sommario - Libri Professionali

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SOMMARIO
del fascicolo 1-2-3
(gennaio/marzo) 2005
PARTE PRIMA
SERAFINO GATTI, Opera dell’ingegno su commissione e disciplina del diritto d’autore ...................................................
EVELIO VERDERA Y TUELLS, Reflexiones preliminares sobre el
arbitraje en la ley concursal ..............................................
PASQUALE PAONE, L’ordinamento internazionale in tempo di
crisi ...................................................................................
FRANCESCO CRISI, Considerazioni sull’arbitrato in materia societaria tra ritualità e irritualità nel quadro della riforma
del processo societario di cui al d.lgs. n. 5 del 17 gennaio
2003 .................................................................................
C. DUCOULOUX-FAVARD e FEDERICO PERNAZZA, Sanzioni e procedure sanzionatorie alla luce della direttiva europea n. 6/
2003 ..................................................................................
BERARDINO LIBONATI, Ai margini della teoria dell’impresa: la
“impresa strumentale” della Fondazione Bancaria ............
PARTE SECONDA
GIANLUCA TARANTINO, In tema di estinzione del contratto di
fideiussione per fatto del creditore ...................................
MARIA MICHELA IACONO, Rilevabilità d’ufficio della nullità nel
negozio giuridico e nei contratti a favore dei consumatori
CHIARA MANCINI, Osservazioni a margine di un’interpretazione giurisprudenziale in tema di responsabilità amministrativa degli enti e modelli organizzativi ..............................
FEDERICA FARKAS, La responsabilità solidale della s.i.m. per il
fatto illecito del promotore finanziario ............................
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82
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OPERA DELL’INGEGNO SU COMMISSIONE E DISCIPLINA
DEL DIRITTO D’AUTORE (*)
SOMMARIO: I. Introduzione. II. L’opera dell’ingegno creata in base ad un rapporto di
lavoro subordinato. III. L’opera dell’ingegno creata in base ad un rapporto di
lavoro autonomo. IV. Spunti di riflessione tratti dalla recente giurisprudenza
statunitense: 1) Controversie sul contenuto dei diritti o delle facoltà d’uso trasferite. 2) La rilevanza della forma scritta. V. Conclusioni.
I. Introduzione
La disciplina del diritto d’autore si propone di garantire a colui
che ha dato vita ad un’opera dell’ingegno di carattere creativo, che
appartiene ad una delle ampie categorie fenomenologiche individuate
dal legislatore, suscettibile di diverse utilizzazioni, alcune prerogative
di carattere personale, consistenti, essenzialmente, nel potere di rivendicare la paternità dell’opera, di opporsi a qualsiasi modificazione pregiudizievole al suo onore ed alla sua reputazione e di ritirare l’opera
dalla circolazione laddove ricorrano gravi motivi di natura morale. A
tali facoltà l’ordinamento associa un ulteriore ventaglio di prerogative
di natura patrimoniale che, in sintesi, assicurano all’autore il controllo
dell’utilizzazione economica dell’opera creativa.
Dal combinato disposto dell’art. 2576 cod.civ. e dell’art. 6 della
legge 22 aprile 1941, n. 633, (in seguito l. aut.) si evidenzia il principio
che il titolo originario dell’acquisto del diritto d’autore è costituito
dalla semplice creazione dell’opera, senza ulteriori adempimenti o formalità.
Questo principio, come pure la struttura “bifronte” del diritto
d’autore, è frutto di una concezione dualistica dell’istituto, che consente la disgiunta titolarità dei diritti di natura morale e di quelli di
natura patrimoniale, e questo non solo a seguito di negozi che trasferiscano determinati diritti di utilizzazione economica, ma anche ipso facto,
nel momento stesso, cioè, in cui l’opera viene ad esistenza.
(*) Questo scritto è destinato agli Studi in Onore di Antonio Venditti.
–2–
Di più, così come impostato, l’istituto consente all’autore di disporre del diritto su una sua creazione anche prima che l’opera venga
ad esistenza e, conseguentemente, permette che i diritti patrimoniali,
e solo quelli, possano essere acquistati da un soggetto diverso nel momento in cui l’opera è terminata.
Gli atti di disposizione definitivi del complesso dei diritti patrimoniali sull’opera dell’ingegno sono, tuttavia, soggetti ad un regime
di sfavore, e questo sia negli ordinamenti continentali, sia in quelli di
common law, in ragione del fatto che, normalmente, l’autore non ha
sufficienti informazioni sulle potenzialità di sfruttamento economico
della propria opera, né possiede i mezzi per attribuire ad essa un’appetibilità di mercato. Questa condizione espone, dunque, l’autore al
rischio di spogliarsi definitivamente del complesso dei diritti di utilizzazione economica per corrispettivi talvolta irrisori e con clausole contrattuali in favore della controparte che, di regola, è un imprenditore.
A salvaguardia degl’interessi degli autori, pertanto, l’ordinamento pone
dei limiti alla trasferibilità dei loro diritti patrimoniali, scoraggiando la
conclusione di negozi che comportino la cessione definitiva ed integrale di questi diritti e, per converso, favorendo la conclusione di accordi più equilibrati e che riservino comunque agli autori alcuni poteri di controllo sull’utilizzazione delle opere.
A parte questa tendenza di fondo, la legge garantisce all’autore la
massima libertà di disporre dei diritti economici connessi alla sua creazione con tutti gli strumenti normativi che l’ordinamento gli mette a
disposizione (art. 107 l. aut).
I diritti di utilizzazione possono essere acquistati sin dall’inizio,
cioè prima che l’opera artistica venga ad esistenza, per lo più nei casi
in cui l’opera viene creata in esecuzione di contratti con cui l’autore si
obbliga a svolgere un’attività creativa nell’interesse dell’altro contraente. Le ipotesi in cui la fattispecie può concretizzarsi sono le più diverse, ma, fondamentalmente, vanno ricondotte a due: il rapporto di
lavoro subordinato, in cui l’autore si obbliga a realizzare opere destinate ad essere sfruttate in esclusiva dal datore di lavoro; il rapporto di
lavoro autonomo, o d’opera, con cui l’autore si impegna a realizzare a
beneficio del committente un’opera creativa, il cui risultato è destinato ad essere sfruttato da quest’ultimo economicamente in esclusiva.
All’interno di queste due figure sorge il problema di individuare quali
diritti di utilizzazione vengano acquistati dal datore di lavoro o dal committente, se vengano acquisiti in via diretta al momento della creazione o
dell’esecuzione dell’opera o subordinatamente ad altri adempimenti quali
la consegna o l’accettazione e la natura giuridica di tale acquisizione.
–3–
La difficoltà è dovuta in gran parte al fatto che nel nostro ordinamento non esistono norme specifiche destinate a disciplinare la fattispecie e la giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi su questi
argomenti in casi sporadici e, comunque, non recenti.
II. L’opera dell’ingegno creata in base ad un rapporto di lavoro subordinato
È certamente vero il fatto che uno dei principali effetti giuridici
dell’esistenza di un contratto di lavoro subordinato è l’attribuzione in
capo al datore di lavoro del risultato dell’attività lavorativa posta in
essere dal dipendente proprio in quanto tale.
A questa regola generale, però, bisogna far seguire alcune precisazioni.
In primo luogo, l’effetto giuridico appena descritto è sì naturale,
ma non essenziale, nel senso che può ben accadere che le parti stabiliscano di attribuire al lavoratore alcuni diritti relativi al bene, riservando al datore di lavoro altri diritti che comunque gli consentano di poter utilizzare il prodotto secondo i suoi progetti.
Bisogna ora verificare l’applicabilità del principio predetto nel
campo delle opere dell’ingegno, tenendo presente che dal combinato
disposto degli artt. 6 e 107 e segg. l. aut. si evince che i diritti di utilizzazione su un’opera dell’ingegno possono essere acquistati da soggetti
diversi dall’autore solo in forza di atti di disposizione, regola valida
anche nel caso in cui l’atto creativo avviene all’interno di un’impresa.
Per sapere, dunque, quali diritti acquista l’imprenditore nella fattispecie in esame bisogna far riferimento a quanto previsto nel contratto di lavoro che lo lega all’autore-dipendente. Ebbene, ci sembra
che si possa serenamente affermare che se l’attività creativa dell’autore è dovuta in funzione di un rapporto di lavoro subordinato, è cioè
oggetto del contratto ed a tale scopo retribuita, i risultati di questa
attività vengono acquisiti direttamente dal datore di lavoro. Ciò significa che in forza del fatto che l’attività creativa è svolta all’interno di
un rapporto di lavoro subordinato, che la prevede espressamente come
oggetto, il datore di lavoro diviene immediatamente titolare dei diritti
di utilizzazione economica relativi all’opera dell’ingegno realizzata dall’autore-dipendente 1 .
(1) Su questo punto la dottrina appare sostanzialmente concorde, salvo poi differenziarsi sulla natura giuridica del trasferimento, a titolo originario o derivativo. Per
una panoramica della dottrina sul tema v. MARTONE, Contratto di lavoro e “beni immateriali”, Padova, 2002, p. 102 ss.
–4–
È da ritenere infatti che, stipulando questo tipo di contratto di
lavoro, l’autore-dipendente implicitamente, ma evidentemente, autorizza il datore di lavoro ad utilizzare economicamente le opere che
egli realizzerà all’interno dell’attività dovuta.
Con la stipulazione del contratto, dunque, l’autore-lavoratore si
sottopone volontariamente, anche per un periodo di tempo indeterminato, oltre che al potere direttivo, al dovere di fedeltà ed all’eventuale vincolo di esclusiva, anche al principio dell’alienità del risultato
in favore del datore di lavoro. Se non che, proprio per la severità e per
la rilevanza degli effetti scaturenti dal contratto di lavoro subordinato,
ed in ossequio al principio generale sopra ricordato che scoraggia l’alienazione definitiva ed integrale da parte dell’autore dei suoi diritti sull’opera dell’ingegno, deve ritenersi che tali effetti non riguardano ogni
e qualsiasi risultato realizzato dal lavoratore in costanza del rapporto
di subordinazione, bensì soltanto ciò che costituisce l’esito programmato e voluto dell’attività dedotta nel contratto 2 .
Ciò comporta che, al fine dell’attribuzione al datore di lavoro del
risultato dell’attività dell’autore, non è sufficiente l’inserimento di questi
nell’organizzazione produttiva 3 , ma occorre che l’imprenditore abbia
specificamente organizzato l’attività del dipendente allo scopo di conseguire quella determinata opera creativa 4 .
Questa conclusione corrisponde alla funzione economico-sociale
del rapporto di lavoro subordinato e non si vede perché non debba
essere applicata alle opere dell’ingegno. Per converso, sarebbe ingiusto che il datore di lavoro si appropriasse del risultato dell’attività creativa del dipendente se questa attività non fosse oggetto della prestazione lavorativa, ma fosse stata, ad esempio, solo occasionalmente favorita dall’esistenza del rapporto di lavoro, per il fatto che l’autore ha
utilizzato alcuni strumenti connessi all’attività tipica dedotta nel contratto di lavoro.
Stabilito questo principio non si è, però, ancora chiarita in modo
integrale la sua compatibilità con la disciplina e la natura del diritto
(2) In questo senso v. MARTONE, op. cit., p. 50 ss.
(3) Per questa posizione v. OPPO, Creazione intellettuale, creazione industriale e
diritti di utilizzazione economica, in Riv. dir. civ., 1969, I, p. 10 ss.; SORDELLI, Il diritto
d’autore del dipendente, in Dir. aut., 1989, p. 269 ss.; CAROSONE, L’opera dell’ingegno
creata nel rapporto di lavoro autonomo e subordinato, Milano, 1999, p. 183 ss. SCIARRA,
Invenzioni industriali, II), Invenzioni del lavoratore, in Enc. giur., Roma, aggiornamento 1997, p. 4 e ss.
(4) Sul punto v. SPADA, Impresa familiare e invenzione del familiare, in Riv.dir.ind.,
1986, I, p. 40.
–5–
d’autore che, come sappiamo, comprende una sfera di diritti di natura
morale che sono riconosciuti a protezione della personalità. Con la
stessa nettezza con la quale abbiamo sostenuto il principio della immediata acquisizione in capo al datore di lavoro dei risultati economici dell’attività creativa dedotta nel contratto di lavoro e, quindi, di quelle
facoltà esclusive di natura patrimoniale necessarie a permettergli lo
sfruttamento dell’opera dell’ingegno che è lo scopo dell’attività organizzata dall’imprenditore, così si deve affermare l’intangibilità e la non
trasferibilità dei diritti morali che la legge riconosce all’autore ed ai
suoi eredi anche nel caso di specie 5.
Il diritto alla paternità, all’integrità dell’opera e quello di ritirarla
dal commercio (artt. 20 e segg. l. aut.) debbono, pertanto, conciliarsi
con il complesso delle ragioni del datore di lavoro tese allo sfruttamento economico della creazione intellettuale.
A parte il primo, il cui contenuto precipuo è quello di far dichiarare giudizialmente la paternità dell’opera quando è contestata e di
inibire gli atti che la neghino o creino confusione 6, sono soprattutto il
secondo ed il terzo che possono venire in contrasto in situazioni in cui
l’autore abbia ceduto, in tutto o in parte, i diritti di sfruttamento economico del lavoro creativo svolto. A queste fattispecie, che sono le più
frequenti, si rivolge l’art. 20 l. aut., lasciando però scoperte le ipotesi
in cui le opere dell’ingegno sono realizzate nell’ambito di un’impresa
da un dipendente, nell’interesse dell’imprenditore che assume i costi
di realizzazione. Comunemente si ritiene che il datore di lavoro possa
rifiutare l’opera che non ritiene conforme ai requisiti stabiliti, perché
ciò compromette il livello di utilizzabilità per scopi commerciali, e possa
(5) Si tratta di diritti che sorgono in capo all’autore immediatamente con l’atto
della creazione, che sono esercitabili solo da lui o dai suoi eredi, in base ad un principio generale di tutela della personalità, e che non possono essere in alcun modo compressi, cancellati o trasferiti per effetto di un rapporto di lavoro subordinato. Per una
panoramica sui diritti morali d’autore, v. per tutti, nell’ambito della vasta bibliografia
esistente, il recente scritto di AUTERI, Il diritto d’autore, in AUTERI, FLORIDIA, MANGINI,
OLIVIERI, RICOLFI, SPADA, Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2001, p. 577 e ss.
(6) Non rientra nell’ambito delle facoltà connesse al diritto in questione il potere di disconoscere la paternità di un’opera, impedendo che ad un autore vengano
attribuite opere false, nonostante quanto ritiene un’autorevole dottrina (ASCARELLI,
Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, p. 752). Detto potere
può essere più correttamente ricondotto al diritto alla paternità dei propri atti, costruito dallo stesso Ascarelli, oppure al diritto al nome inteso in senso lato (FAGIANI,
Disconoscimento di paternità intellettuale e tutela della personalità, in Dir. aut., 1968,
p. 131 ss.).
–6–
suggerire delle modifiche, o apportarle direttamente a creazione terminata, fino al punto di adeguarla alle proprie esigenze. Tutte queste
azioni sono suscettibili di entrare in conflitto con il complesso dei diritti morali che la legge riserva all’autore-dipendente, fino ad arrivare
all’instaurazione di un vero e proprio contenzioso giudiziario. Il giudice, nel valutare, ad esempio, se il rifiuto di accettare l’opera o l’avere il
committente effettuato trasformazioni o modifiche ha leso il diritto
all’onore ed alla reputazione dell’autore, deve tenere nel debito conto
le esigenze del datore di lavoro, l’oggetto della prestazione del dipendente-autore e le altre clausole contrattuali esistenti tra le parti.
L’art. 41 l. aut., ad esempio, senza pregiudizio del disposto dell’art. 20, riconosce al direttore di un giornale, salvo patto contrario, il
potere di introdurre negli articoli da pubblicare quelle modifiche di
forma richieste dalla natura e dai fini del giornale. Nel caso di articoli
privi dell’indicazione dell’autore, detto potere si estende fino alla riduzione di parti o alla soppressione dell’articolo. In questo caso, l’autore dell’articolo non può eccepire la violazione del suo onore e della
sua reputazione se alcune parti soppresse, o l’intero articolo, avevano
un contenuto contrario alla linea editoriale del giornale 7.
Parimenti, nell’ambito della cinematografia, in un contesto di tipo
imprenditoriale che normalmente esula dal rapporto di lavoro subordinato, la legge (art. 47 l. aut.) attribuisce espressamente al produttore
la facoltà di apportare alle opere utilizzate nel film (soggetto, sceneggiatura, musica), le modifiche necessarie al loro adattamento cinematografico 8. La risoluzione di eventuali conflitti tra produttore ed autori è affidata ad un collegio di tecnici che deve accertare la necessità
o meno di tali modifiche.
Anche la facoltà del diritto morale dell’autore consistente nel
potere di ritirare l’opera dal commercio o di impedirne la prima pubblicazione, se ricorrano gravi ragioni morali (art. 2582 cod. civ. e artt.
142 e 143 l. aut.) 9, deve essere contemperato con il principio generale
dell’ordinamento teso a favorire la comunicazione e la diffusione della
cultura, delle idee e delle opere dell’ingegno in cui trovano espressio(7) V. AUTERI, op. cit., p. 587.
(8) Un’eventuale estensione dei poteri di adattamento del contributo creativo
da parte del produttore può essere prevista da apposite clausole negoziali.
(9) Non sembra che possa dedursi da queste norme l’esistenza del “diritto di
inedito”, cioè della facoltà dell’autore di opporsi alla prima pubblicazione dell’opera,
recedendo dagli accordi che la prevedevano, indipendentemente dalla ricorrenza dell’elemento delle gravi ragioni morali. Così AUTERI, op. cit., p. 589; Contra, VANZETTI, Il
diritto di inedito, in Riv. dir. civ., 1966, I, p. 384 ss.
–7–
ne e, in secondo luogo, con gli interessi dell’imprenditore individuati
all’interno del contratto di lavoro subordinato 10.
Le disposizioni citate appaiono coerenti con la ratio secondo cui
occorre attribuire il giusto peso ai contratti che hanno ad oggetto l’attività creativa svolta nell’ambito dei diversi settori. Esse, infatti, sembrano confermare un potere che già deriva all’imprenditore-committente dai contratti che gli garantiscono la piena disponibilità economica dell’opera dell’ingegno soggetta a tutela.
Conviene, ora, soffermarsi brevemente sulla natura e sulle modalità dell’attribuzione dei diritti patrimoniali in capo al datore di lavoro, questione dibattuta dalla dottrina e, viceversa, non sufficientemente approfondita dalla giurisprudenza.
Sul punto, sulla scia della dottrina maggioritaria 11, riteniamo che
il datore di lavoro acquisti sì direttamente i diritti di natura patrimoniale sull’opera creata dall’autore-dipendente non appena viene realizzata, in quanto specifico oggetto dell’organizzazione produttiva messa
a disposizione di quest’ultimo, limitatamente, però, ai diritti necessari
allo sfruttamento per come è stato pensato dall’imprenditore, ma l’acquisto avviene a titolo derivativo, perché a monte vi è comunque il
contratto di lavoro che costituisce il vero atto legittimante di questa
attribuzione.
Non può condividersi la diversa tesi, peraltro sostenuta da un’autorevole dottrina 12, secondo cui tutti i diritti patrimoniali d’autore derivanti dalla realizzazione di un’opera dell’ingegno del dipendente spettano al datore di lavoro a titolo originario, al di fuori di qualsiasi vicenda traslativa, adducendo a fondamento il fatto che, sebbene si ammetta che l’acquisto si perfeziona in conseguenza di un fatto creativo
del dipendente ed in virtù del titolo rappresentato dal contratto di
(10) A questo scopo, si indica (v. per tutti AUTERI, op. cit., pp. 588-589) il carattere eccezionale del diritto morale in oggetto, restringendo le ipotesi di gravi ragioni
morali al mutamento delle convinzioni dell’autore ed alla circostanza che la circolazione dell’opera artistica rechi grave pregiudizio alla sua reputazione, e prevedendo
l’obbligo di indennizzare coloro che hanno acquistato a qualsiasi titolo i diritti di
riprodurre, diffondere, eseguire, rappresentare l’opera. Il mancato pagamento dell’indennizzo, che si configura come un risarcimento del danno, comporta la cessazione
dell’efficacia della sentenza con cui il giudice ha accolto l’istanza dell’autore.
(11) OPPO, op. cit., p. 10 ss.; CAROSONE, op. cit., p. 190 e seg.; AUTERI, op. cit., p.
532 ss.; MARTONE, op. cit., p. 102 ss.
(12) Ci riferiamo a GRECO e VERCELLONE, I diritti sulle opere dell’ingegno, in
Trattato di diritto civile italiano diretto da Vassalli, Torino, 1974, p. 258 ss.; UBERTAZZI,
I diritti d’autore e i diritti connessi, Milano, 2000, p. 37 ss. e 159 ss.; BETTINI, L’attività
inventiva nel rapporto di lavoro, Roma, 1993, p. 37.
–8–
lavoro, che crea in capo a lui l’obbligo di svolgere l’attività creativa,
apparirebbe più logico parlare di acquisto a titolo originario dei diritti
patrimoniali sulla creazione intellettuale da parte del datore di lavoro,
perché sarebbe una complicazione inutile prevedere un precedente atto
attributivo dei diritti all’autore e un contestuale loro trasferimento all’imprenditore 13.
A confutazione di questa tesi si rileva che, in base alla teoria generale del diritto, l’acquisto a titolo originario si fonda su una relazione immediata con l’oggetto dell’acquisto, e non prevede alcun ulteriore passaggio, né diversi soggetti, né l’esistenza di un altro rapporto
giuridico con terzi 14.
In realtà, il contratto di lavoro subordinato rappresenta il presupposto necessario ed indispensabile dell’attribuzione ad un soggetto diverso dall’autore del risultato dell’attività creativa, ed è nell’atto
negoziale che si determinano quali sono i diritti economici che vengono trasferiti al datore di lavoro e quelli di cui il dipendente resta titolare. In forza poi del principio dell’alienità del risultato, che è esso stesso effetto di quel contratto, i diritti patrimoniali sull’opera dell’ingegno oggetto dell’attività lavorativa del dipendente-autore, nei limiti
necessari ad assicurare il conseguimento dello scopo dell’imprenditore, si trasferiscono a lui direttamente ed immediatamente senza bisogno di altre formalità.
Il meccanismo attraverso cui si realizza il trasferimento può, dunque, considerarsi analogo a quello della vendita di cosa futura e dell’emptio spei ex art. 1472 cod. civ. 15 con l’assunzione del rischio della
mancata venuta ad esistenza del bene dedotto nell’accordo, in cui il
compratore acquista il bene a titolo derivativo, in quanto vi è alla base
un precedente rapporto giuridico, ma il trasferimento nella sua sfera
giuridica patrimoniale avviene direttamente ed automaticamente solo
nel momento in cui esso verrà ad esistenza 16.
(13) Per la tesi contraria, dell’acquisto a titolo derivativo, v. la bibliografia citata
da MARTONE, op. cit., p. 102 ss. e p. 122 ss.
(14) V. per tutti BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di diritto
civile diretto da VASSALLI, 1960, p. 19.
(15) Concordano con l’applicazione della norma alla fattispecie delle opere dell’ingegno AULETTA, Dei diritti sulle opere dell’ingegno e sulle invenzioni industriali, in
Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Del lavoro, artt. 2555-2642,
Bologna, 1960, p. 303 ss.; PELLACANI, La tutela delle creazioni intellettuali nel rapporto
di lavoro, Torino, 2000, p. 158 ss. Contra MARTONE, op. cit., p. 105.
(16) MARTONE, op. cit., p. 103 ss.
–9–
Per comprendere l’analogia del meccanismo in questione, occorre accedere alla tesi, qui condivisa, che il contratto di vendita di cosa
futura ha anche efficacia reale oltre che obbligatoria, solo che essa è
sospesa nelle more della venuta ad esistenza del bene, nel caso di specie dell’opera creativa 17.
Nel momento in cui l’autore-lavoratore crea un’opera dell’ingegno tutelabile come frutto della sua attività intellettuale, svolta nell’interesse dell’impresa in cui è inserito e verso cui l’organizzazione si rivolge, i diritti morali sorgono e permangono in capo all’autore, mentre quelli patrimoniali – non tutti i possibili diritti, bensì solo quelli
attinenti l’attività creativa dedotta nel contratto – si costituiscono a
titolo derivativo immediatamente in capo al datore di lavoro.
Logico corollario di questo principio è l’attribuzione al datore di
lavoro della facoltà di elaborare e modificare l’opera per meglio adeguarla agli scopi che costruiscono la ragione del contratto, purché questa attività non pregiudichi la reputazione e l’onore del dipendenteautore, che resta legittimato ad intervenire contro la contraffazione,
l’usurpazione della paternità, l’illecita utilizzazione economica 18.
Se, poniamo, attraverso un contratto di lavoro subordinato, un
autore si obbliga a fare il grafico pubblicitario, il datore di lavoro acquisterà direttamente, seppur a titolo derivativo, i diritti di utilizzazione economica strettamente connessi con l’attività dedotta nel contratto, con le suddette facoltà di modifica e di elaborazione, mentre non
acquisterà gli stessi diritti sugli eventuali disegni fatti dal lavoratore
suscettibili di utilizzazione, ad esempio, nell’ambito di un fumetto.
Per questa stessa ragione riteniamo applicabile alla fattispecie in
esame il comma 3 dell’art. 119 l. aut., in materia di contratto di edizione, che dispone che in esso non possono essere compresi i futuri diritti eventualmente attribuiti da leggi posteriori, così come il comma 4
ed il comma 5 dello stesso articolo, nonché l’art. 19 l. aut., che sanciscono il principio dell’indipendenza dei diritti trasferiti.
Siamo dell’avviso che possa applicarsi altresì il comma 1 dell’art.
120 l. aut., che sanziona con la nullità ogni contratto che abbia per
(17) In questo senso v. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile,
Napoli, 1989, pp. 153; 191 e 261; OPPO, op. cit., p. 13. Sostengono che il contratto in
questione ha solo efficacia obbligatoria, tra gli altri, BIANCA, La vendita e la permuta,
in Trattato di diritto civile italiano diretto da Vassalli, Torino, 1972, p. 337; GRECO –
COTTINO, Della vendita, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca,
Bologna-Roma, 1981, p. 84 ss.
(18) Contrario all’ipotesi che il datore di lavoro possa rielaborare l’opera realizzata dal dipendente è CAROSONE, op. cit., p. 196.
– 10 –
oggetto tutte le opere o tutta l’attività creativa che un autore possa
compiere, senza limiti di tempo, sebbene con riferimento al contratto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato il dipendente possa esercitare in qualsiasi momento il diritto di recesso.
Per quanto concerne poi l’art. 110 l. aut. e l’art. 2581, comma 2,
cod. civ., che impongono la forma scritta ad probationem della trasmissione dei diritti di utilizzazione economica, riteniamo che siano
applicabili nell’unico caso in cui il datore di lavoro voglia dimostrare
di aver acquistato i diritti di utilizzazione economica sull’opera dell’ingegno oggetto della prestazione lavorativa oltre i limiti individuati
dal contratto, atteso che negli altri casi è da ritenersi valido il principio della forma libera 19.
Peraltro, la prova scritta del contratto non è richiesta, per espressa previsione di legge, per i programmi di elaboratore, per le banche
dati e per le opere di disegno industriale create dal dipendente nell’esecuzione delle sue mansioni o eseguendo le istruzioni del datore di
lavoro (artt. 12-bis e 12-ter l. aut.).
Nel caso di cessazione del rapporto di lavoro occorre rifarsi alle
specifiche clausole negoziali, se esistenti, ovvero all’interpretazione del
contratto, per stabilire quali diritti restano in capo al datore di lavoro
e per quanto tempo. Deve comunque ritenersi che al dipendente-autore possa applicarsi il disposto dell’art. 2125 cod. civ., che prevede il
patto di non concorrenza e la limitazione della sua attività lavorativa
per un massimo di cinque anni, dietro corrispettivo. La norma stabilisce la forma scritta ad substantiam.
In costanza di un rapporto di lavoro subordinato, tuttavia, possono immaginarsi diverse altre ipotesi che pongono problemi sulla titolarità dei diritti patrimoniali relativi alle opere dell’ingegno realizzate dal dipendente.
Una di queste è senza dubbio quella del dipendente che realizza
fuori dall’orario di lavoro una creazione intellettuale che avrebbe potuto essere oggetto della sua attività tipica per la quale è stato assunto.
La fattispecie non è regolata dalla legge sul diritto d’autore, ma
la dottrina e la giurisprudenza hanno fatto riferimento a quanto disposto dall’art. 23 R.D. 29 giugno 1939, n. 1127 (legge sui brevetti, in
(19) MARTONE, op. cit. p. 126; OPPO, op. cit., p. 37; AMMENDOLA, voce Diritto
d’autore: diritto materiale, in Digesto, Disc. priv. Sez. comm., Torino, 1987, p. 387.
Contra, SORDELLI, Prestazione d’opera intellettuale per la creazione di opere dell’ingegno, in Riv. dir. ind., 1957, II, p. 353; GRECO e VERCELLONE, op. cit., p. 261; AUTERI, op.
cit., p. 610 ss.
– 11 –
seguito l.b.) in materia di invenzioni industriali 20. In effetti, pur riconoscendo la diversità che esiste tra i due prodotti dell’ingegno umano,
il processo intellettuale con cui il dipendente perviene alla realizzazione di un’invenzione ovvero di un’opera artistica è fondamentalmente
analogo, soprattutto se, come avviene sempre più spesso negli ultimi
tempi, il contributo dell’organizzazione aziendale messa a disposizione dal datore di lavoro è determinante.
Tuttavia non possiamo non rilevare come nel caso dell’opera dell’ingegno l’organizzazione e gli strumenti aziendali non sono in genere
a tal punto determinanti da spiegarne la realizzazione, quasi fosse un
procedimento, seppur intellettuale, ma comunque meccanico o consequenziale. L’autore-dipendente, infatti, aggiunge di suo l’intuizione
geniale e creativa, tipico atto umano, il cui spunto può essere il più
diverso ed anche lontano dall’attività dedotta nel contratto di lavoro.
Essa potrà, semmai, suggerirgli delle modalità per la realizzazione dell’idea creativa, ma è difficile che sia la fonte della sua ispirazione.
Poniamo, ad esempio, il caso di un grafico pubblicitario, dipendente di un’agenzia di pubblicità, il quale, grazie all’esperienza acquisita nel settore, al di fuori dell’orario ordinario, ma restando sul luogo
di lavoro, pervenga alla creazione non dovuta, non richiesta e non prevista, di uno slogan. Poiché qui non appare in alcun modo giustificabile l’attribuzione al datore di lavoro dei diritti di utilizzazione economica dell’opera dell’ingegno 21, atteso che essa è stata realizzata al di
fuori del rapporto di lavoro subordinato, si deve ritenere che questi
diritti spettano al dipendente-autore.
(20) L’art. in questione recita: “Quando l’invenzione industriale è fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o d’impiego,
in cui l’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto e a tale
scopo retribuita, i diritti derivanti dall’invenzione stessa appartengono al datore di
lavoro, salvo il diritto spettante all’inventore di esserne riconosciuto autore.
Se non è prevista e stabilita una retribuzione, in compenso dell’attività inventiva, e l’invenzione è fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un
rapporto di lavoro o d’impiego, i diritti derivanti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro, ma all’inventore, salvo sempre il diritto di esserne riconosciuto autore,
spetta un equo premio, per la determinazione del quale si terrà conto dell’importanza
dell’invenzione”.
(21) Sempre limitatamente a quelli non necessari per il naturale sfruttamento
dell’opera creativa, per cui, ad esempio, il datore di lavoro non sarebbe comunque
autorizzato a sfruttare il disegno realizzato per una sua riproduzione su delle ceramiche o su degli oggetti di arredo; oppure, nel caso di uno slogan, non potrebbe utilizzarlo all’interno di un testo musicale.
– 12 –
Ancora. Facciamo il caso di un dipendente di una casa cinematografica, assunto con il compito di selezionare le sceneggiature ed i soggetti per futuri film da produrre, che si diletti anch’egli a scrivere testi
potenzialmente adatti ad essere tradotti in versione cinematografica.
Trovandosi a dover selezionare un soggetto su un certo tema o personaggio, ed avendo egli scritto nel tempo libero una storia con i requisiti richiesti per il film che si vuole realizzare, presenti il suo lavoro
alla propria casa cinematografica, incontrando l’approvazione di questa ed il favore per la realizzazione del film. Il fatto di aver presentato
la propria sceneggiatura al datore di lavoro non configura affatto un
obbligo da parte del dipendente, né un atto di acquiescenza all’attribuzione a favore di quello della titolarità dei diritti patrimoniali d’autore sulla sceneggiatura, bensì rappresenta la scelta autonoma e libera
del dipendente di approfittare dell’occasione di vedere cinematograficamente realizzato il suo lavoro. Cosicché, a seguito di uno specifico
accordo, che non ha nulla a che vedere con il rapporto di lavoro subordinato vigente, il dipendente può cedere i diritti necessari e connessi allo sfruttamento ed alla rappresentazione della sua sceneggiatura da parte della propria casa cinematografica. In caso di rigetto da
parte di quest’ultima del testo da lui scritto, il dipendente può legittimamente presentare il lavoro ad un altro produttore teatrale o cinematografico cui, eventualmente, cedere i diritti per la sua realizzazione 22.
Per concludere sul punto che ci occupa, si può affermare che, in
costanza di un rapporto di lavoro subordinato che prevede espressamente dal dipendente un’attività creativa di opere dell’ingegno, vige il
principio fondamentale dell’alienità del risultato, per cui i diritti patrimoniali di sfruttamento del prodotto dell’attività lavorativa, nei limiti
che abbiamo detto e con le riserve illustrate, si trasmettono immediatamente al datore di lavoro attraverso un meccanismo simile a quello
della vendita di cosa futura, e comunque a titolo derivativo e non originario.
Ciò non toglie che, proprio per la particolare situazione di subordinazione e per la durata prevista all’interno di questa tipologia di contratti, emergano forti le ragioni di tutela della parte più debole, cioè
(22) Non riteniamo che nel caso di specie si configuri né un inadempimento
contrattuale, né la violazione dell’obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro. Contra
CAROSONE, op. cit., p. 203 ss. Come abbiamo detto, l’attività svolta dal dipendente che
ha condotto alla creazione è giuridicamente estranea al rapporto di lavoro in essere,
nei confronti del quale – e con i limiti stabiliti negozialmente e dalla legge generale –
sono valide le disposizioni di cui all’art. 2105 cod. civ.
– 13 –
del dipendente-autore. Alla luce di ciò, si deve conseguentemente sostenere l’applicabilità alla fattispecie in oggetto delle norme poste a
tutela dell’autore nell’ambito della legge speciale e, in particolare, all’interno dei contratti tipici colà previsti, quello di edizione, di rappresentazione ed esecuzione, nella parte in cui è disciplinata l’alienazione
dei diritti patrimoniali d’autore, oltre che dei principi generali che ispirano la medesima legge sul diritto d’autore 23.
III. L’opera dell’ingegno creata in base ad un rapporto di lavoro autonomo
Ipotesi molto più frequente è quella di un soggetto che commissioni ad un autore la creazione di una o più opere senza che tra di essi
intercorra un rapporto di lavoro continuativo, ma semplicemente in
virtù di un contratto d’opera.
Il proprietario di una villa che commissiona ad un architetto il
progetto per la ristrutturazione; un’agenzia di pubblicità che contatta
un compositore o un regista per comporre un jingle o creare un video
spot; un produttore cinematografico che si accorda con una società di
produzione per realizzare una sequenza di effetti speciali da inserire
in un film in lavorazione; sono tutti esempi di situazioni in cui le parti
possono ricorrere ad un contratto di lavoro autonomo.
Accertare se si è di fronte ad un accordo che implica un rapporto
continuativo nel tempo, anche se predeterminato, con un vincolo di
subordinazione per l’autore dell’opera dell’ingegno, ovvero si è nel
campo della prestazione di lavoro autonomo è la prima fondamentale
partizione su cui occorre far luce, perché da essa scaturiscono effetti
giuridici sensibilmente differenti. L’indagine può presentare qualche
difficoltà allorché, come è possibile anche alla luce di quanto detto in
precedenza, non vi sia un contratto scritto, che è necessario solo ad
probationem. (art. 110 l. aut.) 24. Resta in dubbio se questa norma deb-
(23) Si fa riferimento, principalmente, agli art.107 e seg. l. aut. Anche la giurisprudenza, seppure sporadicamente, si è pronunciata in tal senso. V., ad esempio,
Trib. Napoli 21 maggio 1991, in Dir aut., 1992, p. 388 ss.
(24) In senso conforme, per la dottrina, v. AUTERI, op. cit., pp. 611-612; CAROSONE, op.cit., p. 148 e seg.; ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, cit.,
p. 807. Contra, con la maggioranza della dottrina che sostiene la non necessità della
forma scritta neppure ad probationem, GRECO e VERCELLONE, op. cit., p. 266; SORDELLI, Contratto d’opera e creazione di opera dell’ingegno, in Riv. dir. ind., 1955, II, p. 303;
SORDELLI , Prestazione d’opera intellettuale per la creazione di opere dell’inge-
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ba applicarsi o meno a qualsiasi tipo di contratto, anche a quelli, ad
esempio, in cui l’autore conceda diritti personali di godimento, e cioè,
licenze anche non esclusive 25.
In realtà, il primo problema si risolve facendo riferimento agli
elementi del caso concreto, valutati sulla base dei parametri stabiliti in
generale dal diritto per distinguere le due fattispecie negoziali, e cioè:
l’esistenza o meno di un vincolo di subordinazione; la facoltà di controllo del lavoro eseguito a favore di una parte; la durata del rapporto;
i mezzi, gli strumenti ed il luogo in cui si svolge l’attività creativa; le
modalità di fissazione del prezzo per la prestazione.
Decisamente più complesso è, invece, stabilire la ripartizione dei
diritti patrimoniali sull’opera dell’ingegno realizzata in virtù di un accordo non riportato in un atto scritto, e magari concluso tra soggetti
che non conoscono bene le norme che disciplinano la fattispecie. Anche qui si tratta di accertare la concreta volontà delle parti.
Così, è facile supporre che un soggetto che commissiona ad un
pittore un ritratto o un’opera figurativa non intenda acquisire il diritto di riproduzione o quello di diffusione, bensì semplicemente la proprietà del quadro originale. Nel caso fatto innanzi, del proprietario di
un immobile che chiede ad un architetto un progetto per la ristrutturazione di una villa, non c’è dubbio che non mira a conseguire la proprietà dell’elaborato e dei disegni che l’accompagnano, ma solo a vederlo realizzato per il proprio immobile. Diversi i casi dell’imprenditore che conferisce l’incarico ad uno studio pubblicitario di creare una
campagna per la promozione di un prodotto; della società televisiva
che commette ad un regista la realizzazione di una fiction; di una testata giornalistica o di un editore che chiede ad un istituto demoscopico un’indagine statistica per un articolo o un saggio; qui si può immaginare che i committenti tendano ad assicurarsi il diritto esclusivo di
utilizzare l’opera per i propri specifici fini e, magari, anche per ulteriori e più o meno prevedibili futuri progetti, e che, al contrario, non
gno. Usi pubblicitari e loro rilevanza, ivi, 1957, II, p. 347 ss.; DE SANCTIS, Contratto di
commissione di opera dell’ingegno e diritto del committente, in Dir. aut., 1963, p. 343.
Per la giurisprudenza, in quest’ultimo senso, v. Cass. 16 luglio 1963, in Dir. aut., 1963,
p. 342 e seg. con nota di DE SANCTIS; Trib. Milano 19 novembre 1953, in Riv. dir. ind.,
1953, II, p. 313 ss.; App. Milano 22 febbraio 1955, in Dir. aut., 1955, II, p. 343 ss.
(25) Sul punto, di recente, v. Cass. 21 maggio 1998, n. 5072, in Riv. dir. ind.,
1999, II, p. 432 ss. secondo la quale l’art. 110 va applicato anche agli atti di concessione di semplici facoltà d’uso.
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interessi loro disporre della proprietà del lavoro nella sua forma originale 26.
Non sempre, però, le situazioni sono così nette e definite, perché
spesso accade che gli intenti delle parti, in specie del committente,
possono essere interpretati in più sensi. Si pensi, ad esempio, all’imprenditore che commissiona ad un cantautore un jingle da destinare
alla promozione di un prodotto sul mercato, jingle che diventa un tale
successo che il cantautore ne fa una canzone per il mercato discografico. In assenza di una previsione esplicita nel contratto, scritto o orale
che sia, si deve ritenere che l’imprenditore abbia acquisito tutti i diritti di utilizzazione del jingle, o piuttosto solo quelli relativi allo sfruttamento per la campagna pubblicitaria?
Una società radiofonica contatta uno scrittore per la creazione di
una commedia da trasmettere via radio. Consegnato il lavoro, giudicato soddisfacente, l’autore decide di farne la sceneggiatura di un film,
accordandosi con un produttore. L’autore, in questo caso, mancando
una clausola di esclusiva espressa nel contratto, ha violato i diritti patrimoniali della società radiofonica o ha agito nel pieno rispetto di
quanto concordato utilizzando successivamente, ma diversamente, il
lavoro?
Nel caso dell’architetto incaricato dal proprietario di una villa di
redigere un progetto per la ristrutturazione, ipotizziamo che il committente non si consideri soddisfatto del progetto, esoneri il professionista e ne incarichi un altro che porta a termine l’impresa utilizzando
parte del progetto precedente. Siamo di fronte ad una violazione del
diritto patrimoniale d’autore del primo architetto con riferimento al
suo progetto, o il committente, nel pagare il prezzo per il lavoro svolto, ha inteso acquisire il diritto di utilizzare anche altrimenti quello
stesso lavoro?
Premesso che a nostro parere resta valido il fondamentale principio, già esaminato sopra con riferimento al rapporto di lavoro subordinato, secondo cui la titolarità dei diritti economici sull’opera dell’ingegno può essere attribuita ad un soggetto diverso dall’autore esclusivamente in virtù di un atto traslativo, riteniamo che anche nel caso di
esecuzione di un’opera creativa in base ad un contratto di lavoro autonomo siano applicabili quelle norme in precedenza indicate relative
ai contratti disciplinati nella legge sul diritto d’autore, in particolar
modo quelle relative al contratto di edizione.
(26) Nel caso in cui questa resta all’autore, si tratta, casomai, di definire negozialmente l’uso che questi può farne senza interferire sulle facoltà acquisite dal committente.
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Per essere chiari, ci riferiamo, oltre che all’art. 19, all’art. 119 l.
aut, sia nella parte in cui conferma il principio dell’indipendenza dei
diritti trasmessi, sia nella parte in cui dispone la non trasferibilità dei
diritti futuri attribuiti da leggi posteriori. Non ci sembra, viceversa,
applicabile il n. 1 dell’art. 120 l. aut., in quanto nel rapporto di collaborazione autonoma l’attività creativa è normalmente ben individuata
nell’accordo tra le parti, e non vi è rischio di cessione duratura di diritti patrimoniali a favore del committente.
Il committente, infatti, richiede non tanto lo svolgimento di una
certa attività, quanto un ben preciso risultato che, pertanto, non può
in genere individuarsi nel complesso dei diritti esclusivi inerenti l’opera dell’ingegno, bensì solo nel vedersi legittimato a svolgere quelle facoltà che soddisfano le sue esigenze 27.
Per quanto concerne l’art. 110 l. aut. sull’obbligo della forma scritta ad probationem, siamo dell’avviso che sia applicabile anche all’ipotesi di lavoro autonomo, perché la cessione dei diritti di utilizzazione
su un’opera dell’ingegno ha una rilevanza centrale nell’economia della
fattispecie in esame che, peraltro, si rivela molto simile ai tradizionali
contratti sul diritto d’autore.
Su queste tesi, dopo alcune decisioni risalenti in senso nettamente contrario 28, la giurisprudenza sembra ora concordare, sebbene casi
come quelli indicati sopra siano poco frequenti e, pertanto, siano scarse le decisioni a cui poter fare riferimento 29.
Una volta accertata la volontà delle parti di trasferire uno o più
diritti di utilizzazione al committente, si pone il diverso problema di
stabilire quando e mediante quale meccanismo questi diritti sorgono
(27) GRECO e VERCELLONE, op. cit., p. 263 ss.; AUTERI, op. cit., p. 533 ss. Contra
SORDELLI, Contratto d’opera e creazione di opera dell’ingegno, cit., p. 303; SORDELLI,
Prestazione d’opera intellettuale per la creazione di opere dell’ingegno, cit., p. 347.
(28) Trib. Milano 19 novembre 1953, in Riv. dir. ind., 1953, II, p. 313 ss.; App.
Milano 22 febbraio 1955, in Dir. aut., 1955, p. 343 ss.; Cass. 16 luglio 1963, cit., secondo cui spetta all’autore fornire la prova di esplicite limitazioni pattizie al contenuto del diritto acquisito dal committente.
(29) Abbastanza di recente, (Cass. 7 giugno 1982, n. 3439, in Foro it., 1982, I, c.
1865 ss.), la Suprema Corte ha censurato il giudice di merito che nella sua pronuncia
si era fondato “sull’erroneo presupposto secondo cui chi abbia commesso, in forza di
un contratto di prestazione d’opera, un disegno da impiegare come marchio, ne acquista il diritto esclusivo di utilizzazione in tutte le possibili forme, salva l’esistenza di
patti limitativi che debbono essere provati dall’autore – abbia omesso (...) di interpretare la volontà contrattuale delle parti in ordine ai diritti di utilizzazione effettivamente trasferiti al committente”.
– 17 –
in capo al destinatario, e cioè se essi siano acquisiti in modo diretto ed
automatico a titolo originario al momento del compimento dell’opera
richiesta, o della sua accettazione, ovvero se siano necessari ulteriori
atti, in particolare un contratto, che ne definisca modi e termini. La
legge non ci aiuta a risolvere il problema, perché mancano disposizioni ad hoc di carattere generale; esistono, invece, norme che si riferiscono a fattispecie particolari, come le opere collettive, la fotografia e l’opera cinematografica, sulle quali vi è il dubbio che possano essere estese
ad altri casi.
