lungaggini, incidenti di percorso, deviazioni su temi non essenziali. Si dice nella Relazione Acone-Lipari al testo approvato dal
Senato, che a sua volta cita una precedente Risoluzione del Consiglio Superiore della Magistratura, che “.... Il processo stesso educa o
diseduca. Diseduca quando, per avere un oggetto mutevole, sempre
suscettibile di variazione e sorprese, solo in apparenza funzionali al
concetto di difesa, tanto le parti, quanto il giudice finiscono per essere travolti da un meccanismo di deresponsabilizzazione, nel quale
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 31 gennaio al
4 febbraio 1994.
319
si impoveriscono le nozioni stesse di difesa e di contraddittorio. Mentre educa quando, mirando a conseguire, attraverso un’articolata fase iniziale, un suo oggetto responsabilmente definito, si può parlare
di esso come di un progetto razionale, realmente costruito sul contraddittorio delle parti e realmente funzionale al corretto dispiegarsi dei poteri direttivi del giudice”.
Si può anche sorridere della pretesa del legislatore di “educare”
le parti, che come sempre mireranno soprattutto al conseguimento
dei propri interessi sostanziali e considereranno il processo come uno
strumento a tal fine (1); certo non è dubbio che la visione del processo come progetto “razionale” poggia su due cardini: il sistema rigido di preclusioni che obbliga le parti a mettere le carte in tavola
sin dall’inizio, rinunciando a schermaglie processuali ed a tattiche
dilatorie, e un’attività processuale articolata in poche udienze, destinate ad essere il fulcro del processo.
Corre l’obbligo di una prima precisazione. Il sistema elaborato dalla novella si fonda su alcune udienze di trattazione, non su un’unica
udienza come avviene invece nel rito del lavoro. Il legislatore ha seguito soltanto fino ad un certo punto il sistema previsto per il rito speciale. È indubbio che la riforma ha mutuato da quest’ultimo il sistema delle preclusioni (peraltro assai meno rigido) e la concentrazione
dell’attività processuale. Il legislatore non ha però ripetuto la scelta di
esaurire tendenzialmente in un’unica udienza l’audizione delle parti,
l’istruzione probatoria, la discussione orale e la decisione, con lettura
del dispositivo. L’art. 420 c.p.c. oltre a prevedere il divieto delle udienze di “mero rinvio”, stabilisce che il giudice provveda all’assunzione
dei mezzi di prova nella stessa udienza di prima comparizione delle
parti e, soltanto quando ciò non sia possibile, che egli fissi altra udienza non oltre dieci giorni dalla prima. Ed ancora la norma prevede che
l’assunzione delle prove sia esaurita nella stessa udienza o, in caso di
necessità, in udienza da tenersi nei giorni feriali immediatamente successivi. Alla chiusura dell’istruttoria segue immediatamente la discus-
(1) ATTARDI, Le preclusioni nel giudizio di primo grado, in Foro It., 1990, V, c.
392.
320
sione orale, che al massimo può essere differita del tempo strettamente
necessario per consentire alle parti il deposito di note difensive non
oltre il termine di dieci giorni previsto dall’art. 429.
Nel nuovo processo di cognizione si prevedono invece una serie
di tappe, rigorosamente scandite da termini e preclusioni, che dovrebbero consentire al processo di evolversi verso il suo scopo naturale, la decisione della controversia, in modo armonico, secondo quel
progetto razionale di cui ho detto.
Significativamente la Relazione Acone-Lipari, sempre citando la
Risoluzione del Consiglio Superiore della Magistratura, osserva che
“... ciò che conta veramente non è tanto l’accelerazione in assoluto,
quanto il fatto che il processo, magari a costo di una pausa iniziale, sia posto in condizioni di non partire con il piede sbagliato di
un’udienza di mero rinvio, che è intrinsecamente diseducativa”.
E d’altra parte occorre tener presente che stiamo trattando della riforma del processo ordinario di cognizione. Qui, a differenza di
quanto avviene nel rito del lavoro, non si è di fronte a parti che istituzionalmente si trovano in condizioni di disparità economica e di
potere quali sono il lavoratore ed il datore di lavoro (anche se poi
non mancano casi in cui la realtà processuale non vede il datore di
lavoro in posizione di reale supremazia). Non sussiste quindi la necessità di assicurare una decisione in tempi rapidissimi (rapidissimi
ovviamente secondo l’intenzione del legislatore del 1973, perché oggi l’esperienza concreta insegna che anche le controversie di lavoro
durano anni) e neppure di assegnare al giudice concreti poteri di intervento attraverso la possibilità di disporre d’ufficio qualunque mezzo di prova.
2. La prima udienza di trattazione
Il nuovo regime delle preclusioni si fonda essenzialmente sulla
modifica delle norme che regolano il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio e della comparsa di risposta e la costituzione in giudizio delle parti, disciplina che va esaminata e valutata congiuntamente alla nuova regolamentazione della prima udienza di trattazione, contenuta nell’art. 183 nuovo testo. Questa norma determina
le attività consentite alle parti per quanto attiene alla modifica delle conclusioni già assunte ed alla possibilità di formulare domande
321
od eccezioni nuove. L’art. 184 stabilisce poi il regime delle istanze
istruttorie, da proporsi di regola in udienza successiva.
Si è parlato in dottrina di una triplice barriera che interviene progressivamente nella determinazione dell’oggetto del processo: il primo
sbarramento è rappresentato dagli atti introduttivi (citazione e comparsa di risposta) cui è essenzialmente rimessa la determinazione delle domande ed eccezioni non rilevabili d’ufficio; il secondo interviene
nella prima udienza di trattazione ove alle parti è consentito, previa
autorizzazione del giudice, modificare le domande e le eccezioni già
formulate, ed in alcune tassative ipotesi proporre domande ed eccezioni nuove. Infine l’ultima barriera rappresentata dal termine per le
deduzioni istruttorie che il giudice istruttore è tenuto a concedere ad
istanza di parte, fissando all’uopo nuova udienza (art. 184).
La prima udienza di trattazione viene ad essere, grazie al sistema di preclusioni adottato dal legislatore, il fulcro del processo. Da
un lato infatti si tratta del luogo in cui vanno svolte attività fondamentali al fine del successivo sviluppo del giudizio: l’interrogatorio
libero delle parti ed il tentativo di conciliazione (quando la natura
della causa lo consente), oltre che la richiesta di “chiarimenti” alle
parti ad opera del giudice istruttore nei limiti dei fatti “allegati” (art.
183, 3° comma) e l’indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio di
cui si ritiene opportuna la trattazione.
Dall’altro lato la prima udienza costituisce il momento ultimo
per lo svolgimento di attività dirette alla proposizione di domande
ed eccezioni nuove (consentite peraltro in limiti assai ridotti) ed alla modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni già formulate (art. 183, 4° e 5° comma).
Le preclusioni ed il contatto diretto tra il giudice e le parti, soprattutto i chiarimenti sulle domande ed eccezioni e l’interrogatorio
libero dovrebbero consentire al giudice istruttore di “...eliminare dalla discussione il troppo ed il vano..” al fine di “...ridurre la controversia a quelle poche questioni essenziali che hanno veramente bisogno di essere decise” (2).
(2) Così la Relazione al codice del 1940, n. 21 Funzioni del giudice istruttore: separazione ed istruzione.
322
Conviene anzitutto muovere dai limiti introdotti alla possibilità
di proposizione di domande nuove. L’art. 163 che regola il contenuto dell’atto di citazione non contiene innovazioni rispetto al vecchio
testo se non per quanto concerne l’espressa indicazione del termine
di venti giorni per la costituzione in giudizio (dieci in caso di abbreviazione di termini) che deve essere contenuto nell’invito al convenuto a costituirsi in giudizio e l’espresso avvertimento che la tardiva costituzione comporta le decadenze stabilite dall’art. 167.
Vi sono però attività che l’attore può compiere soltanto con l’atto introduttivo del giudizio. In particolare dall’art. 164, 4° comma,
che disciplina le ipotesi di nullità della citazione si ricava che i fatti su cui si fonda la domanda (art. 163 n. 4) debbono essere indicati a pena di nullità. E si tratta di una di quelle nullità, concernenti
l’editio actionis, per cui la rinnovazione della citazione o l’integrazione della domanda, disposta dal giudice ai sensi dell’art. 164, determina la sanatoria con efficacia ex nunc, non ex tunc.
L’attore tuttavia può chiedere nella prima udienza di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo, a condizione però che “l’esigenza [sia] sorta dalle difese del convenuto” (art. 183). Ne deriva che
altrimenti l’attore dovrà convenire in giudizio il terzo per la prima
udienza, non potendo estendergli il contraddittorio in un momento
successivo.
Inoltre l’attore - e soltanto l’attore - nella prima udienza di trattazione potrà proporre domande nuove ed anche qui esclusivamente quelle che sono conseguenza “della domanda riconvenzionale o
delle eccezioni proposte dal convenuto nella comparsa di risposta”
(art. 183). Con ciò si fa riferimento alle ipotesi della reconventio reconventionis e della domanda di accertamento incidentale, resa necessaria dalle difese svolte dal convenuto. Lo stesso regime ora visto
per le domande, riguarda le eccezioni nuove, che all’attore è consentito formulare nella prima udienza soltanto quando siano conseguenza della riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto in comparsa di risposta.
Una prima conseguenza di questa nuova disciplina è che, anche
se il dettato dell’art. 163 del codice è stato soltanto parzialmente modificato dalla riforma del ‘90, la rilevanza dell’atto introduttivo del
giudizio è sostanzialmente cambiata. Il nuovo regime delle preclusioni, che si applica anche all’attore in virtù dei limitati poteri di proposizione di domande nuove e di modificazione delle domande ed
323
eccezioni già proposte previsti dall’art. 183, 4° e 5° comma, rende infatti fondamentale il contenuto dell’atto di citazione perché da esso
dipende l’esito per l’attore dell’intero giudizio. Con la citazione l’attore dovrà svolgere compiutamente tutte le sue difese, nella consapevolezza che nella prima udienza di trattazione potrà variarle soltanto in parte ed in ragione del concreto svolgimento del contraddittorio, sì che soltanto con difficoltà e non sempre potrà ovviare ad
un errore originario d’impostazione della causa.
E’ stato osservato, giustamente, che l’attore come il convenuto è
soggetto al principio di eventualità, vale a dire all’onere di dedurre
subito, anche in via tra loro subordinata, tutte le allegazioni poste,
o che possono essere poste, a fondamento della pretesa o della difesa (3). E del resto non può essere differentemente, salvo consentire
un’inammissibile disparità di trattamento tra attore e convenuto per
quanto attiene al concreto esercizio del diritto di difesa, in contrasto con la previsione dell’art. 24 Cost.
Come s’è accennato al convenuto è interdetta, già nella prima
udienza di trattazione, la proposizione di domande ed eccezioni nuove, eccezion fatta per le eccezioni nuove che siano conseguenza delle nuove domande formulate dall’attore all’udienza di prima comparizione ai sensi dell’art. 184, 4° comma, nei limiti già visti. Per queste ultime eccezioni il quinto comma dell’art. 184 consente al convenuto di chiedere al giudice istruttore la concessione di un termine perentorio, non superiore ai trenta giorni, per il deposito di memoria. La concessione di tale termine (sia per la proposizione delle
nuove eccezioni sia più in generale per replicare alle domande ed eccezioni dell’attore), costituisce atto dovuto per il giudice.
L’art. 167 nel determinare il contenuto della comparsa di risposta stabilisce che il convenuto in essa deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le conclusioni.
(3) TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, 70.
324
A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio (2° comma).
Se intende chiamare un terzo in causa deve farne dichiarazione
nella stessa comparsa e richiedere al giudice istruttore, ai sensi
dell’art. 269, lo spostamento della prima udienza per consentire il rispetto dei termini a comparire.
Dunque le preclusioni che maturano a carico del convenuto, sin
dal momento della costituzione in giudizio, riguardano anzitutto le
attività dirette all’ampliamento oggettivo e soggettivo del contraddittorio (domande riconvenzionali, dichiarazione che intende chiamare
in causa un terzo) ed in secondo luogo le eccezioni processuali e di
merito non rilevabili d’ufficio.
L’invito contenuto nel primo comma dell’art. 167 a “vuotare il
sacco”, proponendo tutte le difese, prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicando i mezzi di prova ed i documenti offerti in comunicazione assume un valore limitato per quanto concerne i mezzi di prova, perché a differenza di quanto previsto nel rito del lavoro l’art. 184 consente la loro deduzione anche in un momento successivo alla prima udienza di trattazione.
Come s’è detto, opposto regime è previsto per le domande riconvenzionali e per le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, per cui è comminata espressamente la decadenza.
L’art. 183 consente ad entrambe le parti di precisare e, previa
autorizzazione del giudice, di modificare le domande ed eccezioni
già formulate (4° comma). E tale potere può essere esercitato sia
all’udienza, sia in un termine successivo non superiore a trenta giorni fissato dal giudice, mediante il deposito di apposite memorie, purché ricorrano “giusti motivi”.
E’ stato affermato (4) che la modifica consentita delle domande
ed eccezioni rientra nell’ambito dell’emendatio libelli e che pertanto
non implica allegazione di fatti nuovi o diversi rispetto a quelli de-
(4) COSTANTINO, Provvedimenti urgenti per il processo civile, in Nuove leggi civ.,
1992, I, p. 75, sub artt. 181-183.
325
dotti con gli atti introduttivi. L’affermazione va condivisa, anche se
sul punto occorrerà tornare perché la determinazione dei limiti del
potere delle parti di allegazione di fatti nuovi costituisce uno dei problemi centrali posti dalla nuova disciplina, soprattutto con riferimento alla tematica delle eccezioni rilevabili d’ufficio.
La triplice scansione secondo la quale deve svilupparsi il contraddittorio nella previsione del legislatore: determinazione dei fatti
che hanno dato luogo alla controversia, cui sono riservati gli atti introduttivi; qualificazione giuridica di quei fatti, al cui fine è consentita la modifica di domande ed eccezioni; istruzione probatoria; non
richiede, come s’è detto, l’indicazione immediata dei mezzi di prova.
L’art. 167 non stabilisce alcuna decadenza per il convenuto in ordine alle prove, mentre opposto regime è previsto per le domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio. Va però tenuto conto che le deduzioni istruttorie sono comunque condizionate dall’assolvimento da parte di attore e convenuto
dell’onere di allegazione dei fatti costitutivi e rispettivamente modificativi, impeditivi ed estintivi della domanda e per la deduzione dei
c.d. fatti secondari. Anticipando quanto si dirà in seguito, si può osservare che le deduzioni istruttorie sono limitate dalle preclusioni già
verificatesi, ai sensi dell’art. 184, 4° e 5° comma, in ordine alla modificazione delle domande e delle eccezioni in senso stretto, mentre
permangono margini d’incertezza per quanto attiene a prove articolate in ragione di una contestazione tardiva del fatto costitutivo della pretesa. E qui la risposta è necessariamente legata alla posizione
che s’intenda assumere sull’ammissibilità di tale contestazione.
Più in generale è stato osservato che la sfiducia del legislatore
nel giudice, manifestata nella volontà di regolamentare minuziosamente lo scambio delle difese tra attore e convenuto, ha portato ad
una normazione dettagliata e casistica, che però non riesce (e non
potrebbe essere altrimenti) ad afferrare la complessità di tutte le concrete situazioni che potranno verificarsi (5). Così, ad esempio ove
l’attore agisca per il pagamento del prezzo dell’appalto, il convenuto
(5) Così CHIARLONI, Prima udienza di trattazione, in Le riforme del processo civile, Bologna-Roma, 1992, 168.
326
eccepisca la risoluzione per vizi dell’opera appaltata, l’attore replichi
che i vizi non sono stati denunciati nei termini di legge, il convenuto controdeduca che i vizi sono stati riconosciuti, sì che è irrilevante la tempestiva denuncia, l’attore replichi che (trattandosi di società
di capitali) il riconoscimento è avvenuto da parte di soggetto privo
di poteri di rappresentanza, il convenuto controreplichi l’inopponibilità del difetto di rappresentanza (6). È evidente che nel caso considerato le eccezioni e controeccezioni delle parti non possono esaurirsi nello schema delineato dal legislatore, che prevede un’unica difesa (scritta) dopo lo scambio degli atti introduttivi. Ed allora, se non
si vuole concludere che, dopo tutto la trattazione del processo è orale (art. 180, 1° comma) e che quindi la parte che non solleva le sue
eccezioni all’udienza di trattazione, non può dolersi se poi lo spazio
difensivo previsto per le memorie dall’art. 183, 5° comma, è troppo
angusto - tesi questa che sembra difficilmente sostenibile - occorrerà
seguire l’orientamento di chi ritiene ammissibile lo scambio intermedio di comparse ai sensi dell’art. 180, 1° comma, prima dell’udienza ex art. 184 (7).
A questo proposito è stato osservato da autorevole dottrina (8)
che l’art. 183, 4° comma, non commina espressamente la decadenza
all’attore per quanto concerne la facoltà di formulare le domande ed
eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o
delle eccezioni avanzate dal convenuto nella comparsa di risposta,
pur prevedendo che si tratti di attività da svolgersi “nella stessa udienza” e quindi nella prima udienza di trattazione. La decadenza è invece stabilita dall’art. 269, 3° comma, per la chiamata in causa del
terzo quando l’interesse sia sorto dalle difese del convenuto in comparsa di risposta. Se ne trae la conclusione che l’attore possa chiedere al giudice istruttore la concessione di un termine per il deposito di una memoria per la formulazione delle domande ed eccezioni, ciò in quanto da un lato la decadenza non è espressamente com-
(6) Cfr. sempre CHIARLONI, op. loc. cit., nota 2 ove altri esempi.
(7) PROTO PISANI, op. cit., p. 147; CHIARLONI, op. cit., p. 188-189. Anche COSTANTINO, op. cit., p. 89, ritiene ammissibile, sia pur ad altri fini, la trattazione scritta con scambio intermedio di comparse ai sensi dell’art. 180.
(8) COSTANTINO, op. loc. cit.
327
minata in relazione all’udienza e dall’altro dal sistema della legge si
può trarre la convinzione che la decadenza sia destinata ad operare
soltanto quando si proceda alle successive fasi dell’emendatio e delle richieste istruttorie. Ciò in quanto l’esercizio di tali facoltà presuppone l’esaurimento di ogni possibilità di allegazione dei nova.
Lo strumento tecnico utilizzabile per operare questo slittamento dei tempi di formulazione delle domande ed eccezioni nuove dell’attore sarebbe proprio l’art. 180, 1° comma. Naturalmente all’attore
non dovrebbe riconoscersi un automatico diritto ad accedere alla trattazione scritta della causa; il giudice istruttore dovrebbe infatti far
uso del potere di direzione del processo, riconosciutogli dall’art. 175,
tenendo conto delle esigenze del convenuto che potrebbe invece pretendere di passare subito alla precisazione delle domande ed eccezioni.
L’interpretazione proposta lascia qualche perplessità, sia perché
va contro la chiara intenzione del legislatore che enuncia in modo
preciso nell’art. 183, 4° comma, l’intenzione di limitare all’udienza
l’esercizio del potere dell’attore di formulare domande ed eccezioni
nuove dipendenti dalle difese svolte dal convenuto in comparsa di risposta, sia perché introduce una seria lesione al principio di concentrazione dell’attività processuale, sia infine perché non è chiaro
se il convenuto abbia il potere di paralizzare la richiesta dell’attore
di accedere alla trattazione scritta ex art. 180, 1° comma, con la sola pretesa di procedere alle ulteriori attività che ai sensi dell’art. 184
debbono svolgersi nella prima udienza di trattazione, o se invece debba riconoscersi al giudice istruttore una discrezionalità fondata sul
potere di direzione del processo, ai sensi dell’art. 175.
Sembra piuttosto meritevole d’attenzione il rilievo (9) che il giudice istruttore potrebbe avvalersi del potere di autorizzare la trattazione scritta della causa, sempre ai sensi dell’art. 180, quando, avvalendosi della facoltà di differire la prima udienza di trattazione ai
sensi dell’art. 168 bis, l’abbia fissata a data assai più tarda rispetto
all’udienza di comparizione indicata nell’atto di citazione. Per gua-
(9) COSTANTINO, op. cit., p. 90
328
dagnare tempo il giudice istruttore potrebbe stabilire, con il decreto
di fissazione d’udienza, un termine all’attore per replicare alla comparsa di risposta, allo scopo di giungere all’udienza di trattazione con
una miglior determinazione del thema decidendum.
Ciò naturalmente non escluderebbe la possibilità che all’udienza l’attore intenda ancora avvalersi della facoltà di formulare domande od eccezioni nuove ai sensi dell’art. 184, 4° comma, ma renderebbe tale ipotesi meno probabile, anche perché proprio in quanto attore egli dovrebbe avere interesse ad una sollecita definizione
del giudizio.
Si ha complessivamente la sensazione, al di là della maggiore o
minore opinabilità delle soluzioni interpretative che si sono ricordate, che il legislatore abbia disegnato una gabbia troppo stretta entro
la quale può essere difficile contenere il complesso e variegato svolgersi del gioco delle difese ed eccezioni delle parti. Occorre però tener conto che se il ricorso alla trattazione scritta della causa, con
scambio di memorie, sicuramente lecito, in quanto l’art. 180, 1° comma, è rimasto in vigore, occorre evitare di snaturare il rito. La trattazione scritta va autorizzata soltanto nei casi in cui il compiuto svolgimento del contraddittorio possa risultarne altrimenti leso, ma occorre salvaguardare la centralità della prima udienza di trattazione,
che non deve tornare ad essere il luogo in cui si rinvia la causa, per
restare la sede di effettiva determinazione del thema decidendum.
Ed in ciò il giudice ha grande responsabilità e deve fare prudente esercizio del potere di direzione del processo che la legge (art.
175) gli attribuisce, oltre che dello specifico potere previsto dall’art.
180, 1° comma.
3. Le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio
Già s’è detto che la prima udienza di trattazione è il luogo di effettiva determinazione dell’oggetto del processo, sia attraverso l’attività del giudice diretta ad ottenere dalle parti i “chiarimenti” sulle
domande ed eccezioni formulate negli atti introduttivi, sia attraverso l’esercizio da parte di attore e convenuto del potere (limitato) di
formulare domande ed eccezioni nuove e soprattutto di precisare e
modificare, con l’autorizzazione del giudice, le domande e le eccezioni già formulate.
329
Il quinto comma dell’art. 184 consente alle parti di richiedere al
giudice, in presenza di giusti motivi, la fissazione di un termine non
superiore a trenta giorni per l’esercizio di questo potere di modifica
delle domande ed eccezioni tramite il deposito di memorie.
I giusti motivi possono essere individuati nel concreto atteggiarsi
del contraddittorio svoltosi sino a quel momento tra le parti. I risultati dell’interrogatorio libero, la formulazione di domande od eccezioni (nella comparsa di risposta o successivamente nei limiti consentiti), fatti sopravvenuti possono essere alcune delle vicende (è superfluo ed impossibile immaginarle tutte) che potranno giustificare
la concessione del termine.
Il giudice sarà in sostanza chiamato a verificare se la precisazione o la modificazione delle domande ed eccezioni possa essere attuata nell’ambito dell’udienza (l’art. 184, 4° comma, richiede comunque che la modificazione sia autorizzata) o se invece sia opportuno concedere alle parti i tempi più distesi della trattazione scritta.
Esaurita questa fase e quindi scaduto il termine eventualmente
concesso alle parti per la precisazione e modificazione delle domande ed eccezioni, il thema decidendum rimane determinato in termini rigorosi, non essendo più consentito alle parti formulare né domande nuove né eccezioni nuove, processuali o di merito, che non
siano rilevabili d’ufficio. Tali eccezioni infatti, come s’è detto, possono essere sviluppate soltanto nei limiti consentiti dall’art. 184 nella prima udienza di trattazione o eventualmente nella trattazione
scritta autorizzata dal giudice che ad essa può seguire.
Ed il divieto di formulare nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio è confermato dall’art. 345, 2° comma, per il giudizio d’appello.
Resta però il problema di individuare le eccezioni processuali e
di merito non rilevabili d’ufficio che il convenuto deve dedurre nella comparsa di risposta a pena di decadenza (art. 167, 2° comma).
Sul tema vi è stato ed è in corso un ampio dibattito dottrinale,
che è evidentemente impossibile in questa sede tentare anche soltanto di riassumere.
In linea generale si può osservare che nel concetto di eccezioni non
rilevabili d’ufficio sussunto dal legislatore sono compresi sia il difetto
di requisiti processuali, relativi ai presupposti processuali, sia i fatti impeditivi, estintivi e modificativi della pretesa fatta valere dall’attore.
Sui primi la dottrina ha ricordato l’incompetenza territoriale derogabile (art. 38, 2° comma), la carenza di giurisdizione nei confronti
330
del convenuto straniero (art. 37, 2° comma), l’eccezione di compromesso rituale. Vanno inoltre ricomprese in questa categoria le nullità formali degli atti anteriori alla costituzione del convenuto non
rilevabili d’ufficio che, ai sensi dell’art. 157, 2° comma, debbono essere fatte valere nella prima difesa successiva alla conoscenza dell’atto nullo (10). Tra queste ad esempio l’eccezione del convenuto
dell’inosservanza dei termini minimi a comparire o della mancanza
dell’avvertimento previsto dall’art. 163 n. 7 (art. 164, 3° comma) (11).
Le eccezioni di merito attengono ai fatti modificativi, impeditivi, estintivi della pretesa fatta valere dall’attore. Occorre però tener
presente che la dottrina ha abbandonato la concezione, d’origine carneluttiana, secondo la quale le eccezioni non rilevabili d’ufficio o eccezioni in senso stretto sono quelle in cui “... il tema dell’eccezione
apparisca così nettamente legato all’interesse della parte da far ritenere che, se questa dell’eccezione non si vale, o il fatto che dà luogo all’eccezione non sussista, o l’eventuale ingiustizia della sentenza
sia facilmente tollerabile” (12), con la conseguenza che il giudice non
possa pronunciare su eccezioni non proposte dalle parti se non quando la legge non gliene dia facoltà.
Si è osservato in dottrina che il giudice per pronunciare sulla
domanda deve tener conto di tutti quei fatti che al momento della
pronuncia abbiano influito sull’esistenza del diritto e quindi anche
di quei fatti modificativi, impeditivi, estintivi che abbiano automaticamente prodotto i loro effetti. Di questi fatti il giudice dovrà tener
conto d’ufficio, mentre non potrà tener conto se non ad iniziativa di
parte dei fatti modificativi, impeditivi, estintivi che non producono i
loro effetti automaticamente, ma soltanto in funzione dell’esercizio
di un potere d’iniziativa affidato alla parte (13)
(10) LUISO (CONSOLO, SASSANI), La Riforma del processo civile, Milano, 1991,
60.
(11) Per ulteriori esemplificazioni cfr. PROTO PISANI, op. cit., p. 118 e ss.
(12) CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, Padova, 1931, II, 323, citato da ORIANI, L’eccezione di merito nei provvedimenti urgenti per il processo civile,
in Foro It., 1991, V, 10.
(13) Così MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, Torino, 1991, I, 124.
331
Si è poi affermato che l’art. 112 c.p.c. stabilisce la regola che il
giudice può normalmente pronunciare d’ufficio sui fatti modificativi, impeditivi, estintivi, salvo che la legge, espressamente od implicitamente, rimetta alla parte il potere di eccepirli (14), ovvero che si
tratti di fatti che la parte potrebbe porre a fondamento, oltre che
dell’eccezione, di azioni costitutive.
La conoscibilità d’ufficio è stata quindi negata con riferimento alla prescrizione (15), alla compensazione (16), all’inefficacia del negozio compiuto da falsus procurator per mancanza dei poteri rappresentativi (17), all’inadempimento, all’annullabilità per vizi della volontà,
alla rescissione, alla difformità o vizi dell’opera nell’appalto, ecc. (18).
Per contro è stato ritenuto che si tratti di eccezioni in senso lato o rilevabili d’ufficio nel caso del pagamento (19), della novazione
(20), della rimessione, della rinuncia al diritto (21), della risoluzione consensuale del contratto (22).
Il risultato dell’espansione dell’area dell’eccezione in senso lato
è che si riduce la sfera dei fatti che debbono essere eccepiti dal convenuto in comparsa di risposta a pena di decadenza, con il risultato di portare “..violenti colpi di piccone contro l’edificio delle preclusioni sino a farlo in gran parte franare” (23). È infatti stato so-
(14) ORIANI, op. cit., c. 11 e ss.
(15) Cass. 7.1.1986, n. 49
(16) Cass. 1.9.1987, n. 7158
(17) Cass. 8.1.1980, n. 123
(18) Si veda la casistica in ORIANI, op. loc. cit. e in RAMPAZZI, op. cit.
(19) Cass. 10.3.1979, n. 451; Cass. 16.2.1988, n. 6867; Cass. 30.5.1989, n. 2618.
In questo, come negli altri casi citati, rinviamo al lavoro di ORIANI e alla ben più
ampia casistica giurisprudenziale ivi raccolta.
(20) Cass. 30.10.1963, n. 2911
(21) Cass. 16.2.1976, n. 507.
(22) Cass. 5.10.1973, n. 2495. Contra: Cass. 29.3.1982, n. 1939, in Arch. civ., 1982,
601.
(23) CHIARLONI, Prime riflessioni ai valori sottesi alla Novella del processo civile, in Riv. dir. proc., 1991, 668. PIVETTI, op. cit., p. 202 e ss., sostiene invece che sollevare un’eccezione di merito significa: a) allegare un fatto; b) chiedere il riconoscimento della sua efficacia modificativa, impeditiva, estintiva. L’allegazione di nuovi fatti sarebbe preclusa dopo la comparsa di costituzione, posto che la parte nella prima
udienza può soltanto modificare le eccezioni già proposte. La mancata previsione di
una decadenza nell’art. 167 per le eccezioni in senso lato, consentirebbe soltanto al
convenuto di proporle in comparsa di risposta nel caso di costituzione tardiva, ai sensi dell’art. 171, ma prima della prima udienza.
332
stenuto, coerentemente con le premesse sin qui esposte, che il convenuto può allegare fatti modificativi, impeditivi o estintivi, che fondino eccezioni rilevabili d’ufficio, anche dopo che si sono verificate
le preclusioni previste dall’art. 167. E analogamente può operare l’attore. Non solo: il problema non si pone soltanto per le preclusioni
previste dall’art. 167 (e parallelamente per l’attore dall’intero sistema
della riforma), ma anche per le preclusioni che operano successivamente alla prima udienza di trattazione.
Si pone quindi il problema del momento ultimo entro il quale
può essere esercitato il potere di allegazione di fatti nuovi che fondano eccezioni rilevabili d’ufficio. Su tale tema la dottrina è molto
divisa. Taluno afferma che dopo la chiusura della trattazione della
causa prevista dall’art. 183 le parti non possano allegare tali fatti
(24). Altri lo nega, rilevando che tali fatti possono risultare da documenti prodotti successivamente (principio accolto nel processo del
lavoro che le preclusioni in ordine alle deduzioni istruttorie non valgono per le prove c.d. precostituite e dunque per la produzione di
documenti) o emergere dall’assunzione di mezzi di prova. Se questi
fatti fondano eccezioni in senso lato, la loro rilevabilità d’ufficio deriva dal sistema, posto che la decadenza è di stretta interpretazione
(art. 152, 1° comma). E si afferma anche che in tal caso, come nell’ipotesi dello jus superveniens o del fatto sopravvenuto dovranno ritenersi ammissibili le deduzioni istruttorie, ancorché tardive, perché
altrimenti sarebbe violato il principio costituzionale del diritto di difesa (25). In proposito si può anche aggiungere che i mezzi di prova, se ritenuti inammissibili in primo grado, dovranno comunque essere ammessi in appello, in base al nuovo testo dell’art. 345, in quanto indispensabili ai fini della decisione.
(24) ATTARDI, Le preclusioni nel processo di primo grado, in Foro It., 1990, V,
387.
(25) TARZIA, op. cit., p. 123 e ss. Così anche PROTO PISANI, op. cit., p. 226 e
ss. il quale peraltro ritiene che l’allegazione tardiva sia ammissibile anche per i fatti
costitutivi operanti ipso iure (nei limiti in cui ciò non determina un’inammissibile mutatio libelli), ed osserva che ammettere la deducibilità dei fatti costitutivi, impeditivi,
modificativi, estintivi che operano autonomamente “... non incrina la rigidità complessiva del sistema, perché è destinata ad operare in ipotesi (molto importanti sul
piano dogmatico ma) residuali sul piano pratico”.
333
Si è anche osservato che la rilevabilità d’ufficio dell’eccezione significa che il giudice può porla a fondamento della sua decisione anche in difetto di un’espressa istanza del convenuto in tal senso. Il fatto oggetto dell’eccezione, tuttavia, deve essere allegato e provato con
le stesse regole previste per tutti gli altri fatti rilevanti (26). Non vi è
forse troppa distanza tra questa tesi e quella di chi ammette che si
tenga conto dei fatti fondanti eccezioni rilevabili d’ufficio quando essi risultino dalla prova precostituita (se ritenuta sempre ammissibile)
o emergano dall’attività istruttoria (27). In sostanza di tali fatti non si
potrebbe tener conto quando la parte abbia violato l’onere di allegazione su di essa gravante. E la sussistenza di tale onere si può ricavare dall’art. 183, 3° comma, che prevede che il giudice richieda alle
parti i chiarimenti necessari sulla base dei fatti allegati (28). Se ne può
dedurre che salvo casi eccezionali (e si è visto di quali casi si tratta)
i fatti, anche se fondanti eccezioni in senso lato, vanno allegati o con
gli atti introduttivi ovvero con le attività consentite dall’art. 183 (29).
In questo senso va anche la considerazione che la legge fa obbligo al giudice di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio
(e dunque anche le eccezioni in senso lato) nella prima udienza. Il
mancato ricorso a tale potere nella prima udienza non ne preclude
evidentemente il successivo esercizio, con diritto però delle parti di
essere rimesse in termini per quanto concerne le attività di precisazione e modifica di domande, eccezioni e conclusioni e per quanto
riguarda le deduzioni istruttorie (30).
(26) LUISO (CONSOLO, SASSANI), op. cit., p. 101-102.
(27) Così TARZIA, cit.. Anche CHIARLONI, op. cit., p. 178 e ss. pur mostrando
esitazioni ad accettare la tesi sostenuta da PROTO PISANI, giunge di fatto a conclusioni non molto distanti da quelle di TARZIA, pur dando atto che una certa dose di
contraddittorietà nel sistema appare ineliminabile.
(28) Il rilievo è del MANDRIOLI, Le modifiche del processo civile, Torino, 1991,
p. 59 e ss., che nega che la modifica o la precisazione della domanda possa comportare l’allegazione di fatti nuovi. COSTANTINO, op. cit., p. 87 e ss. ritiene che la rilevabilità d’ufficio dell’eccezione non escluda l’onere di allegazione che va assolto nei
termini e nei limiti in cui è consentita ai sensi dell’art. 183 la mutatio libelli.
(29) In senso contrario la Relazione alla Commissione Giustizia del Senato, ove
si afferma che l’inciso in esame ha la funzione di evitare che attraverso i chiarimenti
richiesti dal giudice, possano introdursi nel processo nuove circostanze di fatto la cui
allegazione in prima udienza deve ritenersi, almeno per il convenuto, ormai preclusa.
E tale rilievo è eloquente indizio della volontà dei compilatori della legge di escludere l’allegazione di nuove circostanze dopo che sono maturate le preclusioni.
(30) PROTO PISANI, op. cit., p. 140.
334
4. La tardiva costituzione in giudizio delle parti.
La novella ha mantenuto fermo il potere di ciascuna parte di costituirsi all’udienza, ove l’altra parte si sia costituita tempestivamente, entro il termine per essa previsto (art. 171, 2° comma). Il legislatore ha peraltro aggiunto, rispetto al testo previgente, che per il
convenuto restano salve le decadenze previste dall’art. 167.
In altri termini il convenuto che si costituisca tardivamente
all’udienza non potrà formulare domande riconvenzionali e di accertamento incidentale, sollevare eccezioni in senso stretto e chiamare in causa il terzo.
Analoghe conseguenze non sono previste per l’attore, nel caso in
cui si costituisca tardivamente all’udienza essendosi il convenuto costituito tempestivamente, nel termine di venti giorni prima dell’udienza indicata nell’atto di citazione.
Questa differente disciplina è stata giudicata severamente. Si è
osservato infatti che “l’esigenza primaria per l’organizzazione di un
processo orale e concentrato è che la cadenza degli atti delle parti,
ed anzitutto di quelli introduttivi, sia rigorosamente stabilita” (31).
Si è lamentato soprattutto che la mancata tempestiva costituzione
dell’attore impedisce al convenuto di prendere visione del fascicolo
della controparte e quindi della procura e dei documenti prodotti,
con la conseguenza che egli viene a trovarsi in una situazione di minorata difesa al momento della confezione della comparsa di risposta, pur essendo sottoposto alle decadenze previste dall’art. 167.
La ritardata costituzione dell’attore non ha altri effetti, posto che
le preclusioni a suo carico (e si è detto che il principio di eventualità ed il regime delle preclusioni opera anche per l’attore) sono legate alla citazione e non alla costituzione in giudizio.
Il vulnus al diritto di difesa del convenuto è tuttavia abbastanza rilevante, sì che in dottrina sono state prospettate soluzioni per
giungere a conclusioni diverse, evitando un’eccezione d’illegittimità
costituzionale per violazione dell’art. 24 Cost. (32). si è osservato che,
(31) TARZIA, op. cit., p. 74.
(32) TARZIA, op. loc. cit..
335
facendo leva sul fatto che l’art. 171, 2° comma, richiama soltanto
l’art. 167 e non il 166, che regola la costituzione del convenuto, si
potrebbe ritenere che “.. la norma .. ribadisca semplicemente l’onere di completezza delle difese e le inerenti preclusioni, riferite dall’art.
167 alla comparsa di risposta, ma consenta che questa sia depositata - senza che possa essere considerata tardiva - alla prima udienza...” (33). Lo stesso autore che ha proposto tale soluzione ne avverte la fragilità, messa in luce dal disposto dell’art. 163 n. 7 là dove richiede che il convenuto sia avvertito che la costituzione oltre i
termini previsti dall’art. 163 bis determina le decadenze previste
dall’art. 167.
Altra dottrina ha invece argomentato dall’art. 157, 2° comma, applicando i principi in tema di nullità degli atti processuali per mancato raggiungimento dello scopo. La tardiva costituzione dell’attore
impedirebbe appunto il corretto esercizio del diritto di difesa del convenuto che quindi, fermo l’onere di costituirsi tempestivamente in
giudizio, potrebbe alla prima udienza (e non oltre data la regola dettata dall’art. 157, 2° comma) eccepire la tardività della costituzione
dell’attore allo scopo di ottenere dal giudice la fissazione di una nuova prima udienza ex art. 183 (34). In proposito è stato osservato - ed
il rilievo sembra persuasivo - che è arduo configurare una nullità per
mancato raggiungimento dello scopo in ragione di un atto che è
espressamente consentito dalla legge (35).
Ritengo che si possa condividere l’opinione di chi è dell’avviso
che il potere conferito dall’art. 183, 4° comma, ult. parte di precisare e, previa autorizzazione del giudice, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, eventualmente beneficiando del
termine perentorio di trenta giorni che il giudice, ove ricorrano giusti motivi, è tenuto a concedere per l’esercizio di tale facoltà, costituisca strumento sufficiente per riequilibrare, nella maggior parte dei
casi, la posizione delle parti.
(33) Così TARZIA, op. cit., p. 76.
(34) Cfr. PROTO PISANI, op. cit., p. 123 e ss.
(35) TARZIA, op. cit., p. 76, nota 33.
336
Nella maggior parte dei casi, non sempre. Occorre infatti ricordare che al convenuto è comunque preclusa la proposizione di nuove eccezioni in senso stretto, la formulazione di domande riconvenzionali e la chiamata in causa del terzo. Per limitarsi a quest’ultima
ipotesi, ben può ipotizzarsi che tra i documenti prodotti dall’attore
vi sia un atto da cui emerga l’opportunità per il convenuto di chiamare in causa il terzo (ad esempio nel caso in cui il fideiussore convenuto in giudizio dal creditore insieme al debitore principale, apprenda da un documento prodotto dall’attore che esiste altro fideiussore ed intenda rivalersi contro quest’ultimo nell’ipotesi di propria soccombenza e voglia quindi che la sentenza di accertamento
del credito faccia stato anche nei confronti del secondo fideiussore).
Per quest’ultima ipotesi non sembra che si possa prescindere dalla
rimessione in termini del convenuto rispetto alle preclusioni previste dall’art. 167, anche se poi lo strumento processuale all’uopo utilizzabile può apparire incerto o addirittura opinabile (36).
Già si è detto delle soluzioni proposte dalla dottrina. Va ancora
ricordato che l’istituto della rimessione in termini previsto dall’art.
184 bis non è utilizzabile, perché espressamente limitato alle attività
che sarebbero state consentite nella fase della trattazione o in quella riservata alle deduzioni istruttorie.
Non mancano proposte dirette a dilatare la portata dell’istituto
anche alle preclusioni previste dall’art. 167. In particolare, argomentando dai lavori preparatori, si è sostenuto che questo è un caso in cui la legge minus dixit quam voluit (37), sotto pena altrimenti di una censura d’illegittimità costituzionale della norma. Resta pe-
(36) Sul punto COSTANTINO, op. cit., p. 91, afferma genericamente che il giudice sarà tenuto a verificare in concreto il pregiudizio subito dal diritto di difesa del
convenuto, onde regolare i tempi delle diverse attività processuali collegate alla prima udienza di trattazione.
(37) PROTO PISANI, op. cit., p. 167. Si vedano in proposito i rilievi critici di
RAMPAZZI, Rimessione in termini, in Le riforme del processo civile, cit., p. 223 e ss.,
ove ampio panorama di dottrina, anche sulla possibilità di configurare un principio
generale che valga a costruire la rimessione in termini come istituto di carattere generale, applicabile anche alle ipotesi in cui non espressamente consentito, soluzione
questa che la Corte costituzionale sembra aver respinto. Si confronti in proposito anche PROTO PISANI, op. cit., p. 166 e ss.
337
raltro il rilievo che l’art. 184 bis presuppone la prova che la decadenza è conseguenza di causa non imputabile alla parte che vi è incorsa (e certo la tardiva costituzione in giudizio dell’attore non può
essere addebitata al convenuto, ma si può osservare che questi in taluni casi avrebbe potuto essere a conoscenza dei fatti risultanti dai
documenti prodotti, ove avesse usato dell’ordinaria diligenza) e una
valutazione di verosimiglianza dei fatti allegati a dimostrazione della causa non imputabile (art. 294, 2° comma, in relazione all’art. 184
bis).
Va poi osservato che il convenuto è pregiudicato non solo nel
caso di costituzione dell’attore all’udienza, ma anche quando l’attore si sia costituito prima, però oltre il termine stabilito dall’art. 165,
perché anche in tale ipotesi egli potrà aver difficoltà a prendere tempestivamente visione dei documenti prodotti. Ed in proposito va ricordato che la dottrina è divisa sul fatto che in caso di mancata costituzione di una parte, seguita dalla costituzione tardiva dell’altra,
debba farsi luogo alla cancellazione dal ruolo ai sensi dell’art. 307,
1° comma (38), mentre sembra sicuro che non possa farsi luogo a
cancellazione quando entrambe le parti si siano costituite sia pur tardivamente (39), ferme restando però le decadenze che si sono verificate.
Infine resta il problema se in caso di mancata costituzione
dell’attore il convenuto debba ugualmente costituirsi nel termine previsto dall’art. 167 per evitare di incorrere nelle decadenze previste
dalla norma che l’attore potrebbe far valere provvedendo a riassumere tempestivamente il processo nel termine dell’anno, ai sensi
dell’art. 307, 1° comma. La dottrina ha affermato che in tale ipotesi il convenuto, costituendosi tempestivamente nel processo riassunto, non incorrerebbe in preclusioni, ma si tratta di soluzione dubbia (40).
(38) In questo senso MANDRIOLI, op. cit., II, 48 e in giurisprudenza Cass.
9.3.1990, n. 1928. Contra: PROTO PISANI, op. cit., p. 124.
(39) Così MANDRIOLI, op. cit., p.48, nota 11, che cita Cass. 28.11.1987, n. 8878.
(40) GIANCOTTI, Ritardata costituzione delle parti, in Le riforme, op. cit., p. 145
ed ivi ulteriori riferimenti.
338
5. Rilevabilità d’ufficio di decadenze e preclusioni.
Una delle questioni più dibattute tra i primi commentatori è se
il nuovo regime di decadenze e preclusioni sia rimesso alla disponibilità delle parti e se quindi, nel caso di compimento di un’attività
interdetta dopo che è maturata la decadenza, quest’ultima sia rilevabile d’ufficio. Si discute inoltre se sia configurabile qualche forma
di sanatoria affidata alla volontà della parte che potrebbe far valere
l’intervenuta preclusione.
