Politica e Istituzioni Economiche Barbara Pancino Lezione 17 – 12 novembre 2013 Regimi di cambio Breve periodo Nel breve periodo esiste un forte contrasto tra il comportamento dell’economia in un sistema di cambi fissi rispetto ad un sistema di cambi flessibili. Con tassi di cambio flessibili, un paese che ha bisogno di un deprezzamento reale – per esempio per ridurre il disavanzo commerciale o per uscire da una recessione – può farlo usando la politica monetaria per ridurre il tasso di interesse e quello di cambio. Con tassi di cambio fissi, lo stesso paese invece non ha più a disposizione nessuno di questi due strumenti: per definizione il tasso di cambio è fisso e pertanto non può essere aggiustato. Ciò implica che il tasso di interesse interno deve rimanere uguale al tasso di interesse estero. Il medio periodo Nel medio periodo la differenza tra i due regimi di cambio svanisce. In particolare, nel medio periodo l’economia raggiunge lo stesso livello di tasso di cambio reale e lo stesso livello di produzione, sia che operi in un sistema di cambi flessibili, sia che operi in un sistema di cambi fissi. Dato: EP ε= P* il tasso di cambio reale si può aggiustare sia attraverso una variazione del tasso di cambio nominale, sia attraverso una variazione dei prezzi nazionali, P, e dei prezzi esteri, P*. Nel medio periodo, in regime di tassi di cambio fissi, l’aggiustamento avviene attraverso il livello dei prezzi invece che attraverso il tasso di cambio nominale. Il medio periodo: esempio Vi sono tre modi in cui un’auto britannica può diventare più conveniente di una tedesca: • attraverso una diminuzione del prezzo in sterline di un’auto britannica; • attraverso un aumento del prezzo in euro di un’auto tedesca; • attraverso una diminuzione del tasso di cambio nominale – una diminuzione del valore della sterlina in termini di euro. Il medio periodo In economia aperta con tassi di cambio fissi, la curva di domanda aggregata può essere scritta come segue: ⎛ EP ⎞ Y = Y ⎜ , G,T ⎟ ⎝ P * ⎠ (− , + , −) La produzione, Y, dipende dal tasso di cambio reale, dalla spesa pubblica e dalle imposte. Lo stock reale di moneta, M/P, presente in economia chiusa, non è più presente perchè: • in economia chiusa, controllando l’offerta di moneta, la banca centrale poteva cambiare il tasso di interesse e influire sul livello di produzione; • in economia aperta, e con tassi di cambio fissi e perfetta mobilità dei capitali, la banca centrale non può più variare il tasso di interesse, quindi rinuncia alla politica monetaria. Il medio periodo Allo stesso tempo, l’apertura dell’economia significa che dobbiamo includere una variabile che non includevamo in economia chiusa: il tasso di cambio reale. La relazione negativa tra livello dei prezzi e produzione utilizza canali diversi in economia chiusa o aperta. In economia chiusa: P ↑→ M / P ↑→ i ↑→ Y ↓ In economia aperta con tassi di cambio fissi: P ↑→ EP / P* ↑→ NX ↓→ Y ↓ Equilibrio di breve e di medio periodo (AS-AD) Per l’offerta aggregata: ⎛ Y ⎞ P = P (1 + µ ) F ⎜1 − , z ⎟ ⎝ L ⎠ e Il livello atteso dei prezzi conta perché influenza i salari nominali, che a loro volta influenzano il livello dei prezzi. Una maggior produzione genera maggior occupazione, che a sua volta fa aumentare i salari, che a loro volta fanno aumentare il livello dei prezzi. Equilibrio di breve e di medio periodo Punto di equilibrio di breve periodo Y non deve necessariamente coincidere con Yn Domanda aggregata e offerta aggregata in un’economia aperta con tassi di cambio fissi. Un aumento dei prezzi porta a un apprezzamento reale e a una riduzione della produzione: la curva di domanda è inclinata negativamente. Un aumento della produzione porta a un aumento dei prezzi: la curva di offerta è inclinata positivamente. Equilibrio di breve e di medio periodo Che cosa succede nel tempo? Fino a quando la produzione è inferiore al suo livello naturale, l’offerta aggregata si sposta verso il basso, il livello dei prezzi diminuisce. Nel corso del tempo, la riduzione del livello dei prezzi genera un costante deprezzamento reale. Questo deprezzamento reale fa aumentare la produzione fino al suo livello naturale. Nel medio periodo, nonostante il cambio nominale sia fisso, l’economia raggiunge il deprezzamento reale che serve per riportare la produzione al suo livello naturale. Equilibrio di breve e di medio periodo Aggiustamento con tassi di cambio fissi. Nel tempo, l’offerta aggregata si sposta verso il basso, portando a una riduzione del livello dei prezzi, a un deprezzamento reale e a un aumento della produzione. Il processo finisce quando la produzione è tornata al suo livello naturale. Equilibrio di