Abbiamo visto che in costanza di un rapporto di lavoro subordinato è più corretto ritenere che si verifica un’acquisizione diretta ed
immediata, sebbene a titolo derivativo, dei diritti patrimoniali a favore
del datore di lavoro, limitatamente a quelli necessari a consentirgli lo
sfruttamento dell’opera dell’ingegno secondo le modalità da lui volute
e verso le quali l’intera organizzazione produttiva è indirizzata. Si può
sostenere che avviene lo stesso anche nel caso di un contratto di lavoro autonomo?
Sul punto la dottrina, peraltro non proprio recente, si rivela assai
divisa, così come abbiamo visto per la stessa questione riferita, però,
al rapporto di lavoro subordinato. Alcuni Autori sostengono che i diritti sono acquisiti dal committente in via immediata e diretta, salvo,
poi, dividersi per quanto riguarda quali di essi vengano trasferiti. C’è
chi sostiene che più propriamente ad essere acquisite, sempre direttamente, sarebbero delle mere facoltà di natura patrimoniale, quelle strettamente necessarie alle finalità che il committente si propone, configurandosi, cioè, una licenza d’uso più o meno ampia. Altri affermano,
invece, che l’acquisto dei diritti in capo al committente è sempre a
carattere derivativo, in base al principio, ricavabile dagli artt. 6 e 107 e
seg. l. aut., secondo cui l’acquisto da parte di soggetti diversi dall’autore avviene esclusivamente in forza di atti di disposizione 30.
In analogia con quanto sostenuto in occasione del contratto di
lavoro subordinato, riteniamo che anche qui si verifichi l’attribuzione
(30) Su quest’ultima posizione sembra potersi collocare anche l’OPPO che, in
un saggio risalente al 1969, Creazione intellettuale, creazione industriale e diritti di
utilizzazione economica, cit., ha illuminato il dibattito, contribuendo a renderlo più
fecondo e maturo. L’OPPO ha sostenuto che i diritti acquisiti dall’imprenditore committente vanno sempre determinati alla stregua del contratto intercorso tra le parti,
secondo il suo tenore espresso, o secondo il contenuto ricostruibile alla luce dell’oggetto e delle finalità perseguite (p. 34). Per un’ampia panoramica delle posizioni della
dottrina sul punto, v. CAROSONE, L’opera dell’ingegno creata nel rapporto di lavoro autonomo e subordinato cit., p. 168 ss.
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diretta ed immediata, in capo al committente, dei diritti patrimoniali
connessi alle finalità che egli intende perseguire, ma sempre in virtù di
un atto negoziale precedente e, dunque, a titolo derivativo, e comunque sempre al momento in cui l’opera viene ad esistenza 31.
A favore della tesi qui sostenuta militano, oltre ad argomenti di
natura letterale, quali le espressioni “spettano” e “competono” contenute negli artt. 38, 45 e 88 l. aut., anche altri di natura più squisitamente concettuale, quale quello desumibile dalla disciplina prevista in
tema di opere cinematografiche e collettive, in particolare l’art. 46 l.
aut., secondo cui l’acquisto dei diritti patrimoniali in capo al produttore (o all’editore) è non solo limitato, ma anche non esclusivo. Sarebbe, pertanto, illogico attribuire a titolo originario al produttore i diritti patrimoniali sul film (e all’editore quelli sull’opera collettiva), soggetti entrambi legittimati ad un uso limitato, piuttosto che all’autore,
il quale, viceversa, è libero di sfruttare il proprio contributo secondo
modalità diverse.
Se questo non bastasse, rileviamo che a favore della natura derivativa dell’acquisto di questi diritti in capo al committente depongono
anche le norme che limitano l’acquisto ai soli diritti patrimoniali d’autore desumibili dalla interpretazione del contratto e nei limiti dell’oggetto di questo 32.
Benché tutte queste problematiche abbiano costituito oggetto di
ampio dibattito nella dottrina, le poche prese di posizione della giurisprudenza in materia, a fronte della vastissima gamma di situazioni
che possono verificarsi circa l’interpretazione di un contratto avente
ad oggetto il trasferimento di diritti patrimoniali d’autore, ci inducono a volgere lo sguardo là dove la prassi e la giurisprudenza sull’argomento sono molto ricche ed all’avanguardia, cioè agli Stati Uniti, per
vedere se possiamo trarre qualche utile spunto ai fini della soluzione,
nel nostro ordinamento, di casi di conflitto tra titolare del diritto d’autore e committente, ovvero, comunque, al fine di una migliore interpretazione della volontà negoziale delle parti.
(31) ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, cit., 1960, p.
778; AMMENDOLA, voce Diritto d’autore cit., p. 389 ss.; CAROSONE, op. cit., p. 190; UBERTAZZI, op. cit., p. 39 e seg.; MARTONE, op. cit., pp. 102 e seg. e 152 e seg. Contra GRECO
e VERCELLONE, Op. cit., p. 263 e seg.
(32) SORDELLI, op. cit., p. 278 ss.; OPPO, op. cit., p. 14 ss.; FABIANI, Il diritto
d’autore, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, XVIII, Impresa e lavoro, IV,
Torino, 1983, p. 162.
– 19 –
IV. Spunti di riflessione tratti dalla recente giurisprudenza statunitense
Nell’ordinamento degli Stati Uniti la materia è regolata, in via
generale, dal Copyright Act del 1976, integrato dalle pronunce della
giurisprudenza che interpretano le norme, fissando principi e criteri
di riferimento che poi vengono recepiti nelle decisioni di casi analoghi, fino a cristallizzarsi e a diventare essi stessi delle basi su cui fondare le successive decisioni.
Sul trasferimento dei diritti patrimoniali d’autore, benché il Copyright Act preveda all’art. 204 l’obbligo della forma scritta, anche per la
cessione di semplici facoltà di utilizzazione 33, non è difficile imbattersi in casi in cui le parti, per ingenuità, superficialità, eccesso di fiducia,
o per scarsa conoscenza della normativa concludono un accordo riguardante l’esecuzione di un’opera d’arte su commissione omettendo
alcune clausole importanti al fine della determinazione del contenuto
delle reciproche obbligazioni, ovvero senza dare veste formale all’accordo, confidando semplicemente nell’efficacia del reciproco scambio
di dichiarazioni verbali di volontà.
Questo diffuso comportamento, oltre a contravvenire al disposto
dell’art. 204 del Copyright Act 34, è suscettibile di generare un vasto
contenzioso avente ad oggetto: il contenuto dei diritti e delle facoltà
di uso realmente trasferiti; la violazione di eventuali e difficilmente
dimostrabili accordi negoziali; l’efficacia e la durata del contratto; contenzioso che dobbiamo esaminare nella prospettiva sopra indicata, di
verificare l’esistenza di utili spunti in rapporto alla risoluzione, nel
nostro sistema, di analoghe eventuali controversie.
(33) § 204. Execution of transfers of copyright ownership.
(a) A transfer of copyright ownership, other than by operation of law, is not valid
unless an instrument of conveyance, or a note or memorandum of the transfer, is in
writing and signed by the owner of the rights conveyed or such owner’s duly authorized
agent.
(34) Sulla portata effettiva dell’art. 204 la giurisprudenza USA non è concorde.
In taluni casi essa ha ritenuto che il mancato rispetto della forma scritta implichi la
nullità dell’atto (il caso Konigsberg International. Inc. v. Rice, United States Court of
Appeals, Ninth Circuit, 11 febbraio 1994, in Copyright Law Decisions, 1994, § 27, p.
214 ss.; in vol. 29 United States Patent Quarterly, second series, p. 1789 ss.), in altri ha
considerato il contratto semplicemente annullabile (Magnuson v. Video Yesteryear,
United States Court of Appeals, Ninth Circuit, 11 giugno 1996, in 1996, in Copyright
Law Decisions, § 27, p. 538 ss.; in vol. 39 United States Patent Quarterly, second series,
p. 1018 ss.).
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1) Controversie sul contenuto dei diritti o delle facoltà d’uso trasferite
Nell’ambito della ricca casistica statunitense possono rinvenirsi
molti esempi del tipo di quelli appena indicati, ma ai nostri fini occorre operare una selezione ed esaminare solo quelli che si rivelano compatibili con i principi portanti del nostro ordinamento in materia.
Significativi in proposito appaiono i casi che la dottrina statunitense classifica nell’ambito della violazione degli accordi contrattuali,
benché si debba fin d’ora osservare che il confine tra questi casi e
quelli aventi ad oggetto le controversie circa il contenuto dell’eventuale licenza d’uso concessa ad un committente sia fin troppo sottile
ed a volte indecifrabile, atteso che si tratta quasi sempre di patti conclusi oralmente e di cui non si può fornire alcuna prova documentale.
I casi che segnaliamo hanno in comune l’elemento di un uso dell’opera non conforme, in quanto più ampio o comunque diverso, rispetto a quello concordato, e, riguardati con l’occhio dell’interprete
italiano, si rivelano piuttosto fattispecie di violazione dei diritti patrimoniali dell’autore.
a) Nel caso Jacob Maxwell Inc. v. Veeck 35, James Albion, presidente di Maxwell Inc., scriveva una serie di motivi musicali per la Myers
Miracle, un piccolo club di baseball del quale Veeck era socio, affinché
fossero eseguiti durante la partita di esordio del campionato. All’autore il committente assicurava il rimborso delle spese vive per l’esecuzione ed una somma a titolo di remunerazione per la diffusione al pubblico. Lo scopo della committenza sembrava chiaro, come pure la pattuizione del compenso dovuto ed i limiti di sfruttamento dei motivi
musicali. Se non che Veeck faceva eseguire i motivetti di Albion, spesso presente, anche durante le successive partite della squadra, ed uno
di questi motivi musicali diveniva talmente noto che era scelto quale
inno ufficiale del club. A questo punto, la Maxwell citava in giudizio
Veeck per violazione del proprio diritto d’autore sui motivi musicali
conseguente all’uso non autorizzato fattone durante le successive partite ed all’ulteriore sfruttamento di uno di essi come inno della squadra. Il Tribunale, in prima istanza, emetteva una sentenza favorevole a
Veeck, argomentando che, nonostante l’assenza di qualsiasi accordo
espresso, nella fattispecie si doveva intendere che l’attore aveva implicitamente riconosciuto al convenuto una licenza tacita non esclusiva
di utilizzare il motivo musicale anche per i successivi eventi sportivi
(35) United States Court of Appeals, Eleventh Circuit, 18 aprile 1997, in vol. 42
United States Patent Quarterly, second series, p. 1467 ss.; in Copyright Law Decisions,
1997, § 27, p. 631 ss.
– 21 –
della specie. In Appello, fondandosi sulla tesi che il convenuto non
poteva divenire titolare di alcuna licenza, mancando appunto un accordo espresso in tal senso, formalizzato ai sensi dell’art. 204 del Copyright Act, l’attore insisteva nel reiterare l’istanza, sostenendo che il Tribunale non era autorizzato a stravolgere il contenuto dell’accordo intercorso tra le parti, modificandolo sostanzialmente in un modo così
favorevole al committente. Anche in secondo grado, tuttavia, i giudici
confermavano le tesi della precedente decisione, aggiungendo che Albion, con la sua presenza alle successive partite della squadra, durante
le quali erano stati eseguiti i suoi motivi, ed in occasione delle quali
egli non aveva fatto seguire alcuna specifica lamentela, aveva implicitamente autorizzato, attraverso una licenza non esclusiva, la Miracle
ad eseguire i suoi motivi anche durante il campionato 36.
Se non vi è alcun dubbio circa la possibilità che una fattispecie
simile si possa presentare anche di fronte ad un giudice italiano, è viceversa ben difficile che egli possa decidere nel senso dei colleghi americani, soprattutto con riferimento all’intervento di sostituzione della
volontà delle parti operato da questi ultimi sulla base di un’interpreta(36) La dottrina è apparsa critica con riferimento alla pronuncia. In particolare,
NIMMER sul caso Maxwell si è domandato con quale fondamento un Tribunale può
accordare una qualche rilevanza giuridica al tentativo di dare vita ad una licenza senza rispettare i canoni previsti dall’art.204, configurando nel comportamento delle parti la concessione implicita di un’effettiva, sebbene non esclusiva, licenza. Ragionare in
tal modo – afferma l’Autore – rischia di contravvenire alla volontà espressa delle parti
e, contestualmente, di compromettere le finalità che il legislatore intende perseguire
attraverso l’art. 204. V. M.B. NIMMER e D. NIMMER, Nimmer on Copyright, 1996, §10.03.
In un caso analogo, avente sempre ad oggetto la composizione di brani musicali, Irwin
v. American Interactive Media Inc., (United States District Court, CD California, 14
aprile 1994, in Copyright Law Decisions, 1994, § 27, p. 304 ss.; in vol. 31 United States
Patent Quarterly, second series, p. 1366 ss.), i giudici hanno deciso nel senso opposto.
Il convenuto era stato incaricato dall’attore di scrivere una musica per un video promozionale, che sarebbe stato usato soltanto per una promozione all’interno di una
serie di negozi di Blockbuster. Scritta la musica, accettata dal committente, il quale
consegnava all’autore la somma pattuita per l’attività creativa svolta, il cui frutto doveva essere destinato al fine indicato; poco tempo dopo però la società convenuta
cominciava a diffondere il video con la musica di Irwin anche tra una serie indefinita
di clienti di altri negozi, e perfino in occasione di alcune conventions. Esaminate anche le deposizioni di alcuni testimoni, il Tribunale concludeva che all’attore andava
riconosciuta la titolarità del complesso dei diritti patrimoniali d’autore sull’opera, con
l’unico limite della licenza tacita non esclusiva concessa in occasione dell’accordo verbale intercorso tra le parti in conflitto, destinata ad autorizzare il committente ad
utilizzare il pezzo musicale solo per il video promozionale e per la destinazione inizialmente indicata, configurando il più ampio uso fattone una violazione dei diritti
dell’autore.
– 22 –
zione, a dir la verità piuttosto discutibile, del comportamento di Albion.
Visto nel quadro del nostro ordinamento, il caso si presenta come
un’ipotesi di violazione del diritto patrimoniale d’autore sotto un duplice profilo: quello dell’uso non autorizzato dell’opera e quello del diritto
al maggior compenso per il più ampio sfruttamento della stessa.
La fattispecie rientra nei diritti di comunicazione al pubblico di
un’opera, comprendenti anche l’esecuzione mediante apparecchi di
diffusione sonora di brani musicali, precedentemente fissati su supporti audio, che possono essere riprodotti e distribuiti. Quando il brano musicale viene eseguito con l’ausilio di detti supporti e fatto ascoltare ad un pubblico presente in un determinato luogo, nel caso di specie in un campo da baseball, si configura un’ipotesi di esecuzione che
l’art. 15 l. aut. riserva in via esclusiva all’autore. In pratica, se la diffusione dell’opera musicale da parte del titolare del relativo diritto, ed il
consenso dell’autore, rendono legittimo l’ascolto da parte di soggetti
per mezzo di apparecchi riceventi, non parimenti accade quando il
brano è ascoltato da un pubblico presente in uno stadio, poiché qui si
esercita un diritto distinto dal precedente, quello di pubblica esecuzione che non è coperto dal consenso sopra indicato. In tal caso l’art.
58 l. aut. prevede che all’autore spetti il diritto ad un equo compenso.
La deroga operata da quest’ultimo articolo sembra quella confacente
al caso di specie, per cui si può immaginare che l’autore, dopo aver
composto i brani musicali, ed averli riprodotti su un supporto materiale e consegnati al committente, abbia autorizzato la loro diffusione
in occasione della prima partita di campionato. Per la prestazione, l’autore, infatti, ha ricevuto il rimborso delle spese per la riproduzione dei
pezzi musicali insieme ad un compenso per la loro esecuzione limitatamente a quell’occasione.
Se, però, il committente utilizza le canzoni in occasione delle altre partite di campionato, contribuendo in tal modo alla loro notorietà, arrivando a diffondere i brani anche nel corso di trasmissioni radiofoniche o televisive aventi ad oggetto la cronaca dei singoli match,
appare chiaro che il più ampio uso dell’opera musicale deve essere, in
primo luogo, autorizzato dall’autore, titolare dei diritti di diffusione
radio e televisiva ex art. 16 l. aut., al quale deve essere assicurata, in
secondo luogo, la partecipazione ai maggiori profitti derivanti dall’acquisita notorietà dei suoi brani musicali e dalla loro più ampia comunicazione ad un pubblico che supera quello degli affezionati tifosi della squadra di baseball. A quest’ultimo proposito si deve segnalare l’introduzione nel corpus della legge di alcune nuove disposizioni, intro-
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dotte in attuazione di direttive comunitarie, che hanno lo scopo di
garantire all’autore ancora più significativamente la partecipazione agli
utili derivanti dall’utilizzazione della propria opera, attribuendogli il
diritto non rinunciabile ad un equo compenso 37.
È chiaro che nel caso tratto dalla giurisprudenza americana la
mancanza della forma scritta ostacola la determinazione della reale
volontà dei contraenti, costringendo l’interprete ad individuarla attraverso il comportamento delle parti e le circostanze concrete, tra cui
rientra anche l’entità del compenso pattuito. Accertato che il lavoro di
composizione dell’autore è stato svolto non a titolo di amicizia, ma a
titolo oneroso, e atteso che non pare essersi realizzato alcun trasferimento dei diritti sui brani musicali, ma solo una licenza all’uso nella
specifica occasione della partita d’esordio del campionato, non potendosi configurare la presenza dell’autore alle successive partite come
acquiescenza all’ulteriore utilizzo della sua opera, a nostro parere, bisogna prendere in considerazione in particolare gli interessi concreti
dell’autore, dato che quelli del committente appaiono sensibilmente
più chiari. Ebbene, se l’autore intendeva limitare l’uso dei pezzi musicali composti alla sola partita d’esordio, e non desiderava, quindi, che
il suo lavoro creativo fosse più ampiamente comunicato nel corso delle altre partite di baseball, perché, magari, aveva intenzione di utilizzarlo personalmente in altro modo, vorrà vedere accertato il suo diritto esclusivo di comunicazione dell’opera ed, eventualmente, essere indennizzato per il danno subìto, appellandosi all’art. 119, comma 4, l.
aut. Se, viceversa, egli non era fin dall’inizio contrario ad una più ampia diffusione della sua opera, vorrà comunque che gli venga riconosciuta una quota dei maggiori profitti percepiti per la moltiplicazione
dell’esecuzione delle sue composizioni musicali e per la notorietà acquisita da una di esse, ai sensi degli artt. 12 e seg. l. aut. 38.
(37) Ci riferiamo, ad esempio, all’art. 46-bis l. aut., che riconosce agli autori di
opere cinematografiche il diritto irrinunciabile ad un equo compenso sia in caso di diffusione televisiva, sia per ogni altra utilizzazione economica. In analogia con quanto
affermato in precedenza con riferimento ad alcune disposizioni in materia di contratto
di edizione, siamo del parere che questa norma possa estendersi a tutte le opere dell’ingegno suscettibili di comunicazione al pubblico via etere, via cavo e via satellite.
(38) Se l’accordo tra le parti fosse stato regolarmente formalizzato in un atto
scritto, come prevede, peraltro, anche l’art. 110 l. aut., oltre al Copyright Act, e se
Albion avesse provveduto a registrare la sua opera, in base al nostro sistema egli avrebbe
potuto, qualora interessato, chiedere l’interdizione dall’ulteriore proseguimento della
diffusione dei suoi motivi (artt. 156 e seg. l. aut.) e agire per il risarcimento del danno;
sotto l’aspetto economico, sarebbe stato di certo maggiormente tutelato come autore
che si giova della presunzione scaturente dalla registrazione ex art. 103 l. aut. e che,
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b) Un caso simile, in quanto avente ad oggetto un’opera musicale, è quello che si riferisce alla causa Lulirama Ltd. Inc. v. Axcess Broadcast Services Inc. 39.
Un cantautore (attore) e un’agenzia di pubblicità (convenuta)
avevano concluso un accordo, per iscritto, che prevedeva l’incarico al
primo di comporre 50 jingles pubblicitari, destinati alla promozione
attraverso la radio e la televisione di un prodotto di un cliente dell’agenzia. Questa prometteva di pagare $750 per ciascun pezzo, per
un totale di $37.500, di cui un terzo alla stipula, ed il resto in quattro
rate.
Dopo diversi mesi, a fronte del corretto anticipo versato, il cantautore aveva consegnato meno della metà dei 50 pezzi pattuiti che,
tuttavia, avevano ricevuto l’approvazione dell’agenzia ed avevano cominciato ad essere diffusi tramite i canali radio e TV. Stanca di aspettare il resto del lavoro, l’agenzia diffidava l’autore a consegnare entro
breve termine il resto dei jingles dichiarando che, in mancanza, avrebbe chiesto la risoluzione del contratto e la restituzione della somma
anticipata. Nel frattempo, però, l’agenzia aveva pensato di sfruttare
nel settore discografico alcuni dei motivi già consegnati, per cui adattava i brani musicali e li riproduceva, lanciandoli sul mercato. A questo punto, nonostante il proprio parziale inadempimento contrattuale, Lulirama citava in giudizio l’agenzia per violazione del proprio diritto d’autore, in conseguenza del mancato rispetto di quanto concordato a proposito dell’uso dei suoi jingles. Il Tribunale si pronunciava
innanzitutto sulla questione della titolarità dei diritti patrimoniali d’autore, pur rilevando la sostanziale inadempienza dell’attore con riferimento all’accordo negoziale con la Axcess. I giudici stabilivano che
l’attore doveva considerarsi titolare dei diritti d’autore sui jingles consegnati e che l’elaborazione degli stessi operata dall’agenzia configurava una violazione di questi diritti, atteso che il committente, in forza
del contratto, era divenuto titolare di una semplice licenza d’uso non
esclusiva di quei jingles, con riferimento alla campagna pubblicitaria
di un determinato prodotto, attraverso la radio e la televisione.
Se si esamina la fattispecie alla luce del sistema normativo italiano, riteniamo che occorra porre al centro della questione, come nel
caso precedente, il principio di indipendenza dei diritti di utilizzazioconseguentemente, può azionare tutti gli strumenti messi a disposizione dalla legge
speciale per ottenere la giusta remunerazione per lo sfruttamento della propria opera.
(39) United States Court of Appeals, Fifth Circuit, 10 novembre 1997, in Copyright Law Decisions, 1998, § 27, p. 716 ss.; in vol. 44 United States Patent Quarterly,
second series, p. 1731 ss.
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ne economica, sancito dagli artt. 19, comma 1, e 119, comma 4, l. aut.,
al fine di valutare se la situazione verificatasi nel caso di specie sia con
esso compatibile.
E se è certamente in contrasto con detto principio elaborare
un’opera dell’ingegno destinata, ad esempio, alla pubblicazione editoriale, per riprodurla sotto forma di rappresentazione teatrale senza,
ovviamente, il consenso dell’autore, più difficile è stabilire se quell’opera possa essere utilizzata da un committente che l’aveva richiesta
per un determinato scopo, per un utilizzo diverso, che, però, si serve
del medesimo supporto materiale su cui l’opera è stata trasferita. Il
caso tratto dalla giurisprudenza americana riguarda, infatti, una più
ampia comunicazione, a scopo commerciale, di motivi musicali già trasferiti su supporto magnetico o discografico, e già diffusi, in ottemperanza agli accordi presi dalle parti, attraverso la radio e la televisione.
Per dirimere la questione è opportuno far riferimento alla ratio
perseguita dal legislatore nel porre quel principio che, se da un lato è
quella di favorire la più ampia comunicazione delle opere dell’ingegno, dall’altro lato – ed in maniera più forte, perché in armonia con
tutto l’impianto della legge n. 633/1941 – l’intento è quello di consentire all’autore di disporre dei propri diritti di utilizzazione in modo
differenziato, affinché egli li possa cedere o concedere a quei soggetti
che si rivelino più idonei alla valorizzazione dell’opera da lui creata.
Tra l’altro, è importante rilevare che il principio del frazionamento dei
diritti patrimoniali d’autore è accolto anche proprio da quegli ordinamenti anglosassoni, come quello statunitense, che sono particolarmente
attenti allo sfruttamento economico delle opere dell’ingegno 40.
Una volta fissata la ratio delle norme che sanciscono il principio
in argomento, appare più semplice valutare un caso della specie di
quello verificatosi negli Stati Uniti. Posto che il cantautore, in forza
del contratto, aveva senza dubbio concesso all’agenzia pubblicitaria la
facoltà di utilizzare i suoi jingles per la campagna pubblicitaria attraverso la radio e la TV, non è ragionevole pensare che abbia voluto
contestualmente autorizzare l’agenzia committente a rielaborare i suoi
brani musicali per riprodurli in migliaia di copie per la distribuzione
sul mercato discografico. L’agenzia pubblicitaria, una volta determinatasi a sfruttare i jingles anche in questo settore, doveva contattare
l’autore, commissionargli la rielaborazione, oppure sottoporgli quella
da essa realizzata per la relativa approvazione, e stipulare un nuovo
(40) Cfr. sul punto, HANSMANN-SANTILLI, Authors’ and artists’ rights: a comparative legal and economic analysis, in The Journal of legal Studies, 1997, p. 95 ss.
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contratto, con la previsione del diverso sfruttamento dei brani musicali modificati e, conseguentemente, di un ulteriore compenso per l’autore, sia in rapporto al lavoro di rielaborazione se da questi realizzato,
sia in rapporto alla quota da riservare allo stesso in funzione dei guadagni ottenuti e di quelli futuri provenienti dalla vendita dei dischi.
Su questa linea saremmo del parere di spingerci fino ad affermare che il comportamento dell’agenzia pubblicitaria sarebbe stato parimenti illegittimo se avesse utilizzato i jingles per la promozione del
medesimo prodotto, ma in occasioni di particolari tipi di conventions
commerciali, oppure attraverso la diffusione tramite altoparlanti all’interno dei negozi del cliente dell’agenzia, se ciò non era previsto nel
contratto e, dunque, non era coperto dalla relativa autorizzazione dell’autore 41. Questi, per converso, ben potrebbe gradire un più efficace
utilizzo della propria opera, purché ne sia reso partecipe in anticipo,
l’uso non leda la sua dignità e la sua reputazione, e sia realizzato sotto
la condizione di un più adeguato ritorno economico, rapportato ai
benefici economici ottenuti dall’imprenditore, cliente dell’agenzia.
Questa riteniamo sia la conclusione legittima conseguente alla
corretta interpretazione dell’art. 119, comma 4, l. aut., secondo cui, in
assenza di una espressa volontà del titolare dei diritti d’autore, manifestata in forma scritta, si deve ritenere che ciò che viene ceduto è
esattamente quanto indicato nel contratto, con l’esclusione di tutti gli
altri diritti che non sono necessariamente dipendenti da quanto oggetto dello stesso. Pertanto, se, rimanendo al caso in questione, appare
certo che il diritto di diffondere un’opera musicale mediante strumenti audio può essere ceduto separatamente dal diritto di riprodurla su
supporto audiovisivo, a nostro parere deve ritenersi separabile la possibilità di cedere la facoltà di diffusione della stessa opera musicale,
ma per fini diversi, quale, ad esempio, l’utilizzo come colonna sonora
di una trasmissione radiofonica o come stacco di intervallo tra una
trasmissione radio ed un’altra. Il principio è stato ribadito, di recente,
anche dalla nostra giurisprudenza proprio in occasione di una controversia riguardante opere musicali 42.
(41) Come nel caso Irwin v. American Interactive Media Inc., citato supra.
(42) Cass. 7 marzo 2001, n. 3282, in Mass. Foro it., 2001, in cui i giudici hanno
ritenuto che la radiodiffusione di opere tutelate (in specie brani musicali incisi su
disco) integra gli estremi dell’illecito civile se compiuta in assenza di autorizzazione
dell’autore e con diniego di corresponsione del dovuto compenso, atteso che la cessione del diritto di riprodurre su supporto discografico l’esecuzione di un’opera musicale non implica ex se la cessione del diritto alla diffusione radiofonica.
– 27 –
c) Esaminiamo ora un caso che ha riguardato la categoria degli
architetti (Johnson v. Jones) 43. Johnson, l’attore, un architetto, era stato assunto dal convenuto Jones per predisporre un progetto per la ristrutturazione della sua casa. Quando Johnson aveva già cominciato il
lavoro, al momento di sottoscrivere le clausole del contratto, le parti
non riuscivano a trovare un accordo, per cui decidevano di sciogliersi
da ogni impegno ed il committente riconosceva all’architetto un compenso in proporzione al lavoro fino a quel momento svolto. In seguito, Johnson scopriva che Tosch, un collega e costruttore, assunto da
Jones per completare il progetto, portava a termine l’incarico utilizzando anche il suo precedente lavoro 44. Tosch si difendeva affermando di avere una licenza non esclusiva ad utilizzare la bozza di progetto, in quanto a suo tempo essa era stata concessa a Jones e da questi
trasferita a lui. Applicando i criteri formulati dalla giurisprudenza nel-
(43) United States Court of Appeals, Sixth Circuit, 21 luglio 1998, in Copyright Law Decisions, 1998, § 27, p. 799 ss. Un caso analogo è quello Saxelbye Architects Inc. v. First Citizens Bank (United States Court of Appeals, Fourth Circuit, 3
novembre 1997, in Copyright Law Decisions, 1997, § 27, p. 697 ss.; in vol. 44 United
States Patent Quarterly, second series, p. 1634 ss.) in cui l’attore, architetto, preparava dei progetti commissionati e poi approvati dal convenuto e cominciava la supervisione dei lavori. Ad un certo punto, il convenuto chiedeva l’interruzione dell’attività dell’attore e pagava il professionista per quanto eseguito fino a quel momento.
Successivamente, la banca committente assumeva una società di architetti che, per
completare l’opera, pur differenziandosi dal precedente progetto, utilizzava i disegni dell’attore. Il Tribunale in primo grado rigettava la domanda dell’attore, in assenza di un accordo espresso indirizzato a vietare al committente l’utilizzo del lavoro, al quale andava riconosciuta – secondo i giudici – una licenza non esclusiva in
tal senso. In Appello la decisione veniva ribaltata argomentando che non era stata
offerta alcuna prova dell’esistenza di una licenza in proposito in capo alla banca.
(44) Un caso analogo, riguardante, però, un’opera letteraria è quello Oddo v.
Ries (United States Court of Appeals, Ninth Circuit, 19 giugno 1984, in Copyright
Law Decisions, 1984, § 25, p. 677 ss.; in vol. 222 United States Patent Quarterly, p. 799
e ss.) in cui l’editore Ries commissionava allo scrittore Oddo, fornendogli anche del
materiale documentale, un libro da pubblicarsi in esclusiva per la propria casa editrice. Dopo la consegna da parte dell’autore di una bozza del manoscritto, l’editore non
considerava soddisfacente il lavoro svolto e gli revocava l’incarico liquidandogli un
compenso inferiore a quello pattuito, ma tale, a proprio giudizio, da compensare l’autore per quanto fatto. Poco tempo dopo, l’editore incaricava un altro scrittore affinché completasse il libro, che veniva velocemente pubblicato, e che comprendeva anche il lavoro svolto da Oddo. Questi, allora, citava l’editore per violazione del proprio
diritto d’autore, sostenendo che non aveva concesso alcuna licenza all’utilizzo del lavoro precedentemente svolto su incarico dell’editore.
– 28 –
la decisione di casi analoghi precedenti 45, il Tribunale stabiliva che il
libero professionista non aveva trasferito, neppure implicitamente, alcuna facoltà d’uso sul lavoro svolto e che, pertanto, Tosch non era autorizzato a servirsene per portare a compimento il suo incarico.
Con riferimento alle opere di architettura che vengono create in
esecuzione di contratti d’opera professionale, valgono nel nostro ordinamento le medesime regole stabilite per gli altri tipi di opere dell’ingegno, compresa la disposizione dell’art. 110 l. aut. sulla necessità della forma scritta per la prova del trasferimento di diritti patrimoniali.
Non potendo contare su di essa, nel caso concreto sembra difficile
ipotizzare, alla luce del negativo esito del rapporto col committente,
che Johnson abbia voluto concedergli la facoltà di utilizzare il lavoro
già svolto per i medesimi fini per i quali egli era stato incaricato. È pur
vero che Jones gli aveva versato una somma per quanto da lui fatto nel
periodo in cui aveva svolto il lavoro, ma questo versamento non sembra potersi configurare come il prezzo della cessione della facoltà di
utilizzare i progetti fino a quel momento redatti, bensì semplicemente
quale corrispettivo per l’attività professionale svolta.
In merito, poi, alla sub-licenza, che pare configurarsi nel caso in
esame, nel nostro sistema vige l’art. 132 l. aut., pensato espressamente
per il contratto di edizione, secondo il quale l’editore non può trasferire ad altri, senza il consenso dell’autore, i diritti da lui acquistati,
salvo pattuizione contraria o cessione d’azienda, ed in tal caso purché
non vi sia pregiudizio alla reputazione o alla diffusione dell’opera.
Considerato che l’opinione della gran parte della dottrina attribuisce
portata generale ad alcune norme previste per disciplinare il contratto
di edizione, che sarebbero applicabili a qualsiasi contratto in cui si
disponga di diritti di utilizzazione 46, siamo dell’avviso che tra di esse
possa rientrare anche l’art. 132 l. aut., con la conseguenza che nel caso
in esame, anche ammettendo che Jones fosse divenuto titolare di una
licenza d’uso del lavoro di Johnson, l’utilizzo di questo da parte di
(45) Ci riferiamo al caso Effects Associates Inc.v. Cohen (United States Court of
Appeals, Ninth Circuit, 20 luglio 1990, in Copyright Law Decisions, 1990, § 26, p. 605
ss.; in vol. 15 United States Patent Quarterly, second series, p. 1559; e al caso Danforth
(formerly Effects Associates) v. Coen et al., Supreme Court of United States, 19 febbraio 1991, 498 US 1103, 112 L. Ed., second series, 1086; in vol. 59 United States Law
Decisions, pag. 3563 ss.) in cui il convenuto, produttore cinematografico, aveva stipulato verbalmente un accordo con l’attore, una società che realizzava effetti speciali,
per la creazione di una sequenza per un film che Cohen stava per produrre.
(46) Da ultimo v. AUTERI, op. cit., p. 607 ss.; MARTONE, op. cit., p. 122 ss.
– 29 –
Tosch sarebbe da considerare illegittimo, in mancanza di un espresso
consenso di Johnson, configurando una violazione del diritto d’autore.
d) Nel caso MacLean Inc. v. Mercer Meidinger Hansen Inc. 47, la
prima società veniva incaricata verbalmente dalla seconda di sviluppare un software che era destinato a soddisfare le necessità specifiche di
un cliente. Dopo aver accettato il lavoro svolto dalla società programmatrice ed aver corrisposto quanto pattuito, la Mac Lean si accorgeva,
di lì a poco, che il committente aveva prodotto delle copie del programma e le aveva messe in commercio su un mercato in cui le due
società erano, peraltro, in concorrenza. Il Tribunale stabiliva che l’accordo si limitava a concedere al committente una licenza tacita per
utilizzare l’opera solo per le esigenze di quel determinato cliente, e
che non vi era alcuna traccia, neppure verbale, di un’autorizzazione a
favore della Mercer in base alla quale questa società avrebbe potuto
sfruttare il software fino a fare delle copie di alcune parti per poi metterle sul mercato in concorrenza con la MacLean.
Nel nostro ordinamento, com’è noto, i programmi per elaboratore
godono della protezione prevista dal diritto d’autore in quanto assimilati alle opere letterarie 48, ma, al contempo, sono oggetto di un regime
speciale che in parte deroga a quello previsto dalla legge 633/1941.
Per quanto riguarda l’eventuale decisione di un giudice italiano, di
fronte ad un caso analogo a questo, dubitiamo che la conclusione sarebbe
stata differente. Con tutta probabilità, il giudice avrebbe potuto rilevare,
insieme alla violazione del diritto d’autore, anche un’ipotesi di illecito conseguente al mancato rispetto delle norme in materia di concorrenza.
e) Un altro caso del tipo appena esaminato è quello Gracen v.
Bradford Exchange 49, in cui la società convenuta, un distributore di
(47) United States Court of Appeals, Third Circuit, 31 dicembre 1991, in Copyright Law Decisions, 1992, § 26, p. 851 ss.; in vol. 21 United States Patent Quarterly,
second series, p. 1345 ss.
(48) Si tratta, com’è stato affermato (GUGLIELMETTI, L’invenzione di software,
Milano, 1996), di una fictio iuris, poiché, in realtà, i programmi in argomento si differenziano nettamente da tutti gli altri tipi di opere dell’ingegno per l’assenza di una
forma rappresentativa separabile dal risultato pratico che il prodotto intende raggiungere. In effetti, la scelta del legislatore è stata preceduta da un ampio dibattito dottrinale, per le cui diverse posizioni si rinvia a ZENO ZENCOVICH, Le leggi sulla tutela dei
programmmi per elaboratori in Italia e nel mondo, Padova, 1990; RISTUCCIA e ZENO
ZENCOVICH, Il software nella dottrina e nella giurisprudenza e nel d.lgs. n.518/1992,
Padova, 1993.
(49) United States Court of Appeals, Seventh Circuit, 12 gennaio 1983, in Copyright Law Decisions, 1983, § 25, p. 490 ss.; in vol. 217 United States Patent Quarterly, p.
1294 ss.
– 30 –
ceramiche da collezione, aveva ottenuto dalla nota major cinematografica MGM la licenza per utilizzare alcune immagini tratte dal celebre film “Il mago di Oz”, affinché fossero riprodotte su una serie limitata di piatti da conservare presso la propria sede. Allo scopo, la Bradford commissionava in esclusiva a Gracen, artista professionista nel
settore, il lavoro tecnico di realizzazione dei piatti per un compenso
concordato. Dopo che l’intera opera era stata consegnata ed accettata,
Gracen riproduceva la serie di piatti e li esponeva in varie occasioni,
con l’intento di dare maggior lustro e notorietà alla propria attività
commerciale, onde ottenere benefici riflessi sulla produzione di serie
destinata al mercato. A questo punto, la MGM e la Bradford citavano
in giudizio Gracen per violazione del copyright sulle immagini tratte
dal film, argomentando che l’attività posta in essere da Gracen doveva
considerarsi non creativa, ma semplicemente un “lavoro derivato”, il
cui diritto di utilizzazione spettava in esclusiva al committente. I giudici in primo grado davano ragione alla parte attrice, stabilendo che il
prestatore d’opera non poteva reclamare il diritto d’autore sul lavoro
commissionatogli. In secondo grado, il collegio rilevava, invece, che
sebbene Gracen non fosse titolare del diritto d’autore sulle immagini
del film riprodotte sui piatti, ciò non significava che non avesse il diritto di utilizzare il proprio lavoro, seppur al solo scopo di promuovere la sua attività artigianale. A sostegno di questo principio i giudici
segnalavano che dalle circostanze una persona di comune saggezza,
nei panni del committente, avrebbe potuto prevedere che il prestatore
d’opera avrebbe cercato di utilizzare il lavoro, essendo un artista professionista, e che lo avrebbe esposto per acquistare maggior credito
sul mercato. Pertanto, la Corte di Appello concludeva che, in base ai
fatti ed alla natura del lavoro, al prestatore d’opera poteva essere riconosciuta una licenza orale non esclusiva destinata a legittimare la riproduzione dei piatti al limitato scopo di fare pubblicità alla propria
produzione artistica di serie destinata al mercato.
Qui i giudici statunitensi, soprattutto quelli di secondo grado, si
sono spinti molto avanti sulla strada della interpretazione della volontà delle parti, andando anche al di là di quanto espressamente da queste concordato, fino ad arrivare a modificare i termini del contratto,
strada che, se può ritenersi praticabile in un sistema di Common Law,
non può essere ammessa in altri ordinamenti quale, ad esempio, quello italiano.
Premesso, pertanto, che il nostro interprete avrebbe dovuto basarsi sulla rigorosa interpretazione della volontà e degli interessi delle
parti, come emergenti dalla valutazione dei fatti e delle circostanze del
– 31 –
caso concreto, pensiamo che egli avrebbe rilevato come, in mancanza
di prova contraria, non potesse accertarsi che la Bradford aveva autorizzato Gracen a fare copie dei piatti, neppure per fini non direttamente commerciali. L’incarico mirava ad ottenere una collezione di
ceramiche che fosse unica, in modo da esporla al pubblico presso la
sede del committente così da dargli maggiore lustro, e pertanto un
uso ulteriore della stessa poteva compromettere il legittimo diritto del
committente di avere per sé la proprietà di esemplari unici.
Il caso può ritenersi analogo a quello dell’opera figurativa commissionata ad un artista, in cui l’interesse alla base del contratto è quello
del committente di avere la proprietà dell’originale per fruirne in un
ambito per così dire privato. Laddove l’artista, o una galleria d’arte o
un museo volessero renderla fruibile ad un pubblico più vasto, dovrebbero ottenere l’autorizzazione del proprietario.
Allo stesso modo, nel caso che ci occupa, il ceramista, volendo
esporre la propria opera a fini di promozione commerciale, avrebbe
dovuto, a nostro parere, chiedere la disponibilità della collezione di
piatti alla società proprietaria e, comunque, avrebbe dovuto evitare di
riprodurre la serie di ceramiche, atteso che tale attività si rivelava potenzialmente di disturbo per chi desiderava, come emergeva nella fattispecie, possedere un’opera originale unica. La sola possibilità per
l’artista esecutore di non incappare negli impedimenti previsti dalla
legge sul diritto d’autore poteva essere quella di farsi autorizzare espressamente, e per iscritto (art. 110 l. aut.), dal proprietario e dalla MGM,
titolare dei diritti di copyright sulle immagini del film, indicando esattamente il numero di copie che voleva eseguire e, soprattutto, lo scopo che intendeva perseguire. Ottenuto il consenso delle due parti, all’artista sarebbe stata trasferita la facoltà di copiare l’opera per quell’unico e preciso scopo indicato nel contratto, in ossequio al principio
fissato all’art. 119, comma 5, l. aut.
f) Uno dei casi più noti della giurisprudenza USA in materia, che
però, come vedremo, non sembra riconducibile alla tipologia in esame, in quanto contiene peculiarità tali da renderlo del tutto autonomo, è quello che ha dato origine alla pronuncia della Corte federale
sulla controversia Community for Creative Non Violence v. Reid 50, resa
famosa anche per aver individuato una serie di criteri atti a determina(50) Supreme Court of United States, 5 giugno 1989, in Copyright Law Decisions, 1989, § 26, p. 425 ss.; in vol. 10 United States Patent Quarterly, second series, p.
1985 ss. V. anche LEAFFER, Understanding Copyright Law, New York, 1999, p. 193 ss.;
GORMAN e GINSBURG, Copyright, Cases and Materials, New York, 2002, p. 263 ss.
– 32 –
re se un soggetto, a cui viene richiesta un’opera suscettibile di tutela
sotto il profilo del diritto d’autore, abbia agito all’interno di un contratto di lavoro autonomo, ovvero subordinato, criteri che sono andati
ad aggiungersi a quelli già fissati dall’art. 101 del Copyright Act 51.
La Community for Creative Non-Violence, un’organizzazione filantropica, ed un noto artista di nome Reid, si accordavano affinché
questi preparasse, a titolo oneroso, un progetto per una statua che,
seguendo gli indirizzi di base forniti dal committente, esprimesse il
dramma dei senza tetto, da chiamare “Third World America”, scultura
che Reid stesso doveva realizzare e che, una volta terminata, doveva
essere collocata presso la sede dell’associazione, a perenne ricordo del
problema in questione. La proprietà dell’esemplare veniva attribuita,
come previsto, al committente, mentre all’autore restava la titolarità
degli altri diritti di utilizzazione economica della scultura. Successivamente, l’autore chiedeva l’autorizzazione alla Community di accedere
all’opera per poter effettuare un calco per farne delle copie tridimensionali da mettere sul mercato. Dopo un primo rifiuto da parte dell’associazione, motivato dal fatto che l’accordo non conteneva alcuna
clausola circa il diritto d’accesso, l’autore riusciva nel suo intento e
cominciava a produrre delle copie della statua per fini commerciali. A
questo punto la Community for Creative Non-Violence lo citava in giudizio, argomentando che le copie della statua potevano considerarsi
legittime solo se diffuse per scopi sociali e per sensibilizzare la collettività sulla piaga dei senza tetto, mentre l’uso fattone dall’autore era in
stridente contraddizione con la ratio dell’accordo che era all’origine
del loro rapporto. L’uso profit fatto dall’autore delle copie dell’originale comprometteva, inoltre – secondo la tesi dell’attore – la propria
reputazione di organizzazione filantropica, poiché creava confusione
presso il pubblico, inducendolo a credere che anche la Community
fosse coinvolta nel commercio delle copie della statua.
A ben guardare, il caso di specie non può essere classificato tra
quelli in cui si controverte circa le facoltà d’uso concesse ad una delle
parti e l’eventuale violazione dei diritti patrimoniali d’autore.
(51) § 101 Definition of “work made for hire”.
A “ work for hire”
(1) a work prepared by an employee within the scope of his or her employment; or
(2) a work specially ordered or commissioned for use as a contribution to a collective work, as part of a motion picture or other audiovisual work, as translation, as a
supplementary work, as a compilation, as an instructional text, as a test, as answer material for test, or as an atlas, if the parties expressly agree in a written instrument signed
by them that the work shall be considered a work made for hire.
– 33 –
Siamo di fronte ad una fattispecie diversa e particolare. In primo
luogo, perché il contratto di commissione appare regolarmente eseguito ed ha spiegato i suoi effetti tra le parti, mentre la controversia è
nata in una fase successiva, dopo che le obbligazioni scaturenti dall’accordo sono state eseguite; in secondo luogo, perché il conflitto è
sorto in conseguenza di un comportamento posto in atto dall’autore
dell’opera in esemplare unico, ritenuto lesivo della reputazione del
committente, proprietario della stessa, e non, come in genere accade,
per un’azione del committente o del presunto titolare di una facoltà
d’uso; in terzo luogo, perché sembra implicare diritti di natura morale
oltre che patrimoniale. Sembra che sia stato costruito un diritto morale del committente, consistente nella tutela del suo onore e della sua
reputazione messi a repentaglio da un’utilizzazione dell’opera dell’ingegno, di cui è proprietario, da parte dell’autore, utilizzazione che, in
mancanza del presunto profilo lesivo, sarebbe stata legittima.
L’utilizzo commerciale fatto dall’autore nel caso di specie, alla
luce della normativa italiana, appare legittimato dall’art. 13 l. aut. sul
diritto di riproduzione e dal collegato art. 17 l. aut. che prevede il
diritto di distribuzione. L’ampiezza dell’esclusiva riservata all’autore
trova la sua giustificazione, come già detto, nell’intento del legislatore
di garantire inalterate le possibilità per il titolare di trarre vantaggio
economico dal frutto della sua creatività.
