La banalità del male è quella della mela

Dalla cacciata dall’Eden alla guerra di Troia fino alla lite Apple-Beatles: il frutto del peccato e della
discordia
La banalità del male è quella della
mela
MARINO NIOLA
SE DIO avesse vietato di mangiare il serpente, diceva Mark Twain, Adamo ed Eva
se lo sarebbero fatto alla brace. Perché il gusto del proibito è antico quanto
l’uomo. Di conseguenza non avrebbero colto la prima mela. Condannando il frutto
del peccato a restare un pomo qualunque, buono giusto per farcire l’apple pie.
Invece il frutto dell’albero della conoscenza deve la sua fortuna simbolica proprio
al peccato originale. Che ha fatto precipitare i nostri progenitori dalle stelle alle
stalle. E li ha proiettati nella storia, dove procurarsi il cibo col sudore della fronte e
partorire con dolore sono il duro algoritmo della condizione umana. Un passo
falso per un falso frutto.
Proprio così i botanici definiscono la mela, perché la polpa non deriva dallo
sviluppo del seme, ma da quel che gli sta intorno. Insomma, era destino che
girasse storta.
Da quel giorno lontano il malum è diventato il simbolo dei simboli. Non a caso in
latino ha lo stesso nome del male. E se il primo pomo costa lo sfratto alla coppia
regina della specie umana, il secondo fa scoppiare la madre di tutti i conflitti
mondiali, cioè la guerra di Troia. Questa volta per colpa di Eris, la dea della
zizzania, che rosica perché nessuno l’ha invitata al royal wedding tra Teti e Peleo,
i futuri genitori di Achille. Per vendicarsi, lancia sul tavolo nuziale una mela d’oro
sulla quale è scritto «alla più bella». Era, Atena e Afrodite cominciano subito ad
accapigliarsi per portare a casa il trofeo. E Zeus, il solito pesce in barile, molla la
patata bollente a Paride, figlio di Priamo, l’uomo più bello del reame. Il principe
troiano, senza esitazione, assegna il titolo ad Afrodite che gli ha promesso in
cambio l’amore di Elena, la donna più bella del mondo. Ma che,
malauguratamente, è anche moglie di Menelao. E qui la storia assume toni da
telenovela. Dieci anni di pianti, lacrime e sospiri, che per raccontarli ci sono volute
un’intera Iliade seguita da un’interminabile Odissea. E tutto per quel
maledettissimo pomo della discordia.
E per rubare tre pomi d’oro dal mitico giardino delle Esperidi e offrirli ad
Afrodite, Ercole è costretto a compiere una delle sue proverbiali fatiche. Gli stessi
frutti serviranno poi a Ippomene per vincere la corsa con la bellissima e
imprendibile Atalanta, che sfida i suoi spasimanti in una gara a perdifiato
mettendo in palio le sue grazie. L’astuto pretendente lascia cadere l’una dopo
l’altra le cotogne luccicanti che la figlia del vento si ferma a raccogliere, mentre
lui vola verso la vittoria e il matrimonio con la bisbetica domata. L’ennesima
storia di una donna che non sa resistere all’attrazione fatale esercitata dal malum.
Dal mito alla fiaba, la sfera col picciolo non smette mai di colpire. Come diceva
Guido Ceronetti, la mela è un frutto misteriosamente manipolabile dai poteri
magici. E bastano le mani adunche di una strega cattiva per trasformarla in un
dono avvelenato destinato alla candida Biancaneve. E l’associazione tra
principesse, matrimoni e mele attraversa anche il folklore slavo. Pieno di pulzelle
di sangue reale che non vogliono sposarsi, ma vengono ridotte a miti consigli da
una mela d’oro. Come la bella Macienka, una Atalanta bulgara. O come la
fanciulla bianca come il latte e rossa come il sangue, protagonista della fiaba delle
tre melarance. Che ha esattamente gli stessi colori della ragazza- mela di Italo
Calvino. Insomma dove c’è una vergine stregata ci sono sempre un pomo
incantato e un principe innamorato. Elementare no?
Ma in fondo proprio per questo la mela resta un evergreen dell’immaginario.
Perché è un simbolo facile per significati difficili. Un logo double face, capace di
raffigurare il bene e il male come due metà dello stesso frutto. Tant’è vero che
l’emblema del peccato e della tentazione può trasformarsi in messaggio positivo.
Come insegna la storia di Johnny Appleseed, alias Giovannino Semedimela, il
personaggio dei cartoon che ha insegnato ai bambini nordamericani il valore
edificante di questo frutto, pieno di virtù etiche e dietetiche. Simbolo dello slancio
imprenditoriale di quei self made men che furono i pionieri e, al tempo stesso, di
un’alimentazione semplice da gente sobria. Quelli che una mela al giorno leva il
medico di torno. Lo diceva anche Sir Winston Churchill, che però aggiungeva
cinicamente, basta avere una buona mira.
Ed è ancora una volta una questione di mira a trasformare il frutto del desiderio in
una bandiera politica, nel celebre caso di Guglielmo Tell, l’eroe nazionale
svizzero. Che viene costretto, dal cattivo di turno, a mettere una renetta in testa a
suo figlio e nonostante la comprensibile emozione, la centra in pieno con una
freccia. Come dire colpisce il malum a fin di bene. Ma qualche volta prendersi una
mela sulla testa o, come è più probabile, esserne sfiorati come succede a Newton,
può far venire grandi idee. Per esempio che la luna è attratta dalla terra come un
frutto che cade dall’albero.
E perfino oggi un pomo della discordia può scatenare conflitti planetari che sono
già mitologia del nostro tempo. È il caso della guerra dei trent’anni che ha visto
l’una contro l’altra armate la Apple Corps, leggendaria etichetta dei Beatles e la
Apple Computers di Steve Jobs, il compianto freak dell’hi tech. È dal 1976 che la
Granny Smith di Abbey Road combatte contro la Macintosh smozzicata di
Cupertino. Mela vs mela. Solo nel 2007 è scoppiata una pace miliardaria, che ha
assegnato all’azienda californiana la proprietà della mela più cara della storia.
Insomma i simboli contano tanto che spesso e volentieri diventano contanti. Come
dire la banalità del malum.
Anche Churchill era d’accordo: una al giorno leva il medico di torno.
Ma,aggiungeva,bisogna avere una buona mira
Diceva Mark Twain: se Dio avesse proibito di mangiare il serpente, Adamo ed
Eva se lo sarebbero fatto alla brace