breve e di medio periodo Conclusioni: nel breve periodo, un tasso di cambio nominale fisso comporta un tasso di cambio reale fisso. nel medio periodo, un tasso di cambio nominale fisso è compatibile con un aggiustamento del tasso di cambio reale. L’aggiustamento è raggiunto attraverso variazioni del livello dei prezzi. Vantaggi e svantaggi di una svalutazione Ci sono metodi più rapidi e efficaci per far tornare la produzione al livello naturale? à Svalutazione Per un dato livello dei prezzi, una svalutazione (cioè una riduzione del tasso di cambio nominale) porta a un deprezzamento reale (cioè una riduzione del tasso di cambio reale) e quindi fa aumentare la produzione. In altre parole, una svalutazione sposta la curva di domanda aggregata verso destra: a un dato livello dei prezzi, la produzione è maggiore. Ciò ha un’implicazione immediata: una svalutazione della giusta misura può portare l’economia direttamente da Y a Yn. Vantaggi e svantaggi di una svalutazione Aggiustamento con svalutazione. Una svalutazione appropriata può spostare la domanda aggregata verso destra, portando l’economia nel punto C. Nel punto C, la produzione è di nuovo al suo livello naturale. Vantaggi e svantaggi di una svalutazione Contrariamente alla relazione della domanda aggregata, gli effetti del deprezzamento sulla produzione non avvengono immediatamente (curva J). Inoltre, contrariamente alla nostra semplice relazione di offerta aggregata, la svalutazione avrà un effetto diretto sul livello dei prezzi. Permettere al tasso di cambio nominale di aggiustarsi può aiutare la produzione a tornare al suo livello naturale, se non immediatamente almeno più velocemente rispetto al caso di assenza di svalutazione. Quando un paese in un sistema di cambi fissi si trova di fronte a un forte disavanzo commerciale o a una grave recessione, aumentano le pressioni politiche per abbandonare l’accordo di cambio o almeno introdurre una svalutazione una tantum. Crisi del tasso di cambio in regime di cambi fissi Supponiamo che un paese operi in un sistema di cambi fissi e che i mercati finanziari inizino ad aspettare un aggiustamento del tasso di cambio, in termini di svalutazione o passaggio a sistema di cambi flessibili. In presenza di aspettative di inflazione, mantenere il tasso di cambio richiede un aumento notevole del tasso di interesse domestico. Le aspettative di una svalutazione possono innescare una crisi del tasso di cambio. Di fronte a tali aspettative, il governo ha due opzioni: arrendersi e svalutare; difendere la parità, al costo di un tasso di interesse molto elevato e di una potenziale recessione. Infine, la recessione potrebbe costringere il governo a cambiare politica. La scelta tra cambi fissi e cambi flessibili E’ meglio scegliere un sistema di cambi fissi o flessibili? Il regime di cambio nel medio periodo non importa, ma così non è nel breve periodo. L’anticipazione che un paese con cambi fissi possa dover svalutare porta gli investitori a chiedere tassi di interesse molto alti, peggiorando in tal modo la situazione economica (contro i cambi fissi). In un sistema di cambi flessibili il tasso di cambio può fluttuare fortemente e può essere fuori del controllo della politica monetaria (contro i cambi flessibili). Crisi del tasso di cambio in regime di cambi fissi In generale, i tassi di cambio flessibili sono preferibili, con due eccezioni: 1. quando un gruppo di paesi è già fortemente integrato dal punto di vista economico. In questo caso la soluzione potrebbe essere una forma estrema di tassi di cambio fissi (currency board o dollarizzazione). 2. quando la banca centrale non segue una politica monetaria responsabile in un sistema di tassi di cambio fissi. La soluzione giusta potrebbe essere una moneta unica. “Currency Board” e dollarizzazione Il Currency Board è un regime di cambio fisso in cui i vincoli alla politica monetaria della banca centrale sono sottoposti ad un processo di irrigidimento, normalmente con una cosiddetta istituzionalizzazione. Si stabiliscono cioè delle regole fisse per l’emissione di moneta da parte della banca centrale. L’autorità monetaria può emettere valuta solamente se essa è coperta da un corrispondente ammontare di valuta estera. In questo modo, la politica monetaria della banca centrale che governa la valuta sottoposta a currency board si trova di fatto a dipendere strettamente dalla politica monetaria della banca centrale verso cui il tasso di cambio è stato fissato. L’istituzionalizzazione di tale regola monetaria può giungere anche ad una costituzionalizzazione. Questo rende particolarmente difficile e laborioso abbandonare un currency board, e obbliga chi lo sceglie