Il diritto morale, viceversa, che non può essere configurato che
in favore dell’autore e che non può essere oggetto di accordi traslativi,
tra le sue funzioni ha quella di conservare integra la reputazione dell’autore in rapporto alla corretta comunicazione a terzi dell’oggetto in
cui si materializza la sua creazione.
Non appare configurabile, perciò, un diritto morale del committente-proprietario di un’opera d’arte che possa essere esercitato e fatto
valere contro un uso della stessa da parte dell’autore che si rivela legittimo, perché una norma simile sarebbe dissonante rispetto alla ratio della
legge italiana sul diritto d’autore. Non potrebbe, pertanto, essere accolta la tesi della parte attrice, secondo cui l’attività dell’autore sarebbe
stata legittima solo se le copie della statua fossero state diffuse a titolo
gratuito o, comunque, per finalità sociali, perché ciò rappresenterebbe
una limitazione non consentita e neppure giustificata dei diritti economici riconosciuti all’autore ex artt. 13 e 17 l. aut., né parimenti potrebbe
ipotizzarsi una lesione della reputazione del committente nei termini
esposti, cioè derivante dall’utilizzo di un’opera dell’ingegno propria, e
conseguente ad un’attività legittima dell’autore, messa in atto senza alcun intento diffamatorio o lesivo dell’immagine altrui.
– 34 –
2) La rilevanza della forma scritta.
Abbiamo visto come nell’ordinamento statunitense, una volta che
l’opera d’arte è terminata, l’esecutore diventa titolare del complesso dei
diritti d’autore, di natura morale e patrimoniale, riconosciutigli dalla legge. Se il lavoro è stato eseguito su commissione, occorre che vi sia uno
strumento per far sì che il committente possa acquisire quelle facoltà necessarie per utilizzare l’opera d’arte secondo i suoi scopi, facoltà che, normalmente, sono appannaggio esclusivo dell’autore. Lo strumento previsto allo scopo è il contratto con cui l’autore, titolare di quelle facoltà,
trasferisce al committente uno o più diritti patrimoniali sull’opera tutelata, così da garantire a quest’ultimo lo sfruttamento legittimo della stessa
secondo gli interessi manifestati e che sono esplicitati nell’accordo.
Abbiamo rilevato che, nonostante la presenza dell’art. 204 del
Copyright Act, che stabilisce la necessità della forma scritta al fine di
una maggiore tutela del contraente più debole, cioè dell’autore, negli
Stati Uniti è prassi abbastanza diffusa concludere accordi orali per
trasferire diritti d’uso di un’opera dell’ingegno. È chiaro che questa
prassi, se soddisfa una esigenza di semplificazione della circolazione
giuridica di questi diritti, è suscettibile di generare un vasto contenzioso, se tra le parti sorgono dubbi circa l’interpretazione di quanto
trasferito, circa la somma pattuita, la decorrenza temporale e così via.
Ed in effetti non mancano i casi in cui si controverte sulla rilevanza della forma scritta del contratto traslativo, rilevanza che arriva
fino a determinare la legittimazione o meno ad agire per la difesa di
diritti patrimoniali di cui si assume di essere titolari.
Nel caso Rutenberg Homes Inc. v. Drew Homes Inc. 52, nel 1987 la
Chrisalis H. Associates, una società di costruzioni, incaricava un gruppo di architetti associati, Heise Group Inc., di progettare una serie di
abitazioni. Nell’errata convinzione che la situazione potesse rientrare
nei casi di attività creativa svolta in costanza di un rapporto di lavoro
subordinato, in cui i diritti patrimoniali d’autore spettano all’imprenditore ex art.101 del Copyright Act, le parti concordavano oralmente
che alla Chrisalis sarebbe spettata la proprietà dei progetti ed i diritti
esclusivi di utilizzazione. Convinta di essere divenuta titolare del diritto d’autore, la Chrisalis registrava l’opera presso il copyright office 53.
(52) United States Court of Appeals, Eleventh Circuit, 29 agosto 1994, in Copyright Law Decisions, 1994, § 27, p. 295 ss.; in vol. 31 United States Patent Quarterly,
second series, p. 1940 ss.
(53) Negli Stati Uniti la registrazione del diritto d’autore in genere è facoltativa,
ma costituisce requisito essenziale per far acquisire efficacia a quanto registrato nei
confronti dei terzi.
– 35 –
Nel 1990, accortasi che così come si erano svolti i fatti l’attività commissionata non poteva considerarsi eseguita in base ad un rapporto di
lavoro subordinato, e sapendo che l’assenza della forma scritta del
contratto poteva essere colmata attraverso un successivo accordo stipulato in conformità all’art. 204 54, la Chrisalis chiedeva ed otteneva
dalla controparte una dichiarazione in base alla quale questa le trasferiva la titolarità del proprio diritto d’autore con decorrenza retrodatata al momento dell’accordo verbale. In seguito, la Chrisalis vendeva i
diritti patrimoniali d’autore sui progetti all’attore Rutenberg, registrando presso il copyright office sia la scrittura tra Heise e Chrisalis, sia
quella tra Chrisalis e Rutenberg.
Questi, poi, citava Drew Homes, un architetto che avrebbe utilizzato a fini propri parte del lavoro a suo tempo predisposto per la Chrisalis per violazione dei diritti d’autore sull’opera che in quel momento
gli apparteneva. Homes opponeva che l’attore non aveva titolo per citarlo in giudizio, poiché Chrysalis non era titolare dei diritti d’autore
all’epoca della prima registrazione, atto che, dunque, era da considerarsi inefficace e, conseguentemente, Rutenberg non era stato mai investito dei diritti di utilizzazione sui progetti in quanto la Chrisalis,
dalla quale Rutenberg assumeva di averli ricevuti in forza di contratto
traslativo, non ne era mai divenuta effettivamente titolare e, pertanto,
Rutenberg non aveva legittimazione alcuna ad intraprendere un’azione giudiziaria fondandosi su quell’atto nullo.
I giudici, conformandosi alla precedente giurisprudenza che ha
per lo più deciso nel senso che l’atto scritto susseguente ha la funzione
di sanare l’accordo verbale precedente, con effetto retroattivo, statuivano che la Chrysalis era effettivamente divenuta titolare del complesso dei diritti patrimoniali d’autore in base al primo contratto e che,
pertanto, l’originaria registrazione da essa effettuata era pienamente
valida, cosicché anche Rutenberg possedeva la legittimazione ad agire
in giudizio per tutelare i diritti d’autore di cui era divenuto titolare in
forza della scrittura registrata con la Chrysalis.
Se un caso del genere fosse sottoposto alla decisione di un giudice italiano, riteniamo che egli potrebbe sposare le tesi in tema di trasferimento di diritti patrimoniali d’autore in questa sede precedentemente illustrate, con la conseguenza che, una volta accertata l’esistenza di un contratto, risulterebbe chiaro che la società costruttrice Chri(54) Per soddisfare il requisito ex art. 204, l’atto scritto deve essere stipulato
almeno entro il periodo previsto di durata del diritto o della licenza con lo stesso atto
trasferiti.
– 36 –
salis H. Associates, dopo aver accettato il lavoro commissionato al pool
di architetti, era divenuta titolare immediatamente, sebbene in funzione dell’accordo, dunque, a titolo derivativo, di quelle facoltà di utilizzo dei progetti che erano state oggetto del contratto tra le parti, purché, però, l’intento della Chrisalis di non limitarsi a veder realizzati
per sé i progetti commissionati, ma di voler vendere a terzi la disponibilità di utilizzo degli stessi, fosse stato fin dall’inizio manifesto. Nel
nostro ordinamento, infatti, sebbene limitatamente al contratto di edizione 55, è stabilita la necessità del consenso dell’autore alla cessione a
terzi, da parte dell’editore, divenuto negozialmente titolare, del diritto
di pubblicazione, e sempre che non vi sia pregiudizio alla reputazione
ed alla concordata diffusione dell’opera (art. 132 l. aut.). Se così non
fosse, a meno di poterlo dedurre dai fatti e di poter provare l’esistenza
del consenso degli autori dei progetti, attraverso, per esempio, una
dichiarazione del genere di quella sottoscritta dal gruppo di architetti,
bisognerebbe pensare, secondo l’id quod plerumque accidit, che la società costruttrice volesse ottenere una semplice licenza di uso dei progetti per realizzarli un’unica volta. Per chiarire i propri intenti, sarebbe stato sufficiente redigere un contratto scritto con le clausole di trasferimento dei diritti d’uso dei progetti e procedere, in seguito, a dare
opportuna pubblicità all’accordo per tutelarsi nei confronti dei terzi,
ai sensi degli artt. 103 e seg. l. aut.
Un’interpretazione ancora più rigorosa del disposto dell’art. 204
del Copyright Act era stata data nel precedente caso Konigsberg In.
Inc. v. Rice 56.
Nel corso di un’occasione conviviale, l’attore, un produttore cinematografico, si incontrava con la convenuta, una celebre scrittrice,
che gli confidava di avere intenzione di scrivere un altro libro. Stimando la scrittrice e quanto da lei pubblicato fino a quel momento, Konigsberg manifestava molto interesse per la notizia, tanto da offrirsi di
(55) Si è tuttavia visto come alcune norme del Capo II, Sezione III, sono applicabili per analogia a qualsiasi fattispecie traslativa di diritti patrimoniali d’autore.
(56) United States Court of Appeals, Ninth Circuit, 11 febbraio 1994, in Copyright Law Decisions, 1994, § 27, p. 214 ss.; in vol. 29 United States Patent Quarterly,
second series, p. 1789 ss. Sulla stessa linea, la pronuncia del caso Library Publications
Inc. v. Medical Economics Co. che riguardava la commissione e distribuzione sul mercato editoriale di un libro (United States District Court, E.D. Pennsylvania, 14 ottobre 1982, in Copyright Law Decisions, 1983, § 25, p. 500 ss.; in vol. 222 United States
Patent Quarterly, p. 605 ss.; United States Court of Appeals, Third Circuit, 29 aprile
1983, in United States Patent Quarterly, second series, p. 123 ss.).
– 37 –
commissionarle la nuova opera, per avere poi la possibilità di farne
una fiction da destinare alla televisione, oppure un film. La scrittrice si
dimostrava entusiasta dell’idea, tanto che accettava l’offerta senza, tuttavia, che l’accordo venisse in alcun modo formalizzato. Una volta uscito
il nuovo libro, il produttore rivendicava di avere un diritto di opzione
sulla diffusione dell’opera per la televisione e per il cinema, concessogli dalla scrittrice in forza dell’accordo concluso durante il pranzo. La
Rice, viceversa, si opponeva sostenendo che non era mai esistito alcun
accordo in proposito, e che nell’occasione si era solo accennato al progetto, mancando un vero e proprio scambio di volontà.
La richiesta dell’attore, che mirava all’accertamento del suo diritto di utilizzazione dell’ultimo lavoro della scrittrice per i fini indicati
fu respinta, perché egli non riuscì a provare l’esistenza di un accordo,
neppure orale, che comunque sarebbe stato inadeguato a trasferire i
diritti esclusivi in questione a suo favore, atteso che veniva violato il
disposto dell’art. 204 del Copyright Act. A distanza di più di tre anni,
la Rice scrisse una lettera al produttore in base alla quale confermava
l’esistenza dell’accordo verbale. Appena entrato in possesso della dichiarazione che, a suo parere, testimoniava il trasferimento ex tunc in
suo favore dei diritti di utilizzazione sull’opera scritta dalla Rice, il produttore reiterava la domanda, sostenendo che ora l’accordo doveva
ritenersi conforme all’art. 204.
Il collegio giudicante respingeva nuovamente la domanda del produttore, tracciando una distinzione tra la norma generale in materia di
annullabilità del contratto e l’art. 204 del Copyright Act, osservando
che questo stabilisce che il trasferimento del diritto d’autore non è
assolutamente valido in mancanza di un atto scritto, volendo indicare
che l’accordo orale è nullo e non può mai essere sanato ex post 57. Nel
caso della successiva lettera della Rice, il Tribunale concludeva che
essa non era sufficiente a far acquisire efficacia contrattuale alle dichiarazioni scambiate in occasione del pranzo e che, dunque, non era
(57) In realtà, interpretando una noma analoga a quella dell’art. 204 in materia
di contratti, la giurisprudenza americana è spesso andata nella direzione di considerare l’accordo semplicemente annullabile, e pertanto, sanabile, mentre la sentenza in
discorso mostrava un orientamento molto più rigoroso e sposava un’interpretazione
decisamente restrittiva della norma. I giudici, in questo caso, sottolinearono che l’art.
204 aveva una funzione più ampia della norma generale sui contratti, nel senso che
aumentava la certezza della titolarità del diritto d’autore, obbligando le parti a negoziare la divisione delle facoltà di utilizzazione dell’opera dell’ingegno ed a formalizzare la disciplina in un atto scritto, suscettibile di essere opposto ai terzi.
– 38 –
mai esistito alcun atto negoziale in grado di soddisfare il disposto dell’art. 204.
Nel caso Konigsberg i giudici hanno manifestato un’evidente ostilità nei confronti della forma negoziale non solenne, e la decisione aveva
tutta l’aria di stigmatizzare la diffusa prassi degli operatori di molti
settori orientata ad una certa superficialità ed ignoranza delle norme
sul diritto d’autore, in particolare della disposizione che impone la
forma scritta per questo tipo di atti 58. In dottrina la decisione è stata
criticata, per un verso, quale esempio di un’eccessiva rigidità per quanto
attiene al rispetto della forma dell’atto, e, per altro verso, di una certa
trascuratezza nella valutazione delle circostanze della fattispecie concreta. Non si capisce, si è detto, a quale scopo il produttore poteva
commissionare il libro alla scrittrice se non per creare un’opera da
utilizzare in esclusiva a fini cinematografici o televisivi, considerato
che questi erano i settori della sua unica attività professionale. Più difficile sarebbe stato, invece, arrivare a concludere, in mancanza di prove o di indizi di qualsiasi genere, che il committente desiderava acquisire anche un’opzione per l’utilizzo dell’opera per la rappresentazione
in teatro in forma di musical, ovvero che volesse riservarsi la possibilità di cedere a sua volta detti diritti ad un altro produttore.
In realtà, a nostro parere, se la giurisprudenza statunitense si orientasse verso il rafforzamento della pronuncia resa nel caso Konigsberg,
favorendo un maggior rispetto della norma del Copyright Act che impone l’atto scritto (più o meno contestualmente) alla conclusione dell’accordo, e verso il sostegno alla prassi di registrarlo subito dopo, si
arriverebbe certamente a limitare il tasso di conflittualità tra le parti, a
tutelare colui che risulta essere l’effettivo titolare del o dei diritti patrimoniali d’autore realmente trasferiti e, contestualmente, a garantire
al contratto l’opportuna pubblica fede nei confronti dei terzi.
Questi casi relativi alla rilevanza della forma scritta, considerati con
gli occhi dell’interprete italiano, acquistano una luce più decisa e meno
(58) In verità, il fatto che l’accordo fosse intervenuto tra le parti mentre erano a
tavola non significava che esso fosse di per sé inefficace, poiché laddove vi è pieno
accordo sulla sostanza dell’atto, la forma scritta non è stata considerata in molti casi
necessaria ai fini della certezza di quanto trasferito, almeno tra le parti. Per quanto
concerne i terzi, invece, avendo essi diritto a conoscere il contenuto dell’accordo intervenuto tra le parti, è stata prevista la registrazione presso il copyright office del
documento che attesta l’avvenuto trasferimento. In mancanza di questa forma di pubblicità dell’atto, infatti, i terzi possono ricevere concreto pregiudizio, come nell’ipotesi in cui siano indotti nell’errore di stipulare un contratto con il falso detentore dei
diritti di utilizzazione economica di una determinata opera tutelata da copyright.
– 39 –
ambigua, nel senso che la norma posta nel nostro ordinamento dall’art.
110 l. aut. riguarda chiaramente soltanto il profilo della prova dell’atto
negoziale, il quale è sicuramente valido ed efficace anche in assenza di
una forma scritta. Il problema dell’obbligo della forma scritta appare
semplificato, poiché il committente di una qualunque opera dell’ingegno acquista i diritti patrimoniali d’autore conformi con l’oggetto e lo
scopo del contratto immediatamente e direttamente al momento della
realizzazione dell’opera dell’ingegno, sempre che all’origine della vicenda si possa comunque accertare l’esistenza di un contratto qualsivoglia,
valido tra le parti, e che costituisce il presupposto indispensabile per la
trasmissione dei diritti in questione a favore del committente 59.
Tornando alla prassi giurisprudenziale statunitense, riteniamo che
la severa pronuncia sul caso Konigsberg abbia voluto scuotere quel
sistema verso una maggiore attenzione alla disciplina federale del diritto di autore, che, in effetti, appare in genere piuttosto modesta, soprattutto nel mondo del cinema e della musica, a differenza della prassi
italiana del settore, che, viceversa, si rivela molto più attenta e consapevole del quadro normativo in cui può muoversi, tanto da generare
un contenzioso decisamente più ridotto, anche considerando il rapporto con la mole di affari del grande paese d’oltreoceano 60.
La scrittrice, alla luce del principio di indipendenza dei diritti di utilizzazione ex artt. 19 e 119 l. aut., avrebbe potuto concedere al produttore
la sola facoltà di fare un film tratto dalla propria opera, ed attribuire ad
esempio ad un altro soggetto quello di farne un libretto per un musical,
conservando per sé ogni altro diritto patrimoniale e, dunque, la possibili(59) In contrario avviso segnaliamo una risalente sentenza della Suprema Corte,
Cass. 27 maggio 1957, in Giust. Civ., 1957, I, p. 2171 ss. con nota di SGROI, nella quale si
sostiene che l’imprenditore che abbia acquistato, grazie ad un contratto di prestazione
d’opera, il disegno di un cartello pubblicitario senza alcuna specificazione circa la sua
utilizzazione, ha il diritto di riprodurlo e diffonderlo liberamente, in qualsiasi forma,
poiché esso fa ormai parte del patrimonio della sua azienda, come strumento per la
diffusione dei suoi prodotti. In tale ipotesi, continua la Corte, egli non è tenuto a dare la
prova della trasmissione del diritto di utilizzazione ai sensi dell’art. 110 l. aut., atteso che
la ragion d’essere del contratto non è la trasmissione del diritto esclusivo dall’autore al
committente, bensì la prestazione d’opera, il cui risultato viene acquisito da quest’ultimo per l’utilizzo, senza alcun limite, se non quello delle finalità del contratto. Un contratto apposito sarebbe, al contrario, necessario, laddove il committente volesse fare
dell’opera commissionata un uso difforme dalla normale destinazione della stessa, ovvero, distante da quello che è l’oggetto principale della sua normale attività.
(60) Esiste, tuttavia, un’affinità tra i due sistemi, che è quella che concentra la
maggior parte del contenzioso relativo alla spettanza dei diritti di utilizzazione nell’ambito dei contratti di commissione di opere afferenti il mondo dello spettacolo e
dell’intrattenimento in genere.
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tà di concedere in futuro ad altri la facoltà di sfruttare il proprio lavoro
attraverso diversi mezzi di comunicazione e rappresentazione.
V. Conclusioni
L’esame della giurisprudenza statunitense in materia di diritto
d’autore induce a concludere che alla base del vasto contenzioso vi è,
fondamentalmente, una diffusa e scarsa conoscenza della disciplina da
parte degli operatori, soprattutto di quelli dei settori dello spettacolo
e dell’intrattenimento, intesi in senso lato. All’effetto indicato contribuisce in modo significativo la scarsa osservanza dell’art. 204 del Copyright Act, per la spiccata preferenza degli operatori ad evitare di trasferire in un accordo scritto quanto pattuito oralmente.
A costo di pagare un prezzo in termini di dinamismo e di rapidità nei rapporti commerciali, elemento su cui il sistema americano si
rivela tradizionalmente molto sensibile, sarebbe auspicabile, a nostro
giudizio, che la prassi statunitense si orientasse progressivamente verso una più diffusa applicazione della norma che impone l’atto scritto,
e che da parte della giurisprudenza vi fosse un comune e chiaro orientamento in tal senso.
Nell’ordinamento italiano la complessa materia dei diritti dell’autore appare sostanzialmente coerente ed esaustiva, caratteristiche che
non ha perso neppure a seguito dei numerosi aggiornamenti successivi indotti dal progresso tecnologico e dall’armonizzazione alla normativa comunitaria 61. L’impianto essenziale della legge si dimostra ancora valido ed efficace, in armonia con le disposizioni del codice civile
applicabili alla materia, soprattutto con riferimento ad alcuni principi
in questa sede più volte menzionati, quali quello della libera disponibilità del diritto d’autore, seppur con i ricordati limiti a tutela del soggetto contrattualmente più debole, dell’indipendenza dei diritti di utilizzazione e del trasferimento limitato allo scopo del contratto.
SERAFINO GATTI
(61) Sotto il primo profilo, si vedano le norme che disciplinano le opere televisive e audiovisive, e quelle multimediali che, grazie alla tecnologia digitale, riuniscono
su uno stesso supporto, (su CD ROM, o sulla memoria, o sui server di computers)
opere di generi e di mezzi espressivi diversi, collegandole ed amalgamandole in modo
da trattare o presentare secondo un progetto unitario un determinato argomento; sotto il secondo profilo, la disciplina delle opere di industrial design, i programmi per
elaboratore ed il regime delle banche dati.
– 41 –
REFLEXIONES PRELIMINARES SOBRE EL ARBITRAJE
EN LA LEY CONCURSAL (*) (**)
SUMARIO: I. Introducción. II. La Ley concursal y los Anteproyectos preparatorios. 1.
La Ley concursal. – 2. Los Anteproyectos de Ley concursal y la evolución del
régimen jurídico y de la práctica del arbitraje. – 2.1. Anteproyecto de Ley de
concurso de acreedores, del Instituto de Estudios Políticos. El movimiento a
favor de una nueva Ley de Arbitraje. – 2.2. Anteproyecto de Ley concursal de
1983. – 2.3. La “Propuesta” de Anteproyecto de Ley concursal de 1995. – 2.4.
Los Anteproyectos de Ley concursal de 2000 y 2001. – III. El Proyecto de Ley
concursal y su tramitación parlamentaria. – IV. El arbitraje en la Ley concursal.
1. Antecedentes. – 2. Efectos de la declaración de concurso sobre los convenios
arbitrales. – 3. Efectos de la declaración de concurso sobre los procedimientos
arbitrales en tramitación. – 4. Efectos de la declaración de concurso sobre los
laudos firmes. – 5. Las medidas cautelares. – V. El arbitraje en las “disposiciones finales” de la Ley concursal. – VI. El arbitraje en las últimas Leyes Orgánicas. – VII. Conclusiones a favor de una mejor consideración del arbitraje en los
procedimientos concursales.
I. Introducción
Nos proponemos en este breve ensayo una primera aproximación, limitada a los aspectos regulados legalmente, de la más vasta problemática que suscita la eventual confluencia, en la persona del deudor, de procedimientos concursales y arbitrales en el marco de nuestro renovado derecho concursal.
Se trata de un tema prácticamente inédito a la luz del derecho
anterior de la quiebra y de la suspensión de pagos, afrontado parcialmente por la reciente Ley 22/2003, de 9 de julio, concursal (en lo sucesivo LC). Por otro lado, la recientísima Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje (en lo sucesivo LA 2003), más flexible que las
anteriores. ofrece a los estudiosos una diversa aproximación al tema,
especialmente interesante en el ámbito de la LC, que obliga al intérprete a una integración de ambos sistemas normativos.
(*) Ley 22/2003, del 9 luglio 2003, “Concursal”.
(**) Trabajo destinado a los “Estudios en homenaje al Profesor Manuel Olivencia Ruiz”.
– 42 –
Partiendo del presupuesto de que las Leyes de arbitraje están
destinadas a regular los aspectos procedimentales, con exclusión de
las cuestiones de fondo, atribuidas a las leyes sectoriales correspondientes, las tres Leyes de arbitraje que se han sucedido a lo largo de
los cincuenta últimos años, no se hicieron eco de ninguna de las muchas cuestiones que suscita la declaración de concurso de un deudor
que, en su día, previsoramente, suscribió una cláusula arbitral, o que
incluso inició un procedimiento arbitral para beneficiarse de las técnicas extrajudiciales de solución de conflictos que propone la legislación arbitral.
Tampoco se planteó la cuestión la compleja, dispersa y obsoleta
legislación tradicional sobre la quiebra y la suspensión de pagos, dictada
en momentos en que la práctica del arbitraje no era habitual entre los
operadores económicos, por lo que el legislador no sintió el acicate de
resolver un problema realmente vivido en nuestra realidad socioeconómica, que ofrecerá nuevas y más numerosas manifestaciones propiciadas por la mayor difusión y arraigo del arbitraje entre nosotros, que
previsiblemente se intensificará con la entrada en vigor de la nueva
LA 2003.
Por lo demás, tampoco habría resultado tarea fácil para el legislador español incorporar a nuestro ordenamiento soluciones consolidadas en otros países de nuestro entorno, para ofrecer una solución
global al tema que nos interesa, utilizando las técnicas habituales de
derecho comparado, dado el carácter disperso y heterogéneo de nuestra ancestral normativa concursal, y el rígido régimen de arbitraje, que
ha sido objeto de una flexibilización progresiva.
La doctrina tampoco había mostrado interés por la problemática
que nos ocupa, por lo que el legislador no encontró un cauce ya preparado que le facilitara la toma de posesión del tema..
La primera referencia aislada hay que buscarla, en los trabajos
prelegislativos, preparatorios para una Ley concursal. Es de justicia
recordar también, en descargo del olvido del legislador, que los últimos cincuenta años de trabajos prelegislativos en materia concursal,
coincidieron con un período en que el arbitraje estuvo prácticamente
ausente de los hábitos de nuestros operadores económicos y que solamente a partir de la promulgación de la Ley 36/1988, de 5 de diciembre, de Arbitraje (en lo sucesivo, LA 1988), se liberó, en buena medida, el camino de los obstáculos que habían impedido tradicionalmente la difusión y el arraigo del arbitraje entre nosotros.
La mayor presencia de la práctica del arbitraje ha sido determinante para que el legislador concursal, al tomar definitivamente con-
– 43 –
ciencia de la necesidad de afrontar con rigor la realidad de las empresas
en crisis, promulgando una moderna Ley concursal, no ignorara que en
el momento de la declaración de concurso de un deudor, podía suceder,
como efectivamente sucedía, en la práctica, siempre con más frecuencia, que este deudor, consciente de las ventajas del arbitraje, hubiera
decidido resolver alguna de las controversias, en que eventualmente estuviera implicado, a través de las técnicas heterocompositivas de solución
de conflictos, para conseguir la efectividad de sus créditos y aliviar su
precaria situación económica, suscribiendo un convenio arbitral o iniciando la tramitación de un procedimiento de arbitraje.
Progresivamente, se dieron las circunstancias para que la concurrencia de la problemática de un deudor en crisis económica sujeto a
un procedimiento concursal, parte de una relación arbitral, alcanzara
reconocimiento a nivel legislativo. Ha sido, en efecto, la muy reciente
LC la que se ha hecho eco, entre nosotros, por primera vez, aunque
parcialmente, de la eventual incidencia de la declaración de concurso
sobre un arbitraje comprometido o en curso de desarrollo, en que estuviera implicado un mismo deudor.
La nueva LC tiene en su haber el mérito indudable de haberse
enfrentado, por primera vez, en nuestro ordenamiento, con el tema,
siendo ésta una de las grandes novedades aportadas, sin duda importante, aunque no haya afrontado la problemática en toda su extensión, como habría sido deseable. La LC dedica, en efecto, solamente
dos artículos, 52 y 53, a los efectos de la declaración de concurso sobre el convenio arbitral y sobre el procedimiento arbitral en curso.
Queda, sin duda, un amplio campo, que sigue abandonado, para que
el legislador del futuro, con la contribución de la doctrina y la utilización de las técnicas de derecho comparado, pueda recuperarlo para
dar mayor seguridad jurídica a quienes estén implicados en un procedimiento concursal, abriendo a la par nuevos cauces para que el uso
del arbitraje pueda contribuir a resolver algunas de las situaciones de
conflicto, que el procedimiento concursal, desde otra perspectiva está
también llamado a componer. La contribución de las técnicas arbitrales, con todas las ventajas que conocidamente se les reconocen, podría
propiciar la solución de tales conflictos, sin excluir el entendimiento
entre las partes y las soluciones pactadas. La recientemente promulgada LA 2003 contempla expresamente esta posibilidad, con la previsión de que los árbitros hagan constar, en forma de laudo. que las
partes han llegado a un acuerdo, al que se reconoce la “misma eficacia
que cualquier otro laudo dictado sobre el fondo del litigio” en los términos y con las limitaciones del art. 36.
– 44 –
La nueva LA 2003, basada en la autonomía de la voluntad de las
partes, constituirá un instrumento útil a tal propósito 1. Todo ello facilitado por la “flexibilidad que, también, inspira todo el procedimiento
concursal”, en el que se combina sencillez, con rapidez y simplicidad 2.
La concurrencia de ambos procedimientos, concursal y arbitral, que
tienen características comunes y que, en último término, persiguen
soluciones justas, en un marco que facilite la seguridad del tráfico,
podrá verse de algún modo facilitada.
En el presente ensayo, según el plan apuntado antes, nos limitaremos, en primer lugar, a un breve análisis de las iniciativas prelegislativas, en las que ya se detecta una incipiente y progresiva toma de
contacto con la problemática que nos ocupa, a partir del Anteproyecto
del Instituto de Estudios Políticos, finalizado en 1959, para cerrar, con
la exposición de la problemática en el marco de la LC, sin olvidar las
relevantes modificaciones, que ha provocado la reforma concursal,
sancionadas con rango de Ley Orgánica..
Al exponer el contenido de los trabajos prelegislativos, que acusan progresivamente la difusión de la cultura y de la práctica arbitral
del momento, subrayamos el esfuerzo realizado por las sucesivas comisiones, que han congregado a muchos de nuestros mejores juristas,
empeñados durante medio siglo en la tan difícil como necesaria tarea
de renovación de nuestro derecho concursal, con el propósito de situarlo de nuevo en el lugar que le corresponde de acuerdo con las
tradiciones nacionales.
En la elaboración de los sucesivos Anteproyectos de LC se evidencia la utilización de las técnicas de derecho comparado de las que,
también, se ha beneficiado el articulado de la propia LC. Lo recuerda
su E. de M. I, en la que se lee que “se han tenido en cuenta las aportaciones doctrinales y prelegislativas realizadas en el ámbito nacional y
las más recientes concreciones producidas en la legislación comparada, así como los instrumentos supranacionales elaborados para la uni-
(1) E. de M. LA: “La presente Ley parte en la mayoría de sus reglas que debe
primar la autonomía de la voluntad de las partes”, “las opciones de política jurídica
que subyacen a estos preceptos quedan siempre subordinas a la voluntad de las partes”. L. MUÑOZ SABATÉ, “El reglamento de la institución arbitral a la luz de la nueva
Ley de Arbitraje”, en Anuario. Justicia Alternativa. Derecho Arbitral, nº 5, 2004, pág.
49 y sigs. 50-51 se refiere a los “tres tipos de frases o sus equivalentes”, en que “la Ley
escenifica esta política”, “esa amplia autonomía de la voluntad que a borbotones surge de la Ley”.
(2) La E. de M. insiste no sólo en la “unidad”, sino también en la “flexibilidad
del procedimiento”, y de sus efectos, vid. II y III.
– 45 –
ficación y armonización en esta materia”, orientaciones que también
han estado presentes en la elaboración del “Proyecto de Ley”, sancionado como de LA 2003.
Coincide el inicio de una nueva, decisiva etapa del derecho concursal en España, con la promulgación de la LC y de la novísima Ley
de arbitraje, cuyo “principal criterio inspirador es el de basar el régimen jurídico español del Arbitraje en la Ley modelo elaborada por la
Comisión de las Naciones Unidas de la UNCITRAL” (E. de M., I).
En la preparación de los anteproyectos de ambas Leyes, la activa intervención del maestro M. Olivencia ha sido determinante, propiciada
por su proximidad y familiaridad con la elaboración de los instrumentos supranacionales para la unificación y la armonización del derecho 3.
(3) Vid. M. OLIVENCIA, UNCITRAL: Hacia un Derecho mercantil uniforme en el
siglo XXI, en RDM, nº 207 (1993), pág. 9 y sigs.; El tema de la insolvencia en la agenda
de UNCITRAL, en RDBB, 1997, pág. 411 y sigs.; Ley y disposiciones legales modelo
como instrumento de armonización y unificación internacional del derecho de la
insolvencia”,en Estudios de Derecho mercantil. Homenaje al profesor Justino F. Duque,
II, Valladolid, 1998, pág. 1655 y sigs.; Nacionalidad e internacionalidad del Derecho
mercantil, Discurso de recepción en la R.A. Sevillana de Legislación y Jurisprudencia,
y contestación de G. J. Jiménez Sánchez, Sevilla, 1993; y con anterioridad, La Comisión de las Naciones Unidas para el Derecho mercantil internacional (UNCITRAL):
Balance de un decenio (1968-1977), en Estudios de Derecho mercantil en Homenaje al
profesor Antonio Polo, Madrid, 1981, pág. 735 y sigs.; “La Convención de las Naciones Unidas sobre los contratos de compraventa internacional de mercaderías. Antecedentes históricos y estado actual”, en RDM, nº 201, 1991, pág. 377 y sigs. Sobre el
tema, en la bibliografía española, vid., también, R. Illescas, El derecho uniforme del
comercio internacional y su sistemática, en RDM, nº 207, 1993, pág. 37 y sigs., El derecho uniforme del comercio internacional: elementos de base, en Estudios de Derecho
Mercantil en homenaje al profesor Manuel Broseta Pont. II, Valencia, 1995, pág. 1781
y sigs., con especial referencia a la Ley-modelo UNCITRAL, sobre Arbitraje comercial internacional (págs. 1789-90); J. CARRASCOSA, La labor del UNCITRAL en la contratación internacional y su relación con otras experiencias de la codificación internacional, en España y la codificación internacional del Derecho Internacional privado, Madrid, 1993, pág. 97 y sigs.; y para una visión de conjunto, J.C. FERNÁNDEZ-ROZAS, La
unificación del derecho mercantil internacional en los procesos de integración económica: la experiencia europea, en La Ley Unión Europea, 30 septiembre 2003, pág. 1 y
sigs., en donde se subraya que, de un mercado globalizado, “la adopción de un instrumento de la UNCITRAL conlleva bastantes ventajas para los Estados que lo
incorporan... toda vez que los instrumentos por ella elaborados es una garantía de
certeza jurídica en las operaciones comerciales internacionales; se trata de una ventaja
indubitable para el Estado que lo adopta que, por este hecho, muestra a los comerciantes del mundo su buena disposición y flexibilidad internacional”.
– 46 –
Consideré, por ello, un auténtico privilegio que los coordinadores de los merecidos volúmenes en su homenaje, me asignaran un tema
a caballo entre los ordenamientos, concursal y arbitral, tan próximos a
su quehacer intelectual y profesional, al que intento corresponder con
estas primeras “reflexiones” sobre un tema que merece mayor atención.
Centrándonos en la normativa de la LC, analizaremos en particular los efectos de la declaración de concurso sobre los convenios arbitrales, sobre los procedimientos arbitrales en tramitación
(arts. 52.1 y 2 LC, en relación con los aps. 2 y 3 del art. 51), y sobre
los laudos firmes (art. 53). En materia de arbitraje de consumo,
analizaremos la disposición final trigésima primera de la LC, que
añade un nuevo ap. 4 al art. 31 de la Ley 26/1984, de 19 de julio,
para la Defensa de Consumidores y Usuarios, que privan de efecto
los convenios arbitrales y las ofertas públicas de sometimiento al
arbitraje de consumo formalizados por quienes sean declarados en
concurso.
También nos referiremos, dada su incidencia sobre nuestro tema,
a la disposición final décima, que reforma el art. 38, de la Ley General
Presupuestaria y la disposición final sexta, que reforma el art. 24, del
Texto Refundido de la Ley General de la Seguridad Social, aprobada
por RD legislativo 1/1994, de 20 de junio.
Nos ocuparemos, finalmente de la Ley orgánica 8/2003, de 9 de
julio, que modifica la Ley orgánica 6/1985, de 1 de julio, del Poder
Judicial, arts. 26, que crea los juzgados de lo mercantil, y añade un art.
86 ter, que declara la jurisdicción del juez del concurso “exclusiva y
excluyente”, en las materias que se elencan (art. 86 ter, 1. 1º) y en
particular la de los juzgados de lo mercantil en materia de arbitraje
(art. 86 ter, 2. g), cuyo contenido ha sido modificado por la Ley orgánica 20/2003, de 23 de diciembre, al remitirse al art. 8 de la nueva LA.
Aunque para la redacción inicial de estas páginas hemos tomado
en consideración la LA 1988, todavía vigente, hemos incorporado, también, durante su elaboración, referencias a la LA 2003, que regirá el
arbitraje entre nosotros, una vez concluida la vacatio legis, de tres meses, desde su publicación en el BOE (Disposición final tercera), esto
es desde el 26 de diciembre de 2003.
Para mantener nuestra exposición dentro de los límites establecidos, restringimos las referencias de derecho comparado a los ordenamientos más próximos. En particular al derecho italiano, cuya doctrina no ha dudado en calificar el tema de “muy complejo”, a falta de
regulación completa y sistemática, centrando especialmente su aten-
– 47 –
ción sobre la compatibilidad de ambos ordenamientos 4, y al derecho
y a la doctrina francesa relativa al “redressement” y a la “liquidation
judiciaire” 5, en los que hemos encontrado información interesante para
nuestra exposición.
Los laudos arbitrales de la CCI, constituyen un punto de referencia obligada para el análisis de muchas de las cuestiones más vivas
del derecho comercial internacional, y en particular de la materia que
nos ocupa. Como tendencia general de los laudos examinados cabe
señalar la prosecución del procedimiento arbitral iniciado con posterioridad a la declaración de concurso 6.
(4) V. entre otros, F. CARPI-E. ZUCCONI GALLI FONSECA, en Arbitrato, Commento
al titolo VIII del libro IV del Codice di procedure civile, a cura di F. Carpi, Bologna,
2001, pág. 89 y S. VINCRÉ, Arbitrato rituale e fallimento, Padova, 1996, pág. 8. Para
una primera exposición de conjunto, vid. A. BONSIGNORI, Arbitrati e fallimento, 2ª
ed., riveduta e aggiornata, Padova, 2000; y entre la numerosa bibliografía anterior, E.
CAPACCIOLI, L’amministrazione fallimentare di fronte all’arbitrato, en Riv.dir.proc., 1959,
pág. 549 y sigs.; P. CENSONI, Gli effetti del concordato preventivo sui rapporti giuridici
presistenti. Milano, 1988; A. BERLINGUER, L’arbitrato nelle procedure concursuali, en el
vol. L’arbitrato. Profili sostanziali, II, ed. G. Alpa, Torino, 1999, pág. 983 y sigs; C.M.
BARONA, Com. a Cass 14 ottobre 1992, n. 11216, en Foro it., 1993, col. 821 y sigs.,
Para los aspectos internacionales, vid. especialmente P. LALIVE-P.M. PATOCCHI, L’arbitrato e il fallimento internazionale, en el vol. Il nuovo diritto internazionale privato in
Svizzera, Milano, 1989, pág. 323 y sigs; D. DI GRAVIO, Questioni sulla compatibilitá
del fallimento nazionale con l’arbitrato internazionale, en Il dir. fall., 1984, II, pág.
1001 y sigs. Para una amplia exposición de derecho comparado, vid., especialmente,
V. LAZIC, Insolvence Proceedings and Comercial Arbitration, The Hague, 1998. En las
exposiciones españolas son frecuentes las referencias a tales ordenamientos nacionales, siguiendo el tradicional interés de la doctrina española por el derecho comparado. vid. p. ej. J. PULGAR, La reforma del derecho concursal comparado y español Los
nuevos institutos concursales y reorganizativos; Madrid, 1994.
(5) Cfr. P. ANCEL, Arbitrage et procédures collectives aprés la loi du 25 janvier 1985,
en Revue de l’Arbitrage, 1987, nº 2, pág. 127 y sigs. Para la situación anterior a la reforma,
vid. del mismo autor, Arbitrage et procédures collectives, en Revue de l’Arbitrage, 1983,
pág. 255 y sigs. V. PH. FOUCHARD, Arbitrage et faillite, en Revue de l’Arbitrage, nº 3, 1998,
pág. 471 y sigs., especialmente pág. 473; F. KNOEPFLER-PH SCHWEIZER, Les mesures provisoires et l’arbitrage, en AA.VV. Recuel de travaux suisses sur l’arbitrage international, Zurich, 1984, pág. 221 y sigs.,; G. DE LEVAL, La juge et l’arbitre. Les mesures provisoires, en
Revue de Droit International et de Droit Comparé, 1993, pág. 5 y sigs; B. AUDIT., L’arbitre,
le juge et la Convention de Bruxelles, en el vol. L’internationalisation du droit. Mélanges en
l’honneur d’Ivon Lousouarn, París, 1994, pág. 15 y sigs.
Para un examen más detenido deben tenerse en cuenta las numerosas notas y
comentarios jurisprudenciales, con frecuencia de gran interés, publicadas, entre otras,
en la siempre interesante Revue de l’Arbitrage.
(6) Vid. F. MANTILLA-SERRANO, International Arbitration and Insolvency Proceedings, en Arbitration International, 1995, 11, nº 1, pág. 51 y sigs. que recoge diversos
laudos de la CCI.
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II. La Ley Concursal y los Anteproyectos preparatorios.
1. La Ley Concursal. La Ley 22/2003, de 9 de julio, Concursal, ha
constituido un acontecimiento de singular relevancia en nuestro panorama legislativo, dando cumplida satisfacción a “una aspiración
profunda y largamente sentida en el derecho patrimonial español” (E.
de M., I) 7.
En el ámbito del arbitraje internacional, es tendencia de los árbitros operantes en
el ámbito del comercio internacional el proseguir un arbitraje a pesar de la situación de
liquidación de la demandada, debido a que el procedimiento concursal fue iniciado con
posterioridad al procedimiento arbitral. Vid., entre otros, los Laudos nº 2139 de 1974,
en Collection of ICC Arbitral Awards, 1974-1985, I, S. JARVIN, Y. DERAINS, DEVENTER
(The Netherlands), 1990, pág. 236 y sigs; nº 4415 de 1984, op. cit., pág. 530 y sigs.; nº
6057 de 1991, en Collection of ICC Arbitral Awards, 1991-1995, I, S. JARVIN, Y. DERAINS,
D. HASCHER, DEVENTER (The Netherlands), 1997, pág. 487 y sigs.
En cuanto a las notificaciones y a la representación en el procedimiento arbitral, cuando una de las partes se encuentra sometida a un procedimiento colectivo, el
Tribunal arbitral en el caso nº 7205 de 1993 declara, “el respeto necesario, por parte
de los árbitros, de las normas de carácter imperativo del derecho aplicable al procedimiento concursal”, en Collection of ICC Arbitral Awards, 1991-1995, I, S. JARVIN, Y.
DERAINS, D. HASCHER, DEVENTER (The Netherlands), 1997, pág. 623 y sigs.
(7) Así, para citar, al margen de los mercantilistas, que vienen reclamando desde hace más de medio siglo la reforma, un civilista atento a los problemas que preocupan a los mercantilistas, Fernando Pantaleón, prologando la excelente monografía de
J.M. FINEZ RATÓN, Los efectos de la declaración de quiebra en los contratos bilaterales,
Madrid, 1992, págs. 17 y 18, se lamentaba de la “enorme dificultad de los problemas
analizados”y se preguntaba “¿hasta cuando seguirá el Anteproyecto de Ley Concursal durmiendo el sueño de los justos, y en vigor una regulación de la quiebra que sólo
cabe calificar de absolutamente impresentable?”. El prologuista acierta al subrayar
que el autor traza “un panorama prácticamente exhaustivo de los efectos de la declaración de la quiebra sobre los contratos bilaterales en curso, bajando al detalle de los
diferentes tipos de contrato”, aunque desafortunadamente, cabría añadir, escapa a su
atento examen el contrato de arbitraje, en toda su extensión, concurrente con la tramitación de un concurso.
Las tomas de posición de los mercantilistas, durante el último siglo, todas en la
misma dirección, son incontables. Baste citar algunos ejemplos significativos, en momentos distantes. Así, p.e. los maestros J. GIRÓN, Introducción (Temario para una encuesta), en Estudios sobre el Anteproyecto de Ley Concursal, Rev. de la Facultad de
Derecho de la Universidad Complutense, nº 8, monográfico, 1985, págs. 7 y sigs.: afirma “que es tiempo de reformas para el Derecho concursal español casi suena a sarcasmo” y que el estado actual de la legislación concursal es la de “un crucigrama legislativo”. El maestro A. MENÉNDEZ, Notas sobre la reforma del derecho concursal, en Anales de la Real Academia de Jurisprudencia y Legislación, nº 25 (1995), pág. 183, entiende que “nuestro derecho concursal permanece como un malogrado y desgraciado
islote en el panorama jurídico mercantil español”; “Breves reflexiones sobre la reforma del derecho concursal”, en el vol. Homenaje a José María Chico y Ortiz, Madrid,
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(segue nota 7)
1995, pág. 1315 y sigs.; vid., también, Sobre la reforma del derecho concursal y el apoyo
de los estudios económicos, en RCGAE, 1994, pág. 6 y sigs., y muy recientemente, “La
unidad del nuevo derecho concursal”, en Anales de la Real Academia de Jurisprudencia y Legislación, nº 35 (2003), pág. 165 y sigs., en donde subraya la consecución de la
“unidad legislativa” y de “unidad de sistema”. Para J. BISBAL, La insoportable levedad
del derecho concursal, en RDM, nº 214 (1994), pág. 843, “el derecho concursal español
es la pieza más ineficiente de cuantas componen nuestro derecho mercantil”.