In generale si osserva che mentre nel processo ordinario di primo grado, quale era disegnato dal legislatore prima della riforma,
spettava alle parti, in ossequio al principio dispositivo, far valere le
preclusioni verificatesi (essenzialmente la questione si poneva per le
domande nuove avanzate in spregio del divieto di mutatio libelli nel
processo del lavoro ed oggi nel nuovo giudizio ordinario di cognizione riformato decadenze e preclusioni sono rilevabili d’ufficio Esse infatti sono poste in ragione di un interesse pubblico al sollecito
e corretto svolgimento del processo, estraneo alla volontà delle parti. Queste in altri termini possono decidere se dare inizio o porre termine alla controversia, ma non possono influire sul come il processo è destinato a svolgersi (41).
Il problema si può porre per quanto riguarda le domande nuove
non consentite proposte nel corso della prima udienza o successivamente; le modificazioni delle domande non autorizzate nel corso della prima udienza o proposte in seguito; le eccezioni in senso stretto
non consentite proposte nella prima udienza o nel corso del giudizio;
(41) La constatazione è un po’ di tutti i commentatori. Si vedano in particolare
PROTO PISANI, op.cit., p. 231 e ss.; CHIARLONI, Prima udienza di trattazione, op.
cit., p. 205 e ss. In giurisprudenza nel rito del lavoro, nel senso che le decadenze sono sottratte alla disponibilità delle parti cfr. Cass. 11.8.1981, n. 4896, in Foro It., 1982,
I, 449, relativa a decadenza in tema di deduzione di mezzi di prova e corretto impiego dei poteri istruttori del giudice; Cass. 19.12.1983, n. 7488, in Giust. civ., 1984,
I, 1524; Cass. 12.11.1985, n. 5546; Cass. 7.3.1986, n. 1545; Cass. 27.4.1987, n. 4068,
tutte in tema di tardiva modificazione o mutamento della domanda ed accettazione
del contraddittorio. Da ultimo si vedano Cass. 12.12.1990, n. 11819; Cass. 21.4.1988,
n. 3111; Cass. 13.2.1988, n. 1574, tutte in tema di eccezioni o domande tardive.
339
i mezzi istruttori dedotti dopo la scadenza dei termini previsti dall’art.
184 (42). Per l’appello l’art. 345 stabilisce espressamente la rilevabilità d’ufficio dell’inamissibilità delle domande nuove, mentre nulla dice per le eccezioni nuove, peraltro espressamente vietate (2° comma)
ove non rilevabili d’ufficio. Per queste ultime la questione non sembra peraltro porsi in termini diversi dal giudizio di primo grado
Sembra dunque condivisibile la conclusione che anche nel nuovo rito novellato la violazione della preclusione sia rilevabile d’ufficio (indipendentemente dal fatto che si intenda parlare in proposito
di deduzione nulla o inammissibile).
E’ stato peraltro autorevolmente osservato che il processo è pur
sempre fondato sul principio dell’impulso di parte e che di regola esso ha ad oggetto diritti disponibili. Ciò, se non consente di ritenere
che il mero silenzio o l’accettazione di fatto del contraddittorio valga a sanare la preclusione, può giustificare diversa conclusione quando si sia di fronte ad un comportamento qualificato. Si è quindi sostenuto che nei processi vertenti su diritti disponibili, così come la
parte può porre termine al processo con la rinuncia agli atti, ai sensi dell’art. 306 c.p.c., determinando nel contempo l’inefficacia degli
atti processuali compiuti sino a quel momento, nello stesso modo
possa superare le preclusioni in cui la controparte sia incorsa (43).
Occorrerà peraltro che la dichiarazione sia fatta dalla parte o
dal suo procuratore speciale verbalmente all’udienza o con atto notificato e sottoscritto personalmente (arg. art. 306).
In senso contrario si è osservato che in questo modo si consente alle parti di pregiudicare il perseguimento del pubblico interesse
di cui s’è detto e che il principio, tanto solennemente affermato, verrebbe svuotato di rilevanza. E ancora l’espressa rilevabilità d’ufficio
del divieto di domande nuove in appello costituisce chiaro indice contrario alla tesi ora esposta. Infine nel processo contumaciale ove la
rinuncia agli atti non richiede l’accettazione della parte non costituita, non vi sarebbero limiti alla proposizione di domande nuove e al
superamento delle altre preclusioni, il che sembra insostenibile (44).
(42) L’elencazione è di PROTO PISANI, op. loc. cit..
(43) PROTO PISANI, op. cit., p. 232.
(44) CHIARLONI, op. loc. cit..
340
Ritengo che la tesi che consente la rinuncia alla preclusione già
verificatasi, sia pur entro limiti rigorosi, meriti apprezzamento. Un
principio di economia processuale fa ritenere che le parti debbano
poter ottenere nel processo, purché il loro consenso sia espresso in
termini inequivoci (ed il richiamo alla disciplina dell’art. 306 mi sembra opportuno), lo stesso risultato cui potrebbero pervenire rinunciando agli atti e radicando una nuova controversia. Non mi pare
che in questo modo il sistema delle preclusioni venga svuotato dei
suoi contenuti perché la complessità del meccanismo processuale ed
il rigore della disciplina dettata dall’art. 306 impedisce un ricorso più
che marginale a questa soluzione.
L’obiezione fondata sulla disciplina dell’appello non mi pare che
colga nel segno. La rinuncia agli atti in appello determina il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado e conferma semmai il divieto di domande nuove, piuttosto che consentire una deroga. Non vi è quindi contraddizione tra il divieto stabilito dall’art.
345, 1° comma, e la soluzione prospettata.
Resta il processo contumaciale. Il richiamo alla disciplina contenuta nell’art. 306 si fonda sull’analogia (se pur non è un suggerimento de iure condendo), che indubbiamente ricorre nel caso di processi vertenti su diritti disponibili e dove vi sia il consenso di entrambe le parti. Mi pare che il giudizio contumaciale non risponda
a quest’ultimo requisito: la mancanza del consenso della parte non
costituita dipende dal fatto che si assume che questa non abbia interesse ad una pronuncia nel merito, mentre all’evidenza nel caso
delle preclusioni la situazione è completamente diversa.
6. Nullità della citazione e preclusioni.
Qualche ulteriore problema si pone in caso di nullità della citazione. Com’è noto l’art. 164 novellato ha distinto la disciplina
della nullità a seconda che si tratti di nullità della vocatio in jus
o di nullità dell’editio actionis, in quanto la rinnovazione dell’atto
su ordine del giudice istruttore ovvero la costituzione in giudizio
del convenuto ha efficacia sanante ex tunc nel primo caso ed ex
nunc nel secondo, in base al rilievo che non è possibile immaginare che l’atto introduttivo del giudizio in cui non sia chiaramente individuata la pretesa fatta valere possa produrre effetti pre341
giudizievoli alla controparte prima che sia posto rimedio al vizio
originario.
Va poi ricordato che l’inosservanza dei termini o dell’avvertimento previsto dall’art. 163 n. 7 dà diritto al convenuto a pretendere la fissazione di una nuova udienza. È questo uno dei casi in cui
l’udienza di prima comparizione delle parti e l’udienza di trattazione prevista dall’art. 183 non coincidono (45). L’art. 164, 3° comma,
non prevede che il giudice debba fissare una nuova udienza in caso
di costituzione del convenuto quando la citazione sia nulla per mancanza od assoluta incertezza dei requisiti previsti dall’art. 163 nn. 1
e 2 ovvero per omessa indicazione della data dell’udienza.
Anche nel caso di nullità conseguente a vizi dell’editio actionis il
giudice in caso di costituzione del convenuto deve fissare all’attore
un termine perentorio per integrare la domanda e fissare nuova
udienza ai sensi dell’art. 183, ult. comma. La norma, tecnicamente
mal redatta, non viene interpretata in senso letterale perché altrimenti significherebbe che il giudice dovrebbe fissare subito l’udienza per le deduzioni istruttorie, con incomprensibile omissione di tutte le attività previste dall’art. 183.
Si ritiene invece che il giudice debba fissare nuova udienza che
tenga luogo di quella prevista dall’art. 183. L’art. 164, ult. comma,
stabilisce che si applica l’art. 167 e la norma è letta nel senso che il
convenuto è rimesso in termini a svolgere rispetto all’udienza così
fissata le attività che l’art. 167 prevede a pena di decadenza rispetto
all’udienza di prima comparizione, sempre nel termine di venti giorni stabilito dall’art. 166. Il giudice cioè dovrà assegnare all’attore il
termine per integrare l’atto di citazione e fissare la nuova udienza in
modo tale che rispetto all’integrazione dell’atto di citazione sia rispettato a favore del convenuto il termine minimo a comparire e che
rispetto all’udienza questi possa depositare una nuova comparsa di
risposta, nei termini e con le preclusioni previste per quella originaria (46).
(45) PROTO PISANI, op.cit., p. 148 e ss.; cfr. anche TARZIA, op. cit., p. 78 e ss.;
(46) Sul punto si veda TARZIA, op. cit., p. 67; LASAGNO, Nullità della citazione, in Le riforme, op. cit., p. 110 e ss.
342
Questa disciplina presenta alcuni problemi. Anzitutto nel caso di
nullità della citazione per omissione od assoluta incertezza dei requisiti previsti dall’art. 163 nn. 1 o 2 o per mancata indicazione della data dell’udienza di comparizione, ci si è chiesti perché la legge
non preveda il diritto del convenuto che si costituisce di ottenere la
fissazione di una nuova udienza e l’ammissione al compimento delle attività previste dall’art. 167 con riferimento all’udienza così fissata. E non è mancato in dottrina chi ha sollevato in proposito dubbi di legittimità costituzionale (47). Altri (48) ha ritenuto che la disciplina dettata per la violazione del termine minimo a comparire e
l’omissione dell’avvertimento previsto dall’art. 163 n. 7 debba valere
senz’altro anche per le ipotesi non richiamate, salvo che dal complesso dell’atto siano enucleabili in qualche modo il giudice adito, le
parti e l’udienza di comparizione. In caso contrario, infatti, si è osservato, il convenuto ha avuto conoscenza della citazione quasi per
caso e sicuramente in modo non ricollegabile alla notificazione, sì
che non vi è motivo per trattare queste ipotesi in modo differenziato. In pratica, mi par di capire, vi sarebbe comunque nullità per violazione, di fatto, del termine minimo a comparire.
Infine si è sostenuto che se il legislatore ha dettato una disciplina differenziata, un motivo deve pur esservi. E la spiegazione è
stata trovata nel rilievo che soltanto nei casi espressamente considerati dal 3° comma dell’art. 164 il convenuto costituendosi tardivamente non potrebbe ottenere la remissione in termini. Egli infatti
non potrebbe dimostrare, ai sensi dell’art. 294, di non aver avuto conoscenza del processo. Sarebbe vero infatti il contrario: egli ha avuto conoscenza del processo, anche se è stato leso nel suo diritto di
difesa. E proprio per tale ragione il legislatore ha ritenuto di dover
assicurare al convenuto un’automatica remissione in termini. Nelle
altre ipotesi considerate dalla norma il convenuto per ottenere la remissione in termini dovrebbe comunque dimostrare di non aver avuto tempestiva conoscenza del processo (49).
(47) TARZIA, op. cit., p. 64.
(48) LUISO (CONSOLO, SASSANI), op. cit., p. 46 e ss.
(49) Così PROTO PISANI, op. cit., p. 78 e ss. COSTANTINO, op. cit., p. 78.
343
Resta il fatto che in questo modo si viene ad imporre al convenuto che è stato più gravemente leso nel suo diritto di difesa un regime più gravoso rispetto alle ipotesi in cui è assicurata la remissione in termini automatica, sì che mi pare preferibile la tesi che
consente in ogni caso (onde evitare violazione dell’art. 24 Cost.) la
rifissazione dell’udienza prevista dall’art. 183.
Altra e diversa questione è se il regime previsto dall’art. 164, 3°
comma, si applichi soltanto in caso di costituzione del convenuto entro la prima udienza ovvero anche successivamente. Premesso che ai
sensi dell’art. 164, 2° comma, il giudice dovrebbe disporre la rinnovazione della citazione, si pone infatti il problema della sorte del convenuto ove il giudice ometta tale provvedimento e dichiari la contumacia. Si è infatti affermato che in tale ipotesi, ove il convenuto si
costituisca tardivamente in giudizio, dopo la prima udienza, l’art.
294, 1° comma, prevede per la rimessione in termini che egli debba
dare la prova di aver ignorato l’esistenza del processo. L’art. 164, 3°
comma, ult. parte si applicherebbe quindi soltanto nel caso di costituzione del convenuto alla prima udienza.
Escludere l’applicazione dell’art. 294, 1° comma, si è detto, “..sarebbe pura follia”, sia perché appunto si tratterebbe d’interpretazione contraria alla espressa previsione della norma, sia perché “...significherebbe consentire al convenuto cui sia stato notificato un atto di citazione nullo per inosservanza dei termini minimi a comparire, per mancanza di indicazione della sola data dell’udienza di prima comparizione o per mancanza dell’avvertimento di cui al n. 7
dell’art. 163, per un verso di aver sicuramente avuto piena conoscenza del processo per altro verso di starsene alla finestra in attesa del momento per lui più opportuno per costituirsi ed ottenere
ugualmente la caducazione nella sostanza dell’intero processo (con
la sola salvezza a favore dell’attore degli effetti sostanziali e processuali della domanda)” (50).
(50) PROTO-PISANI, op. cit., p. 80-81. Cfr. anche PIVETTI, op. cit., p. 188.
344
E’ evidente il rigore e la tensione morale che suggeriscono quest’interpretazione. Va però osservato che in questo caso il giudizio è
progredito nel compimento delle varie attività processuali in quanto
il giudice ha omesso di adottare l’ordine di rinnovazione della citazione nulla previsto dall’art. 164, 2° comma, sì che il vizio che colpisce l’attività successivamente svolta dipende da questa omissione.
È ben vero che non può essere pronunciata la nullità di un atto in
quanto questo abbia raggiunto il suo scopo (art. 156, 3° comma); al
di fuori di tale ipotesi, tuttavia, deve ritenersi che la nullità dell’atto
introduttivo abbia colpito gli atti successivamente compiuti e che pertanto il convenuto che si costituisce tardivamente abbia diritto ad
essere rimesso in termini (51).
7. Interrogatorio libero e tentativo di conciliazione
La particolare rilevanza della prima udienza di trattazione emerge anche dall’obbligo delle parti di partecipare personalmente, onde
consentire al giudice di procedere al loro interrogatorio libero.
L’art. 183 novellato stabilisce infatti che “il giudice interroga liberamente le parti presenti” e che la mancata comparizione delle
parti senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile
ai sensi dell’art. 116, 2° comma, vale a dire può rappresentare argomento di prova ai fini della decisione.
La norma è ricalcata sull’art. 420, 1° comma, che per il rito del
lavoro prevede che la mancata comparizione personale delle parti costituisca “comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione”. La differente formulazione dell’art. 420, 1° comma, rispetto
all’art. 183 novellato non sembra fondamentale. Già per il rito del lavoro la dottrina aveva posto in luce che dalla mancata comparizione delle parti il giudice può trarre semplici argomenti di prova, perché altrimenti si verrebbe ad equiparare l’interrogatorio libero a quello formale che, ai sensi dell’art. 232, consente di ritenere ammessi i
(51) Cfr. LUISO, op. cit., p. 48.
345
fatti dedotti se la parte non si presenta a rispondere senza giusto
motivo (Tarzia). La giurisprudenza ha ribadito il valore puramente
indiziario della prova, tanto che l’omissione dell’interrogatorio libero pur previsto come doveroso da parte del legislatore non è considerata causa di nullità, potendo comunque le parti accedere alle prove tecniche per provare il loro assunto (52). La Cassazione ha però
sovente equiparato, quanto ad efficacia probatoria, la mancata comparizione della parti a rispondere l’interrogatorio libero alla mancata comparizione a rendere l’interrogatorio formale (53). Sul piano
formale questo parallelo può anche essere accettato, anche se la lettera dell’art. 232 considera la mancata comparizione della parte come elemento di prova, mentre l’art. 420 e ora l’art. 183 novellato con
il richiamo dell’art. 116 mostrano di valutarla come semplice “argomento di prova”, cioè come un quid minus . In pratica però è noto
che sovente la giurisprudenza, soprattutto nelle cause contumaciali,
decide la controversia esclusivamente in base alla mancata comparizione della parte applicando l’art. 232 c.p.c. E nel rito del lavoro,
almeno nei primi tempi di applicazione, non era mancata analoga
tendenza. È ben possibile quindi che si faccia una lettura dell’art.
183 particolarmente rigorosa nei confronti della parte non comparsa, specie quando si tratti di parte contumace.
Come nel rito del lavoro all’udienza le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, tale in virtù
di procura generale o speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata, che attribuisca al procuratore il potere di conciliare e transigere la lite. La mancata conoscenza dei fatti di causa
da parte del procuratore, senza gravi ragioni, è valutabile dal giudice ai sensi dell’art. 116 nei termini già detti (art. 183, 2° comma, novellato).
(52) Cfr. da ultimo Cass. 4.11.1986, n. 6449; Cass. 27.2.1984, n. 1406, in Giust.
civ., 1984, I, 1448; Cass. 5.6.1984, n. 3390; Cass. 23.10.1982, n. 5520; Cass. 6.8.1982,
n. 4411; Cass. 26.1.1982, n. 528; Cass. 29.6.1981, n. 4231; Cass. 7.4.1981, n. 1978.
(53) Sull’efficacia probatoria della mancata comparizione a rendere l’interrogatorio libero si vedano da ultimo Cass. 13.4.1987, n. 3681, in Giust. civ., 1988, I, 229
con nota di LUISO; Cass. 7.3.1987, n. 2427; Cass. 10.6.1986, n. 3849; Cass. 20.7.1985,
n. 4301; Cass. 16.1.1981, n. 374.
346
Tre sono dunque i requisiti perché la parte possa farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale: a) che egli sia a conoscenza dei fatti di causa; b) che la procura sia conferita con atto
pubblico o scrittura privata autenticata; c) che attribuisca al procuratore il potere di conciliare e transigere.
Agli albori del rito del lavoro si era discusso sulla legittimità del
conferimento della procura a conciliare e transigere all’avvocato cui
è conferita la rappresentanza processuale, negata da taluni sia in base al rilievo che la procura speciale considerata dal legislatore non
poteva essere la procura alle liti, sia con l’osservazione che vi sarebbe
stata incompatibilità tra lo svolgimento del ruolo di difensore (tenuto tra l’altro al segreto professionale) e la qualità di procuratore
tenuto a rispondere all’interrogatorio del giudice (54). La questione
sembra oggi superata. È invece meritevole di rilievo la decisione, per
il momento credo isolata, della Suprema Corte (55) che ha affermato che il conferimento della procura speciale a rappresentare la parte in giudizio ai fini dell’interrogatorio libero, non comporta una legittimazione sostanziale del procuratore, che pertanto non diviene
incapace a testimoniare ai sensi dell’art. 246 c.p.c. Questi pertanto
potrebbe rispondere alle stesse domande prima come rappresentante della parte, con la facoltà, certamente riconosciuta alla parte senza contrasto con il dovere di lealtà e probità, di essere reticente o
addirittura di affermare circostanze non rispondenti al vero, e successivamente in qualità di teste, sotto vincolo di giuramento e con
l’obbligo di dire la verità.
All’interrogatorio libero deve seguire il tentativo di conciliazione
che è obbligatorio quando “la natura della causa lo consente” (così
l’art. 183, 1° comma, novellato, e già l’art. 185, 1° comma, nel testo
abrogato). Questa precisazione, tecnicamente opportuna per l’ipotesi che la controversia verta in materia di diritti indisponibili, manca nell’art. 420, ritenendo evidentemente il legislatore che nel rito
speciale la conciliazione sia sempre possibile. Si è già detto che se-
(54) Così Pret. Milano, 30.5.1977, in Riv. dir. lav., 1977, II, 278; contra Pret. Firenze, 26.5.1975, in Mass. giur. lav., 1976, 83 con nota di PAPALEONI.
(55) Cass. 19 maggio 1988, n. 3503, in Impresa, 1988, 2456.
347
condo la giurisprudenza l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione non comporta nullità in caso di omissione. Va poi ricordato che
la novella ha lasciato immutato l’art. 185, 2° comma, per cui il giudice ha facoltà di rinnovare il tentativo di conciliazione in qualsiasi
momento dell’istruzione.
348
IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO: LA PRIMA UDIENZA E
LE PRECLUSIONI (*)
Relatore:
dott.ssa Elvira PATANIA
giudice del Tribunale di Messina
Questo elaborato vuole essere solo il tentativo di richiamare la
attenzione su alcuni dei punti di maggiore rilievo del rito ordinario
riformato, poiché sono ben consapevole sia della impossibilità di
esaurire nel breve volgere di una relazione la complessa tematica che
mi è stata affidata, sia del fatto che solo la pratica quotidiana farà
emergere nitidamente i profili controversi.
Quella introdotta dalla legge 26 novembre 1990 n. 353, contenente provvedimenti urgenti per il processo civile, è una novella, non
organica e totale come quella del 1973 relativa al processo del lavoro, che, incidendo su 123 disposizioni del codice di procedura civile oltre che sull’art. 48 dell’ordinamento giudiziario e su 12 articoli
della legge 28/7/1978 n. 392, è stata definita da TARZIA “a pelle di
leopardo”, perché lascia convivere norme preesistenti.
Un primo problema, pertanto, che nella pratica sarà necessario
affrontare è quello concernente la verifica della compatibilità tra le
norme novellate e, più generalmente, tra le stesse e la Carta Costituzionale in un sistema, quale il nostro, in cui la Costituzione rappresenta la prima fonte del diritto.
Come ben si sa, la strategia perseguita dal legislatore della novella si articola in una triplice direzione:
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 17 al 21 gennaio 1994.
349
a) inizio del processo di revisione delle circoscrizioni giudiziarie ed immediata realizzazione delle premesse per la introduzione
del giudice unico di primo grado: in questo contesto vanno lette da
un lato la istituzione delle preture circondariali (legge 30/1989) e
dall’altro lato la trasformazione del Tribunale civile in ufficio giudiziario a composizione normalmente monocratica con riserve di collegialità in materie eccezionali tassativamente indicate dalla legge
(art. 88 l. 353/90 con il quale è stato modificato l’art. 48 dell’ordinamento giudiziario). Senza voler invadere il campo riservato ad altri più rigorosi interventi previsti sul punto, voglio limitarmi ad osservare che è dubbio se la norma di riserva della collegialità sia speciale, e quindi suscettibile di interpretazione analogica, o eccezionale, e quindi insuscettibile di interpretazione in via analogica. Il problema si pone poiché restano fuori dalla elencazione del nuovo testo dell’art. 48 ord. giud. ipotesi importanti come l’azione revocatoria fallimentare, le azioni di responsabilità nelle società, le azioni di
impugnazioni di delibere assembleari.
Nei lavori preparatori la introduzione della regola della monocraticità del giudice temperata dalla espressa riserva di collegialità
per ipotesi tassative è stata motivata con il tentativo di perseguire
l’esigenza di speditezza del giudizio civile. La scelta poche volte risulta dettata dalla valutazione delle caratteristiche intrinseche della
controversia, anche se non sono mancate critiche alla scelta attuata,
che si sono appuntate in particolare all’assenza di criteri precisi e
razionali nella individuazione dei giudizi riservati al Collegio.
Come da più parti si è osservato, la modifica potrebbe rappresentare il primo passo verso l’abolizione della competenza per valore auspicata da parte della dottrina.
b) Istituzione del giudice di pace, tecnicamente qualificato, cui
devolvere una grossa fetta del contenzioso civile c.d. minore attualmente gravante sui giudici togati.
c) Attuazione di un limitato ma incisivo intervento urgente sul
processo civile, capace di determinare una prima, ma netta inversione di tendenza nella gravissima situazione di progressivo degrado in
atto nel settore della giustizia civile e coincidente essenzialmente con
l’abnorme durata del processo ordinario di cognizione e con la dilatazione del ricorso alla tutela sommaria e cautelare in particolare.
È noto, infatti, che un forte stimolo alla sollecita approvazione
di misure urgenti è derivato dalla precaria situazione in cui il nostro
350
Paese è venuto a trovarsi in seno al Consiglio d’Europa dopo che
presso la Commissione e la Corte europea dei diritti dell’uomo si sono moltiplicati i ricorsi per mancato rispetto di un termine ragionevole per la definizione dei processi prevalentemente in materia civile in violazione dell’art. 681 della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo.
Detta inversione di tendenza viene attuata mediante la semplificazione della disciplina della competenza per materia; la rivalutazione del giudizio di primo grado tramite l’accurata disciplina della
fase preparatoria; l’introduzione di un robusto ancorché elastico sistema di preclusioni; la previsione della provvisoria esecutorietà - ex
lege - di tutte le sentenze di primo grado.
La introduzione del sistema delle preclusioni nella fase preparatoria rappresenta sicuramente la idea guida della riforma, la misura più importante che riassume l’ispirazione di fondo della novella ed è destinata ad incidere in modo radicale sulla struttura del processo civile e sul ruolo dei soggetti che vi prendono parte al fine di
trasformarlo in un razionale procedimento di ricerca partecipata della verità e del diritto.
Da parte di alcuni si è detto che le preclusioni costituiscono un
sistema vessatorio per i difensori e che detto sistema sarebbe in contrasto con il carattere disponibile dei diritti che del giudizio civile
formano oggetto introducendo momenti di autoritarismo nel meccanismo processuale.
In realtà si tratta di una inversione di tendenza che restituisce
significato alla presenza del giudice lungo tutto l’arco della procedura recuperando, al contempo, la autorevolezza del giudice e la autoresponsabilità delle parti poiché il processo assolve ad una pubblica funzione anche quando sono privati i diritti in contesa.
Già nei lavori preparatori si è a lungo dibattuto tra fautori di
preclusioni c.d. forti, cioè fissate dal legislatore e fautori di preclusioni c.d. deboli, cioè fissate dal giudice.
Si può dire che, ispirandosi ad un criterio di ragionevolezza, la
novella, al fine di ridurre i tempi eccessivamente lunghi dei processi civili stroncando le tattiche meramente dilatorie e diversive e di
consentire una piena rivalutazione del processo di primo grado, vuole che tutto o quasi tutto sia definito nella fase preparatoria in una
rapida e rigorosa successione di momenti predeterminati (fatti costitutivi della domanda; eccezioni in senso stretto e domande ricon351
venzionali) e che i contendenti fin dalle prime battute siano impegnati in un serio e serrato contraddittorio su un oggetto dai confini
esattamente individuati e sotto la effettiva direzione del giudice.
Abbandonato lo schema astratto ed utopistico della unica udienza di trattazione e ridimensionato il mito dell’oralità, la novella, facendo tesoro delle esperienze derivanti dalla prassi del rito del lavoro, ha puntato realisticamente e razionalmente su un giudizio articolato in più udienze, che ha il suo fulcro nell’onere dell’attore di
esporre nell’atto introduttivo i fatti costituenti le ragioni della domanda (a pena di nullità) e di indicare i mezzi di prova dei quali intende valersi ed i documenti che offre in produzione (a pena di decadenza) e di invitare il convenuto a costituirsi nel termine di 20 (o
10 nel caso di abbreviazione) giorni e nel corrispettivo onere del convenuto di costituirsi almeno 20 giorni prima della udienza fissata
nell’atto di citazione e di proporre, in comparsa di risposta, tutte le
sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, proponendo a pena di decadenza domande riconvenzionali ed eccezioni processuali e di merito non rilevabili di
ufficio, indicando i mezzi di prova e i documenti di cui intende valersi e formulando le proprie conclusioni.
Il sistema delle preclusioni comincia ad individuarsi già esaminando il nuovo testo dell’art. 163 che è rimasto sì in buona sostanza immutato, (l’unica modifica concerne il n. 7), ma che risulta ora
inserito in un contesto (mediante la riforma degli artt. 164, 183 e
189 c.p.c.) che sicuramente postula per la citazione un grado di completezza non minore di quello che, a pena di decadenza, è imposto
per la comparsa di costituzione e risposta. Va sottolineato che la citazione è nulla, per il nuovo testo dell’art. 164, “se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel n. 3 dell’art. 163
ovvero se manca la esposizione dei fatti di cui al n. 4 dello stesso
articolo”; con ciò perseguendosi l’intento di far sì che i fatti posti a
base della pretesa siano enunciati in citazione (naturalmente quelli
principali o costitutivi del diritto e non anche quelli secondari) in
modo che la materia del contendere sia chiara sin dall’instaurarsi
della controversia.
Parallelamente il convenuto deve costituirsi con la comparsa di
risposta che, all’evidente scopo di moralizzare il processo, deve contenere, a pena di decadenza, le domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili di ufficio e la chiamata
352
del terzo, almeno venti giorni prima della udienza di comparizione
fissata in citazione. Ciò al fine di permettere all’attore di prendere
cognizione delle difese avversarie in relazione alle preclusioni dell’art.
183 e di consentire al Giudice Istruttore (al quale il Cancelliere trasmette il fascicolo subito dopo la iscrizione a ruolo) una piena conoscenza della controversia prima dello svolgimento dell’udienza di
comparizione.
La possibilità del differimento della data della prima udienza
prevista dall’ultimo comma dell’art. 168 bis c.p.c. si inquadra nella
logica perseguita dalla novella, che non è quella dell’accelerazione ad
ogni costo ma quella di evitare che il processo parta con il piede sbagliato di una udienza di mero rinvio, che sarebbe intrinsecamente
diseducativa.
Così come nel processo del lavoro, anche nel rito ordinario riformato la prima udienza di trattazione della causa viene ad assumere una importanza centrale ed un ruolo decisivo, tanto che il prof.
Andrea PROTO PISANI, in occasione di un convegno di studi svoltosi a Rovigo, ha affermato che “il successo o il fallimento della
riforma sono indissolubilmente legati al funzionamento o no di questa udienza”.
In estrema sintesi la prima udienza dovrebbe avere la funzione
di consentire la fissazione tendenzialmente definitiva del thema decidendum (domande ed eccezioni) e del thema probandum (fatti controversi o comunque bisognosi di prova). La evidente collaborazione
richiesta dalla legge a tutte le parti del processo per assicurare detta tendenziale fissazione definitiva dovrebbe avere l’effetto di una
sensibile semplificazione e riduzione della lite alle questioni di fatto
e/o di diritto controverse e correlativamente di un concreto e rilevante aumento delle conciliazioni giudiziali e stragiudiziali.
Nella prima udienza di trattazione le parti debbono comparire
personalmente, ovvero a mezzo di procuratore generale o speciale,
che deve essere a conoscenza dei fatti di causa, vuoi per consentire
al giudice l’esperimento del tentativo di conciliazione “quando la natura della causa lo consente”, vuoi per rendere il libero interrogatorio obbligatorio in limine litis. La mancata comparizione alla udienza, così come le risposte rese nel libero interrogatorio o la mancata
conoscenza, senza gravi ragioni, dei fatti della causa da parte del
procuratore, sono valutabili dal giudice “ai sensi del secondo comma dell’art. 116”.
353
Può rilevarsi al riguardo che la forzata analogia con il modello
del processo del lavoro, con la obbligatoria presenza delle parti per
il libero interrogatorio, (peraltro giustificato dalla specialità dei giudizi di lavoro e comunque svalutato anche nell’ambito di detto rito
con l’avallo della Cassazione), non corrisponde sempre e pienamente alle effettive necessità del processo ordinario di cognizione, specie ove si rammenti il carico di procedure mediamente pendenti nei
tribunali ed il fatto che, proprio in ossequio ad una precisa disposizione della legge di riforma, almeno metà dei giudici addetti al settore civile tratteranno solo i giudizi pendenti.
Sarebbe forse stato più opportuno rimettere al prudente apprezzamento del giudice la decisione sulla effettiva necessità ed utilità del ricorso a detto strumento.
Il riferimento dell’art. 183 al secondo comma dell’art. 116 viene
inteso prevalentemente nel senso che le risposte rese dalle parti in
sede di libero interrogatorio saranno valutabili dal giudice come “argomenti di prova”, cioè come strumenti logico-critici per la valutazione di altre prove, e saranno, quindi, inidonei di per sé a fondare
la decisione e la motivazione in fatto (in senso contrario: da ultimo
PROTO PISANI secondo cui la probatio inferior propria degli argomenti di prova rileverebbe nel senso della loro inidoneità a giustificare il giudizio di superfluità ex art. 209 c.p.c. a fronte di richieste
di prove contrarie).
Il tentativo di conciliazione è solo eventuale, ad esempio non
sarà possibile farvi ricorso in materia di status o di diritti indisponibili. Esso è rinnovabile in corso di causa. Il riferimento ai fatti allegati va interpretato nel senso che è fatto divieto al giudice di superare il c.d. onere di allegazione che spetta solo alle parti.
Il giudice pò richiedere alle parti i chiarimenti che reputa necessari, ma solo sulla base dei “fatti allegati”, nel senso che il potere dell’ufficio non può estendersi alla ricerca ed alla introduzione di
fatti nuovi, non dedotti dalle parti negli atti introduttivi, ma deve
svolgersi nei limiti dei fatti già dedotti come costitutivi, impeditivi,
estintivi o modificativi dei diritti fatti valere in giudizio. Naturalmente la possibilità di detta richiesta di chiarimenti potrebbe sorgere anche in 2ª udienza dopo la completa esposizione della materia
del contendere, ove le parti modifichino le domande e le conclusioni già formulate mediante memoria autorizzata ove sussistessero giusti motivi.
354
MANDRIOLI ha osservato che una richiesta di chiarimenti effettuata in una udienza successiva alla prima potrebbe comportare
la necessità di nuove allegazioni o eccezioni delle parti, quando ormai tale possibilità è impedita dalle preclusioni verificatesi in prima
udienza. Il problema non è di facile soluzione, si può ritenere che
in tal caso il Giudice Istruttore possa di nuovo concedere i termini
previsti dall’art. 183, senza necessità di ricorrere al meccanismo
dell’art. 184 bis che richiede prove particolari per giustificare l’impedimento.
Detto regime elimina completamente la possibilità di deduzione
dei nova nel corso del giudizio che era stata introdotta dalla novella del ’50. Il vecchio sistema era basato sul disposto dell’art. 134 che
consentiva la possibilità di modificare la domanda e conclusioni e di
proporre nuove eccezioni e nuovi mezzi di prova fino al momento
della rimessione della causa al Collegio.
Con l’esame delle preclusioni relative alle domande ed eccezioni, si introduce uno dei temi più rilevanti della riforma del giudizio
di primo grado che il legislatore ha inteso caratterizzare nel senso
della accelerazione.
Mentre il nuovo sistema si mostra, quanto alle preclusioni istruttorie, assai più blando e permissivo di quello che ispirava la originaria stesura del codice di rito, la novella è tale da imporre un deciso mutamento della prassi che attualmente regola la normale trattazione del processo di cognizione ordinaria.
La materia delle deduzioni di merito e di quelle di rito è ripartita negli artt. 183 e 184. A tale proposito la novella ha voluto privilegiare un netto distacco tra fase preparatoria e fase istruttoria in
modo da consentire alle parti di svolgere le proprie deduzioni istruttorie anche tenendo conto delle difese emerse nel corso della prima
udienza.
All’attore è consentita la deduzione di quelle sole nuove domande che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto nella comparsa di risposta (reconventio reconventionis e domanda di accertamento incidentale) ma
non di domande nuove diverse (ad es. interessi e rivalutazione non
richiesti in citazione con il capitale).
La norma richiama solo le domande nuove proposte dall’attore
poiché il convenuto deve proporre le domande riconvenzionali nella
comparsa di risposta. Ci si chiede quale soluzione adottare per l’ipo355
tesi in cui il convenuto voglia proporre domande originate da quelle dedotte dall’attore in prima udienza (ad es. domanda di accertamento incidentale che sorga a seguito della riconvenzionale dell’attore) e si ritiene che possa soccorrere l’art. 183 comma quinto che
consente la concessione al convenuto di un termine perentorio non
superiore a giorni trenta per replicare alle domande ed eccezioni dedotte dall’attore in prima udienza, interpretando in senso lato il termine “replicare” e non solo come semplice possibilità di difesa nei
confronti dell’attore. Ciò al fine di assicurare una possibilità di difesa ad entrambi. Non manca, peraltro, chi, come il MANDRIOLI, interrompe tale catena delle domande riconvenzionali intendendo il termine “replica” in senso restrittivo come mera difesa.
Domande nuove oltre detti limiti non possono essere prese in
considerazione anche se su di esse vi sia accettazione del contraddittorio e non può, pertanto, trovare applicazione la prassi giurisprudenziale in tal senso formatasi sotto la vigenza del vecchio testo dell’art. 184 che consentiva la possibilità di modificare domande
e conclusioni e di proporre nuove eccezioni e nuovi mezzi di prova
fino al momento della rimessione della causa al Collegio e comunque nel corso del giudizio ove vi fosse accettazione del contraddittorio.
Molto più radicale è la modifica introdotta per le eccezioni, rispetto alle quali viene esclusa ogni possibilità di deduzioni nel corso del giudizio.
In proposito vanno distinte le eccezioni dell’attore da quelle del
convenuto.
1) Attore: l’attore può trovarsi nella necessità di dovere eccepire
nei confronti delle domande riconvenzionali o delle eccezioni proposte dal convenuto nella comparsa di risposta (ad es. eccezione di prescrizione avverso la domanda riconvenzionale del convenuto volta al
pagamento di una somma di denaro). Tali eccezioni sono proponibili dall’attore solo in prima udienza ai sensi dell’art. 183 comma quarto e resta esclusa ogni possibilità di dedurle successivamente.
2) Convenuto: è prevista una limitata facoltà di replica alle domande ed eccezioni proposte dall’attore in prima udienza in conseguenza di quelle dedotte dal convenuto e trattasi di una facoltà da
esercitare al massimo entro il termine perentorio di trenta giorni
(che il giudice deve concedere) concesso dal giudice a norma dell’art.
183 comma quinto che non comporta di per sé deduzione di ecce356
zioni in senso proprio. Si vuole scoraggiare la possibilità di deduzioni meramente dilatorie che potrebbero rallentare il corso del giudizio. Trattasi infatti di un concetto non tecnico difficilmente distinguibile da quello di eccezione. Quanto alle eccezioni in senso
proprio, bisogna distinguere quelle che traggono origine dalle domande proposte dall’attore in citazione, che vanno proposte a pena
di decadenza in comparsa di risposta a meno che non si riferiscano a questioni rilevabili d’ufficio e quelle che siano conseguenza delle domande e delle eccezioni proposte dall’attore in prima udienza
(e quindi in conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto nella comparsa di risposta), che vanno proposte nel termine perentorio concesso dal giudice già visto
per le repliche (ad es. il convenuto eccepisce la interruzione della
prescrizione eccepita dall’attore al credito opposto in controprestazione). La norma tace sulle eccezioni del convenuto che siano conseguenza delle eccezioni dell’attore per permettere parità alle parti
del processo. Entrambe le parti possono precisare e, previa autorizzazione del giudice, modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate.
Anche per detta facoltà di precisazione e modificazione il limite è rappresentato dalla prima udienza o, al massimo, dal termine
di trenta giorni che il giudice può (e non deve come nel caso sopra
riferito della facoltà di replica) concedere ove ricorrano giusti motivi. Tali giusti motivi ricorrono in tutte quelle ipotesi in cui vi sia una
impossibilità oggettiva di modificare o precisare la domanda direttamente in prima udienza, come ad es. nel caso in cui tale eventualità consegua ad una eccezione in senso lato dedotta nella comparsa di risposta dal convenuto costituitosi tardivamente. Se il convenuto eccepisce in udienza all’attore che agisce per la tutela del proprio diritto di proprietà la nullità dell’atto di acquisto, l’attore potrebbe non essere in grado di replicare immediatamente ed avere necessità di valutare la opportunità della modifica della domanda ad
es. asserendo che egli è comunque divenuto proprietario del bene per
maturata usucapione.
La precisazione avviene, quindi, sic et simpliciter; per la modifica occorre, invece, la autorizzazione del giudice.
L’art. 11 del disegno governativo sottoposto all’esame del Parlamento stabiliva che la modifica e la precisazione erano possibili –
inciso che aveva destato notevoli perplessità sia perché si discuteva
357
se dovesse riferirsi solo ai fatti principali o anche a quelli secondari, sia perché, anche riferendolo solo ai fatti principali, appariva sempre molto ristretta l’area nell’ambito della quale poteva effettuarsi la
modifica della domanda – “ferma la allegazione dei fatti storici”, intendendo imporre alle parti come obbligatoria la deduzione dei fatti principali, cioè costitutivi, impeditivi, modificativi ed estintivi del
diritto o rapporto giuridico dedotto, lasciando alla successiva disponibilità delle parti solo l’indicazione dei fatti secondari, in genere
svincolati dall’onere di allegazione ex art. 112 e rilevabili anche di
ufficio.
Si è osservato, in proposito (VERDE) che la proposta governativa era tale da non consentire mai la mutatio libelli, essendo per
questa necessaria la allegazione di fatti nuovi principali, e da vincolare la emendatio libelli al rispetto delle allegazioni in fatto compiute negli atti introduttivi. Si tratteggiava in tal modo un sistema fortemente condizionato dal c.d. principio di eventualità. Essendo stato rilevato che la inserzione del citato inciso complicava ulteriormente il tema già complicato della emendatio libelli (TARZIA) e che
una preclusione così rigida impediva ogni possibilità di recupero in
caso di errori commessi nella difesa tecnica, nell’iter parlamentare
del provvedimento il riferimento ai fatti storici è venuto meno e la
configurazione della fase c.d. preparatoria risulta profondamente mutata. Un riferimento ai fatti è comunque rimasto come limite alla
possibilità di chiedere chiarimenti e come elemento della citazione
(163 n. 4). Il primo rilievo da fare al riguardo è che la riforma come già nel rito del lavoro, ha recepito il criterio della c.d. “sostanziazione”, dando rilevanza assoluta ai fatti allegati dalle parti, piuttosto che alla individuazione del diritto sulla cui base la tutela giurisdizionale è richiesta poiché i fatti dedotti possono sorreggere vari tipi di tutela e, quindi, l’identità dei fatti può permettere alterazioni di tutela delle quali è necessario verificare la ammissibilità e
si è richiamato il caso della variazione del titolo della responsabilità
contrattuale un arricchimento senza causa.
Si può però dire che la scelta legislativa adottata ha finito per
introdurre un sistema che di più elastico ha solo la possibilità riconosciuta alle parti, previa autorizzazione del giudice di modificare
domande, eccezioni e conclusioni all’esito della 1ª udienza.
L’art. 183, sia che parli di precisazione che di modificazione, fa
riferimento alla emendatio libelli, dovendosi escludere che lo ius va358
riandi possa essere interpretato nel senso di (mutatio libelli) consentire la trasformazione della domanda originaria in una domanda completamente nuova. E ciò anche in coerenza con l’art. 183 quarto comma che limita la possibilità di domande nuove dello attore esclusivamente a quelle originate dalle difese del convenuto (in tal senso:
ATTARDI-MANDRIOLI).
Si può ritenere che, nell’ambito della stessa categoria (emendatio) c’è precisazione se le parti si limitano a chiarire quanto è già
implicito o oscuro nella domanda ed a specificare ciò che prima era
generico integrando la narrazione della vicenda e modifica se, pur
mantenendo ferma la domanda, della quale pertanto restano fermi
petitum e causa petendi, le parti deducono fatti nuovi a sostegno della medesima (ciò a seguito della soppressione dell’inciso “ferma la
allegazione dei fatti storici” contenuto nel testo originario), come ad
es. nel caso già citato della tutela della proprietà venga allegata la
usucapione in luogo della compravendita o della accessione originariamente indicata come fatto costitutivo della proprietà ovvero, ma
il caso è discusso, nell’ipotesi in cui l’attore abbia agito per il pagamento di una somma a titolo di appalto o contratto d’opera e, di
fronte alla eccezione di nullità del contratto, modifichi la domanda
in quella di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. Naturalmente,
comportando il riferimento all’art. 2041 la necessità della allegazione di un fatto nuovo, e cioè l’individuazione del se e in che misura
vi sia stato arricchimento dell’altra parte, occorre in tal caso l’autorizzazione del giudice versandosi in tema di modifica e non di semplice precisazione della domanda.
Non manca, peraltro, chi (CONSOLO) ritiene che la allegazione
di fatti principali nuovi comporti sempre una mutatio libelli che dovrebbe sempre ritenersi ammissibile sulla base della nuova formulazione dell’art. 183 con l’autorizzazione del giudice.