a seguire la condotta di paesi le cui politiche monetarie sono normalmente più accorte e virtuose. Non sempre però un paese che sceglie un currency board è in grado di rispettarlo fino in fondo, col rischio di venir sottoposto ad attacchi speculativi. Dollarizzazione Questo regime valutario si caratterizza per l’adozione diretta di una valuta estera (di solito, per ragioni evidenti, il Dollaro statunitense) come valuta ufficiale in sostituzione della valuta domestica. È come se si trattasse di un tasso di cambio fisso, ma portato alle estreme conseguenze, con una totale cessione di sovranità monetaria alle autorità estere. I casi di dollarizzazione completa sono piuttosto rari. Aree valutarie comuni Quando un gruppo di paesi è fortemente integrato può formare un’area valutaria ottima: una moneta unica per un gruppo di paesi è una forma estrema di tassi di cambio fissi. Affinché i paesi formino un’area valutaria ottima, devono essere soggetti a shock simili, oppure ci deve essere una forte mobilità del lavoro tra un paese e l’altro. Approfondimenti Breve storia dell'euro Quando l’Unione Europea festeggiò il suo trentesimo compleanno nel 1988, alcuni governi decisero che fosse arrivato il momento di prendere l’iniziativa per creare una moneta comune. Chiesero a Jacques Delors, il Presidente dell’Unione Europea, di stilare una relazione che fu successivamente presentata nel giugno del 1989. Il rapporto Delors suggeriva di convergere verso una Unione Monetaria Europea (EMU) in tre fasi: la prima fase consisteva nell’abolizione dei controlli ai capitali. La seconda fase consisteva nella scelta delle parità fisse da mantenere ad eccezione di “circostanze eccezionali”. La terza fase consisteva nell’adozione di una moneta comune. La prima fase fu implementata nel luglio del 1990. La seconda fase iniziò nel 1994, dopo le crisi valutarie del 1992-1993. Una decisione minore ma simbolica riguardò la scelta del nome della nuova moneta comune. Ai francesi piaceva l’”Ecu” (European currency unit), che era anche il nome di un’antica moneta francese. Gli altri paesi preferirono però l’euro e il nome fu adottato nel 1995. Breve storia dell'euro Contemporaneamente, i paesi dell’EU indissero un referendum sull’adozione del Trattato di Maastricht. Il Trattato, negoziato nel 1991, stabiliva le tre condizioni principali per entrare nell’Unione Monetaria Europea: una inflazione poco elevata, un deficit di bilancio inferiore al 3% del Pil ed un debito pubblico inferiore al 60%. Il Trattato non fu molto popolare ed in molti paesi l’esito del voto fu al limite. In Francia il Trattato passò con solo il 51% dei voti. In Danimarca il Trattato non passò. Nel 1996-1997 pochi paesi europei sembravano poter soddisfare le condizioni di Maastricht. Alcuni paesi presero però delle misure drastiche per ridurre il loro deficit di bilancio. Quando arrivò il momento di decidere, nel maggio 1998, quali paesi sarebbero stati membri dell’EMU, undici paesi raggiunsero il traguardo: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Spagna. Il Regno Unito , la Danimarca e la Svezia decisero di rimanere fuori, almeno per il primo periodo. Nel 2001, la Grecia si qualificò ed entrò nell’Unione Monetaria Europea. Breve storia dell'euro La terza fase iniziò nel gennaio del 1999. Le parità tra le 11 valute e l’euro vennero fissate in modo irrevocabile. La nuova Banca Centrale Europea (BCE) con sede a Francoforte divenne responsabile della politica monetaria per l’area euro. Dal 1999 al 2002, l’euro esistette come unità di conto, sebbene le banconote e le monete non esistessero ancora. In effetti, l’area euro funzionava come un’area con tassi di cambio fissi. Il passo successivo fu l’introduzione delle monete e delle banconote in euro nel gennaio del 2002. Per i primi mesi del 2002, le valute nazionali e l’euro circolarono contemporaneamente, fino a quando le monete nazionali vennero ritirate dalla circolazione successivamente durante l’anno. Oggi l’euro è l’unica valuta usata nell’area Euro. L’area Euro, come il gruppo di paesi membri viene chiamato, è diventato un’area con valuta comune. Il «currency board» argentino Quando nel 1989 Carlos Menem divenne presidente dell’Argentina, ricevette in eredità un vero e proprio disastro economico. L’inflazione correva a più del 30% al mese. La crescita della produzione era negativa. Menem e il suo ministro dell’economia, Domingo Cavallo, giunsero presto alla conclusione che, in quelle circostanze, l’unico modo per tenere sotto controllo la crescita della moneta – e quindi l’inflazione – era di ancorare il peso (la moneta argentina) al dollaro, con una parità molto stretta. Così, nel 