El maestro M. Olivencia, ha participado, de forma destacada y constante en los
trabajos para la reforma del derecho concursal español, de la que quedan testimonios,
desde su lejana intervención en el Real Colegio de España en Bolonia, en el marco del
Instituto de Derecho Comparado Ítalo iberoamericano, en 1962, con una amplia disertación sobre “El movimiento de reforma del Derecho concursal español”, que tuve
la oportunidad de reseñar, bajo el título general “Tres mercantilistas españoles en
Bolonia”, en RDM, nº 85 (1962), págs. 84 y sigs., 99 a 104, en la que afirmaba que el
“movimiento de reforma... es hasta ahora, un deseo, una corriente de opinión que
transcurre en nuestra Patria desde hace muchos años en el plano doctrinal, pero que
en el plano positivo sólo ha alcanzado la concreción que significa un Anteproyecto de
Ley elaborado por la Sección de Justicia del Instituto de Estudios Políticos, y terminado de redactar en el año 1959”. Se trató, probablemente, de su primera ocasión de
“predicar la reforma”, como ha escrito en más de una ocasión. El curso siguiente se
ocupó del tema de la quiebra, también en Bolonia, desde la perspectiva de un civilista, el profesor A. GARCÍA VALDECASAS, con una conferencia sobre “Insolvencia civil y
mercantil” (vid. nuestra reseña, Dos conferencias del profesor Alfonso García Valdecasas, en Bolonia, en ADC, 1964, I, págs. 120-124). El profesor Olivencia. seguiría predicando en las numerosas publicaciones colectivas a favor de un nuevo derecho concursal, así en La suspensión de pagos y la quiebra en el Código de Comercio, en Centenario del Código de comercio, vol. primero, Madrid, 1986, y sigs., en el que concluía:
“Quizás en ningún otro sector del Derecho se haya escrito más ‘de lege ferenda’, y
nada nuevo voy yo a descubrir ahora desde este mirador del centenario, sí intento,
una vez más predicar la reforma. En el estudio Los sistemas económicos y las soluciones jurídicas del estado de crisis empresarial, publicado en el vol. La reforma del Derecho de quiebra, Madrid, 1982, pág. 103 y sigs., subrayaba la importancia del derecho
comparado en la reforma y la urgencia de las soluciones legislativas. En las Jornadas
sobre la reforma de la legislación mercantil, publicadas en Madrid, 1979, disertó sobre
“El Derecho concursal: modernas orientaciones y perspectivas de reforma”, pág. 315
y sigs, refiriéndose al movimiento de reforma a partir de 1976; responde a las mismas
preocupaciones su Planteamiento en la reforma concursal en el Derecho español y en el
Derecho comparado, publicado en los Estudios sobre el Anteproyecto de Ley Concursal,
cit., pág. 29 y sigs., situando la reforma en el marco de las tendencias del moderno
Derecho. La reforma del derecho concursal (El largo ‘ante’ de un proyecto), en Anales
de la Academia Matritense del Notariado, T. XII, 1998, pág. 29 y sigs. Debemos subrayar además, muy especialmente, su constante y decisiva participación directa en las
tareas prelegislativas sin olvidar su atento seguimiento a lo largo del iter parlamentario hasta la promulgación de la Ley 22/2003, de 9 de julio, que colmó “la ansiada
reforma”, calificándola de “la pieza pendiente más significativa en el proceso de modernización de todo nuestro derecho patrimonial” (prólogo a la 6ª ed. de Derecho
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Con la nueva LC, uno de los textos legales vigentes más importantes desde la promulgación de los grandes Códigos, se ha iniciado
una nueva etapa de estudios de derecho concursal, en la que se anuncia la publicación de una revista especializada 8, varios comentarios
científicos y un sin fin de estudios monográficos, algunos de índole
marcadamente práctica. Los presentes volúmenes dedicados al maestro Olivencia, constituirán, desde el momento de su publicación, un
punto de referencia obligado. Todos ellos facilitarán la recta interpretación y aplicación de la LC a la realidad efectiva, el auténtico banco
de pruebas de la bondad de toda Ley. Y lo será, en particular, para la
nueva LC, una Ley compleja, que irradia su influjo a todo el ordenamiento jurídico, en el que debe acoplarse, sin sobresaltos significativos, en un sector de nuestra realidad económica y social particularmente sensible, como es el de las empresas en crisis en el mundo globalizado de nuestros días.
Mercantil, coord. GUILLERMO J. JIMÉNEZ SÁNCHEZ, Barcelona, 2000, pág. XIV). La preocupación por el tema está presente desde sus primeros trabajos La compensación en
la quiebra y el art. 926 del Código de Comercio, en ADC, 1955, pág. 805 y sigs.; Ius
variandi del titular de la acción cambiaria en caso de quiebra del demandado, en ADC,
1960, I, pág. 271 y sigs. y Publicidad registral de suspensiones y quiebras, Madrid, 1963,
sin mencionar otros varios estudios en materia concursal, no siempre de fácil localización y que muy oportunamente son objeto de recopilación y publicación sistemática
en los varios volúmenes de sus “Escritos jurídicos”, de inmediata aparición.
Para una sintética e informada referencia del movimiento de reforma del derecho concursal, vid. L. VACAS MEDINA, Consideraciones sobre el pasado, el presente y el
futuro de la reforma concursal, en La Ley, 1991, 1, pág. 940 y sigs., que destaca el II
Congreso Nacional de Derecho procesal de 1953, la Encuesta abierta en el Congreso
de Abogados de Madrid, en 1955 y las reuniones XI, XII y XIII de Profesores de
Derecho procesal de 1976 y 1977 en las que se llegó a presentar parte de un proyecto
de Ley Concursal y se redactó por el Colegio de Abogados de Barcelona un importante proyecto. En el V Congreso de la Abogacía española de 1989 se solicitó la aprobación de una nueva Ley concursal. Vid. ult. J.L. VÁZQUEZ SOTELO La situación caótica
y ‘laberíntica’ de la legislación concursal española, necesidad y aciertos de la nueva Ley
concursal (1), en La Ley, nº 5856, sept. 2003.
Una breve referencia al “movimiento de reforma del derecho concursal español”
redactada por J.M. VIGUERA RUBIO, Derecho Concursal mercantil: concepto y evolución
histórica, puede verse en el cap. 82 del Derecho Mercantil, coord. por GUILLERMO J.
JIMÉNEZ SÁNCHEZ, Barcelona 2000, 6ª ed., págs. 704-706.
(8) Nos referimos a la Revista de Derecho Concursal, de aparición semestral,
con un Consejo de Redacción, presidido por Angel Rojo, Vicente Montés como Vicepresidente, y Emilio Beltrán y Javier Orduña, directores.
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2. Los Anteproyectos de LC y la evolución del régimen jurídico y
de la práctica del arbitraje. El conocimiento de los Anteproyectos de
LC, redactados por sucesivas Comisiones designadas ad hoc ofrece gran
interés. Constituyen una muestra representativa de los avances en el
sector, y de la recepción de los modelos en circulación, y son de consulta obligada por su contribución a la interpretación del texto vigente. Ofrecen también interés las enmiendas parlamentarias discutidas
durante el iter del Proyecto de Ley.
Para valorar en sus justos términos la presencia del Arbitraje en
los Anteproyectos de reforma concursal, conviene recordar que el régimen jurídico del arbitraje sólo alcanza un “reforzamiento del modelo unitario, civil, procesal e interno”, con la Ley de 23 de diciembre de
1953, de Arbitraje de Derecho privado (en lo sucesivo LAP), operado
con la derogación de los arts. 1.820 y 1.821 del Código civil, y de los
arts. 790 a 839 de la Ley de Enjuiciamiento Civil (en lo sucesivo LEC) 9.
Pero aun cuando la LAP “supuso un innegable avance sobre la
situación existente con anterioridad”, se pudo afirmar, con fundamento,
que aquélla Ley no servía “para solucionar mediante instrumentos de
composición arbitral las controversias que surgen en el tráfico mercantil, ni menos aún para las que surgen en el tráfico mercantil internacional” (E. de M. LA 1988).
La LAP, claro ejemplo legislativo de la época autárquica en que
fue promulgada, obra de un legislador que ensalza “la labor augusta
del Juez, como órgano de la soberanía del Estado”, de clara impronta
judicialista, tuvo escaso éxito en la práctica, al punto de ser calificada
de “Ley contra el Arbitraje” 10, y no contribuyó a la difusión y al arraigo del Arbitraje en España, de hecho muy escasa en el momento que
se inicia la elaboración de los Anteproyectos de Ley concursal.
En los apartados siguientes apuntaremos la progresiva presencia
del arbitraje en los sucesivos Anteproyectos de Ley concursal, deriva(9) Vid. especialmente, también para los antecedentes, la exposición panorámica muy cuidada de M. OLIVENCIA, El arbitraje mercantil. (Ensayo de una justicia alternativa), en el volumen Perspectivas jurídicas actuales. Homenaje a Alfredo SánchezBella Carswell”, Madrid, 1995, pág. 589 y sigs. en particular págs. 603 y 604, que es de
augurar sea reproducida, para su mayor difusión, en sus “Escritos Jurídicos”, de pronta
publicación.
(10) A. REMIRO BROTONS, Ejecución de sentencias arbitrales extranjeras. Los Convenios Internacionales y su aplicación en España, Madrid, 1980, pág. 21, afirma que la
LAP reguló un “arbitraje rígido, solemne y demasiado formal y poco operativo, desprovisto de aquellas cualidades que de él habitualmente se predican” y añade que
“bien podría decirse que fue más una Ley contra el arbitraje que una ley de arbitraje”.
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da de la creciente cultura arbitral y de la difusión de la práctica del
arbitraje entre nosotros, propiciada por los requerimientos de los operadores económicos en una economía siempre más abierta a los tráficos mercantiles internacionales.
2.1. Anteproyecto de Ley de concurso de acreedores del Instituto
de Estudios Políticos (IEP). El movimiento a favor de la promulgación
de una nueva Ley de Arbitraje. El inicio de los trabajos presididos por
el profesor J. Garrigues, encaminados a la redacción de un Anteproyecto de Ley de concurso de acreedores, en el seno del IEP, que
nunca llegó a presentarse al Gobierno ni a publicarse oficialmente 11,
(11) Una primera referencia sobre el contenido del Anteproyecto de IEP, en la
conferencia de M. OLIVENCIA, El movimiento, cit., pág. 99-104, en donde se lee que
“La comisión redactora quiso siempre, y sigue deseando, la publicación del texto con
el fin primordial de oír una crítica autorizada y desapasionada”. Recuerda L. Vacas
Medina, Consideraciones, loc. cit., pág. 941 que “concluido el Anteproyecto en 1959,
fue entregado al Ministro de Justicia, Iturmendi, pero no llegó a ulteriores trámites
por claras razones políticas, de alcance internacional, motivadas por la reclamación al
Gobierno español, por parte del Gobierno belga, preparatoria de la corres-pondiente
acción ante el Tribunal Internacional de Justicia de La Haya, basada en una pretendida denegación de justicia de los Tribunales españoles a súbditos belgas, en un sonado
juicio universal de quiebra”. Es de justicia recordar que el caso de la “Barcelona Traction Light & Power, Lted.”, un litigio internacional, que ha sido considerado, “la más
famosa quiebra del siglo”, (J.D. GONZÁLEZ CAMPOS, Aspectos internacionales de la situación concursal”, en el vol. La reforma del derecho de quiebra. Jornadas sobre la reforma del derecho concursal español, Madrid, 1982, pág. 329); v. también J.A. PASTOR
RIDRUEJO La faillite en droit international privé en Recueil des Cours, Academie de D.I.
de La Haye T. 133 (1971-1), pág. 135 y sigs., movilizó gran parte de nuestros mejores
juristas y dió lugar a publicaciones de relevante interés académico en torno a la concepción misma de la quiebra, algunos en forma de “dictámenes”, e incluso a enfrentamientos que pudieron “poner en peligro la unidad de la Escuela”, aunque “nunca
llegó a producir este resultado”, (vid. A. MENÉNDEZ, Sobre la moderna Escuela Española
de Derecho Mercantil, Madrid, 1993, págs. 40 y sigs. en especial págs. 42-44).
Ante un conflicto internacional en este campo hoy se habría planteado, con
toda probabilidad, la posibilidad de ser sometido a arbitraje, para ser resuelto por
esta vía, con todas las ventajas bien conocidas, lo que, a mi conocimiento, no se planteó en ningún momento durante la enconada pugna en defensa de intereses encontrados, lo que no deja de ser significativo del clima del momento, poco propicio a las
soluciones arbitrales. En la práctica actual, numerosos laudos, dictados de acuerdo
con el Reglamento de la CCI, muestras la frecuencia con que las partes, en caso de
conflicto, en el supuesto que nos ocupa, prefieren acudir a las técnicas extrajudiciales
de solución de conflictos, vid. nota 6 anterior.
El Anteproyecto del IEP suscitó algún interés doctrinal, vid. G.J. JIMÉNEZ SÁNCHEZ, Ante una posible reforma del Derecho concursal español. Discurso de apertura del
curso académico 1978-1979 en la Universidad de Sevilla, Sevilla, 1978, pág. 21 y
– 53 –
a pesar de los requerimientos de la doctrina, coincidió con la promulgación de la LAP 1953, conocidamente inspirada muy directamente
por el profesor J. Guasp. La LAP, a pesar de su escaso éxito en su
proyección práctica, suscitó interés y dió origen a una abundante literatura, conocida, sin duda, por los maestros que formaron parte de la
Sección redactora del Anteproyecto del IEP, entre los que figuraban,
desde el primer momento, además del profesor. J. Guasp, el profesor
Federico de Castro, y don Manuel de la Plaza, a la sazón, Magistrado
del Tribunal Supremo y el autor de estas “reflexiones”. Posteriormente se incorporaron a la Sección P. Cabanillas, L. Díez-Picazo, M. Olivencia y L. Vacas Medina.
El profesor J. Guasp 12 escribió por aquellas fechas que “colocado frente al arbitraje, no existe ningún grupo de juristas que no reaccione vivamente, a favor o en contra”, añadiendo que según como se
manifieste “habremos descubierto sus últimos pensamientos, metafísicos, más que dogmáticos, sobre lo que el derecho verdaderamente
deba ser”.
sigs; vid. también, PÉREZ GORDO, Ideas para un nuevo Derecho concursal, en Rev. Jur.
Cat., 1981, pág. 885 y sigs.; A. ROJO, Notas para la reforma de la legislación concursal,
en RDM, nº 138, 1975, pág. 513 y sigs. Muy crítico, J. TORRES DE CRUELLS, Nota crítica
a un Anteproyecto de Ley Concursal, en Rev. Jur. Cat., 1959, pág. 747 y sigs. señala
numerosos “defectos... que bastan para dejar acreditado que, a pesar de la indudable
buena voluntad de quienes lo redactaron y su acreditada competencia, su obra, como
todas las humanas, no es perfecta. No lo es -añade- porque le han dado un tinte de
Escuela que aleja de la realidad de lo que sucede cada día en la vida de las Empresas
y en la práctica de los Tribunales”. Para una minuciosa exposición del contenido del
Anteproyecto del IEP, vid., especialmente, L. VACAS MEDINA, La nueva Ley concursal
española (El Anteproyecto), en Rev. Jur. Cat., nº 6, 1959, pág. 615 y sigs., en donde sin
entrar en “un juicio crítico del Anteproyecto”, por haber intervenido en su redacción,
entiende “supone un avance gigantesco respecto a la actual ordenación española... al
ofrecer un solo cuerpo legal sobre la materia y recoger las más modernas orientaciones de la técnica jurídico-concursal” (pág. 630).
La Sección de Derecho mercantil, de la Comisión General de Codificación,
presidida también por el Prof. Garrigues, tomando como base el Anteproyecto del
IEP, trabajó de nuevo sobre el tema, para la redacción de un nuevo borrador de Anteproyecto. Vid especialmente el completo trabajo de G.J. JIMÉNEZ SÁNCHEZ, Las aportaciones de don Joaquín Garrigues al derecho concursal español, en el vol. colectivo Joaquín Garrigues. Jurista y universitario ejemplar, Madrid, 1996, pág. 145 y sigs. y, en
particular, sobre su participación en la tarea prelegislativa, págs. 151-153 y para su
encuadramiento, A. MENÉNDEZ, La obra de Joaquín Garrigues en las tareas prelegislativas, en el mismo vol. pág. 25 y sigs.
(12) El arbitraje en derecho español. Su nueva regulación conforme a la Ley de 22
de diciembre de 1953, Barcelona, 1956, pág. 13
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La reacción de sus ilustres colegas, en las tareas de redacción del
Anteproyecto del IEP, ante el arbitraje, tal como resulta de sus autorizadas publicaciones, no puede calificarse de entusiasta.
Don M. de la Plaza, en su difundido manual 13, dedica al proceso
arbitral un documentado capítulo V, escrito con pulcra neutralidad, y
sin ninguna valoración al uso de las proclamadas “ventajas del arbitraje”, reiteradas por los especialistas, con escasos matices a través del
tiempo, hasta nuestros días.
Más sensibilizado por el tema, el profesor F. de Castro 14, en uno
de sus últimos autorizados estudios, subrayó, sobre todo, la peligrosidad de la cláusula compromisoria, y mostró no pocas reticencias sobre la utilización del arbitraje, especialmente en el ámbito del comercio internacional, en manos de las grandes multinacionales.
Por otro lado, la observación de la realidad muestra que durante
la redacción del Anteproyecto del IEP, en los años 50, la práctica del
arbitraje no había penetrado entre nuestros operadores económicos,
que sufrían las estrecheces propias de los rigores autárquicos, y permanecían alejados de los tráficos comerciales internacionales, terreno
particularmente propicio al arbitraje. Lógicamente, la problemática del
arbitraje no podía ser un tema de preocupación acuciante para los
redactores de un Anteproyecto de Ley concursal, que los incitase a
tomar partido sobre los eventuales problemas derivados de la concurrencia de los dos procedimientos en un mismo deudor.
Quizás las circunstancias apuntadas puedan explicar el escaso
interés que los ilustres maestros mostraron por el tema arbitral al redactar el Anteproyecto bajo la presidencia del maestro J. Garrigues en
el marco del IEP. En todo caso, el arbitraje sólo se asoma, tímidamente, en el artículo 88, en materia de reconocimiento de créditos, para
sancionar la equiparación de los laudos arbitrales, a las “sentencias
firmes y a las transacciones de pleitos pendientes realizados con aprobación judicial”, lo que no deja de ser un reconocimiento importante,
habida cuenta de la limitada cultura arbitral del momento. Tal equiparación se mantiene para los laudos firmes en la legislación arbitral pos(13) Derecho procesal civil español, II, Madrid, 1943, pág. 481 a 498
(14) El arbitraje y la nueva Lex mercatoria, en ADC, 1979, fasc. IV, pág. 619 y
sigs., que constituye una aportación importante, aunque escasamente utilizada por los
especialistas quizás, por su tratamiento crítico de la institución, que sin duda contrariaba a quienes eran propensos a proclamar, indiscriminadamente las ventajas del arbitraje. El estudio del Prof. De Castro, merece, a nuestro juicio, ser releído y meditado, no sólo porque constituye un hito importante en la historia del arbitraje en España,
sino también por la personalidad señera de su autor.
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terior, como muestra del reconocimiento del Estado hacia la institución arbitral, que después se potenciará e impulsará desde los Poderes
públicos e integrará una parte importante de la política legislativa del
Estado democrático.
Ni la práctica, ni la cultura arbitrales avanzaron sensiblemente
entre nosotros, en los años sucesivos, durante los que prosiguieron los
trabajos, ya en el seno de la Sección de Derecho mercantil de la Comisión General de Codificación, del Ministerio de Justicia, con el propósito de preparar la instauración de un nuevo régimen concursal.
Debe anotarse, con posterioridad, un creciente clamor a favor de
una reforma liberalizadora del régimen del arbitraje, que partiendo de
la inoperante LAP impulsó el inicio de un “largo camino” 15, que hoy
ha alcanzado su última etapa con la promulgación de la Ley 60/2003,
de 23 de diciembre, de Arbitraje. La reciente LA 2003, “con la pretensión de producir un salto cualitativo”, “basa el régimen español del
arbitraje en la Ley-modelo de la UNCITRAL” y, además, toma en consideración los sucesivos trabajos emprendidos por aquella Comisión
de las Naciones Unidas, con el propósito de incorporar los avances
técnicos y atender a las nuevas necesidades de la práctica arbitral”.
Con su promulgación se pretende “ofrecer ventajas o incentivos a las
(15) J.C. FERNÁNDEZ ROZAS, El largo camino hacia la Ley 36/1988, de Arbitraje,
en RCEA, 1988-89, pág. 25 y sigs.; B.M. CREMADES, La larga marcha hacia la Ley de
Arbitraje, en ABC, 7/12/2003; antes, España estrena nueva Ley de arbitraje, en RCEA,
1988-89, pág. 9 y sigs. y, en general todo el fasc. de la revista, dedicado a la LA 1988;
M. GONZALO QUIROGA, El ‘máximo arbitral’ contemporáneo, en La Ley, 20 octubre
1997, pág. 14 y sigs., analiza el movimiento proarbitraje, especialmente en el ámbito
del tráfico comercial internacional. Para la nueva LA 2003, que ha merecido, en su
conjunto, un juicio crítico favorable, vid. las primeras tomas de posición de la doctrina, J. Mª CHILLÓN y J.F. MERINO, Valoración crítica de la nueva Ley de arbitraje, en La
Ley, 2 febrero 2004; M. GÓMEZ JENE, El arbitraje internacional en la nueva Ley de
Arbitraje, en La Ley, 11 febrero 2004; A. BERROCAL JAIME, Las reformas de la Ley de
Enjuiciamiento civil durante el último trimestre de 2003, en La Ley, 16 febrero 2004,
pág. 15 y sigs., en especial, pág. 16; en general el Anuario Justicia Alternativa. Derecho
Arbitral, nº 5, 2004, especial Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje y La
Redacción, El arbitraje español se renueva y adopta el modelo de UNCITRAL, en Derecho de los Negocios, nº 161, febrero 2004, págs. 1-4; vid. también con anterioridad a
la promulgación de la LA 20003, G. STAMPA, Motivos y propuestas para la reforma de
la Ley de Arbitraje, en La Ley, 21 mayo 2003, pág. 1 y sigs.; J.F. CERES MONTES, La
revitalización del proceso civil: los procesos inglés y español tras sus recientes leyes de
reforma”, en La Ley, 5 de agosto 2002, pág. 1 y sigs., en especial, pág. 12, partiendo de
la constatación de que “el arbitraje... en España no ha tenido el desarrollo que debiera”, añadía, “lo cual puede cambiar con la anunciada futura nueva Ley de Arbitraje”.
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personas físicas y jurídicas para que opten por esta vía de resolución
de los conflictos y para que el arbitraje se desarrolle en el territorio de
ese Estado y con arreglo a sus normas” (E. de M., I). Confiemos en
que la nueva Ley de Arbitraje, en justa correspondencia con los declarados propósitos de un legislador sensible a las aspiraciones generalizadas en los países económicamente avanzados, propicie nuestra incorporación a las corrientes internacionales del arbitraje, y la designación de España, como lugar de elección de las partes, y contribuya,
también, a difundir la mayor utilización de la práctica del arbitraje
entre nuestros operadores económicos.
La mayor cultura arbitral actual, y el número creciente de operadores económicos y árbitros españoles experimentados en los foros
internacionales tradicionales del arbitraje, permiten objetivamente considerar ya superado el largo periodo de apatía arbitral en que hemos
estado inmersos. La problemática que hoy sienten como algo vivo,
amplios sectores de la sociedad española, no era imaginable para quienes operaban en el marco, arcaico y disperso de la normativa concursal a la sazón vigente, ni podía sensibilizar el interés de quienes se
sucedían en la elaboración de los sucesivos Anteproyectos de Ley concursal. La presencia del arbitraje en el articulado de la LC es una muestra del cambio sustancial que se ha operado en nuestra realidad socioeconómica y de la modernización de nuestro sistema jurídico, reclamados por los operadores económicos y por una doctrina atenta a la
evolución de las técnicas jurídicas de solución de conflictos en un
mundo globalizado, implacable con quienes no ajusten su andadura al
ritmo de los nuevos tiempos.
La evolución posterior del arbitraje, superadas las trabas que lastraron su difusión, logra progresivamente mayor difusión en la práctica española, que procede paralelamente con la preocupación de los
especialistas y de los prácticos en materia concursal.
La promulgación de la LA 1988 fue determinante en la modernización del Arbitraje en nuestro ordenamiento jurídico. Como reconoce la E. de M., I, de la LA 2003, durante la vigencia de la LA “se ha
producido una notable expansión del Arbitraje en nuestro país; ha
aumentado en gran medida el tipo y el número de relaciones jurídicas,
sobre todo contractuales, para las que las partes pactan convenios arbitrales”. La nueva LA 2003 y la LC se corresponden con esta nueva
realidad y, en nuestro ordenamiento jurídico, representan un salto cualitativo, ambas responden a un nuevo clima y a exigencias de perfeccionamiento normativo, más acordes con los nuevos tiempos y, por
ello, era evidente que no podían continuar ignorándose.
– 57 –
2.2. El Anteproyecto de Ley concursal de 1983.- El nuevo clima
favorable al arbitraje, que impulsa varios Anteproyectos de Ley de
Arbitraje, y culmina con la promulgación de la LA 1988, elaborada
por una Comisión designada ad hoc en el seno del Ministerio de Justicia, está también en el origen de la mayor presencia del arbitraje en los
textos preparatorios para una LC.
El Anteproyecto de LC de 27 de junio de 1983, elaborado en el
ámbito de la Comisión General de Codificación, publicado, en su texto articulado, por la Secretaría General Técnica del Ministerio de Justicia, con fecha 27 de junio de 1983, es significativo del cambio de
signo en materia de arbitraje.
En el ámbito del concurso ante la opción, entre la reforma técnica o “pequeña reforma”, los redactores del Anteproyecto de 1983 se
decantaron por la “gran reforma” o reforma a fondo, institucional, de
todo el sistema, excluyendo de su ámbito, sin embargo, las llamadas
instituciones paraconcursales.
En el Anteproyecto de Ley de 1983, en cuya redacción participó
muy activamente el maestro M. Olivencia, como presidente, con otros
prestigiosos especialistas 16, conocedores del derecho y de la práctica
arbitral, el tema arbitral está ya presente, en sus arts. 30, 31, 35, 168 y
169. Naturalmente, estos preceptos se ajustan a la normativa arbitral
vigente en el período de su redacción, la LAP de 1953, que todavía
mantenía la perturbadora distinción entre “compromiso” y “cláusula
compromisoria” o “contrato preliminar de arbitraje”, unánimemente
(16) La ponencia especial estaba integrada por M. Olivencia, L. Vacas Medina, J.
Carreras Llansana, G.J. Jiménez Sánchez y A. Rojo. El texto del Anteproyecto fue también publicado en el nº 8, monográfico de la Revista de la Facultad de Derecho de la
Universidad Complutense, marzo 1985, bajo el título general de Estudios sobre el Anteproyecto de Ley concursal. El fasc. contenía estudios de J. Girón Tena, M. Olivencia, A.
Rojo, J. Mª Gondra, E. Verdera, R. García Villaverde, Julio D. González Campos y se
cerraba con una cuidada Nota bibliográfica sobre la reforma y el Anteproyecto de Ley
Concursal redactada por J. MAIRATA LAVIÑA y J.F. ESTÉVEZ RODRÍGUEZ, (pág. 359-362),
que refleja el creciente interés por el tema concursal. Una amplia referencia, con apuntes críticos, en J. PULGAR, La reforma del derecho concursal comparado y español, cit.,
especialmente Capítulo cuarto, pág. 273 y sigs. J. BISBAL, La insoportable levedad..., cit.,
pág. 862 calificó el Anteproyecto de Ley Concursal de 1983 de “la propuesta más sólida
de reforma del Derecho concursal que se ha elaborado en nuestro país”.
Una amplia referencia del inicio de los trabajos de este Anteproyecto, en M.
OLIVENCIA, El derecho concursal, cit., pág. 326 y sigs. en 1978, escribe, se cambia el
método de trabajo, y en virtud de las órdenes del Ministerio de Justicia, de fecha 17
de mayo, se crean una ”Ponencia Especial para la redacción de las Bases de un Anteproyecto de Ley Concursal”, y otra, de idéntica composición, para elaborar un “Anteproyecto articulado”, presididas ambas por el propio profesor Olivencia.
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criticada por la doctrina. Será finalmente sustituida por el “convenio
arbitral”, del artículo 5 de la LA 1988, en el que se integran las “cuestiones litigiosas surgidas o que puedan surgir (art. 1 LA) 17. Una modificación legislativa esencial, que la doctrina ha celebrado como una
de las aportaciones más importantes de la LA 1988.
En el artículo 169 del Anteproyecto de Ley de 1983, se disponía que:
“Las cláusulas compromisorias o contratos preliminares de arbitraje suscritos por el deudor antes de que se admita a trámite la solicitud de concurso, quedarán sin valor ni efecto si tal solicitud fuese estimada, sin perjuicio de lo dispuesto en los Tratados y Convenios sobre
arbitraje internacional”.
La formulación de este precepto que con la sola estimación de la
solicitud de concurso se privaba de eficacia, de modo radical y definitivo, la voluntad de las partes de resolver sus diferencias por las vías
arbitrales, representa la primera toma de conciencia del problema por
parte de un legislador, que dulcificará y matizará su primera toma de
posición, y mejorará su técnica en consonancia con los avances del
régimen del arbitraje. Así, en el art. 52.1 LC, que se refiere, justamente, a los “convenios arbitrales”, y suspende, oportunamente, sólo temporalmente, sus efectos “durante la tramitación del concurso”.
Es oportuno, también, señalar que en el art. 169 del Anteproyecto
de 1983, el contrato de arbitraje era objeto de un tratamiento más
severo, y desfavorable a su pervivencia, ante la declaración de concurso, que el reservado, con carácter general, para los contratos con obligaciones recíprocas, sancionado por el art. 174, calificado como “clave del sistema” 18 según el que:
“Declarado el concurso de una de las partes de un contrato con
obligaciones recíprocas pendientes de ejecución, el concursado, con
la aprobación del síndico, o este último cuando haya sustituido al deudor en sus facultades de gestión y administración, habrán de optar,
desde la fecha de la sentencia declarativa hasta la expiración del plazo
fijado en ella para la insinuación del crédito, por la resolución o ejecución del contrato. Será nulo todo pacto en contra de lo establecido en
esta disposición”.
(17) Vid. para una rápida exposición de esta evolución, nuestro breve apunte
Un giro copernicano en el régimen del arbitraje en España, en La Ley, nº 4000, 21 de
marzo de 1996, págs. 11 y 12.
(18) Cfr. J.M. FINEZ RATÓN, Los efectos, cit., Madrid, 1992, considera, incluso,
que tal “facultad adquiere carta de naturaleza de orden público” (págs. 51 y 52).
– 59 –
Tal precepto sería expresión de “un principio general, que se deduce de la regulación (según la que) la apertura del procedimiento no
produce la extinción de la relación contractual previamente convenida, pero la deja temporalmente en suspenso y sometida a la decisión
del propio concursado o, en su caso, del síndico” 19, solución, sin duda,
menos rígida que la impuesta para el convenio arbitral en la LC.
El art. 52.1 de la LC extenderá el principio general, sancionado
por el art. 174 del Anteproyecto de 1983, a los convenios arbitrales,
de tal modo que solamente se les priva de valor y efecto, “durante la
tramitación del concurso”, sin reservar ningún derecho de opción al
concursado o, en su caso, a la administración concursal.
2.3. La “Propuesta” de Anteproyecto de Ley concursal de 1995.La “Propuesta de Anteproyecto de Ley concursal”, de 12 de diciembre de 1995 20, redactada por el Prof. Ángel Rojo, por encargo ministerial, sugerido por la Sección de Derecho mercantil de la Comisión
General de Codificación, ajustada a los “criterios básicos”, establecidos por el Ministerio de Justicia e Interior 21, fue sometida al “Infor(19) Vid. J.M. FINEZ RATÓN, Los efectos, cit., Madrid, 1992, págs. 51 y 52
(20) Para una exposición general de su contenido, vid. J. PULGAR EZQUERRA, La
propuesta de reforma del derecho concursal español de 12 de diciembre de 1995, en RdS,
1996, nº 6, pág. 461 y sigs.; G. ALCOVER GARAU, Consideraciones generales sobre una
alternativa a la reforma propuesta del derecho concursal español, en RdS, 1996, nº 6, pág.
475, especialmente pág. 482 y sigs. y, en particular, J. Mª GARRIDO. La reforma del derecho concursal español (reflexiones en torno a la ‘Propuesta’ de Anteproyecto de Ley concursal del Prof. Ángel Rojo, en RDBB, 1996, pág. 889 y sigs.; E. BELTRÁN, Una nueva
propuesta de Ley Concursal, en Actualidad Jurídica Aranzadi, 14 de mayo 1996, pág. 1-4;
Ideas básicas de la Propuesta de Anteproyecto de Ley concursal elaborada por el Prof.
Ángel Rojo, en el vol. colectivo La reforma del Derecho concursal y la eficiencia económica, dir. A. Espina, Madrid, 1999, pags. 309-329. A. ESPINA MONTERO, Crisis de empresas
y Sistema Concursal. La reforma española y la experiencia comparada, Madrid, 1999, pág.
125 y sigs.; Sobre el proceso de elaboración de la “Propues-ta”, vid., especialmente, A.
ROJO, La reforma del derecho concursal español, en el vol. La reforma de la legislación
concursal, dir. A. Rojo, Madrid, 1987, pág. 87 y sigs.
La Propuesta fue publicada en el Suplemento nº 1768 de 15 de febrero de 1996,
del Boletín del Ministerio de Justicia, acompañada de una Propuesta de Anteproyecto
de Ley Orgánica de Reforma de las Leyes Orgánicas del Poder Judicial y del Código
Penal y en Cuadernos de Derecho y comercio, monográfico 1997, dedicado a La reforma del Derecho concursal, pág. 313-426.
(21) “Los criterios básicos para la elaboración de una propuesta de Anteproyecto
de Ley concursal”, que fueron comunicados al Presidente de la Sección de Derecho
mercantil de la Comisión General de Codificación, el 23 de junio de 1994, están publicados en el Boletín de Información del Ministerio de Justicia e Interior, Suplemento
al nº 1768. de 15 de febrero 1996, pág. 915 y sigs.
– 60 –
me” de la “Ponencia especial”, integrada por el propio autor, y los
profesores M. Olivencia y G. J. Jiménez Sánchez, antes de ser debatida en el seno de aquella Sección 22. En el prólogo de la edición de la
“Propuesta” publicada por el Ministerio de Justicia, se apunta que “al
lado de soluciones muy originales, incorpora normas procedentes del
muy importante Anteproyecto de 1983, elaborado por la propia Sección, que combina con otras normas que proceden de algunas Leyes
más recientes y significativas”.
La “Propuesta” es redactada en forma de “Proyecto de ley”, acompañada de las correspondientes disposiciones adicionales, transitorias,
finales y de una disposición derogatoria única. Entre las “disposiciones finales”, importa destacar la “décima”, relativa a la nueva redacción del art. 39 del Texto refundido de la Ley General Presupuestaria,
la “decimosexta” y, la propuesta, por primera vez, en los trabajos prelegislativos de modificación del art. 24 del Texto refundido de la Ley
General de la Seguridad Social, de las que nos ocupamos más abajo.
El redactor de la “Propuesta”, en los primeros años de la década
de los noventa, muestra ser un buen conocedor de la técnica y de la
difusión del arbitraje entre nosotros, como resulta de la lectura del
Título III, “De los efectos de la declaración del concurso”, Sección 2ª,
Capítulo 2º, que prohíbe nuevos juicios, de tal modo, que “los acreedores del deudor anteriores a la declaración de concurso no podrán
interponer demanda” ante los jueces ordinarios, ni “formular demanda ante árbitro o Corte de arbitraje”, y sanciona con la “nulidad de
pleno derecho” “las actuaciones judiciales o arbitrales que se practiquen” (art. 61.1). La radicalidad de tal sanción, aparentemente de gran
alcance, afecta, sin embargo, exclusivamente a los “acreedores del deudor anteriores a la declaración de concurso”. No debería, por tanto,
(22) No llegaría, sin embargo, a ser revisada por la Sección, disponiéndose la
constitución de una “Sección Especial para la reforma concursal”, presidida por el
Prof. M. Olivencia, con el encargo de elaborar una “Propuesta de Anteproyecto de
Ley Concursal y la modificación, en su caso, de la Ley Orgánica del Poder judicial,
del Código penal y de cuantas disposiciones fuese necesario”·, para sus vicisitudes,
vid. A. ROJO, La reforma del Derecho concursal español, en el vol. La reforma de la
legislación concursal (dir. A. Rojo), Madrid, 2003, pág. 96 y sigs. y nota 1. El “Informe” firmado por M. Olivencia y G.J. Jiménez, miembros de la “Ponencia especial”
designada para el estudio de la “Propuesta de Anteproyecto de LC”, redactada por el
Vocal A. Rojo, fue emitido el 17 de diciembre de 1996, aconsejaba su “adopción como
documento de trabajo, sin que ello suponga tampoco condicionar la reforma a los
postulados de la actual Propuesta, sujetos a debate y revisión en las fases siguientes de
elaboración del Anteproyecto”, y añadía “unas consideraciones sobre la concepción
general de la Propuesta”.
– 61 –
excluir, por sí sola, en principio, la posibilidad de que las técnicas arbitrales fueran utilizadas para resolver controversias o clarificar situaciones nacidas del contraste de intereses entre partes implicadas en el
concurso, durante la tramitación del mismo.
Para los juicios declarativos “en tramitación”, tanto si se trata de
juicios declarativos de los que en el momento de la declaración del
concurso estén conociendo Jueces o Tribunales del orden civil o social, como para “los procedimientos arbitrales ante árbitro o Corte de
arbitraje”, la solución común, es la ya consolidada: “continuará la tramitación hasta que recaiga sentencia o laudo firme” (art. 62.1). La
“Propuesta” toma también en consideración, equiparándolos en cuanto
a sus efectos, “sentencias y laudos firmes pronunciados antes de la
declaración de concurso o después de ella, que reconozcan al demandante la titularidad de un crédito contra el deudor anterior a dicha
declaración”, y añade que “vinculan al juez del concurso, que dará al
crédito el tratamiento concursal que corresponda, cualquiera que sea
la fecha de la resolución y de la adquisición de firmeza” (art. 63.1). La
misma solución se extiende a las sentencias extranjeras y a los laudos
pronunciados en un arbitraje internacional, una vez concedido el exequátur por el Tribunal español competente (art. 63.2).
En la disposición adicional decimoséptima, 2º párrafo de la “Propuesta”, se propone una nueva redacción para el artículo 24 del Texto
refundido de la Ley General de la Seguridad Social (R.D. Legislativo
1/1994, de 20 de junio), se dispone que: “Salvo en el caso de concurso
de acreedores, no se podrá transigir judicial ni extrajudicialmente sobre los derechos de la Seguridad Social, ni someter a arbitraje las contiendas que se susciten respecto de los mismos, sino mediante Real
Decreto acordado en Consejo de Ministro, previa audiencia del Consejo de Estado”.
El texto propuesto se mantiene en la disposición final decimosexta, 2, de la LC, con la pertinente supresión del primer inciso, “salvo en el caso del concurso de acreedores”. Tal distinción que tenía
sentido en un sistema como el de la “Propuesta”, que distingue entre
el procedimiento de “concurso de acreedores” y el expediente de “suspensión de pagos” (E.de M., I), basado en la diferencia entre insolvencia e iliquidez, desaparece en el sistema de la LC, que ha optado
por “los principios de unidad legal, de disciplina y de sistema” (E. de
M. de la LC, II). Sin embargo, en la nueva redacción del art. 24 citado, de la LC, disposición adicional decimosexta, 2, pár. 2º, probablemente por un fenómeno de inercia legislativa se lee que: “No obstante
lo dispuesto en el párrafo anterior, si el deudor de la Seguridad Social
– 62 –
incurriere en concurso de acreedores...”, manteniendo la antigua expresión, lo que, por lo demás, carece de trascendencia práctica.
Equiparadas en el art. 63, las sentencias y los laudos firmes, así
como las sentencias extranjeras y los laudos pronunciados en un arbitraje internacional, el art. 110, mantiene, coherentemente, la equiparación respecto de las excepciones a la necesidad de solicitud de reconocimiento.
Regulada la suspensión de pagos en los arts. 270 y sigs. del Título
XIV, de la “Propuesta”, declarada la incompatibilidad entre la suspensión de pagos y el concurso de acreedores (art. 275), ni en el Capítulo
II, “De los efectos de la suspensión de pagos” (art. 283), ni en el resto
del articulado se hace referencia al arbitraje.
En “Anexo”, se incluye una “Propuesta de Anteproyecto de Ley
Orgánica de reforma de las Leyes Orgánicas del Poder Judicial y del
Código penal”, con el propósito de conseguir “cierto grado de especialización de los Jueces y Magistrados que han de tramitar los procedimientos universales y, a la vez, cierto grado de concentración en el
conocimiento de estos delicados asuntos”. Con tal propósito, propone “adaptar aquellas normas orgánicas que limitan la jurisdicción de
los Juzgados de Primera Instancia al ámbito territorial de cada partido judicial”. Se pretende que “el Juez de lo concursal sea el único
competente para acordar ejecuciones y embargos de cualquier clase
contra los bienes y derechos que integran la masa activa, “acumulándose al concurso todas aquellas ejecuciones pendientes”, que “deben
permanecer unidas bajo una sola potestad jurisdiccional”. Todo ello
concorde con la “universalidad patrimonial que resulta imprescindible para el cumplimiento de los fines que pretende alcanzar” (E. de
M., 1 y 2).
Con estas premisas, la modificación propuesta del art. 84 de la
Ley Orgánica del Poder Judicial, atribuye competencias a Juzgados
de Primera Instancia con sede en la capital de cada provincia, en materia de concursos de acreedores y de suspensiones de pagos. Se admite la creación de Juzgados de lo concursal en ciudades distintas de la
capital. Los Juzgados de lo concursal, son “los únicos competentes
para acordar ejecuciones y embargos de cualquier clase sobre bienes y
derechos integrados en la masa activa y para las demás declaraciones
establecidas en la ley concursal” (art. 85, ap. 2).
El tenor de los arts. 51, 52 y 53 se mantiene inalterado en los
sucesivos Anteproyectos, y en la LC, con pequeñas alteraciones técnicas en el art. 86, en el que se sustituye “aunque estén pendientes de
recurso”, por la formulación más técnica “aunque no fueran firmes”.
– 63 –
2.4. Los Anteproyectos de Ley concursal de 2000 y 2001 23 . – Como
se lee en la E. de M., I, d), de la LC, “el Anteproyecto de Ley Concursal elaborado por la Sección Especial para la Reforma Concursal, creada
durante la anterior legislatura en el seno de la Comisión General de
Codificación, por Orden del Ministerio de Justicia de 23 de diciembre
de 1996 y concluso en mayo de 2000”, es el que “constituye antecedente del proyecto origen de esta Ley”.
Con el Anteproyecto de Ley concursal de 7 de septiembre de
2001, el Gobierno inició los trámites para dar cumplimiento a la Disposición final decimonovena de la LEC, conforme a la cual, en el plazo de seis meses, a contar desde la fecha de su entrada en vigor, debía
remitir a las Cortes Generales un proyecto de Ley Concursal.
Como subraya, oportunamente, la E. de M., III, “objeto de especial atención ha sido también la regulación de los efectos de la declaración de concurso sobre los contratos, una de las materias más deficientemente tratadas en el anterior Derecho y, por tanto, de mayor
originalidad en la nueva Ley. Conforme a ésta –añade la E. de M.- la
(23) Para una referencia a los periodos de sesiones de la “Sección especial”, en
que se elaboraron estos Anteproyecto, vid. especialmente A. ROJO, La reforma del
Derecho concursal español, op. cit., pág. 87 y sigs., (en el que se publican interesantes
aportaciones a las “Jornadas sobre la reforma de la legislación concursal” Madrid, 6 a
10 de mayo 2002), págs. 90-91, así como los informes y dictámenes oficiales, sobre los
Anteproyectos de Ley de 2001 (pag. 361 y sigs. El “Anteproyecto de Ley Concursal”
y el “Anteproyecto de Ley Orgánica para la reforma concursal”; se entregaron al Ministerio de Justicia el 17 de noviembre de 2000. Existen dos versiones, no publicados en edición oficial. La versión de 30 de marzo de 2000 fue publicada en la revista
Derecho de los Negocios, nº 126 (marzo 2001), págs. 96 y sigs. y nº 127 (abril 2001),
pág. 98 y sigs. Con modificaciones de la Secretaría General Técnica del Ministerio de
Justicia, el Anteproyecto de Ley concursal de 2001, fue publicado en los Estudios
sobre el Anteproyecto de Ley Concursal de 2001 (dir. R. García Villaverde, A. Alonso
Ureba y J. Pulgar), Madrid, 20002 y en la Revista Derecho de los Negocios, nº 134
(noviembre 2001), págs. 86 y sigs., con el título Anteproyecto de Ley concursal (5 de
septiembre de 2001). Sobre este Anteproyecto, vid. el vol. colectivo Estudios sobre el
Anteproyecto de Ley Concursal de 2001, Madrid-Almeria, 2002; R. GARCÍA VILLAVERDE, El Anteproyecto de Ley concursal español del 2000: las bases de una reforma esperada, en Actualidad Jurídica Aranzadi, nº 491, 21 de junio de 2001, pág. 1 y sigs:, se
refiere a la pluralidad de textos en circulación, señalando las posibles razones para
practicar el “secretismo”.
Aprobado por el Gobierno en su sesión de 7 de septiembre, con la advertencia
de que una “versión preliminar”, había sido publicada en los números 126 y 127 de la
revista “Derecho de los Negocios”, señalaba “ciertas apreciables variantes”, entre el
texto preliminar y el aprobado por el Gobierno, “abundantísimas y generalmente acertadas”, y la adición de la E. de M., que no se incluye en la versión publicada en
primavera por la revista citada antes.
– 64 –
declaración de concurso no afecta, en principio, a la vigencia de los
contratos con prestaciones recíprocas pendientes de cumplimiento por
ambas partes; no obstante, en interés del concurso y con garantías para
el derecho de la contraparte, se prevé tanto la posibilidad de una declaración judicial de resolución del contrato, como la de enervarla en
caso de que exista causa para una resolución por incumplimiento. No
se admiten las cláusulas contractuales de resolución o extinción en
caso de declaración de concurso, pero sí la aplicación de normas legales que dispongan la extinción o expresamente faculten a las partes
para pactarlas o para denunciar el contrato”. Como se lee en otro lugar de la E. de M. I, in fine, la “reforma global del derecho concursal
español”, ha supuesto una “profunda modificación del derecho vigente, en la que se han tenido en cuenta las aportaciones doctrinales y
prelegislativas realizadas en el ámbito nacional y las más recientes concreciones producidas en la legislación comparada así como los instrumentos supranacionales elaborados para la unificación y la armonización del derecho en esta materia”.