Sembra, però, preferibile ritenere che il mutamento dei fatti costitutivi del diritto integri un’ipotesi di emendatio libelli, purché restino inalterati petitum e causa petendi. Ad es. chi agisce in rivendica, agisce a seguito della lesione del diritto di proprietà e poco importa se esso sia sorto per usucapione o per compravendita. Se il convenuto eccepisce la nullità dell’atto di vendita e l’attore modifica la
domanda asserendo che la proprietà derivi da usucapione non si ha
variazione della causa petendi che resta la violazione del diritto di
proprietà. MANDRIOLI ritiene, invece, che la modifica o la precisa359
zione della domanda non potrebbe mai comportare la allegazione di
fatti nuovi, che dovrebbero restare preclusi dalla prima barriera che
scatterebbe con l’atto di citazione e la comparsa di risposta. E una
conferma si avrebbe nel 183/3 che consente al giudice di chiedere
chiarimenti e di indicare le questioni rilevabili di ufficio sulla base
dei fatti allegati. Se, naturalmente, possono essere enunciati fatti nuovi principali, purché non modifichino la causa petendi, a fortiori possono sempre dedursi fatti nuovi secondari. Anzi, secondo l’ATTARDI,
la deduzione dei fatti nuovi secondari non sarebbe neppure coperta
dalle preclusioni dell’art. 183 e potrebbe essere fatta anche dopo la
prima udienza poiché le nuove deduzioni non inciderebbero sull’identità delle domande ed eccezioni, alle quali sole le disposizioni in parola fanno riferimento. Sarebbe preferibile, però, ritenere che la deduzione dei nuovi fatti secondari comporti sempre almeno una precisazione della domanda che, sia pure senza la autorizzazione del giudice, è consentita nei limiti previsti dalla norma in esame.
La autorizzazione del giudice è necessaria, ma, a differenza del
rito del lavoro, essa non è correlata alla presenza di gravi motivi. Ne
discende che sarà rimessa all’apprezzamento del giudice la concessione o meno della autorizzazione in tutti i casi in cui le parti intendano sviluppare in senso utile e consapevolmente responsabile la materia del contendere senza dar vita ad attività meramente dilatorie e non
diligenti.
La modifica dell’art. 183 si occupa anche della eventualità che
l’attore debba chiamare in causa un terzo ex art. 106 c.p.c.
La completa riformulazione dell’art. 183 e, più in generale, l’introduzione del nuovo sistema di preclusioni, hanno reso necessaria
la modifica dell’art. 189, per mantenere fermo il principio della immutabilità delle conclusioni formulate negli atti introduttivi o, al massimo, adottate nella prima udienza di trattazione. La norma precisa
che la precisazione delle conclusioni, sempre necessaria comunque
avvenga la rimessione della causa al Collegio, deve essere fatta “nei
limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’art.
183”, per cui sarà precluso alle parti non solo mutare ma anche modificare le conclusioni già prese.
Esse potranno omettere, in tutto o in parte, quelle formulate in
precedenza.
Muovendo dal presupposto che il divieto di domande nuove in
primo grado risponde nel nuovo sistema ad un interesse di ordine
360
pubblico, e non più privato, ossia garantire l’ordinato svolgimento
del rapporto processuale, è escluso che sia consentito prendere in
considerazione nuove conclusioni per implicita accettazione del contraddittorio, con conseguente possibilità di proporre una eccezione
di decadenza rilevabile di ufficio.
La domanda, la eccezione o la conclusione nuova dovranno essere dichiarate inammissibili dal giudice con sentenza definitiva.
Art. 190: i termini per lo scambio delle comparse conclusionali e
delle memorie di replica sono perentori e decorrono dal momento in
cui il G.I. rimette la causa al Collegio (60 gg. e 20 rispettivamente).
Art 190 bis: Per le cause decise in funzione di giudice unico è
prevista la mancanza della discussione orale, (essa è possibile solo
su richiesta di una delle parti) ed è desueta anche nel procedimento con devoluzione al Collegio. Lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica avviene subito e la sentenza sarà
depositata entro 60 gg. dalla scadenza del termine per il deposito
delle repliche.
Persistendo i grandi numeri di cause assegnate ai giudici civili,
vi è rischio che la dilatazione dei tempi si sposti prima della fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni, non essendovi nella riforma sanzione per la determinazione della data di tale udienza.
Ciò è consentito purché l’esigenza della chiamata in causa sia sorta a seguito delle difese svolte dal convenuto e l’autorizzazione alla
chiamata sia richiesta alla prima udienza, a pena di decadenza.
In esito a questa necessariamente incompleta trattazione del tema delle preclusioni (il cui rigore può essere temperato dal meccanismo che l’art. 184 bis ha mutuato dall’art. 294 2° e 3° comma), può
affermarsi che rispetto a tutte le situazioni attuali nelle varie fasi del
giudizio escono fortemente modificati il ruolo del giudice e quello
dell’avvocato, entrambi chiamati ad un compito fortemente responsabilizzato e valorizzato.
Già nella fase introduttiva il ruolo del difensore è reso assai più
impegnativo obbligandolo a “vuotare il sacco” immediatamente con
ridotte possibilità di rimediare ad errori od omissioni con una conseguente accresciuta responsabilità nei confronti del cliente.
Anzi c’è una fase preprocessuale in cui il difensore è il protagonista assoluto nel senso che deve essere sempre più attento alla necessità di filtrare le controversie e far sfociare in un giudizio solo quelle vertenze che appaia impossibile comporre in via stragiudiziale.
361
Anche il giudice è chiamato ad una consapevole ed attenta direzione dell’udienza che presuppone la conoscenza preventiva dei fatti e degli scritti di causa e può a questo punto auspicarsi che le notorie pendenze dei nostri uffici giudiziari non si comportino come
un peso insopportabile che faccia naufragare in partenza ed in modo irrimediabile la riforma del codice di rito.
362
IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO: LA PRIMA UDIENZA
E LE PRECLUSIONI (*)
Relatore:
dott. Raffaele FRASCA
pretore della pretura circondariale
di Monza
SOMMARIO: 1. Premessa e considerazioni generali sulla funzione della prima udienza di
trattazione. - 2. Le ipotesi nelle quali la prima udienza di trattazione potrà
non coincidere con l’udienza di prima comparizione del giudizio. - 3. Attività preliminari alla fissazione del thema decidendum. - 3.1. L’interrogatorio libero. - 3.2. Conseguenze dell’omissione dell’interrogatorio libero. - 3.3.
Valore delle dichiarazioni rese nell’interrogatorio libero e della mancata comparizione. - 3.4. Cenni sul secondo comma dell’art. 183 c.p.c. - 3.5. Il tentativo di conciliazione. - 4. Le preclusioni e la prima udienza di trattazione. - 5. Preclusioni riguardanti l’attore per i fatti principali relativi alla domanda e loro correlazione col potere di modificazione della domanda. - 6.
Preclusioni per l’attore relativamente ai fatti secondari. - 7. Preclusioni per
l’attore riguardo alla reconventio reconventionis ed alle controeccezioni. - 8.
Preclusioni per l’attore riguardo alla chiamata di un terzo. - 9. Preclusioni
alle allegazioni per il convenuto. - 10. Le eccezioni di merito in senso lato
del convenuto avverso la domanda introduttiva dell’attore. Il potere di precisazione e modificazione delle eccezioni. - 11. La replica dell’attore alle eccezioni di merito in senso lato del convenuto. La replica del convenuto alle domande ed eccezioni “conseguenziali” dell’attore. Le repliche alle precisazioni e modificazioni di cui all’ultimo inciso del quarto comma dell’art.
183. - 12. Ancora sulla distinzione fra allegazione e rilevazione dell’eccezione di merito in senso lato. Preclusione della loro allegazione e preclusione della loro rilevazione. - 13. Preclusione del potere di contestazione dei
fatti e assenza di preclusione per le c.d. mere difese in diritto. - 14. Il terzo comma dell’art. 183. - 15. Le ipotesi di fissazione del thema decidendum
tramite trattazione scritta previste dall’art. 183 e l’art. 180. - 16. Quadro riassuntivo delle preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione e comunque alla fase di fissazione del thema decidendum. - 17. Possibili allegazioni successive al maturare delle preclusioni e rimessione in termini. - 18.
Rilevabilità d’ufficio della violazione delle preclusioni. - 19. Il problema
dell’aggiramento delle preclusioni mediante l’instaurazione di altro giudizio.
- 20. Cenni sui rapporti fra art. 183 e art. 189 c.p.c.
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 17 al 21 maggio 1993
363
1. Premessa e considerazioni generali sulla funzione della prima udienza di trattazione
I. – Il tema della mia relazione comporta l’ovvia assunzione, come punto di riferimento principale dell’indagine che modestamente
verrò conducendo, della norma dell’art. 183 del c.p.c. novellato, la
quale è espressamente intitolata alla “prima udienza di trattazione”.
Tuttavia, in ragione del fatto che il tema dell’indagine è stato collegato alle preclusioni, come del resto è imposto dallo stesso contenuto della norma dell’art. 183, l’indagine non potrà prescindere da
numerosi excursus sull’interpretazione di altre norme della riforma,
i quali si paleseranno necessari in taluni casi proprio per una corretta esegesi dello stesso art. 183, in altri per evidenziare le implicazioni obbligate dei risultati acquisiti con tale esegesi, sempre con
riguardo alla ricostruzione del sistema delle preclusioni nel nuovo
rito.
II. – Ciò premesso, credo certamente di iniziare col dire cosa ovvia, ma pur sempre degna d’essere rimarcata [lo fa, d’altro canto, la
dottrina: secondo CHIARLONI (Le riforme del processo civile (a cura
di S. CHIARLONI), Bologna, 1992, p. 162) la norma “costituisce uno
degli snodi fondamentali della Novella”; secondo PROTO PISANI (La
nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, p. 130) “il successo o il fallimento della riforma sono indissolubilmente legati al funzionamento o no” dell’udienza ex art. 183; secondo TARUFFO (AUTORI VARI, Le riforme della giustizia civile (a cura di M. TARUFFO),
Torino, 1993, p. 252) l’art. 183 è “il fulcro della riforma”; per LUISO (in CONSOLO– LUISO-SASSANI, La riforma del processo civile,
Milano, 1991, p. 82) “la modifica dell’art. 183 costituisce uno dei punti più qualificanti della riforma”], affermando che il nuovo art. 183
rappresenta a mio avviso la norma che costituisce il “cuore” della
riforma del processo civile che, dopo la nota lunga e faticosa gestazione, ha visto finalmente la luce con la l. 353/90.L’importanza della norma discende dal suo profilo funzionale nel processo riformato. Il contenuto della norma all’esame – come è pacifico fra tutti i
commentatori della riforma – è diretto, infatti, a regolare in via diretta o per implicazioni i modi nei quali si fissa definitivamente (salve le eccezioni di cui si dirà) il c.d. thema decidendum della controversia, cioè il quadro dei fatti che dovranno essere considerati in fun364
zione dell’oggetto della decisione, sia in quanto identifichino tale oggetto, sia in quanto, pur senza identificarlo, facciano legittimamente parte del quadro dei fatti rilevanti per la decisione su di esso.
Non mi sembra corretto, invece, attribuire alla norma anche la
funzione di fissazione del c.d. thema probandum, come vorrebbe una
pur autorevole dottrina (PROTO PISANI, op. e loc. cit.). Come ho altrove osservato (si veda il mio commento all’art. 184 nuovo testo, in
D’AIETTI-FRASCA-MANZI-MIELE, La riforma del processo civile (Il
giudizio di primo grado), Milano, 1991, p. 162 e seg.) e come emergerà dalle notazioni che verrò svolgendo, la funzione di definitiva fissazione del thema probandum può, sia pure eventualmente, collocarsi
in un momento successivo alla prima udienza di trattazione.
È stato esattamente notato (dal TARUFFO, op. cit., p. 252), inoltre, cogliendo le implicazioni che il cennato profilo funzionale della
norma comporta sul piano della teoria generale del processo e con
l’occhio tipico del comparatista, che essa viene ad assolvere – sia pure secondo uno dei modelli astrattamente possibili (all’uopo, non v’è
che da rimandare alle diffuse considerazioni dello stesso TARUFFO,
op. cit., pp. 235 e segg.) – ad un’esigenza che la moderna dottrina
processualcivilistica individua come essenziale perché il processo civile sia un meccanismo idoneo a svolgere al meglio la sua funzione,
cioè l’esigenza dell’esistenza di una fase preparatoria, nella quale, tramite la collaborazione delle parti e l’intervento del giudice abbiano
a precisarsi gli effettivi termini della controversia, sui quali dovrà
avere luogo eventualmente l’istruzione probatoria e poi la decisione.
Siffatta esigenza era stata – com’è noto – tenuta presente dal legislatore del c.p.c. del 1940, nel cui impianto originario e particolarmente nella struttura delle norme degli artt. 183 e 184 era sicuramente presente un modello di fase preparatoria, tanto che la Relazione del Guardasigilli sul codice espressamente ne discorreva (si
veda la citazione fattane dal PROTO PISANI, op. e loc. cit.). La famigerata novella del 1950, invece, aveva determinato la sostanziale
abolizione nell’impianto del c.p.c. della fase preparatoria, attraverso
la riscrittura degli articoli 183 e 184 nel modo che conosciamo. A
sua volta la novella del 1973 sul processo del lavoro, pur ponendosi
– com’è altrettanto noto – in un’ottica opposta a quella del processo
civile ordinario “sconvolto” dalla novella del 1950, sostanzialmente
non conteneva la previsione di una vera e propria fase preparatoria
(per tutti in questo senso si veda TARZIA, op. cit., p. 87), in quanto
365
nel “calderone” della nota norma dell’attuale art. 420 c.p.c., almeno
sulla carta (che’ la prassi si è orientata per la forza delle cose a distinguere al suo interno varie successive fasi) non era prevista una
fase di preparazione distinta da quella di istruzione probatoria.
III. – Rispetto alla tecnica usata dal legislatore della novella del
1990 non sono mancate le critiche per così dire di “fondo” al modello di fase preparatoria prescelto. Fra le due alternative possibili
di modello di fase preparatoria, cioè quello c.d. “a contraddittorio libero” e quello “a binario rigido” (tali definizioni, che mi sembrano
sufficientemente descrittive, sono del TARUFFO: op. cit., pp. 246247), l’art. 183 rappresenta senza dubbio un’applicazione della seconda. Il modello di fase preparatoria “a contraddittorio libero”, infatti, si articola attraverso la previsione di una fase preparatoria nella quale le attività delle parti funzionali alla fissazione del tema della decisione sono lasciate alla loro libera determinazione, senza che
il legislatore regoli le scansioni del loro espletamento in relazione alla diversa tipologia che le attività lato sensu difensive possono assumere.Il legislatore si preoccupa solo di fissare il momento processuale fino al quale le parti possono svolgere attività di allegazione,
senza neppure – se del caso – il vincolo del divieto di mutamento
della domanda. Si prevede, come correttivo della massima libertà
dell’attività di allegazione delle parti, un ampio potere direzionale del
Giudice, a contenuto eminentemente discrezionale (nel senso in cui
si deve parlare di discrezionalità nel processo civile: FABBRINI, Potere del giudice, voce dell’Enciclopedia del diritto, vol. XXXIV, Milano, 1985, p. 721).
Viceversa, il modello di fase preparatoria “a binario rigido” è
contrassegnato dalla regolamentazione da parte del legislatore delle
scansioni delle varie attività di allegazione possibili nel quadro generale dell’esercizio del diritto di azione e di difesa delle parti, secondo precise modalità temporali e con la riduzione al minimo del
potere discrezionale del Giudice in proposito.
L’uno e l’altro modello di fase preparatoria sono – come è pacifico – correlate ad un sistema processuale imperniato sull’applicazione di quel principio di tecnica processuale che si denomina “principio di preclusione” (al contrario, come dimostra il processo del lavoro, non v’è correlazione sotto il profilo inverso, potendo concepirsi un sistema processuale che accolga il principio di preclusione pur
366
senza prevedere una fase preparatoria). Il principio di preclusione,
quando si iscrive in un sistema processuale che preveda una fase preparatoria, implica la “divisione della fase di trattazione della causa
in un primo momento, dedicato all’allegazione dei fatti, ed in un secondo momento dedicato alla prova di quelli, fra i fatti allegati, che
siano controversi” (così, per tutti, LUISO, op. e loc. cit.), con la conseguenza che il processo, una volta superato quel primo momento
non può – salvo casi eccezionali – regredire ad esso e le varie attività di allegazione in fatto non possono più essere compiute. Mentre però nel modello di fase preparatoria “a contraddittorio libero”
la preclusione scatta solo alla fine della fase preparatoria, in quello
“a binario rigido”, la distinzione da parte del legislatore delle varie
tipologie di attività di allegazione importa che la preclusione sia prevista in differenti momenti rispetto ad ognuna di esse.
Sotto l’angolo di visuale della parte l’accoglimento dell’uno come
dell’altro modello di fase preparatoria, comporta sempre un temperamento delle conseguenze che l’accoglimento in modo “assoluto” del
principio di preclusione comporta in ordine all’onere di allegazione
(come a quello delle deduzioni probatorie, ove il principio di preclusione sia accolto e si riguardi con riferimento all’onere della loro formulazione) e che si esprimono, con una formula risalente nella dottrina del processo civile, cioè quella del “principio di eventualità” (A.
SEGNI, Il principio di eventualità e la riforma del processo civile, in
Studi Sassaresi, 1939, p. 71 e segg., riprodotto in Scritti giuridici, I,
Torino, 1965, p. 338 e segg.; più di recente si vedano: PROTO PISANI, In tema di prova nel processo del lavoro: temperamenti al principio di eventualità, in Foro Italiano, 1981, I, c. 2402 e Lavoro (Controversie individuali in materia di), voce dell’Appendice al Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1983, pp. 104 e segg. dell’estratto; CONSOLO,
Il cumulo condizionale di domande, Padova, 1983, I, p. 346 e segg.).
Infatti, l’esistenza in un ordinamento processuale civile del principio di preclusione, come avvertiva già la Relazione al c.p.c. del 1940
(n. 24), comporta sempre il rischio che “le parti, per sfuggire al pericolo di non essere in tempo a far valere argomenti che poi nel corso del dibattito potrebbero rivelarsi appropriati, siano costrette a premunirsi in anticipo, alla cieca, contro le possibili repliche dell’avversario e a sovraccaricare fin da principio la propria difesa con una
quantità di ipotesi anche contraddittorie tra loro, l’una per l’evento
che l’altra possa essere respinta (principio di eventualità)”.
367
Il principio di eventualità, ove l’operare delle preclusioni non sia
in qualche modo rimandato all’esito dello svolgimento di un certo
contraddittorio fra le parti e si ricolleghi agli atti introduttivi, ha,
sotto tale profilo, l’inconveniente di costringere le parti a dire non
solo “tutto e subito”, ma anche, per necessità, a dire una serie di cose che non si sa quanto potranno servire all’organizzazione della vicenda processuale, prevedendo tutte le possibili obiezioni della controparte, anche quelle che – a posteriori – essa non farà. È quanto
accade (o dovrebbe accadere, almeno a stare ad un’interpretazione
alla lettera del combinato disposto degli artt. 415, 416 e 420) nel modello processuale del rito del lavoro, dove le preclusioni dell’onere di
allegazione (e delle stesse deduzioni probatorie) sono tendenzialmente
operative fin dagli atti introduttivi, col solo correttivo del quinto comma dell’art. 420 c.p.c. (si vedano i citati scritti del PROTO PISANI).
IV. – Si comprende, dunque, che un sistema processuale che accolga il principio di preclusione deve ragionevolmente immaginare
correttivi, temperamenti al principio di eventualità e la previsione
di una fase preparatoria si mostra pienamente idonea allo scopo, sia
che venga organizzata secondo il modello a “contraddittorio libero”,
sia che venga realizzata secondo il modello “a binario rigido”. Nel
primo caso il temperamento del principio di eventualità emerge
dall’assicurazione di uno spazio temporale fino al momento in cui
detta fase si esaurisce e scattano le preclusioni, durante il quale è
lo stesso svolgimento del contraddittorio sotto il controllo del giudice a sfrondare la materia del contendere delle questioni inutili o
pacifiche e, quindi, a realizzare il temperamento del principio di
eventualità. Nel secondo caso è la previsione nell’ambito della fase
preparatoria di momenti successivi di operatività delle preclusioni
in relazione alla diversa tipologia delle difese delle parti sotto il profilo dell’onere di allegazione a realizzare quel temperamento. Nel
primo caso le parti non devono dire tutto e subito “alla cieca”, cioè
divinando quelle che potrebbero essere le obiezioni avversarie, ma
hanno uno spazio di tempo per farlo e soprattutto possono farlo alla luce dello svolgimento del contraddittorio. Nel secondo caso le
parti non debbono parimenti dire tutto e subito, ma nei vari momenti della scansione della fase preparatoria debbono dire talune
cose e lo fanno sempre al lume dello svolgimento del contraddittorio, il quale avrà a poco a poco determinato l’eliminazione di una
368
serie di questioni che in via di eventualità apparivano in limine litis configurabili.
V. – Ora, fra i due modelli di fase preparatoria innanzi indicati
è certo che il legislatore della novella del 1990 ha scelto quello “a binario rigido”.
La scelta è stata criticata da parte della dottrina (si vedano: TARUFFO, op. cit., pp. 249 e segg. e specialmente p. 252; CHIARLONI,
op. cit., pp. 162 e seg.; anche TARZIA, op. cit., passim, mostra qualche insoddisfazione per la tecnica usata nella redazione dell’art. 183).
A mio sommesso avviso, questa critica non può essere condivisa, laddove attacca l’impianto generale della norma dell’art’183, cioè
proprio il fatto che si sia scelta la fase preparatoria a “binario rigido”. Questo convincimento mi deriva non tanto da una sfiducia sulla funzionalità dell’altro modello di fase preparatoria e nemmeno da
una sorta – per così dire – di opzione ideologica contraria all’implicazione necessaria di quest’altro modello, che è quella di affidare al
giudice un rilevante “potere discrezionale” nella sua direzione, bensì dall’impressione che il modello di fase preparatoria “a contraddittorio libero” sarebbe stato dall’attuale classe forense e da noi stessi
giudici difficilmente compreso.
Mi spiego: se il legislatore non avesse accolto il modello a “binario rigido”, distinguendo espressamente od implicitamente anche
con una certa punta di eccessivo furore didascalico le varie attività
difensive ed i momenti delle loro preclusioni, ho l’impressione che
gli operatori del processo civile, abituati per anni al lassismo del vecchio processo di cognizione ordinario avrebbero poco sentito l’impegno che l’introduzione di un sistema di preclusioni, sia pure destinate a scattare solo alla fine di una fase preparatoria libera, impone sia al giudice che all’avvocato. Invece, la sanzione legislativa di
momenti di preclusione distinti in relazione alle varie tipologie di difesa mi pare che costringerà giudici e avvocati ad una maggiore attenzione nella gestione della fase preparatoria, proprio per l’elevato
tecnicismo delle varie sue scansioni.
Critiche sono state formulate (sempre dalla stessa dottrina) anche alla concreta modalità con cui il legislatore, una volta scelto il
modello di fase preparatoria “a binario rigido”, lo ha analiticamente regolato. Il legislatore sarebbe stato presuntuoso ed adottando –
indubbiamente – una tecnica di regolamentazione piuttosto minu369
ziosa avrebbe finito col dimenticare di regolare una serie di possibili evenienze e nel contempo avrebbe compiuto una scelta puramente illusoria, perché alla prova della prassi non reggerebbe, cioè
gli operatori del processo civile finirebbero per sabotarla. A tale critica rispondo, sempre sommessamente: a) che la regolamentazione
minuziosa è opportuna proprio – mi si perdoni – per il suo valore
didascalico, in quanto costringerà – come ho già detto – gli operatori ad una maggiore attenzione verso la tecnica del processo civile;
b) che con un poco di buona volontà eventuali lacune sono colmabili con una coerente applicazione o dell’analogia o dell’istituto della rimessione in termini, di cui all’art. 184-bis; c) che il rischio del
“sabotaggio” della riforma da parte degli operatori sarebbe stato immanente anche nel caso in cui fosse stato adottato un modello meno minuzioso ed anzi sarebbe stato finanche maggiore.
VI. – Detto questo, la mia premessa può considerarsi esaurita e
posso passare ad una breve approssimativa descrizione del contenuto della norma dell’art. 183. La norma prevede in primo luogo un’attività preliminare doverosa, cioè l’interrogatorio libero delle parti
comparse ed all’esito l’eventuale esperimento del tentativo di conciliazione. In secondo luogo, esaurite queste attività si prevede l’esercizio da parte del giudice dell’eventuale potere di richiesta di chiarimenti alle parti e di indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio da
trattarsi (comma terzo), che, peraltro, può aver corso anche successivamente. In terzo luogo, si regolano (commi quarto e quinto) le facoltà delle parti in ordine alla fissazione definitiva del quadro dei
fatti relativi all’oggetto della decisione (thema decidendum) ed all’eventualità della proposizione di altre domande lato sensu conseguenziali allo sviluppo del contraddittorio. A questo scopo la norma prevede come regola uno svolgendo concentrato ed orale della prima udienza (in ossequio ai chiovendani principi della concentrazione e della
oralità). Ad esso può seguire una fase di trattazione scritta.
VII. – Deve rilevarsi che l’art. 183 è applicabile direttamente ai
giudizi di competenza del tribunale da trattarsi secondo il rito ordinario, siano essi da decidersi dal giudice unico ovvero dal collegio.
Ma la norma è anche integralmente indirettamente applicabile al giudizio pretorile da trattarsi con il rito ordinario. Ciò, in forza del rinvio di cui all’art. 311 c.p.c.
370
Viceversa non appare applicabile ai giudizi avanti al conciliatore (e non lo sarà nei giudizi avanti all’istituendo giudice di pace),
poiché la prima udienza in essi è disciplinata espressamente dal nuovo art. 320 c.p.c.
2. Le ipotesi nelle quali la prima udienza di trattazione potrà non coincidere con l’udienza di prima comparizione del giudizio
Prima di passare all’esame in concreto del “come” risulta disciplinata dall’art. 183 la prima udienza di trattazione, mi pare opportuno avvertire che non v’è un rapporto di identificazione necessaria
fra l’udienza di prima comparizione del giudizio di primo grado e la
prima udienza di trattazione disciplinata nell’art. 183 c.p.c. Senza
scendere ad un esame dettagliato delle varie ipotesi in cui potrà non
esservi coincidenza fra l’una e l’altra udienza, mi limito qui a segnalare quali siano queste ipotesi, la cui individuazione è stata fatta esaurientemente dal PROTO PISANI (La nuova disciplina, cit., p.
148 e segg.). Avverto, però, che mi limito qui a segnalare solo le ipotesi in cui la scissione fra udienza di prima comparizione e prima
udienza di trattazione discenda da previsioni di legge, mentre riferirò in prosieguo dell’eventuale esistenza di ipotesi di scissione discendenti da esercizio di potere discrezionale del giudice.
L’individuazione delle ipotesi nelle quali potrà avere luogo un
rinvio della prima udienza di trattazione appare importante in ragione anzitutto del ruolo centrale di essa nel nuovo modello processuale ed in secondo luogo (come è stato segnalato: PROTO PISANI,
op. e loc. cit.) anche perché talune disposizioni ricollegano alla prima udienza di trattazione il termine per la rilevazione di eccezioni
di rito, come quella di incompetenza per materia e valore (questione su cui mi permetto di rinviare al mio commento in: La riforma
del processo civile, cit., pp. 25 e seg.).
Le ipotesi in questione afferiscono, anzitutto, alle varie ipotesi di
nullità della citazione emergenti dalla norma del nuovo art. 164, le
quali, schematizzando al massimo il discorso (per approfondimenti
ci permettiamo di rinviare al nostro commento, op. da ult. cit., pp.
57 e segg; ivi anche la spiegazione delle modalità di fissazione della
nuova udienza ex art. 183 e del tutt’altro che chiaro ultimo comma
dell’art. 164), sono rappresentate: a) dal rilievo d’ufficio della nullità
371
della citazione ai sensi dell’art. 164 nuovo testo, per vizi relativi alla
vocatio in ius, nell’ipotesi che il convenuto non si sia costituito; b)
dal rilievo da parte del convenuto costituito della nullità della citazione per vizi relativi alla vocatio in ius, rappresentati dall’inosservanza del termine per la comparizione o dall’assenza dell’avvertimento
di cui al (nuovo) n. 7 dell’art. 163 c.p.c., con conseguente richiesta da
parte sua di fissazione di nuova udienza (art. 164 terzo comma c.p.c.);
c) dal rilievo d’ufficio della nullità della citazione per vizi inerenti la
c.d. editio actionis ai sensi dei commi quarto e quinto dell’art. 164 e
dalla conseguente fissazione di una nuova udienza ex art. 183, rispettivamente per la rinnovazione della citazione se il convenuto non
si è costituito e per la sua integrazione se si è costituito.
Alle ipotesi relative alla nullità della citazione vanno aggiunte:
a) quella della nullità della notificazione della citazione, in relazione alla quale ex art. 291 c.p.c. sia ordinata dal giudice, in difetto di
costituzione del convenuto, la rinnovazione della notificazione della
citazione (a questa ipotesi, secondo PROTO PISANI, op. e loc. cit.,
si dovrebbe aggiungere – e l’assunto mi sembra fondato – il caso in
cui il convenuto siasi costituito e deduca che a causa della nullità
della notificazione non ha potuto evitare di incorrere nelle decadenze ex art. 167 c.p.c.; nello stesso senso COSTANTINO, in Le nuove
leggi civili commentate, 1992, p. 78 e segg.; BONSIGNORI, La nullità
della citazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1991, 743 e segg. Invero,
ci sembrerebbe inammissibile non dar peso alla doglianza del convenuto nell’ottica dell’art. 24 della Costituzione ed alla luce comunque dell’art. 184-bis); b) quella del rilievo d’ufficio di difetti di rappresentanza, assistenza o autorizzazione ex art. 182, secondo comma c.p.c., ovvero di vizi di sottoscrizione o di difesa tecnica: a tale
rilievo, infatti, dovrà conseguire l’assegnazione di un termine per il
compimento delle attività necessarie ad eliminare il vizio e, dunque,
la fissazione di una nuova udienza (in proposito si veda PROTO PISANI, op. cit., p. 101 e segg.); c) quella della costituzione tardiva
dell’attore eccepita nella prima udienza dal convenuto che, invece,
siasi costituito tempestivamente (in proposito, per chiarimenti su questa ipotesi ed in particolare sul come possa divenire necessaria la fissazione di una nuova udienza ex art. 183 c.p.c., rinviamo sempre a
PROTO PISANI, op. cit., pp. 123 e segg.).
In tutte le ipotesi fin qui enunciate è stato autorevolmente sottolineato che il rinvio della prima udienza si deve intendere “pieno”
372
(PROTO PISANI, op. cit., p. 149) e che, pertanto, “(se del caso anche a seguito del previo compimento di attività dirette ad eliminare
i vizi) prima della nuova prima udienza il convenuto potrà effettuare (e se del caso rinnovare) le attività previste a pena di decadenza
dall’art. 167 [assunto questo che non ci pare, peraltro, esatto con riguardo all’ipotesi indicata retro sub b1], e sia le parti che il giudice
potranno spendere nel corso della nuova prima udienza tutti i poteri processuali che ad essa sono ricollegati”.
In una ulteriore ipotesi di rinvio in forza di previsione di legge
della prima udienza di trattazione, si deve, invece, parlare di rinvio
“non pieno”, nel senso che il convenuto non ha la normale posizione che ha rispetto alla prima udienza di trattazione, restando per lui
ferme le decadenze di cui all’art. 167: è l’ipotesi che all’udienza di
prima comparizione non sia comparso l’attore ed a norma dell’invariato art. 181 secondo comma c.p.c. il giudice, non avendo chiesto
il convenuto che si proceda in assenza dell’attore, abbia rinviato ad
una nuova udienza, che si identificherà con quella ex art. 183.
Non è una vera ipotesi di rinvio dell’udienza ex art. 183 (come
opinano, invece, PROTO PISANI, op. e loc. cit., e sulla sua scia
CHIARLONI, op. cit., p. 209), quella in cui il giudice fissi una nuova udienza per la chiamata del terzo da parte dell’attore ai sensi
dell’art. 183 quarto comma e dell’art. 269 terzo comma: infatti, in
questo caso le posizioni delle parti originarie in punto di preclusioni sancite dall’art. 183 restano ferme con riguardo alla prima udienza in cui la chiamata venne autorizzata e sempre rispetto a tale udienza vanno valutate le decadenze ex art. 167, relative alla posizione del
convenuto. Semmai la nuova udienza dovrà considerarsi come udienza ex art. 183 rispetto alle posizioni delle parti originarie nei riguardi
del terzo (in proposito mi permetto di rinviare a quanto ho scritto a
commento dell’art. 269 novellato nelle cit. op., pp. 242 e segg.).
La coincidenza in senso cronologico fra l’udienza di prima comparizione e la prima udienza di trattazione non può, infine, reputarsi derogata nelle seguenti ipotesi: a) differimento dell’udienza di
comparizione indicata in citazione ai sensi dell’ultimo comma dell’art.
168-bis novellato; b) spostamento di detta udienza a seguito di istanza di chiamata di un terzo da parte del convenuto ai sensi del secondo comma dell’art. 269 c.p.c. novellato.
Infine, un’altra ipotesi in cui certamente potrà aversi rinvio della prima udienza di trattazione è data nel caso in cui, ai sensi dell’art.
373
88, comma secondo delle disp. di att. del c.p.c. abbia luogo la conciliazione tra i procuratori o tra una parte ed il procuratore dell’altra (privo del potere di conciliare la controversia. In tal caso, qualora all’udienza di rinvio la conciliazione non venga ratificata, i poteri delle parti in essa saranno tutti quelli dell’art. 183, trattandosi
di rinvio “pieno” (vedi COSTANTINO, op. cit., p. 79).
3. Attività preliminari alla fissazione definitiva del “thema decidendum”
Sotto la formula “attività preliminari” alla fissazione del tema
della decisione mi sembra che debbano essere anzitutto raggruppati, per quel che rivela direttamente lo stesso art. 183, l’espletamento
dell’interrogatorio libero delle parti comparse e dell’eventuale tentativo di conciliazione. Prima di esse si collocheranno le verifiche che
a ragione sono state definite preliminari (dal PROTO PISANI, op.
cit., p. 131), e che afferiscono alle questioni di nullità della citazione della sua notificazione, ai sensi degli artt. 164 e 291 c.p.c., nonché a quelle cui allude il secondo comma dell’art. 182 c.p.c.: su di
esse non mi soffermo. Viceversa, le verifiche relative alla giurisdizione, alla competenza, alla legittimazione ad agire, all’interesse ad
agire, all’integrità del contraddittorio ex art. 102 vanno opportunamente rimandate ad un momento successivo alla fissazione definitiva del thema decidendum ai sensi dell’art. 183 c.p.c. (salva, naturalmente, l’individuazione del momento di preclusione del potere di rilevazione di ognuna di queste questioni).
3.1. – L’interrogatorio libero
L’assunzione dell’interrogatorio libero delle parti presenti personalmente è prevista come doverosa. La previsione potrebbe apparire
criticabile (ed in effetti è stata criticata: TARZIA, op. cit., p. 82 e, durante la fase di gestazione della riforma, Il progetto VASSALLI per il
processo civile, in Riv. dir. proc., 1989, p. 126. Adde CARPI, in Riv.
trim. di dir. e proc. civ., 1989, 480 e seg.), in quanto – a differenza che
nel processo del lavoro – il carattere estremamente variegato e la sostanza di numerose controversie da trattarsi con il nuovo rito potrà
talvolta rendere l’interrogatorio inutile al fine di apportare chiarimenti
in ordine alla materia del contendere o di arricchire i fatti rilevanti
374
per la decisione (che sono le funzioni cui assolverà l’interrogatorio libero, non diversamente da quanto accade nel rito del lavoro: per una
più analitica precisazione di tali funzioni vedi, comunque, PROTO PISANI, in ANDRIOLI-BARONE-PEZZANO-PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro, Bologna, 1987, p. 702 e seg. ed ora in op.
da ultimo cit., pp. 132-133). Ma in tal caso (come notai nel commento
all’art. 183 in op. cit., p. 142; nello stesso senso si veda ora CHIARLONI, op. cit., p. 171) si farà ricorso ad un interrogatorio “snello” e
“veloce” (facendo riportare le parti agli atti, ad. es.). Ci sembra, invece, che l’opportunità della previsione come doveroso dell’interrogatorio sia difficilmente contestabile sol che si rifletta che essa servirà
a scongiurare la tentazione di rendere la previsione dell’interrogatorio canzonatoria da parte di quei giudici per i quali l’idea dell’interrogatorio libero sarà una novità assoluta, come i giudici già in servizio presso i tribunali o comunque non preposti alla trattazione delle
cause di lavoro o di rito speciale delle locazioni e già poco propensi
ad applicare l’art. 117 c.p.c.. D’altro canto, ci sembra che la prassi applicativa del rito del lavoro (e del rito speciale delle locazioni) abbia
nel complesso segnalato il valore dell’interrogatorio libero quale mezzo per una migliore emersione della vicenda di vita oggetto di giudizio. Si aggiunga che la necessità dell’interrogatorio sarà una delle ragioni per le quali il giudice non potrà sottrarsi all’onere di conoscenza effettiva del processo in prima udienza, il cui adempimento costituirà una delle condizioni di funzionamento del nuovo rito.
3.2. – Conseguenze dell’omissione dell’interrogatorio libero
I. – Si è riproposta la questione delle conseguenze del mancato
esperimento dell’interrogatorio libero negli stessi termini in cui si era
prospettata nel rito del lavoro, laddove la giurisprudenza aveva respinto la tesi (TARZIA, Manuale del processo del lavoro, 3ª ed., Milano, 1987; GUARNERI, Sulla omissione dell’interrogatorio libero nel
processo del lavoro e previdenziale, in Giurisprudenza Italiana, 1979,
I, 1, c. 320; va notato che il TARZIA non ha riproposto la sua tesi a
proposito del nuovo rito) secondo la quale l’omissione era causa di
nullità dell’intero processo per inidoneità dello svolgimento processuale successivo (ex art. 159 primo comma c.p.c.) a raggiungere lo
“scopo” suo proprio. La soluzione giurisprudenziale (Cass. 21 marzo 1986, n. 2030, Cass. 29 gennaio 1985 n. 526, Cass. 27 febbraio
375
1984 n. 1406 e Cass. 12 aprile 1983 n. 2596 fra le tante) affermatasi a proposito del rito del lavoro – per quanto abbia dato adito a
dubbi (vedili esposti in ANDRIOLI-BARONE-PEZZANO-PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro, Bologna, 1987, pp. 645/646)
– potrebbe sembrare nel nuovo rito più giustificata dal fatto che le
parti hanno fisiologicamente (ultimo inciso del quarto comma) la facoltà di precisare la loro prospettazione nella prima udienza e, quindi, tramite i loro difensori, possono sopperire alla mancata precisazione tramite l’interrogatorio libero. Non solo: i difensori possono
anche modificare la domanda e le eccezioni ed i poteri loro riconosciuti dall’art. 183 sono in generale – come vedremo – diretti a consentire nuove allegazioni. La stessa cosa dicasi per le allegazioni di
fatti rilevanti in funzione probatoria, la cui preclusione si colloca –
come vedremo – addirittura al di là della prima udienza di trattazione. Onde l’eventuale omissione dell’interrogatorio libero non sembrerebbe necessariamente tale da escludere che l’interesse al cui soddisfacimento doveva servire possa essere realizzato altrimenti. Peraltro, a ragione altra dottrina (CHIARLONI, Questioni rilevabili d’ufficio, diritto di difesa e “formalismo delle garanzie”, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1987, pp. 590 e segg.) aveva messo in evidenza a proposito del processo del lavoro (rispetto al quale, come abbiamo notato
in precedenza, il principio di eventualità è molto meno temperato),
la non condivisibilità dell’opinione dottrinale riferita.
A mio avviso la tesi del TARZIA non poteva condividersi, sia perché si scontrava con l’assenza di previsione della sanzione di nullità
da parte del legislatore, sia con la difficoltà di utilizzare la nozione
di raggiungimento dello scopo dell’atto (di cui all’art. 156 commi secondo e terzo) con riguardo ad un’attività nel contempo complessa
(perché, richiedente il concorso di giudice e parti) e dagli esiti incerti, quale era ed è l’assunzione dell’interrogatorio libero. In particolare, sotto tale ultimo profilo, non potendosi sapere a priori quale
sarebbe stata l’utilità dell’interrogatorio libero omesso, sia per il fatto che le parti avrebbero potuto non rispondere o rispondere senza
fornire chiarimenti sulla materia del contendere, era del tutto ingiustificato desumere la grave conseguenza della nullità dello svolgimento processuale successivo.
II. – Queste ragioni possono ora riproporsi per il nuovo rito e
vanno addotte per contestare la validità di quanto autorevolmente af376
fermato a proposito di esso dall’unica dottrina che ha ritenuto di
prendere posizione sulla questione che si esamina offrendo una risposta diversa da quella della nullità, che, peraltro, a proposito del
nuovo rito – se non m’inganno – nessuno ha espressamente affermato come valida. Alludiamo alla tesi di chi (PROTO PISANI, op.
cit., pp. 139-140) ha ritenuto di distinguere l’ipotesi in cui, nonostante l’omissione dell’assunzione dell’interrogatorio libero, la chiarificazione del thema decidendum e del thema probandum sia stata
comunque raggiunta, entro la prima udienza, aliunde, da quella in
cui tale chiarificazione non si sia verificata. Nel primo caso l’omissione – che così implicitamente viene ritenuta integrare una nullità
– sarebbe priva di conseguenze, in base alla regola del raggiungimento dello scopo di cui all’art. 156 c.p.c. Nel secondo caso, viceversa, la conseguenza dell’omissione dell’interrogatorio libero non viene – con una certa incoerenza rispetto a quanto ritenuto a proposito dell’ipotesi inversa – rinvenuta sul piano della nullità, ma nella
possibilità per le parti che abbiano eccepito, ai sensi dell’art. 157 secondo comma, nel corso della stessa prima udienza di trattazione
l’omissione dell’interrogatorio (e qui si rinviene – a mio modesto avviso – altra incoerenza per il fatto che si fa applicazione di principi
in tema di nullità), di chiedere ed ottenere la rimessione in termini
“nell’esercizio di quei poteri processuali previsti dall’art. 183, quarto
comma, ultima parte (e art. 184), che non abbiano potuto esercitare a causa dell’omissione dell’interrogatorio ad esse non imputabile”.
Aggiungendosi che il giudice dovrebbe, prima di provvedere sulla rimessione in termini, disporre ex art. 162 c.p.c. la comparizione delle parti per un interrogatorio ex post.
III. – Questa ipotesi ricostruttiva a noi sembra inaccoglibile, perché i suoi passaggi si muovono sulla base di pretese evenienze alternative, che è impossibile in concreto verificare proprio in quanto
l’interrogatorio è stato omesso e non si può sapere se esso avrebbe
concorso o meno ad un utile esercizio dei poteri delle parti previsti
dall’art. 183 (per questo rilievo anche TARUFFO, op. cit., p. 257, nota n. 47). D’altro canto, ponendosi nell’ottica di ciascuna parte, l’esercizio dei poteri previsti dalla norma dell’art. 183 che si sarebbe potuto ricollegare ad affermazioni fatte da essa nel corso dell’interrogatorio libero, in quanto la parte avrebbe potuto ragionevolmente riferire l’oggetto di tali affermazioni al suo difensore, ben potrebbe es377
sere stato possibile in base al “colloquio” fra la parte ed il difensore. Onde, la parte ben poco avrebbe da lamentarsi del fatto che l’interrogatorio non ha avuto corso. Quanto, invece, all’esercizio di quegli stessi poteri da parte dell’altro litigante, in base alle affermazioni fatte dalla controparte nel suo interrogatorio, appare evidente che,
non essendovi stato l’interrogatorio ed al suo interno le formulazioni di dichiarazioni idonee a consentire l’esercizio di quel potere, ex
post risulta impossibile sapere se ed in che misura quel potere si sarebbe potuto esercitare.
In realtà, a me pare che il vero problema possa sorgere se ed in
quanto si ritenga possibile un interrogatorio tardivo, cioè dopo la
prima udienza di trattazione e l’eventuale appendice scritta di essa,
perché è solo in questo caso che diventa possibile apprezzare se l’esito dell’interrogatorio avrebbe potuto consentire l’esercizio di taluno
dei poteri di cui all’art. 183 ormai preclusi. È solo, cioè, a seguito
dell’esperimento dell’interrogatorio e, quindi, con una valutazione ex
post, che si può apprezzare se il mancato tempestivo esperimento ha
inciso sulla possibilità di esercizio dei poteri riconosciuti alle parti
dall’art. 183 (ed eventualmente anche dei poteri di deduzione probatoria ex art. 184).
Ed allora, gli interrogativi che si pongono sono due: a) se sia
possibile il tardivo esperimento dell’interrogatorio in precedenza non
espletato per omissione del giudice; b) se le sue risultanze possano
giustificare una rimessione in termini per l’esercizio dei poteri di cui
all’art. 183. Relativamente al primo problema la risposta ci pare debba essere positiva anche se non in applicazione della norma dell’art.
162, non trattandosi di rinnovare un’attività nulla, ma di compiere
tardivamente un’attività che si sarebbe dovuta compiere in limine litis. La risposta positiva discende a mio avviso essenzialmente dalla
circostanza che, non essendo stato cancellato dall’ordinamento l’art.