1991, Cavallo annunciò che l’Argentina avrebbe adottato un currency board. La banca centrale sarebbe stata disposta a cambiare pesos per dollari. Inoltre, l’avrebbe fatto al tasso di cambio fortemente simbolico di un dollaro per un peso. La creazione di un currency board e la scelta di un tasso di cambio simbolico avevano lo stesso scopo: convincere i mercati finanziari che il governo stava prendendo seriamente l’ancoraggio del cambio e rendere più difficile ai governi futuri scegliere di abbandonare la parità e di svalutare. In questo modo, rendendo più credibile il tasso di cambio fisso, si riduceva il rischio di una crisi del tasso di cambio. Per un certo periodo di tempo, il currency board sembrò funzionare perfettamente. L’inflazione, che nel 1990 aveva superato il 2.300%, nel 1994 era scesa al 4%! Questo era chiaramente il risultato dei vincoli stringenti che il currency board stava imponendo alla crescita monetaria. Ancor più sorprendentemente, questa riduzione dell’inflazione fu accompagnata da un forte aumento della produzione. La crescita media della produzione fu del 5% all’anno dal 1991 al 1999. A partire dal 1999, però, la crescita tornò a essere negativa, e l’Argentina entrò in una nuova e profonda recessione. Era forse causa del currency board? Solo in parte: • In tutta la seconda metà degli anni Novanta, il dollaro si è apprezzato costantemente rispetto alle altre principali valute. Poiché il peso era ancorato al dollaro, anch’esso si apprezzò. Alla fine degli anni Novanta, era chiaro che la sopravvalutazione del peso era all’origine della riduzione della domanda di beni argentini e dell’aumento del disavanzo commerciale. • Il currency board non fu totalmente responsabile della recessione. C’erano altre cause. Però è vero che il currency board rese più difficile combattere la recessione: minori tassi di interesse e un deprezzamento del peso avrebbero aiutato l’economia a riprendersi, ma con il currency board questa opzione era esclusa a priori. Nel 2001, la crisi economica divenne una crisi finanziaria e valutaria. A causa della recessione, il disavanzo di bilancio aumentò, facendo aumentare il debito pubblico. Preoccupati che il governo potesse fare default sul debito, gli investitori finanziari iniziarono a chiedere tassi di interesse sempre più alti sul debito pubblico, facendo aumentare ancor di più il disavanzo di bilancio e di conseguenza anche il rischio di default. Preoccupati che il governo potesse far saltare il currency board e svalutare per combattere la recessione, gli investitori finanziari iniziarono a chiedere alti tassi di interesse in pesos, rendendo ancor più costoso per il governo mantenere la parità con il dollaro, e di conseguenza rendendo più probabile l’abbandono del currency board. Nel dicembre 2001, il governo fece default su parte del suo debito. All’inizio del 2002, abbandonò il currency board e lasciò fluttuare il peso. Il peso si è notevolmente deprezzato e nel giugno del 2002 il cambio era a 3,75 pesos per 1 dollaro! Gli individui e le imprese che, riponendo fiducia nel currency board, avevano acceso prestiti in dollari si ritrovarono con un notevole aumento del valore in peso dei propri debiti. Molti dichiararono fallimento e il sistema bancario crollò. Nonostante l'elevato deprezzamento reale, che avrebbe dovuto favorire le esportazioni, il Pil diminuì dell'11% nel 2002 e il tasso di disoccupazione arrivò al 20%. La crescita della produzione è tornata positiva nel 2003, ma bisogna aspettare fino al 2005 perché il Pil ritorni ai livelli del 1998. Il currency board è stato una cattiva idea? A questo proposito tra gli economisti non c’è ancora un accordo: • Alcuni sostengono che è stata una buona idea, ma non è stata applicata fino in fondo. L’Argentina avrebbe dovuto dollarizzare, cioè adottare il dollaro come valuta nazionale, ed eliminare completamente il peso. Eliminando la valuta nazionale, si sarebbe eliminato anche il rischio di una crisi valutaria. La lezione è che un currency board non fornisce un’ancora sufficientemente forte per il tasso di cambio. Solo la dollarizzazione riesce in questo intento. • Altri sostengono invece che il currency board è stata inizialmente una buona idea, ma non sarebbe dovuto durare tanto a lungo. Una volta controllata l’inflazione, l’Argentina avrebbe dovuto abbandonare il currency board e tornare a un sistema di cambi flessibili. Il problema è che l’Argentina ha fissato il cambio con il dollaro per un periodo troppo lungo, fino al punto in cui il peso si è sopravvalutato, e la crisi valutaria è diventata inevitabile. Il dibattito continuerà. Nel frattempo, l’Argentina deve ricostruire la sua economia.