Las fuentes que han sido tomadas en consideración por el legislador han sido, pues, de muy variado origen y naturaleza, pero del
tema que nos ocupa no encontramos referencia alguna en la, con frecuencia, minuciosa E. de M. de la LC. Sobre la suerte del arbitraje, en
sus posibles fases, con ocasión de la declaración de concurso, sólo encontramos los precedentes, a que hemos venido aludiendo, en los sucesivos Anteproyectos de Ley, sin que la E. de M. nos ofrezca la ratio
de las soluciones adoptadas, ni tanto menos del tratamiento de que ha
sido objeto el arbitraje.
Una vez más, como ha explicado el maestro Olivencia “el jurista
sigue arrastrado por los hechos, remolcado en el mejor de los casos,
pero siempre detrás, en pos de las novedades que al tiempo que innovan la realidad social envejecen al Derecho 24.
El tenor de los arts. 51 (con la remisión a los apartados 2 y 3 del
art. anterior) y 52, se corresponde, con los arts. 52 y 53 de la LC, con
mínimas variantes. Cabe señalar, sin embargo, la adición en el párrafo
2, del actual art. 51 un inciso, por el que se concede a la administración concursal, en caso de sustitución del deudor, “una vez persona(24) M. OLIVENCIA, De nuevo, la lección 1ª. Sobre el concepto de la asignatura,
Discurso leído en la solemne apertura del curso académico 1999-2000, en la Universidad de Sevilla, Sevilla, 1999, pág. 54; vid., sobre el mismo, el excelente comentario de
J. Mª MUÑOZ, El discurso inaugural del profesor Olivencia, en RDM, nº 244, 2002, pág.
725 y sigs.
– 65 –
da, un plazo de cinco días para que se instruya en las actuaciones”, así
como la referencia a la “administración concursal”, que sustituye, oportunamente, a la “administración judicial”.
El Anteproyecto de 2001, contiene además el texto de las disposiciones adicionales, transitorias y finales, que coinciden en buena
medida con las de la LC, aunque con distinta numeración. Interesa
señalar la disposición final octava (que se corresponde con la décima
en la LC), de Reforma de la Ley General Presupuestaria, que sanciona
una nueva redacción del art. 39, del texto refundido, con la supresión
de algún inciso en el texto definitivo, así, por ejemplo, el apartado 2
del párrafo 2, “y en su caso, para la adhesión a los ya aceptados por
los acreedores o aprobados por el Juez”, y la adición de un inciso referido al “Fondo de Garantía Salarial”.
La disposición final decimosexta, 2, sobre Reforma de la Ley
General de la Seguridad Social, da nueva redacción al art. 24, Transacciones sobre derechos de la Seguridad Social, disponiendo que:
“Salvo en caso de concurso, no se podrá transigir judicial ni extrajudicialmente sobre los derechos de la Seguridad Social ni someter
a arbitraje las contiendas que se susciten respecto de los mismos, sino
mediante Real Decreto acordado en Consejo de Ministros, previa audiencia del Consejo de Estado”.
III. El Proyecto de Ley Concursal y su tramitación parlamentaria.
El Proyecto de Ley concursal, fué publicado en el BOCG, de 23
de julio de 2002, con acuerdo de la Presidencia de la Cámara de “encomendar su aprobación con competencia legislativa plena, a la Comisión
de Justicia e Interior”, con señalamiento de un plazo para enmiendas 25.
Ni el “Informe” ni el “Dictamen de la Ponencia” contienen referencias a los arts. 50, 51 y 52 del Proyecto, que se corresponden con
los arts. 51, 52 y 53 de la Ley.
(25) Vid. J. PULGAR, El Proyecto de Ley Concursal de 2002; una aproximación
crítica, en Actualidad Jurídica Aranzadi, nº 550, 24 de octubre de 2002, pág. 1 y sigs.,
se trata de un trabajo realizado en el periodo en que el texto del Proyecto está en fase
de presentación de enmiendas, califica el “texto articulado de bien construido, que
incorpora las tendencias generalizadas en el marco del derecho comparado”, aunque
critica “algunas de sus opciones legislativas” (pág. 1). A pesar de la considerable extensión y minuciosidad del artículo, no se hace referencia, como es habitual en la
bibliografía manejada sobre los sucesivos Anteproyectos, al tema del arbitraje, con
ocasión de la tramitación del concurso, objeto de estas páginas.
– 66 –
En la tramitación parlamentaria del Proyecto de LC, rechazada,
por el Pleno la enmienda a la totalidad, no se presentó ninguna enmienda al art. 51 (actual art. 52 LC).
Una enmienda, la número 18, del Grupo Mixto proponía la supresión del párrafo 2 del art. 52 (actual art. 53 LC), con la justificación de que resultaba superfluo. El Partido Socialista presentó la enmienda número 280, proponiendo una distinta redacción del mismo
apartado 2, justificada en la conveniencia de no hacer referencia en el
texto a una “Ley concreta y determinada, y con mayor razón, cuando
la Comisión General de Codificación está trabajando en una nueva
Ley de Arbitraje”. El Informe de la Ponencia recoge la enmienda, que
pasa al apartado 2, del art. 52 (actual art. 53 LC).
Una de las enmiendas presentadas al párrafo 2, del art. 85 (actual
art. 86 LC) proponía la supresión de la frase “los convenios o procedimientos arbitrales en caso de fraude”, conforme a lo previsto en el
párrafo 2, del art. 52 (actual 53), por considerarlo superfluo, entendiendo además que la inclusión de dicha frase significaba desconfiar
del arbitraje. La enmienda no pasó al texto de la Ponencia, relativa al
apartado 2 del artículo 85 (actual art. 86 LC).
En resumen, el número de enmiendas presentadas fue escaso,
prosperando exclusivamente la número 280, que pasó a integrarse en
el vigente artículo 53, apartado 2 de la Ley Concursal.
IV. El Arbitraje en la Ley concursal.
1. – Antecedentes. La “dispersión, carencia de un sistema armónico”, y “el arcaísmo y la dispersión de las normas vigentes”, a las que
se refiere la E. de M., I, de la LC, propias del régimen anterior tenían
“un claro reflejo en el tratamiento normativo y doctrinal que se otorga
a la eficacia de la apertura de la quiebra en un contrato bilateral”.
Como resumen de la situación anterior se ha escrito, certeramente,
que “ni existe un sistema regular, siquiera a nivel de principios primarios, ni son de reseñar elaboraciones doctrinales de cierta consistencia
en la materia” 26.
En el plano legislativo, en la materia que nos interesa, con anterioridad a la LC, al margen de disposiciones especiales sobre contra(26) Vid. J.M. FINEZ RATÓN, Los efectos..., cit, pág. 43 y nota 48: “al margen del
planteamiento del mismo en manuales y tratados, las referencias doctrinales son puramente colaterales o en notas a pié de página”.
– 67 –
tos singulares, cabría citar los arts. 908 y 909, 8 y 9 del Código de
comercio, así como, entre otros, los arts. 1.100, 1.124, 1.466 y 1.467
del Código civil. Tales preceptos ofrecían un punto de partida, para
recomponer la correlatividad de obligaciones propias de todo contrato bilateral, partiendo de la regla general de que la apertura del concurso no opera como causa automática de la extinción del contrato.
No es esta ocasión oportuna para proceder a un examen detenido del estado de la legislación en este campo, innovada sustancialmente con la promulgación de la nueva LC. Baste recordar que la
doctrina más autorizada, al estudiar especialmente los diversos supuestos en que podía encontrarse el quebrado, parte de un contrato bilateral vigente, en el momento de ser declarada la quiebra, sugiriendo la
aplicación analógica del art. 909 del C. de c. sobre el contrato de compraventa, a todos los demás contratos en que la prestación del quebrado debiera realizarse en dinero 27.
La doctrina anterior a la LC, también, había tomado partido respecto de los efectos de la declaración de quiebra sobre algunos contratos en particular 28, con referencias a las reglas especiales dictadas
(27) Cfr. J. GARRIGUES, Curso de Derecho mercantil, 2ª ed. revisada y puesta al
día por E. Verdera, Madrid, 1956, pág. 443 y especialmente pág. 444, seguido, entre
otros por J. Mª VIGUERA, Los efectos de la declaración de quiebra, cap. 84, págs. 728 y
sigs. en especial págs. 737 y 738, en Derecho Mercantil, Coord. G.J. JIMÉNEZ SÁNCHEZ,
6ª ed. Barcelona, 2000). Para una reciente exposición, vid. R. URÍA-A. MENÉNDEZ-E.
BELTRÁN, en URÍA-MENÉNDEZ Curso de Derecho mercantil, Madrid, 2001, Tomo II,
Capítulo 95, Efectos de la declaración de quiebra, págs. 925 y sigs. y, en particular el
apartado III Efectos sobre los contratos, págs. 943-945, recordando que “a pesar de la
importancia del problema, no existe una regulación de carácter general”. R. URÍA,
Derecho mercantil, vigésimo octava edición, Madrid, 2002, última ed. del prestigioso
manual, en la línea de sus anteriores ediciones, afirma que “no obstante la importancia y la amplitud del problema, nuestra ley no establece una reglamentación de carácter
general aplicable a los distintos contratos”, pág. 1049, y para el examen de los efectos
sobre diversos contratos en particular, F. SÁNCHEZ CALERO, Instituciones de derecho
mercantil, II, decimonovena ed., Madrid, 1996, pág. 482-483; vid., también, E. BELTRÁN, en Lecciones de Derecho mercantil, dir. A. Menéndez, Madrid, 2003, pág. 866,
en especial pág. 868, con una referencia general, sin aludir al arbitraje, a la LC que se
preocupa expresamente de regular el tema de los efectos del concurso sobre los contratos que hubiere concluido el deudor común; y vid., también, la clásica exposición
de J.A. RAMÍREZ, Derecho concursal español. La quiebra, Barcelona, 1959, III, págs.
455 y sigs.
(28) Vid. una exposición en J.M. FINEZ, Los efectos..., cit. pág. 43-50, también
con referencia, al “Anteproyecto de Ley concursal”, de 27 de junio de 1983, del que
aventura, escribiendo en 1992, “quizá hoy ya parcialmente malogrado” (págs. 44 y
45), y al que dedica un epígrafe, págs. 50-54. Posteriormente se ha ocupado especialmente del tema, con mayor amplitud, examinado la postura de la doctrina más re-
– 68 –
para contratos que dan lugar a relaciones jurídicas duraderas, y exigen
reglas ordenadas a su naturaleza especial, sin hacer, sin embargo, referencia a la posición de las partes en una relación contractual de arbitraje, de la que tampoco se han ocupado los expositores del régimen
de la quiebra y de sus efectos sobre los contratos.
Recordemos que el Anteproyecto de Ley concursal de 27 de junio de 1983, de la Sección de Derecho Mercantil de la Comisión General de Codificación, redactado bajo el imperio de la LAP de 1953,
proponía un artículo 169 del siguiente tenor:
“Las cláusulas compromisorias o contratos preliminares de arbitraje suscritos por el deudor antes de que se admita a trámite la solicitud de concurso, quedarán sin valor ni efecto, si tal solicitud fuese
estimada, sin perjuicio de lo dispuesto en los Tratados y Convenios
sobre arbitraje internacional”.
Los redactores del art. 169 que mantenían la distinción hoy superada, y sustituida por “convenio arbitral” pretendían, en definitiva,
que las cláusulas arbitrales válidas, en cuanto suscritas antes de que la
solicitud de concurso fuera admitida a trámite, quedaran privadas de
valor y efecto, “si tal solicitud fuese estimada”, y a partir de este momento.
El tenor del precepto, un tanto forzado, queda claro, teniendo
en cuenta que el art. 7, par. 1º, ult. inciso, disponía que, “la admisión a
trámite de la solicitud determinará la apertura del procedimiento”. Y,
por lo tanto, es coherente con el régimen de apertura del concurso
que las cláusulas arbitrales queden privadas de eficacia desde la admisión a trámite de la declaración de concurso, y, por lo tanto, antes de
que se inicie la tramitación de éste.
Sin embargo, el mismo art. 169, par. 3, disponía que:
“Si declarado el concurso el deudor hubiese otorgado un contrato de compromiso, sin que el juicio arbitral haya terminado por el
laudo emitido por los árbitros, conservará el compromiso toda su eficacia y surtirá el laudo plenos efectos, a no ser que antes de que sea
emitido, el síndico impugne el compromiso o juicio por entenderlo
contrario a los intereses de la masa. De producirse la sus-pensión, el
juez del concurso lo comunicará a los árbitros para que suspendan el
ciente R. GARCÍA VILLAVERDE, Una forma especial de garantía: los efectos de la declaración de la quiebra y las suspensiones de pagos sobre las relaciones jurídicas bilaterales
preexistentes y pendientes de ejecución, en Estudios jurídicos en homenaje al prof. Aurelio Menéndez, III, Madrid, 1996, pág. 3531 y sigs., en donde hace un examen particularizado de las tomas de posición de nuestros autores, que no muestran interés por
el tema que nos ocupa.
– 69 –
juicio arbitral hasta que se decida aquélla, y el tiempo que transcurra
desde el momento de la suspensión no se tendrá en cuenta para el
cómputo del plazo concedido a los árbitros por los compromitentes”.
El procedimiento arbitral en tramitación, continuará, por tanto,
su curso hasta la emisión del laudo, a menos que el síndico lo impugne por entender que es contrario a los intereses de la masa.
El art. 169 contempla, en particular, el contrato de arbitraje, haciéndolo objeto de un tratamiento específico favorable a la continuación de su tramitación. El art. 174 se refiere, en cambio, al supuesto
de que sea “declarado el concurso de una de las partes de un contrato
con obligaciones recíprocas pendientes de ejecución”, disponiendo,
que:
“el concursado con la aprobación del síndico, o este último cuando
haya sustituido al deudor en sus facultades de gestión y administración, habrán de optar, desde la fecha de la sentencia declarativa hasta
la expiración del plazo fijado en ella para la insinuación de créditos,
por la resolución o la ejecución del contrato”.
añadiendo, en el último párrafo, que:
“cuando por las circunstancias especiales de la crisis económica,
la continuación de la relación contractual implique riesgo manifiesto y
grave para la contraparte del concursado, podrá ésta solicitar del Juez
que ordene la prestación de garantía suficiente para asegurar el cumplimiento”.
Analizando el art. 174, calificado de “clave del sistema” de las
relaciones jurídicas preexistentes, “común a cualquiera de las modalidades del concurso”, la doctrina ha señalado que “define con carácter
instrumental el contrato en beneficio del principio de conservación de
la empresa o, más correctamente, de la solución más acorde que se
deba dar a la crisis”, “justificada en atención a la anormalidad patrimonial sobrevenida y a la necesaria recomposición del conflicto de
intereses involucrados en el concurso” 29.
(29) Cfr. J.M. FINEZ, Los efectos, cit., págs. 51 y 52, que excluye su contrariedad
a las normas imperativas del art. 1.256 C.c. y “plenamente justificada en atención a la
anormalidad patrimonial sobrevenida y a la necesaria recomposición del conflicto de
intereses involucrados en el concurso”. Y aunque estima que “quizás fuera técnicamente más correcto facultar al tercero para la resolución, una vez transcurrido el plazo de ejercicio de que dispone el deudor o el síndico para declarar la continuación
(sistema alemán y francés), no por ello queda sin fundamento jurídico la facultad
“resolutoria del concursado o el Síndico”.
– 70 –
En todo caso, cabe subrayar que el tratamiento de que viene siendo objeto el arbitraje, en los Anteproyectos, es más severo y radical,
que el dispensado, en general a los contratos con obligaciones recíprocas, sin que, a nuestro juicio, tal diversidad de tratamiento tenga
una base razonable, y que en ningún caso las E. de M., con frecuencia
minuciosas, se han preocupado de explicar y que, probablemente, constituyen una manifestación ulterior de atávicos de que esporádicamente es objeto el arbitraje.
Como veremos más abajo, esta disparidad de tratamiento, se repite en el articulado de la LC, como resulta evidente de la comparación del régimen del art. 52, previsto para los procedimientos arbitrales, al regular los “efectos sobre los contratos” del cap. III, y en particular por el art. 61.2, disponiendo que:
“2. La declaración de concurso, por si sola, no afectará a la vigencia de los contratos, con obligaciones recíprocas pendientes de cumplimiento tanto a cargo del concursado como de la otra parte...
No obstante lo dispuesto en el párrafo anterior, la administración concursal, en caso de suspensión, o el concursado, en caso de
intervención, podrán solicitar la resolución del contrato si lo estimaran conveniente al interés del concurso...
3. Se tendrán por no puestas, las cláusulas que establezcan la facultad de resolución o la extinción del contrato por la sola causa de
declaración de concurso de cualquiera de las partes”.
2. Efectos de la declaración de concurso sobre los convenios arbitrales.- El art. 52.1 de la LC, titulado “procedimientos arbitrales”, dispone que:
“Los convenios arbitrales en que sea parte el deudor quedarán
sin valor ni efecto durante la tramitación del concurso, sin perjuicio
de lo dispuesto en los tratados internacionales”.
El legislador se refiere genéricamente a “los convenios arbitrales”, sin más, por lo que una interpretación literal, a la vista de que
la ley no distingue, lleva a la conclusión de que todos los convenios
arbitrales quedan incluidos en la hipótesis legal y, en su consecuencia, son condenados a la ineficacia durante la tramitación del concurso, dejando sólo a salvo “lo dispuesto en los tratados internacionales”.
Es una toma de posición de política legislativa que lleva a distinguir entre el contrato de arbitraje, al que se priva de “valor y efecto”
durante la tramitación del concurso, y los demás “contratos con prestaciones recíprocas pendientes de cumplimiento”, que se declaran in-
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munes a la declaración de concurso (art. 61.2), como se ha expuesto
anteriormente.
Refiriéndose a los “convenios arbitrales”, el legislador no toma
en consideración, en un eventual procedimiento arbitral, – lo que el
precepto excluye sin más –, la eventual posición activa o pasiva que pudiera ocupar el deudor concursado, con independencia de los supuestos
frecuentes – por lo menos en todos los casos de reconvención – en
que ambos firmantes del convenio arbitral, asumen ambas posiciones,
activa y pasiva, en el mismo procedimiento arbitral. Naturalmente quedan fuera de la hipótesis legal, los eventuales convenios arbitrales, de
los que el deudor concursado sea ajeno, y que se tramiten de acuerdo
con las prescripciones de la Ley de arbitraje.
Para que el efecto paralizante, dispuesto por el art. 52.1, prive de
“valor y efecto” al convenio arbitral, es necesario que, en el momento
de la declaración de concurso, el deudor declarado concursado, “sea
parte” del convenio, es decir, haya prestado su consentimiento, y concurran los requisitos de “forma y contenido” legalmente establecidos
(art. 9, LA 2003), que, en general, obligan al requerido por la otra
parte a someter la controversia a la decisión arbitral.
Sin embargo, una interpretación finalista, atendiendo al propósito perseguido por la declaración de concurso, que no es otro que regular “la concurrencia de los acreedores sobre el patrimonio del deudor común” (E. de M., II), y la orientación de la reciente LA 2003,
que se propone la difusión de las técnicas arbitrales de solución de
conflictos, nos lleva a estimar están contemplados por el art. 52.1 LC,
solamente los convenios arbitrales que puedan afectar al patrimonio
del concursado, que ciertamente serán la mayor parte de los convenios arbitrales suscritos por el deudor.
Los efectos de la declaración del concurso sobre el convenio arbitral tienen una duración limitada, “durante la tramitación del concurso”, (52.1 LC). Por ello, en caso de conclusión del concurso (art.
176 LC), cesan los efectos paralizantes que derivan de la declaración
de concurso y, cualquiera de las partes, si es de su interés, podrá requerir a la otra para iniciar la tramitación de un procedimiento arbitral temporalmente impedidos dependiendo del modo en que se concluya el concurso 30, por lo que es de presumir que tal hipótesis se
dará, en la práctica, en escasas ocasiones.
(30) C. VÁZQUEZ IRRUZUBIETA, Comentarios a la Ley concursal. Ley 22/2003, de 9
de julio, Madrid, 2003, pág. 569.
– 72 –
El ámbito de aplicación del art. 52.1 LC coincide sustancialmente con la competencia del juez del concurso, contemplada por el art. 8
LC, que comprende, en particular, “las acciones civiles con trascendencia patrimonial que se dirijan contra el patrimonio del concursado, con excepción de las que se ejerciten en los procesos de capacidad, filiación, matrimonio y menores”, así como las medidas cautelares “necesarias para asegurar la integridad del patrimonio del deudor” (art. 17.1 LC), esto es, “toda medida cautelar que afecte al patrimonio del concursado, excepto las que se adopten en los procesos
civiles (art. 8.4º LC),de las que nos ocupamos más abajo. En definitiva, es el ámbito de la competencia de los juzgados de lo mercantil,
según el par. g), del ap. 2, del art. 86 ter, de la LOPJ, modificado por
la Ley Orgánica 20/2003, de 23 de diciembre, modificando la Ley
Orgánica del Poder Judicial y del Código Penal, que exigiría un análisis más detenido 31.
3. Efectos sobre los procedimientos arbitrales en tramitación. Como
hemos apuntado antes, la filosofía de la normativa propuesta en los
Anteproyectos se mantiene en el articulado de la LC y, en particular,
en los arts. 52, 53 y 54.
Procede, también, tomemos en consideración el contenido de los
aps. 2 y 3 del art. 51, a los que se remite el art. 52.2, según el que:
“los procedimientos arbitrales en tramitación al momento de la
declaración del concurso se continuarán hasta la firmeza del laudo,
siendo de aplicación las normas contenidas en los apartados 2 y 3 del
artículo anterior”.
El legislador, consciente de que la regulación de los efectos de la
declaración de concurso sobre los contratos era una de las materias
(31) Entendemos que las críticas formuladas en torno a las competencias atribuidas a los Juzgados de lo mercantil en el art. 86. ter de la LOPJ, y antes en el
Anteproyecto del Ministerio de Justicia, por J. RIESGO MILLA, Los Juzgados, op. cit.,
págs. 9-10 actualmente tendrían sentido. Es un planteamiento abierto a la nueva doctrina que se centrará, sin duda, en torno a la identificación, con la práctica, de las “acciones civiles con trascendencia patrimonial que se dirijan contra el patrimonio del
concursado”. Refiriéndose al momento prelegislativo, el mismo autor sugiere “aumentar el catálogo de competencias de los nuevos juzgados a materias estrictamente
mercantiles y revisar la “racionalidad de los criterios del Anteproyecto, excluyendo el
conocimiento de cuales-quiera materias ajenas al derecho concursal y mercantil, al
menos en su fase declarativa”. En cambio I. HERBOSA MARTÍNEZ, Los efectos, op. cit.
pág. 149 y sigs., hace una enumeración de tales acciones, considerando ajenas al concurso “todas las acciones que no estén directamente dirigidas contra el patrimonio
del concursado”.
– 73 –
deficientemente tratadas, los ha hecho “objeto de especial atención” y
ha dictado la normativa “de mayor originalidad en la nueva Ley”. Principio general que inspira el régimen de la LC es el de que “la declaración de concurso no afecta en principio, a la vigencia de los contratos
con prestaciones recíprocas pendientes de cumplimiento por ambas
partes”. (E. de M., III, LC) 32.
El principio general apuntado tiene su consagración normativa
en el art. 51, cuyo ap. 1, dispone que:
“Los juicios declarativos en que el deudor sea parte y que se encuentren en tramitación al momento de la declaración de concurso se
continuarán hasta la firmeza de la sentencia”.
El principio general, en su aplicación específica para los procedimientos arbitrales, ha sido formulado en el art. 52.2, trascrito antes.
Los efectos de la declaración de concurso sobre los juicios declarativos y sobre los procedimientos arbitrales, en tramitación, son idénticos. En ambos casos, los procedimientos continuarán hasta la firmeza de la sentencia o del laudo, respectivamente. Para ello, por razones
de economía normativa, utilizando la técnica legislativa habitual, el
art. 52.2 LC se remite a los aps. 2 y 3 del art. 51 de la misma, que
sancionan una solución coherente con la continuidad del procedimiento
arbitral y los efectos de la declaración de concurso sobre las partes. La
LC distingue los casos de suspensión de las facultades de administración y disposición (art. 51.2) y los de mera intervención del deudor
(art. 51.3). Ambos supuestos se someten, en lo que toca a las facultades del deudor concursado, a una normativa diferenciada, que incide
sobre el régimen de participación en la tramitación de los respectivos
procedimientos.
En el primer caso, en el que se dispone de la mera suspensión de
facultades de administración y disposición, “la administración concursal, en el ámbito de sus competencias, sustituirá a éste (el deudor) en
los procedimientos en trámite, a cuyo efecto se le concederá, una vez
(32) En este sentido, el art. 61.2, de la LC dispone que: “La declaración de
concurso, por sí sola no afectará a la vigencia de los contratos con obligaciones recíprocas pendientes de cumplimiento tanto a cargo del concursado como de la otra
parte. Las prestaciones a que está obligado el concursado se realizarán con cargo a la
masa”. Sin embargo, el art. 63.2, dispone que: “Tampoco afectará a la aplicación de
las leyes que dispongan o expresamente permitan pactar la extinción del contrato en
los casos de situaciones concursales o de liquidación administrativa de alguna de las
partes”. Según el art. 61.3: “Se tendrán por no puestas las cláusulas que establezcan la
facultad de resolución o la extinción del contrato por la sola causa de la declaración
del concurso de cualquiera de las partes”.
– 74 –
personada, un plazo de cinco días para que se instruya en las actuaciones, pero necesitará la autorización del juez del concurso para desistir,
allanarse, total o parcialmente y transigir litigios” (art. 51.2).
En caso de “concurso necesario” (ex art. 22.2), el deudor será
sustituido por los administradores concursales, en el ejercicio de las
facultades de administración y disposición sobre su patrimonio. Sin
embargo, como “la sustitución no impedirá que el deudor mantenga
su representación y defensa separada por medio de sus propios procurador y abogado”, resulta que el deudor, parte de un procedimiento
arbitral, conserva la posibilidad para intervenir en el procedimiento,
siempre “que garantice de forma suficiente ante el juez del concurso
que los gastos de su actuación procesal y, en su caso, la efectividad de
la condena en costas, no recaerán sobre la masa del concurso”. Tal
limitación se sanciona con especial rigor: “Sin que en ningún caso,
pueda realizar las actuaciones procesales que, conforme al párrafo anterior, corresponden a la administración concursal, con autorización
del juez”, del concurso (art. 51. 2. par. 1º). Sin prestar garantía suficiente, el deudor concursado, no podrá “desistir, allanarse, total o parcialmente y transigir litigios” y, en su consecuencia, tampoco podrá,
de acuerdo, con el acreedor, antes de dictarse el laudo “desistir del
arbitraje o suspenderlo por un plazo determinado”. Tal posibilidad es
contemplada, en cambio, con carácter general por el art. 31 LA 1988,
según el que:
“En cualquier momento antes de dictarse el laudo, las partes de
común acuerdo, pueden desistir del arbitraje o suspenderlo por un
plazo cierto y determinado”.
Bajo el imperio de la LA 2003, el art. 25.1, permite llegar a la
misma conclusión.
En cuanto a “las costas impuestas a consecuencia del allanamiento o desistimiento”, en ambos casos (art. 51.2.par. 1º y 3º ult. inciso)
“tendrán la consideración de crédito concursal” y “en caso de transacción se estará a lo dispuesto en materia de costas”, en el supuesto de
que la administración concursal, con la autorización del juez , ejerza
tales facultades.
En el caso de concurso voluntario, es decir “cuando la primera
de las solicitudes presentadas hubiese sido la del propio deudor” (art.
22.1), “el deudor conservará las facultades de administración y disposición sobre su patrimonio, quedando sometido el ejercicio de éstas a
la intervención de los administradores concursales mediante su autorización o conformidad” (art. 40.1), en los términos del art. 35.
– 75 –
En su consecuencia, “en caso de intervención el deudor conservará su capacidad para actuar en juicio, pero necesitará la autorización de la administración concursal, para desistir, allanarse, total o
parcialmente y transigir litigios cuando la materia litigiosa pueda afectar
a su patrimonio” (art. 51.3).
La diferencia de tratamiento del deudor concursado, parte de un
procedimiento arbitral, en caso de concurso voluntario y en caso de
concurso necesario, es notable, aunque en ambos casos es necesaria la
autorización de la administración concursal.
Debemos, sin embargo, recordar, las excepcionales facultades
conferidas al juez, que “podrá acordar la suspensión en caso de concurso voluntario o la mera intervención cuando se trate de concurso
necesario, en ambos casos, deberá motivarse el acuerdo, señalando los
riesgos que se pretendan evitar y las ventajas que se quieran obtener”
(art. 40.3). Además, “el juez mediante auto”, “a solicitud de la administración concursal y oído el concursado”, podrá acordar en cualquier momento el cambio de las situaciones de intervención o de suspensión de las facultades del deudor sobre su patrimonio” (art. 40.4).
Todo ello con la “misma publicidad que, conforme a los arts. 23 y 24,
se hubiera dado a la declaración de concurso” (art. 40.4, últ. par).
En resumen, la declaración de concurso del deudor, en un momento en que el procedimiento arbitral está en tramitación, no tiene
por efecto su suspensión y continuará su curso hasta que el laudo alcance firmeza, esto es, hasta llegar a su meta natural. Sin embargo, la
participación del deudor concursado, en la tramitación del procedimiento arbitral, está sometido a un régimen diversificado para cada
uno de los dos casos apuntados.
Lo que permite llegar a la conclusión de que ambos procedimientos – concursal y arbitral – no son incompatibles y excluyentes, estando legalmente previsto que sus respectivas tramitaciones, procedan simultáneamente
La reciente LA 2003, no contempla los efectos de la declaración
de concurso sobre el arbitraje, que regula la LC. Tampoco contiene
ningún precepto que contraste o dificulte la aplicación plena de los
artículos dictados para el caso del deudor concursado. Durante el periodo de elaboración de los sucesivos Anteproyectos de Ley de concurso, anotamos anteriormente, la insensibilidad de sus autores por el
tema arbitral. Finalmente los redactores de dos leyes próximas en el
tiempo, la LC y la LA 2003, han ofrecido soluciones que hacen compatibles ambos ordenamientos, concursal y arbitral, aunque desde el
punto de vista del arbitraje en continúa y rápida expansión, hubiese
– 76 –
podido esperarse un mayor espacio y un tratamiento más acorde a su
utilización en caso de concurso.
No parece razonable, p. ej. que el art. 54.1 LC contemple la posibilidad de que el deudor, en régimen de suspensión pueda “allanarse,
transigir o desistir cuando la materia litigiosa pueda afectar a su patrimonio”, contando con la “conformidad de los administradores concursales”, y no se le reconozcan análogas facultades para participar en
un procedimiento arbitral. Teniendo en cuenta que el “deudor podrá
personarse y defenderse de forma separada en los juicios que la administración concursal haya promovido” (art. 54.3 LC).
Tampoco parece razonable que el art. 52, someta al arbitraje a un
tratamiento discriminatorio respecto de los contratos bilaterales en
general. Los dos apartados del artículo 52 focalizan los efectos de la
declaración de concurso, sobre los “convenios arbitrales” (art. 52, 1) y
sobre los “procedimientos arbitrales en tramitación” (art. 52.2).
Los “convenios arbitrales en que sea parte el deudor”, no tendrán “valor ni efecto” durante la tramitación del concurso.
El convenio arbitral podría dar origen, antes de la declaración de
concurso, a un procedimiento arbitral. Declarado el concurso, se daría
el supuesto de procedimiento arbitral en tramitación, contemplado en
el art. 52.2, que dispone su continuación hasta la firmeza del laudo.
Durante este periodo de tramitación del procedimiento arbitral, en el
que el deudor concursado es parte, sus facultades de intervención en
la gestión del mismo, están reguladas en los apartados 2 y 3 del art. 51
LC, de forma análoga a lo previsto para el caso de juicios declarativos.
En el primer caso (art. 51.2) no se ‘plantea cuestión respecto de
la intervención del deudor parte del convenio arbitral, porque a partir
del momento de la declaración de concurso el convenio arbitral queda sin “valor ni efecto”, y durante la tramitación del concurso, se
excluye toda posibilidad de que dé origen a un procedimiento arbitral. Aunque el art. 52 está titulado “Procedimientos arbitrales”, en
este caso tales procedimientos son sencillamente excluidos, porque el
contrato que podría originarlo, el convenio arbitral, a petición de cualquiera de las partes, ha sido privado de “valor y efecto”. Ha sido privado de valor, para producir el efecto que le es propio, esto es, dar
origen a un procedimiento arbitral, dentro del amplio margen que la
LA reserva a la autonomía de la voluntad de las partes 33.
(33) Para el convenio arbitral, en general, vid. E. ARTUCH IRIBERRI, El Convenio
arbitral en el arbitraje comercial internacional, prólogo de J.C. Fernández Rozas, Madrid, 1997. La LA 2003. art. 4 b) aclara que cuando la Ley “se refiera al convenio
arbitral... se entenderá que integran su contenido las disposiciones del reglamento de
– 77 –
El legislador no pone en cuestión la plena validez del convenio
arbitral pactado por el deudor, antes de declararse el concurso, ni se
plantea los efectos de éste sobre quienes pactaron el convenio. Utiliza
una técnica mucho más eficaz y segura, consistente en privar al convenio arbitral de toda la eficacia que le es propia y característica.
En definitiva, las partes quedan privadas, a la vez, de la facultad,
y liberadas del deber de someter a arbitraje “la solución de todas las
cuestiones litigiosas o de algunas de estas cuestiones, surgidas o que
puedan surgir de relaciones jurídicas determinadas, sean o no contractuales” (art. 5.1. LA 1988), aunque el convenio arbitral sea válido
y reúna todos los requisitos legales (art. 6.1 LA 1988) y, análogamente,
bajo el imperio del art. 9 de la LA 2003.
Durante la “tramitación del concurso”, ninguna de las partes de
un convenio arbitral suscrito por un deudor, podrá hacer valer sus
derechos, constriñendo a la otra a dirimir una cuestión litigiosa por
las vías arbitrales, en los términos previamente pactados.
La solución sancionada por el legislador es radicalmente distinta
para los procedimientos arbitrales no iniciados en el momento de la
declaración de concurso, y para los procedimientos arbitrales en “tramitación” en el momento de la declaración de concurso (art. 52.2).
Los primeros no podrían iniciarse, mientras que los segundos, continuarán su curso hasta la firmeza de laudo.
De tal forma, el arbitraje es sometido al mismo régimen previsto
por el art. 51.1 para los nuevos juicios declarativos, mientras que para
el supuesto del art. 52.1 el contrato de arbitraje, es discriminado y
sometido a un régimen de disfavor, respecto de los contratos con obligaciones recíprocas pendientes de cumplimiento. Para estos últimos
el art. 61.2 dispone que “la declaración de concurso, por si sola no
afectará a la vigencia de los contratos con obligaciones recíprocas pendientes de cumplimiento” y aún “se tendrán por no puestas las cláusulas que establezcan la facultad de resolución o extinción del contrato por la sola causa de la declaración de concurso de cualquiera de las
partes” (art. 61.3). Sin embargo, la administración concursal o el con-
arbitraje al que las partes se hayan sometido”. Promulgada la LA 2003, la introducción de la Redacción de la Revista Derecho de los Negocios, nº 161, febrero 2004, pág.
2, ha querido valorar positivamente la “imparable electronificación de las relaciones
sociales”, con la consiguiente “aplicación de la equivalencia funcional del soporte
electrónico a toda la documentación contractual y procesal del arbitraje... No es meramente una facilitación formal del arbitraje lo que la Ley proporciona; también lo es
sustantiva”.
– 78 –
cursado, “podrán solicitar la resolución del contrato si lo estiman conveniente al interés del concurso” (art. 61. 2, par. segundo).
La privación de valor y efecto de los convenios arbitrales, tiene
una eficacia temporal precisa, “durante la tramitación del concurso”.
Los convenios arbitrales en los que el deudor es parte, no son declarados nulos, sólo quedan privados, temporalmente, de eficacia a partir
del inicio hasta la conclusión del concurso; precisamente “durante su
tramitación”, de lo que deriva que, al término del concurso, recuperada su eficacia y vigor, podrían dar origen a un procedimiento arbitral,
promovido por cualquiera de las partes, si sus diferencias no habían
quedado resueltas, y fuera de su interés promoverlo.
A los fines de precisar el periodo temporal durante el que las partes
no podrán solicitar la iniciación de un procedimiento arbitral (ex art. 52.1),
conviene recordar que la tramitación del concurso se inicia con el auto de
declaración de concurso, que “producirá sus efectos de inmediato, abrirá
la fase común de tramitación del concurso... y será ejecutivo, aunque no
sea firme” (art. 21.2), dándose “sin demora una comunicación individualizada a cada uno de los acreedores” (art. 21.4), con la que tomarán conocimiento de la privación de eficacia del convenio arbitral.
El periodo temporal, en cuestión, se cierra con la “conclusión
del concurso”, en los términos del art. 176 y sigs., a partir de este
momento “cesarán las limitaciones de las facultades de administración
y disposición del deudor subsistentes, salvo las que se contengan en la
sentencia firme de calificación” (art. 178.1).
Todo ello, “sin perjuicio de lo dispuesto en los Tratados internacionales” (art. 51.1, in fine), ya que, según la normativa constitucional,
“válidamente celebrados, una vez publicados oficialmente en España,
forman parte del ordenamiento interno” (art. 96, 1 CE, vid., también,
art. 1.5 C.c.) 34, por lo que es previsible que un Tratado internacional
sancione una solución diferente, que prevalezca sobre el art. 51.1 LC.
El último inciso del art. 51.1 LC, –“sin perjuicio de los Tratados
internacionales” – es plenamente coherente con el art. 96 de la CE,
confiriéndoles un valor análogo a la ley, y con el art. 1.5 incluido en el
Título Preliminar del Código civil, del que resulta que las “normas
jurídicas contenidas en los Tratados internacionales”, serán de aplica-
(34) Para un planteamiento general del tema v. J. RODRÍGUEZ-ZAPATA, Constitución, Tratados internacionales y sistema de fuentes del derecho, Bolonia, 1976, prólogo de
A. La Pergola; para una exposición actualizada vid. A. CALVO CARAVACA-J. CARRAS- COSA
GONZÁLEZ, Derecho Internacional Privado, I, 2ª ed., Granada, 2000, pags. 34 y sigs.)
– 79 –
ción directa en España, cuando “hayan pasado a formar parte del ordenamiento interno mediante su publicación integra en el BOE”.
Conviene tener presente, como ha sido señalado oportunamen35
te , que el precepto se refiere aquí a los Tratados “en cuanto a creadores de normas jurídicas aplicables a los ciudadanos” de los Estados
que hayan suscrito tales Tratados. Con excepción de algunos convenios internacionales, especialmente en materia de transportes internacionales 36, es muy reducido el número de Convenios internacionales
que contienen normas específicas en materia de arbitraje. Ni los grandes Tratados multilaterales en materia de arbitraje suscritos por España,
tardíamente, aunque sin reservas, y de considerable impacto entre nosotros, como los Convenios de Nueva York, de 10 de junio de 1958,
sobre reconocimiento y ejecución de sentencias arbitrales extranjeras,
ni el Convenio europeo de Ginebra de 21 de abril de 1961, sobre arbitraje comercial internacional, que por su finalidad específica y por su
planteamiento general, lógicamente no contiene referencias singulares
a arbitrajes sectoriales. Tampoco las contienen los Convenios bilaterales suscritos por España, hasta la fecha, de los que hemos efectuado
una rápida revisión, y que hacen referencia a nuestro tema.
Análogamente, la legislación arbitral hace referencia exclusivamente a los Tratados internacionales con referencia a la ejecución en
España de los laudos arbitrales extranjeros (Título IX, de la LA, art.
56 y sigs.) 37 , y la LA 2003, art. 46 que, se remite en materia de exequátur de laudos extranjeros, sin más, al Convenio de Nueva York, de
10 de junio de 1958 “sin perjuicio de lo dispuesto en otros convenios
internacionales más favorables a su concesión”.
Bajo el régimen de la LA 1988, los “procedimientos arbitrales en
tramitación”, a los que se refiere el art. 52.2 de la LC son contemplados por el art. 22.1 LA 1988, para precisar que “el procedimiento ar-
(35) L. DÍEZ-PICAZO, Comentario del Código civil, I, Madrid, 1991, pág. 10-11.
(36) Convenio sobre contrato de transporte internacional de mercancías por
carretera (CMR), hecho en Ginebra el 19 de mayo de 1956, art. 33; Convenio internacional sobre transporte internacional de viajeros y equipajes por ferrocarril, hecho en
Berna, el 7 de febrero de 1970, art. 57; Convenio internacional sobre transportes de
mercancías por ferrocarril (CIM), hecho en Berna el 7 de febrero de 1970, art. 61 y el
Convenio Internacional relativo a los transportes internacionales por ferrocarril (COTIF), hecho en Berna el 9 de mayo de 1980, todos ellos incorporados a nuestro derecho interno.
(37) Vid sobre el tema J.C. FERNÁNDEZ ROZAS, en Comentarios a la Ley de Arbitraje, coord. A. Bercovitz, Madrid, 1991, pág. 841 y sigs.
– 80 –
bitral comienza cuando los árbitros hayan notificado a las partes por
escrito la aceptación del arbitraje” 38, esto es, en la fecha “en que hubieren aceptado la resolución de la controversia” (art. 30.1 LA 1988).
En cambio, bajo el imperio de la LA 2003, “salvo que las partes hayan
convenido otra cosa, la fecha en que el demandado haya recibido el
requerimiento de someter la controversia a arbitraje se considerará la
del inicio del arbitraje” (art. 27).
Por otra parte, la tramitación de los procedimientos arbitrales
“continuará hasta la firmeza del laudo” (art. 52.2 LC), firmeza que se
alcanza cuando no se interpone recurso motivado, dentro de los diez
días siguientes al de la notificación del laudo, o de la aclaración, a que
se refiere el art. 36, ante la Audiencia Provincial (art. 46.2 LA 1988), o
cuando el recurso no prospera, dado que contra la Sentencia de la
Audiencia Provincial “no cabrá ulterior recurso” (art. 49.2 LA 1988),
excepto el de revisión (art. 37 LA 1988), por los motivos, con los requisitos y a través del procedimiento previsto por la LEC (art. 509 y
sigs.). En el marco de la LA 2003 el “laudo definitivo” (art. 38.1) alcanzará firmeza en el caso de que no se haya ejecutado la acción de
anulación “dentro de los dos meses siguientes a su notificación o, en
caso de que, se haya solicitado corrección, aclaración o complemento,
desde la notificación de la resolución sobre esta solicitud, o desde la
expiración del plazo para adoptarla” (art. 41.4), sin que se haya ejecutado la acción de anulación, en los términos del art. 42, o ésta no haya
prosperado.
La LC, art. 52, sanciona una solución distinta para “los convenios
arbitrales en que sea parte el deudor” durante la tramitación del concurso (art. 52.1), y para “los procedimientos arbitrales en tramitación al
momento de la declaración de concurso” (art. 52.2). En el primer caso,
como hemos visto antes, al dejar “sin valor ni efecto” el convenio arbi(38) Para la problemática del precepto, vid., en síntesis, J. Mª MASCARELL NAen Comentario breve a la Ley de arbitraje (dir. J. Montero Aroca), Madrid,
1990, pág. 120 y sigs., “el procedimiento arbitral comienza cuando los árbitros... más
precisamente, cuando se da noticia escrita a las partes de la aceptación del nombramiento por los árbitros, por todos los árbitros, dentro del plazo hábil”. En cuanto a la
forma de notificar a las partes, habrá que estar a los acuerdos de éstas, si existen,
aunque “no pueden desconocerse dos cosas: primera, que el art. 22.1 LA no exige la
notificación personal a las partes, y, segunda, que la voluntad de una de las partes no
puede impedir la realización del procedimiento arbitral, por lo que éste se iniciará
también cuando, aún no habiéndose logrado notificar a las partes el escrito de aceptación del arbitraje, la asociación o corporación, los árbitros o el Juzgado, hayan realizado toda la actividad que consideren necesaria para poner en conocimiento de las partes la aceptación de los árbitros nombrados”.
VARRO,
– 81 –
tral, queda claro que una vez iniciada la tramitación del concurso, no
podrá iniciarse un procedimiento arbitral, eliminándose así la problemática que podría surgir de la tramitación simultánea de ambos procedimientos. En cuanto, los procedimientos arbitrales ya en tramitación, en
el momento de la declaración del concurso, seguirán su curso.
Esta circunstancia obliga a precisar, en el ámbito de sus respectivas disciplinas, el inicio del estadio de “tramitación”, tanto respecto
del concurso como del procedimiento arbitral.
Según el art. 21.2 LC el auto de declaración de concurso “producirá sus efectos de inmediato (y), abrirá la fase común de tramitación
del concurso... y será ejecutivo aunque no sea firme”. Los efectos de la
declaración de concurso sobre los “procedimientos arbitrales en tramitación”, se contemplan como hemos visto en el art. 52.2 LC.
Sin embargo, mientras los efectos del auto de declaración de concurso se producen “de inmediato”, lo que no plantea problemas interpretativos, no puede decirse otro tanto del inicio del procedimiento
arbitral, en las sucesivas leyes de arbitraje que utilizan distintas técnicas para su señalamiento, e incluso diversa terminología, lo que no
facilita la labor del intérprete.
Como hemos apuntado, la LA 1988 se refiere al comienzo del
“procedimiento arbitral” (art. 22.1). La LA 2003, prefiere, en cambio,
“inicio del arbitraje” (art. 27), y, en particular, “sustanciación de las
actuaciones arbitrales”, que encabeza el Título V, y es utilizada en varios de sus arts. (30, 31, 38). En la LA 1988, encontramos, esporádicamente, “desarrollo de la actuación arbitral (p. ej. art. 45.2).
Con anterioridad a la entrada en vigor de la LC, bajo el imperio
de la LA 1988 la fijación del comienzo del procedimiento arbitral, no
mereció la atención de una doctrina, que no lo considera “dato significativo en relación con otras reglas de la misma Ley 39. Adquiere, sin
embargo, tal carácter, y un considerable interés práctico con la promulgación de la LC, cuyo art. 52.2 le atribuye importantes efectos,
que obligan al intérprete a un examen conjunto de ambos ordenamientos sectoriales.