117 c.p.c., il giudice in qualunque stato e grado del processo ha il
potere di disporre la comparizione delle parti per procedere all’interrogatorio libero e, siccome l’interrogatorio di cui al primo comma dell’art. 183 non è qualcosa di diverso da quello indicato dall’art.
117, l’esperimento di un interrogatorio tardivo bene è possibile ai
sensi di questa norma. Anche la risposta al secondo quesito deve essere positiva, poiché la rimessione in termini si giustifica pienamente
anche ove si tenga conto della circostanza che, quando il giudice
esercita (art. 184 c.p.c.) un potere di disposizione di mezzi di prova
378
d’ufficio è garantita alle parti la possibilità di replica. Naturalmente
la rimessione in termini si potrà ritenere possibile non in generale,
nel senso che non si verificherà completa regressione del giudizio alla prima udienza di trattazione, bensì solo possibilità delle parti di
esercitare quei poteri di allegazione (e di deduzione probatoria) che
siano in concreto giustificati dalle risultanze dell’interrogatorio.
Per concludere sul punto rilevo che mi pare da condividere l’opinione che all’omissione dell’interrogatorio libero ricollega la possibilità di sanzioni disciplinari a carico del giudice (vedi già in questo
senso a proposito del rito del lavoro CHIARLONI, Questioni rilevabili d’ufficio, etc., cit., pp. 569 e ss., 579 e seg.; ed ora PROTO PISANI, op. cit., p. 140; scettico, invece, il TARUFFO, op. e loc. cit.).
3.3. – Valore delle dichiarazioni rese dalle parti nell’interrogatorio
libero e della mancata comparizione
I. – V’è da rilevare che le risposte delle parti in sede di interrogatorio libero forniranno argomenti di prova ex secondo comma
dell’art. 116 c.p.c. La nuova previsione normativa ha subito fornito
l’occasione per una riproposizione della questione della valenza probatoria dell’argomento di prova.Gli ultimi sviluppi del dibattito dottrinale avevano segnato una contrapposizione fra coloro i quali avevano affermato che la sostanza dell’efficacia probatoria dell’argomento
di prova si dovrebbe cogliere sotto un profilo negativo, cioè nel senso che l’argomento di prova non potrebbe da solo fondare il convincimento del giudice (vedi da ultimo RICCI, Prove ed argomenti di
prova, in Riv. trim. di dir. e proc. civile, 1988, pp. 1036 e segg.) e coloro che, più di recente hanno individuato il quid dell’argomento di
prova, sempre sotto un profilo negativo, ma non più riguardante l’efficacia probatoria, bensì il ruolo, diverso da quello della prova, nell’applicazione della norma dell’art. 209 c.p.c., cioè in sede di valutazione di superfluità dell’ulteriore istruzione della causa. L’argomento di
prova, secondo questa tesi (enunciata da CHIARLONI, Riflessioni sui
limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Riv. trim. di dir. e
proc. civile, 1986, pp. 819; ora ripresa da PROTO PISANI, op. cit., p.
135) sarebbe sempre inidoneo a giustificare la valutazione della superfluità dell’istruzione probatoria sollecitata dalle parti ed il giudice non potrebbe decidere di non dar corso ad essa assumendo che
ai fini della decisione è superflua, in quanto a quei fini sono suffi379
cienti gli argomenti di prova (che nel nostro ordinamento processuale, sono previsti, oltre che per le risposte delle parti all’interrogatorio libero e – come vedremo, ora espressamente – per la mancata presentazione a rendere tale interrogatorio, anche per l’ingiustificato rifiuto della chiesta esibizione ed in generale dal contegno
processuale delle parti, nonché per le prove – salvo forse la confessione ed il giuramento – raccolte nel giudizio estinto). L’esattezza di
questa tesi del CHIARLONI (ancora oggi criticata da altra parte della dottrina: MONTESANO– ARIETA, Il nuovo processo civile, Napoli, 1991, p. 37; TARUFFO, op. cit., p. 87, nota n. 41, dove si possono leggere le argomentazioni critiche, le quali non mi sembra però
– ma non posso dilungarmi in proposito – che colgano nel segno) ci
pare oggi adeguatamente dimostrata dal PROTO PISANI, al quale rimandiamo (op. cit., pp. 134-135). Conseguentemente l’efficacia probatoria delle risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero (ed in generale dell’argomento di prova) non può essere individuata col dato negativo che l’argomento di prova non potrebbe da
solo giustificare il convincimento del giudice, ma va determinata in
positivo, tenendo conto che l’argomento di prova deve essere desunto da una risposta all’interrogatorio libero sulla base di un apprezzamento della veridicità del fatto oggetto di tale risposta che sarà
espresso dal giudice secondo le massime d’esperienza e, quindi, alla
stregua di quel meccanismo di ricostruzione della conoscenza di un
fatto, non direttamente percepito, attraverso il ragionamento presuntivo semplice (art. 2729 c.c.). Se, dunque, le risposte date dalle
parti in sede di interrogatorio libero debbono essere idonee a giustificare una presunzione hominis, in forza della quale deve essere
possibile risalire dalla dichiarazione fatta dalla parte (fatto noto) alla conoscenza del fatto dichiarato (fatto ignoto), si può consentire
con chi autorevolmente (PROTO PISANI) ha affermato: a) che le dichiarazioni contra se (cioè le dichiarazioni che una parte fa dell’esistenza di atti giuridici, principali o secondari, i quali, avuto riguardo alla fattispecie oggetto del giudizio, siano da considerare ad essa
sfavorevoli e favorevoli all’altra parte) avranno la capacità di fornire
la dimostrazione dell’esistenza del fatto dichiarato, sulla base del principio per cui nessuno, di norma, dichiara un fatto a sé sfavorevole,
se non è vero. Tale dichiarazione integrerà un’ammissione, nel contempo idonea a rendere non bisognoso di prova altrimenti quel fatto (naturalmente, si potrà poi porre il problema di una successiva
380
attività di contestazione di quell’esistenza, non vertendosi sul terreno della confessione e, quindi, non esistendo i limiti di revocabilità
di cui all’art. 2732 c.c. per la confessione); b) che le dichiarazioni
pro se, posto che secondo massima di comune esperienza è, di norma, poco attendibile chi dichiara l’esistenza di fatti a sè favorevoli e
sfavorevoli all’altra parte, di per sé saranno inidonee a giustificare il
raggiungimento della conoscenza del fatto dichiarato ex art. 2729 c.c.;
c) che le dichiarazioni pro se possono meritare diversa valutazione
allorché si situino in un contesto di dichiarazioni complesse sulla
falsariga di quelle che integrano la c.d. confessione complessa, di cui
all’art. 2734 c.c.: infatti, una massima di comune esperienza induce
a ritenere che la parte che dichiara fatti a se’ favorevoli congiuntamente a fatti a se’ sfavorevoli normalmente è degna di attendibilità.
II. – Un’autorevole dottrina propone di distinguere a proposito
delle dichiarazioni sfavorevoli il caso che il giudizio e, quindi i fatti
dichiarati, concernano diritti disponibili, da quello in cui concerna
diritti indisponibili. Nel primo caso la conseguenza sarebbe quella
della esclusione del fatto dichiarato dal thema probandum, in quanto si dovrebbe reputare il fatto ammesso e, quindi, non contestato e
non bisognoso perciò di prova. Nel secondo, viceversa, il fatto non
potrebbe sic et simpliciter reputarsi incontestato, ma semmai dovrebbe
essere valutato dal giudice ex art. 2729 c.c. (PROTO PISANI, op. cit.,
p. 136; e già in ANDRIOLI-BARONE-PEZZANO-PROTO PISANI, op.
cit., pp. 617-619). Non è chiaro il fondamento logico di tale distinzione, che, in effetti, non mi pare sostenibile, in quanto trasferisce
sul piano della valutazione probatoria un problema di qualificazione giuridica dei fatti oggetto del giudizio, qual è quello della disponibilità o meno del diritto. A me pare che anche nel caso dei diritti
indisponibili la dichiarazione di fatti sfavorevoli debba avere la stessa efficacia di quella della dichiarazione di fatti relativi a diritti disponibili, poiché il riflesso sul giudizio della loro dichiarazione, se è
vero che si concreta sostanzialmente in una loro disposizione nel
processo, appare legittimo, in quanto l’indisponibilità di un diritto a
livello di diritto sostanziale non ci pare che possa precludere quella
minima implicita disposizione indiretta che si ricolleghi al contegno
processuale. D’altro canto, come abbiamo detto, la massima d’esperienza per cui un fatto sfavorevole al dichiarante è di norma vero
importa sempre che quel fatto debba reputarsi incontestato e non bi381
sognoso di prova altrimenti, cioè con altri mezzi di prova. Onde, non
ci sembra corretto distinguere tra ipotesi in cui si avrebbe una mera non contestazione ed ipotesi in cui il giudice dovrebbe apprezzare ex art. 2729 c.c. la dichiarazione di fatti sfavorevoli.
III. – Stabilire poi, se le risposte all’interrogatorio libero saranno da sole sufficienti a giustificare la decisione, sarà questione che
dipenderà, in realtà, non tanto dal valore intrinseco dell’argomento
di prova, quanto dalla ricostruzione della norma dell’art. 2729, cioè
dalla scelta fra la soluzione interpretativa che ai fini del convincimento reputa sufficiente una sola presunzione e quella che, invece,
reputa necessaria più presunzioni (soluzioni sostenute entrambe in
giurisprudenza).
IV. – La mancata comparizione della parte senza giustificato motivo integra un comportamento che è detto espressamente – a differenza che nel processo del lavoro, dove lo si dichiarava genericamente valutabile ai fini della decisione – valutabile ex comma secondo dell’art. 116. A tale conclusione erano peraltro giunti dottrina
e giurisprudenza a proposito dell’interrogatorio di cui all’art. 420 primo comma, c.p.c. e, pertanto, la nuova previsione legislativa non fa
che avallare (punto pacifico in dottrina) l’interpretazione che a tale
norma era stata data. Per la dimostrazione che da sola la mancata
ed ingiustificata comparizione a rendere l’interrogatorio libero non
sarà idonea ad integrare una presunzione di per se’ sufficiente a giustificare la decisione, ma solo una presunzione idonea ad operare in
concorso con altri elementi di prova, rimando all’esauriente trattazione del PROTO PISANI (op. cit., p. 135).
3.4. Cenni sul secondo comma dell’art. 183
Il riferimento all’interrogatorio delle parti presenti comporta che
l’interrogatorio debba avere luogo anche se ne sia comparsa una sola.
Il secondo comma del nuovo art. 183 riproduce quasi fedelmente la previsione del comma secondo dell’art. 420 c.p.c. con il
solo mutamento rappresentato ancora dall’espresso riferimento all’art. 116 secondo comma a proposito delle conseguenze da trarsi
dalla mancata conoscenza dei fatti di causa da parte del procuratore (che ancora una volta l’art. 420 diceva, invece, valutabile ai fi382
ni della decisione). Anche in tal caso sarà valido quanto affermato
dal PROTO PISANI a proposito del valore della mancata comparizione delle parti.
Sulle questioni che pone la concessione della delega per l’interrogatorio libero al difensore e sua inopportunità si vedano: TARZIA,
op. cit., p. 87 e TARUFFO, op. cit., p. 255.
Voglio, invece, qui segnalare il mio fermo dissenso dal pur autorevole assunto del TARZIA (ibidem: l’autore peraltro ripropone
quanto aveva affermato a proposito del processo del lavoro, Manuale, cit., p. 96), secondo cui, allorquando sussistano gravi ragioni giustificative della mancata conoscenza dei fatti da parte del procuratore speciale, potrebbe essere giustificato un rinvio dell’udienza di
trattazione per consentire al medesimo di acquisire conoscenza dei
fatti. L’assunto (acriticamente già condiviso a proposito del rito del
lavoro da PEZZANO (ANDRIOLI-BARONE-PEZZANO-PROTO PISANI, op. cit., p. 650) non mi pare condivisibile, in quanto, non si comprenderebbe perché il procuratore dovrebbe essere trattato in modo
diverso dalla parte personalmente comparsa, tenuto conto che per
definizione l’interrogatorio libero è luogo in cui possono emergere
nuovi fatti, la cui sconoscenza è l’unica circostanza che può indurre (FABBRINI, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1975, p. 159)
l’esistenza delle “gravi ragioni”, cui alludeva l’art. 420 ed allude ora
l’art. 183 secondo comma nuovo testo. D’altro canto, la possibilità
delle repliche scritte tramite il difensore previste dall’art. 183 rende
inutile rinviare l’udienza per consentire al procuratore di acquisire
conoscenza di quei fatti, potendo appunto la replica ad essi avvenire tramite la trattazione scritta ammessa dalla norma stessa quanto
all’onere di allegazione.
Rileviamo, infine, che potrà darsi il caso (come rivela la prassi
del processo del lavoro) in cui l’interrogatorio libero si protragga, per
la complessità dei fatti in modo tale che non sia consentito procedere all’espletamento delle ulteriori attività previste dall’art. 183. Mi
pare che sarà certamente possibile un rinvio ad altra udienza, nella
quale quell’espletamento potrà avere luogo.
3.5. Il tentativo di conciliazione
Sempre fra le attività che precedono la fase della definitiva fissazione del tema della decisione si colloca la previsione della possi383
bilità dell’esperimento del tentativo di conciliazione, che non è doveroso (come nell’art. 420), ma si ricollega al fatto che a parere del
giudice la natura della causa lo consenta. È pacifico che con tale formula la conciliazione sia possibile – a differenza di quanto accade
nel rito del lavoro – solo per i diritti disponibili. Critico su questa limitazione il TARUFFO (op. cit., pp. 257-258), peraltro in modo del
tutto generico. A noi sembra che la limitazione sia ragionevole, tenuto conto che l’estrema varietà delle situazioni giuridiche indisponibili che saranno soggette al nuovo rito, a differenza di quelle del
rito del lavoro, rendeva impossibile distinguere eventuali situazioni
giuridiche indisponibili che potranno essere conciliate. Peraltro, il
grado di indisponibilità di una situazione giuridica non è sempre lo
stesso e ci pare, pertanto, che la tendenziale identificazione dei giudizi aventi ad oggetto situazioni giuridiche indisponibili con quelle
in cui la causa non consentirà la conciliazione potrebbe rivelarsi meno “assoluta” di quanto sembra a prima vista. È da segnalare la conseguente abrogazione dell’art. 185 comma primo c.p.c., operata
dall’art. 89 della legge di riforma.
4. Le preclusioni e la prima udienza di trattazione
I. – Affrontare il tema delle preclusioni con riferimento alla prima udienza di trattazione comporta alcune puntualizzazioni, che,
enunciate a livello meramente assertivo e come ipotesi di lavoro ermeneutico, vanno poi verificate in concreto con l’analisi della norma dell’art. 183, ma appaiono opportune ex ante per dare il quadro
delle questioni che il compimento dell’indagine comporta.
La prima puntualizzazione, che emerge da una prima sommaria
lettura della norma dell’art. 183 c.p.c., è che le preclusioni con riguardo alla prima udienza di trattazione non debbono essere considerate necessariamente collegate ad un’attività processuale da spendere nella prima udienza di trattazione (alludiamo alla prima udienza di “effettiva trattazione”,che, come si è visto retro non necessariamente si identifica con l’udienza di prima comparizione), potendo verificarsi anche in un momento temporale successivo, a seguito
del compimento di un’attività di trattazione scritta che segue la prima udienza di trattazione: è sufficiente la lettura del quinto comma
dell’art. 183 per percepire in via immediata questo dato.
384
La seconda puntualizzazione è che le preclusioni ricollegate nel
senso ora detto alla prima udienza di trattazione – e di cui perciò
dovremo occuparci – sono essenzialmente quelle concernenti l’onere
di allegazione dei fatti rilevanti per la decisione e non quelle (rispetto
alle quali certamente il nuovo rito fa pure applicazione del principio
di preclusione) relative alle deduzioni probatorie, la cui disciplina ha
luogo da parte dell’art. 184 nuovo testo.
La terza puntualizzazione deve essere nel senso che il principio
di preclusione, pur limitato all’onere di allegazione, non si correla
esclusivamente alla prima udienza di trattazione: qui può bastare dire in via di primissima approssimazione che per certi fatti l’assolvimento dell’onere di allegazione ha come momento finale di preclusione un momento anteriore alla prima udienza di trattazione, mentre per altri fatti ha un momento posteriore.
In relazione all’ultima puntualizzazione è evidente che la ricostruzione del sistema delle preclusioni con riguardo alla prima udienza di trattazione può variare a seconda di come si interpretino quelle altre norme del nuovo rito che sembrano disciplinare momenti di
preclusione ex ante od ex post rispetto alla prima udienza di trattazione.
II. – Va chiarito il quomodo della individuazione delle preclusioni in relazione alla fissazione del thema decidendi cui sono deputate la prima udienza di trattazione e la sua eventuale appendice di
trattazione scritta. Taluno autorevolmente ha criticato l’art. 183 sostenendo che esso non indica in modo certo le preclusioni (TARUFFO,
op. cit., p. 275). Ma a me pare a torto, perché ha omesso di considerare i risultati ai quali è pervenuta la dottrina in sede di individuazione delle previsioni di termini perentori. La lettura dell’art. 183
in questa ottica mi sembra che evidenzi la previsione di preclusioni
in relazione alle attività di allegazione funzionali alla fissazione del
thema decidendi proprio con la tecnica della previsione di termini perentori. E ciò non solo allorché espressamente la legge dice che certe attività debbono essere compiute entro termini perentori, ma anche laddove lascia intendere la stessa cosa con la formulazione imperativa, esplicita o implicita del dovere delle parti di compiere certe attività in un dato momento. Sotto il primo aspetto, la scadenza
del termine perentorio espresso comporta automaticamente che quella certa attività che doveva essere compiuta nel termine stesso non
385
possa esserlo più ed ecco, in conseguenza, individuata la preclusione. Sotto il secondo aspetto, la previsione che certe attività vadano
svolte nella prima udienza, anche senza espressa allusione all’esistenza all’uopo di un termine perentorio, non esclude che quelle attività siano comunque soggette ad un termine di tale natura e, quindi, la possibilità di individuare parimenti la preclusione. Secondo la
migliore dottrina (PICARDI, in Commentario del codice di procedura
civile diretto da E. ALLORIO, sub art. 152, p. 1536, nota 16) infatti,
l’esigenza che il termine perentorio sia dichiarato tale espressamente dalla legge (art. 152, secondo comma c.p.c.) vuole solo significare che vi deve essere una precisa e manifesta volontà legislativa di
previsione del termine, la quale però può emergere anche dalla particolare natura dell’atto e dal modo di essere della sua complessiva
disciplina anche alla luce di una diversa norma.
Ora, le espressioni con cui il legislatore stabilisce che certe attività vadano compiute entro la prima udienza di trattazione (si pensi al “può proporre” di cui al primo inciso del comma quarto dell’art.
183) non lasciano dubbi sul fatto che per il legislatore quello è il momento in cui il relativo potere processuale può esercitarsi. La stessa
cosa dicasi le quante volte si constata, leggendo l’art. 183, che sono
stabiliti termini perentori per replicare ad attività per le quali tale
termine non risulta stabilito expressis verbis. Si pensi all’attività di
cui al secondo inciso del quinto comma della norma, in rapporto a
quella del primo inciso del quarto. È evidente che la previsione della perentorietà e, quindi, della preclusione, per l’attività che occasiona l’esercizio della replica per cui è fissato espressamente il termine di quest’ultimo, posto che non avrebbe senso stabilire la perentorietà per una replica a qualcosa che a sua volta non sia stato
assoggettato a pregressa perentorietà.
Su un piano più generale la perentorietà per le varie attività di
allegazione dei fatti e, quindi, la preclusione, si desume dal fatto stesso che il nuovo rito presenti la divisione fra fase della fissazione dei
fatti da considerare ai fini della decisione e fase della fissazione dei
fatti da provare.
III. – Le prospettive secondo le quali può leggersi la norma
dell’art. 183 c.p.c. per ricostruire il sistema delle preclusioni ad essa
ricollegate, sono essenzialmente due: o ci si pone in un’ottica che
cerchi tale ricostruzione seguendo l’ordine con cui il legislatore ha
386
scritto (come abbiamo visto secondo alcuni troppo minuziosamente)
l’art. 183, o, tenuto conto che – come si è detto – viene in considerazione l’onere di allegazione dei fatti rilevanti per il decidere, si affronta la questione sotto l’angolo visuale della posizione di ognuna
delle parti e distinguendo le varie tipologie di fatti rilevanti per il decidere. Preferisco (come ho subito dopo la l. 353/90 fatto altrove: rimando modestamente al mio commento all’art. 183, op. cit., pp. 144
e segg.) scegliere la seconda soluzione, perché mi pare che sia meno frammentaria e consenta di raggiungere risultati di maggiore sistematicità e perciò maggiormente idonei a spiegare il sistema adottato dal legislatore.
Comincerò, pertanto, dalla posizione dell’attore, che considererò
distinguendo le varie tipologie di fatti rilevanti per il decidere. Passerò, poi, alla posizione del convenuto. Successivamente esaminerò
problemi che impongono una considerazione unitaria delle due posizioni.
5. Preclusioni riguardanti l’attore per i fatti principali relativi alla
domanda e loro correlazione col potere di modificazione della
domanda
I. – Mi pare essenziale precisare anzitutto la posizione dell’attore in ordine all’allegazione dei c.d. fatti principali, cioè dei fatti che
svolgono efficacia costitutiva del diritto fatto valere con la domanda
introduttiva di giudizio e che per tale funzione si denominano correntemente in dottrina e giurisprudenza costitutivi. Le posizioni della dottrina in proposito non sono concordi e la cosa merita particolare attenzione, in quanto può essere il preludio a possibili contrasti nelle applicazioni future giurisprudenziali. Tali contrasti sono da
scongiurare, in quanto il tema delle preclusioni all’onere di allegazioni dei fatti principali relativi alla domanda dell’attore (come quello dei fatti principali della difesa del convenuto: si veda in prosiego)
tocca uno dei punti cruciali del funzionamento del nuovo rito. Scegliere l’una o l’altra linea interpretativa significa senza dubbio assegnare significati complessivi diversissimi al nuovo rito.
Dico subito che (come con minor chiarezza sostenni a prima lettura della riforma: op. cit., pp. 144 e segg.) sono fermamente convinto che nel sistema del nuovo rito, quale emerge dalla coordina387
zione della norma dell’art. 183 con quelle dell’art. 164, dell’art. 184
e dell’art. 189, il potere di allegazione da parte dell’attore dei fatti
principali concernenti la domanda introduttiva di giudizio si preclude alternativamente nella prima udienza di trattazione o nella possibile appendice scritta della prima udienza di trattazione prevista
dal primo inciso del quinto comma dell’art. 183, salva la possibilità
di una successiva rimessione in termini ai sensi dell’art. 184-bis c.p.c.
II. – Mi pare che, a favore di questa ricostruzione della posizione dell’attore militino in primo luogo quelli che sono i risultati dell’indagine sulla norma dell’art. 164 nuovo testo, che, come è noto, regola la nullità della citazione, che quale atto introduttivo del giudizio è l’atto che, sul piano della teoria generale del processo, tendenzialmente dovrebbe servire all’attore ad introdurre in giudizio la fattispecie costitutiva del diritto fatto valere. All’uopo, è particolarmente rilevante la spiegazione della nuova ipotesi di nullità della citazione per la mancanza di allegazione dei “fatti costituenti le ragioni
della domanda” (comma quarto dell’art. 164). In altra sede (cui mi
permetto di rinviare: op. cit., pp. 67 e segg.; i risultati esposti collimano con la dottrina che ha indagato successivamente o contemporaneamente il tema. Si vedano i vari commenti all’art. 164 nelle opere sulla riforma più volte citate in precedenza) ne ho offerto una duplice possibile spiegazione. Essa in entrambi i casi postula l’utilizzazione di una nozione ormai comunemente accettata ai fini della
c.d. identificazione della domanda giudiziale nella dottrina (si veda
CERINO CANOVA, La domanda giudiziale ed il suo contenuto, in Commentario al Codice di procedura civile diretto da E. ALLORIO, pp. 172
e segg.; più di recente MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, pp. 207 e segg.) e nella giurisprudenza (per cui
mi permetto di rinviare a quanto osservato in Pret. Monza, 17 luglio
1989, in Foro it., 1991, I, 1299; ivi ampia nota di richiami; adde, citate dal MENCHINI, ivi, p. 211, nota 31: Trib. Napoli, 5 maggio 1966,
in Giust. civ., 1966, I, p. 1865 e seg.; Cass. 27 febbraio 1969, n. 648,
in Giur. It., Rep. 1969, voce Regiudicata civile, n. 12; Corte d’App. Torino, 22 maggio 1956, ivi, Rep. 1956, voce cit., n. 30), qual è quella
che distingue i diritti in autodeterminati ed eterodeterminati.
III. – Il quid di tale distinzione si incentra sul diverso rilievo che
ai fini dell’identificazione dell’azione è da riconoscere ai fatti costi388
tutivi e, quindi, alla causa petendi. I diritti autodeterminati sono quei
diritti, nei quali il fatto costitutivo non è rilevante per individuare la
domanda, non è cioè un elemento per la sua identificazione: tali vengono considerati i diritti assoluti, i diritti reali di godimento e – con
minor concordia (sul punto non possiamo dilungarci) – i diritti di
credito ad una prestazione specifica e quelli reali di garanzia (quanto a questi ultimi, mi pare convincente la dimostrazione data dal
MENCHINI, op. cit., pp. 215 e segg. in critica al CERINO CANOVA).
Così, per esemplificare, in una domanda di rivendica della proprietà
di un certo fondo, ove si consideri che fatto costitutivo (e, quindi,
principale) della proprietà agli effetti di tale domanda può essere solo un titolo d’acquisto originario (eventuali titoli di acquisto derivativi, infatti, integrerebbero solo fatti secondari: si veda, per tutti, FERRI, Struttura del processo e modificazione della domanda, Padova,
1975, p. 161), la circostanza che la proprietà sia stata acquistata
dall’attore per usucapione è fatto costitutivo, ma non ha rilievo per
identificare la domanda, la quale non cesserebbe di essere la stessa
se si allegasse un acquisto per accessione o specificazione. Infatti, il
diritto di proprietà rispetto ad un certo bene resta sempre lo stesso
quale che sia il titolo di acquisto originario allegato. E ciò perché
non è possibile concepire che rispetto allo stesso bene coesistano più
proprietà in capo al medesimo soggetto a seconda delle varie tipologie di titoli d’acquisto originarii. In definitiva, ai fini dell’identificazione della domanda relativa ad un diritto autodeterminato finisce
per essere assorbente il petitum (mediato ed immediato).
IV. – I diritti eterodeterminati, invece, sono quelli per i quali i
fatti costitutivi hanno rilevanza per la stessa identificazione della domanda e vengono identificati (salva un’opinione che vi riconduce anche i diritti reali di garanzia, ma a mio sommesso avviso, a torto,
come ha dimostrato la dottrina poco sopra citata) nei diritti di credito ad una prestazione di cose generiche. Così, se allego di avere
un credito nei confronti di Tizio, la mia domanda è necessariamente individuata dalla specificazione del fatto della vita in forza del
quale assumo di essere creditore (ad es. il mutuo stipulato quel tal
giorno). Infatti, è concepibile l’esistenza di crediti a mio favore verso il convenuto in forza di un altro contratto di mutuo concluso più
di recente o in precedenza od anche contemporaneamente. In definitiva, le domande relative a diritti eterodeterminati si identificano
389
non solo con riguardo al petitum, ma anche con riguardo alla causa petendi.
V. – Ora, l’ipotesi di nullità per la mancata allegazione dei fatti
costituenti le ragioni della domanda può essere spiegata in due diversi modi. Infatti, secondo una prima spiegazione detta ipotesi potrebbe essere relativa alla mancata allegazione dei fatti costitutivi per
le domande relative a diritti autodeterminati. Secondo un’altra spiegazione, potrebbe essere relativa alla mancanza di allegazione dei
fatti costitutivi delle domande relative ai diritti eterodeterminati.
Ora, qualora si accolga la prima delle due spiegazioni proposte,
in ordine al momento in cui l’attore deve allegare a pena di preclusione i fatti costitutivi, non pare contestabile concludere: 1) che per
le domande relative a diritti autodeterminati essi debbono essere allegati fin dalla citazione introduttiva della lite oppure con la sua rinnovazione o integrazione ex art. 164, comma quinto c.p.c., dovendo
nel caso che tali ultime facoltà non vengano sfruttate farsi luogo a
decisione di puro rito declaratoria della nullità della citazione; 2) che
la stessa regola vale per l’allegazione dei fatti costitutivi per le domande relative a diritti eterodeterminati. Infatti, una volta interpretata la formula “fatti costituenti le ragioni della domanda”, come relativa ai soli fatti costitutivi dei diritti autodeterminati, i fatti costitutivi dei diritti eterodeterminati (rimando in proposito al mio commento all’art. 164, op. e loc. da ult. cit.), in quanto fanno parte della causa petendi, sarebbero riconducibili al concetto di “cosa oggetto della domanda”, di cui al n. 3 dell’art. 163, da intendersi comprensivo di causa petendi e petitum. Ne conseguirebbe che dovrebbero necessariamente essere allegati nella citazione a pena di nullità,
perché l’art. 164 c.p.c. commina la nullità della citazione anche nel
caso dell’omissione od assoluta incertezza del requisito di cui al n.
3 dell’art. 163.
Qualora, invece, si ritenga che il legislatore abbia inteso riferire
la previsione di nullità per la mancanza dei “fatti costitutivi le ragioni della domanda” ai soli fatti costitutivi dei diritti eterodeterminati (e’ la seconda spiegazione di questa formula, che’ abbiamo riassunta poco sopra) si dovrebbe invece osservare quanto segue: 1) l’allegazione dei fatti costitutivi dei diritti eterodeterminati si dovrebbe
reputare doverosa fin dalla citazione o dalla sua rinnovazione od integrazione ex art. 164 quinto comma; 2) viceversa, non altrettanto
390
potrebbe dirsi dell’allegazione dei fatti costitutivi delle domande concernenti diritti autodeterminati, la quale, non rilevando i fatti costitutivi in funzione dell’identificazione della domanda relativa a diritti autodeterminati, non potrebbe essere ricompresa nell’art. 163 n. 3
c.p.c., che andrebbe inteso (vedi la mia op. cit., p. 69), come relativo al solo petitum (mediato ed immediato).
VI. – Per amore di chiarezza rilevo che mi pare più corretta la
prima ipotesi ricostruttiva. Se essa si ritiene fondata si deve prendere atto che il legislatore della novella del 1990 ha ritenuto necessario che i fatti principali relativi al diritto fatto valere in giudizio,
sia esso autodeterminato che eterodeterminato, siano allegati fin
dall’atto introduttivo di giudizio. Ora, una ricostruzione dei passaggi successivi del modello processuale che non tenesse conto di questo dato normativo sicuro in punto di individuazione del momento
di preclusione dell’allegazione dei fatti principali, non mi sembrerebbe corretta. Non mi sembra, dunque, azzardato sostenere che coerenza vorrebbe che nella disciplina di quei passaggi si dovessero rintracciare precisi riscontri normativi positivi della possibilità di allegazione ulteriore dei fatti principali relativi al diritto oggetto della
domanda, piuttosto che dar peso al silenzio del legislatore sulla indicazione di un preciso momento per la preclusione di quella possibilità. Invero, un sistema processuale che esige l’indicazione fin dalla domanda dei fatti principali, anche quando essi non siano rilevanti per la identificazione del diritto oggetto della domanda, sarebbe incoerente se nelle fasi successive del giudizio non prevedesse alcun limite alla successiva allegazione di fatti principali nuovi, poiché non avrebbe senso esigere che fin dall’introduzione della lite quei
fatti debbano essere indicati a pena di nullità della citazione e poi
lasciare del tutto aperta la possibilità di allegazioni ulteriori. È quanto dire che un sistema che esige che i fatti principali siano allegati
fin nella domanda anche quando non servano ad individuarla rivela
l’intenzione del legislatore di far scattare tendenzialmente le preclusioni alla allegazione di quei fatti fin dalla citazione. Onde, bene si
spiega l’assenza di un’espressa previsione di un momento di preclusione successivo. Elementari esigenze di coerenza vogliono, invece,
che siffatto legislatore si ponga semmai il problema di prevedere un
temperamento del principio di eventualità così accolto, tenendo conto che l’esigenza di allegazione di nuovi fatti principali può discen391
dere: a) dalle emergenze del contraddittorio realizzatosi fin dalla memoria di costituzione del convenuto, il quale potrebbe con mere difese od eccezioni avere validamente contestato la sussistenza dei fatti principali allegati; b) dal rilievo da parte dello stesso attore di errori di difesa tecnica; c) dall’arricchimento dei fatti di causa potenzialmente emergente dall’interrogatorio libero, come efficacemente è
stato detto “istituzionalizzato”.
Risulta, così, coerente una scelta del legislatore che sia sensibile all’opportunità del temperamento del principio di eventualità, nel
senso della previsione espressa delle modalità con le quali l’ingresso
di nuovi fatti principali potrà avvenire nel giudizio.
Le considerazioni appena svolte vengono, invece, a cadere se si
accoglie la seconda spiegazione data dell’ipotesi di nullità ricollegata alla mancanza di deduzione dei fatti costituenti le ragioni della
domanda. Se, infatti, la novella è nel senso di esigere a pena di nullità solo l’allegazione dei fatti costitutivi relativi alle domande relative a diritti eterodeterminati, appare evidente che non può dirsi informato al principio per cui i fatti principali debbono essere allegati fin
dalla domanda.L’onere di allegazione di quei fatti per i diritti eterodeterminati risulta, infatti, privo di implicazioni sul sistema delle preclusioni, perché appare giustificato solo dall’esigenza di individuazione della domanda giudiziale. Certo, un sistema siffatto (e’ per questo che la mia preferenza va all’altra ricostruzione prospettata) sarebbe poco coerente, laddove, nel caso di domanda relativa a diritto autodeterminato immaginasse un’udienza di prima trattazione effettiva pur nel caso di completa omessa allegazione da parte dell’attore del fatto costitutivo della sua proprietà o, da parte di un locatore delle ragioni per le quali il contratto sarebbe scaduto in caso di
azione di finita locazione, etc. A tacer d’altro, il giudice non potrebbe procedere fruttuosamente all’interrogatorio libero senza prima
esercitare il potere di cui al terzo comma dell’art. 183 c.p.c. e bisognerebbe sperare che il convenuto accetti di replicare immediatamente alle emergenze dell’interrogatorio ed alle deduzioni attoree fatte in udienza.
Tuttavia, anche ove il sistema si dovesse ricostruire in questo
senso, ci pare che il legislatore, nel disciplinare la scansione processuale successiva del processo, non sarebbe certamente tenuto ad indicare espressamente il momento di preclusione dell’allegazione dei
fatti costitutivi per le domande relative a diritti autodeterminati, ma
392
potrebbe indicare tale momento anche implicitamente. Quanto ai fatti costitutivi dei diritti eterodeterminati (come pure, per l’ipotesi che
in relazione a domanda relativa a diritto autodeterminato fossero stati indicati i fatti costitutivi), varrebbero, poi, le medesime considerazioni svolte poco sopra sull’opportunità di un temperamento del
principio di eventualità.
VII. – A mio avviso, sia che si accolga l’una sia che si accolga
l’altra delle soluzioni prospettate, il sistema processuale voluto dal
legislatore del 1990 contiene nell’art. 183 l’implicita previsione che
la preclusione all’allegazione dei fatti principali relativi al diritto fatto valere con la domanda per l’attore si verifichi – come enunciai in
limine di questo paragrafo – nella prima udienza di trattazione o, al
più tardi con l’appendice di trattazione scritta di cui al primo inciso del quinto comma della norma. Tale implicita previsione si coglie
laddove il legislatore, nel terzo e finale inciso del quarto comma
dell’art. 183 e nel suddetto primo inciso del quarto comma di detta
norma, ha espressamente concesso all’attore il potere di modificazione della propria domanda introduttiva, da esercitarsi o nella prima udienza di trattazione o con il deposito di memoria ai sensi del
citato primo inciso del quinto comma. I due momenti ora detti (salva sempre l’ipotesi della rimessione in termini) sono certamente stabiliti come momenti ultimi per l’esercizio di tale facoltà. Lo si desume: a) dal fatto stesso che l’art. 184-bis preveda anche per tale potere la possibilità di una rimessione in termini; b) dal fatto che il legislatore ha immaginato una struttura processuale in cui alla prima
udienza di trattazione segue (o meglio possa seguire, se la causa non
deve essere altrimenti immediatamente definita) la fase istruttoria;
c) dal fatto che l’art. 189 c.p.c. sancisce espressamente che le conclusioni debbono essere precisate “nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’art. 183”; d) dal fatto stesso che
l’esercizio del potere tramite trattazione scritta è assoggettato a termine perentorio.
Ora, nel concetto di modificazione della domanda (pur dovendosi dare atto della delicatezza di tale nozione e della difficoltà della sua distinzione da quella del mutamento della domanda) mi pare
indiscutibile, secondo le più recenti elaborazioni dottrinali che hanno indagato il tema dei limiti oggettivi del giudicato che rientri anche [non, invece, necessariamente: è, infatti, pacifico che la modifi393
cazione possa consistere pure: a) nell’ampliamento del petitum immediato, come quando si passi dalla richiesta di mero accertamento a quella di condanna; b) nella riduzione quantitativa del petitum
mediato; c) nell’ampliamento quantitativo del petitum mediato, come quando si chieda il pagamento di una rata di prezzo di una vendita e si aggiunga la richiesta di altra rata; d) nella sostituzione del
contenuto del petitum originario con il suo equivalente monetario: si
era chiesto un bene e si chiede dopo il suo controvalore] l’allegazione di nuovi fatti principali, cioè di nuovi fatti costitutivi del diritto
fatto valere, la cui prospettazione non determini la conseguenza che
la domanda oggetto del giudizio finisca per concernere un diritto diverso da quello originariamente dedotto. Posto, infatti, che oggetto
del processo è “il diritto sostanziale affermato, meramente ipotetico,
fatto valere dall’attore con la domanda introduttiva” (l’espressione è
del MENCHINI, op. cit., p. 198; per la relativa efficace dimostrazione di tale affermazione, del resto conforme alla tradizione della dottrina processualcivilistica italiana, si vedano amplius le pp. 45 e segg.
di detta opera) appare evidente che il discrimine tra il concetto di
modificazione della domanda e quello di mutamento [emendatio e
mutatio libelli] deve necessariamente individuarsi, sempre che alle
espressioni “modificazione” e “mutamento” si dia il corrispondente
significato letterale, in un’attività di allegazione di fatti nuovi, la quale nel primo caso non determini un cambiamento così radicale dell’oggetto del processo da doversi ritenere che il diritto ipotetico dedotto in giudizio non sia più quello originario, ma uno diverso, mentre
nel secondo caso deve accadere l’esatto contrario, cioè le nuove allegazioni in fatto debbono provocare il cambiamento del diritto di
cui si chiede tutela.
VIII. – Ora, ponendo mente alle pregresse considerazioni sugli
elementi di individuazione dei diritti, è agevole scorgere l’attività di
allegazione idonea a comportare la modificazione della domanda giudiziale relativa ai diritti autodeterminati, nella deduzione di un fatto costitutivo diverso da quello originariamente dedotto (es.: l’attore
in rivendica, che aveva dedotto un titolo d’acquisto originario costituito dall’accessione, ne deduce uno nuovo fondato sull’usucapione).
Si tratta di una conclusione ribadita da più voci in dottrina: si vedano: LUISO, in CONSOLO-LUISO-SASSANI, op. cit., p. 95; ATTARDI, op. cit., pp. 71 e segg. e già nello scritto Le preclusioni nel
394
giudizio di primo grado, in Foro it., 1990, V, 386 e segg. L’allegazione di un nuovo fatto costitutivo lascia del tutto immutato il diritto
di proprietà di cui si discuteva. Più problematica sembrerebbe l’ipotesi di modificazione della domanda relativa a diritto eterodeterminato mediante l’allegazione di fatti costitutivi nuovi. Se, infatti, il diritto eterodeterminato è individuato dal fatto costitutivo, si potrebbe essere indotti a credere che l’introduzione di fatti costitutivi nuovi comporti per definizione un mutamento del diritto e quindi una
mutatio libelli. Tale conclusione, però, appare affrettata, al lume delle più recenti indagini sulla nozione di oggetto del processo, le quali hanno, infatti, evidenziato, da un lato la scarsa validità delle posizioni che vengono ripetute – devo dire piuttosto tralaticiamente –
in giurisprudenza in punto di mutamento della domanda dei diritti
eterodeterminati, laddove si sostiene empiricamente che il mutamento
vi sarebbe allorché’ si verifichi l’alterazione del nucleo dei fatti storici dedotti originariamente in giudizio (all’uopo si veda l’ampia rassegna fatta da MENCHINI, op. cit., 252-254, nota 105, 265-266, nota 123; adde FERRONI, “mutatio” ed “emendatio libelli” nel processo
civile di rito ordinario e di rito del lavoro, in Giust. civile, 1986, II, 86
e segg.), dall’altro lato l’altrettale criticabilità della nozione di fatto
costitutivo assunta dalla dottrina meno recente, la quale (vedi MENCHINI, op. cit., pp. 237 e ss.) o lo identificava con criteri naturalistici o (pur con due diverse sfumature) faceva correlare strettamente il diritto fatto valere alla fattispecie astratta corrispondente oggettivamente alle allegazioni di fatto dell’attore, intendendo cioè come fatto costitutivo identificatore del diritto eterodeterminato quel
fatto storico dedotto dall’attore sussunto sotto la fattispecie astratta.
Per cui l’allegazione da parte dell’attore di nuovi fatti storici, anche
se destinati ad operare con tutti o parte di quelli originari, in quanto avesse determinato la sussunzione sotto una diversa fattispecie
astratta, avrebbe determinato una mutatio della domanda (così, ad
esempio, fatta valere una pretesa risarcitoria, da qualificarsi alla stregua dei fatti storici dedotti come di natura contrattuale, l’allegazione di nuovi fatti storici che in concorso con parte di quelli originari avesse determinato una sussunzione della pretesa sotto il profilo
della responsabilità extra-contrattuale o precontrattuale, avrebbe determinato mutamento di domanda, per diversità della fattispecie legale). La più recente dottrina, dopo avere a ragione secondo noi criticato l’empirismo della giurisprudenza e la dottrina meno recente,
395
nel quadro di un orientamento di fondo opportuno qual è quello
dell’ampliamento della nozione di oggetto del processo, ha rilevato
che talvolta il diritto e, quindi, la domanda non muta ancorché vengano allegati nuovi fatti storici costitutivi, poiché in effetti la situazione giuridica sostanziale eterodeterminata fatta valere in relazione
al concreto episodio della vita oggetto di lite si presta apparentemente ad essere sussunta sotto l’ambito di norme giuridiche diverse
e, quindi, di diverse fattispecie legali, le quali, però, sono fra loro legate da un nesso che comporti che solo una di esse sia adeguata a
quel concreto episodio, di modo che è escluso che da esso possano,
come apparentemente sembra, scaturire gli effetti giuridici di tutte
le dette fattispecie legali. Si veda, per la relativa esemplificazione di
tali relazioni fra fattispecie sempre MENCHINI, op. cit., p. 248 e
segg., il quale le individua: a) in quella di esclusione, per cui due fattispecie astratte presentano alcuni elementi in comune ed un elemento diverso e tale che l’esistenza di quello previsto da una delle
due fattispecie esclude la sussistenza dell’altro: es., azione di adempimento contrattuale e azione di arricchimento senza causa, nelle
quali l’elemento di incompatibilità è rappresentato rispettivamente
dall’esistenza di un contratto, cioè di una “causa” dell’attribuzione,
e dalla sua inesistenza; b) nella relazione di specialità e sussidiarietà,
le quali ricorrono allorché due fattispecie legali si presentano in modo tale che tutti gli elementi di una siano presenti nell’altra, la quale presenti però un elemento aggiuntivo, il quale fa sì che essa si applichi alla concreta vicenda di vita che sembra sussumibile sotto entrambe le fattispecie o in base al principio per cui la legge speciale
prevale su quella generale o in base alla circostanza che la fattispecie che presenta l’elemento aggiuntivo è considerata dall’ordinamento sussidiaria rispetto all’altra, nel senso che si applica solo se non
si applica quella; es.: per la relazione di specialità l’ipotesi del preteso concorso fra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale del vettore nei riguardi del trasportato; per la relazione
di sussidiarietà in generale tutte le ipotesi in cui l’esistenza di una
responsabilità contrattuale esclude ragionevolmente che rispetto allo stesso bene e fra i medesimi soggetti possa ricorrere una responsabilità extracontrattuale; c) relazione di assorbimento, che vale a spiegare perché il fatto costitutivo del diritto non debba considerarsi mutato, ma solo modificato allorché in un primo momento lo si desuma da un determinato negozio giuridico e poi da uno successivo che
396
l’abbia novato oggettivamente, così assorbendone, appunto, l’efficacia; d) relazione di coincidenza cronologica, che sussiste allorquando
allo stesso episodio della vita sembrano applicabili due diverse fattispecie legali, le quali presentano un nesso tale che pur componendosi di elementi diversi, tuttavia l’ultimo elemento che temporalmente
è necessario per rispettivamente integrarle è lo stesso, sì che esse determinino lo stesso effetto giuridico, allorché in relazione alla stessa
vicenda storica abbiano a verificarsi gli elementi di entrambe: es.: Tizio agisce contro Caio ex art. 2043 c.c. per il risarcimento di un danno ingiusto cagionato da Sempronio e fa valere come titolo di responsabilità di Caio il fatto che costui è il padre di Sempronio (art.
2048 c.c.), ma poi deduce anche che ne è anche od invece il datore
di lavoro (art. 2049 c.c.). Per ulteriori riferimenti di dottrina si vedano: CONSOLO, “Mutatio libelli”: l’accettazione tacita o presunta e
l’eccezione di domanda nuova, ovvero un costrutto giurisprudenziale
incoerente, in Riv. dir. proc., 1990, 640; Id., Domanda giudiziale (dir.
proc. civile), voce del Digesto Italiano, paragr. 28; Id., Un codice di
procedura civile “seminuovo”.
In tutte le ipotesi ora dette il fatto che l’attore prima invochi
l’una fattispecie legale come costitutiva del diritto eterodeterminato
e poi invochi, allegando i fatti nuovi che ne debbono evidenziare la
ricorrenza (es.: la colpa del soggetto già convenuto ex art. 1218 c.c.,
del quale assuma la responsabilità ex art. 2043 c.c.), un’altra fattispecie legale collegata da una relazione del tipo di quelle indicate,
palesa solo una modifica della domanda ex art. 183 quarto comma
ultimo inciso c.p.c., sia pure tramite la deduzione di fatti costitutivi
nuovi rispetto al diritto eterodeterminato di cui trattasi.
IX. – Più problematico – ed al problema posso solo accennare
– è se nel nuovo rito il concetto di modificazione della domanda non
debba, in realtà essere inteso in senso più ampio, estendendosi a tutti quei casi nei quali i fatti nuovi allegati dall’attore siano tali da
fondare una domanda che rispetto a quella originariamente proposta si presenti in relazione tale che l’accoglimento dell’una precluderebbe la proposizione dell’altra (lo ipotizza autorevolmente ATTARDI, op. e loc. cit., nota 18; vedi anche CONSOLO, Un codice, etc.,
cit., 434). Tale situazione può presentarsi soprattutto con riguardo
alle ipotesi di giudizi aventi ad oggetto diritti alla modificazione giuridica, cioè diritti potestativi, che in precedenza non abbiamo con397
siderato. Si pensi al caso in cui, proposta domanda di risoluzione
del contratto per un determinato errore, si alleghi una diversa fattispecie di errore o addirittura si deduca una fattispecie di violenza o
di dolo (si veda per la problematica MANDRIOLI, Corso di diritto
processuale civile, I, sec. ed., Torino, 1978, pp. 132 e segg.). Certo,
se si accetta la tradizionale configurazione dell’oggetto delle sentenze costitutive come aventi ad oggetto il diritto potestativo, il problema (vedi MANDRIOLI, op. e loc. cit.) deve essere affrontato tenendo conto della fattispecie legale, convertendosi nella questione
della unitarietà o pluralità di esse. Così, sarebbe difficile non scorgere una modifica consentita nella deduzione di un errore diverso
da quello dedotto originariamente, tenuto conto che la fattispecie legale della annullabilità per errore è una sola. Più dubbio potrebbe
essere ammettere che sia modifica il passare dal dolo alla violenza
o all’errore e viceversa, perché potrebbe pensarsi che esistano azioni di annullamento diverse per queste tre figure. Se, invece, seguendo
la dottrina più recente si pensasse che l’oggetto delle sentenze costitutive sia “la disciplina del rapporto giuridico sul quale essa è destinata a produrre effetti” (MENCHINI, op. cit., p. 191) e che, in particolare, per la sentenza che pronunci su una domanda di annullamento di un negozio giuridico, esso si identifichi nell’accertamento
della attuale sua inesistenza in ragione della causa di annullabilità,
potrebbe pensarsi che si verta in ipotesi di semplice modificazione
della domanda, tenuto conto che il diritto oggetto della pronuncia,
così individuato, resta immutato.
Ma non possiamo dilungarci sulla questione. Vogliamo solo avvertire che quale che sia la soluzione che si dia al problema accennato, si deve tenere conto che l’eventuale soluzione negativa, cioè
quella che optasse per la qualificazione come mutatio, non appare
penalizzante per l’attore, che potrebbe benissimo introdurre la domanda basata su altri fatti autonomamente, ponendosi in questo caso un problema di eventuale connessione con quella originaria. Intendere, dunque, in modo più rigoroso e limitato alle sole ipotesi in
precedenza considerate, il concetto di modificazione della domanda
di cui all’ultimo inciso dell’art. 183 quarto comma non significa precludere la possibilità di tutela all’attore, pur ove si ammetta poi
l’estensione oggettiva del giudicato in modo che sia preclusa da esso la possibilità di esercitare una nuova azione di annullamento basata su un motivo diverso anche come qualificazione giuridica.
398
X. – Le lunghe – ma mi pare necessarie – considerazioni svolte
sul tema della modificazione della domanda con riguardo all’allegazione dei fatti costitutivi palesano, dunque, che alla sicura previsione di una preclusione nell’art. 183 alla modificazione della domanda deve essere dato anche il significato di previsione del momento
di preclusione anche per l’allegazione dei fatti principali relativi al
diritto fatto valere dall’attore, poiché non è immaginabile tale allegazione al di fuori del concetto di modificazione della domanda. Nel
contempo, la previsione della sola possibilità della domanda, consente di reputare mantenuto il divieto di mutatio libelli.
XI. – Un ulteriore argomento a favore della tesi che l’allegazione dei fatti principali da parte dell’attore si precluda nella prima
udienza di trattazione o nell’appendice di trattazione scritta in funzione della modifica della domanda, emerge dal sistema stesso accolto dal legislatore, che opportunamente ha distinto una fase di fissazione del thema decidendi da quella di fissazione del thema probandi. La netta distinzione fra queste due fasi, percepibile solo se
che si leggano di seguito gli artt. 183 e 184 rende coerente una ricostruzione dell’intenzione del legislatore in ordine a quella preclusione nel senso che il potere di allegazione si debba precludere prima della fase di fissazione del thema probandi. Se invece, si pensasse che il legislatore abbia lasciato aperta la possibilità di allegazioni
di fatti principali ulteriori dopo il passaggio dall’una all’altra fase il
senso della distinzione verrebbe meno, poiché l’ipotetica ulteriore attività di allegazione renderebbe non definito il thema probandi ed imporrebbe uno slittamento della fase processuale all’uopo deputata,
per la quale sono, invece, previsti termini perentori.
XII. – D’altro canto, non mi pare assolutamente che si fondi su
argomenti validi il pur autorevole tentativo di chi ha sostenuto che
il potere di allegazione dei fatti principali relativi al diritto dell’attore, a condizione che si tratti di fatti rilevabili d’ufficio dal giudice e
la cui allegazione non si debba reputare riservata all’attore in base
alla loro natura (cioè, in definitiva, non sia prevista dalla legge come esercizio di un diritto potestativo, in simmetria con quanto viene ritenuto a proposito delle eccezioni in senso lato, come vedremo),
resterebbe vivo per tutto il giudizio di primo grado e sarebbe spendibile anche in appello, ferma la persistenza delle preclusioni pro399
batorie già maturate ex art. 184 c.p.c. (PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., pp. 226 e segg.; TARZIA, Lineamenti, cit., pp. 123-124,
testo e note, per il quale, però nemmeno le preclusioni probatorie
resterebbero ferme).
Un primo argomento è dagli autorevoli sostenitori di questa tesi
desunto dalla circostanza che nella stesura definitiva dell’art. 183 sarebbe venuto meno l’inciso “ferma l’allegazione dei fatti storici”, cui
era condizionato il potere di modificazione della domanda in quello
che è stato uno dei progetti “madre” della riforma, cioè nel noto articolato FABBRINI-PROTO PISANI, nella stesura definitiva allegata al
parere del C.S.M. del maggio 1988 (in Foro Italiano, 1988, V, 294 e
segg. Tale inciso era approdato nel d.d.l. n. 1288 (c.d. progetto VASSALLI) ed in detto articolato risultava coerentemente ribadito, anche
nella norma dell’art. 345, dove si diceva espressamente che non potevano allegarsi nuovi fatti (e simmetricamente, a proposito dei fatti
principali relativi alla difesa del convenuto, si stabiliva il divieto di
rilevazione di nuove eccezioni, pur se fondate su fatti allegati, tranne che si fosse trattato di eccezioni rilevabili d’ufficio).
In realtà, come rivela il dibattito che occasionò la presentazione del cennato disegno di legge, la ragione della soppressione (vedine i riferimenti citati da LUISO, op. cit., pp. 84-85) di quell’inciso
non si può affatto dire espressione dell’intenzione del legislatore di
rendere allegabili i fatti principali (sia da parte dell’attore che del
convenuto) in tutto il corso del giudizio di primo grado. Essa fu, in
realtà motivata dal rilievo di buona parte della dottrina che quell’inciso contraddiceva la pur riconosciuta possibilità della modificazione della domanda, la quale avrebbe postulato l’allegazione di nuovi
fatti. Tale rilievo, giusta le considerazioni svolte sopra sulla nozione
di modificazione della domanda, a mio sommesso avviso era fondato almeno per l’ipotesi di modificazione della domanda relativa ai diritti autodeterminati (e, se la si ammette, per quelle ipotesi di modificazione che si ricolleghino al fatto della allegazione di fatti costitutivi di una domanda incompatibile con quella originaria). Infatti, la modificazione delle domande relative a tali diritti – come abbiamo visto – postula necessariamente la deduzione di un fatto costitutivo nuovo rispetto a quello dedotto in precedenza (esempio, usucapione al posto dell’invenzione). Onde, i fatti storici costitutivi di
tale domanda quando ha luogo la sua modifica non possono restare gli stessi. Minore fondatezza il rilievo poteva avere – sempre a no400
stro modo di vedere – con riguardo alla modificazione delle domande relative a diritti eterodeterminati, poiché le ipotesi alle quali, secondo la dottrina a noi prerferibile, la modificazione può ricollegarsi (cioè quelle delle relazioni fra fattispecie innanzi considerate), si
concretano in buona sostanza nella deduzione di nuovi fatti in aggiunta a tutti o a parte di quelli dedotti. Così, la deduzione della responsabilità extracontrattuale quando prima si era dedotta quella
contrattuale, postula l’allegazione della colpa, ma per il resto le circostanze di fatto restano identiche.
Comunque, è indiscutibile che l’inciso in questione venne soppresso per la sua incompatibilità (a mio avviso parziale, per quel che
abbiamo detto) con il potere di modificazione della domanda, cioè
con quello che abbiamo detto essere un temperamento al principio
di preclusione.
La preclusione al potere di modificazione è stata però mantenuta e, dunque, non vediamo come la tesi criticata possa trarre argomenti da quella soppressione.
XIII. – Il secondo argomento che la tesi criticata spende è certamente più “pesante” (nello stesso senso si veda CHIARLONI, Le
riforme del processo civile, cit., pp. 177-178) ed è rappresentato dal
rilievo che il nuovo art. 345 secondo comma c.p.c. ammette espressamente la proponibilità di nuove eccezioni rilevabili d’ufficio nel
giudizio d’appello (senza più distinguere tra allegazione del fatto integrante l’eccezione e rilevazione, come faceva il disegno di legge in
precedenza citato). Secondo buona parte della dottrina (a cominciare dal TARZIA, op. cit., pp. 244-245, che ribadisce quanto già affermato a proposito dell’analoga norma del rito del lavoro: Manuale,
cit., 231; SASSANI, in CONSOLO-LUISO-SASSANI, op. cit., p. 280;
PROTO PISANI, op. cit., p. 223 e segg.; BALENA, in Le nuove leggi
civili commentate, 1992, p. 216 nota n. 31) la previsione della norma
andrebbe intesa nel senso che i fatti integranti le eccezioni in questione potrebbero essere anche invocati e, dunque, allegati, in appello per la prima volta, con la conseguenza che a fortiori ne sarebbe libera l’allegazione nel giudizio di primo grado. Questa tesi a me
appare assolutamente non condivisibile, ma per ragioni di ordine
dell’esposizione mi pare più corretto darne conto in sede di esame
del problema della preclusione del potere di allegazione dei fatti principali relativi alla difesa del convenuto, cioè delle eccezioni in senso
401
lato. Mi basta segnalare per ora che non la reputo fondata e, quindi, idonea, per evidenti ragioni di simmetria a giustificare la possibilità della allegazione di nuovi fatti principali relativi alla domanda
dell’attore, nel limite della modificazione della domanda.
XIV. – Va ancora notato che la dottrina in questione (a differenza di quanto opina il maggior sostenitore della possibilità di allegazione ex novo delle eccezioni in senso lato nel giudizio d’appello: cioè il TARZIA, Lineamenti, cit., p. 124) ritiene che rispetto ai nuovi fatti principali allegabili dall’attore (come dal convenuto) restino
ferme nel corso del giudizio di primo grado le preclusioni probatorie sia ai mezzi di prova precostituiti che costituendi stabilite dall’art.
184, le quali verrebbero meno in appello in toto per quanto attiene
ai mezzi di prova precostituiti (cioè, essenzialmente, i documenti) e,
nei limiti del concetto di indispensabilità, quanto alle prove costituende (PROTO PISANI, op. cit., p. 222).
È stata segnalata a ragione l’incongruenza di un sistema processuale che consentisse le nuove allegazioni di fatti principali all’attore senza permettere in primo grado di accompagnarle con deduzioni istruttorie al di fuori dei limiti di cui all’art. 184 (CHIARLONI,
op. cit., 178) ed il rilievo mi trova perfettamente concorde. Analogamente (sempre CHIARLONI, ibidem) si è segnalato giustamente l’ulteriore incongruenza della diversità di regime delle preclusioni probatorie tra primo grado ed appello, dove esse verrebbero sostanzialmente meno, con la conseguenza che, con stridente contrasto con la
filosofia della riforma, per i fatti in questione manterrebbe la fisionomia del vecchio rito, cioè quella di novum iudicium e non quella
di revisio prioris istantiae con essa coerente.
XV. – Un ulteriore punto poco convincente della tesi criticata è
quello della rilevabilità d’ufficio dei nuovi fatti principali relativi alla domanda attorea, che l’autorevole dottrina in esame inferisce da
una sorta di esigenza di simmetria con il tendenziale potere di rilevazione d’ufficio delle eccezioni del convenuto e che non ritiene sia
in contrasto con il principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato. L’assunto di tale rilevabilità rappresenta anzi il presupposto per il proposto trattamento analogo fra fatti principali nuovi dedotti dall’attore e fatti principali nuovi dedotti dal convenuto (scilicet: eccezioni in senso lato). Detto assunto mi pare contrastabile in
402
base al diritto positivo (sfumatamente in questo senso si veda CHIARLONI, op. cit., p. 181) e precisamente in base alla norma dell’art. 112
c.p.c. coordinata con quella dell’art. 99, cioè con il principio della
domanda. Invero, la distinzione fra un potere di rilevazione d’ufficio
e un potere di rilevazione esclusivamente della parte è posta dall’art.
112 esclusivamente per le eccezioni. Per quel che riguarda la domanda l’art. 112 esige che il giudice debba pronunciare su tutta la
domanda e non oltre i limiti di essa, con ciò ancorando il dovere decisorio del giudice a quanto l’attore abbia “chiesto”, anche avuto riguardo all’art. 99. Riesce, dunque, difficile immaginare che il giudice possa rilevare d’ufficio, senza espressa allegazione da parte dell’attore, l’esistenza in atti di fatti che giustificherebbero la modificazione della domanda (si vedano gli esempi proposti dallo stesso PROTO PISANI, op. cit., p. 227, sulle orme del MENCHINI e che abbiamo in precedenza considerato) e non sembra convincente il tentativo di dimostrazione dell’assunto fatto dal PROTO PISANI (si veda di
questo autore, anche: Appunti sulla tutela c.d. costitutiva e sulle tecniche di produzione degli effetti sostanziali, in Riv. dir. proc., 1991, 60
e segg.). Rispetto alla posizione dell’attore, infatti, l’art. 112 àncora
il potere del giudice alla domanda e, quindi, a qualcosa che l’attore
deve chiedere e, dunque, egli stesso non solo allegare, ma anche dedurre come idoneo a giustificare la tutela richiesta, essendo riservato al giudice solo il potere di qualificazione in diritto della richiesta
stessa, con la possibilità di accoglierla ove fondata su altra norma
(iura novit curia). Il giudice che qualificasse come ipotesi di responsabilità extracontrattuale i fatti dedotti dall’attore come fondamento di una responsabilità contrattuale eserciterebbe il poterer connesso al brocardo iura novit curia solo se l’attore avesse narrato i
fatti in modo da ricondurre la domanda alla norma dell’art. 2043 e
solo avesse sbagliato nell’invocare l’art. 1218. Non altrettanto potrebbe dirsi se quei fatti fossero stati prospettati in modo inidoneo
ad esprimere sul piano dell’onere dell’allegazione i fatti integranti
l’art. 2043 e, tuttavia, dalle emergenze degli atti o da diversa valutazione di fatti da parte del giudice emergesse la possibilità di una riconduzione all’art. 2043. Per intenderci: se l’attore, facendo valere la
responsabilità contrattuale non ha narrato i fatti che evidenziano la
colpa del convenuto, perché essa si presume una volta dimostrato
l’inadempimento, ma, per avventura, il giudice, valutando i fatti, si
convincesse che non vi è responsabilità ex art. 1218 c.c., ma ex art.
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2043, in ipotesi perché il comportamento indicato come inadempimento rivela sul piano oggettivo un fatto ingiusto ai sensi di detta
norma, in difetto di allegazione della colpa o del dolo e, quindi, di
invocazione da parte dell’attore della completa fattispecie dell’art.
2043, non potrebbe reputare che il “chiesto” sia una richiesta di tutela ai sensi di quell’articolo. E se lo facesse mi pare che andrebbe
ultra petita.
Anche per tale ragione la tesi qui esaminata appare non condivisibile.
Una volta negatane l’accoglibilità, ne segue anche che non si può
assolutamente condividere la restrizione che al significato della nozione di modificazione della domanda di cui all’inciso finale del quarto comma dell’art. 183 essa apporta, non potendo eludere la preclusione fissata dalla norma. Sostanzialmente tale opinione (PROTO PISANI, op. cit., pp. 229-230) propone di identificare detta nozione solo con ipotesi di modificazione della domanda relative al petitum (sono i casi, sopra considerati di sfuggita, della riduzione quantitativa
o della richiesta del controvalore, del passaggio dal mero accertamento alla condanna, cui viene aggiunta la proposizione di domande conseguenziali, come la richiesta di rivalutazione monetaria ex
art. 124 secondo comma c.c.).
Tra l’altro il sistema ricostruito come vuole la dottrina in questione si presenta gravemente incoerente, laddove preclude tali sicure attività di modifica della domanda prima di quelle ben più rilevanti conseguenti alla introduzione di nuovi fatti principali costitutivi. Per esemplificare, non si comprenderebbe perché anche per tutto il giudizio di primo grado l’attore potrebbe allegare il fatto nuovo dal quale emerge la qualificazione della domanda ex art. 2043 c.c.,
piuttosto che ex art. 1218 c.c., mentre gli sarebbe precluso di chiedere l’equivalente monetario del bene originariamente richiesto, una
volta scattata la preclusione al potere di modificazione della domanda,
così ricostruito.
XVI. – In conclusione, devo ribadire che il potere di allegazione
dei fatti costitutivi relativi alla domanda per l’attore, ferma l’esistenza di una preclusione soltanto tendenziale fin dalla citazione, si preclude al più tardi nella prima udienza di trattazione o nell’appendice di trattazione scritta di cui al primo inciso del quinto comma
dell’art. 183, cioè con l’esercizio del potere di modificazione della do404
manda. Successivamente al decorso del momento per l’esercizio di
tale potere un’allegazione di fatti costitutivi ulteriore potrebbe giustificarsi solo se ricorrano le condizioni di cui all’art. 184-bis c.p.c.
XVII. – Resta da dire che la modificazione della domanda è soggetta all’autorizzazione del giudice. La previsione di essa senza ulteriori requisiti (come i gravi motivi, cui allude l’art. 420) mi induce
a ritenere [re melius perpensa: vedi, infatti, quanto avevo sostenuto
nella mia op. cit., pp. 158-159) che i presupposti di esercizio di siffatto potere discrezionale del giudice siano da individuare non solo
dalle emergenze delle difese del convenuto, dall’esercizio di poteri di
rilevazione d’ufficio di questioni di diritto e di merito da parte del
giudice e dalle risultanze dell’interrogatorio libero, ma anche – indipendentemente dal fatto che siano stati evidenziati dalle difese del
convenuto, dal giudice o dall’interrogatorio libero – dalla commissione da parte del difensore di eventuali errori di difesa tecnica (contra, su questo punto, espressamente ATTARDI, Le nuove disposizioni, etc. cit., p. 73, per il quale l’esigenza che dovrebbe salvaguardare
la previsione dell’autorizzazione sarebbe quella di evitare intenti dilatori, i quali, peraltro, in prima udienza sono ben difficilmente immaginabili, come rileva LUISO, in CONSOLO-LUISO-SASSANI, La
riforma, cit., p. 93; PROTO PISANI, op. cit., non fa riferimento all’ipotesi dell’errore tecnico, enunciando solo le altre; TARZIA, op. cit., seguito da CHIARLONI, op. cit., p. 193, reputa idonea a giustificare
l’autorizzazione ogni situazione, soggettiva od oggettiva, idonea a giustificare il ritardo nella formulazione, nonché il mero ripensamento
della linea difensiva).
In definitiva, mi sembra che in proposito abbia ragione quell’autorevole dottrina che concepisce la modificazione della domanda come espressione di una sorta di ius poenitendi dell’attore, non necessariamente agganciato alle risultanze dello svolgimento della prima
fase del contraddittorio (LUISO, ibidem). In tale prospettiva, tuttavia, il senso della necessità dell’autorizzazione non ci sembra vada
individuato nell’esigenza di evitare dilazioni (come opina il LUISO,
pur con scetticismo, come si è detto poco sopra), ma soprattutto in
quella di consentire al giudice sia di filtrare la modificazione della
domanda, in modo che non abbia a verificarsi in modo surrettizio,
sia di valutare se quella divisata dall’attore sia una vera modificazione e non piuttosto una mutatio della domanda. Tale controllo da
405
parte del giudice, quando la modificazione viene richiesta in udienza viene esercitato ilico et immediate. Quando, invece, ha luogo la
concessione di termine per la formulazione della modificazione tramite deposito di memoria scritta ex primo inciso del quinto comma
dell’art. 183 c.p.c. deve venire esercitata tendenzialmente ex ante, dovendo, cioè il giudice farsi almeno accennare sommariamente l’oggetto della richiesta di modificazione. Comunque, il provvedimento
di autorizzazione bene può essere revocato, ove l’attore abbia mutato e non modificato la domanda (art. 177 primo comma c.p.c.).
Circa il significato dei “giusti motivi” per l’esercizio del potere
di modificazione tramite la memoria mi sembra che essi siano ravvisabili nella complessità della controversia e nella conseguente delicatezza dell’esercizio del potere di modificazione (come avevo scritto già nella cit. op., p. 159), cui aggiungerei l’esigenza del legale di
doversi consultare con il suo assistito.
6. Preclusioni pe l’attore relativamente ai fatti secondari
I. – Ci si deve domandare a questo punto se l’attore soffra di
preclusioni ed in quale momento riguardo all’allegazione di quegli
ulteriori fatti rilevanti per la decisione che si denominano fatti secondari.
II. – Con questa formula dottrina e giurisprudenza (vedi in proposito per tutti MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, vol.
I, Torino, sec. ed., 1978, pp. 130 e ss., testo e note; ivi ampie citazioni di dottrina e giurisprudenza) alludono anzitutto a quei fatti che
rappresentano gli elementi di mero contorno della fattispecie costitutiva di un certo diritto. Si pensi – l’esempio è del MANDRIOLI –
alla deduzione da parte dell’attore che il contratto di mutuo dedotto a causa petendi era stato concluso per 100: l’eventuale inesattezza di tale allegazione e la successiva deduzione che, in realtà, la conclusione era avvenuta per 90, non muta l’identità del diritto e del fatto costitutivo, che continua ad essere sempre lo stesso. Si pensi ancora al caso in cui l’attore assume di avere concluso un contratto di
somministrazione dedotto a causa petendi con una certa persona che
assume essere un mandatario del convenuto e successivamente indichi come tale una persona diversa. Si pensi al caso in cui l’attore
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abbia dedotto che il contratto venne concluso a mezzo telefono e poi
assuma, lasciando immutati tutti gli altri elementi storici della vicenda, che la sua conclusione avvenne tra persone presenti. Si faccia ancora il caso della introduzione da parte dell’attore di nuove allegazioni di fatti circa la dinamica dell’incidente stradale oggetto di
lite (l’esempio è del LUISO, op. cit., p. 92) o circa il modo di essere
dei luoghi in cui esso avvenne. Ancora: chiesto l’annullamento del
contratto per dolo e dedotta una certa modalità del raggiro perpetrato ex adverso, si allega successivamente che esso è avvenuto con
modalità in parte diverse. Detti elementi di mero contorno, proprio
per tale loro natura possono mutare senza che muti il diritto (e di
conseguenza la domanda) pur nel caso delle domande relative a diritti eterodeterminati. Si tratta di fatti che per la loro natura non valgono ad individuare la vicenda di vita oggetto di lite con riferimento alla fattispecie legale e per questo non sono da considerare costitutivi e principali, ma solo ne determinano in dettaglio il contenuto,
tanto che essi, mutando, lasciano immutata in senso storico la vicenda stessa. Non si tratta, cioè, di quegli elementi di fatto che consentono di risalire direttamente dalla fattispecie concreta alla fattispecie astratta. Onde, non svolgendo essi una funzione individuatrice del diritto, il loro mutamento è inidoneo a determinare una modificazione della domanda anche per quei diritti per la cui identificazione abbia importanza il fatto generatore (come accade appunto
per i diritti eterodeterminati). Il che non toglie che detti elementi
siano configurabili anche nei diritti autodeterminati, come accenneremo fra poco.
In secondo luogo nei fatti secondari sono ricompresi quei fatti
che, pur essendo assolutamente estranei alla fattispecie costitutiva
del diritto anche sotto l’aspetto di contorno innanzi indicato, sono,
tuttavia, rilevanti ai fini della decisione perché, ove dimostrati, consentono di desumere attraverso ragionamenti presuntivi (art. 2729
c.c.) la prova dei fatti integranti la fattispecie.
III. – Il momento della preclusione nel nuovo rito della allegazione dei fatti secondari varia, a mio avviso, a seconda che si tratti
dei fatti appartenenti alla prima specie oppure di quelli appartenenti alla seconda specie.
Per i primi, cioè per quelli che costituiscono gli elementi di contorno della fattispecie, ritengo (a modifica di quanto avevo afferma407
to nella mia op. cit., pp. 147-148) che la preclusione alla loro allegazione da parte dell’attore si verifichi o nella stessa prima udienza
di trattazione o con l’appendice di trattazione scritta prevista dal primo inciso del comma quinto dell’art. 183. Reputo, infatti, che tale
preclusione sia stata espressa dal legislatore col riferimento alla facoltà di precisazione della domanda (in ciò confortato da gran parte della dottrina, la quale, peraltro, a mio avviso inesattamente non
distingue fra le due specie di fatti secondari: LUISO, ibidem; CHIARLONI, op. cit., p. 192. Il PROTO PISANI, op. cit., al contrario, identifica i fatti secondari solo con quelli della seconda categoria innanzi indicata e coerentemente con quanto dirò anch’io individua il momento di preclusione della loro allegazione con riguardo all’art. 184
c.p.c.). All’uopo, solo chi sia animato da un atteggiamento di preconcetta opposizione alle linee generali ed alla filisofia della riforma
può trovare difficile l’identificazione del concetto di precisazione in
questo senso e reputare che sia stato poco opportuno distinguerlo da
quello di modificazione. La distinzione operata dal legislatore mi pare, invece, grandemente opportuna, se si tiene conto che l’esercizio
della facoltà di precisazione nella prima udienza di trattazione, a differenza di quella di modificazione, è libero, restando condizionata
all’esistenza di gravi motivi (di cui al primo inciso del quinto comma dell’art. 183) solo la possibilità di esercizio della facoltà per iscritto, cioè col deposito di memoria.
La ratio di questa diversa disciplina dell’attività di modificazione da quella di precisazione, una volta riferita quest’ultima agli elementi di contorno della fattispecie appare pienamente giustificata,
essendo l’allegazione di detti elementi in gran misura soggetta all’apporto dell’interrogatorio libero delle parti cui il giudice avrà precedentemente proceduto.
È pur vero, tuttavia (ma lo notiamo solo in termini descrittivi
della dinamica processuale quale sarà verosimilmente), che, nelle
domande concernenti diritti eterodeterminati, è arduo immaginare
l’allegazione del fatto generatore senza i suoi elementi di contorno.
Così, per esemplificare, se agisco per ottenere la restituzione di una
somma data a mutuo dovrò certamente indicare il termine pattuito
per la restituzione, che costituisce sicuramente una circostanza integrante un fatto secondario. Onde, pur dovendosi escludere che l’allegazione dei fatti in questione si precluda in citazione per tali diritti, è nel sistema che un’attività di allegazione degli stessi vi dovrà
408
pur essere di fatto fin dalla citazione e la facoltà di precisazione così si estrinsecherà soprattutto in un loro mutamento. Ma l’allegazione dei fatti secondari fin dalla citazione – sempre nei termini descrittivi di cui innanzi – apparirà in qualche modo spesso implicata anche nell’attività di deduzione dei fatti costitutivi delle domande relative a diritti autodeterminati. Così, se agisco in rivendica della proprietà di un certo fondo ed allego una fattispecie di acquisto
a titolo originario, basata sul decorso di un’usucapione ordinaria a
mio favore, maturata in forza di una serie di accessiones in possessionem verificatesi fra il possesso di colui che mi ha alienato il bene e dei suoi precedenti danti causa, non potrò non indicare le circostanze spaziali e temporali relative ai vari atti di acquisto del mio
dante causa e dei suoi danti causa ed all’insorgenza dei relativi possessi. Circostanze queste che rappresentano fatti secondari (il fatto
principale è, infatti, rappresentato dal decorso del possesso oggetto
delle accessioni continuamente ed ininterrottamente per un ventennio: l’atto di acquisto da parte mia a titolo, ad es., di compravendita è, invece, certamente un fatto secondario, posto che veri e propri fatti costitutivi della proprietà sono solo gli acquisti a titolo originario).
Il mancato esercizio della facoltà di precisazione della domanda
mediante l’allegazione di nuovi fatti secondari di contorno della fattispecie o mediante la loro allegazione ex novo (ove essi non fossero stati assolutamente indicati in citazione), comporterà, a mio avviso la rilevante conseguenza della preclusione della possibilità di
una loro successiva allegazione, che non potrà avvenire nemmeno
tramite le deduzioni probatorie di cui all’art. 184 c.p.c. Neppure detti fatti potranno essere introdotti nel processo tramite prove documentali. Solo le condizioni di cui all’art. 184-bis potranno legittimare una successiva allegazione di detti fatti.
D’altro canto, se l’attore imposta la citazione senza dedurre i fatti secondari e nemmeno li deduce utilizzando il potere di precisazione della domanda, sarà verosimile – lo vogliamo segnalare – la
conseguenza che si troverà nell’impossibilità di dedurre mezzi di prova idonei a dare dimostrazione della domanda. Non potrà, infatti,
verosimilmente formulare mezzi di prova costituendi (es. testimonianza) sui fatti costitutivi del suo diritto perché essi non sono specificati tramite i fatti secondari di contorno e non potrà produrre documenti relativi ai fatti secondari, in quanto essi non sono più alle409
gabili e le produzioni documentali (come meglio dirò in prosieguo)
sono possibili solo se concernono fatti tempestivamente allegati.
Un ulteriore notazione che voglio fare è che se fatti secondari
siano emersi dall’interrogatorio libero dovranno sicuramente essere
oggetto di esercizio della facoltà di precisazione della domanda per
poter essere rilevanti ai fini del decidere, in modo da consentire l’accoglimento della domanda siccome risultante dalla loro incidenza.
Ciò, in ossequio al principio dell’art. 112 valutato alla luce del principio della domanda, di cui all’art. 99. In difetto di utilizzazione in
funzione della precisazione della domanda detti fatti saranno rilevanti ai fini del decidere, ma solo in funzione della domanda siccome formulata originariamente e sotto tale aspetto potranno giustificarne l’accoglimento solo se la loro emersione non imponeva la precisazione della domanda stessa. Ove, invece, si tratti di elementi che
esigevano l’esercizio del potere di precisazione della domanda originaria, perché contrastanti con la sua formulazione potrà anche verificarsi l’impossibilità dell’accoglimento della stessa e non mi sembra che il giudice possa d’ufficio accogliere la domanda nella prospettazione che essa avrebbe assunto ove fosse stata precisata. Ciò
per il noto divieto ne procedat iudex ex officio. Questa ricostruzione,
d’altro canto, non nega la funzione di automatico arricchimento del
quadro dei fatti connaturale all’interrogatorio libero, ma solo è attenta al rispetto di quel divieto.
Devo, dunque, rimarcare che, al di là della scadenza del termine perentorio per la precisazione della domanda non sembra potersi andare nella ricerca del momento di preclusione dell’allegazione
dei fatti secondari in discorso. I quali, pertanto, se non risultano allegati entro tale momento non potranno formare oggetto di deduzione di prova costituenda e neppure potranno entrare nel giudizio
tramite prova precostituita documentale, in quanto il relativo documento dovrebbe essere considerato irrilevante ai fini del decidere.
Taluno autorevolmente ha invece sostenuto che pur dopo la prima
udienza di trattazione o (se non intendiamo male il pensiero dell’autore) dopo l’appendice di trattazione scritta di cui al primo inciso
del quinto comma dell’art. 183, potrebbero allegarsi fatti secondari
di contorno, pur senza precisare fino a quando (ATTARDI, Le preclusioni nel giudizio di primo grado, cit. e, successivamente, Le nuove disposizioni, pure cit., p. 74). Ma l’assunto non sembra condivisibile, in quanto a nostro sommesso avviso non si comprende come
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possa armonizzarsi con un ordinamento che distingue la fase di fissazione del tema della decisione e quella della definizione del tema
della prova, prevedendo anche per quest’ultima una decadenza (art.
184). Non sembra cioè razionale sostenere che possano allegarsi fatti secondari addirittura dopo la formazione delle preclusioni sulle deduzioni probatorie. Se, infatti, sono precluse le deduzioni probatorie non ha senso far perdurare il potere di allegazione di quei fatti.
IV. – Per i fatti secondari estranei alla fattispecie (come ebbi modo di rilevare nella nostra opera cit., p. 149) mi sembra, invece, che
il momento di preclusione della loro allegazione si collochi al di fuori dell’attività preparatoria inerente la fissazione del thema decidendi. Questa conclusione – al di là del dato positivo di cui subito si dirà
– è imposta sul piano dei principi dalla stessa scelta di un ordinamento processuale di distinguere nettamente la fase in cui si fissa
l’oggetto della decisione e quella in cui si fissa il tema della prova.
In quanto del tutto estranei alla fattispecie dedotta in giudizio, i fatti secondari in questione sono irrilevanti per la fissazione dell’oggetto della decisione (anche nel senso indiretto in cui lo sono invece i
fatti secondari di contorno) e non rilevano neppure in funzione della precisazione della domanda. Rilevano, invece, sul piano della fissazione del thema probandi. Ora, ancorché in modo tutt’altro che immediatamente percepibile, il nuovo rito processuale non sfugge a questa logica. La netta distinzione fra fase della fissazione del thema decidendi e fase della fissazione del thema probandi (a mio avviso espressa ottimamente dall’art. 184 della nota ultima stesura del Progetto
Fabbrini-Proto Pisani, recepito dal C.S.M. e poi considerato ad altri
fini dal legislatore della riforma. Questo progetto prevedeva espressamente all’art. 184 la deduzione solo ai fini della fissazione del tema della prova dei fatti secondari qui considerati) è, infatti, espressa dalla previsione sia della facoltà delle parti di proporre prove nella stessa prima udienza di trattazione, sia – e soprattutto – dalla previsione che a scelta delle parti il giudice debba concedere, dopo la
prima udienza e precisamente in essa o in un’udienza successiva (che
è quella di cui all’ultimo inciso del quinto comma dell’art. 183), un
termine per la produzione di documenti e l’indicazione di nuovi mezzi di prova (cosa che esclude che le preclusioni probatorie si verifichino negli atti introduttivi, cioè nella citazione e nella comparsa di
risposta). Essendo la deduzione dei fatti secondari in discorso pro411
prio funzionale alle deduzioni e produzioni ed anzi esprimendosi in
esse, si comprende che il termine preclusivo non può che essere proprio quello fissato per dette deduzioni e produzioni.
Deve, pertanto, ritenersi che il momento di preclusione per l’attore dell’allegazione dei fatti secondari rilevanti solo in funzione probatoria vada individuato al più tardi nella scadenza dei termini di
cui al secondo inciso del primo comma dell’art. 184 (nello stesso senso ora, come si è detto, PROTO PISANI, op. e loc. ult. cit.).
7. Preclusioni per l’attore relativamente alla “reconventio reconventionis” ed alle controeccezioni
I. – Sempre con riguardo alla posizione dell’attore il primo inciso del comma quarto dell’art. 183 precisa che egli può proporre nella prima udienza di trattazione le domande e le eccezioni che sono
conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto nella comparsa di risposta. La previsione obbedisce a ragioni di garanzia del diritto di difesa dell’attore, che appaiono di immediata percezione (e che non erano state regolate nel
rito del lavoro dall’art. 418 c.p.c.). La domanda conseguente alla riconvenzionale del convenuto è anzitutto la c.d. reconventio reconventionis. (Cass. 16/4/1968 n. 1105), la quale così vede riconosciuta
la sua ammissibilità, della quale si era discusso (si vedano in dottrina: FRANCHI, Della competenza per connessione, in Commentario del
codice di procedura civile diretto da ALLORIO, cit., p. 351; ZAPPAROLI, Nota sulla “reconventio reconventionis”, in Riv. dir. civ., 1958,
I, p. 291 e segg.). Così, proposta domanda di condanna all’adempimento di un’obbligazione pecuniaria ed eccepita dal convenuto la
compensazione di detto credito con un proprio controcredito nascente
da rapporto giuridico diverso da quello su cui si fonda quello dell’attore, ove l’eccezione di compensazione siasi trasformata in domanda
(art. 35 c.p.c.), perché contestata dall’attore, bene potrà costui, piuttosto che limitarsi a controeccepire le relative circostanze, proporre
domanda riconvenzionale di accertamento negativo dell’esistenza di
quel rapporto, qualora abbia interesse ad ottenere un accertamento
pieno sulla sua inesistenza (come accadrebbe se da detto rapporto
originassero secondo il convenuto anche altri crediti ulteriori rispetto a quello fatto valere). Nella stessa situazione, potrà (ed anzi dovrà
412
farlo necessariamente con una domanda, posto che è dubbia la deducibilità in via incidentale delle c.d. eccezioni costitutive al di fuori in cui l’ordinamento lo prevede: sulla questione vedi ORIANI, voce Eccezione, nel Digesto civile, pp. 262 e segg., specie pp. 285 e segg.)
proporre domanda di risoluzione per inadempimento del contratto
costituente la causa petendi del controcredito del convenuto (questo
esempio è del PROTO PISANI, che, però, non si pone la questione
dell’accertamento costitutivo incidentale, che non mi pare possibile
per la risoluzione, che dubiterei possa dedursi in via incidentale, senza, cioè, apposita domanda riconvenzionale di risoluzione).
II. – Le eccezioni relative alla riconvenzionale del convenuto sono costituite da quei fatti giuridici che assumono efficacia estintiva,
modificativa od impeditiva dell’efficacia dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in riconvenzione dal convenuto (si pensi ad un’eccezione di decadenza dalla denunzia dei vizi relativamente ad una redibitoria dal convenuto). Va notato (lo avevo già fatto nell’op. cit., p.
149 ed a quel che mi consta, nessun altro in dottrina lo ha fatto) che
la legge non distingue fra eccezioni di merito in senso lato ed in senso stretto. Ne discende che l’onere dell’attore concernerà non solo
l’allegazione dei fatti integranti le seconde, ma pure di quelli integranti le prime. Queste ultime non avranno più – in difetto di allegazione – possibilità di “entrare” nel processo, salvo che per la via
eccezionale dell’art. 184-bis (rimessione in termini). Questo rilievo –
come emergerà in prosieguo – apparirà importante ad altri fini.
III. – Circa l’ipotesi della domanda dell’attore conseguenziale alle eccezioni del convenuto, è facile arguire (e la dottrina è unanime
sul punto) anzitutto che il legislatore abbia inteso riferirsi (contra
MONTESANO-ARIETA, Il nuovo processo civile, Napoli, 1991) anche
alla domanda di accertamento con efficacia di giudiccato pieno di
un rapporto pregiudicante contestato dal convenuto (art. 34 c.p.c.),
nonché alla domanda che l’attore proponga per l’accertamento di un
rapporto che sia stato eccepito dal convenuto senza ch’egli l’abbia
fatto oggetto di domanda riconvenzionale, essendo rimasto sul mero piano dell’eccezione. Si pensi al caso in cui il convenuto eccepisca la nullità del contratto senza chiederne l’accertamento in riconvenzionale e l’attore sia indotto a formulare domanda di accertamento negativo della nullità.
413
IV. – A carico dell’attore è posto pure l’onere di allegare nella
prima udienza le eccezioni che sono conseguenza “delle eccezioni
proposte dal convenuto nella comparsa di risposta”. La formula, che
concerne quelle che una volta si chiamavano le replicationes, non appare chiarissima, in quanto non si comprende se si è inteso alludere alle sole eccezioni in senso stretto (di rito e di merito) rilevate –
a pena di decadenza – dal convenuto nella comparsa di risposta od
anche alle eccezioni in senso lato di merito e di rito comunque (anche se non ve ne era bisogno: vedi il mio commento all’art. 167,
nell’op. cit., pp. 91-92; sulla questione vedi infra) dal medesimo rilevate nella comparsa di risposta. propenderei per qusta seconda soluzione, posto che non vi sarebbe ragione di non far decadere l’attore pure dalle controeccezioni relative alle eccezioni di merito e di
rito in senso lato che il convenuto abbia ritenuto di sollevare nella
comparsa di risposta.
V. – Una ulteriore notazione che voglio fare è che, se si ritiene
(come mi pare indiscutibile: vedi quanto scrivo nella mia op. cit., p.
95; nello stesso senso PROTO PISANI, op. cit., p. 118) che il convenuto possa chiedere solo nella comparsa di risposta in analogia con
la preclusione stabilita per la domanda riconvenzionale (nel cui ambito va ricompresa la domanda di compensazione) l’accertamento
con efficacia di giudicato pieno di un rapporto pregiudicante rispetto a quello oggetto della domanda dell’attore, appare evidente che la
replica dell’attore tramite eccezioni avverso tale domanda dovrà ritenersi disciplinata sempre dalla norma che si considera e dovrà pertanto avvenire in udienza (così anche TARUFFO, op. cit., p. 259).
VI. – Infine, si è discusso in dottrina se la nozione di domanda
conseguenziale alla riconvenzionale (o – aggiungo, in dipendenza delle pregresse considerazioni – alla domanda di compensazione o di
accertamento con efficacia di giudicato pieno di un rapporto pregiudicante) possa essere intesa in senso più ampio di quanto riconducibile stricto sensu al concentto di reconventio reconventionis. Tanto che più voci hanno posto il problema della opportunità di una ricostruzione in senso ampio del concetto di domanda conseguenziale in vista dell’esigenza di evitare la frammentazione di giudizi. Ma
gli esempi proposti di casi nei quali si andrebbe al di là del concetto di reconventio reconventionis mi pare che siano nient’altro che
414
esempi di quella figura: così dicasi per l’esempio fatto dal LUISO (op.
cit., p. 87) dell’attore che, avendo domandato l’adempimento del contratto ed essendosi visto domandare in via riconvenzionale dal convenuto l’annullamento dello stesso, chieda la restituzione della prestazione a sua volta già eseguita (l’esempio viene esteso dal LUISO
anche al caso in cui l’annullabilità sia stata dedotta dal convenuto
solo in via di eccezione, che qui, al lume dell’art. 1442, terzo comma c.c. non deve fare i conti con la questione dell’ammissibilità
dell’accertamento costitutivo incidentale, cui innanzi abbiamo accennato). Altrettanto dicasi per l’esempio proposto dal PROTO PISANI (op. cit., p. 141), secondo cui, chiesto dall’attore l’adempimento di una rata di obbligazione periodica (rendita vitalizia) e proposta domanda di annullamento del contratto (di rendita) dal convenuto, l’attore potrebbe proporre domanda di condanna in futuro del
convenuto al pagamento delle rate successive (in questo esempio
emerge, d’altro canto, la questione dei limiti di ammissibilità della
condanna in futuro; anche il PROTO PISANI propone l’esempio con
riguardo alla circostanza che il convenuto siasi limitato ad eccepire
l’annullabilità).