(39) R. DE ANGEL, Comentarios a la Ley de Arbitraje, (coord. A. Bercovitz),
Madrid, 1991, pág. 385, “en otras palabras – escribía – creemos que se trata de una
referencia cronológica carente de particular importancia”. Vid., sin embargo, J.M.
CHILLÓN MEDINA y J.F. MERINO MERCHÁN, Tratado de arbitraje privado interno e internacional, 2ª ed, Madrid, 1991, pág. 332 bajo el epígrafe “3. Tramitación del procedimiento arbitral, A) Iniciación del procedimiento”.; Mª J. MASCARELL, Com. art. 22.1
LA 1988, en Comentario Breve a la Ley de Arbitraje (dir. J. Montero Aroca), Madrid,
1990, págs. 120-122.
– 82 –
En todo caso, las leyes de arbitraje ignoran el término “tramitación”, posiblemente por estimarlo poco preciso y más propio de las
prácticas administrativas 40, aunque es utilizada por la vigente LEC 41
y la LC, no sólo referido, como sabemos, al procedimiento arbitral
(art. 52.2), sino también al propio concurso (art. 22.2). La LA 2003
(art. 11.3) 42 utiliza accidentalmente las dos expresiones, “actuaciones
arbitrales” y “tramitación”, por razones de estilo, pero con contenido
análogo.
Con independencia de la variedad de la terminología utilizada
por el legislador en materia arbitral y la escasísima utilización de la
expresión “tramitación”, elegida por el artículo 52.2 LC, a los fines
que nos interesan, entendemos que, el procedimiento arbitral está en
“tramitación”, desde el momento en que “el demandado haya recibido el requerimiento de someter la controversia a arbitraje” (art. 27 LA
2003), que marca el “inicio del arbitraje”, en la terminología legal, aunque todavía “no esté perfectamente delimitado el objeto de la controversia” (E. de M., VI, par. 4º).
Con esta solución el momento a partir del que el procedimiento
arbitral debe considerarse “en tramitación”, a los efectos del art. 52.2
LC, es anticipado, respecto del sancionado por el art. 22.1 LA 1988,
con el efecto de favorecer la continuación del procedimiento arbitral
en curso en el momento de la declaración de concurso.
Una solución pro-arbitraje, en definitiva, concorde con la filosofía que inspira la LA 2003.
El art. 27 LA 2003, fiel a la “amplia autonomía de la voluntad
reconocida por la Ley” 43, deja a “salvo que las partes hayan convenido otra cosa”, sea en el ámbito de un arbitraje ad hoc o en un arbitraje
institucional o administrado. En ambos casos con muy amplias posibilidades para las partes, en cuanto del tenor literal del art. 27 resulta
(40) El DRAE, ed. 22ª, Madrid, 2001, recoge las voces “tramitación”. 2. Serie
de trámites prescritos para un asunto, de los seguidos por él y “trámite”. 2. Cada uno
de los estados y diferencias que hay que recorrer en un negocio hasta su conclusión.
Diccionario del español actual, de M. SECO, O. ANDRÉS, GABINO RAMOS, Madrid, 1999,
II, voz Tramitación: tramitaciones sociales de todas clases.
(41) Vid. p. ej. art. 248. “que no tenga señalada por la Ley otra tramitación”.
(42) La Ley 60/2003, art. 11.3, “el convenio arbitral no impedirá a ninguna de
las partes, con anterioridad a las actuaciones arbitrales o durante su tramitación...”,
parece agrupar actuaciones arbitrales y tramitación de las mismas, utilizadas indiferentemente para evitar su repetición en un precepto breve.
(43) L. MUÑOZ SABATÉ, El reglamento de la institución arbitral, cit. págs. 49 y
sigs., 51
– 83 –
que no es necesario que el demandado haya suscrito previamente un
convenio arbitral, y el reglamento de la institución administradora del
arbitraje pueda prever soluciones que no se ajusten a la sancionada
por el art. 27. La E. de M. advierte, sin embargo,que podrían “dificultar el procedimiento”, reduciendo, eventualmente, las garantías encaminadas a impedir las actuaciones dilatorias 44.
En los arbitrajes institucionales, los Reglamentos de la entidad gestora, a los que las partes se adhieren al suscribir el convenio arbitral
pueden ofrecer gran variedad de soluciones, que habría que examinar
caso por caso, lo que exigiría mayor espacio del que disponemos 45.
En el arbitraje administrado siguiendo el Reglamento de Arbitraje de la CCI, vigente a partir del 1º de enero de 1998, art. 4.2, “la
fecha de recepción de la Demanda por la Secretaría será considerada
como la fecha de inicio del procedimiento arbitral”, lo que “garantiza
que las partes no tendrán dificultad para iniciar el arbitraje o para
determinar la fecha de su inicio. Por consiguiente, la simple presentación de la demanda de arbitraje ante la CCI deberá bastar para fijar el
inicio de los procedimientos de arbitraje” 46, sistema que, al parecer,
no ha suscitado problemas en su aplicación práctica.
Por lo que respecta al art. 52 LC habría sido conveniente, a los
fines de ofrecer más seguridad jurídica, utilizar la técnica adoptada
por la LA 1988 consistente en fijar el “comienzo” del procedimiento
arbitral sancionado por el art. 22.1, norma vigente, en el momento de
promulgar la LC, lo que habría evitado dudas, aunque es obvio que
desde la entrada en vigor de la LA 2003 sus preceptos regularán los
aspectos arbitrales correspondientes.
4. – Efectos de la declaración de concurso sobre los laudos firmes. –
El art. 53, bajo el epígrafe “Sentencias y laudos firmes”, dispone que:
(44) Sobre el tema vid. espec. ult. F. MUNNÉ CATARINA, Efectos jurídicos derivados del inicio del arbitraje; y L. MUÑOZ SABATÉ, El reglamento, ambos en el Anuario
Justicia Alternativa. Derecho arbitral, nº 5, 2004, pág. 107 y sigs., y 40 y sigs., respectivamente
(45) Para el tema vid ult. L. MUÑOZ SABATÉ, El reglamento de la institución arbitral, op. cit., pág. 49 y sigs., que subraya la “amplia autonomía de la voluntad que a
borbotones surge de la Ley (y que) debiera a su vez ser aplicable al Reglamento institucional, ya que aquella voluntad deviene transmisible a este último en virtud del
convenio arbitral” (pág. 51), añadiendo “el alcance y contenido legales de un reglamento institucional (pág. 52 y sigs.). Vid., también, F. MUNNÉ CATARINA, La Administración del arbitraje, 2002, pág. 47 y sigs.
(46) Y. DERAINS Y E.A. SCHWARTZ, El nuevo Reglamento de Arbitraje de la Cámara de Comercio Internacional, 1998, pág. 61-62.
– 84 –
“1. Las sentencias y los laudos firmes dictados antes o después
de la declaración de concurso vinculan al juez de éste, el cual dará a
las resoluciones pronunciadas el tratamiento concursal que corres-ponda”.
Con el precedente del art. 63.1º de la “Propuesta de Ley Concursal” de 1995, con algún retoque de redacción, el art. 53.1 de la LC
contiene un mandato al juez del concurso para que dé a las sentencias
y a los laudos firmes, con independencia de que hayan sido dictados
antes o después de la declaración de concurso, el “tratamiento concursal que corresponda”.
Análogo tratamiento, debe entenderse, deberá reservarse, en caso
de acumulación, en los términos del art. 51.1 LC, o en el supuesto de
tramitación por el cauce del incidente concursal que, en principio, no
suspenderá el procedimiento de concurso (art. 192.1.2).
Así, el reconocimiento de un crédito, por sentencia o laudo firme, tendrá “efectos idénticos a la de cosa juzgada” (arts. 222 LEC y
37 LA 1988 y 43 LA 2003), lo que excluye “un ulterior proceso cuyo
objeto sea idéntico al del proceso en que aquella se produjo” (art. 222.1
LEC), y se inscribirá en la “lista de acreedores”, en la clase que le haya
sido atribuida a efectos del concurso (art. 89, privilegiado, ordinario y
subordinado), a resultas de la eventual revisión (art. 509 y sigs. LEC y
art. 37 LA 1988 y 43 LA 2003), para los laudos arbitrales firmes, contra los que “sólo cabrá recurso de revisión, conforme a lo establecido
en la legislación procesal para las sentencias judiciales firmes”.
La referencia a sentencias y laudos firmes “dictados antes o después de la declaración de concurso”, es coherente con la prohibición,
declarado el concurso, de nuevos procesos de ejecución singulares,
contra el patrimonio del deudor, aunque la declaración de concurso
no impide nuevos juicios declarativos (art. 50), los procedimientos arbitrales antes de la declaración de concurso (art. 52.1), ni la continuación de los procedimientos judiciales pendientes (art. 51.1) o arbitrales en tramitación (art. 52.2).
Recuérdese, además, el tratamiento sancionado para los créditos
“reconocidos por laudo o por sentencia, aunque no fueran firmes”
(art. 86.2).
El texto actual del art. 53.2, relativo a la acción “para impugnar
los convenios y procedimientos arbitrales en caso de fraude”, es el
resultado de algunas modificaciones, oportunas, en primer lugar en
cuanto al titular de la acción, que sucesivos Anteproyectos asignaban
a la “administración judicial” y que la LC ha sustituido, coherentemente, por la “administración concursal”.
– 85 –
Atendiendo una enmienda, como hemos apuntado antes, también se ha suprimido la improcedente remisión a “lo dispuesto en la
Ley 36/1988, de 5 de diciembre, de Arbitraje”, no sólo por el inconveniente de remitir a una ley concreta, como era la LA 1988, en trance
de ser derogada por la nueva LA, a la que se refiere la enmienda, sino
también, y especialmente, porque la nueva Ley 60/2003 no ofrece un
cauce específico “para impugnar los convenios y procedimientos arbitrales en caso de fraude”.
Ni siquiera para los laudos firmes, a los que se refiere el art. 53.1,
porque éstos, en cuanto “producen efectos idénticos a la cosa juzgada” (art. 37 LA), devienen ininpugnables. La LA 1988 sólo contempla
el ejercicio de una acción de anulación de los laudos, por alguno de
los motivos tasados, enumerados en el art. 45, ejercitable dentro de un
plazo perentorio, y sólo para el caso de que no hubieran alcanzado
firmeza. Análogamente, la LA 2003, dispone que “el laudo firme produce los efectos de cosa juzgada y frente a él sólo cabrá solicitar la
revisión conforme a lo establecido en la LEC para las sentencias firmes” (art. 43).
El recurso de revisión, conforme a lo establecido en la legislación
procesal para las “sentencias judiciales firmes”, como última posibilidad contra el “laudo arbitral firme” (art. 37 LA 1988 y art. 43 LA
2003), y la impugnación de los “convenios y procedimientos arbitrales
en caso de fraude” (art. 53.2 LC), tienen un cauce adecuado en la
vigente LEC, Tit. VI, “De la revisión de las sentencias firmes”, que
señala entre los posibles motivos de revisión que “se hubiese ganado
injustamente en virtud de cohecho, violencia o maquinación fraudulenta (art. 510. 4º LEC). “Maquinación fraudulenta”, en la que se podrá incluir el “caso de fraude” del art. 53.2 LC, que señala, como subraya la doctrina, “con mucho la causa más frecuentemente invocada”, en la práctica. La doctrina, “de acuerdo con los abundantes
pronunciamientos del Tribunal Supremo al respecto”, entiende por tal
“cualquier conducta dolosa o gravemente negligente de una de las partes (realizada por si misma o con auxilio de un tercero), que impide o
dificulta gravemente la conducta del adversario y que tuvo influencia en
el sentido de fallo de la Sentencia cuya rescisión se solicita” 47.
(47) I. DÍEZ-PICAZO GIMÉNEZ, Derecho procesal civil. El proceso de declaración,
Madrid, 2000, pág. 529, que considera “caso típico, por ser el más frecuente en la
práctica, la ocultación por parte del demandante del domicilio del demandado, que
conduce a que éste sea emplazado por edictos y no tenga conocimiento de la pendencia del proceso frente a él y no pueda defenderse en absoluto”.
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La legitimación activa para solicitar la revisión se atribuye, en
general, a “quien hubiera sido parte perjudicada por la sentencia firme impugnada” (art. 511 LEC), y, en concreto, en nuestro supuesto, a
la “administración concursal” (art. 53.2), que con el juez del concurso, es uno de los dos “órganos necesarios en el procedimiento”, a la
que la LC “encomienda funciones muy importantes (E. de M., IV).
El art. 53 LC reúne en su versión definitiva dos párrafos de contenido dispar, bajo la rúbrica común de “Sentencias y laudos firmes”,
que no ofrece una idea cabal de su contenido real. El citado precepto,
tiene su origen en un único texto, el ap. 1 actual, al que posteriormente se añadió un nuevo par., lo que obligó a numerar los dos par. que lo
integran.
El pár. 1 se limita a reafirmar, la equiparación de sentencias y
laudos firmes, englobados por el legislador del nuevo concurso bajo la
denominación de “resoluciones pronunciadas”, consolidada desde
antiguo en las leyes y en la jurisprudencia del Tribunal Constitucional,
valorada como conquista del derecho del arbitraje. El Tribunal Constitucional, en numerosas resoluciones (15/1989, de 22 de enero y 62/
1991, de 22 de marzo), ha reconocido, al laudo arbitral el efecto de
cosa juzgada, calificándolo de “equivalente jurisdiccional, mediante el
que las partes pueden obtener los mismos objetivos que la jurisdicción civil”. El precepto reiterado ahora en el ámbito concursal, para el
caso de concurrencia con un arbitraje, responde a un propósito armonizador, disponiendo que el juez del concurso dé a las “resoluciones
pronunciadas”, “el tratamiento concursal que corresponda”.
La norma del art. 53.1 que se refiere a las sentencias y a los laudos firmes dictados “antes o después de la declaración de concurso”,
es coherente con el precedente art. 52 de la misma LC, sin introducir
ninguna novedad de relieve.
El par. 2 del art. 53, ofrece más interés al asignar a la “administración concursal”, entre otras “funciones muy importantes” (E. de
M. IV), la de “impugnar los convenios y procedimientos arbitrales en
caso de fraude”. La norma aclara, además, que “lo dispuesto en este
artículo” (rectius “todo ello sin perjuicio”, ya que el artículo fue remodelado y ampliado y que el precepto se refiere al ap. 1 actual) no es
obstáculo para la plena vigencia de lo que se dispone en el ap. 1.
El art. 53, ap. 2 es una norma especial, dictada en el ámbito del
nuevo derecho concursal, encaminada a la represión del fraude,
eventualmente arquitectado a través de “convenios y procedimientos arbitrales”, que ha sido instrumentada mediante la atribución a la administración concursal, entre otras funciones, la de impugnar tales “resolu-
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ciones”. El legislador ha sancionado un mecanismo de legitimación
por sustitución, con el propósito de evitar que, a través de un procedimiento arbitral en tramitación o de un convenio, que podría generarlo
en el futuro, se urda, en perjuicio del concurso, una maquinación fraudulenta.
La E. de M. de la LC no hace referencia al tema, pero es fácil
individualizar la ratio de la norma que, tiene un claro entronque con
un principio de economía procedimental y de ética social, que contempla para el caso de fraude, la intervención de la administración
concursal, tan pronto como le sea factible, en evitación de costes inútiles
y de daños injustificables.
La administración concursal está legitimada para impugnar el
convenio arbitral y el procedimiento arbitral en todo caso, en que detecte una maquinación fraudulenta, incluso en el supuesto contemplado por el art. 52.1 LC, que priva temporalmente los convenios arbitrales de “valor y efecto” durante la tramitación del concurso, sin declararlos nulos, y si admitimos, como hemos defendido más atrás, la
posibilidad de recobrar su eficacia, al término de la tramitación. La
instrumentación de normas para la eficaz represión del fraude, que
constituye la ratio del precepto, responde a la conveniencia de atajar
con medios eficaces, y tan pronto como sea posible, “soluciones injustas, frecuentemente propiciadas en la práctica de maniobras de mala
fe, abusos y simulaciones que las normas reguladoras de las instituciones concursales no alcanzan a reprimir eficazmente” (E. de M. LC, I),
supuestos todos ellos que dan ocasión a la administración concursal
para interponer la acción de impugnación del art. 53.2.
La norma contenida en el art. 53.2 LC está en línea con el precepto general del art. 6.4 del C.c., fruto de la reforma de su Título
Preliminar (D. 31 de mayo de 1974), aplicable a todo el ordenamiento
(STC de 26 de marzo de 1987), lo que no ha sido obstáculo, como
muestra, entre otros muchos, el precepto que estamos analizando, para
que el legislador reitere su formulación para casos singulares, esparcidos en nuestro ordenamiento.
La acción de impugnación que el art. 53.2 concede a la administración concursal, tiene literalmente por objeto “los convenios y procedimientos arbitrales en caso de fraude”, por lo que cabe preguntarse sí la legitima para impugnar el laudo definitivo, caso de no haber
ejercitado la acción de impugnación con anterioridad, durante el procedimiento arbitral, o ésta se haya frustrado.
La cuestión, que tiene trascendencia práctica, obliga retomar el
tema previo, al que antes hemos hecho una breve referencia, de la
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fijación del inicio y de la terminación de procedimiento arbitral, porque en él podrá estar la clave para resolver si la emisión del laudo
definitivo puede considerarse el último eslabón del procedimiento arbitral y, por tanto, formar parte integrante del mismo. La trascendencia de la fecha de inicio del arbitraje es evidente a los efectos de los
plazos de prescripción y de caducidad de las acciones y pretensiones
de las partes, así como para determinar la entrada en vigor de la nueva
Ley (Disp. Transitoria única), pero también podría ser relevante a los
fines del ejercicio de la acción de impugnación por la administración
concursal. Dejando, de momento, a salvo la posibilidad de que la legitimación de la administración concursal para la impugnación del laudo final, en caso de fraude, tenga su regulación en otros preceptos del
ordenamiento arbitral, no parece ocioso analizar su posible trascendencia a los fines que ahora nos interesan.
Para fijar el momento del inicio del procedimiento arbitral, es
obligado tomar en consideración el novedoso art. 27 LA vigente, en el
que se dispone, con rotundidad, que “la fecha en que el demandado
haya recibido el requerimiento de someter la controversia a arbitraje,
se considerará la del inicio del arbitraje”.
El art. 27 sanciona una innovación de relieve, respecto de la LA
anterior, a la que se refiere la E. de M., VI, considerando “lógico que
los efectos jurídicos propios del arbitraje se produzcan ya en este momento, incluso aunque no esté perfectamente delimitado el objeto de
la controversia”, y, justificando la formulación de la Ley, añade que
“las soluciones alternativas permitirían actuaciones tendentes a dificultar el procedimiento”.
A las dificultades propias de toda maquinación fraudulenta, para
ser detectadas, la administración concursal podrá, además, tropezar
con dificultades para conocer la fecha del inicio del arbitraje, fijada en
los términos del art. 27, generadora de una cierta inseguridad jurídica,
cuando las partes no han convenido previamente en el convenio arbitral, o no se han sometido a un reglamento de arbitraje. En la práctica
podrá suceder que se genere una cierta publicidad sólo cuando el instado responda al requerimiento del instante – y ello sin contar con la
reserva propia del arbitraje –, propiciando que la administración concursal disponga de la información del inicio del arbitraje y de la existencia de una maquinación fraudulenta, presupuestos ambos para el
ejercicio de la acción de impugnación.
Plantea también algún problema la fijación del momento de la
terminación del procedimiento arbitral que, en principio, constituirá
el término final para el ejercicio de la acción de impugnación prevista
por el art. 53.2 LC.
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El art. 38.1 “Terminación de las actuaciones”, encuadrado en el
Tit. VI de la LA, que lleva por título “Del pronunciamiento del laudo
y de la terminación de las actuaciones”, dispone que éstas “terminarán
y los árbitros cesarán en sus funciones con el laudo definitivo”. La E.
de M. no contiene ninguna referencia específica al momento de la terminación del procedimiento arbitral, limitándose a recordar que “la
Ley vuelve a partir del principio de la autonomía de la voluntad”, y
coherentemente, el art. 38.2 dispone que “los árbitros ordenarán la
terminación de las actuaciones”, cuando “el demandado desista, las
partes acuerden dar por terminadas las actuaciones” o los árbitros comprueben que la prosecución de las actuaciones resulta innecesaria o
imposible.
El art. 38.1 dispone, en particular, el cese de los árbitros en sus
funciones, una vez cumplido el mandato fundamental de emitir el laudo definitivo, y agotadas sus funciones “ordena la terminación de las
actuaciones”, dando cumplimiento a la voluntad de las partes, o cuando las actuaciones resulten innecesarias o imposibles, frustrándose
definitivamente la finalidad del procedimiento arbitral.
Con la emisión del laudo definitivo, cumplida la misión encomendada al árbitro, termina el procedimiento arbitral, en sentido
estricto. Sin embargo, los árbitros, “cesados en sus funciones”, deberán proceder a la “notificación y, en su caso, protocolización del laudo” (art. 37.7 y 8), o, realizar funciones de corrección, aclaración o
complemento al laudo (ex art. 39), sí son requeridos para ello, y aún
“conservar la documentación del procedimiento”, en los términos del
art. 38.3, que simplemente pretende dar solución a un problema de la
práctica arbitral.
Tales funciones son encomendadas a los árbitros, aún cuando han
cesado como tales con la emisión del laudo definitivo. La Ley, a pesar
de haberlos cesado, continúa calificándolos de árbitros, haciendo la
salvedad, “sin perjuicio de lo dispuesto en el artículo anterior ... y en
el artículo siguiente” (art. 38.1).
Parece lógico que la administración concursal esté legitimada para
interponer la acción de impugnación, incluso después de la emisión
del laudo definitivo, con ocasión de la prestación de los servicios asignados a los árbitros en el art. 38, siempre que sea detectada una maquinación fraudulenta.
Todo ello, con independencia de la responsabilidad en que puedan incurrir los árbitros y las instituciones arbitrales “por los daños y
perjuicios que causaren por mala fe, temeridad o dolo” (art. 21.1 LA
2003).
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Sin embargo, no puede perderse de vista que, con independencia
de que la emisión del laudo definitivo quede integrado en el procedimiento arbitral y en su consecuencia pudiera ser objeto, atendiendo
exclusivamente a esta circunstancia, de impugnación por la administración concursal (ex art. 53.2 LC), la anulación del laudo definitivo
es objeto de un régimen especial, imperativo, que no puede obviarse
ni por las partes ni, por sus representantes legales.
En el supuesto de concurso necesario, los administradores concursales sustituyen al deudor (art. 40.3 LC) en el ejercicio de la acción
de anulación del laudo, en los términos previstos por el Título VII de
la LA 2003. El art. 41.1, f) LA, incluye, entre los supuestos de anulación del laudo, el “Laudo contrario al orden público”, en el que cabrá
incluir el laudo fraudulento, dictando un procedimiento que se sustanciará según lo dispuesto en el art. 42. El laudo definitivo, en caso
de fraude, será objeto de impugnación por la administración concursal, de acuerdo con el régimen imperativo previsto por los arts. 40-42
de la LA, aunque su legitimación radique en el art. 53.2 LC.
Como se ha apuntado más atrás, el legislador ha legitimado, con
acierto, a la administración concursal para la impugnación de “convenios y procedimientos arbitrales en caso de fraude”, dotándola de una
estructura organizativa adecuada para el ejercicio de la misma. La administración concursal es, en efecto, un órgano necesario, colegiado,
“en cuya composición se combina la profesionalidad en aquellas materias de relevancia para todo concurso – la jurídica y la económica” –
conveniente para el desempeño de “funciones muy importantes”. Entre tales funciones la administración concursal tiene atribuida la de
“sustituir al deudor cuando haya sido suspendido en el ejercicio de
sus facultades patrimoniales” (E. de M. IV, LC), para la defensa de
sus intereses y, en particular, para la lucha contra el fraude que, el
legislador ha querido destacar, singularizándola, entre las demás “funciones esenciales”, que tiene atribuidas.
La composición y la estructura organizativa de que se ha dotado
a la administración concursal, es particularmente adecuada para el ejercicio de la acción de impugnación que le asiste, figurando en la misma
“un abogado con experiencia profesional de, al menos, cinco años de
ejercicio efectivo” (art. 27.1 LC), nombrado por el juez del concurso
(art. 27.3 LC), que le “podrá atribuir competencias específicas” (art.
35.2, par. 2 LC) y, además, ejercerá la “supervisión” (art. 35.6 LC).
Los convenios y los procedimientos arbitrales, constituyen el
objeto de la impugnación, mediante el ejercicio de la acción que asiste, a tal fin, a la administración concursal (art. 53.2 LC).
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Los Convenios arbitrales tipificados en la LA 2003, arts. 9 y sigs.,
no ofrecen dificultades especiales para su identificación, y su acentuada naturaleza contractual no ofrece especialidades como posible objeto
de impugnación. Se trata de un contrato, eventual instrumento de un
fraude, que el legislador propicia sea cortado de raíz, antes de que
pueda dar inicio a un procedimiento arbitral que, es el instrumento
más próximo del fraude eventual. La impugnación del convenio arbitral será, sin duda, la intentada, en primer lugar, por la administración
concursal, incidiendo sobre la maquinación fraudulenta, en sus posibles orígenes.
La individualización de los “procedimientos arbitrales”, a los que
también se refiere el art. 53.2 LC exige, en cambio, un análisis más
detenido, tomando en consideración la variedad de procedimientos
singulares contemplados en la LA 2003, tales como los regulados p.
ej. para la designación (art. 15.2), recusación (art. 18.1), remoción (art.
19.2), el nombramiento de sustituto del árbitro (art. 20.1), o también
para la fijación del lugar (art. 26), o del idioma del arbitraje (art. 28).
La LA 2003 contempla, además, con carácter general para la tramitación del procedimiento arbitral, el procedimiento “al que se hayan de ajustar los árbitros en sus actuaciones” (art. 25).
Entendemos que el art. 53.2 abarca además del convenio arbitral, no sólo el procedimiento arbitral, en su sentido más amplio al
que han de ajustar los árbitros sus actuaciones (art. 25 LA), sino también los procedimientos singulares o particulares a que antes hemos
hecho referencia, contemplados por la LA. La administración concursal, ejercitando la acción de impugnación, que le asiste, podrá impugnar el convenio arbitral, intentando que el procedimiento arbitral no
inicie su tramitación. También podrá impugnar los procedimientos, a
lo largo de su tramitación, con el importante efecto de que, caso de
prosperar la acción de impugnación, dada la naturaleza procedimental de los mismos impedirá la continuación de la tramitación.
Razones de economía procesal y de seguridad jurídica inducirán
a la administración concursal a interponer la acción de impugnación,
en cuanto sea detectada la maquinación fraudulenta, y en el momento
procedimental correspondiente.
5. Las medidas cautelares.- Las sucesivas leyes de Arbitraje promulgadas en España han concedido a las medidas cautelares un espacio muy limitado.
Baste recordar el art. 50 LA 1988, que disponía:
“Recurrido el laudo, la parte a quien interese podrá solicitar del
Juez de Primera Instancia que fuera competente para la ejecución, las
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medidas cautelares conducentes a asegurar la plena efectividad de
aquél, una vez que alcanzare firmeza”.
La E. de M. de la LA 1988, refiriéndose a este artículo, afirma
que “se prevé... que, en tanto se tramita la posible anulación, pueda el
interesado solicitar la adopción de medidas cautelares que garanticen
la efectividad del laudo”.
El “Borrador del Anteproyecto de Ley de Arbitraje” 48, había previsto, con mucha mayor amplitud, en su art. 30, que:
“1. Cuando así lo hayan previsto las partes, los árbitros podrán
acordar, a instancia de alguna de ellas, o por propia iniciativa, cuando
la urgencia del caso lo requiera, las medidas cautelares que juzguen
necesarias para el buen fin del arbitraje y, en particular ordenar el depósito de bienes en litigio, o su venta si fueran perecederos, adoptando las medidas de garantía adecuadas a cada caso concreto.
2. Los árbitros podrán impetrar el auxilio del Juez de Primera
Instancia para la ejecución de tales medidas, conforme a lo dispues-to
en el art. 46”.
El texto propuesto, innovativo, aunque de alcance también limitado, tuvo escasa fortuna, sin que prosperaran las propuestas prelegislativas, ni las enmiendas de los grupos parlamentarios, que reivindicaron la posibilidad de que los árbitros pudieran impetrar el
auxilio del juez para que adoptara medidas cautelares lograron mejor
fortuna.
La doctrina española se ha mostrado unánimemente crítica respecto del régimen de las medidas cautelares en la LA 1988 49, propug(48) El texto del “Borrador de Anteproyecto de Ley de Arbitraje”, redactado
por una Comisión ad hoc, designada por el Ministerio de Justicia, fue publicado en la
Revista Universitaria de Derecho procesal, nº 0, 1988, pág. 311 y sigs.
(49) L. MUÑOZ SABATÉ, Las medidas cautelarles en el arbitraje tras la nueva Ley
de enjuiciamiento civil española, en Anuario Justicia Alternativa. Derecho arbitral, nº 2,
2001, pág. 11 y sigs., no duda en calificar el régimen de la LA de “indecoroso imago
de medidas cautelares”, negando “se pueda llamar cautelar a una medida que le falta
el más completo sentido de la oportunidad”, ya que el “final de un proceso no es el
momento adecuado para adoptar cautelas”, pág. 13. Con anterioridad, La Ley de Arbitraje un campo sembrado de minas, en Cuadernos de Derecho judicial. Arbitraje, Mediación, Conciliación, Madrid, 1995, pág. 195 y sigs., en especial pág. 209; el art. 50
LA: “es digno, escribe, al menos de tres reproches: 1) porque llama medida cautelar a
una cosa que no es exactamente medida cautelar; 2) porque sitúa la protección a
destiempo; y 3) porque invita (que no obliga) a interpretar que antes del laudo impugnado no caben tales medidas”; y La recepción del arbitraje por la jurisprudencia. Reflexiones para una urgente reforma, en La Ley, 25 de julio 1995, pág. 1 y sigs., 2, bajo el
epígrafe El talón de Aquiles de la actual Ley de Arbitraje se refiere a la “inmensa laguna” de las medidas cautelares de la LA 1988, que presenta “también una dislexia”, ya
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nando su reforma 50. No faltaron los intentos de superar por la vía
interpretativa, el tenor literal del art. 50.1, reconociendo eficacia al
eventual acuerdo de las partes, como proponía el “Borrador” citado
antes 51, o restringiendo la aplicación de la LA sólo a partir del inicio
del procedimiento arbitral 52, dejando un amplio margen al juzgador,
que ha tomado en consideración, en alguna ocasión significativa, las
circunstancias personales del árbitro 53.
que – escribe – “en su art. 50 llama medidas cautelares a unas medidas que pueden
adoptarse solamente tras la emisión del Laudo” siendo “lo más lamentable... que aquella
dislexia ha contribuido a que se interprete negativamente esta laguna”, cuya existencia califica de “verdadero agente expelente del arbitraje” (p. 3).
(50) Vid., entre otros, E. FONT SERRA, La nueva configuración del arbitraje en el
Derecho español, en Justicia, 1989, nº 2, pág. 341 y sigs.; M. ORTELLS RAMOS, Comentario breve a la Ley de Arbitraje (Dir. J. Montero Aroca), Madrid, 1990, pág. 254 y sigs.;
S. BARONA VILAR, Solución extrajurisdiccional de conflictos. “Alternative dispute resolution (ADR)” y Derecho procesal, Valencia, 1999, pág. 231 y sigs.; E. VERDERA, Un giro
copernicano, cit. punto 6, señalábamos entre las críticas fundadas “la restrictiva regulación de las medidas cautelares, hoy monopolizadas por el órgano jurisdiccional, que
deberían ser generosamente ampliadas”. Para los aspectos internacionales, vid. especialmente, F. RAMOS MÉNDEZ, Arbitraje Internacional y medidas cautelares, en Justicia,
1984, nº 4, pág. 843 y sigs.; y en Arbitraje y proceso internacional, Barcelona, 1987,
pág. 183 y sigs.; F.J. GARCIMARTÍN ALFÉREZ, El régimen de las medidas cautelares en el
comercio internacional, Madrid, 1996; E. MARTÍNEZ GARCÍA, Las medidas cautelares
durante la pendencia de un arbitraje interno o internacional (a propósito de la Sentencia del Tribunal de Justicia de las Comunidades Europeas de 17 de noviembre 1988,
en Rev. Vasca de Derecho procesal y Arbitraje, XI, 2, 1999, pág. 301 y sigs.; A. Mª
CHOCRÓN GIRÁLDEZ, Los principios procesales en el arbitraje, Barcelona 2000, pág. 199
y sigs; A. LÓPEZ DE ARGUMEDO, Medidas cautelares en arbitraje internacional y nacional, en La Ley, 4 de mayo 2000.
(51) Vid. nota 40. B.Mº CREMADES, España estrena nueva Ley de Arbitraje, en
RCEA, 1988-1989, pág. 9 y sigs., en especial pág. 24, donde después de subrayar que
la Ley de 1988 “omite toda mención a la adopción judicial de medidas provisionales
para garantizar en su caso el laudo arbitral”, afirma que “no existe motivo alguno
para deducir del silencio legislativo de 1988 una rectificación de la generalidad jurisprudencia en la concesión de tales medidas”.
(52) En este sentido L. MUÑOZ SABATÉ, Medidas cautelares a la luz de la máxima
inclusio unius exclusio alterius, en Rev.Jur.Cat., I, 1996, pág. 200: antes del arbitraje
está la LEC; una vez surgido éste: La LA; seguido por A. Mª LORCA NAVARRETE, Manual de Derecho de Arbitraje, Madrid, 1997, pág. 795 y sigs.
(53) Así, un Auto del Juzgado de 1ª Instancia nº 18 de Sevilla, dictado el nuevo
de julio de 1999, concedió la adopción de medidas cautelares solicitadas por la acreedora demandante, con ocasión de que “D. Manuel Olivencia Ruiz, Catedrático de
Derecho Mercantil y Abogado, dictó laudo de Derecho en procedimiento arbitral por
el que condenaba a XX a pagar a Y, casi ciento trece millones de pesetas, más el
interés legal del dinero desde la fecha del laudo”. La condenada interpuso recurso de
nulidad contra el laudo arbitral. En el auto se dice que “no habiéndose podido cele-
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Partiendo de la consideración del arbitraje como “una alternativa más accesible y más eficaz a la acción judicial” (E. de M. LA 1988),
también se argumentó que el convenio arbitral no constituiría en ningún caso una renuncia al derecho a la tutela judicial efectiva (art. 24
CE), lo que obligaría al Estado a “tutelar cautelarmente los derechos
subjetivos objeto de un declarativo” 54. No faltaron tampoco interpretaciones restrictivas, que entendieron que, “fuera de lo dispuesto en el
art. 50.1 LA 1988 no son admisibles medidas cautelares instrumentales en un procedimiento arbitral” 55.
Ante el panorama doctrinal, brevemente expuesto, la jurisprudencia se mostró insegura, y el desfase de nuestro derecho vigente,
respecto del ordenamiento de otros países más sensibles a la problemática del arbitraje y a las propuestas más elaboradas de derecho
uniforme, impulsó, decididamente, una reforma del régimen de las
medidas cautelares.
brar la comparecencia prevista en el art. 50 de la Ley 36/1988, hasta el 30 de junio de
mil novecientos noventa y nueve, ante la dificultad de emplazar a todos los demandados” (Razonamiento jurídico primero).
A pesar de que “la parte demandada manifiesta que no son procedentes, pues
no consta que la misma sea insolvente”, el juez estima “que existe una situación en
que las partes se han sometido a un árbitro, que el mismo ha dictado un laudo, es
decir, que es como si hubiere resolución en primera instancia y se solicitara ejecución
provisional, y – añade – el árbitro es una persona de reconocido prestigio y de gran
valía tanto personal como profesional. Es decir, que no se parte de una situación de
vacío, sino de que un prestigioso profesor universitario ha oído a las partes, ha practicado pruebas y ha dictado una resolución, lo cual nos lleva a entender que es legitimo
garantizar la plena efectividad del laudo, por lo que procede adoptar alguna medida
cautelar”(Tercero). Y, en su consecuencia, concluye que “de esta manera nos parece
proporcionado que XX preste fianza con exclusión de la personal, o caución por la
suma de ciento doce millones cuatrocientas y ocho mil quinientas noventa y una pesetas, más el interés legal del dinero desde la fecha del laudo hasta la de esta resolución”
(Cuarto), dictando un auto, que no es susceptible de recurso.
(54) R. HINOJOSA, El recurso de anulación contra los laudos arbitrales, Madrid,
1991, pág. 56, estimando, además, que con su silencio el legislador no pretendió negar las posibilidades de conseguir tutela preventiva durante el procedimiento arbitral,
sino que al no ser posible la ejecución provisional, optó precisamente por otorgar las
cautelas precisamente en esa fase, pág. 607.
(55) Para una interpretación restrictiva, M. ORTELLS RAMOSO y Mª P. CALDERÓN
CUADRADO, La tutela judicial cautelar en el derecho español, Granada, 1996, pág. 182:
“en conclusión, entiendo que fuera de lo dispuesto en el art. 50 LA no son admisibles
medidas cautelares instrumentales en un procedimiento arbitral; y para el régimen del
art. 50 LA págs. 182 a 187.
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La reforma cristalizó, en primer lugar, por la vía de la nueva Ley
1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil (LEC), obra de un
legislador sensible a los requerimientos de la doctrina, y a las aspiraciones de los prácticos. La LEC dedica a las medidas cautelares el
Título VI, arts. 721-747, “en un conjunto unitario de preceptos”, que
estima “supera la lamentable situación, caracterizada por las escasas e
insuficientes normas, dispersas en la Ley de 1881 y en otros muchos
cuerpos legales”. La vigente LEC, después de sentar con claridad las
características generales de las medidas cautelares, precisas para evitar se frustre la efectividad de una futura sentencia, sanciona un “régimen abierto de medidas cautelares”, que pueden solicitarse antes de
comenzar el proceso, junto con la demanda o pendiente ya el litigio”
(E. de M., XVIII).
El nuevo régimen calificado de “la mayor novedad introducida
por la LEC en materia arbitral”, extendió la tutela cautelar instrumental a todo el proceso arbitral, tanto para la adopción de medidas ante
causam, como cuando esté pendiente un arbitraje o durante la tramitación del mismo 56.
(56) Los arts. 722 y 724 LEC en el caso de los litigios extranjeros, plantean, sin
embargo, problemas de ejecución práctica, debido a la inexistencia de Tratados y convenios internacionales que contemplen las medidas cautelares, obligando a una reinterpretación del art. 722.1 LEC en consonancia con la amplitud ofrecida por el art. 24
del Convenio de Bruselas, de 27 de septiembre de 1968, al admitir la tutela cautelar
antes, durante o tras el proceso. Sobre esta materia vid. E. ARTUCH IRIBERRI, La solicitud de medidas cautelares ante el Juez Nacional de acuerdo con el Convenio de Bruselas,
de 27 de septiembre de 1968. Precisión de su significado y de las relaciones con un
procedimiento arbitral en curso, en La Ley, nº 4704, 31 diciembre 1998. V. MAGRO
SERVET, ¿Pueden adoptarse medidas cautelares en el procedimiento arbitral?, en Actualidad Jurídica Aranzadi, nº 510, 2001, pág. 1 y sigs., entiende que “la nueva regulación
contemplada en el art. 722 Ley 1/2000, clarifica las lagunas existentes en la anterior
regulación” e “incluso en la actualidad, pese a la dicción del art. 50 de la LA 1988,
comprobamos que la claridad del art. 722 LEC deja ya abierta la puerta a adoptar
medidas de aseguramiento para permitir la ejecución del laudo arbitral que se dictare”. Vid., ampliamente, M. A. FERNÁNDEZ-BALLESTEROS, La ejecución forzosa y las medidas cautelares en la nueva LEC, Madrid, 2001; y, recientemente, E. MARTÍNEZ GARCÍA, El Arbitraje en el marco de la Ley 1/2000, de Enjuiciamiento Civil, Valencia 2002,
pág. 198 y sigs.; G. STAMPA, Motivos y propuestas, loc. cit., pág. 1, enumeraba entre
“los importantes avances legislativos” de la LEC 2000 “el reconocimiento expreso de
la adopción de medidas cautelares por el juez ordinario en apoyo del procedimiento
arbitral – sea interno o internacional – anteriores o coetáneas a la presentación de la
correspondiente demanda de arbitraje o el reconocimiento del laudo como título ejecutivo”.
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Con estos precedentes, que abrían nuevos cauces a las medidas
cautelares, la LA 2003, siguiendo el art. 17 de la Ley-modelo del UNCITRAL 57, sanciona un nuevo régimen, que la doctrina cita entre los
aspectos positivos de la nueva LA 2003 58. El propio legislador califica
su régimen de “una de las principales novedades de la Ley” (E. de M.,
V), ya que “los árbitros podrán a instancia de cualquiera de ellas (las
partes) adoptar las medidas cautelares que estimen necesarias respecto
del objeto del litigio” (art. 23). Con la LA 2003, quedan, por tanto,
legalizadas las medidas cautelares, adoptadas por los árbitros, incluso
antes de iniciarse el procedimiento arbitral, con independencia de las
(57) La Ley-modelo no contempla, sin embargo, la ejecución de estas medidas,
que se deja a la disposición de los Estados, vid. “Nota preparada por la Secretaría con
fines puramente informativos”, sin que se le atribuya carácter de comentario oficial
de la Ley-modelo”. Como se lee en la E. de M. de la Ley, V, últ. pár. “La Ley ha
considerado preferible no entrar a determinar el ámbito de esta potestad cautelar”,
añadiendo, “obviamente, los árbitros carecen de potestad ejecutiva, por lo que para la
ejecución de las medidas cautelares será necesario recurrir a la autoridad judicial, en
los mismos términos que sí de un laudo sobre el fondo se tratara”. Según el art. 23.2
“A las decisiones arbitrales sobre medidas cautelares, cualquiera que sea la forma que
revistan, les serán de aplicación las normas sobre la anulación y ejecución forzosa de
laudos”, lo que supone una remisión al Titulo VIII de la Ley, cuyo art. 44 dispone que
“La ejecución forzosa de los laudos se regirá por lo dispuesto en la LEC y en este
Título”, se trata de un caso de intervención judicial excepcional, del art. 7, en relación
con el art. 8.4 de la Ley.
La UNCITRAL mantiene vivo su interés sobre el tema de las medidas cautelares, como resulta de la Nota de la Secretaría de 3 de febrero de 2004, relativa a la
Propuesta del Secretario General de la Corte Internacional de Arbitraje de la CCI,
proponiendo modificaciones al art. 17 y al art. 17 bis de la Ley-modelo, y de la Nota
de la Secretaría de 27 de enero de 2004, relativa a observaciones sobre legislaciones
nacionales presentadas a la Secretaría, relativas en lo que respecta a España a la Ley
de Enjuiciamiento Civil vigente.
(58) Así, muy recientemente, entre los primeras estudios comentando la LA
2003, J. Mª CHILLÓN MEDINA y JOSÉ F. MERINO MERCHÁN, Valoración crítica de la nueva
Ley de Arbitraje, en La Ley, nº 5945, de 2 de febrero 2004, pág. 3, bajo el epígrafe “La
eliminación de una laguna tan inexplicable como inconveniente: la posibilidad de
medidas cautelares”, las califican de “auténtica pieza angular de todo el edificio arbitral”. M. GÓMEZ JENE, Primeras reflexiones en torno al proyecto de Ley de Arbitraje, en
La Ley, 20 octubre 2003, pág. 1 y sigs., enumera entre los aspectos positivos del Proyecto
el que “se haya otorgado potestad a los árbitros para adoptar medidas cautelares”;
L.A. CUCARELLA, La potestad de los árbitros para decretar medidas cautelares, en Anuario Justicia Alternativa. Derecho arbitral, nº 5, 2004, pág. 85 y sigs., afirma que “puede
decirse que la nueva LA pone al día nuestro ordenamiento en los aspectos relativos a
la tutela cautelar en el arbitraje culminando, de este manera, la labor que comenzó
con la LEC” (págs. 92-93).
– 97 –
dificultades prácticas que puedan surgir en el momento de delimitar
el objeto del arbitraje, y por tanto, el ámbito de las mismas.
El oportuno inciso final de la E. de M., V, de la LA 2003 subraya
que la norma del art. 23 “no deroga ni restringe la posibilidad, prevista en los artículos 8 y 11 de esta Ley (de Arbitraje) y en la LEC, de que
la parte interesada inste de la autoridad judicial la adopción de medidas cautelares”, añadiendo que “las potestades arbitral y judicial en
materia cautelar son alternativas y concurrentes, sin perjuicio del juego del principio de buena fe procesal”. El art. 8 se refiere a la señalización de los “Tribunales competentes para las funciones de apoyo y
control del Arbitraje” y el art. 11.3 dispone que “el convenio arbitral
no impedirá a ninguna de las partes, con anterioridad a las actuaciones arbitrales o durante su tramitación, solicitar de un tribunal la
adopción de medidas cautelares ni a éste de concederlas”.
En su consecuencia , los árbitros podrán, a instancia de cualquiera de las partes, “adoptar las medidas cautelares que estimen necesarias, respecto del objeto del litigio” y “exigir caución suficiente al solicitante” (art. 23 LA 2003).
Por tanto, al quedar expeditas las dos vías, arbitral o judicial,
puestas a disposición de las partes, el ámbito de posible utilización de
medidas cautelares ha sido muy considerablemente ampliado, lo que,
sin duda, merece una valoración positiva.
En todo caso, es preceptiva la solicitud de parte para la adopción
de tales medidas. Sólo excepcionalmente, al art. 721 LEC contempla
la adopción de oficio, si “concurren razones de urgencia o la audiencia previa puede comprometer el buen fin de la medida cautelar”, con
la adopción de determinadas precauciones (art. 739 LEC).
Como veremos más abajo, las competencias en materia cautelar, atribuidas inicialmente a los Jueces de Primera Instancia, corresponden ahora a los nuevos juzgados de lo mercantil, de reciente
creación.