In realtà, mi pare che il problema di un’interpretazione lata del
concetto di domanda conseguenziale abbia ragion d’essere solo per
le domande accessorie e conseguenti alla stessa domanda dell’attore
(es.: domanda relativa agli interessi o alla rivalutazione monetaria
non proposta con la citazione). Ma dette domande non sono sicuramente contemplate dal primo inciso del quarto comma dell’art. 183
c.p.c., a meno di dare una lettura dello stesso che tralasci non solo
il senso letterale, ma anche lo scopo della norma, che sono univocamente deputati a consentire un’attività dell’attore ricollegantesi alle “difese” del convenuto, laddove dette domande in alcun modo possono ad esse ricollegarsi, non essendo state, in realtà, proposte per
dimenticanza dall’attore fin dalla citazione.
A mio avviso, la possibilità di una loro introduzione [per chi non
si contenti di negarla: MANDRIOLI, Le modifiche del processo civile,
Torino, 1991, p. 63; ATTARDI, Le preclusioni nel giudizio di primo
grado, cit., p. 392, il quale segnala esattamente che nel nuovo art.
183 non è stata usata la formulazione dell’art. 183 testo originario
del c.p.c. del 1940, la quale (al secondo comma) ammetteva l’attore
a proporre le domande (ed anche – con formula a mio avviso ambigua – le eccezioni) che fossero conseguenza diretta di quelle for415
mulate in citazione; sulle orme dell’ATTARDI anche LUISO, op. cit.,
il quale riferisce il caso (deciso da Cass. 24 novembre 1949, n. 2497)
della proposizione da parte dell’attore di domanda di risoluzione del
contratto senza il cumulo della domanda di restituzione] andrebbe
semmai ricondotta nell’alveo di un concetto ampio di modificazione
della domanda da parte dell’attore e, quindi all’inciso finale del quarto comma dell’art. 183 c.p.c. (così, sia pure non a commento dell’art.
183 quarto comma primo inciso, PROTO PISANI, op. cit., p. 230, nel
quadro della sua ricostruzione restrittiva della nozione di modificazione della domanda che sopra ho criticato; vedi anche VERDE-DI
NANNI, Codice di procedura civile. Legge 26 novembre 1990, n. 353,
Torino, 1991, p. 80).
Ma in questo caso occorrerebbe l’autorizzazione del giudice.
Certo, l’argomento della mancata previsione espressa di una simile
possibilità a fronte della scelta contraria per le domande conseguenziali alla riconvenzionale deve fare i conti con il principio giurisprudenziale e dottrinale che tende a ritenere che l’accertamento
sulla domanda principale possa in qualche modo precludere un nuovo giudizio solo su quella accessoria quando si tratti di vere e proprie domande accessorie in senso stretto, quali quelle di rivalutazione mometaria ed interessi. Dall’altro lato, va rilevato che il cumulo della domanda conseguenziale con quella originaria dell’attore potrebbe far sorgere un problema di competenza per valore e,
quindi, importare una dilazione del giudizio, alla quale il convenuto potrebbe non avere interesse. Si potrebbe, dunque, pensare, tenuto conto che la facoltà di modificazione si è correlata (vedi retro) anche ad errori di difesa tecnica, che la proposizione della domanda conseguenziale sia da consentire in questi casi ove non incida sulla competenza oppure sia proposta con riguardo al momento
successivo alla litispendenza così verificandosi la sua ininfluenza
all’uopo.
VII. – Un falso problema – se non m’inganno – mi sembra quello della possibilità che la domanda dell’attore ex primo inciso del
quarto comma dell’art. 183 tragga giustificazione dalle mere difese
del convenuto. Tale questione vede in autorevole contrapposizione il
TARZIA (op. cit., p. 89) che si esprime per la negativa, ancorché facendo leva genericamente sulla lettera della legge, e l’ORIANI (L’eccezione di merito nei provvedimenti urgenti per il proceso civile, in Fo416
ro It., 1991, V, c. 33), il quale è per la tesi positiva. A nostro avviso
si tratta di un falso problema, poiché (come rileva anche ORIANI,
ibidem) è la stessa legge che immagina la possibilità che l’attore possa proporre una domanda a seguito di una mera difesa del convenuto, laddove con l’art. 34 riconosce all’attore la possibilità di chiedere l’accertamento con efficacia di giudicato pieno del rapporto pregiudicante, la cui esistenza sia contestata (appunto con una mera difesa) dal convenuto. Secondo l’ORIANI (op. cit., ibidem) una situazione diversa da quella dell’art. 34, ma pur sempre riconducibile alla mera difesa e meritevole della stessa soluzione, si avrebbe qualora il convenuto contestasse la qualificazione giuridica del contratto
posto dall’attore a sostegno della sua domanda, come ad esempio ove
assumesse di avere ricevuto la prestazione a titolo di donazione e
non di mutuo (l’esempio viene tratto dal GRASSO, La pronuncia d’ufficio, Milano, 1967, p. 247). Peraltro questo esempio, che allude sicuramente ad una mera difesa, a me pare riconducibile al concetto
di pregiudizialità di cui all’art. 34, se inteso anche come relativo alla c.d. pregiudizialità per incompatibilità fra rapporti. Ben potrebbe
l’attore chiedere, dunque, l’accertamento con efficacia di giudicato
pieno, tenuto conto che, per le implicazioni connesse all’atto di liberalità potrebbe avere interesse ad esso anche non in funzione del
solo accoglimento della sua domanda originaria.
VIII. – Sulla questione della replica del convenuto alle nuove domande ed alle controeccezioni dell’attore ex primo inciso del quarto
comma riferiremo oltre. Così pure per i rapporti fra il potere dell’attore ai sensi di questa norma e l’art. 180 c.p.c.
8. Preclusioni per l’attore riguardo alla chiamata di un terzo
Sempre ex art. 183 quarto comma nella prima udienza l’attore
può chiedere di essere autorizzato a chiamare in giudizio un terzo
ex artt. 106 e 269 terzo comma c.p.c., se però l’esigenza della chiamata è sorta a seguito alle difese del convenuto (si pensi alla riconvenzionale di risarcimento danni del convenuto, in relazione alla quale l’attore voglia chiamare il suo assicuratore). Sulle relative problematiche non è questa la sede per intrattenersi e rimando al mio commento al nuovo art. 269 c.p.c. (op. cit., 231 e segg.).
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9. Preclusioni alle allegazioni per il convenuto
Per quel che riguarda la posizione del convenuto, va rapidamente
ricordato che il potere di rilevazione delle eccezioni di merito e di
rito non rilevabili d’ufficio (eccezioni in senso stretto) è già precluso fin dalla scadenza del termine per il tempestivo deposito della
comparsa di risposta (salva, a mio avviso, la possibilità di una rimessione in termini in applicazione analogica dell’art. 184-bis: vedi
il mio commento all’art. 167, op. cit., pp. 90-91).
Il probelma delle preclusioni in relazione alla prima udienza di
trattazione o comunque rispetto alla fase di trattazione scritta con
la quale successivamente ad essa talune attività ad essa ricollegate
possono svolgersi, si pone anzitutto per le eccezioni di merito in senso lato (sulla questione della loro distinzione dalle eccezioni in senso stretto, su cui non è questa la sede per indugiare, non ho che da
rimandare allo scritto di ORIANI, L’eccezione di merito, etc., citato,
dove se ne fa ampia disamina).
10. Le eccezioni di merito in senso lato del convenuto avverso la domanda introduttiva dell’attore. Il potere di precisazione e modificazione delle eccezioni
I. – Argomentando a contrario dal comma secondo dell’art. 167
si ricava che la proposizione delle eccezioni di merito in senso lato
da parte del convenuto non subisce alcuna preclusione con il decorso
del termine fissato per il tempestivo deposito della comparsa di risposta. L’assenza di tale preclusione (rimando sempre alla mia op.
cit. ibidem) significa che il convenuto non solo non ha l’onere di sollevare (scilicet rilevare) le eccezioni di merito nella comparsa di risposta, ma pure che egli non ha l’onere di allegare nella comparsa i
fatti che le integrano.
Questa precisazione appare opportuna, perché a mio sommesso
avviso conserva tuttora validità la distinzione che un’autorevole dottrina (FABBRINI, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1975, p. 76),
con riguardo alla disciplina del rito del lavoro (che, come è noto,
nell’art. 416 distingue le eccezioni in senso stretto da quelle in senso lato), ebbe a fare tra il potere di rilevazione dell’eccezione e quello di allegare, cioè far entrare nel processo i fatti (in senso critico)
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che ne costituiscono il fondamento. La distinzione venne proposta
non solo a proposito delle eccezioni di merito in senso stretto, ma
pure a proposito di quelle in senso lato. Con riguardo alle prime la
distinzione fra i due poteri è di evidenza solare: così, può benissimo
risultare dagli atti del giudizio, cioè dalle allegazioni di fatto delle
parti (e dal notorio o dalle risultanze probatorie legittimamente acquisite) che il diritto oggetto di lite è prescritto, ma finché la parte
non chiede al giudice di rilevare la prescrizione, l’eccezione si deve
reputare non proposta, ancorché quella stessa parte abbia introdotto nel giudizio le circostanze di fatto che evidenziano la prescrizione (o esse risultino dal notorio o dalle prove legittimamente acquisite). Ma la distinzione ha una sua rilevanza anche per le eccezioni
di merito in senso lato (come sostenne il FABBRINI). Infatti, contrariamente a quanto sostenuto, pur con autorevolezza, da altra più
recente dottrina (ORIANI, op. cit., c. 31) deve reputarsi che anche
per dette eccezioni sia possibile distinguere il momento dell’allegazione del fatto che le integra dall’attività di rilevazione, che è indifferentemente esercitabile dalla parte o dal giudice. In contrario (appunto l’ORIANI) ha sostenuto che, per le eccezioni di merito in senso lato l’allegazione del fatto implicherebbe sempre anche la rilevazione dell’eccezione, in quanto non sarebbe dato distinguere tra l’attività di allegazione del fatto rilevante come eccezione in senso lato
e l’attività di rilevazione della relativa eccezione, da parte del litigante interessato a tale rilevazione. In realtà, ciò – come contraddittoriamente riconosce anche la dottrina in discorso, la quale espressamente osserva (op. cit., ibidem, nota n. 12) che sarebbe così nel
“novantanove per cento dei casi” – accade solo di regola. Mi sembra,
invece, che ben possano verificarsi casi in cui i due momenti restano anche concettualmente distinti, come ad esempio accade allorché
una parte narri dei fatti che, secondo le sue intenzioni dovrebbero
evidenziare certe conseguenze giuridiche, senza accorgersi che ne evidenziano delle altre, rilevabili d’ufficio dal giudice (non essendovi qui
da far i conti col principio della domanda, come per i fatti principali relativi alla domanda attorea, di cui si è detto retro). Di modo
che non si tratta di semplice opera di qualificazione in diritto, da
parte del giudice, del fatto allegato dalla parte, ma appunto di rilevazione della efficacia giuridica di fatti che la parte inconsapevolmente aveva apportato al processo. Esempio: si sostiene infondatamente la mancata conclusione del contratto posto a fondamento del419
la domanda, allegando, invece, inconsapevolmente dei fatti che integrano una fattispecie di risoluzione consensuale (eccezione rilevabile d’ufficio: si veda la giurisprudenza citata da ORIANI, op. cit., c.
18, nota 61). In un caso del genere mi sembra innegabile che debba
distinguersi il momento dell’allegazione del fatto integrante l’eccezione e quello della rilevazione dell’eccezione. Ma v’è di più: rilevare un’eccezione in senso lato può anche non comportare l’allegazione stessa del fatto storico che ne costituisce il fondamento. Così, se
in comparsa il convenuto deduce genericamente di avere pagato, senza indicare come, quando e a mani di chi, l’eccezione è certamente
proposta poiché ai sensi dell’art. 112 c.p.c. il giudice è tenuto a tenerne conto ai fini della decisione, ma non può certo dirsi che sia
stato allegato il fatto che dovrebbe integrarla. All’uopo, sarebbe occorso precisare quel come, quel quando e a chi, cioè le note naturalistiche del fatto giuridico eccezione di pagamento. Il giudice di
fronte ad un comportamento del convenuto che si astenesse dal fornire quelle precisazioni, non potrebbe certo reputare non proposta
l’eccezione, ma dovrebbe dire che non è stato nemmeno dedotto il
fatto che doveva fondarla e conseguentemente che ne è mancata la
prova. Si pensi ancora al caso in cui nella comparsa il convenuto
faccia riferimento ad un documento prodotto con essa da cui si evince fra l’altro un pagamento all’attore creditore non per allegare e rilevare tale eccezione, ma solo per sostenere – si badi richiamando il
contenuto del documento in un punto diverso da quello che dà rappresentazione del pagamento – che vi è stata rimessione di quel debito, mentre, in effetti, quest’ultima si riferisce ad altro credito. In
tal caso è evidente che il fatto allegato in senso storico e del quale
nel contempo è rilevata l’efficacia propria dell’eccezione è quello,
emergente dal documento, che secondo il convenuto integra la remissione e non anche il fatto, sempre rappresentato nel documento
che integra il pagamento (entrambe dette eccezioni sono considerate eccezioni in senso lato). Al massimo, reputando che i fatti emergenti dai documenti, in forza del principio di acquisizione processuale, si considerano comunque allegati, cioè narrati, quel fatto si
può considerare allegato, cioè entrato nel processo in quanto facente parte del contenuto rappresentativo del documento che è acquisito al processo, ma non certo può dirsi che il convenuto abbia chiesto al giudice di considerarlo ai fini del decidere, cioè ne abbia rilevato l’efficacia giuridica. Ciò è tanto vero che per l’attore nemmeno
420
si porrà il problema di replicare a qualcosa che il convenuto non ha
addotto a sua difesa.
II. – Chiarito, dunque, che la distinzione fra attività di allegazione e di rilevazione dell’eccezione si può concepire anche per le
eccezioni in senso lato, mi pare che sia legittimo domandarsi se –
ferma restando la possibilità di rilevare le eccezioni in senso lato anche dopo il deposito della comparsa (cioè, ad esempio, di chiedere
al giudice di tener conto del pagamento) – non possa precludersi col
termine per il deposito della comparsa il potere di integrare i fatti
che possono integrarle.
Ma la risposta deve essere negativa, poiché l’art. 167 non sanziona l’omissione della deduzione di tutte le difese, nonostante l’apparente assolutezza del “deve”, di cui al suo primo comma.
Ecco, dunque, che il problema della preclusione della deducibilità delle eccezioni di merito in senso lato si propone con riguardo
al tema delle preclusioni relative alla prima udienza di trattazione e
ciò quanto ad entrambi i momenti con cui essa si articola.
III. – A mio modesto avviso è proprio la prima udienza di trattazione a segnare il momento di preclusione dell’allegazione dei fatti integranti le eccezioni in senso lato, ferma restando la possibilità
che la mera rilevazione della loro efficacia giuridica abbia luogo ad
istanza di parte o d’ufficio anche in un momento successivo.
La preclusione in prima udienza dell’allegazione dei fatti costituenti le eccezioni di merito in senso lato mi sembra che si desuma
sia dalla logica generale del nuovo rito, sia da precise indicazioni normative che chiaramente la suggeriscono. Sotto il primo profilo, appare evidente che un sistema processuale chiaramente impostato sulla netta distinzione fra la fase della fissazione del thema decidendi e
quella della fissazione del thema probandi, qual’è quello espresso dagli artt. 183 e 184 c.p.c., non può tollerare che i fatti integranti le eccezioni in senso lato siano allegabili dopo la fissazione del tema della decisione, cioè del quadro dei fatti direttamente rilevanti in funzione dell’oggetto della decisione (fatti principali). E ciò per due ragioni: a) perché i fatti che integrano le eccezioni in senso lato rientrano fra quelli direttamente rilevanti in funzione dell’oggetto della
decisione (anche se non lo allargano: FABBRINI, L’eccezione di merito nello svolgimento del processo di cognizione, in Studi in memoria di
421
Carlo FURNO, Milano, 1973 ed ora in Scritti giuridici, Milano, 1989),
onde non si comprenderebbe come quest’oggetto si potrebbe dire fissato senza di essi; b) perché alla fase della fissazione del tema della
decisione si prevede che succeda a pena di preclusione quella della
fissazione del tema della prova, onde, ove l’allegazione dei fatti di cui
si discorre non subisse preclusioni, neppure quest’ultima fase potrebbe
reputarsi veramente definibile a pena di preclusione, perché la possibilità dell’allegazione dei fatti costituenti le eccezioni di merito in
senso lato dovrebbe avere come logica conseguenza anche il riconoscimento al convenuto della possibilità di provarli e, dunque, occorrerebbe immaginare un’appendice alla fase probatoria. Non avrebbe
senso, infatti, consentire l’allegazione dei fatti costituenti le eccezioni di merito in senso lato e non consentirne poi anche la prova.
IV. – È ben evidente che potrebbe superarsi questo rilievo facendo coincidere il momento della preclusione dell’allegazione di quei
fatti con quello della preclusione delle allegazioni probatorie, cioè
con l’eventuale udienza di cui all’art. 184 nuovo testo (in tal senso
si veda autorevolmente ORIANI, L’eccezione di merito nei provvedimenti urgenti, cit., c. 33).
Senonché questa conclusione ci sembra da respingere alla luce
di taluni indici normativi che si colgono inequivocabilmente nell’art.
183 e che sono nel senso di rendere implicita la volontà del legislatore che il convenuto alleghi a pena di decadenza i fatti integranti le
eccezioni di merito in senso lato nella stessa prima udienza di trattazione. Gli indici in questione sono i seguenti: a) il fatto che il primo inciso del quarto comma dell’art. 183 preveda che l’attore debba
proporre nella stessa prima udienza le eccezioni che sono conseguenza
della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto nella comparsa di risposta; b) il fatto che il secondo inciso del
comma quinto dell’art. 183 preveda che il convenuto possa ottenere
su sua richiesta un termine per replicare alle domande ed alle eccezioni dell’attore di cui al primo inciso del comma quarto e per proporre le eccezioni che sono conseguenziali a quelle domande.
La circostanza sub a) evidenzia che il legislatore non ha distinto le facoltà dell’attore in punto di eccezioni di merito in ordine alla riconvenzionale ed alle eccezioni del convenuto proposte nella comparsa di risposta, e quindi, ha imposto all’attore di allegare nella prima udienza di trattazione sia i fatti integranti le une che le altre.
422
Ora, se la posizione dell’attore è stata trattata così non si vede come
potrebbe giustificarsi un trattamento privilegiato del convenuto a proposito di eccezioni ch’egli avrebbe potuto allegare – a differenza
dell’attore, che ha come punto di riferimento la comparsa di costituzione – fin dalla conoscenza della citazione. Si avrebbe una evidente irrazionalità di disciplina. Analogamente la circostanza sub b),
laddove evidenzia che il convenuto è tenuto ad allegare nel termine
concessogli (od ove non lo abbia richiesto nella stessa udienza) i fatti integranti le eccezioni di merito in replica alla reconventio reconventionis ed alle eccezioni dell’attore proposte nella prima udienza,
senza distinguo tra quelle in senso lato e quelle in senso stretto, palesa che sarebbe del tutto ingiustificato consentire al convenuto, invece, pure l’allegazione entro lo stesso termine dei fatti costituenti le
eccezioni di merito in senso lato in replica alla domanda principale. D’altro canto, proprio la specificità della previsione del comma
quinto, induce, argomentando a contrario, ad escludere che il legislatore abbia voluto consentire l’allegazione delle eccezioni di merito relative alla domanda principale oltre la prima udienza. Se il legislatore lo avesse voluto lo avrebbe detto.
Ma v’è di più: se si ammettesse che i fatti integranti le eccezioni di merito in senso lato contro la domanda principale possano essere dedotti fino all’udienza eventuale di cui all’art. 184, occorrerebbe prevedere che il giudice fissi un termine all’attore per replicare
(eventualmente anche con l’allegazione di fatti costituenti replicationes, cioè controeccezioni). E così la fissazione definitiva del thema
decidendi finirebbe per non avvenire nemmeno all’udienza di cui all’art. 184.
V. – Per altro verso le considerazioni svolte mi sembra che rendano inaccoglibile anche l’opinione di chi ha sostenuto che il momento di preclusione della allegazione dei fatti costituenti le eccezioni di merito in senso lato andrebbe ravvisato con la scadenza del
termine perentorio eventualmente concesso dal giudice per il deposito da parte del convenuto della memoria contenente la precisazione o modificazione delle eccezioni già proposte, di cui al primo inciso del quinto comma (così, invece, peraltro fugacemente si veda
ATTARDI, op. e loc. cit.). Si aggiunga che nell’attività di precisazione o modificazione delle eccezioni già allegate non può farsi di certo concettualmente rientrare l’allegazione di fatti integranti nuove ec423
cezioni di merito. Se si accogliesse la tesi qui criticata d’altra parte
si riproporrebbe il problema della replica dell’attore, la quale non
potrebbe che estrinsecarsi nell’udienza di cui all’art. 184, con conseguente sovrapposizione della fase di fissazione dei fatti direttamente rilevanti per la determinazione dell’oggetto della decisione e di
quella delle allegazioni probatorie.
VI. – D’altro canto, la stessa previsione nell’ultimo inciso del
quarto comma della sola possibilità di precisazione o modificazione
delle eccezioni senza alcuna distinzione, salva la possibilità che esse abbiano luogo con la trattazione scritta di cui al primo inciso del
quinto comma, palesa che se si precludono queste attività a maggior
ragione deve essere già avvenuta l’allegazione anche dei fatti integranti le eccezioni in senso lato. Precisare l’eccezione a nostro avviso non può che significare, con una certa simmetria con la precisazione della domanda, indicare, ex novo perché prima non si erano
indicati assolutamente (es.: era stato allegato il pagamento solo con
i suoi riferimenti di tempo e di modo, ma non di luogo) alcuni elementi di contorno del fatto storico che integra l’eccezione ovvero variare qualcuno di essi previamente indicati (es.: si era indicato il pagamento come avvenuto in un certo luogo e si assume che è avvenuto in un luogo diverso). Entrambe queste attività, posto che presuppongono, dunque, un’allegazione in fatto fondante l’eccezione precisanda, implicano che la relativa attività di allegazione nei suoi elementi essenziali sia stata svolta e comportano la deduzione ex novo
o in sostituzione di quelli allegati di elementi di contorno del fatto
costituente l’eccezione (e così se si è del tutto genericamente proposta un’eccezione di pagamento, secondo l’esemplificazione proposta
retro, senza alcuna allegazione delle note fattuali di essa non si tratterebbe di precisazione dell’eccezione, ma di allegazione del fatto che
la integra e come tale essa non potrebbe essere consentita con l’appendice scritta di cui al primo inciso del quinto comma dell’art. 183).
In senso diverso, secondo ORIANI (op. cit., c. 30) seguito dal PROTO PISANI (op. cit., p. 144) per precisazione dell’eccezione si dovrebbe intendere “anticipare un’attività che il giudice ha già il potere di compiere d’ufficio, ad es., qualificare di prescrizione un termine originariamente indicato come di decadenza (e viceversa)”. Ma a
mio avviso questa è solo un’operazione di diversa qualificazione in
diritto che, siccome inerente la rilevazione di eccezioni in senso stret424
to, potrebbe reputarsi preclusa fin dalla comparsa di risposta. Onde,
l’assunto di tali dottrine non mi sembra fondato. Per modificazione
dell’eccezione, in simmetria con il concetto di modificazione della
domanda retro accolto, mi pare che si debba immaginare un’attività
di allegazione di fatti che comporti il permanere dell’eccezione nella sua qualificazione giuridica, ma, all’interno di essa, comporti una
specificazione normativa diversa da quella originaria: esempio: si era
dedotta la prescrizione presuntiva e si deduce poi una prescrizione
breve e viceversa; si era eccepita la nullità per illiceità della causa e
si deduce poi, con relativa allegazione delle circostanze di fatto integranti l’eccezione nella nuova dimensione, la nullità per contrasto
con norme imperative. è vero che nel primo caso l’esempio concerne una eccezione in senso stretto, ma a mio avviso la possibilità della modificazione sussiste in prima udienza di trattazione anche per
tali eccezioni purché il titolo giuridico dell’eccezione non muti. Ciò
in assoluta simmetria con il potere di modificazione della domanda,
che postula che non muti il diritto fatto valere dall’attore in relazione al fatto della vita di cui trattasi.
Comunque, il dato che ai nostri fini mi interessa ribadire è che
se si preclude in generale il potere di precisazione e modificazione
dell’eccezione è inimmaginabile che resti per il convenuto il potere
di allegare successivamente i fatti che integrano eccezioni in senso
lato.
Ancora: a sostegno dell’assunto che i fatti costituenti le eccezioni di merito in senso lato si devono allegare alla prima udienza
di trattazione si può addurre anche una circostanza esterna all’art.
183. L’art. 189 dispone che le conclusioni debbono essere precisate
nei limiti di quelle di cui agli atti introduttivi o a norma dell’art.
183. Anche questa precisazione – mi sembra – esclude la validità
della tesi dell’ORIANI, laddove questo autore fa riferimento all’udienza dell’art. 184.
VII. – Altra autorevole dottrina (TARZIA, op. cit., pp. 123-124, testo e note) con una logica di fondo che – sia detto con il dovuto rispetto – mi pare idonea a sconvolgere e rendere canzonatorio il sistema delle preclusioni ed a surrettiziamente conservare quanto più
possibile dell’impianto della novella del 1950 (per un’analoga valutazione si veda CHIARLONI, op. cit., p. 177), ha sostenuto (ne aveva
accennato a proposito delle preclusioni relative ai fatti principali con425
cernenti la domanda dell’attore) che i fatti integranti le eccezioni di
merito in senso lato potrebbero essere introdotti nel giudizio di primo grado fino al momento della precisazione delle conclusioni (art.
189 c.p.c.) e che la loro libera allegazione e successiva rilevazione dovrebbe dare luogo ad una riapertura della fase istruttoria, pur qualora fosse ormai precluso il potere di formulazione di deduzioni istruttorie e di effettuazione di produzioni ai sensi dell’art. 184 c.p.c.
Tale dottrina (piuttosto che far leva sull’art. 345 c.p.c., come, invece, fa altra dottrina, di cui subito dirò), fa leva su due argomenti.
Da un lato, rileva che fatti integranti eccezioni in senso lato possono essere introdotti nel processo dopo la prima udienza di trattazione attraverso produzioni documentali, che sarebbero possibili ai
sensi dell’art. 184 c.p.c., dall’altro rileva che essi possono emergere
dall’assunzione di prove costituende. Il secondo argomento mi pare
poco pertinente, in quanto l’emersione di fatti integranti eccezioni in
senso lato solo per il tramite dell’assunzione di prove costituende dedotte su altri e diversi fatti (ma varrebbe lo stesso rilievo, per la consulenza tecnica) potrà certamente giustificare la proposizione delle
eccezioni in discorso, ma ex art. 184-bis, essendo incolpevole il convenuto che non ha allegato il fatto emerso (il quale, tenuto conto
della struttura rigida della principale prova costituenda, cioè della
testimonianza, potrà emergere solo da domande a chiarimento dei
fatti capitolati, fatte dal giudice, o da spontanee dichiarazioni del teste, circostanze entrambe che ben possono far presumere che il convenuto non fosse stato nella possibilità di allegare i fatti, per non
averne avuto conoscenza). D’altro canto, in base al principio di acquisizione processuale, se – come diremo – si ritiene che in prima
udienza di trattazione si precluda solo il potere di allegazione del
fatto integrante l’eccezione in senso lato, ma non quello di rilevazione dell’eccezione, cioè di formulazione della richiesta al giudice
di tenere conto di questo fatto ai fini della decisione, la stessa invocazione dell’art. 184-bis c.p.c. può reputarsi non necessaria. La preclusione di cui si discorre concerne, infatti, l’attività di allegazione
del convenuto, ma non può riguardare l’allegazione emergente dalle
risultanze probatorie senza la volontà del convenuto, come quella derivante da fatti notori, di cui il giudice può tenere conto senza che
siano allegati dalla parte o risultino dalle prove.
Il primo argomento addotto dall’autorevole dottrina da cui dissento è, invece, pertinente ed è anche all’apparenza suggestivo. Ma –
426
a mio modesto avviso – solo all’apparenza. Esso, infatti, appare superabile tenendo conto, in primo luogo, proprio della distinzione fra
allegazione di un fatto integrante un’eccezione e rilevazione della sua
efficacia, che è essenzialmente problema di qualificazione giuridica.
In secondo luogo, considerando che i documenti, nel processo civile,
pur potendo essere introdotti nel limite di cui all’art. 184 c.p.c. senza controllo di ammissibilità della produzione, tuttavia sono sottoposti ad un controllo ex post in punto di rilevanza ai fini del decidere.
Ed allora, il fatto che l’art. 184 consenta la produzione di documenti dopo l’esaurimento della fase di fissazione del thema decidendi si può spiegare agevolmente in questo modo. Sono producibili i documenti rilevanti, cioè quelli che rappresentino quei fatti integranti eccezioni in senso lato che il convenuto abbia introdotto,
cioè allegato, nel processo nell’udienza di trattazione. Se, dunque, il
convenuto (ma la stessa cosa vale per l’attore, come abbiamo rilevato a suo tempo a proposito dei fatti principali, relativi alla sua domanda) produce un documento che rappresenta un fatto storico integrante un’eccezione in senso lato, il quale in alcun modo sia stato
allegato, né implicitamente nel senso precisato innanzi (cioè perché
emergente da documenti prodotti in una con la comparsa di risposta), né con una diversa erronea qualificazione giuridica entro la prima udienza di trattazione, come ad esempio il pagamento, detto documento non potrà considerarsi rilevante ai fini del giudizio, perché
il thema decidendi era rimasto fissato con l’esclusione di quella eccezione. E neppure il giudice d’ufficio potrà rilevare la relativa eccezione. Solo se ricorressero gli estremi della rimessione in termini,
sarebbe giustificata una contraria soluzione.
Ripeto che una diversa soluzione negherebbe “in radice” il senso complessivo della riforma. Si immagini, infatti, che cosa significherebbe la tesi criticata. Dovrebbe certamente consentirsi all’attore
di replicare e l’udienza ex art. 184 slitterebbe con riapertura della fase di fissazione del thema decidendi. Per evidenti ragioni di parità si
dovrebbe consentire, d’altro canto, a favore dell’attore la riapertura
di tutti i poteri preclusi già in prima udienza, poiché non avrebbe
senso ch’essi restino fissati in termini che non poterono tenere conto del nuovo fatto integrante l’eccezione in senso lato.
VIII. – In una prospettiva meno radicale del TARZIA altra autorevole dottrina (PROTO PISANI, op. cit., p. 219 e segg.), che ho avu427
to già modo di considerare a proposito del problema della preclusione dell’allegazione dei fatti principali relativi alla domanda dell’attore, argomenta dalla circostanza che l’art. 345 ammette la proponibilità in appello di nuove eccezioni di merito in senso lato, la stessa conseguenza ritenuta dal TARZIA, ma con la variante che resterebbero ferme in primo grado le preclusioni probatorie a carico del
convenuto (non è chiaro se tra esse vi sia anche la produzione di documenti), ove maturate ex art. 184 c.p.c. La tesi in questione, oltre
ad apparire poco coerente, perché non si comprende il senso di consentire nuove allegazioni che non possono essere provate (si veda
nello stesso senso CHIARLONI, op. cit., ibidem), a nostro modo di
vedere, supervaluta l’art. 345 c.p.c. Se anche fosse vero che tale norma consente liberamente non solo la rilevazione di eccezioni in senso lato i cui fatti costitutivi siano stati allegati nel corso del giudizio di primo grado e dei quali non sia stata rilevata l’efficacia, ma
anche di fatti nuovi in precedenza mai rilevati, la coerenza nella ricostruzione del sistema al lume delle norme, di fronte ai tanti indizi circa il momento di preclusione delle allegazioni dei fatti integranti le eccezioni in senso lato nel giudizio di primo grado, imporrebbe di non inferire assolutamente conseguenze dalla sicura disarmonia che un appello in cui sarebbero possibili nova in così larga
misura, certamente ha introdotto (come era paventato da una voce
mancata, ma non dimenticata, la quale aveva sostenuto l’assurdità di
un sistema che, accolte le preclusioni in primo grado, lasciassse deducibili nova in appello: FABBRINI, Prime considerazioni sul progetto governativo, in Foro It., 1987, V, 176). Tanto più che un sistema
che in primo grado fosse imperniato sulla preclusione delle eccezioni in senso lato fin dalla prima udienza di trattazione e poi ne consentisse la deducibilità “libera” in appello, potrebbe conservare un
residuo di ragionevolezza, alla luce della normale esecutività della
sentenza di primo grado, che dovrebbe scongiurare appelli dilatori.
Ma, a mio avviso (lo avevo già sostenuto nella citata op., p. 153),
il secondo comma dell’art. 345 nuovo testo, laddove ammette la proponibilità in appello di nuove eccezioni rilevabili d’ufficio, se non si
vuole introdurre un elemento di insanabile e grossa contraddizione
con la filosofia sul punto del giudizio di primo grado, ben può essere inteso nel senso che si deve trattare di eccezioni fondate su fatti
allegati entro la prima udienza di trattazione (o su fatti emersi
nell’istruzione probatoria possibile in appello, la cui “indispensabi428
lità”, anche con riguardo alle produzioni documentali andrebbe, naturalmente valutata tenendo conto della ricostruzione offerta: all’uopo, non ho che da rimandare alle convincenti notazioni del LASAGNO, in Le riforme del processo civile, cit., pp. 437 e segg., specie alle pp. 440-441). La novità dell’eccezione sarà dunque da riferire alla
sola attività di rilevazione della stessa (in questo senso si veda: LASAGNO, op. cit., p. 435, testo e note; contra si vedano: TARZIA, op.
cit., p. 244; SASSANI, in CONSOLO-LUISO-SASSANI, La riforma del
processo civile, cit., pp. 280 e segg.), come si dirà in prosieguo.
D’altro canto, la soluzione offerta non comporta affatto (come
ha sostenuto il CONSOLO, Profili della nuova disciplina delle impugnazioni, con una rinnovata critica all’appello “chiuso” ai nova, p.
356) che la possibilità di rilevazione delle eccezioni in senso lato sarebbe limitata al solo caso di omissione di pronuncia da parte del
giudice di primo grado. Questa ipotesi non ci pare integrare assolutamente l’ipotesi dell’art. 345 come da noi ricostruita, che pertiene
al caso in cui era stato allegato un fatto integrante un’eccezione in
senso lato entro la prima udienza di trattazione (oppure era emerso
dalle acquisizioni probatorie o emergeva dal notorio), ma il convenuto non aveva rilevato l’eccezione e nemmeno lo aveva fatto il giudice, cosa che esclude l’omissione di pronuncia.
Possiamo, dunque, ribadire che il convenuto può allegare i fatti
integranti le eccezioni di merito in senso lato relativi alla domanda
attorea siccome proposta in citazione fino alla prima udienza di trattazione. La successiva allegazione di tali fatti da parte del convenuto
potrà avvenire solo ex art. 184-bis. L’ingresso di detti fatti nel processo, inoltre, potrà avvenire oltre il limite di quella preclusione solo
altrimenti che per allegazione del convenuto, cioè tramite il notorio
e indirettamente tramite le risultanze dell’acquisizione delle prove e
della consulenza tecnica (così anche CHIARLONI, op. cit., p. 179).
11. La replica dell’attore alle eccezioni di merito in senso lato del convenuto. La replica del convenuto alle domande ed eccezioni “conseguenziali” dell’attore. Le repliche alle precisazioni e modificazioni di cui all’ultimo inciso del quarto comma dell’art. 183.
I. – Sorge a questo punto l’interrogativo sul momento entro il
quale l’attore deve replicare all’allegazione e rilevazione dei fatti in429
tegranti le eccezioni in senso lato che il convenuto faccia solo in prima udienza di trattazione. In sostanza, v’è da chiedersi entro quale
momento l’attore deve allegare i fatti costituenti controeccezioni rispetto alle eccezioni di merito in senso lato che il convenuto alleghi
e rilevi soltanto nella prima udienza. Abbiamo visto, infatti, che il
primo inciso del quarto comma dell’art. 183 si riferisce alle sole eccezioni proposte in comparsa di risposta. Crederei (ribadendo quanto sostenuto già nella cit. op., p. 154) che il problema – frutto di una
dimenticanza del legislatore che appare poco giustificabile in una
norma così minuziosa come quella in commento – possa però facilmente risolversi sostenendo che debba trovare applicazione analogica il principio emergente dal secondo inciso del quinto comma
dell’art. 183. L’attore avrà diritto cioè – ove lo richieda – alla concessione di un termine perentorio per proporre le controeccezioni
relative alle eccezioni di merito in senso lato correlate a fatti allegati dal convenuto nella prima udienza di trattazione. Qualora non
chieda detto termine dovrà, invece, replicare nella stessa udienza.
Non mi sembra, viceversa, possibile sostenere che la replica dell’attore sia stata ricompresa dal legislatore implicitamente nell’ambito
della facoltà di precisazione e modificazione delle domande e delle
eccezioni già formulate. Se avesse avuto questa intenzione il legislatore non avrebbe avuto bisogno di precisare nel primo inciso del
quarto comma che l’attore può allegare le eccezioni che sono conseguenza delle eccezioni del convenuto di cui alla comparsa di risposta. Infatti, tale facoltà sarebbe stata anch’essa ricompresa
nell’ambito del potere di precisazione e modificazione della domanda. Si aggiunga che, dovendo l’allegazione di fatti integranti le eccezioni di merito in senso lato riportarsi più che al concetto della
precisazione a quello della modificazione della domanda, la facoltà
dell’attore sarebbe esercitabile non già automaticamente, ma solo “su
autorizzazione” del giudice (ultimo inciso del quarto comma dell’art.
183) oppure concorrendo “gravi motivi”. Queste limitazioni suonerebbero come una grave limitazione al diritto di difesa dell’attore,
in quanto la mediazione del giudice non avrebbe giustificazione alcuna per attività che l’attore non poteva assolutamente compiere prima. Tanto più in un sistema che prevede l’automatica concessione
al convenuto di un termine per replicare alle controeccezioni proposte dall’attore nella stessa prima udienza a norma del primo inciso dell’art. 183 quarto comma.
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Mi sembra, dunque, che si debba concludere che i fatti integranti le eccezioni di merito in senso lato debbono essere allegati
dal convenuto a pena di decadenza nella prima udienza di trattazione e che, ove alla loro allegazione si accompagni la rilevazione
dell’eccezione, ad essi l’attore debba replicare, con l’attività di allegazione dei fatti integranti le relative controeccezioni, o nella stessa udienza o entro un termine concesso dal giudice – su semplice
sua richiesta – in analogia con quello di cui al secondo inciso del
quinto comma dell’art. 183.
Altra questione è se i fatti integranti le eccezioni in senso lato
siano allegati in atti o comunque risultino aliunde (ad es. dall’interrogatorio libero o dai documenti già prodotti), ma né il convenuto
né il giudice ne abbiano rilevato in prima udienza l’esistenza. In questo caso il problema della replica si porrà solo quando la rilevazione venga in un momento successivo utilmente effettuata e la replica
sarà giustificata per il rispetto del diritto di difesa: su questo punto
vedi, comunque il paragrafo seguente.
II. – La norma dell’art. 183 nel secondo inciso del quinto comma regola espressamente la replica del convenuto avverso le domande
e le eccezioni proposte dall’attore nella prima udienza di trattazione, ai sensi del primo inciso del quarto comma della norma stessa,
in replica alla riconvenzionale ed alle eccezioni proposte (cioè, deve
ritenersi, allegate e rilevate) dal convenuto stesso. Tale replica, a scelta del convenuto, può avvenire o nella stessa udienza o, su sua semplice richiesta, entro un termine perentorio concesso dal giudice e
non superiore a trenta giorni. È stato esattamente notato che la previsione normativa consente al convenuto solo la proposizione di mere difese o di eccezioni (e, quindi, sotto questo secondo profilo, l’allegazione di nuovi fatti: naturalmente si potrà trattare sia di eccezioni in senso stretto che in senso lato, come si è notato in precedenza), ma non la proposizione di ulteriori domande conseguenziali, come ad es., una domanda di accertamento con efficacia di giudicato ex art. 34 di un rapporto pregiudicante relativo alla causa petendi della reconventio reconventionis dell’attore (TARUFFO, op. cit.,
p. 260; PROTO PISANI, op. cit., p. 142; CHIARLONI, op. cit., p. 188;
TARZIA, op. cit., p. 92; MANDRIOLI, Le modifiche etc., cit., p. 64).
Anche in questo caso la replica del convenuto contro l’eccezione attorea in senso lato dovrà estrinsecarsi con l’allegazione e la ri431
levazione della controeccezione, cioè con la sua integrale proposizione, se ed in quanto l’attore abbia anche lui propoto integralmente la sua eccezione, cioè abbia non solo allegato il fatto che la integra, ma anche abbia dedotto la sua qualificazione giuridica, invocandone l’effetto giuridico. Nel caso che l’attore si sia limitato – inconsapevolmente – ad allegare il fatto, senza rilevare l’eccezione, e
questa non sia stata nemmeno rilevata in prima udienza dal giudice, la replica del convenuto dovrà avvenire solo se e quando l’attore
od eventualmente il giudice compiranno utilmente tale rilevazione e
sarà giustificata anche qui dal diritto di difesa: vedi in proposito il
paragrafo seguente.
Bene è stato notato che l’attore avrà facoltà di replicare a sua
volta con mere difese e controeccezioni (in senso stretto ed in senso lato) per l’ovvio rispetto del diritto di difesa (PROTO PISANI, op.
cit., ibidem: CHIARLONI, op. cit., ibidem). Circa le modalità di tale
replica diremo in sede di esame dei rapporti fra l’art. 183 e l’art. 180.
III. – Infine, il quadro dei fatti principali potrà subire ulteriori
apporti, sempre alla luce dell’art. 24 della Costituzione, dall’esigenza
del convenuto di replicare alla modificazione della domanda da parte dell’attore o dall’esigenza di quest’ultimo di replicare alla modificazione da parte del convenuto di proprie eccezioni (TARZIA, op. cit.,
ibidem; perplesso CHIARLONI, op. cit., p. 195). E la replica potrà
consistere nell’allegazione di nuove controeccezioni in senso stretto
ed in senso lato, ovvero nella proposizione di mere difese. Anche riguardo alle modalità di tale replica rinviamo alla sede in cui esamineremo i rapporti fra art. 183 ed art. 180.
12. Ancora sulla distinzione fra allegazione e rilevazione delle eccezioni di merito in senso lato. Preclusione della loro allegazione e preclusione della loro rilevazione.
Resta a questo punto da domandarsi quando si precluda in generale il potere di rilevazione (sia delle parti che del giudice) quanto alle eccezioni di merito in senso lato, siano esse relative alla prospettazione difensiva del convenuto che a quella dell’attore. Finora
ho considerato essenzialmente l’attività di allegazione dei fatti integranti tali eccezioni, che – come osservai sulle orme di un’autorevo432
le dottrina – deve tenersi concettualmente distinta da quella di rilevazione dell’eccezione. Ho, quindi, indicato il momento di preclusione della sola allegazione dei fatti integranti le eccezioni in discorso. Poiché l’attività di rilevazione dell’eccezione integrata da un
fatto già allegato in atti rappresenta una mera attività di qualificazione giuridica di tale fatto, cui, nel caso che provenga dalla parte,
si accompagna la richiesta di tener conto di quel fatto siccome qualificato (vedi all’uopo chiaramente FABBRINI, L’eccezione, cit., 501 e
ss.), si potrebbe pensare prima facie che essa si precluda solo al momento della rimessione della causa in decisione, cioè nell’udienza di
precisazione delle conclusioni, di cui all’art. 189 c.p.c. E ciò anche
per il giudice, il quale – come nota ORIANI (op. cit., c. 22 e s.) – ha
l’onere di segnalare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio emergenti dal quadro dei fatti venutosi precisando ex art. 183 c.p.c., così provocando il loro contraddittorio in diritto su di esse. È vero che
il comma terzo dell’art. 183 espressamente precisa (riproducendo sul
punto il secondo comma dell’art. 183 vecchio testo) che il giudice indica alle parti le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. Ma sarebbe scorretto arguire da questa previsione la preclusione della rilevabilità delle eccezioni di merito in
senso lato fin dalla prima udienza di trattazione. Infatti, da un lato
tale preclusione non sarebbe completa, perché non potrebbe riguardare i fatti allegati dal convenuto nel termine perentorio di cui al secondo inciso del quinto comma e quelli allegati dall’attore nello stesso termine – applicato come si disse analogicamente – in replica ai
fatti allegati dal convenuto nella stessa prima udienza a sostegno delle eccezioni di merito in senso lato. Dall’altro lato, la preclusione di
quel potere appare inimmaginabile anche perché il suo esercizio da
parte del giudice o della parte potrebbe apparire opportuno solo a
seguito dell’esercizio del potere di precisazione o modificazione della domanda. Né si dica che affermare che la preclusione del potere
di rilevazione in discorso matura solo all’udienza di precisazione delle conclusioni contrasta con il fatto che le eccezioni in questa udienza debbono essere mantenute nei limiti di quelle fissate ex art. 183.