La LA 2003, “ha considerado preferible no entrar a determinar
el ámbito de esta potestad cautelar” (E. de M., V, últ. par) y, lógicamente, no ha descendido al supuesto singular de adopción de medidas cautelares con ocasión de la tramitación de un procedimiento arbitral concurrente con un concurso. En cambio, la LC contempla, en
términos generales, sin referirse a la eventual tramitación de un arbitraje, las “medidas cautelares anteriores a la declaración de concurso”, dedicándoles el art. 17, que lleva por título “medidas cautelares
anteriores a la declaración de concurso”, según el que:
– 98 –
“1. A petición del legitimado para instar el concurso necesario, el
juez, al admitir a trámite la solicitud, podrá adoptar las medidas cautelares que considere necesarias para asegurar la integridad del patrimonio del deudor, de conformidad con lo previsto en la LEC.
2. El juez podrá pedir al solicitante preste fianza para responder
de los eventuales daños y perjuicios que las medidas cautelares pudieran producir al deudor si la solicitud de declaración de concurso resultara finalmente desestimada.
3. Declarado el concurso o desestimada la solicitud, el juez del
concurso se pronunciará sobre la eficacia de las medidas cautelares.”
Es interesante subrayar que el precepto se refiere a “medidas cautelares anteriores a la declaración de concurso”, como reza el título del
artículo. Más concretamente, a medidas cautelares que podrá adoptar
el juez al admitir a trámite una solicitud de concurso necesario y, por lo
tanto, antes de que haya acordado la declaración del concurso. El precepto dispone, además, que, en función del resultado de la solicitud del
legitimado instante de la declaración de concurso, el juez del mismo “se
pronunciará sobre la eficacia de las medidas cautelares”, es decir sobre
su eventual mantenimiento durante la tramitación del concurso.
En definitiva, el precepto, contempla medidas cautelares de breve eficacia temporal, reducida al periodo que media entre la admisión
a trámite de la solicitud de concurso y la declaración del concurso o
su desestimación. Es decir, hasta que entre, eventualmente, en funcionamiento la estructura orgánica del concurso, con todo su sistema de
garantías, derivadas de la atribución a los órganos del concurso “de
amplias e importantes atribuciones”, que podrían hacer innecesario el
mantenimiento de las medidas cautelares. Por ello, el legislador ha centrado su atención al momento inicial, “anterior” a la declaración de
concurso. Sin excluir, sin embargo, que el juez del concurso, esto es el
nuevo juez de lo mercantil (art. 8 LC), a partir del primero de septiembre de 2004 (dis. final segunda de la LORC), al que se han atribuido competencia sobre “4º Toda medida cautelar que afecte al patrimonio del concurso”, con las excepciones que se indican, pueda decidir sobre su mantenimiento durante la tramitación del concurso.
Aunque la LC contempla exclusivamente la adopción de las medidas cautelares antes de la declaración del concurso, del tenor del
propio art. 17, queda evidenciada su compatibilidad con la compleja
normativa concursal. Toda vez que el juez del concurso puede pronunciarse a favor de su “eficacia”, entendemos con vistas al futuro
desarrollo del procedimiento concursal.
La norma confirma la exigencia de la solicitud de parte, la com-
– 99 –
petencia del juez, ahora del juez mercantil, para adoptarlas, caso de
que las considere necesarias para asegurar el patrimonio del deudor,
para pedir al solicitante que preste fianza y, sobre todo, para pronunciarse sobre la eficacia de las medidas cautelares, una vez que el concurso sea declarado o sea desestimada su solicitud.
Las atribuciones conferidas al juez del concurso, en defensa de la
integridad del patrimonio del deudor, le facultan para adoptar “toda
medida cautelar que afecte al patrimonio del concursado” (art. 8.4º),
con expresa remisión a “lo previsto en la Ley de Enjuiciamiento Civil”
(art. 17.1 LC). Tanto el art. 17, como el art. 228 LC, al que se remite,
se refieren a “medidas cautelares anteriores a la declaración de concurso” o “adoptadas antes de la apertura de un procedimiento principal de insolvencia en el extranjero” y ofrecen una solución de futuro
para tales medidas. En el primer caso respecto a su mantenimiento,
esto es, sobre su “eficacia”, una vez que haya sido “declarado el concurso o desestimada la solicitud”, el segundo para “ser reconocidas y
ejecutadas en España previo el correspondiente exequátur”, una serie
de medidas cautelares, que enumera el art., de forma no exhaustiva.
Ni la LC, ni la nueva LA 2003 contemplan, explícitamente, el
supuesto de medidas cautelares adoptadas durante un procedimiento
arbitral en tramitación al momento de la declaración de concurso, pero
teniendo en cuenta que el procedimiento arbitral continuará hasta la
firmeza del laudo (art. 52.2 LC), cabe entender que el juez del concurso podrá también pronunciarse sobre la eficacia de las eventuales medidas cautelares, adoptadas a lo largo de este periodo, valorando su
necesidad para asegurar la integridad del patrimonio del deudor y que,
eventualmente, podría considerar apropiadas para reforzar las consistentes medidas, que ofrece la legislación concursal.
V. El arbitraje en las “disposiciones finales” de la Ley concursal.
El legislador no sólo ha dejado muestras de su interés por el arbitraje en el articulado de la LC, como hemos apuntado antes, no sin
dejar amplios espacios al esfuerzo integrador de los interpretes, sino
también en algunas “disposiciones finales” de la misma, aunque quizás
su lugar sistemático habría correspondido a las “disposiciones adicionales”, en las que habitualmente se incluyen preceptos que aportan
prescripciones que no se han incluido en el articulado de la Ley.
De otra parte, la Ley Orgánica 8/2003, de 9 de julio, introduce modificaciones a la Ley orgánica 6/1985, de 1 de julio del Poder Judicial. En
– 100 –
particular la adición del nuevo art. 86 ter, contempla los nuevos, polémicos, juzgados de lo mercantil, con amplias competencias, a las que nos
referiremos, más abajo, en materia de arbitraje, con la modificación sancionada por la Ley Orgánica 20/2003, de 23 de diciembre (art. 1).
De todo ello resulta que el ámbito y el tratamiento del arbitraje
en varios sectores del ordenamiento, no sólo queda reforzado, sino
ampliado.
Así, según la Disposición final décima de la LC, el art. 39 de la
Ley General Presupuestaria (LGP), aprobado por Real Decreto Legislativo 1091/1988, de 23 de septiembre, queda redactado de la forma
siguiente:
“1. Salvo en caso de concurso, no se podrá transigir judicialmente ni extrajudicialmente sobre los derechos de la Hacienda Pública ni
someter a arbitraje las contiendas que se susciten respecto de los mismos, sino mediante real decreto acordado en Consejo de Ministros
previa audiencia del de Estado en Pleno”.
La nueva redacción del art. 39, 1 de la LGP propicia la utilización del arbitraje, en caso de concurso, para la solución de contiendas
que se susciten respecto de los derechos de la Hacienda Pública, sin
necesidad de “Real decreto acordado en Consejo de Ministros previa
audiencia del Consejo de Estado en Pleno”, que exigía la normativa
precedente. La supresión de este requisito, para transigir sobre los
derechos de la Hacienda Pública y someter a arbitraje, se desprende
de la utilización de la conjunción alternativa “sino” en el inciso final
del apartado, del que se deduce que sólo en caso de concurso, para
someter a arbitraje las contiendas con la Hacienda Pública no será
necesario medie el citado Real Decreto, requisito que, sin embargo, se
exige, fuera del concurso, en todos los demás casos.
Por tanto, la nueva redacción del ap. 1 del art. 39 LGP, sitúa al
arbitraje en consonancia con las corrientes doctrinales favorables que,
desde los primeros tiempos de vigencia de la LA 1988, sugieren la
utilización de las técnicas arbitrales para determinar la cuantía de los
tributos 59.
(59) J.L. REQUEJO PAGES, La nueva configuración del arbitraje. (Consideraciones
en torno al Título I de la Ley 36/12988, de 5 de diciembre), en RCEA, 1988-1989,
págs. 51 y sig., adopta una posición favorable al arbitraje, ya que después de considerar “como regla de principio que no podrían someterse a arbitraje aquellos litigios
que, versando sobre materias prima facie disponibles, tienen asignados cauces jurisdiccionales específicos de resolución”, entiende que “nada impide el arbitraje sobre
materias de esta naturaleza en la medida en que con la resolución arbitral no se perjudica el interés público y de defensa de terceros pretendida con la instauración de
aquellos procedimientos”.
– 101 –
La disposición final decimosexta, par. 2 de la LC, dispone que el
art. 24 del texto refundido de la Ley General de la Seguridad Social,
aprobado por Real Decreto Legislativo 1/1994, de 20 de junio (LGSS),
queda redactado de la forma siguiente:
“No se podrá transigir judicial ni extrajudicialmente sobre los derechos de la Seguridad Social ni someter a arbitraje las contiendas que
se susciten respecto de los mismos, sino mediante Real Decreto acordado en Consejo de Ministros, previa audiencia del Consejo de Estado.”
La comparación de la nueva redacción con los arts. 39 LGP y 24
LGSS, evidencia un tratamiento sustancialmente diferenciado, para la
resolución de los conflictos que puedan surgir en sus correspondientes
ámbitos, por las vías arbitrales. En primer lugar y para los derechos de
la Hacienda Pública el precepto es favorable al arbitraje, en caso de
concurso, sin necesidad de Real Decreto, y fuera del concurso mediante
Real Decreto. Para las deudas de la Seguridad social, independientemente de la declaración de concurso, se exigirá el Real Decreto del Consejo de Ministros. La segunda diferenciación que se cons-tata, hace referencia a la audiencia del Consejo de Estado, al que debe someterse el
Real Decreto autorizante para la transacción judicial y extrajudicial y el
sometimiento al arbitraje de los conflictos, tanto sobre derechos de la
Hacienda Pública, como de la Seguridad Social, para aquellos se exige
la “audiencia del Pleno del Consejo Estado”, mientras que para los segundos es exigida solamente la “audiencia del Consejo de Estado”.
La disposición final trigésima primera de la LC , reforma la Ley
de Defensa de los Consumidores y Usuarios.
La Ley 26/1984, de 19 de julio, General para la defensa de los
consumidores y usuarios (LGDCU), dictada en cumplimiento del mandato constitucional del art. 51, con desarrollo reglamentario mediante
el R.D. 636/1993, de 3 de mayo, relativa al llamado Sistema Arbitral
de Consumo 60, se remite, con carácter supletorio a la LA, lo que ha
suscitado no pocas dudas interpretativas.
Para los aspectos internacionales, J. HORTALÁ I VALLVÉ, El arbitraje en materia
tributaria. Un análisis crítico de la Convención de la Unión Europea, en Crónica Tributaria, 1996, nº 79, pág. 55 y sgs.; A. HUERGO LORA, La resolución extrajudicial de conflictos en el derecho administrativo, Bolonia, 2000, pág. 226 y sigs.
(60) La bibliografía sobre la materia es particularmente amplia, vid. ult. M.
GONZALO QUIROGA, Arbitrabilidad de la controversia internacional, Salobreña, 2003,
pág. 157 y sigs., sobre arbitraje internacional de consumo, y sobre sistema arbitral de
consumo español, págs. 173 y sigs., con amplia bibliografía a la que nos remitimos.
Para el encuadramiento del tema, con cuidada bibliografía, puesta al día, vid., especialmente, C. LASARTE ALVAREZ, Manual sobre protección de consumidores y usuarios,
Madrid, 2003, y para el sistema arbitral de consumo, págs. 357 a 377.
– 102 –
El ap. 2 de la Disp. Final trigésimo primera, “añade un nuevo
apartado 4 al art. 31º de la LGDCU”, con la siguiente redacción:
“4. Quedarán sin efecto los convenios arbitrales y las ofertas públicas de sometimiento al arbitraje de consumo formalizados por quienes sean declarados en concurso de acreedores. A tal fin, el auto de
declaración de concurso será notificado al órgano a través del cual se
hubiese formalizado el convenio y a la Junta Arbitral Nacional, quedando desde ese momento el deudor concursado excluido a todos los
efectos del sistema arbitral de consumo”.
Con la adición del nuevo ap., los arbitrajes de consumo quedan
sometidos a un régimen análogo al sancionado por el art. 52.1 de la
LC, dejando “sin efecto” los “convenios arbitrales y las ofertas públicas de sometimiento al arbitraje”. Observa, sin embargo, la especialidad consistente en que desde el momento de la notificación del auto
de declaración de concurso a la Junta Arbitral Nacional, “el deudor
concursado queda excluido a todos los efectos, del sistema arbitral de
consumo”.
Se suscitan dudas respecto de la pertinencia del destinatario de
la notificación, ya que la Junta Arbitral Nacional conoce exclusivamente de las solicitudes de arbitraje procedentes de las asociaciones
cuyo ámbito territorial exceda del de una Comunidad Autónoma, por
consumidores y usuarios afectados por controversias que no se limiten a una Comunidad Autónoma (art. 3.1 RD). Resultaría, por ello,
más razonable dirigir la notificación del auto de declaración del concurso a la Junta Arbitral de Consumo, a través de la que se hubiera
recibido la oferta pública de sometimiento al sistema arbitral de concurso.
La redacción del nuevo ap. 4 del art. 31 LGDCU, extiende al
ámbito de los arbitrajes de consumo el régimen general de los efectos
del concurso sobre los convenios arbitrales (art. 52.1 LC), con el efecto
adicional de excluir al deudor concursado del sistema arbitral de consumo, dándose con ello primacía al régimen concursal, sobre las normas dictadas a favor de la difusión del arbitraje de consumo.
En términos generales, como es sabido, “el procedimiento arbitral comienza cuando los árbitros hayan notificado a las partes por
escrito la aceptación del arbitraje” (art. 22.1 LA 1988). El arbitraje de
consumo ofrece una especialidad consistente en que el procedimiento
comience con la designación del Colegio Arbitral (art. 10.1 RD). Bajo
el imperio de la LA 2003, el art. 27 “se considera como fecha de inicio
del arbitraje,” “aquella en que el demandado haya recibido el requerimiento de someter la controversia a arbitraje”.
– 103 –
VI. El arbitraje en las últimas Leyes Orgánicas
Entre las importantes novedades de la Ley Orgánica 8/2003, de
9 de julio, para la reforma Concursal, destaca la creación de los “Juzgados de los mercantil”, juzgados especializados, dentro del orden jurisdiccional civil, cuya creación fue contemplada en el “Pacto de Estado para la reforma de la Justicia”, firmado el 28 de mayo de 2001.
La E. de M., II justifica la creación de los juzgados de lo mercantil, para “dar respuesta a la necesidad que plantea la nueva Ley 22/
2003, Concursal, que atribuye al juez del concurso el conocimiento de
materias pertenecientes a distintas disciplinas jurídicas”, hasta el día
de hoy “asignadas a diferentes órdenes jurisdiccionales”, y por “la complejidad de la realidad social y económica de nuestro tiempo y su repercusión en las diferentes ramas del ordenamiento (que) aconseja
avanzar en el proceso de especialización”.
La denominación juzgados de lo “mercantil”, ha sido duramente
criticada por la doctrina, argumentando que no se les asigna competencia en toda la materia mercantil, ni son competentes únicamente
en materia mercantil 61. La propia E. de M., II aclara que “la denomi(61) Para las vicisitudes de la creación de los “juzgados de lo mercantil”, que
“no son jueces de todo el Derecho mercantil y tampoco son sólo Jueces de materias
mercantiles”, calificando su denominación de “muy desafortunada; A. ROJO, La reforma, cit., págs. 120-122. Críticamente, I. Diez-Picazo Giménez, “Los juzgados de lo
mercantil”, en el mismo vol. La reforma, cit., pág. 131 y sigs. y, en Tribunales de Justicia, agosto-septiembre, 202, pág. 1 y sigs. discrepa “tanto del fin como de los medios
de esta medida de política legislativa”; vid., también, R. GARCÍA-VILLAVERDE, ¿Especialización de los jueces en Derecho mercantil?, en Homenaje a don A. Hernández Gil,
vol. III, Madrid, 2001, pág. 2667 y sigs.; J. RIESCO MILLA, Los juzgados de los mercantil
en la futura Ley concursal, en Derecho de los Negocios, nº 141, 2002, pág. 1 y sigs., J.
Mª DE EIZAGUIRRE, Los juzgados de lo mercantil un atentado contra la seguridad jurídica, en La Ley, nº 5648, de 5 de noviembre de 2002, pág. 1 a 3, Mª J. MORILLAS, La
reforma del derecho concursal español, en Derecho de los Negocios, nº 149, 2003, pág. 1
y siguientes, 39 y nota 17; también muy crítico M. Mª RODRÍGUEZ SAN VICENTE, en R.
GARCÍA VILLAVERDE, A. ALONSO UREBA, J. PULGAR EZQUERRA, Derecho Concursal, Estudio sistemático de la Ley 22/2003 y de la Ley 8/2003 para el régimen concursal, Madrid, 2003, pág. 161 y sigs.; E. VELASCO, La figura del juez de lo mercantil tras la reforma concursal, en La Ley, nº 5844, sept., 2003, pág. 4; F. CORDÓN MORENO, Proceso
Concursal, 2003, pág. 43, critica la técnica utilizada “porque los Juzgados de lo mercantil son órganos de la jurisdicción civil y el conjunto de las competencias que se les
atribuyen... se limitan a reforzar su competencia objetiva, residenciando en ella asuntos que, conforme a las normas generales, correspondería conocer y decidir a otros
órganos de la misma jurisdicción civil”, aunque reconoce que “la diferencia carecerá
de relevancia práctica si se entiende que, para resolver estas posibles cuestiones de
competencia objetiva”, debe acudirse a lo dispuesto en el art. 46 LEC (aplicable analó-
– 104 –
nación de estos nuevos juzgados alude a la naturaleza predominante
de las materias atribuidas a su conocimiento, no a una identificación
plena con la disciplina o la legislación mercantil, siendo así que, ni se
atribuyen en este momento inicial a los juzgados de lo mercantil todas
gicamente, ya que no se da identidad de supuestos), que prevé la inhibición de oficio
a favor de los tribunales competentes y si se plantea la cuestión por esta causa, su
tramitación por el cauce de las cuestiones de competencia de la LOPJ (arts. 42 y
sigs.)”; L. RODRÍGUEZ, La creación y especialización de los juzgados de lo mercantil, en
Comunicaciones en Propiedad Industrial y Derecho de la Competencia, nº 31, pág. 7 y
sigs., subrayando la “especialización y exclusividad competencial”; M.Mª RODRÍGUEZ
SAN VICENTE, en R. GARCÍA VILLAVERDE, A. ALONSO UREBA, J. PULGAR, Derecho Concursal. Estudio sistemático de la Ley 22/2003 y de la Ley 8/2003, para la reforma concursal, Madrid, 2003, pág. 161 y sigs. También el “Informe” sobre el Anteproyecto de
Ley concursal del Consejo General del Poder Judicial (Madrid, 10 de octubre de
2001), ap. 3.1, “La profesionalización del Juez”, mostraba “fuertes reservas”, porque
introduce una distinción entre el “Derecho mercantil sus-tantivo” y el “Derecho mercantil procesal”, y porque atribuye al conocimiento de estos Jueces de lo mercantil
sólo una parte de las materias mercantiles y, además, distintas materias civiles como
en el caso de las acciones relativas a condiciones generales de la contratación o las
incidencias y pretensiones que se promuevan como consecuencia de la aplicación de
la normativa en materia de arbitraje, añadiendo que “si se decide mantener un orden
jurisdiccional propio, es necesario aumentar el catálogo de cuestiones de competencia
de los Jueces de lo mercantil”. Y concluye que “la necesaria especialización judicial
para conocer de materias que se consideran especialmente difíciles o que requieren
conocimientos complementarios no debiera perseguirse a través de este órgano jurisdiccional específico, sino a través de los criterios de selección de Jueces y Magistrados para cubrir las plazas de los Juzgados de Primera Instancia con competencia (exclusiva o no) en las materias de Derecho privado que determina la Ley Orgánica”.
J. SÁNCHEZ-CALERO GUILARTE, Los juzgados de lo mercantil, en Lex Nova Información, nº 27, 2002, pág. 7, afirma, en cambio, que su creación “es, sin duda un
acierto”. J. SCOTTO DI TELLA MANRESA, Los juzgados de lo mercantil en el marco de la
Ley concursal, en La Ley, nº 5852, sept. 2003, págs. 5-6, concluye que “sin que pueda
afirmarse con rotundidad” como “necesidad incuestionable”, la creación de los juzgados de lo mercantil operada a través de la reforma de la LOPJ con ocasión de la
LC, la adaptación de la planta judicial a la nueva legislación en materia concursal es
positiva; tan sólo es objetable principalmente no su creación, sino su denominación,
naturaleza y criterios delimitadores del ámbito competencial”. C. DEL C. CASTILLO
MARTÍNEZ, La nueva Ley concursal española en el marco de la armonización del derecho
europeo: el principio de la universalidad y la clasificación de los créditos en el concurso,
en Actualidad Civil, nº 33, 2003, pág. 885 y sigs, afirma “la creación de los juzgados
de lo mercantil posibilitará, como medio de singular importancia para la consecución
de los objetivos de la reforma, el funcionamiento de profesionales especializados que,
por consiguiente, podrán resolver más eficazmente todas las cuestiones, habitualmente complejas, para las que el tráfico mercantil demanda una solución que únicamente
se puede alcanzar con tal nivel de especialización también implantado por la reforma”.
– 105 –
las materias mercantiles, ni todas las materias sobre las que extienden
su competencia son exclusivamente mercantiles”.
La inclusión del arbitraje en el ámbito de la reforma de la Ley
Orgánica del Poder Judicial fue tardía, ya que no aparece en el Proyecto
de Ley Orgánica (BOCG de 23 de junio de 2002), que contiene un
primer texto del art. 86 ter, en el que se atribuyen limitadas competencias a los jueces de lo mercantil [art. 86 ter, 2, letras a) a d)] en las
que no se alude a la materia arbitral.
La referencia al arbitraje se incorpora, durante el iter parlamentario, en el “Informe de la Ponencia” (BOCG de 24 de marzo 2003),
que contiene cambios propuestos en algunas de las enmiendas, entre
las que figura la referente al nuevo art. 86 ter, 2. 2. e) que ha pasado al
texto definitivo bajo la letra g), ya que con posterioridad en el “Informe de la Ponencia” se añadieron las letras e) y f)
El tenor literal de la propuesta de modificación del art. 86 ter 2,
LOPG era la siguiente:
“2. Los juzgados de lo mercantil conocerán asimismo de cuantas
cuestiones sean de la competencia del orden jurisdiccional civil, respecto de
a) Cuantas incidencias o pretensiones se promuevan como consecuencia de la aplicación de la normativa vigente en materia de arbitraje” 62.
Según la redacción propuesta por el Grupo Parlamentario catalán Convergencia i Unió, los juzgados de lo mercantil serían competentes, con carácter general, para todas las incidencias o pretensiones
promovidas como consecuencia de la aplicación de la normativa en
materia de arbitraje.
El recorte de competencias resultante de la redacción del art. 86
ter, 2, g) es muy relevante, en cuanto, los juzgados de lo mercantil
(62) La inclusión del citado apartado tiene su origen en la enmienda nº 36 del
Grupo Parlamentario Catalán, Convergencia i Unió: “Cuantas incidencias o pretensiones se promuevan como consecuencia de la aplicación de la normativa vigente en
materia de arbitraje”, justificándola en que la atribución de competencias en el ámbito arbitral a los Juzgados de lo Mercantil permitiría “facilitar y desarrollar instrumentos eficaces para que la jurisdicción mercantil pueda responder con agilidad y seguridad jurídicas a las necesidades de una economía desarrollada e integrada totalmente
en el concierto internacional, como es la española”, añadiendo que “para que España
pueda constituirse en un foro para activar arbitrajes mercantiles, especialmente entre
Europa y toda América, es imprescindible crear juzgados especializados en temas
mercantiles basados en el rigor técnico y la eficiencia profesional” (BOCG, Serie Anº 102-14, de 29 de noviembre de 2002)
– 106 –
conocerán de “cuantas incidencias o pretensiones se promuevan como
consecuencia de la aplicación de la normativa vigente sobre arbitraje
en las materias a que se refiere este apartado” [las señaladas en las
letras a) a f)], que son además las materias respecto de las que la arbitrabilidad de las controversias se ha cuestionado o negado por parte
de la doctrina, mientras que todas las demás cuestiones, del orden jurisdiccional civil, de las que no se discute su arbitrabilidad, quedan
dentro del ámbito competencial de los Juzgados de Primera Instancia
e Instrucción.
A pesar de tal recorte de competencias, la LC, mantiene la redacción del ap. g): “Cuantas incidencias o pretensiones se promuevan como
consecuencia de la aplicación de la normativa vigente sobre arbitraje”,
que ha merecido la crítica de la doctrina 63, y suscitará no pocas dudas
en el momento de su interpretación, en particular en materia de distribución de competencias entre distintos ordenes jurisdiccionales implicados 64.
Como conclusión, señalemos que al igual que los juzgados de lo
mercantil no son competentes en toda la materia mercantil, tampoco
lo son en toda la materia arbitral, fuera del concurso, como conse-
(63) Así I. DÍEZ-PICAZO GIMÉNEZ, Los juzgados de lo mercantil, cit. pág. 147,
refiriéndose al Anteproyecto, lo califica de obra de un “prelegislador (que) parece no
haber advertido que entre los supuestos de intervención judicial en el arbitraje hay
que distinguir dos grandes bloques: los de apoyo judicial al arbitraje (medidas cautelares, obtención de pruebas, nombramiento de árbitros, ejecución forzosa) y los de
control judicial del arbitraje (anulación del laudo, exequátur de laudos extranjeros),
afirmando que “el primer bloque es razonable que se encuentre en manos de órganos
unipersonales. Los segundos, sin embargo, siempre han estado en manos de órganos
colegiados y no se adivina ningún motivo para que deje de ser así”.
(64) J. RIESCO MILLA, Los juzgados de lo mercantil, op. cit., pág. 8 y sigs., referidas al Anteproyecto propuesto por el Ministerio de Justicia, entendiendo que “resulta
imprecisa y no responde a criterios uniformes, lo que puede dar lugar al planteamiento de numerosos conflictos de competencia entre los distintos órganos juris-diccionales implicados, poniendo en peligro la consecución de uno de los objetivos de la reforma: la celeridad del proceso”. Añadiendo, más concretamente, que “se atribuyen a
los nuevos Juzgados competencia en una serie de materias heterogéneas, algunas de
carácter mercantil y otras de carácter civil, como es el caso de las acciones relativas a
condiciones generales de la contratación o las incidencias y pretensiones que se promuevan como consecuencia de la aplicación de la normativa en materia de arbitraje,
que no tiene porque tener necesariamente naturaleza mercantil”, y aunque “resultaría
preferible que se atribuyera competencia a los nuevos Juzgados en materia concursal,
y en aquellas materias mercantiles con mayor dificultad técnica”.
– 107 –
cuencia de la referencia, exclusiva, a las materias enumeradas en el
art. 86 ter, 2 de la LOPJ 65.
La Ley Orgánica 20/2003, de 23 de diciembre, modifica el par.
g) del ap. 2, del art. 86 ter, de la Ley Orgánica del Poder Judicial, en
los siguientes términos:
“2. g) De los asuntos atribuidos a los Juzgados de Primera Instancia en el art. 8 de la Ley de Arbitraje, cuando vengan referidas a
materias contempladas en este apartado”.
El art. 8 de la LA 2003, que lleva por título “Tribunales competentes para las funciones de apoyo y control del arbitraje”, amplia las
competencias de los juzgados de lo mercantil, con la asignación de las
competencias antes atribuidas a los Juzgados de Primera Instancia, en
materia de nombramiento judicial de árbitros, la asistencia judicial en
la práctica de pruebas, adopción judicial de medidas cautelares, ejecución forzosa del laudo, acción de anulación del laudo y exequátur de
laudos extranjeros. El mantenimiento de la redacción del ap. 2 g) de
la LOPJ, con la limitación relativa a “cuando vengan referidas a cuestiones contempladas en el ap. 2 del art. 86 ter de la LOPJ”, suscitaría
las críticas de la doctrina.
Sin embargo, se continúa atribuyendo, siguiendo el art. 46.1 LA
1988, a la Audiencia Provincial la competencia para conocer la “acción de anulación del Laudo” (art. 8.5 LA 2003), sin duda para descargar de trabajo al Tribunal Supremo. Es de prever que la norma sea
objeto de fundada crítica, al privar de doctrina unificadora, una materia especialmente importante 66. Análogamente se atribuye competen(65) Las cuestiones del orden jurisdiccional civil enumeradas en el apartado 2
del art. 86 ter son: “a) las demandas en las que se ejerciten acciones relativas a competencia desleal, propiedad industrial, propiedad intelectual y publicidad, así como todas aquellas cuestiones que dentro de este orden jurisdiccional se promuevan al amparo de la normativa reguladora de las sociedades mercantiles y cooperativas; b) Las
pretensiones que se promuevan al amparo de la normativa en materia de transportes,
nacional o internacional; c) Aquellas pretensiones relativas a la aplicación del Derecho Marítimo; d) Las acciones relativas a condiciones generales de la contratación en
los casos previstos en la legislación sobre esta materia; e) Los recursos contra las resoluciones de la Dirección General de los Registros y del Notariado en materia de recurso contra la calificación del Registrador Mercantil, con arreglo a lo dispuesto en la Ley
Hipotecaria para este procedimiento; y, f) De los procedimientos de aplicación de los
artículos 81 y 82 del Tratado de la Comunidad Europea y de su derecho derivado.
(66) La E. de M. de la LA 1988, afirmaba que “el órgano competente para
conocer del recurso es la Audiencia Provincial”, calificándola de “decisión ecléctica
entre la regulación vigente de los recursos contra el laudo, cuyo conocimiento se atribuye al T.S., como si de una sentencia se tratara, y los que postulan que, siendo el
laudo una decisión puramente privada, su anulación debería incumbir a los Juzgados
– 108 –
cia, “para el exequátur de laudos extranjeros a las Audiencias Provinciales, en vez de – como hasta ahora – 67, a la Sala Primera del Tribunal Supremo, con la finalidad de descargar a ésta y ganar celeridad”.
VI. Conclusiones a favor de una mejor consideración del arbitraje en los
procedimientos concursales.
Recordemos que el art. 52. 2 LC dispone que los procedimientos
arbitrales que en el momento de declararse el concurso estén en tramitación continuarán su iter hasta la firmeza del laudo. Se trata de
procedimientos arbitrales, que tienen su origen en un convenio arbitral pactado con anterioridad a la declaración de concurso, y que antes de este momento han dado origen a un procedimiento arbitral, de
tal modo que éste está en tramitación en el momento de declaración
de concurso.
En cambio, “los convenios arbitrales en que sea parte el deudor
quedarán sin valor ni efecto durante la tramitación del concurso” (art.
52.1 LC).
Una interpretación literal y lógica del precepto lleva a la conclusión que los convenios arbitrales durante el procedimiento concursal
al ser privados de valor y efecto, quedan privados de su propia razón
de ser, imposibilitados “durante la tramitación del concurso” de dar
origen a un procedimiento arbitral.
Recuérdese, que el legislador que ha decretado la suspensión de
los efectos del convenio, no los ha declarado nulos, por lo que, debe
de Primera Instancia: Resumíamos “(Un giro copernicano”, cit.), la experiencia acumulada con la atribución del recurso de anulación a las Audiencias Provinciales, del
art. 46.1 LA, señalando se estaba dando lugar a “soluciones contradictorias, fenómeno perturbador y que posiblemente se intensificará como consecuencia de la creación
de nuevas secciones jurisdiccionales independientes (en las Audiencias Provinciales”,
precisamente en las provincias en que por su mayor desarrollo económico y social, es
previsible una más amplia utilización del arbitraje”. Nuevamente, en la LA 2003 ha
prevalecido el propósito de descargar de trabajo el T.S., sin que la solución de atribuir
competencias a los Tribunales de Justicia de las Comunidades Autónomas, un mal
menor, que no habría resuelto la auspiciada instancia unificadora, haya sido acogida.
La doctrina más reciente, G. STAMPA CASAS, Motivos y propuestas, op. cit., pág. 8, criticando el antiguo art. 46.1 de la LA 1988, se lamenta del “hecho de que el recurso de
anulación sea decidido por la Audiencia Provincial... ha generado un amplio abanico
de jurisprudencia menor, dispersa y heterogénea, que no siempre se publica y que
carece de un órgano jurisdiccional encargado de su unificación doctrinal.
(67) Vid. art. 57 LA.
– 109 –
entenderse que los convenios arbitrales pactados válidamente antes
de la declaración de concurso, sólo quedan temporalmente privados
del efecto que les es propio y consustancial.
Partiendo de esta premisa, parece lógico pretender que, transcurrido el periodo de suspensión, el convenio arbitral recuperará su eficacia, legitimando a cualquiera de las partes para solicitar el inicio de
un procedimiento arbitral en los términos convencionalmente pactados. Es probable, sin embargo, que al término del procedimiento concursal, se haya producido un cambio sustancial en las relaciones entre
las partes que dificulte identificar la existencia de un conflicto contemplado en el convenio arbitral originario y es más que previsible
que cualquiera de las partes que quisiera liberarse del compromiso
arbitral alegará un cambio radical de circunstancias para desvincularse del convenio. Todo ello plantearía una compleja problemática de
considerable interés, que ahora no es posible abordar.
Quisiéramos, sin embargo, plantear la posibilidad de que durante el procedimiento concursal pueda suscribirse por las partes implicadas en el concurso o por los órganos de concurso un convenio arbitral, aún a sabiendas de la prescrita paralización de su eficacia durante
la tramitación del concurso (ex art. 52.1 LC). Teniendo en cuenta que
“la declaración de concurso no interrumpirá la continuación de la actividad profesional o empresarial que viniera ejerciendo el deudor”
(art. 44.1), presentado por la doctrina como manifestación del llamado principio de conservación de la empresa 68.
(68) Vid., en general, el vol. La protección jurídica de la empresa, Coord. por J.
Mª STAMPA BRAUN, Madrid 1985, y en particular para los aspectos mercantiles, E. VERDERA Y TUELLS, La protección de la empresa en el derecho mercantil, págs. 56 y 68 en
donde refiriéndome al Anteproyecto de Ley concursal de 1983, afirmaba que “parte
del presupuesto de que la concepción clásica de la quiebra-liquidación no resuelve los
problemas jurídicos, económicos y sociales planteados” y eleva la “conservación del
conjunto patrimonial del deudor común” a la finalidad básica del concurso, v., también, “Aspectos económicos y jurídicos de la reforma del derecho concursal”, en Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad Complutense, Madrid, marzo 1985,
nº 8, monográfico, pág. 179 y sigs. Vid. especialmente J. BISBAL, La empresa en crisis y
el derecho de quiebras (Una aproximación económica y jurídica a los procedimientos de
conservación de empresas, Bolonia, 1986, passim; G. SANTINI, Soluciones jurídicas al
estado de crisis de la empresa en los sistemas de economía de mercado, en el vol. La
reforma del derecho de quiebra, Madrid, 1982, págs. 35 y sigs., en especial 37-39; para
el Derecho francés, E. BELTRÁN El nuevo derecho concursal francés, en La Ley de 25 de
enero de 1985 relativa al “redressement” y la liquidación judicial de la empresa”, La
Ley, 1985-2, pág. 1113 y sigs.; y la clásica monografía de J.P. HAEHL, Les techniques de
renflotement des entreprises en difficulté, París, 1981; y para el derecho belga, E. BELTRÁN, Hacia un derecho preconcursal: el proyecto de Ley belga sobre empresas en difi-
– 110 –
Como ha sido puesto de relieve por la doctrina desde antiguo, la
utilización del arbitraje es una técnica de solución de conflictos cuyas
características propician, – y éste sería uno de sus méritos innegables –
, que las cuestiones conflictivas sean resueltas de tal modo que los
antiguos oponentes mantengan sus relaciones comerciales. En este caso,
no se propiciaría tan sólo la conservación de las empresas en crisis
sino también la de unas relaciones comerciales cuyo mantenimiento
pueden constituir un objetivo primordial, y aún un elemento determinante de su futura viabilidad, una vez cerrado el procedimiento concursal.
La extensión del uso de las técnicas arbitrales de solución de conflictos en el ámbito de las empresas en crisis, podría contribuir a la
más rápida y equitativa consecución de los objetivos perseguidos por
todo procedimiento concursal que, sin excluirse, se complementarían.
La cuestión planteada exige, en primer lugar, precisar los efectos
de la declaración de concurso sobre las facultades de administración y
disposición del deudor, esencialmente diferentes, según se trate de un
concurso voluntario, esto es “cuando la primera de las solicitudes presentadas hubiera sido la del propio deudor” (art. 22.1 LC), o de un
concurso necesario, “cuando en los tres meses anteriores a la fecha de
la solicitud del deudor, se hubiera presentado y admitido a trámite
otra por cualquier legitimado, aunque éste hubiese desistido, no hubiera comparecido o no se hubiera ratificado” (art. 22.2 LC).
En el caso de concurso voluntario “el deudor conservará las facultades de administración y disposición sobre su patrimonio, quedando sometido el ejercicio de éstas a la intervención de los administradores concursales, mediante su autorización o conformidad” (art.
40.1 LC).
En cambio, en caso de concurso necesario, “se suspenderá el ejercicio por el deudor de sus facultades de administración y disposición
sobre su patrimonio, siendo sustituido por los administradores concursales” (art. 40.2 LC).
Pero, como apunta la E. de M. III, “la flexibilidad del procedimiento se percibe también en el régimen de los efectos que produce la
declaración de concurso”, hasta el punto de conceder al juez del concultades, en La Ley, 1985-4, págs. 1139 y sigs.; y para el derecho portugués, E. BELTRÁN, La reforma del derecho portugués de la crisis económica de la empresa, en La Ley,
1987-3, págs. 878 y sigs.; J. PULGAR, La reforma del Derecho concursal comparado y
español (Los nuevos institutos concursales y reorganizativos, Madrid, 1994; R. GARCÍA
VILLAVERDE, Efectos de la declaración de quiebra, op. cit., pág. 3547, nota 51.
– 111 –
curso, facultades tan excepcionales como la de poder “acordar la suspensión en caso de concurso voluntario o la mera intervención cuando se trata de concurso necesario”, con la sola imposición de un deber
de motivación del “acuerdo señalando los riesgos que se pretendan
evitar y las ventajas que se quieran obtener” (art. 40.3). Incluso el “juez
mediante auto”, “a solicitud de la administración concursal y oído el
concursado”, “podrá acordar en cualquier momento el cambio de las
situaciones de intervención o de suspensión de las facultades del deudor sobre su patrimonio (art. 40.4 LC).
Resulta evidente del tenor de éstos y de otros preceptos, que la
LC, “configura al juez como órgano rector del procedimiento, al que
dota de facultades que aumentan el ámbito de las que le correspondían en el derecho anterior y la discrecionalidad con que puede ejercitarlas”. Todo ello contribuye a facilitar la flexibilidad del procedimiento
y su adecuación a las circunstancias de cada caso, facultades que “se
manifiestan en cuestiones tan importantes como el régimen de funcionamiento de los administradores concursales, la graduación de los
efectos de la declaración de concurso sobre la persona del deudor, los
acreedores y los contratos...”.
Entre los preceptos normativos que tienen incidencia sobre la
cuestión planteada, el art. 61.2 LC, dispone que “la declaración de
concurso, por sí sola no afectará a la vigencia de los contratos con
obligaciones recíprocas pendientes de cumplimiento, tanto a cargo del
concursado como de la otra parte”, y otros que responden a la misma
ratio podrían dar fundamento a la propuesta de utilizar las técnicas
arbitrales durante el procedimiento concursal, legitimando, a tal fin, a
las partes y al juez del concurso.
También, la administración concursal, uno de los dos “órganos
necesarios en el procedimiento” tiene “encomendadas funciones muy
importantes” (E. de M., IV). Aunque la LC no enumera conjuntamente sus facultades, esparcidas a lo largo de su articulado, referidas
fundamentalmente a su actuación en los actos de disposición y administración de los bienes y derechos del deudor, de contenido patrimonial que han de integrarse en el concurso 69, la utilización del arbitraje
podría, también, facilitar su tarea en muchos casos.
(69) En el Derecho portugués, el Código dos processos especiais de recuperaçao
da empresa e de falencia, de 23 de abril de 1993, modificado por Decreto-Ley de 20 de
octubre de 1998, enumera las funciones de los gestores judiciales, órgano de características similares a la administración concursal, en el artículo 35, estableciendo que les
corresponderá: 1) de orientar en la administración de la empresa; 2) hacer el diagnostico de la situación en la que se encuentra; 3) evaluar su viabilidad económica y
– 112 –
La LC dispone para los supuestos de intervención que “el deudor conservará la capacidad para actuar en juicio, pero necesitará la
autorización de la administración concursal, para desistir, allanarse,
total o parcialmente, y transigir litigios cuando la materia litigiosa pueda
afectar a su patrimonio (art. 51.3). La LC no se refiere al arbitraje
expresamente, aunque incluye supuestos muy próximos como es, p.ej.
el caso de “transigir litigios” 70, y que muestran que la exclusión del
arbitraje se debe a una toma de posición del legislador, no de una
incompatibilidad objetiva entre los dos procedimientos. Es significativo, en este sentido, que el art. 53.1, al hipotizar “sentencias y laudos
firmes dictados antes o después de la declaración de concurso”, disponga que “vinculan al juez de éste, el cual dará a las resoluciones
pronunciadas el tratamiento concursal correspondiente”.
Todo ello, “sin perjuicio de la acción que asiste a la administración concursal para impugnar los convenios y procedimientos arbitrales en caso de fraude (art. 53.2 LC), que bajo el impero de la LA 1988,
quedaría incluido en el art. 45.2 y a partir de la vigencia de la LA 2003
en el art. 41.1.d).
En caso de concurso necesario, como los efectos de la declaración de concurso inciden sobre el “ejercicio por el deudor de las facultades de administración y disposición”, suspendiéndolas y el deudor es “sustituido por los administradores concursales” (art. 40.2 LC),
resulta claro que el deudor concursado, mientras esté suspendido de
estudiar los medios de recuperación más adecuados para conseguir su objeto; y 4) la
salvaguarda de los intereses de los acreedores. Asimismo el juez del procedimiento, si
fuera necesario para la tutela de los intereses de los acreedores, podrá otorgarle poderes para 1) obligar a la empresa; 2) suspender o restringir las facultades de administración de los titulares de los diferentes órganos; o 3) condicionar la validez de los actos
de disposición o de administración por ellos realizados al acuerdo previo del gestor
judicial.
(70) Vid. art. 1816 C.c. La transacción tiene para las partes la autoridad de cosa
juzgada; art. 37 LA El laudo arbitral firme produce efectos idénticos a la cosa juzgada.
Como escribe A. GULLÓN, Curso de Derecho civil. Contratos en especial. Responsabilidad extracontractual, Madrid, 1968, pág. 383 y 389, “la transacción pone fin a la incertidumbre de las partes acerca de una relación jurídica existente entre ellas... nacida de
una controversia entre las partes. La normativa de la transacción está presidida por el
viejo aforismo transigere est alienare; que significa que “las partes que transigen tengan capacidad de disposición sobre la relación jurídica controvertida, de la misma
manera que puede someterse a arbitraje las cuestiones litigiosas... en materias de su
misma disposición conforme a derecho” (art. 1 LA 1988).
– 113 –
tales facultades no podrá suscribir un convenio arbitral relativo a una
controversia que afecte a sus bienes, derechos y obligaciones que hayan de integrarse en el concurso” (art. 40.5 LC)
Las mayores posibilidades de utilización, de las técnicas arbitrales de solución de conflictos, en el marco de un procedimiento concursal, dependerá en el futuro de la mayor flexibilidad con que se aplique el principio de unidad del procedimiento concursal, y la posibilidad de compaginar la prevalencia de los que son considerados intereses generales con los intereses que se contemplan en todo procedimiento concursal, que también responden a intereses merecedores de
tutela.
Teniendo en cuenta “la flexibilidad que inspira todo el procedimiento concursal”, subrayada con especial énfasis por el propio legislador (E. de M., X), así como las “amplias e importantes competencias” atribuidas a los órganos concursales, y en particular al juez “como
órgano rector del procedimiento”, al que la Ley “dota de facultades
que aumentan el ámbito de las que le correspondían en el derecho
anterior y a la discrecionalidad con que puede siempre ejercitarlas,
motivando sus resoluciones (E. de M. IV), y que, en lo sucesivo será,
además, un juez de lo mercantil (E. de M. I, LORC y LOPJ, art. 86
bis) especializado, el legislador habría podido mantener también para
el convenio arbitral la solución del art. 174, sancionada en el Anteproyecto de Ley Concursal de 1983, con carácter general para los contratos con obligaciones recíprocas. No parece razonable, en efecto,
que se prive al juez, considerando todas las circunstancias del caso, y
motivando su decisión, de la facultad de propiciar la utilización del
arbitraje, liberándola del tratamiento más severo del art. 52.1 LC, y
equiparándolo al reservado a los demás contratos con prestaciones
recíprocas.
La solución que sugerimos, que no ha sido acogida por la LC, se
corresponde con las orientaciones prelegislativas, y con la flexibilidad
que ha querido imprimirse al procedimiento concursal, así como con
las corrientes actuales favorables a la expansión del ámbito del arbitraje, que está ganando progresivamente terreno en sectores que tradicionalmente le estaban vedados.
Además, con la solución sugerida, ambos procedimientos – concursal y arbitral – que están vocados a dar satisfactoria solución a intereses en contraste, operando conjuntamente, serían no sólo compatibles, pudiendo convertirse, además, en complementarios.
Pero todo ello supondría un cambio de orientación sustancial de
– 114 –
la política legislativa restrictiva respecto del arbitraje, que impera a lo
largo de la LC, como supervivencia del recelo respecto del arbitraje
que, a pesar de las reiteradas declaraciones de equiparación jurisdiccional, a veces aflora en la legislación
EVELIO VERDERA Y TUELLS
– 115 –
L’ORDINAMENTO INTERNAZIONALE IN TEMPO
DI CRISI *
Nell’occasione odierna si tratterrà di fare una sorta di cavalcata
in quattro secoli di storia del Diritto Internazionale e delle dottrine.
Naturalmente non si può svolgere un siffatto lavoro in un’ora, occorrerà quindi condensare il più possibile, passando soltanto attraverso i
nodi principali di questo svolgimento storico, necessario perché non
possiamo comprendere il presente senza uno sguardo al passato.