Infatti, consentire la rilevazione dell’efficacia di eccezione di un fatto già allegato in atti ex art. 183 non elide la preclusione già maturata. E ciò proprio perché quest’ultima riguarda l’attività di allegazione del fatto, il quale si ipotizza appunto come già allegato. D’altro canto, la rilevazione fino all’udienza suddetta non comporta nem433
meno modifica delle conclusioni che l’art. 189 vuole siano precisate
nei limiti di quelle formulate ai sensi dell’art. 183. Infatti, posto che
l’attore avrà chiesto comunque l’accoglimento della domanda ed il
convenuto il suo rigetto, il rilievo di eccezioni di merito in senso lato non sposta di per sé le conclusioni, perché la rilevazione dell’eccezione è ad esse sempre funzionale. D’altronde, come esattamente
è stato notato (CHIARLONI, op. cit., p. 176; PROTO PISANI, op. cit.,
p. 140) il legislatore del 1990 non ha riprodotto nell’art. 183 la previsione della preclusione del potere di rilevazione di questioni rilevabili d’ufficio da parte del giudice dopo la prima udienza di trattazione, che figurava nel disegno di legge ROGNONI n. 2214/S/IX (in
Foro It., 1987, V, c. 130) e ciò non può non essere reputato significativo.
Quanto appena osservato dovrebbe escludere che la rilevazione
possa esser fatta dalle parti solo nelle conclusioni od in sede di discussione orale della causa e da parte del giudice nella sentenza (in
caso di discussione per iscritto) o nell’udienza di discussione orale.
Ma la proponibilità in appello delle eccezioni in discorso, induce a
ritenere opportuno riconoscere alle parti quel potere anche nelle conclusionali ed in sede di discussione orale. Ciò, sia in ragione del fatto che la rilevazione delle eccezioni in senso lato non sposta come
si è detto le conclusioni, sia – e soprattutto – in dipendenza del fatto che, secondo quanto da noi sostenuto, la rilevazione dell’eccezione è attività di mera qualificazione giuridica di fatti che debbono risultare in atti e che, dunque, per definizione non può comportare
l’allegazione di fatti ulteriori.
Non solo: poiché la causa è nella fase decisoria, intanto la rilevazione in modo utile sarà naturalmente possibile, in quanto quei
fatti che integravano l’eccezione e dei quali non era stata rilevata l’efficacia giuridica in tal senso risultino comunque provati. Se, invece,
i fatti risultino solo allegati, ma non provati, la rilevazione sarà inutile ai fini del decidere, poiché il giudice non potrà che fare applicazione della regola di giudizio sull’onere della prova. Per esemplificare, ritornando all’esempio fatto retro dell’allegazione di fatti sulla
base dei quali era stata sostenuta la mancata conclusione del contratto e che, invece, evidenzino, all’esito della corretta qualificazione
giuridica, che vi fu una risoluzione consensuale, se il convenuto rileva solo in conclusionale o in sede di discussione orale la vera efficacia giuridica dei fatti che in precedenza aveva sostenuto eviden434
ziare la mancata conclusione del contratto, cioè quella di una fattispecie di risoluzione consensuale, detti fatti dovranno risultare comunque provati in base all’istruttoria. Se ricorre questo caso ed il
giudice ritenga corretta la rilevazione dell’eccezione, si pone però
un’esigenza di rispetto del contraddittorio dell’altra parte, la quale,
in relazione alla rilevazione nuova dell’esistenza dell’eccezione dovrà
essere ammessa a replicare. Cosa che potrà avvenire con deduzioni
di mero diritto oppure anche con deduzioni in fatto, sia mediante
attività di allegazione che mediante attività di deduzione probatoria.
Il giudice, per il rispetto dovuto al diritto di difesa ed al contraddittorio, non potrà non consentire la replica, con una eventuale reviviscenza anche dei poteri di cui alla prima udienza di trattazione. Non
diversamente la questione si porrà qualora sia il giudice soltanto in
sede decisoria a rilevare l’esistenza in atti della prova di un’eccezione in senso lato, che non era stata rilevata in precedenza. In tal caso sarà obbligatorio rimettere la causa in istruttoria perché la questione sia trattata dalle parti.
In definitiva solo se i fatti integranti l’eccezione in senso lato, rilevata dalla parte in conclusionale o in sede di discussione, oppure
rilevata dal giudice, non risulta provata in atti può immaginarsi che
il rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa non richiedano
la rimessione in istruttoria della causa. Se, infatti, si reputasse altrimenti si consentirebbe l’elusione a proposito dell’eccezione delle già
maturate preclusioni probatorie di cui all’art. 184.
In conclusione il potere di rilevazione delle eccezioni in senso
lato può estrinsecarsi dalle parti o dal giudice per tutto il giudizio
di primo grado a condizione che concerna fatti tempestivamente allegati (per cui rimando ai precedenti paragrafi) e può rivelarsi utile
ai fini della decisione sempre che i fatti integranti l’eccezione siano
stati provati tempestivamente o siano ancora, in base alle conclusioni probatorie provabili (così, il convenuto che aveva allegato il fatto integrante l’eccezione nella prima udienza di trattazione, ma non
lo aveva rilevato come idoneo a fondarla, perché gli aveva dato altra qualificazione e rilevanza, potrà all’udienza ex art. 184 rilevare
l’eccezione e produrre documenti ad essa inerenti ovvero dedurre
prove costituende; se, invece, rileverà l’eccezione in un momento in
cui le preclusioni probatorie sono già maturate, potrà solo sperare
che i fatti che la integrano siano dimostrati dalle prove già raccolte,
ovvero in una tardiva loro ammissione da parte della controparte,
435
salva, naturalmente l’incidenza di possibili ragioni di rimessione in
termini ex art. 184-bis, peraltro difficilmente immaginabili, tenuto
conto che la rilevazione è solo attività di qualificazione giuridica, che
avrebbe potuto farsi tempestivamente in funzione delle deduzioni
probatorie e considerato che i fatti erano già stati allegati.
Le precisazioni innanzi fornite sulla preclusione del potere di rilevazione delle eccezioni in senso lato, consentono di sciogliere le riserve fatte nel paragrafo precedente a proposito della proposizione
nelle tre ipotesi ivi considerate delle controeccezioni avverso la rilevazione di eccezioni basate su fatti tempestivamente allegati, ma non
fatti oggetto di contemporanea rilevazione.
Per altro verso la cennata individuazione di un obbligo del giudice, il quale rilevi (perché dimostrate in atti) eccezioni in senso lato (ma la stessa cosa dicasi in generale per tutte le altre questioni
rilevabili d’ufficio) di rimettere la causa in istruttoria a garanzia del
contraddittorio e del diritto di difesa, dovrebbe evitare le c.d. sentenze “a sorpresa” (o della “terza via”), in cui il giudice rileva solo
nella decisione un’eccezione di merito in senso lato (vedi esaurientemente ORIANI, op. e loc. cit.). Su questo punto mi sembra che noi
giudici dobbiamo compiere un grosso sforzo per acquisire il massimo di sensibilità ad un puntuale esercizio del potere di indicare sempre alle parti in generale le questioni rilevabili d’ufficio, provocando
su di esse il contraddittorio. Cosa che la dottrina non reputa a ragione avvenire spesso con il vecchio rito.
13. Preclusione del potere di contestazione dei fatti e assenza di preclusione per le c.d. mere difese di diritto
Un problema che occorre sicuramente porsi quando si sia data,
come mi è sembrato imposto dal senso della riforma, una ricostruzione rigorosa delle preclusioni all’attività di allegazioni di fatto è
quello della eventuale esistenza di una preclusione alla possibilità
che la parte interessata contesti i fatti rilevanti al fine del decidere,
dopo un atteggiamento iniziale di non contestazione o addirittura di
esplicita loro ammissione, quale può aversi da parte del difensore
ovvero direttamente della parte in sede di interrogatorio libero. Un
simile problema ha poca rilevanza in un sistema processuale che non
conosca le preclusioni alle allegazioni e alle deduzioni e produzioni
436
probatorie se non al momento della precisazione delle conclusioni,
quale è quello attuale. È, infatti, pacifico (più o meno negli stessi
termini si veda PROTO PISANI, op. cit., p. 158) che l’atteggiamento
di non contestazione o quello positivo di ammissione (ferma restando la loro valutabilità ex art. 116 c.p.c.) possono, nel vecchio rito,
trasformarsi liberamente in un atteggiamento di contestazione successiva che rende bisognoso di prova il fatto ammesso o non contestato e ciò, ci pare, se non fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, almeno fino al momento in cui viene, anche implicitamente, pronunciata l’ordinanza di chiusura dell’istruzione ex art. 209 c.p.c.
La ragione di tale ampia durata del potere di contestazione discendeva (e discende) dalla circostanza che le preclusioni probatorie
nel rito attuale si verificano solo all’udienza di precisazione delle conclusioni, onde la contestazione successiva poteva sempre dalla controparte essere replicata con una deduzione probatoria o produzione documentale, ove superfluamente la prova non fosse stata comunque data precedentemente alla contestazione.
Nel nuovo rito, invece, la situazione è completamente diversa
(come avvertii già nella mia op. cit., p. 159; nello stesso senso PROTO PISANI, op. cit., ibidem, che è, se non mi inganno, l’unica altra
voce che opportunamente ha posto il problema).
A mio avviso (nello stesso senso PROTO PISANI, op. e loc. cit.)
è da ritenere, infatti, che nel nuovo rito per i fatti principali relativi alla domanda attorea o comunque concernenti le domande che
possono essere state introdotte in causa, nonché per le eccezioni (siano esse proposte dall’attore o dal convenuto) e per i fatti secondari
costituenti il contorno della fattispecie costitutiva o dell’eccezione, si
precluda sempre prima del formarsi della preclusione alla deduzione delle prove costituende o alla produzione delle prove precostituite, siccome emergente dal combinato disposto dell’ultimo inciso del
quinto comma dell’art. 183 e dell’art. 184 c.p.c.
In particolare, per detti fatti: a) se la trattazione ed il compimento delle attività di allegazione di detti fatti si esaurisce tutta nella prima udienza di trattazione e le parti non chiedono il rinvio ad
altra udienza ai sensi del secondo inciso del primo comma dell’art.
184, l’attività di contestazione di detti fatti (in precedenza non contestati o ammessi) si deve verificare nella stessa prima udienza, prima che il giudice provveda sulle eventuali istanze probatorie ai sensi del primo inciso del primo comma dell’art. 184 c.p.c.; b) se si ve437
rifica la stessa ipotesi sub a), ma una delle parti chiede rinvio ad altra udienza ai sensi del secondo inciso del primo comma dell’art. 184
l’attività di contestazione dovrà parimenti essere svolta nella stessa
prima udienza; c) se ha luogo la trattazione scritta per le ragioni di
cui al primo ed al secondo inciso del quinto comma dell’art. 183 ovvero per l’ipotesi che l’attore chieda ed ottenga, in applicazione analogica di questa norma, termine per replicare ad eccezioni di merito in senso lato del convenuto proposte (scilicet allegate e rilevate)
nella prima udienza di trattazione, ovvero ancora per tutte le altre
ipotesi in cui sia concesso un termine per eventuali allegazioni di
quei fatti (si veda il paragrafo sui rapporti fra art. 183 ed art. 180),
l’attività di contestazione dovrà svolgersi nell’udienza che il giudice
dovrà fissare ai sensi dell’ultimo inciso del quinto comma (ed in tal
caso, la regola sarà che la parte interessata che si vede definitivamente precisare il quadro dei fatti contestati chiederà il termine di
cui al secondo inciso del primo comma dell’art. 184, se non abbia le
prove già pronte.
La ragione di queste conclusioni (che meglio precisano quanto
avevo sostenuto nella op. cit., ibidem) mi sembra che si debba ravvisare nella circostanza – più volte sottolineata – che il nuovo rito
processuale distingue nettamente la fase di fissazione dei fatti da
quella di fissazione del tema della prova, i cui termini sono previsti a pena di preclusione. Mi pare, invero evidente che in un ordinamento così strutturato la parte, all’atto in cui deve dedurre a pena di decadenza le prove debba conoscere quali fatti relativi alla sua
prospettazione sono da provare perché contestati e quali invece non
lo sono perché non contestati. Ritenere altrimenti significherebbe
(come autorevolmente ed efficacemente ha notato PROTO PISANI,
op. cit., ibidem) costringere le parti, con inutile applicazione radicale del principio di eventualità, a compiere un’alluvione di allegazioni e produzioni probatorie anche relative a fatti non contestati,
con successivo inutile dispendio di attività processuale, la quale, in
vista della possibilità di una futura attività di contestazione, si dovrebbe estrinsecare paradossalmente anche sui fatti allo stato non
contestati.
Quanto all’attività di contestazione dei fatti c.d. secondari rilevanti solo in funzione della prova, a mio modo di vedere, la preclusione va ricostruita tenendo conto del momento nel quale si verifica la preclusione alla loro allegazione, la quale – come dissi – ha luo438
go solo entro il termine di cui al secondo inciso del primo comma
dell’art. 184 per le articolazioni probatorie e le produzioni documentali. Pertanto, la loro contestazione potrà avvenire al più tardi
nel termine per la deduzione della prova contraria di cui alla stessa
norma, in modo che all’udienza fissata dopo la scadenza di detti termini il giudice abbia un quadro completo dei fatti bisognosi di prova. Una contestazione in questo caso dovrebbe implicitamente ravvisarsi nella circostanza che si deduca controprova o si assuma l’inammissibilità o irrilevanza del fatto.
Successive contestazioni tardive possono essere ammesse solo ai
sensi dell’art. 184-bis (così PROTO PISANI, op. cit., p. 160).
Secondo PROTO PISANI (op. e loc. cit.) nel caso di processi relativi a diritti indisponibili, viceversa, la contestazione tardiva sarebbe sempre ammissibile e potrebbe dare luogo a rimessione in termini per la controparte in ordine alle deduzioni probatorie, in ipotesi in precedenza non svolte.
È appena il caso di notare che i rilievi svolti non riguardano il
processo contumaciale, posto che è pacifico che la contumacia non
equivale a non contestazione (CIACCIA CAVALLARI, Contumacia, voce del Digesto delle discipline privatistiche, IV, Torino, 1989, pp. 320
e segg.) e, pertanto, se si verifica per il convenuto non esime l’attore dall’onere della prova, se si verifica per l’attore non esime il convenuto dall’onere della prova delle proprie eccezioni e domande.
Brevemente rileviamo che le mere difese in diritto potranno essere svolte anche in conclusionale e in sede di discussione orale perché non rientrano nel concetto di precisazione delle domande e modificazione delle domande. A differenza che per la rilevazione delle
eccezioni di merito in senso lato, che comporta un allargamento della questio facti, sulla quale può essere necessario il contraddittorio
della controparte con regressione alla fase istruttoria, le mere difese
in diritto non pongono problemi di questo genere.
14. Il terzo comma dell’art. 183
I. – Il terzo comma dell’art. 183 reitera sostanzialmente il vecchio secondo comma dell’art. 183 del c.p.c. del 1940, con due varianti piuttosto innocue. La prima è meramente terminologica ed è
rappresentata dal mutamento dell’arcaismo “schiarimenti” nella più
439
moderna espressione “chiarimenti”. La seconda è costituita dall’espressa precisazione che i chiarimenti debbono avvenire sulla base di fatti allegati. In prima lettura della riforma l’espressione mi
era sembrata (vedi la mia op. cit., p. 146) rilevante ai fini della ricostruzione del sistema delle preclusioni, ma, come emerge dalle
considerazioni svolte all’uopo in questa sede, non posso non esprimere ora, re meluis perpensa, piena adesione all’opinione di chi
(CHIARLONI, op. cit., p. 175) ha sottolineato la superfluità della innovazione, osservando che è difficile pensare che nella disciplina
previgente la richiesta degli schiarimenti potesse prescindere dalle
allegazioni delle parti. Tuttavia, reputo che la precisazione abbia
quantomeno un valore di conferma della sicura circostanza che, a
differenza che nel vecchio rito, nel nuovo rito fin dagli atti introduttivi deve esistere (come emerge dal nuovo art. 167 e dalla disciplina della nullità della citazione) un quadro dei fatti oggetto della lite ben più rilevante di quanto poteva accadere nel vecchio rito,
nel quale gli atti introduttivi avevano in misura minima quella funzione.
Detto questo osservo che ovviamente la richiesta di chiarimenti
potrà estrinsecarsi durante tutto il corso della prima udienza di trattazione, mano a mano che si compiono le attività in essa contemplate.
Quanto all’indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio, ho già
rilevato (trattando del tema della rilevazione delle eccezioni in senso lato) che si tratta di un potere esercitabile per tutto il corso del
giudizio di primo grado e finanche quando la causa è stata rimessa
in decisione.
Ho pure segnalato (sempre trattando quel tema) che l’esercizio
del potere deve avvenire sempre con la provocazione della garanzia
del contraddittorio delle parti, onde evitare decisioni “a sorpresa” o
della “terza via” e che all’uopo, quando il rilievo avviene nella sede
decisoria, deve disporsi la rimessione nella fase istruttoria della causa perché le parti interloquiscano. Questo varrà per qualsiasi questione di rito o di merito rilevabile d’ufficio. Per esemplificare: se in
sede decisoria il giudice si accorge che esiste un difetto di giurisdizione, dovrà rimettere la causa in istruttoria per consentire alle parti di interloquire. Mi sembra peraltro che, se il nuovo rito verrà gestito come è stato immaginato dal legislatore ed imposto dalle norme, cioè con la costante conoscenza dello stato della causa da par440
te del giudice, situazioni in cui solo in sede decisoria emerga una
questione rilevabile d’ufficio dovrebbero essere marginali.
II. – Il terzo comma dell’art. 183, a proposito del potere in discorso, ha occasionato nuovi echi del dibattito dottrinale sulle conseguenze della violazione da parte del giudice del dovere di provocare il contraddittorio sulla questione rilevabile d’ufficio. Le posizioni
(che si leggono con ampia disamina e citazioni in CHIARLONI, op.
cit., pp. 182 e segg.) sono rimaste sostanzialmente immutate in linea
di principio fra chi aveva ed ha radicalmente sostenuto la nullità della sentenza indipendentemente dall’esattezza della stessa sulla base
della questione rilevata “a sorpresa” dal giudice e chi, rifiutando questa prospettiva (come fa l’unanime giurisprudenza), ha ravvisato che
in questo caso vi possano essere solo conseguenze disciplinari per il
giudice, ma non vi sia per ciò solo nullità della sentenza. Tuttavia a
questo secondo filone interpretativo è stata apportata (CHIARLONI,
op. cit., p. 185 ed a proposito del vecchio rito, Questioni rilevabili
d’ufficio, diritto di difesa e “formalismo delle garanzie”, cit., p. 583;
PROTO PISANI, op. cit., p. 140) una correzione che a noi pare ragionevole. Tale correzione è nel senso che la violazione del contraddittorio intanto può essere denunciata ed operare come motivo di
nullità della sentenza, ancorché la questione rilevabile d’ufficio sia
stata risolta esattamente in fatto od in diritto, in quanto ricorra una
situazione in cui il rilievo a “sorpresa” della questione da parte del
giudice abbia collocato “la parte nella condizione di non poter apportare al processo ulteriori elementi fattuali, capaci di condurre o
ad una soluzione opposta di quella stessa questione, ovvero ad una
valutazione di assorbimento a causa di una diversa conformazione
dell’oggetto del processo, realizzata tramite l’esercizio dei poteri conferiti alle parti dagli ultimi due commi della norma” dell’art. 183 (la
frase virgolettata è del CHIARLONI, op. cit. ibidem). In sostanza, si
deve essere verificata una situazione per cui una parte sia stata
nell’impossibilità di esercitare alcuna delle attività inerenti la fissazione del thema decidendi previste da detta norma e, quindi, aggiungiamo, le conseguenti attività di deduzione probatoria. In questo caso alla denuncia del vizio potrà accompagnarsi avanti al giudice dell’appello la richiesta di rimessione in termini ex art. 184-bis
(per il caso che la violazione si sia verificata in appello, cosa che qui
non interessa, si veda sempre CHIARLONI, op. cit. ibidem).
441
15. Le ipotesi di fissazione del “thema decidendum” tramite trattazione scritta previste dall’art. 183 e l’art. 180 c.p.c
I. – Nel corso della precedente esposizione ho più volte avuto
modo di rilevare che la fase di fissazione del thema decidendi prevista dall’art. 183 c.p.c. può aver corso anche tramite una trattazione
scritta successiva alla prima udienza di trattazione.
Ciò è previsto espressamente in due ipotesi, entrambe regolate
dal quinto comma dell’art. 183. La prima ipotesi è quella del primo
inciso di detto comma, ai sensi del quale “se richiesto, ove ricorrano giusti motivi, il giudice fissa un termine perentorio non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie contenenti precisazioni o modificazioni delle domande e delle eccezioni già proposte”. Tale ipotesi, rispetto alla quale abbiamo già spiegato in che cosa consistano i “gravi motivi”, non rappresenta, in termini di contenuto delle attività che contempla, una mera alternativa – pur rimessa al potere discrezionale del giudice – alla previsione di cui all’inciso finale del quarto comma dell’art. 183, che prevede che “entrambe le parti possono precisare e, previa autorizzazione del giudice, modificare
le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”. Come è stato esattamente notato (PROTO PISANI, op. cit., p. 146), mentre la
previsione dell’inciso finale del quarto comma concerne le domande
e le eccezioni formulate nella citazione e nella comparsa di risposta,
la previsione del primo inciso del quinto comma concerne anche le
domande e le eccezioni introdotte in sede di prima udienza di trattazione ai sensi del primo inciso del quarto comma.
La seconda ipotesi di trattazione scritta prevista dal quinto comma dell’art. 183 è espressa dal suo secondo inciso, ai sensi del quale il giudice “concede altresì al convenuto, su sua richiesta un termine perentorio non superiore a trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni dell’attore di cui alla prima parte del comma
precedente e per proporre, entro lo stesso termine, le eccezioni che
sono conseguenza delle domande medesime”.
II. – Oltre che alle due contemplate, l’art. 183 non contempla altre ipotesi di appendice scritta, ma in dottrina ne sono state affacciate altre, argomentando dalla norma dell’art. 180 c.p.c., che è stata lasciata immutata dal legislatore (unitamente alla norma dell’art.
83 delle disposizioni di attuazione del c.p.c.) e che continua a reci442
tare che “la trattazione della causa è orale. Il giudice, tuttavia, può
autorizzare comunicazioni di comparse a norma dell’ultimo comma
dell’art. 170, rinviando l’udienza di trattazione”.
A mio sommesso avviso solo alcune di tali ipotesi sono da condividere, mentre altre, se fossero accolte, segnerebbero un momento
di grave contraddizione nella corretta applicazione del nuovo rito.
Certo, la permanente vigenza dell’art. 180 è un fatto innegabile. Esso, infatti, sicuramente non può dirsi abrogato ai sensi di alcuna delle fattispecie di abrogazione dell’art. 15 delle disp. preliminari al codice civile, posto che non v’è stata una sua abrogazione espressa, non v’è
stata una sua abrogazione per incompatibilità, in quanto – come vedremo – essa non sussiste con l’art. 183, e neppure v’è stata abrogazione per nuova regolamentazione della materia ch’esso regola, tenuto
conto che disciplina anche le memorie meramente argomentative in diritto o concernenti fasi processuali successive a quella dell’art. 183.
A mio avviso (come rilevai già nella op. cit., p. 160) esiste, in
conseguenza, un problema di armonizzazione della norma dell’art.
183 con la norma di cui al primo comma dell’art. 180. Ci si può e
deve domandare come essa si coordini con i commi quarto e quinto dell’art. 183. La coordinazione mi sembra che debba avvenire ritenendo che il primo comma dell’art. 180 sia lex generalis rispetto
all’art. 183 per la materia da questo regolata e che, pertanto, fuori
di quelle possibilità di trattazione scritta con deposito di memorie e
di rinvio della prima udienza previste dall’art. 183, il giudice non
possa autorizzare comunicazioni di comparse ulteriori e disporre rinvio conseguente dell’udienza, se non in quanto ciò sia compatibile
con il “modello” della prima udienza di trattazione.
III. – Rilevo subito che talvolta sarà possibile applicare analogicamente le stesse ipotesi di trattazione scritta previste dall’art. 183.
Ciò accade secondo me (come rilevai retro) a proposito dell’attività
di replica dell’attore mediante la proposizione di domande e controeccezioni avverso le eccezioni in senso lato proposte (cioè allegate e rilevate) dal convenuto nella stessa prima udienza e non nella
comparsa di risposta. In questo caso potrà essere fatta applicazione
analogica, data la sicura eadem ratio del secondo inciso del quinto
comma dell’art. 183, ove l’attore adduca di non poter replicare in
udienza. Potrà, dunque concedersi un termine perentorio per il deposito di una memoria all’attore.
443
Mi sembra, inoltre, che, potendosi immaginare (come già rilevato), in un gioco di botta e risposta che può avere varie scansioni
(vedi gli efficaci esempi fatti dal CHIARLONI, op. cit., p. 168, nota
n. 2), che l’attore abbia a sua volta delle eccezioni o delle mere difese da svolgere avverso le replicationes del convenuto ex secondo inciso del quinto comma dell’art. 183, e che sia l’attore che il convenuto abbiano mere difese o eccezioni da proporre avverso le precisazioni o modificazioni delle domande ed eccezioni, per le quali sia
stato concesso termine per il deposito di memorie ai sensi del primo inciso del quinto comma dell’art. 183, il giudice, nel concedere i
termini per il deposito di memorie ex primo o secondo inciso del
detto quinto comma possa fissare termini per il compimento di dette attività mediante deposito di ulteriori memorie proprio ai sensi
dell’art. 180 c.p.c. (così, a proposito della sola ipotesi della replica
dell’attore alle eccezioni del convenuto ex secondo inciso del quinto
comma, vedasi: PROTO PISANI, op. cit.; CHIARLONI, op. cit., pp.
188-189; in alternativa detti autori sostengono che la replica dovrà
avvenire all’udienza successiva alla scadenza del termine di cui al secondo inciso del quinto comma, cioè a quella fissata, ai sensi dell’ultimo inciso del quinto comma, per i provvedimenti ex art. 184). La
concessione della facoltà di deposito di dette memorie rispettivamente
all’attore ed ad entrambe le parti, a me appare più opportuna, posto
che, almeno tendenzialmente dovrebbe consentire una maggiore possibilità che in detta udienza si possa definitivamente chiudere la fase di fissazione del thema decidendi e si possa passare a quella di fissazione del thema probandi. Occorre, peraltro, rilevare (e la lettura
degli esempi del CHIARLONI lo evidenzia) che si può benissimo immaginare che anche avverso le deduzioni delle memorie ex art. 180
suddette le parti abbiano ancora da replicare con ulteriori mere difese e controeccezioni, ma qui ci sembra che, salvo casi eccezionali
nei quali per la complessità della materia potrà consentirsi l’ulteriore trattazione scritta in funzione di tali nova, le replicationes dovranno
essere concentrate nell’udienza fissata ai sensi dell’ultimo inciso del
quinto comma dell’art. 183.
Va notato che ove tali attività di replicationes abbiano luogo, in
ossequio al diritto di difesa, la fase di fissazione del “thema decidendi” si allontana dalla prima udienza di trattazione. Con felice formulazione e grande efficacia è stato detto (LUISO, op. cit., p. 98) che
“in ogni caso, la fase di trattazione, destinata alla raccolta delle al444
legazioni, non può dirsi conclusa finché, in applicazione del principio del contraddittorio, una parte vuole replicare alle allegazioni avversarie con ulteriori allegazioni che delle prime siano la conseguenza”.
IV. – Secondo un illustre autore (TARZIA, op. cit., p. 81), la conservazione dell’art. 180 consentirebbe, inoltre, di “ritenere ammessa
la dissociazione tra udienza di prima comparizione e prima udienza di trattazione”, nel senso che, in relazione a cause complesse, il
giudice potrebbe concedere nella prima udienza di comparizione (cioè
in quella che dovrebbe essere la prima udienza di trattazione) un rinvio “per uno scambio ulteriore di memorie”, con la conseguenza che
(se non abbiamo inteso male) sarebbe la successiva udienza cui il
rinvio sia fatto a svolgere la funzione di prima udienza di trattazione. Non mi sembra assolutamente che tale tesi sia compatibile con
la corretta impostazione del rapporto fra l’art. 180 e l’art. 183 e non
ne comprendiamo la ragione, del resto inespressa dall’illustre autore. L’incompatibilità è evidente, laddove si rifletta che le memorie ex
art. 180 non potrebbero che servire a quanto la legge prevede che si
faccia nella prima udienza di trattazione o nell’appendice scritta da
essa prevista.
V. – Altra autorevole dottrina (LUISO, op. cit., pp. 97-98) ha sostenuto che si potrebbe ammettere l’attore ad esercitare la replica di
cui al primo inciso del quarto comma dell’art. 183 con una memoria, non si sa se previamente autorizzata o autorizzata nella stessa
udienza. Ma un’autorizzazione preventiva all’udienza a me pare non
consentita dalla norma dell’art. 180, la quale, precisando che il giudice che concede l’autorizzazione alla trattazione scritta rinvia l’udienza di trattazione, chiaramente allude ad una richiesta fatta al giudice in udienza, poiché se fosse possibile anche la richiesta prima
dell’udienza ben potrebbe il giudice concedere un termine per la trattazione scritta che vada a scadere prima dell’udienza, che, quindi,
non vi sarebbe ragione di rinviare. Penserei, invece, che nulla osti a
che la memoria possa essere depositata, previa autorizzazione,
all’udienza, con allegazione del relativo foglio o dei relativi fogli a
verbale, previo visto del giudice. In tal caso, però, si potrebbe dubitare che si tratti di vera e propria trattazione scritta ex art. 180, tenuto conto che un’autorevole dottrina (ANDRIOLI, Commento al co445
dice di procedura civile, II, Napoli, 1956, p. 22) ebbe modo di segnalare che la vera trattazione scritta ha luogo solo se si applica l’art.
83-bis disp. att. c.p.c.
VI. – Altra autorevole dottrina (COSTANTINO, in Le nuove leggi
civili commentate, cit., pp. 89-90) ha ritenuto che nella stessa ipotesi appena considerata, qualora il giudice abbia differito l’udienza di
prima comparizione ai sensi dell’art. 168-bis quinto comma a notevole distanza di tempo dall’udienza indicata dall’attore in citazione,
potrebbe nel relativo decreto autorizzare l’attore al deposito della memoria ex art. 180. Anche tale tesi non può essere condivisa, alla luce dell’interpretazione sopra data dell’art. 180, secondo la quale il potere ivi previsto è da esercitarsi dal giudice in udienza.
16. Quadro riassuntivo delle preclusioni ricollegate alla prima udienza
di trattazione e comunque alla fase di fissazione del “thema
decidendum”.
Mi pare opportuno riassumere a questo punto, in relazione alle
varie tipologie di fatti rilevanti per il decidere, i diversi momenti di
preclusione accertati nella precedente esposizione: a) per i fatti principali relativi alla domanda attorea (fatti costitutivi) la preclusione
scatta con la preclusione del potere di modificazione della domanda, cioè, alternativamente nella prima udienza di trattazione ovvero
con lo scadere del termine per l’esercizio di quel potere con la memoria di cui al primo inciso del quinto comma dell’art. 183; b) per
i fatti principali integranti le eccezioni di merito in senso stretto e
per la riconvenzionale del convenuto la preclusione (per l’eccezione
sia quanto all’onere di allegazione che di rilevazione) scatta con la
scadenza del termine per il deposito tempestivo della comparsa di
risposta; c) per i fatti principali integranti eccezioni di merito in senso lato del convenuto la preclusione all’allegazione si verifica nella
stessa prima udienza di trattazione, mentre per il potere di rilevazione va detto che ne può avvenire l’esercizio per tutto lo svolgimento
del giudizio di primo grado ed anche in appello (ferme restando le
preclusioni probatorie); d) per la reconventio reconventionis e per le
controeccezioni dell’attore avverso domanda riconvenzionale ed eccezioni proposte (cioè allegate e rilevate) nella comparsa di risposta
446
dal convenuto, la preclusione scatta nella stessa prima udienza di
trattazione; e) per le controeccezioni del convenuto alla reconventio
reconventionis ed alle controeccezioni attoree sub d) la preclusione
matura al più tardi nel termine di cui al secondo inciso del quinto
comma dell’art. 183; f) per le controeccezioni attoree avverso le eccezioni di merito in senso lato, allegate dal convenuto nella prima
udienza, la preclusione matura in un termine analogo a quello sub
e); g) per le replicationes (scilicet eccezioni) occasionate dall’esercizio del potere di modificazione delle domande e delle eccezioni, per
le replicationes dell’attore alle attività sub e) e per le replicationes conseguenziali a seguito dell’esercizio del diritto di difesa anche contro
le attività sub f), la preclusione matura al più tardi nell’udienza fissata ex ultimo inciso del quinto comma dell’art. 183; h) per l’allegazione dei fatti secondari di contorno della fattispecie dedotta in giudizio da parte dell’attore e delle eccezioni del convenuto nel termine di preclusione del potere di precisazione della domanda e delle
eccezioni; i) per l’allegazione dei fatti secondari rilevanti solo in funzione probatoria soltanto alla scadenza dei termini eventualmente richiesti ex secondo inciso del primo comma dell’art. 184.
17. Possibili allegazioni successive al maturare delle preclusioni e rimessione in termini.
I. – Una volta maturate le preclusioni alle allegazioni di fatto che
ho cercato di ricostruire nella precedente esposizione, il compimento delle attività che ne sono oggetto “in linea di massima” (l’espressione – il cui significato subito si chiarirà con i rilievi che seguono
– è del LUISO, op. cit., p. 99) non è più possibile. Lo prevedeva
espressamente all’art. 11 ultimo comma il d.d.l. 1288, ma il venir meno di simile previsione va ritenuto certamente irrilevante, poiché il
principio dell’impossibilità di ulteriori allegazioni è un portato automatico della individuazione stessa nel sistema dell’art. 183 di una serie di preclusioni. Consentire allegazioni successive, infatti, sarebbe
come dire che le preclusioni non esistono.
Tuttavia, è pacifico che in taluni casi si potranno verificare legittimamente allegazioni successive al maturare delle preclusioni. Basta leggere la norma dell’art. 184-bis c.p.c. sulla rimessione in termini per convincersene.
447
La questione che è emersa in dottrina è se vi siano anche ipotesi di allegazioni successive alla scadenza delle preclusioni che esorbitino dall’istituto della rimessione in termini. La questione, per la
verità, non è di mero contenuto accademico, perché la rimessione in
termini è soggetta ad un rigoroso filtro del giudice, che deve valutare se la parte sia incorsa nella decadenza per causa a lei non imputabile. Viceversa, ove si individuassero allegazioni consentite al di là
del maturare delle preclusioni, solo perché logicamente non precludibili, esse potrebbero essere svolte automaticamente, senza alcuna
valutazione discrezionale del giudice. Per altro verso è chiaro che,
qualora si intenda la rimessione in termini in modo molto ampio,
non v’è spazio per ritagliare spazio autonomo ad una sorta di istituto implicito delle allegazioni consentite pur dopo le preclusioni.
A mio avviso, sotto il profilo logico uno spazio di tal genere è
sicuramente concepibile e, dunque, aderiamo alla dottrina che ha ritenuto di individuarlo. Si tratta di fissare il discrimine fra esso e
l’istituto della rimessione in termini. Non mi pare che esso possa essere fissato (come sembra fare il CHIARLONI, op. cit., p. 196, che è
l’unico che si preoccupa del problema dei confini fra i due istituti),
solo affermando che “la razionalità intrinseca alla previsione di preclusioni, consiste nel voler regolare temporalmente la “deduzione”
nel processo di ciò che si presenta in astratto deducibile”. Mi pare
che a tale indubbiamente esatta precisazione che è incentrata sul solo requisito temporale e su una valutazione ex ante astratta, sganciata dallo stato del processo, debba essere aggiunta la precisazione
che la preclusione regola ciò che secondo la sua previsione doveva
essere dedotto non solo in astratto, ma anche in concreto, tenuto
conto dello svolgimento del contraddittorio.
II. – Sulla base di questa precisazione, in relazione al solo criterio temporale è di tutta evidenza che non possono ritenersi preclusi i fatti rilevanti per la decisione che siano sopravvenuti in senso storico allo scadere delle preclusioni: se nel corso del giudizio, dopo l’udienza di trattazione, ha luogo la parziale remissione del debito, è palese che la si possa allegare (e – la questione riguarda, infatti, anche le preclusioni probatorie – provare). E bene è stata messa in evidenza (LUISO, op. cit., pp. 99-100; CHIARLONI, op. cit., ibidem) l’infondatezza della contraria isolata opinione enunciata prima
dell’approvazione della l. 353/90 dall’ATTARDI (La preclusione nel giu448
dizio di primo grado, cit., c. 390 e segg; anche in Giur. It. 1989, IV,
286), la quale peraltro è stata ora abbandonata dall’illustre autore
(Le nuove disposizioni sul processo civile, cit., pp. 80-89).
III. – Analogamente, sulla base del solo criterio temporale è pacifico che possa essere dedotto lo ius superveniens, cioè la nuova qualificazione giuridica dei fatti rilevanti per il giudizio (anche rispetto
a questo problema l’ATTARDI, che era stato il solo ad esprimere contrario avviso, ha abbandonato l’opinione: op. e loc. ult. cit.). Naturalmente la questione interessa ai nostri fini, in quanto la nuova disciplina giuridica comporti la necessità di allegare nuovi fatti, perché, altrimenti, se tale necessità non vi fosse, si tratterebbe solo di
una nuova mera difesa in diritto. Onde, più che di deduzione dello
ius superveniens, l’ipotesi che qui rileva è quella che sia lo ius superveniens a giustificare l’allegazione di nuovi fatti (con le eventuali
corrispondenti necessità probatorie).
IV. – Sulla base del criterio della non deducibilità in ragione dello stato assunto dallo sviluppo del contraddittorio al momento in cui
di norma sarebbe dovuta scattare la preclusione, mi pare che sia ammissibile:
a) la deduzione di fatti a seguito di tardive contestazioni di fatti prima non contestati, le quali siano state ammesse tramite l’istituto della rimessione in termini: non mi sento di escludere a priori
(come fa il CHIARLONI, op. cit., p. 200) che da questa tardiva contestazione, cioè da una mera difesa, non possa sorgere l’esigenza di
allegazione in replica di fatti nuovi, ad esempio in funzione di una
modifica della domanda. Si pensi al caso (corrispondente ad un esempio che ho considerato ad altri fini) di chi abbia agito ex art. 2048
c.c. e solo tardivamente a seguito di rimessione in termini del convenuto ex art. 184-bis, si senta contestare che il danneggiante è figlio del convenuto. L’attore potrebbe essere interessato ad una modifica della domanda ed all’invocazione dell’art. 2049 tramite la deduzione che il danneggiante è dipendente del convenuto. In fondo,
è vero che avrebbe potuto prospettare alternativamente fin dalla citazione la cosa, ma niente ve lo obbligava, tanto è vero che nella prima udienza di trattazione avrebbe potuto modificare la domanda (o
avrebbe potuto farlo ai sensi del primo inciso del quinto comma
dell’art. 183);
449
b) la deduzione eventuale di nuovi fatti a seguito di mere difese in diritto che in ipotesi rendano necessaria anche una replica con
allegazione di fatti. Ciò è stato autorevolmente escluso (CHIARLONI, op. cit., p.199), sulla base del rilievo che l’alternativa circa la qualificazione giuridica dei fatti deve essere presente alle parti ed occasionare, dunque, il massimo di allegazioni di fatto possibili, in applicazione (notiamo noi) del principio di eventualità. Ma l’assunto
contraddice la successiva ammissione che quando il problema di qualificazione giuridica nuova emerge da un tardivo rilievo di questione di diritto da parte del giudice, invece, dovrebbe ammettersi la deducibilità di fatti nuovi, nonché l’affermazione della possibile deduzione dello “ius superveniens”, che, come ho detto poco sopra, può
determinare la necessità di nuove allegazioni in fatto;
c) la deduzione eventuale di nuovi fatti a seguito di tardivo esercizio da parte del giudice del potere di rilevare questioni di fatto o
di diritto rilevabili d’ufficio (LUISO, op. cit., p. 101; lo stesso CHIARLONI, op. cit., ibidem; ATTARDI, Le preclusioni, etc., cit., ibidem; il
PROTO PISANI, op. cit., p. 140, invece, ritiene che questa ipotesi dovrebbe essere ricondotta nell’alveo dell’art. 184-bis).
Mi sembra, infine, che eventuali allegazioni rese necessarie da situazioni simili a quelle che giustificano la revocazione ex art. 395 c.p.c.,
debbano essere ricondotte all’ambito dell’art. 184-bis (non così, invece,
per LUISO, op. cit., p. 100, sulle orme di ATTARDI, op. cit., ibidem).
Infine, sfugge all’incidenza della preclusione – come ho rilevato
in precedenza – la possibilità di allegazione dei fatti che emergano
solo dall’istruzione e che la parte non avrebbe potuto dedurre in precedenza. Non altrettanto se avesse potuto dedurli. Così, se da dichiarazioni spontanee dei testimoni emergano circostanze sconosciute
alla parte se ne potrà tenere conto. La stessa cosa dicasi se tali circostanze emergano dalla consulenza tecnica. Opera qui il principio
di acquisizione processuale e l’eventuale attività di allegazione ulteriore resa necessaria dall’emersione di tali fatti potrà essere giustificata ai sensi dell’art. 184-bis.
18. Rilevabilità d’ufficio della violazione delle preclusioni
Non credo possano sollevarsi dubbi sul regime di rilevabilità della violazione delle preclusioni ricollegate alla fase di fissazione del
450
thema decidendi (come di quelle relative al thema probandi, di cui
non mi occupo): un sistema processuale imperniato sulle preclusioni non può funzionare se non si affida al giudice per garantire, comunque, indipendentemente dalla volontà delle parti, la sua osservanza. E, pertanto, non vi può essere dubbio sulla rilevabilità d’ufficio della violazione delle preclusioni e sulla sua deducibilità, ove non
rilevata nel corso del giudizio e perciò influente sulla sentenza, tramite la tecnica dell’impugnazione ex art. 162 comma secondo c.p.c.
(TARZIA, op. cit., p. 120; CHIARLONI, op. cit., pp. 205-206; LUISO,
op. cit., pp. 103-104). La ragione della rilevabilità d’ufficio è non solo coessenziale alla stessa possibilità del funzionamento del nuovo
processo, ma è un portato dell’interesse pubblicistico a che il processo si faccia in un certo modo, ancorché riguardi gli interessi delle parti. Quel modo, imperniato sulle preclusioni, è, o dovrebbe essere, quello ottimale per una compiuta garanzia dell’art. 24 della Costituzione. La rilevabilità d’ufficio comporta, poi, come conseguenza, per non essere canzonatoria, l’impossibilità di dare la possibilità
alle parti di “accordarsi” espressamente o tacitamente per eludere il
sistema delle preclusioni.
Per la verità ciò era stato di fatto negato, senza – a mio avviso
– alcuna giustificazione a proposito delle pochissime preclusioni previste dal vecchio rito di cognizione ordinaria [a proposito, in particolare, della tardiva riconvenzionale e finanche della mutatio libelli,
spesso presumendosi l’accordo delle parti anche sulla base del solo
silenzio, come nel caso di mancata rilevazione della novità della domanda (CONSOLO, Mutatio, cit., pp. 6325 e segg.)]. Viceversa, l’esperienza del rito del lavoro, imperniato su preclusioni “forti” aveva ed
ha giustamente escluso la possibilità che le preclusioni siano elise
dal pur concorde atteggiamento delle parti.
Non è mancato, tuttavia, a proposito del nuovo rito chi autorevolmente (PROTO PISANI, op. cit., pp. 231 e seg.), pur partendo
dall’impostazione generale qui condivisa, ha ritenuto che le parti potrebbero rinunciare all’operatività delle già maturate preclusioni con
un accordo formalizzato nelle forme dell’art. 306 c.p.c., nel presupposto che, se è consentito alle parti almeno per i diritti disponibili
rinunciare agli atti del giudizio, sarebbe contraddittorio non consentire loro di rinunciare alle preclusioni.
Ma la tesi in questione è stata efficacemente criticata da chi
(CHIARLONI, op. cit., ibidem) ha rilevato: a) che dal fatto che l’art.
451
306 consenta alle parti di disporre del “se” del processo, non si può
inferire che consenta implicitamente anche disporre del “come” del
processo, che è regolato in un certo modo per esigenze pubblicistiche, che le parti non possono pretermettere; b) che la tesi del PROTO PISANI non è coerente, laddove tiene fermo che l’accordo delle
parti non potrebbe consentire la disposizione della preclusione alla
proponibilità di domande nuove in appello; c) che, per il caso di
mancata costituzione del convenuto, giusta il fatto che in caso di
contumacia non è necessario che la rinuncia agli atti da parte dell’attore sia accettata da parte del convenuto, ragioni di simmetria vorrebbero che all’attore fosse consentito di disporre unilateralmente
delle preclusioni, che, dunque, non esisterebbero nel processo contumaciale, cosa che non può non sembrare inaccettabile.
D’altronde, per chi – come mi è sembrato (sopra sub paragrafo
n. 4 – ritenga che le preclusioni alle allegazioni siano imposte con
la tecnica della previsione di termini perentori, non può non valere
il principio per cui la scadenza del termine perentorio per una certa attività comporta sempre che essa non possa più compiersi a prescindere dall’atteggiamento dell’altra parte (che eccepisca o meno
l’inosservanza del termine) è sufficiente leggere l’art. 153 per convincersene.
19. Il problema dell’aggiramento delle preclusioni tramite l’instaurazione di altro processo
I. – Un problema che merita di essere accennato, pur concernendo esso non solo le preclusioni collegate alla fissazione del thema
decidendi, è quello che, immediatamente dopo la l. 353/90 è stato sollevato in dottrina (TAVORMINA, in Corriere giuridico, 1991, p. 48),
per la verità nel quadro di un’impostazione larvatamente insofferente verso la scelta del legislatore di introdurre un sistema processuale
fondato sulle preclusioni. Si tratta del possibile aggiramento delle preclusioni formatesi nell’ambito di un determinato processo, mediante
la proposizione, da parte di quel litigante che vi sia incorso, di un
nuovo giudizio avente ad oggetto una domanda che consenta proprio
quelle allegazioni che nel primo giudizio sono rimaste precluse.
Le ipotesi che si possono immaginare sono le più varie. Si potrà trattare – ed è certamente il caso più eclatante – della medesima
452
domanda proposta avanti al giudice investito della prima. Si potrà
trattare di una domanda “contenente” rispetto alla prima ovvero di
una domanda “contenuta” già in essa, proposta avanti allo stesso o
ad altro giudice. Si potrà trattare di una domanda collegata alla prima da ragioni di connessione e proposta avanti allo stesso o ad altro giudice.
II. – La dottrina che ha sollevato il problema (TAVORMINA), peraltro ragionando solo dell’ipotesi della proposizione di causa identica o legata a quella pendente da nesso di continenza e non delle
altre di mera connessione, si è pronunciata – verrebbe quasi da dire naturaliter – nel senso che in questo caso, dovendosi procedere alla riunione obbligatoria ex art. 273 c.p.c. a causa della circostanza
che le due cause vengono a pendere davanti allo stesso giudice (inteso anche come ufficio), sarebbe consentito che i processi riuniti
siano trattati “sulla base delle più articolate istanze proposte nel secondo giudizio”. Tale dottrina è stata criticata autorevolmente da chi,
dall’esatta percezione che così il sistema delle preclusioni sarebbe come non scritto, ha, invece, sostenuto che la trattazione dovrebbe, tutto al contrario, avvenire secondo lo stato delle allegazioni, e quindi
delle preclusioni, formatesi nel primo giudizio.
Che questa sia la tesi “giusta” è – mi pare – difficilmente contestabile, ma a ragione (CHIARLONI, op. cit., p. 199) è stato rilevato che essa non è stata motivata congruamente, laddove, per un verso si è fatto appello ai principi di cui all’art. 88 c.p.c., ad una pretesa nullità degli atti del secondo processo recanti le nuove allegazioni eversive delle preclusioni maturate nel primo processo per inidoneità al raggiungimento dello scopo (art. 156, secondo comma
c.p.c.) ed infine alla connotazione pubblicistica del sistema delle preclusioni, che dovrebbe indurre a considerare tardive le deduzioni effettuate nel secondo giudizio. La critica è stata formulata, da un lato con l’accusa generica di apoditticità dell’assunto del PROTO PISANI, dall’altro assumendo che la soluzione da essa indicata, pur
esatta, non sarebbe acconcia a tutte le ipotesi nelle quali si pone il
problema di cui si discorre. Quest’ultimo rilievo, peraltro, trascura
che il PROTO PISANI si è limitato ad enunciare la sua affermazione solo a proposito delle ipotesi di identità delle cause o di nesso di
continenza fra loro, restando cioè nell’ambito dei rilievi del TAVORMINA. L’accusa di apoditticità mi pare che debba essere a sua volta
453
precisata rilevando: a) che non si comprende come dall’art. 88 c.p.c.
si possa inferire la conseguenza che il giudice dovrebbe reputare “ferme le bocce” alla situazione esistenze nel primo giudizio: è pacifico
in dottrina che l’art. 88 non è norma direttamente sanzionatrice, fuori dal caso del secondo comma, ma funziona da criterio di applicazione di altre norme, quali l’art. 92, l’art. 116 c.p.c., l’art. 175 (si veda in termini MANDRIOLI, sub art. 88, in Commentario del codice
di procedura civile diretto da ALLORIO, cit., p. 964); b) che sia la prospettazione della nullità che quella dell’incidenza dell’esigenza pubblicistica debbono fare i conti col fatto che sono chiamate ad operare con riguardo ad un altro processo, cioè il primo e bisognerebbe spiegare come ciò sia possibile.
III. – In realtà, (come a mio avviso ha autorevolmente colto il
CHIARLONI, op. cit., pp. 200-201) una ragione giustificativa dell’assunto del PROTO PISANI per l’ipotesi che la causa proposta successivamente sia identica a quella originaria nella quale sono maturate
le preclusioni può rinvenirsi al lume di un’attenta considerazione della disciplina della litispendenza. È evidente che l’elusione delle preclusioni può essere tentata solo riproponendo la causa avanti allo
stesso giudice, poiché, nel caso in cui essa venga proposta avanti ad
un giudice diverso, l’intento non può avere corso in quanto il secondo giudice (prescindendo da problemi di competenza, come è noto)
deve con sentenza di mero rito dichiarare la litispendenza ed ordinare la cancellazione della causa dal ruolo [decorso il termine per la
proposizione del regolamento di competenza]. Questa disciplina della litispendenza, per cui il secondo processo non ha prospettiva di
svolgersi, viene esattamente ritenuta rilevante dal CHIARLONI nella
ricostruzione dell’istituto della riunione dei processi identici di cui
all’art. 273 c.p.c., cioè dei processi identici pendenti avanti al medesimo giudice-ufficio. Il senso dell’istituto viene individuato solo
nell’esigenza di evitare giudicati contraddittori sulla medesima causa, con assoluta indifferenza al loro stato, e, dalla circostanza che, in
base al principio di prevenzione, solo il primo sopravvive, si inferisce come implicazione a proposito della riunione dei processi identici pendenti avanti allo stesso giudice-ufficio, questa affermazione,
che mi pare assolutamente esatta: “riunire due procedimenti qui vuol
dire di due, farne uno, in un contesto dove quell’uno deve essere il
primo, e soltanto il primo, con riferimento al quale andranno calco454
late le preclusioni verificatesi. Non vuol dire, non può voler dire, compiere una giustapposizione indirizzata a recuperare quanto compiuto in ambedue i procedimenti. Questa è una conclusione obbligata,
se si vuole ricostruire la disciplina in coerenza con la regolamentazione della litispendenza. Infatti, per meglio spiegare l’assunto della
riferita opinione, non si comprenderebbe la discriminazione di trattamento fra chi instauri la stessa causa avanti ad altro giudice e chi
la instauri avanti al primo. Se il secondo processo non si deve trattare nel primo caso, la stessa cosa non può non valere anche per il
secondo. Va avvertito che la tesi, tuttavia, potrebbe comportare, ove
intesa con assolutezza, conseguenze inammissibili, ma che non sono
indefettibili, come potrebbe sembrare in prima battuta. Si pensi al
caso in cui il secondo processo sia stato instaurato con una citazione valida avanti allo stesso giudice dopo l’instaurazione di un primo
giudizio nel quale era stata rilevata la nullità della citazione relativamente alla editio actionis ed ordinata inutilmente la sua rinnovazione od integrazione. Si pensi al caso in cui il primo giudizio debba essere definito con una pronuncia di mero rito dichiarativa di un
difetto di rappresentanza oppure della nullità della procura. In tali
casi, se pure la proposizione del secondo giudizio non sia stata fatta per eludere le preclusioni, ma semplicemente per rimediare all’errore in rito fatto nel primo processo, si dovrebbe trattare i due giudizi dando rilievo solo allo “stato” del primo. Per riproporre l’azione
con la prospettiva che abbia corso occorrerebbe attendere che il giudice pronunci sulla prima e poi fare acquiescenza ad essa in modo
che passi in cosa giudicata, oppure limitarsi ad impugnarla solo per
le spese, facendola passare in giudicato per la statuizione di rito.
Simili assurdità, derivanti da un troppo rigido intendimendo del
giusto rilievo del CHIARLONI, mi sembrano da bandire, perché idonee a mortificare il diritto costituzionale d’azione e ciò anche con riguardo alle eventuali domande cautelari da farsi in corso di causa
di merito, che il giudice dovrebbe respingere proprio in quanto la
prima causa di merito deve essere definita per ragioni di mero rito.
Riterrei, quindi, che l’assolutezza della tesi del CHIARLONI debba correggersi nel senso che il principio dell’assorbimento del secondo giudizio nel primo secondo lo stato di questo, nelle ipotesi indicate non si verifichi, poiché l’intento elusivo delle preclusioni non
sussiste. O meglio: il principio deve essere ritenuto operante solo a
proposito delle preclusioni.
455
IV. – Passiamo all’ipotesi di continenza. Come è noto la giurisprudenza offre una nozione ampia di continenza e nel suo ambito
ricomprende spesso ipotesi che a rigore integrerebbero – se si vuol
dare un senso all’art. 40 c.p.c. – casi di mera connessione (vedi per
una rassegna di casi CARPI-COLESANTI– TARUFFO, Commentario
breve al c.p.c., Padova, 1988, sub art. 39) o di litispendenza per identità delle cause. Tra questi ultimi vi è il caso in cui, proposta domanda di accertamento negativo di un certo diritto, venga proposta
successivamente domanda di condanna dal (creditore, ad es.) convenuto nel primo giudizio o viceversa, cioè venga proposta prima la
domanda di condanna e dopo quella di accertamento negativo. Certo, se si capovolge la posizione della giurisprudenza (seguita dalla
dottrina su questo punto: FRANCHI, in Commentario del c.p.c. diretto da ALLORIO, cit., p. 412) e si rinviene in questo caso un’ipotesi di litispendenza, valgono i rilievi svolti prima per scongiurare processi eversivi delle preclusioni. Ma, se si tiene ferma la qualificazione di continenza, tali rilievi sono privi di valore a quello scopo, per
questa come per le altre ipotesi giurisprudenziali di continenza (lo
nota il CHIARLONI, op. cit., p. 201).
V. – Quid iuris, dunque, di fronte al tentativo di aggiramento delle preclusioni compiuto con l’instaurazione di un causa “contenente” o “contenuta”?
A mio avviso (contrariamente a quanto sembra reputare il CHIARLONI, che non ne individua alcuna, se non quella di auspicare una riduzione delle ipotesi di continenza in giurisprudenza), una soluzione
adeguata al fine di scongiurare tentativi di elusione delle preclusioni
può e deve essere data anche in questi casi. Ciò è possibile e si evita
(come sconsolatamente sembra fare implicitamente il CHIARLONI) di
supervalutare il fatto che, a differenza della litispendenza, nella continenza il legislatore del c.p.c. del 1940 ha voluto che i due processi,
quello contenente e quello contenuto permangano entrambi. Non mi
sembra che questa sia una ragione sufficiente per negare che, una volta che nei modi di cui all’art. 39 secondo comma o ai sensi dell’art.
274 c.p.c., i due giudizi prima proposti separatamente, rispettivamente avanti a giudici diversi e davanti al medesimo giudice-ufficio, si vengano a trovare riuniti avanti al medesimo giudice-persona per la trattazione congiunta, in ordine alle preclusioni debba sempre e soltanto
farsi riferimento allo stato della causa proposta per prima.
456
Sono almeno due le ragioni che mi pare possono addursi a sostegno di questo assunto.
La prima è che il secondo comma dell’art. 39 c.p.c., ove sulla seconda causa sussista la competenza del primo giudice e non sorga,
quindi, questione di competenza, risolve la situazione di continenza
privilegiando il criterio della prevenzione, cioè imponendo che le due
cause si concentrino avanti al giudice della causa introdotta per prima e ciò con assoluta indifferenza al fatto che nella seconda causa
si chieda qualcosa di più o di meno, cioè sia che la prima causa
“contenga” la seconda, sia che quest’ultima contenga la prima. Non
viene, quindi, in alcun modo privilegiata la circostanza che la seconda causa sia “contenente” e, quindi, più ampia rispetto alla prima e che, dunque, la richiesta di tutela con essa fatta valere debba
servire a qualcosa di più di quello a cui serviva la prima causa. Questo privilegio di vis actractiva riconosciuto alla prima causa deve avere un certo valore, a mio sommesso avviso. E, per quanto mi sforzi
di cercarne un altro, mi pare che esso non possa essere rappresentato, se non dall’esigenza che rispetto alla seconda causa debba valere lo “stato processuale” raggiunto nella prima. Per intenderci: se
nel primo giudizio sono state assunte prove richieste pure nel secondo in ordine agli stessi fatti, è evidente che non sarà necessario
assumerle nuovamente, conservando autonomia al secondo giudizio.
Ora, se tutto ciò si colloca in un sistema imperniato sulle preclusioni, mi pare che il senso della vis actractiva della prima causa non
possa che comportare la conseguenza che anche lo “stato processuale” di questa in punto di preclusioni, con riguardo ai fatti rilevanti per il decidere comuni alle due cause dovrà essere quello senza dubbio prevalente. Le allegazioni da considerarsi dal giudice avanti al quale le cause si siano riunite non potranno che essere quelle
tempestivamente effettuate nel primo giudizio preveniente. L’unica
strada alternativa sarebbe quella di reputare operanti le preclusioni
nelle due cause separatamente, ma ciò equivarrebbe ad un assurdo.
Non meno assurdo, però, mi sembra ipotizzare che le preclusioni,
verificatesi quale fenomeno endoprocessuale nel primo giudizio, possano subire elusione con una condotta extraprocessuale della parte
che vi è incorsa, quale è quella della proposizione dell’altro giudizio.
La seconda ragione per sdrammatizzare il rischio di elusione delle preclusioni ex art. 39 riguarda l’ipotesi che il principio di prevenzione non possa operare e la riunione dei due giudizi, non essendo
457
il giudice della prima causa competente anche per la seconda causa, si debba realizzare avanti al giudice di quest’ultima, cui il primo
giudice deve rimettere la causa avanti a lui proposta. Ebbene, mi pare che la trasmigrazione della prima causa presso il secondo giudice, tanto più in quanto non avviene perché su di essa il primo giudice era incompetente (onde non possono sussistere dubbi sul valido svolgimento del processo avanti a lui, come, invece, parte della
dottrina opina in caso di traslatio ex art. 50 c.p.c. a seguito di declaratoria di incompetenza), non può che significare che lo “stato”
del primo processo, in un sistema processuale imperniato sulle preclusioni, non può non conservare pieno valore in ordine ai profili
coincidenti delle due cause. Se non fosse così a me sembra che la
traslatio dal primo al secondo giudice della causa originaria sarebbe
stata da ritenere inutile dal legislatore del 1940 (che, non lo si dimentichi, aveva previsto la norma in un sistema processuale imperniato proprio sulle preclusioni) nell’ipotesi in cui la prima causa fosse stata “contenuta” nella seconda. Voglio dire, cioè, che, se lo svolgimento processuale della prima causa “contenuta” fosse stato immaginato come irrilevante a seguito della traslatio avanti al giudice
della seconda causa, la stessa traslatio sarebbe stata inutile, posto
che la prima causa sarebbe stata comunque contenuta nella seconda e, dunque, la richiesta di tutela operata in questa avrebbe compreso anche quella formulata nella prima causa.
Mi pare, dunque, che anche in ipotesi di continenza le preclusioni non sono eludibili.
VI. – Resta da dire dei casi di connessione. Si pensi all’ipotesi
che, proposta domanda di adempimento contrattuale non sia tempestivamente proposta la domanda di risoluzione del contratto ed essa venga proposta successivamente, con successiva riunione dei processi avanti allo stesso giudice o ex art. 40 c.p.c. o ex art. 274 c.p.c.
In queste ipotesi il CHIARLONI (op. cit., p. 204) ha prospettato, sia
pure dubitativamente, la tesi che la mancata proposizione, in ossequio alle preclusioni all’uopo stabilite, della domanda connessa nel
primo processo, dovrebbe comportare la conseguenza della impossibilità di proposizione di essa con processo autonomo, se non con la
prospettiva della soggezione alle preclusioni maturate nel primo processo. Il che significherebbe, nell’esempio prospettato sopra, che, se
il convenuto nel giudizio di adempimento contrattuale non aveva de458
dotto tempestivamente l’esistenza dell’inadempimento fatto valere poi
a sostegno dell’autonoma domanda di risoluzione (cosa che avrebbe
potuto fare anche non proponendo la domanda di risoluzione, limitandosi a dedurre una exceptio inadimplenti non est adimplendum,
nel giudizio di risoluzione l’inadempimento non sarebbe allegabile a
sostegno della domanda, la quale sarebbe soggetta ormai alla futura
incidenza del giudicato implicito sull’esistenza del contratto scaturente dal primo giudizio avente ad oggetto la domanda di adempimento dell’altro contraente.
Questa tesi mi pare assolutamente non condivisibile per la semplice ragione che colui che può proporre una domanda connessa ad
altra pendente non è obbligato a proporla nel giudizio che ha ad oggetto quest’ultima, ma ha solo la facoltà di farlo.
D’altro canto, se la causa in questione – cioè quella di risoluzione – fosse proposta avanti ad altro giudice e non fosse applicabile l’art. 40 c.p.c. non potrebbe dirsi che il primo giudizio, in quanto
in esso non è stato dedotto quell’inadempimento posto a base della
domanda di risoluzione oggetto del secondo giudizio, non sia soggetto alla pregiudizialità del primo ex art. 295 c.p.c.
Comunque, mi limito ad accennare al problema, che richiederebbe approfondimenti in questa sede non consentiti.
20. Cenni sui rapporti fra art. 183 e art. 189 c.p.c.
Come ho avuto modo di rilevare più volte l’art. 189 c.p.c. prevede che in sede di precisazione delle conclusioni le conclusioni siano precisate “nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a
norma dell’art. 183”.
L’espresso riferimento a conclusioni che debbono rimanere “nei
limiti” di quelle precedentemente prese, deve tenere conto che le conclusioni formulate ex art. 183 (cioè nella prima udienza di trattazione ovvero nell’appendice di trattazione scritta possibile ex primo inciso del quinto comma dell’art. 183 stesso) sono quelle precisatesi
all’esito dell’esercizio del potere di modificazione e precisazione della domanda.
Pertanto, tutto ciò che si collochi all’interno della domanda siccome precisata e modificata ai sensi dell’art. 183 sarà, nonostante
l’apparente rigidità dell’art. 189 c.p.c. deducibile.
459
In particolare: a) potrà, in ossequio all’assenza di preclusioni alle difese in diritto, essere data una diversa qualificazione giuridica
dei fatti, principali o secondari che siano, salvo gli eventuali problemi di garanzia del contraddittorio che l’altra parte potrà chiedere di
esercitare; b) potrà ridursi la domanda; c) potrà, riconoscendosi fondata la difesa del convenuto, concludere per il riconoscimento del
diritto nei termini da lui asseriti (es.: era stato chiesto il rilascio del
bene per una certa data ed il convenuto aveva eccepito che il rilascio doveva avvenire ad una data successiva. L’attore potrà concludere, senza violare l’art. 189 per il rilascio per quella data, ancorché
prima non lo avesse fatto).
460
IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO: LA PRIMA UDIENZA
E LE PRECLUSIONI (*)
Relatore:
dott. Vincenzo VITRÒ
consigliere della Corte di Appello di Torino
La prima udienza di trattazione secondo Enrico Redenti prima della
Novella del 1950 (1)
“Qui si bucina qualche cosa di infinitamente più grave, e cioè
che si pensi ad una specie di epurazione in blocco, idest soppressione, con conseguente ritorno all’antico”.
“Il primo obbiettivo che ci si deve proporre, secondo me (ed è
sempre questo il mio chiodo), è di sgomberare sollecitamente il campo, fino che si può, dai dissennati e disonesti litigi, sian beghe, bizze o diatribe, senza un adeguato costrutto o giuochi di destrezza per
non tener fede ai propri impegni. Così io stesso predicavo or sono
molti anni, e per questo, dicevo, lo spediente più efficace è di far sedere il giudice e i patroni o magari le parti intorno ad un tavolo, che
si vedano in faccia, e il giudice possa interrogare ed ammonire, chiedere ragione delle cose, tagliar corto alle chiacchiere, sfrondare quello che non serve, mondare il gariglio di ogni questione e far uscire
se si può la verità dal metaforico pozzo”.
(*) Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Frascati dal 17 al maggio
1993
(1) E. REDENTI, in Per l’Ordinamento Giudiziario, Quaderni di “Temi”, Milano
1946, pag. 30-31.
461
“ Il codice attuale, nella lettera e più nello spirito, ne dà o ne
darebbe al giudice i mezzi”.
1. Udienza di prima comparizione e prima udienza di trattazione
C’è’ chi (2) sostiene che una interpretazione coordinata degli artt.
180 e 183 c.p.c. e dell’art. 83-bis disp. att. c.p.c. induce a ritenere
ammessa la dissociazione tra udienza di prima comparizione e prima udienza di trattazione. Se questa interpretazione prevarrà, l’effetto di concentrazione, voluto dalla novella, si perderà per esigenze
organizzative, nell’ambito di una violazione della legge, per così dire, necessitata.
Infatti il giudice, stante il numero delle cause, che deve trattare, sarà costretto a rinviare per alcune di esse la trattazione ad altra
udienza. Pertanto si perderà l’effetto voluto dal legislatore di concentrazione e quindi di accelerazione, che, in altra sede ho chiamato di “spedizione forzata” vale a dire quello di imporre al giudice,
monocratico in primo grado e al giudice collegiale in secondo grado, la decisione immediata di tutte le cause, che non hanno bisogno
di istruzione o che necessitano soltanto di istruzione veloce.
A questo proposito, mi preme portare un esempio, per dimostrare che l’accelerazione del processo non si ottiene, semplificando
le forme, ma modificando l’organizzazione giudiziaria, sotto il profilo dell’aumento dei giudici onorari, nel numero necessario per amministrare giustizia, come accade in altri paesi europei.
Per quanto concerne l’esempio, richiamo la novella sul divorzio.
È a tutti noto che la Corte costituzionale (3), interpretando l’espressione “... l’appello è deciso in camera di consiglio” (4), ha dettato per
il divorzio un piccolo “codice di procedura civile”, facendo rientrare
(2) G. TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, pag. 81.
(3) Corte cost. 14.12.1989, n. 543 e 23 dicembre 1989, n. 573, in Foro it., 1990,
I, 365 e ss.
(4) Art. 8 l. n. 74 del 1987, comma 12.
462
dalla finestra tutti gli istituti processuali di garanzia, che l’espressione
in questione sembrava aver cacciato dalla porta. E ciò perché spinta
dalla necessità di concedere alle parti quelle garanzie processuali per
la tutela di diritti e status, che le “forme” semplificate dei procedimenti
in camera di consiglio, non sono in grado di assicurare.
A questa disastrata situazione si perviene, perché, invece di attuare vere riforme organizzative (peraltro impedite da limiti di spesa, che purtroppo sempre la giustizia incontra in questo paese), si è
costretti a ricorrere a riforme normative, che spesso lasciano il tempo che trovano.
Comunque si deve osservare che, una volta introdotta nell’ordinamento, è preciso dovere del giudice onorare la legge ed interpretarla nei termini più idonei per raggiungere gli scopi, che il legislatore si è prefisso. Si impone di conseguenza l’interpretazione, che limita solo ai casi previsti espressamente la non coincidenza tra udienza di prima comparizione e udienza di prima trattazione.
Già la relazione al codice del 1940 asseriva che “il giudice istruttore deve per prima cosa eliminare dalla discussione il troppo e il
vano, e se non riesce a conciliare le parti su tutti i punti, ridurre la
controversia a quelle poche questioni essenziali che hanno veramente
bisogno di essere decise “ (5).
Il giudice istruttore deve sempre avere presente che solo alcuni
aspetti del processo sono nella disponibilità delle parti e deve dirigere e guidare le attività processuali, rispettando i tempi e le cadenze,
predeterminati dal legislatore, evitando la comoda posizione del rinvio, atteso che spesso una delle parti o tutte le parti possono avere interesse a procrastinare la decisione attraverso una serie indeterminata di rinvii, non prevista dalla legge e senz’altro contraria al sistema,
che scaturisce dalla disciplina, contenuta nella novella del 1990.
Si è infatti notato (6) che l’ipotesi che la lettera della legge im-
(5) Relazione al codice del 1940, n. 21, Funzioni del giudice istruttore: preparazione e istruzione.
(6) G. COSTANTINO, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 1992, pag. 76.
463
pone di considerare fisiologica è quella in cui la data dell’udienza di
comparizione indicata nell’atto di citazione ai sensi dell’art. 163, n.
7, coincida con quella “prima udienza di trattazione”.
Contro questa previsione, non può essere invocato l’art. 180
c.p.c., solo apparentemente non toccato dalla novella. Infatti l’art.
180 non può essere invocato ed interpretato, tenendolo avulso dal
nuovo sistema, in cui si snoda la prima fase del giudizio di cognizione.
L’art. 89 della novella ha abrogato il primo comma dell’art. 185
della vecchia disciplina ed ha inserito l’istituto, già ivi disciplinato
(“tentativo di conciliazione”), nell’art. 183, novellato quasi totalmente. Non solo, ma il legislatore ha inserito nell’art. 183 novellato la
trattazione scritta, già prevista nell’art. 180.
Si è osservato che l’introduzione delle novità previste nell’art. 183
può avvenire nelle forme della trattazione orale o in quella scritta,
prevista dall’ultimo comma dell’art. 183 novellato (7).
Il rinvio, dettato dall’esigenza di acquisire in giudizio elementi nuovi nella forma, più distesa e meditata, della memoria scritta
(8), deve avvenire secondo la previsione dell’art. 180, letto ed interpretato, secondo le modifiche, introdotte nel sistema dall’art.
183, novellato, che comprende in se tutti gli istituti della udienza
di prima trattazione: il passaggio dalla trattazione orale a quella
scritta, il tentativo di conciliazione, l’interrogatorio libero delle parti, etc.
Pertanto il giudice istruttore non autorizza più la trattazione
scritta nelle forme dell’art. 83-bis disp. di att., ma nelle forme, scaturite dall’interpretazione sistematica, degli artt. 180, 183 e 185
c.p.c.: “Se richiesto, ove ricorrano giusti motivi, il giudice fissa un
termine perentorio non superiore a trenta giorni per il deposito di
memorie... Concede altresì al convenuto, su sua richiesta, un termine perentorio non superiore a trenta giorni... Con la stessa or-
(7) CONSOLO, in Giur. it., 1990, IV, 434-435; CONSOLO-LUISO- SASSANI, La
Riforma del Processo Civile, Milano, 1991, pag. 97.
(8) CONSOLO-LUISO-SASSANI, l. u.c.
464
dinanza il giudice fissa l’udienza per i provvedimenti di cui all’art.
184”. Così legiferando, il legislatore fa salvo l’effetto di concentrazione e quindi di accelerazione, perché l’attività delle parti risulta
strettamente vincolata alla prima udienza di trattazione, tramite un
termine perentorio ed il passaggio dalla fase di trattazione a quella istruttoria non può avvenire se non fissando subito dopo la scadenza del termine perentorio l’udienza per emanare i provvedimenti
istruttori ex art. 18 novellato, onde non vanificare l’effetto di concentrazione derivante dalla perentorietà dei termini, alla quale è
vincolata l’attività delle parti. Il giudice che non rispettasse l’effetto di concentrazione, voluto dal legislatore, si porrebbe al di fuori
del sistema.
In altri termini la fissazione dell’udienza istruttoria non può essere effettuata arbitrariamente, ma deve essere scelta dal giudice, da
un lato rispettando l’effetto di concentrazione e dall’altro tenendo
conto soltanto del suo calendario, in modo da dividere nel tempo le
cause, al fine di avere la possibilità di trattarne un numero adeguato a ciascuna udienza (9).
Ne’ il giudice istruttore dovrebbe trovarsi in difficoltà per un eccesso di cause da trattare. Infatti il legislatore ha previsto un effetto deflattivo, attraverso l’istituzione del giudice di pace e un altro,
separando la trattazione delle cause vecchie da quella delle cause
nuove (art. 90 e 91 l. n. 353 del 1990). Il quadro sembra poi completarsi con il recente aumento di 400 unità dell’organico della magistratura ordinaria.
Ciò nonostante, siamo ben consci che il giudice istruttore dovrà
affrontare notevoli difficoltà, ma se non si lascerà sfuggire di mano
la trattazione, senz’altro riuscirà ad adempiere al suo compito, migliorando la giustizia civile del nostro Paese.
Ovviamente il suo compito potrebbe essere meglio assolto se si
potesse intervenire nell’organizzazione dei servizi giudiziari, con l’istituzione, ad es., dell’ufficio del giudice, da sempre reclamato dai magistrati italiani.
(9) G. COSTANTINO, l.u.c., pag. 76.
465
Gli altri casi di dissociazione fra udienza di prima comparizione e udienza di prima trattazione possono essere raggruppati in due
diverse categorie. Nella prima categoria possono essere annoverati i
casi di differimento tecnico dell’udienza, nella seconda i casi di vero e proprio rinvio.
Rientrano nella prima categoria i seguenti casi: a) l’attore indica nell’atto di citazione come giorno di prima comparizione un giorno diverso da quelli stabiliti dal presidente del tribunale, in cui ciascun giudice tiene le udienze destinate esclusivamente alla prima
comparizione delle parti (art. 80 disp. att. del c.p.c.); b) se nel giorno fissato per la comparizione il giudice istruttore designato non
tiene udienza, la comparizione delle parti è d’ufficio rimandata
all’udienza immediatamente successiva tenuta dal giudice designato; c) qualora il giudice istruttore designato non tenga udienza nel
giorno fissato per la prima comparizione delle parti questa si intende rinviata d’ufficio all’udienza di prima comparizione immediatamente successiva, assegnata allo stesso giudice (art. 82 disp. att.
del c.p.c.); d) l’udienza si intende rinviata d’ufficio all’udienza di prima comparizione immediatamente successiva nel caso che il presidente abbia designato un giudice diverso da quelli che tengono udienza di prima comparizione nel giorno fissato dall’attore (art. 82 cit.);
e) la causa s’intende rinviata d’ufficio alla prima udienza d’istruzione immediatamente successiva, se nel giorno fissato non si tiene
per festività sopravvenuta o impedimento del giudice istruttore, ovvero per qualsiasi altro motivo; f) la data della prima udienza di
trattazione può essere differita nel caso in cui il convenuto abbia
chiesto lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini dell’art. 163-bis ed
il giudice istruttore provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza.
Nella seconda categoria rientra il caso descritto nell’art. 168- bis
novellato: “Il giudice istruttore può differire, con decreto da emettere entro cinque giorni dalla presentazione del fascicolo, la data della prima udienza fino ad un massimo di quarantacinque giorni. In
tal caso il cancelliere comunica alle parti costituite la nuova data della prima udienza. Restano ferme le decadenze riferite alla data di
udienza fissata nella citazione”.
Si tratta di vero e proprio rinvio, strettamente collegato con il
carico di lavoro dell’ufficio giudiziario e del singolo giudice. Invero
466
ciascun giudice dovrà fissarsi un proprio calendario, relativo alle
udienze di trattazione e in ciascuna di tali udienze dovrà fissare un
numero di cause non superiore a quelle, che possono essere effettivamente trattate, per raggiungere lo scopo di esaurire nei 45 giorni
tutte le cause che vengono a lui assegnate in termini tali da fissare
definitivamente il thema decidendum. Sicche’ da una parte tale termine viene ad essere una valvola di sfogo per il giudice istruttore al
fine di impadronirsi della causa e non lasciarla alla libera trattazione delle parti, in violazione del sistema introdotto dalla novella.
Dall’altra può costituire un punto di fuga del processo, cioè uno strumento di rinvio a vuoto a tempo molto lungo, atteso che il termine
è meramente ordinatorio. “Meramente canzonatori... sono quei termini, la cui inosservanza è priva di sanzione, per esempio quelli per
la pronuncia di ordinanze dopo l’udienza, o per il deposito delle sentenze (10).
In tal caso a carico del giudice non rimangono che le sanzioni
disciplinari.
Si deve però osservare che l’educazione disciplinare del giudice,
per così dire, guidata dal C.S.M., può impedire che siano resi vani i
benefici, che scaturiscono dalla novella, a favore dei cittadini, se il
giudice si mette in testa, una volta per tutte, che la conduzione del
processo non deve rispettare le esigenze dei difensori, che per istituto devono essere soddisfatte dai Consigli dell’ordine degli avvocati, ai quali tale materia è demandata dalla legge. Al limite anche in
questo caso, dovrebbe intervenire il C.S.M., raddoppiando il termine
dei 45 giorni, sotto il profilo che il mancato rispetto incorre nelle
sanzioni disciplinari, così come ha fatto, saggiamente, lo stesso
C.S.M., raddoppiando il termine di deposito delle sentenze, con l’obbligo di segnalazione dei “fuori termine”, onde rendere effettivo l’esercizio del potere disciplinare. In conclusione la causa non è né nella
disponibilità del difensore né in quella del giudice ed entrambi devono rispettare le “regole processuali”, che non sono “vieti formalismi”, ma garanzie dettate dal legislatore a favore del cittadino e non
dell’avvocato o del giudice.
(10) E. REDENTI, Atti processuali Civili, voce dell’E.D., pag. 139.
467
2. Attività preliminari della prima udienza di comparizione-trattazione
Nella prima udienza di comparizione-trattazione il giudice deve verificare la validità della citazione e della sua notificazione. In questa
prima verifica impartirà le disposizioni necessarie, dettate dall’eventuale
riscontro di vizi, che ineriscono all’una o all’altra (artt. 164 e 291 c.p.c.).
Seguirà la verifica della regolarità degli atti e documenti e il
giudice accerterà inoltre se la costituzione in giudizio delle parti sia
o meno regolare (art. 182 del c.p.c., comma 1), procederà alla verifica dei difetti di rappresentanza, assistenza o autorizzazione, assegnando alle parti un termine per la costituzione della persona alla
quale spetta la rappresentanza o l’assistenza o per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, salvo che si sia verificata una decadenza (art.
182, comma 2 del c.p.c.).
Si deve a proposito osservare che tutti questi non sono rinvii,
ma come si è già precisato “differimenti tecnici” e che l’applicazione dell’art. 182, c. 2 non è considerato un obbligo per il giudice, ma
un potere discrezionale, il cui mancato uso non può essere censurato in cassazione. Infine la decadenza deve intendersi come decadenza da poteri sostanziali e non una decadenza processuale (11), e la
norma serve a correggere l’irregolarità della legitimatio ad processum,
non quella della legitimatio ad causam. L’improcedibilità della domanda per difetto di legitimatio ad processum, si applica, secondo
autorevole dottrina (12), in tutto il suo rigore sol quando si è già verificata a carico della parte una decadenza, che la prefissione di un
termine per la regolazione verrebbe a sanare. Quando invece decadenze non si sono ancora verificate, quel rigore sarebbe superfluo e
si convertirebbe in un inutile spreco di energie processuali, perché
nulla impedirebbe alla parte di riprendere il giudizio ex novo, ed allora tanto vale che il giudice prefigga un termine per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, o
per il rilascio delle necessarie autorizzazioni (13).
(11) G. TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, pag.
79-80.
(12) (13) V. ANDRIOLI, Comm. II, pag. 72-73.
468
Se si è già verificata la decadenza, la causa è rimessa a decisione, perché sia dichiarato che il giudice non può decidere sul merito
per difetto di un presupposto processuale (14).
Segue la chiamata del litisconsorte necessario assente (art. 102,
2° comma, del c.p.c.) ed eventualmente (potendo essere ordinata in
ogni momento) la chiamata del terzo interventore coatto. Si procederà infine alla riunione dei procedimenti pendenti per la stessa causa dinanzi al medesimo giudice o verranno emanati i provvedimenti per la riunione di tali procedimenti o di cause connesse, quando
pendano davanti a giudici diversi del medesimo tribunale (artt. 273
e 274 del c.p.c.).
Esauriti i c.d. adempimenti preliminari, inizia l’effettiva trattazione della causa. Il fatto che l’art. 180 non sia stato toccato dalla
novella, ha indotto qualcuno a pensare che “una interpretazione coordinata degli artt. 180 e 183 c.p.c. e dell’art. 83-bis disp. att. c.p.c. possa comportare la dissociazione tra udienza di prima comparizione e
prima udienza di trattazione, ammessa, ma certamente non garantita dalla legge, e pertanto lasciata alla valutazione discrezionale del
giudice istruttore” (15). E ciò perché attraverso questa via il processo potrebbe recuperare “in questa essenziale fase preparatoria, un
minimo di elasticità, lasciando capo a valutazioni che si fonderanno
sulla semplicità o sulla complessità della causa, quale emerge dalle
scritture introduttive delle parti” (16).
La tesi non ci appare convincente e sembra superabile sia attraverso argomenti, tratti dalla lettera della legge, sia attraverso argomenti tratti dallo spirito della riforma. L’interpretazione coordinata degli articoli 180 e 183 c.p.c., attraverso la lettura dell’art. 83-bis
disp. att. del codice di procedura civile porta al superamento dell’apparente contrasto tra art. 180 e art. 183 c.p.c. e all’individuazione di
un primo dovere del giudice, quello di non rinviare l’udienza di trattazione, come prescritto dall’art. 180. Infatti l’inciso “rinviando
l’udienza di trattazione” risulta abrogato dalle disposizioni contenute nell’art. 183 novellato. Il rinvio per il passaggio dalla trattazione
(14) V. ANDRIOLI, l. u.c.
(15) (16) TARZIA, op. cit., pag. 80-81.
469
orale a quella scritta non avviene più nelle forme di cui agli articoli 180 del codice e 83-bis disp. att. stesso codice, ma nelle forme introdotte dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, art. 17, secondo cui:
“Se richiesto, ove ricorrano giusti motivi, il giudice fissa un termine
perentorio non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie
contenenti precisazioni o modificazioni delle domande e delle eccezioni già proposte”. E di conseguenza il giudice non può, se non violando la legge, fissare l’udienza a tempo lungo, ma torna utile che
egli rispetti il termine dei 45 giorni, di cui si è già discusso, onde
non vanificare gli effetti del termine perentorio. Questa interpretazione ci sembra più aderente alla lettera della legge e coerente con
lo spirito della novella. Infatti lo stesso autore della prima tesi, quella del recupero di un “minimo di elasticità”, ha precisato: “il carattere concentrato, che la riforma ha voluto imprimere alla trattazione della causa, impone di interpretare “queste norme” nel senso nel
quale possono considerarsi coerenti con lo spirito del nuovo processo. È esclusa pertanto la possibilità che il giudice autorizzi uno scambio illimitato di repliche, controrepliche, dupliche, e così via, come
è a fortiori escluso che le parti possano spontaneamente depositare
memorie scritte, così determinando un prolungamento della fase preparatoria: ..... la prima udienza di trattazione <e’> concepita dal legislatore, per una parte, sul modello dell’udienza di discussione del
processo del lavoro ...” (17).
Se così è, il rinvio per il passaggio dalla trattazione orale a quella scritta non può essere considerato come tale, ma come “differimento-tecnico”, atteso che, fra l’altro, è collegato ad un termine perentorio, che vincola cronologicamente l’attività delle parti.
Come necessario corollario di questo sistema, simile a quello del
processo del lavoro, sussiste l’esigenza che il giudice non si presenti all’udienza di prima comparizione-trattazione digiuno di ogni conoscenza relativa alle cause a lui assegnate, perché, altrimenti, egli
non essendo padrone della materia, perderà il dominio processuale
sulle stesse e subentrerà “lo scambio illimitato di repliche e controrepliche”, con buona pace della riforma e il trionfo della denegatio
(17) TARZIA, l.u.c.
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iustitiae. Invece “bisogna che l’applicazione della norma sia corretta,
logicamente irreprensibile, e che l’atto giusto sia conforme alla conclusione di un sillogismo particolare: sillogismo che chiameremo imperativo, perché la sua premessa maggiore e la sua conclusione hanno forma imperativa” (18).
3. - Trattazione e istituti del processo orale
Si è espressa “qualche riserva sulla funzionalità di un interrogatorio libero, applicato obbligatoriamente non solo a determinate
categorie di cause ma ad ogni causa, quale che ne sia l’oggetto e anche se essa si presenti come una causa di puro diritto o verta su diritti indisponibili. Le perplessità possono accrescersi di fronte alla
constatazione che nella prassi l’interrogatorio libero, pur nel processo del lavoro, si traduce frequentemente in una mera formalità (19).
Questa diagnosi non ci convince e possiamo accennare ad esperienze diverse. 15 anni di presidenza della Sezione Specializzata Agraria, prima in Tribunale e poi in Corte d’Appello, mi hanno dimostrato
che l’interrogatorio libero, pur in cause complesse, relative a grandi
imprese agrarie del Vercellese, si è rivelato decisivo. Vero è che la situazione sopra descritta mette in evidenza una prassi alla quale la
novella vuole ovviare. Nella realtà la prassi vigente risulta essere la
convergenza di due ignoranze (intese in senso latino: absit iniura verbis), quella del giudice, che ignora il contenuto della causa e quella
del praticante procuratore, che illegittimamente rappresenta il difensore titolare della procura. Questi soggetti non possono che aspirare ad un rinvio liberatorio delle reciproche incombenze. Diverso lo
scenario, quando sussiste l’interesse delle parti ad arrivare ad una
rapida decisione, per l’importanza della causa, tale sia in ordine al
valore sia in ordine alla materia, interesse che porta in udienza i difensori di grido, che si appellano a tutti gli espedienti processuali
(18) Ch. PERELMAN, De la justice, Bruxelles, 1945, trad. it. “La Giustizia”, Torino, s.d. (ma 1959), pag. 73.
(19) TARZIA, op. cit., pag. 82.
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per imboccare la corsia preferenziale, diretta verso la decisione della causa. Ovviamente qui ritorna l’educazione del giudice, che, con
gli strumenti nuovi forniti dalla novella, non potrà più rifugiarsi dietro l’alibi del numero eccessivo di cause da trattare.
Ne’ il giudice esperto, che conosce il mestiere, deve farsi confondere dalle c.d. cause complesse. In realtà per chi è padrone della normativa non c’è causa complessa che possa sfuggire ad una rapida
qualificazione. In altri termini l’individuazione della fattispecie concreta risulta facilitata proprio dagli istituti della oralità, interrogatorio libero delle parti e tentativo di conciliazione, disciplinati in modo esauriente nel novellato art. 183 del c.p.c. All’esplicazione di tutta la loro potenzialità chiarificatrice non può opporsi che essi mal
si adattano alle cause di puro diritto o a quelle che vertono su diritti indisponibili. Infatti per le une, non avendo bisogno di istruzione probatoria, l’interrogatorio libero può chiarire definitivamente
che non sussistono elementi di fatto da accertare e pertanto saranno immediatamente rimesse alla decisione del giudice monocratico
o del collegio e per le altre, richiedendo spesso la trattazione delle
situazioni patrimoniali collaterali (ad es. separazione giudiziale), l’interrogatorio libero si rivela spesso decisivo.
La verità è che gli istituti dell’oralità sono stati creati per la massa delle cause, che hanno nel “fatto” il punto più delicato per la loro soluzione. E qui soccorrono gli istituti della oralità, che sottraendo la “causa” alla cortina fumogena dei difensori mettono le parti in
contatto diretto con il giudice. E se questi è abile nell’interrogare le
parti e se non si fa suggestionare dai difensori, perverrà rapidamente alla soluzione della causa. Tutto è stato ben compreso dal legislatore, il quale ha strutturato i predetti istituti sulla presenza personale delle parti in giudizio: le parti hanno interesse a presentarsi per
non subire sanzioni sul piano probatorio 
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