Oggi l’Ordinamento internazionale è in tempo di crisi e l’espressione “Diritto internazionale”, secondo me, indica un genere o una
varietà di diritto. Questo punto sarà rilevante per quanto dirò in seguito. Si tratta di una varietà, di un genere di diritto che è tale perché
spazia in un orizzonte aperto, laddove il giurista, per propria forma
mentale, è incline a chiuderlo entro muri innalzati con il sistema e i
suoi procedimenti di produzione giuridica prestabiliti nelle fonti nonché gli istituti previsti a garanzia dell’accertamento e dell’esecuzione
delle norme, quindi sempre secondo schemi prefissati; ma oggi non
possiamo pensare a una chiusura del Diritto internazionale in un mondo
che velocemente cambia, in cui le certezze giuridiche si incrinano con
scosse e scoppi di materiale giuridico significante che richiamano la
condizione di un ghiacciaio, le cui pareti si staccano con esplosioni
continue precipitando in mare.
A questo proposito il Diritto internazionale, circondato dalla crisi, è inevitabilmente esposto all’incertezza alla revisione radicale e al
mutamento imprevedibile.
Il Diritto internazionale, hic et nunc, non si evolve semplicemente in un quadro omeostatico di continuità e stabilità, ma si sviluppa in
maniera fortemente dinamica e vedremo in che modo questo si può
confermare.
* Testo della prolusione alla Scuola di Specializzazione per le professioni legali
presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, tenuta il 20-11-2004 dal prof. P. Paone, Ordinario di Diritto dell’Unione Europea
nella Facoltà.
– 116 –
Si comprende, allora, la necessità che il giurista cominci a chiarire le premesse per lo studio del Diritto internazionale in vigore, anche
se una ricerca di questo tipo sembra che lo allontani proprio dal diritto vigente. È chiaro che poi deve seguire (ma non ora) un’altra parte,
nella quale, alla luce del diritto positivo, potrà verificarsi il fallimento
o la riuscita dell’impostazione teorica generale.
C’è innanzitutto da considerare un radicale mutamento del problema del fondamento del Diritto internazionale e questo ci porta proprio “in medias res”; il problema ha comportato un “polemos” continuo, plurisecolare tra gli studiosi che hanno proceduto a risolverlo
attaccandosi, demolendosi e refutandosi a vicenda ma, nonostante la
loro discordia, al fondo delle loro controversie è esistito sempre un’accordo intuitivo circa il fatto che stessero discutendo della medesima
cosa: il postulato era che il diritto fosse “dato”, fermo, da presupporre
una volta per tutte in corrispondenza biunivoca con la realtà sociale a
sua volta “data”, ferma, da presupporre una volta per tutte. Il problema è stato risolto e tuttora viene risolto con una dialettica che risale
addirittura alla filosofia eleatica, del due che si riduce all’uno, e dell’uno che si divide in due. In effetti gli studiosi venivano dividendosi e
si dividono tuttora contrapponendosi tra “monisti” e “dualisti”. Ma
va subito notato che occorre rivedere questo punto di vista. La dottrina corrente ritiene che si debba indagare, a proposito del problema
del fondamento del Diritto internazionale, sulla natura o sull’essenza
di questo Diritto. E invece, quanto al Diritto internazionale in tempo
di crisi, la definizione che se ne deve dare è questa: si tratta dell’Ente
del quale l’esistenza precede la natura e l’essenza, va quindi scartata
l’idea che l’esistenza del diritto in questione semplicemente confermi
la sua natura o la sua essenza. È evidente che con la nuova definizione
si cambia tutto.
L’Ordinamento internazionale oggi è un Diritto “vivente”, da intendere nel senso non banale e anche abusato del termine, ma come
possibilità di un genere di diritto non “fatto”, ma che si va facendo,
quindi non tutto prevedibile, determinabile a priori perché in continuo mutamento.
Correlativamente la scienza giuridica internazionale, a mio avviso, deve adeguarsi all’andamento non automatico, non ripetitivo, alla
prassi “deautomatizzata” dell’ordinamento in tempo di crisi, tenendo
conto che la verità del Diritto internazionale non è mai “la” verità. Se
la scienza descrittiva pretendesse di dire la verità, sarebbe in contraddizione con la propria ragione d’essere nel tempo di crisi. La scienza
mira a una verità approssimativa, non ad una verità assoluta, non va
– 117 –
mai a bersaglio perché comporta un uso fallibilistico della ragione del
tutto evidente nel momento attuale.
Pertanto la dottrina deve prendere coscienza di limiti che non
può valicare dato che “le condizioni logiche” circa la natura o essenza
del diritto in generale, non devono essere confuse con le “condizioni
reali”che invece stabiliscono l’esistenza del Diritto internazionale in
tempo di crisi.
L’Ordinamento internazionale si può definire ordinato anzi ordinabile, nel senso che in esso non vale esclusivamente una modellizzazione statico-evolutiva, dato che la disciplina è complessivamente improntata all’invenzione euristica, creativa adeguata al tempo di crisi in
atto. Pervade l’ordinamento uno “spirito creativo”.
In altre parole il Diritto internazionale in periodo di crisi è un
ordinamento che fa nascere “quell’utile e regolare irregolarità” per far
fronte alla crisi in cui versa tutto il fenomeno giuridico che lo circonda. Sulla novità e sulla utilità del Diritto internazionale attuale, pervenuto nel mondo contemporaneo, diremo alla fine del nostro excursus.
Vediamo innanzitutto qual è il meccanismo del Diritto internazionale dal punto di vista storico e precisamente dal punto di vista
della pace di Westfalia che ha dato luogo a tre trattati e che ha determinato l’equilibrio europeo per tutto il Sei-Settecento.
Il Diritto internazionale moderno diciamo che “nasce”, non perché vogliamo trovare dei progenitori o dei genitori, ma perché spezza
la continuità giuridica rispetto al Medioevo e naturalmente alle epoche antecedenti. Quindi si dice che esso nasce con Westfalia perché
c’è una frattura che impone, per essere compresa, la sua storicità e
quindi nuove categorie teoriche concernenti il diritto in questione.
Dunque non si può fare la storia del Diritto internazionale arrivando al Diritto medioevale, al Diritto romano, greco-classico, delle
civiltà del bacino del Mediterraneo pre-romane, pre-greche, poi in via
trasversale andando dalla Cina di Confucio alla civiltà incaica, ecc.,
come variamente si sostiene in dottrina. In questo modo si potrebbe
arrivare al momento in cui l’uomo compare in raggruppamenti sulla
Terra munito della clava e, avendo bisogno di fare degli scambi, si
serve del Diritto internazionale. Il che è assolutamente assurdo. Insomma, la storia va unita alla teoria, e la combinazione serve per segnare la divisione tra il vecchio e il nuovo.
Per quando riguarda i tre trattati, uno è stato stipulato nel 1648,
a Münster, tra la Spagna e le Province Unite che ottengono l’indipendenza dalla Spagna; l’altra, sempre a Münster nel 1648, tra l’Imperatore e l’Impero con la Francia; il terzo a Osnabrück tra l’Impero, l’Im-
– 118 –
peratore e la Svezia; questi ultimi due stipulati anche “a nome dei rispettivi alleati”, perché la guerra dei trenta anni fu una guerra in cui
cattolici si allearono con i protestanti e fecero guerra ai cattolici.
L’effetto saliente di questi trattati qual è? Comincia con i trattati
l’equilibrio di Wesfalia basato su tre punti:
– le Province Unite diventano il primo Stato in cui va al governo
la borghesia commerciale;
– un colpo decisivo è inferto alla influenza politica del Papato;
– il Sacro Romano Impero, frantumato in una miriade di Stati, è
ridotto ad un puro nome.
La Chiesa, con la bolla “Unam Sanctam” di Papa Innocenzo X
del 1648, fulmina di nullità i trattati. Detto qui per inciso: a proposito
della stipula della cosiddetta Costituzione europea, sottoscritta nell’aula degli Orazi e Curiazi in Campidoglio, in quell’aula c’è la statua
(commissionata all’Algardi) di Innocenzo X Doria Pamphili benedicente, cioè proprio del Papa che si oppose alla nascita della nuova
Europa. Questo per ciò che si dice ironia della storia. Possiamo però
capire che una parte conservi ancora il retaggio di questa bolla che
fulmina l’intesa stessa della nuova Europa in sul nascere.
Che cosa caratterizza il rapporto internazionale nel periodo delle
origini, che va dal ‘600 al ‘700?
1) La reciprocità: i soggetti che partecipano al rapporto internazionale sono entrambi attivi: lo Stato A, per esempio, compie determinate azioni e, in risposta a queste, lo Stato B compie le proprie. In
tempo di pace, in via di principio, non esistono azioni unilaterali; nessuno dei due Stati può intervenire o ingerirsi nella sfera di interessi
dell’altro senza l’altrui consenso, punto fondamentale questo per capire qual è il tipo di diritto che vige nei rapporti internazionali nel
periodo iniziale o dell’accumulazione originaria. Il rapporto viene messo
in “codice” giuridico mediante accordo, vale a dire mediante lo scambio di consensi, il che rende evidente che il rapporto giuridico copre
un certo tipo di conflitti, quelli tra controparti giuridiche formalmente uguali, onde è come se nel rapporto il potere si distribuisse in parti
uguali tra i due soggetti.
2) La costrizione: determinate azioni giuridiche compiute da una
parte del rapporto comportano, in risposta, azioni anch’esse previste
dal diritto; quindi, pur disponendo una delle parti forza minore, il
diritto stabilito per accordo obbliga l’altra parte a manifestarsi e agire
anche contro la sua volontà.
In questo equilibrio delicato e difficile si colloca la guerra generalmente lecita nel senso che all’uso della guerra le parti sono legitti-
– 119 –
mate in funzione dell’esecuzione del diritto violato e per la sua conservazione (guerra come iuris executio), ma anche del mutamento della
disciplina giuridica del rapporto ove l’altra parte si rifiuti di cambiarla
(guerra come iustitiae executio).
Pace e guerra, insomma, appartengono ad un processo circolare:
la pace porta alla guerra, la guerra inevitabilmente alla pace.
3) L’equivalenza: il rapporto tra i soggetti ha carattere di scambio
equivalente, sono in gioco oggetti di valore equivalente da scambiare.
4) La contrattualità: le parti interagenti nel rapporto stringono
un accordo di tipo contrattuale; potremmo richiamare la formula dell’art. 1372 del cod. civ. ital. (che per verità è abbastanza enfatica considerando il fatto che è una norma di diritto statale) in cui si dice che
“il contratto ha forza di legge tra le parti”.
Nel periodo delle origini, detto in via, esemplificativa, si poteva
trattare di una compravendita, una cessione di territorio, una permuta ecc. In altri termini, venivano in gioco tutti gli istituti del Diritto romano di cui troviamo poi una diffusa utilizzazione nel primo
sistema del Diritto internazionale moderno dovuto all’olandese Ugo
Grozio.
Grozio fa frequentissimi riferimenti al Diritto romano, che sono
proprio impliciti in quello che dirò riguardo alla “natura” del Diritto
internazionale positivo nel suo tempo; per la verità Grozio fa anche
un riferimento frequentissimo a classici latini e greci e alla Bibbia ancorché dica ad un certo punto nei Prolegomeni, dopo aver parlato del
Diritto naturale, che questo Diritto “esisterebbe anche se Dio non ci
fosse o non si occupasse dell’umanità”, una cosa che sembra molto
strana anche se non è così, perché il principio di eguaglianza lo si trova espresso nel retaggio cristiano.
Grozio era un grande uomo di Stato, anche un drammaturgo, un
genio multiforme; era protestante, apparteneva alla setta degli Arminiani avversata dalla setta dei Gomaristi, e fu messo in galera (condannato all’ergastolo), ma poi fuggì dalle carceri (alcuni dicono nel cesto
della lavandaia, altri dicono in una sorta di baule che conteneva libri),
andò in Francia, diventò ambasciatore di Svezia presso la Corte francese e scrisse il suo trattato sul Diritto della guerra e della pace che
rimane predominante in tutta la scienza giuridica del Sei-Settecento.
In questo periodo il valore di scambio suppone – ovviamente – il
valore d’uso e quindi anche il valore d’uso ha un regime privatistico:
gli Stati sono enti liberi e indipendenti in quanto sovrani nel loro territorio e ivi esercitano poteri liberi nei fini, dispongono esclusivamente
della propria sfera di interessi; quindi sono assenti vincoli giuridici
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interni e positivi. Il che sta a significare che il diritto non contempla
scopi predeterminati, gli enti in questione non sono tenuti a perseguire finalità particolari, non sono soggetti a sindacato giuridico per il
modo nel quale esercitano il loro potere, ne deriva pertanto solo l’imposizione di vincoli giuridici esterni e negativi.
Da questo punto di vista dobbiamo notare che gli Stati sono enti
politici, tra l’altro sono enti di governo nei confronti dei sudditi entro
il loro territorio; ma ciò non osta alla istituzionalizzazione del Diritto
internazionale in termini privatistici. Gli enti privati infatti assomigliano molto agli enti politici, anche questi non subiscono vincoli giuridici interni e positivi, vale a dire attinenti al merito dell’esercizio del
potere, sono quindi limitati solo da vincoli esterni e negativi. La differenza è che gli enti politici assumono la qualità di enti pubblici, hanno
quindi la capacità di ingerirsi o intervenire nella sfera giuridica altrui
senza l’altrui consenso. Cosa che però non si può sostenere perché il
regime giuridico dal tempo delle origini non è ancora maturo per pervenire a questa diversa costruzione.
Poi un’altra cosa importante è da rilevare: dal punto di vista del
regime giuridico e del tipo di diritto che si afferma in questo periodo,
si tratta di un sistema orientato esplicitamente sulle norme o sulle regole. La realtà giuridica è vista nel suo aspetto giuridico-formale; l’antitesi fondamentale è tra ciò che è giuridicamente corretto contro ciò
che non lo è; il sistema quindi non si contrappone alla anarchia ma ad
un sistema di segno opposto che non corrisponda univocamente al
sistema dell’equilibrio giuridico europeo, e che dunque non è una alterazione del sistema europeo ma un sistema di segno negativo, percepito come anti Diritto.
Il sistema giuridico di Westfalia dovrebbe chiudersi in se stesso,
cioè barricarsi nella sfera dei propri affari domestici, ma in realtà tende ad espandersi fuori dai confini geografici dell’Europa del tempo e
ve ne è ragione: il sistema di Westfalia non è solo sistema di diritto
civile ma anche di diritto commerciale tra gli Stati.
Lo Stato partecipa ad una gara a livello economico nella prospettiva della probabilità di guadagno, di arricchimento nella competizione con il potere economico altrui, anch’esso funzionalizzato al guadagno e all’arricchimento dello Stato (che a quel tempo non è la ricchezza “nazionale” ma del sovrano e della sua dinastia). Insomma il potere
è anche una attività di iniziativa economica e la competizione economica resta anch’essa disciplinata in quel periodo con le stesse limitazioni giuridiche esterne e negative idonee a contenere o impoverire le
modalità di competizione del potere statale.
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Correre il rischio, l’alea della competizione economica, cosa che
accadrà soprattutto fuori dall’Europa, rientra nel potere libero nei fini
che il Diritto riconosce a ciascun soggetto internazionale.
Dovremo a questo punto parlare della forza sociale e apro una
piccola parentesi. Anche quando il giurista fa un esame storico, deve
tener conto della sua forma mentale, del suo modo di vedere le cose, e
quindi deve tener conto di quattro elementi:
– la plurisoggettività dell’Ordinamento;
– la forza sociale o il fatto che sottostà all’Ordinamento;
– la stabilità dell’Ordinamento;
– l’Organizzazione di comando nell’Ordinamento.
– Dovremo accennare a tutti questi elementi.
– La forza che sta alla base dell’Ordinamento è la forza del capitalismo commerciale. Infatti l’Olanda rappresenta proprio questo: ha il
dominio dei mari, si estende al di là dell’Europa con la Compagnia delle
Indie Orientali e quella delle Indie Occidentali (nel 1603 fonda la Compagnie delle Indie Orientali e nel 1626 quella delle Indie Occidentali),
quindi si estende a Est ed a Ovest dell’Europa, colonizza per la prima
volta il Capo di Buona Speranza e così via. Le Compagnie sono società
per azioni che esercitano il commercio sotto il controllo statale.
L’Olanda si serve dell’Oceano Indiano come una via d’acqua attraverso cui passano merci, spezie, porcellane, ferro, oro etc.; quando
l’Olanda perde il dominio dei mari nella lotta contro l’Inghilterra, subentra questo Stato, soprattutto nella seconda metà del ‘700, con la
industrializzazione, con il capitalismo industriale di cui l’Inghilterra è
la culla.
L’Olanda non può più tener dietro a questo sviluppo anche perché ha un piccolo territorio e una piccola popolazione e quindi resta
declassata, anche se Amsterdam riesce ancora a rimanere il centro della
finanza europea. Chiuso questo inciso, bisogna dire che in Olanda nasce
Grozio, tra i più prestigiosi giuristi del tempo, che pubblica nel 1608
il capitolo più noto della sua Opera “De jure predae” intitolato “Mare
liberum” in cui espone i tratti generali di quello che per lui è la disciplina del diritto nei rapporti internazionali.
Nel 1625 Grozio pubblica poi il “De iure belli ac pacis” che resta
il primo trattato scientifico del Diritto internazionale: in esso l’autore
vede il Diritto positivo internazionale come Diritto derivato dal Diritto naturale e questo come riflesso speculare della natura o essenza umana, cioè degli uomini che sono gli unici esseri dotati di linguaggio e di
socievolezza e quindi soprattutto di ragione. Lo schema fondamentale
dell’opera si incentra sul Diritto positivo internazionale che non può
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studiarsi in sistema, dice Grozio, se non si tiene conto del Diritto naturale da cui discende sia il Diritto positivo internazionale che il Diritto positivo interno. Se noi teniamo conto, dice, solo dei diritti positivi
non riusciamo a svolgere una trattazione organica della materia, dobbiamo quindi tener conto necessariamente del Diritto naturale. È insomma il Diritto naturale a dare la possibilità di sistemare, dal punto
di vista giuridico formale, il Diritto positivo del periodo.
Formale vuol dire che il Diritto affida il massimo grado alle forme giuridiche stesse il suo senso come avviene, dice Grozio, per le
formule della matematica.
Si passa poi dal periodo delle origini ad un secondo periodo che
va dall’inizio dell’Ottocento fino ai decenni anteriori alla Prima guerra mondiale. Che cosa accade di nuovo in questo periodo?
A mio avviso, il Diritto internazionale “tra” i privati del periodo
dalle origini cambia in Diritto internazionale pubblico; oggi si dice
ancora Diritto internazionale pubblico ed è un retaggio di quel periodo. Alcuni invece dicono semplicemente Diritto internazionale; così si
liberano dal passato, ma non è così; il Diritto internazionale in questo
secondo periodo è pubblico e il sistema giuridico si complica in maniera notevole, la forza sociale diventa il capitalismo industriale e, come
ho già detto, il dominio dei mari lo prende l’Inghilterra e continua ad
essere esercitato dalla stessa, che tra l’altro estende il suo dominio coloniale nella Nuova Zelanda, nell’Australia, a Singapore, in Birmania,
etc. Riesce ad un certo punto a prendere il governo diretto di tutta
l’India, scioglie la Compagnia inglese delle Indie Orientali, dell’India
intera fa una parte dell’Impero inglese. L’Inghilterra dà impulso alla
seconda espansione coloniale.
In Europa il Congresso di Vienna e l’atto finale del Congresso ridisegnano la mappa degli Stati europei; importantissimo passaggio è questo: si costituisce, ad un certo punto, l’Impero germanico (secondo Reich) di cui è Kaiser il re di Prussia e cancelliere Bismarck. La dottrina
giuridica tedesca influisce sulla ricostruzione del Diritto internazionale
positivo, considerandolo una parte del Diritto interno, quindi una branca del Diritto pubblico statale in materia internazionale.
Alla fine della prima guerra mondiale altri Stati si aggiungono ai
preesistenti; il Presidente americano Wilson, formula i suoi 14 punti di
cui il quattordicesimo si riferisce ad una futura Società delle Nazioni.
Nel 1931 si ha la costituzione dell’URSS in Russia.
Alla fine del Novecento, nel 1989, cade il muro di Berlino, crolla
l’URSS (1991) e le ex repubbliche sovietiche entrano anch’esse nella
comunità internazionale.
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Nel 1945 – inoltre – viene convocata a San Francisco la Conferenza delle Nazioni Unite che approva lo statuto dell’ONU.
Nel 1960 abbiamo la Dichiarazione delle Nazioni Unite (Assemblea Generale) sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e popoli
coloniali, per cui ad un certo punto tutto il mondo è organizzato a
Stato, non ci sono più colonie. Si inflaziona il numero degli Stati, ciò
che determina uno degli scoppi di cui parleremo (attualmente gli Stati
membri dell’ONU sono 191).
Ciò che è importante vedere è l’organizzazione di comando internazionale in questo periodo.
Abbiamo la Quadruplice alleanza con il trattato del 1815 che istituisce un “Direttorio europeo” il cui principio essenziale è il diritto di
controllo che le Potenze si riconoscono in vista del mantenimento della pace, assistito dal potere di intervento con l’uso della forza anche
negli affari degli altri Stati.
Al Direttorio, con la fine della Santa Alleanza, subentra il Concerto Europeo il quale opera sul presupposto – ancora giuridico-formale
– che ci sia un Diritto pubblico europeo che è poi il Diritto internazionale pubblico; e infatti alla Conferenza di Parigi del 1856 il concerto europeo stabilisce, per esempio, che la Sublime Porta è “ammessa a
partecipare ai vantaggi del Diritto pubblico e del Concerto europeo”.
Statuendo, altresì, che l’integrità e l’indipendenza dell’Impero ottomano è una questione di interesse generale; nella Dichiarazione sul Diritto
marittimo, sempre del 1856, il Concerto europeo regola il Diritto del
mare soprattutto il problema della neutralità, del contrabbando di guerra etc. Ad un certo punto la dichiarazione stabilisce che la guerra da
corsa è e permane abolita; ma in questo periodo il Concerto Europeo fa
nascere anche nuovi Stati, per esempio, il Belgio che stacca dall’Olanda,
dichiara la Grecia come Stato indipendente e così via.
L’attività del Concerto continua fino al 1906, quando il Concerto
stabilisce lo statuto del Marocco. Nel 1885 alla Conferenza di Berlino
le Potenze si distribuiscono i territori africani ancora da occupare stabilendo modalità per farlo. In particolare configurano il Congo come
uno Stato indipendente, ma che danno in possesso personale al re Leopoldo del Belgio: questo per dire la forza che aveva il Concerto europeo nel cambiare giuridicamente le cose, una forza rilevantissima di
marca giuridico-formale pubblicistica.
Se consideriamo adesso tutto questo, diciamo che continua in
seguito, sia pure in parte affievolita, la situazione pubblicistica: al posto di comando si trovano le quattro Potenze vincitrici della prima
guerra mondiale, che decidono tutto; poi la Società delle Nazioni in
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cui le principali Potenze alleate hanno un posto permanente nel Consiglio, non hanno il Diritto di veto, ma hanno questo privilegio. Poi
nelle Nazioni Unite abbiamo sempre la stessa cosa, una sorta di direttorio riveduto e corretto. Presentatasi la necessità di prevedere un
Consiglio con responsabilità in tema di pace e di sicurezza, fanno parte del Consiglio cinque Stati in pianta stabile titolari del (mancante ai
membri del Consiglio della S.d.N.) diritto di veto, sicché si possono
paralizzare l’uno con l’altro. Il diritto di veto stabilisce la dittatura del
singolo Stato-membro permanente.
Qual è la caratteristica pubblicistica del Diritto internazionale nel
periodo in questione?
Per comprenderlo dobbiamo distinguere fra atti giuridici pubblici e atti giuridici privati; nel periodo delle origini basta che i partecipanti alla comunità internazionale considerino il Diritto positivo una
struttura e lo utilizzino come tale perché la struttura, pur restando
anorganica, riveli proprietà parastrutturali, cioè somiglianti ad una struttura. Per quel periodo si deve pensare ad una funzione di organizzazione implicita nell’ordinamento come Diritto “tra” privati, così come
vi è implicita la “funzione” di soggetti. Non si può pensare a questo o
a quel soggetto particolare, reale, ma appunto ad un dispositivo centrale unificante insito nella stessa struttura privatistica del sistema, insomma l’organizzazione è iscritta nell’ordinamento con la stessa precisione del movimento dei soggetti, senza che questi la rappresentino
all’interno del sistema. L’autorità organizzatrice del sistema non si identifica con nessun soggetto particolare, reale, perché è presente allo stato
diffuso; ma questo punto di vista nel periodo successivo cambia completamente, non c’è più semplice percezione da parte dei soggetti dell’autorità insista nel fatto stesso che esiste tra privati Diritto internazionale, ma c’è comando da parte di un gruppo, di una élite di Stati, di
alcune Potenze nei confronti della massa restante degli Stati.
Questo gruppo di Stati ha il potere di intervenire nella sfera giuridica altrui senza l’altrui consenso. Questo gruppo di Potenze – quindi – è
costituito da enti pubblico-politici. I procedimenti elementari del diritto privato formatosi nel periodo precedente valgono ora solo tra gli Stati restanti che sono “autonomi” più che sovrani. Rispetto soltanto a questi
Stati, che operano in regime privatistico, vale il parallelismo, la gradazione solo quantitativa fra i soggetti, la ripetizione consuetudinaria, il
contratto.
Per le Potenze vale invece il “concerto” cioè il coordinamento fra
loro, e la possibilità di imporsi contro la volontà altrui, nella sfera privata degli altri Stati operanti in regime giuridico di semplice “autonomia”.
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Quindi le Potenze hanno caratteri giuridici pubblicistici ben precisi: nel senso che sono enti necessari, non dispongono giuridicamente
della loro esistenza e devono esistere perché tale è la loro funzione;
inoltre sono enti irresponsabili: i loro atti ed essi stessi come soggetti
non incorrono in sanzioni giuridiche predeterminate per il modo in
cui esercitano il loro potere politico; è possibile modificare ex post i
loro atti, provocare mutamenti dell’organizzazione di comando, etc.,
ma questo potrebbe avvenire anche indipendentemente da ogni apprezzamento giuridico perché rileva la dimensione pubblico-politica.
Poiché le Potenze hanno il potere di intervenire negli affari giuridici interni degli altri Stati, anche con la forza contro la volontà altrui,
si stabilisce un rapporto di supremazia, per cui sono presenti enti superiori da un lato ed enti inferiori dall’altro. I poteri superiori possono
rivolgere ordini agli inferiori, sostituirsi ad essi, annullarne e revocarne gli atti, adottare sanzioni e più ampiamente intervenire nei confronti degli inferiori specialmente per scopi di sicurezza ed equilibrio.
Questa situazione di “doppio standard” pubblicistico e privatistico sfocia in una delineazione del rapporto internazionale che è opposta rispetto a quella del periodo delle origini. E infatti adesso abbiamo:
L’unilateralità. I rapporti sono unidirezionali, gli inferiori si affidano ai superiori, ma tra la loro azione e la risposta dei superiori non
c’è reciprocità.
L’assenza di costrizione. Gli inferiori sono obbligati a dare, a fare
o non fare tutto ciò che ritengono necessario i superiori, che possono
concedere o meno benefici agli inferiori e possono perfino concedere
benefici anche a quelli tra gli inferiori che hanno violato la sfera interna privata degli altri inferiori.
L’assenza di equivalenza. È esclusa la psicologia giuridica dello
scambio tra superiori e inferiori, non vi sono valori giuridici fondamentali che assicurano l’equivalenza di posizione tra superiore e inferiore.
L’assenza del carattere contrattuale. Il rapporto è senza condizioni
da parte dell’inferiore, la sua forma è quella di un accordo ineguale,
pertanto esula la psicologia contrattuale pura, si ha qualcosa di analogo alla figura di un “contratto per adesione”.
Le Potenze – come abbiamo detto – tra loro si coordinano e sarebbe da esaminare che valore giuridico ha questo coordinamento. Gli
Stati inferiori – come pure abbiamo detto – hanno fra loro, più che
sovranità e indipendenza, semplice autonomia perché dipendono dagli enti superiori, cioè dalle Potenze.
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È stabile questo sistema? Sì, è stabile. Ma solo fino a quando non
avviene, agli inizi del ‘900, quella che è stata considerata una “crisi di
civiltà”. Qui è inutile fare elencazione della serie di scoppi nel Diritto
Internazionale dopo la prima guerra mondiale. La prima guerra mondiale è già uno scoppio dello spazio giuridico significante; poi la Società delle Nazioni si estingue perché è incapace di procedere; indi ci
sono le Nazioni Unite che per un certo periodo, così detto della guerra fredda, esistono in quanto c’è una sorta circolazione del sangue extracorporea, vale a dire proprio perché fuori dalle Nazioni Unite c’è la
guerra fredda, e la guerra è fredda perché ci sono due Super-Potenze
in grado, ciascuna nei confronti dell’altra, di aggredirsi con la bomba
atomica. E va considerato che la stessa seconda guerra mondiale si
chiude con uno scoppio terrificante dovuto al lancio di due bombe
atomiche sul Giappone: dal punto di vista giuridico la scossa consiste
nel fatto che restano sconvolte le condizioni stesse del muover guerra
e fare guerra con l’uso delle armi convenzionali, il solo modo che il
diritto internazionale aveva conosciuto e regolato con “convenzioni”,
divenute in parte diritto consuetudinario.
La successiva decolonizzazione costituisce un altro scoppio, un’altra esplosione del regime giuridico internazionale. Abbiamo – in seguito
– l’abbattimento del muro di Berlino simbolo del fatto che una delle
Superpotenze viene meno, cessa il duumvirato tra USA e URSS, rimangono gli Stati Uniti di America.
Infine non parliamo della globalizzazione di cui si serve anche il
terrorismo islamista, della questione degli armamenti, dell’ecologia, dello sviluppo sostenibile del pianeta etc. In definitiva, abbiamo in sostanza, una catena di reazioni che si susseguono ad altre reazioni scosse e
scoppi a catena. Questa è la situazione in cui si trova – oggi – il Diritto
Internazionale nel tempo di crisi, cioè nel mondo contemporaneo.
La domanda dunque è questa: possiamo inquadrare il diritto internazionale facendo ricorso al regime privatistico di accumulazione
giuridica originaria o sic et simpliciter al successivo regime pubblicistico? Evidentemente non è possibile. Molta e diversa acqua è scorsa
sotto i ponti.
A nostro avviso, si tratta di rilevare la presenza di una “grande
struttura” del Diritto odierno in cui si inserisce il Diritto internazionale; lo spazio di teatro dei fenomeni giuridici odierni è molto più ampio
di quanto pensi la dottrina, che si aggira ancora nello schema divisorio
tra monisti e dualisti.
Si tratta di una grande struttura dei fenomeni giuridici alla quale fa
capo sia il Diritto Internazionale che quelli non internazionali; dobbia-
– 127 –
mo dunque ammettere che i fenomeni giuridici, da un lato, esprimono
il principio “tutto nel Diritto è molteplice e non lo si può descrivere con
nessuno schema generale”, questo è il comparto polare del Diritto nazionale, abbiamo poi il comparto, che sta al polo giuridico opposto, quello
della globalizzazione, che obbedisce ad un altro principio “tutto il Diritto è unico e non facciamo che imbatterci nelle infinite variazioni di
un modello che rimane invariante”. Naturalmente, della globalizzazione ci dobbiamo occupare come giuristi, cioè nella misura in cui emerge
l’autoregolamentazione giuridica di vari elementi: il mercato a livello
mondiale, la finanza, le comunicazioni, le tecnologie, anche il terrorismo islamico – perfino questo – assume forma globalizzata.
Abbiamo dunque un meccanismo unitario, in cui ci sono i due
poli di giuridicità, che essendo estremità polari non si toccano tra loro
perché c’è in mezzo il Diritto internazionale, ed è qui che prende quota il punto di vista dello studioso di questo diritto. Se le operazioni
giuridiche, a livello nazionale o a livello globale semplicemente si sommassero fra di loro si otterrebbe un universo (globale) e un pluriverso
(nazionale), ma non la totalità dei fenomeni giuridici vigenti nel mondo contemporaneo. Al contrario c’è una grande struttura in cui l’universo sta separato dal pluriverso e ciò proprio per l’iscrizione, nella
grande struttura, del diritto internazionale che non è riconducibile né
all’uno né all’altro polo.
Non si deve, secondo me, inarcare il sopracciglio di fronte a questo strutturalismo giuridico, diremmo cosmico, perché si ha il contrario di quello che si può a prima vista pensare, cioè non una semplice
struttura astratta, la grande struttura serve proprio a rendere concreto
l’operare del Diritto nel mondo contemporaneo e quindi a far capire
anche la specificità storica del Diritto internazionale in tempo di crisi.
Ed in effetti nella contrapposizione binaria, Diritto nazionale –
Diritto globale, bisogna vedere la generalizzazione di due elementi
“Diritto nazionale – Diritto internazionale” e “Diritto internazionale
– Diritto globale”, che formano una struttura ternaria in cui c’è “Diritto nazionale – Diritto Internazionale – Diritto globale”. Occorre
vedere una stringa divisa in tre comparti.
In questa struttura, Diritto nazionale e Diritto globale, non sono
sinonimi ma antonimi e in relazione a questa antonimia si manifesta,
come fenomeno necessario, l’esistenza del Diritto Internazionale collocato nello spazio (il comparto) tra i due poli o estremità dei fenomeni giuridici.
Dovremmo ora proseguire con l’esplorazione di questa grande
struttura. Ci limitiamo invece ad alcune puntualizzazioni. Che cosa
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abbiamo di diverso in questa grande struttura collegata? Che il comparto del Diritto nazionale e totalmente prevedibile, il Diritto di questo
genere si risolve e si riduce tutto nell’ordinamento giuridico che a sua
volta si inserisce nel sistema giuridico nazionale (o frammentato al di
sotto del diritto nazionale), l’unica forma di attività che è accessibile
all’ordinamento nazionale o agli ordinamenti locali è quella di strutturarsi soltanto evolutivamente e quindi si incentrano nell’ordinamento
giuridico come “sistema”. In altri termini, giuridicamente le azioni dello
Stato sono stereotipate, lo Stato non può creare nulla di nuovo se non
in via graduale, cioè con diritto ottenuto per deduzione dalle fonti del
sistema. La rivoluzione non cambia questo quadro perché, una volta
fatta, entra negli schemi dell’evoluzione: in altri termini dal punto di
vista sincronico il diritto interno nazionale è sempre evolutivo.
Se il comportamento del Diritto nazionale è totalmente prevedibile, automatizzato, altrettanto è a direi per il fenomeno opposto: il
Diritto globale è anch’esso totalmente prevedibile, evolutivo, benché
si tratti di un Diritto interno a livello transnazionale e a formazione
spontanea quindi non automatizzato.
Il Diritto Internazionale, inserito in queste due polarità, rispetto
al Diritto globale presenta il vantaggio (come vedremo) di essere sistematizzato, di essere un sistema munito di fonti, mentre il Diritto globale – come dianzi detto – è un sistema a formazione spontanea, privo
di fonti.
Il Diritto Internazionale, nei confronti del Diritto nazionale, ha
invece un altro vantaggio: in esso vi è, bensì, il sistema, come nel Diritto nazionale, però si trova anche un’altra parte – assente nel diritto
nazionale – in cui l’ordinamento è extrasistematico, si forma fuori del
sistema e, in seguito, il diritto formatosi fuori dal sistema entra a far
parte del sistema.
Quindi nell’ordinamento internazionale si verifica la continua attrazione di elementi extrasistematici nell’orbita della sistematicità e viceversa.
L’extrasistema costituisce la riserva dinamica dell’ordinamento internazionale e sotto questo aspetto l’ordinamento include in principio
un doppio gioco: il gioco tra il dinamismo non evolutivo, imprevedibile, e il gioco del dinamismo evolutivo, prevedibile.
Inserito nelle estremità polari della grande struttura, il Diritto
Internazionale è un meccanismo prezioso perché evita la vittoria del
diritto globale su quello nazionale o viceversa. Se ciò accadesse sarebbe esiziale. È inutile che dica adesso perché sarebbe esiziale, allungherei troppo il mio discorso. Detto in breve: avremmo una sorta di Torre
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di Babele, se prevalesse il Diritto nazionale sul globale; viceversa, se
prevalesse il diritto globale sul nazionale, avremmo il Paradiso Terrestre. Insomma l’Inferno se prevalesse il pluriverso sull’universo o il
Paradiso con le sue celestiali (e anche stucchevoli) armonie, se prevalesse l’universo giuridico sul pluriverso.
In definitiva, il Diritto internazionale, con la sua presenza tra i
due poli, mantiene viva la tensione tra i due estremi e impedisce la
sovrapposizione dell’uno sull’altro, teoricamente impossibile, praticamente funesta, come ho accennato.
In effetti nella grande struttura al Diritto internazionale è complementare sia il Diritto nazionale che quello globale, ognuna delle parti
della grande struttura riceve pienezza di significato solo nel rapporto
reciproco e non come dato isolato. Anche se poi, naturalmente, le tre
parti possono essere considerate come entità isolate nell’indagine, si tratta
però di mattoni di un’unica costruzione concretamente indissolubile.
Il Diritto Internazionale svolge l’attività della spola in un telaio
che andando avanti verso l’estremità polare del diritto globale o indietro verso l’estremità polare del diritto nazionale opera feconde trasposizioni in termini di concetti giuridici da un contesto all’altro, scoprendo
in questo modo principi, norme, istituti, connessioni giuridiche nuove
che vengono invece ignorate o trattate inadeguatamente ai bisogni della
società generale in forza del solo Diritto nazionale o del solo Diritto
globale.
Il punto è di grande importanza e va fatta attenzione. Innanzi
tutto il Diritto internazionale permette di conservare il diritto laddove
questo sarebbe inadeguato nel trattamento che se ne fa ai poli. In secondo luogo, per svolgere il suo compito, il Diritto Internazionale non
assegna nel proprio ordinamento questo o quella alternativa alle valutazioni giuridiche, il cui numero sarebbe sempre finito e, per il dato
ordinamento, costante, ma consente lo svolgersi del principio stesso
dell’alternatività della disciplina giuridica nel proprio ambito, in tal
modo sorge un ordinamento con un aumento a cascata delle sue possibilità giuridico-valutative.
Il che poi non esclude che nell’ordinamento vi sia una parte stabilizzata, costituita dal “sistema”.
Insomma l’ordinamento internazionale si forma creando nel suo
interno la coppia diritto fisso vs. diritto dinamico, diritto che sta fermo nel sistema vs. diritto che si muove fuori dal sistema. Perciò abbiamo detto che esso è ordinato anzi ordinabile.
Siamo pervenuti al punto di arrivo della nostra riflessione odierna sulla struttura interna all’Ordinamento internazionale oggi vigente.
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Ci collochiamo quindi all’interno della grande struttura ternaria di cui
l’ordinamento internazionale occupa il comparto centrale. Purtroppo,
la nostra ora di lezione è tempo esiguo. Tocca quindi a voi procedere
nel compito che resta da svolgere. Per quel che mi riguarda, in un mio
saggio, che spero di prossima pubblicazione, svolgo un’analisi di teoria generale che prende molte pagine. Non mi resta allora che tracciare qui uno schema lungo il quale potrete – se volete – proseguire sotto
la guida dei docenti del Corso.
A) Intanto, un primo punto da annotare. L’aver precisato la posizione strategica del diritto internazionale nella grande struttura consente di gettare uno sguardo diverso con cui vedere l’Ordinamento
internazionale in sé e per sé, a fini di analisi. La posizione strategica
suddetta consente di conservare uno sguardo più libero e meno scontato su tale problema. Che, come è ovvio, non può essere astrattamente scisso dai grandi cambiamenti che abbiamo notato in precedenza:
cioè dagli scoppi ricorrenti dello spazio giuridico significante dell’ordinamento internazionale incentivati dalla società generale.
Abbiamo già detto che le opinioni tradizionali riprese oggi dalla
vulgata, stando alle quali si tratterebbe di rilevare l’assetto monistico
del diritto internazionale rispetto al diritto non internazionale, non sono
praticabili. Attualmente, non si può ritenere, con la tranquillità del
passato, né che il diritto nazionale (il pluriverso giuridico) ha il primato sul diritto globale (l’universo giuridico) né l’inverso cioè che l’universo della globalizzazione abbia il primato sul pluriverso della nazionalizzazione e di altri fenomeni locali. Non vi è continuità tra i due
estremi polari della grande struttura. Neppure il dualismo, del resto
(teoria della separazione tra l’ordinamento internazionale e gli ordinamenti interni statali, originari, originarietà naturalmente ritenuta assoluta ed esclusiva, tranne i meccanismi tecnici dei rinvii dall’uno all’altro versante), può acquietarci, perché il confine tra diritto internazionale e diritto nazionale nella grande struttura è permeabile e, inoltre,
perché vi è da considerare la permeabilità del confine stesso tra ordinamento internazionale e diritto globale (dimensione globale del diritto che, per di più, è del tutto inesistente per il dualismo, dato che la
teoria dualista neppure avverte la presenza di diritto globale nel mondo contemporaneo). Manca alla vulgata nel suo complesso (monismo
e dualismo) la stessa nozione mutata di “confine” in senso giuridico e
non territoriale.
B) Altra notazione da fare è che l’Ordinamento internazionale
vigente in tempo di crisi coinvolge un cambiamento nella consistenza
stessa del fenomeno giuridico. Se nella fase di accumulazione origina-
– 131 –
ria del diritto internazionale (Sei-Settecento) e nella stessa successiva
fase dell’Otto-Novecento, la logica giuridico-formale era assorbente,
infatti la prospettiva giuridica era costruita dalla logica normativa, ora
si tratta della prospettiva della logica giuridico-sostanziale. Il diritto,
nell’ordinamento internazionale, è diretto prevalentemente sul “contenuto” piuttosto che sulla “forma”. Abbiamo detto – ripetiamo – che
l’ordinamento internazionale vigente è ordinato anzi ordinabile e questo vuol dire l’“anzi” della formula.
C) Inoltre al suo interno l’ordinamento internazionale è tutt’altro
che interamente fisso, stabile, dato che in altra parte è mobile, instabile, vengono in gioco, sempre dentro l’ordinamento nella stessa unità
di tempo, cioè in sincronia, sia la parte della struttura dell’ordinamento costruita dal “sistema” (definibile nel modo in cui, per la teoria
generale del diritto, l’ordinamento costituisce, ma esclusivamente, un
sistema), sia la parte della struttura del medesimo ordinamento costituita dall’“extrasistema”. Ne viene: a) la mobilità “esistenziale” della
struttura dell’ordinamento internazionale attuale è la sua condizione
normale, non si tratta di una sua presunta “natura” o “essenza”; b) lo
scambio tra sistema ed extrasistema è un inesauribile serbatoio di dinamica nel lavoro dell’ordinamento, cioè di storia che è poi la storia
specifica del tempo di crisi; c) se operasse solo l’extrasistema come fonte
di giuridicità, avremmo il caos nell’ordinamento è dunque necessario
il lavoro complementare, reciproco di sistema ed extrasistema; d) il
sistema è la sede della logica giuridica formale lineare (si pensi ad una
ferrovia nella quale la successione delle stazioni è prestabilita e quando il convoglio è giunto alla stazione di arrivo, cioè alla esecuzione del
diritto, ritorna alla stazione di partenza, sicché la proiezione lineare
segue, in realtà, una curva per tornare indietro passando all’altro binario per imboccare la direzione inversa); l’extrasistema invece è la
sede dei continui scarti, deviazioni di binario che il diritto compie in
relazione agli scoppi, alle esplosioni di spazio giuridico significante,
momenti in cui l’ordinamento deve svolgere attività inventiva euristica o creativa scegliendo tra le diverse possibilità di regolamento giuridico quelle più idonee a supplire con nuova disciplina l’inidoneità del
sistema a funzionare in tempo di crisi, e) la logica giuridica creativa,
extrasistematica, non si determina ex ante cioè in forza di schemi prefissati, ma mercé un’attività di reperimento di nuove soluzioni disciplinari che, una volta consolidatasi la scelta di cui si tratta, conduce
alla formazione di principi e norme, di istituti che ex post passano a
far parte del sistema (salvo a determinarsi, con successivi scoppi, il
passaggio della disciplina sistematizzata in disciplina che va a far parte
– 132 –
della riserva dinamica dell’ordinamento, utilizzabile in una prossima
occasione); f) il gioco tra disciplina sistematica ed extrasistematica non
è un gioco di parole o un’astrazione ideologica: sussiste – ad esempio
– una profonda differenza tra la consuetudine operante nel sistema e
lo stabilizzarsi giuridico del fatto che avviene fuori della ripetizione e
dell’imitazione di cui alla consuetudine, di per sé inadeguata a tener
dietro a scoppi, ad esplosioni dello spazio giuridico significante nell’ordinamento in tempo di crisi. Sull’argomento ci sarebbe da impiegare un bel numero di pagine.
D) Nell’ordinamento internazionale attuale è il concetto stesso
di forza sociale sottesa all’ordinamento che cambia. Il cambiamento è
stato avvertito inizialmente in sede di giurisprudenza internazionale,
nella quale si è fatto riferimento alla “comunità internazionale degli
Stati nel suo insieme”. La novità non è sfuggita alla vulgata scientifica
ma, ubbidendo ad un suo riflesso condizionato, essa si è adoperata a
depotenziarne il significato, limitandolo alla formazione dei principi e
norme che si impongono in maniera categorica o imperativa ai soggetti. In realtà, il nuovo concetto di fatto sociale internazionale comporta
uno sdoppiamento a) la comunità nel suo insieme e b) la tradizionale
comunità internazionale semplice o “società” internazionale. Il
leit-motiv della vulgata, invece, è che il fatto sociale internazionale si
svolge tra le due tradizionali dimensioni della “coesistenza e collaborazione” internazionale, opinione che si trova, pari pari, già in Grozio!
Sta invece che lo sdoppiamento del concetto giuridicamente rilevante di comunità implica lo sdoppiamento, il doppio volto come Giano
bifronte, della stessa soggettività o personalità internazionale. Quando ad essere operativo era semplicemente la comunità del periodo di
accumulazione originaria (Sei-Settecento) gli Stati erano semplici depositari di valutazioni giuridiche internazionali costanti e date geneticamente (derivate dal diritto naturale). Nella comunità del periodo
successivo (Otto-Novecento) parte dei soggetti internazionali (la gran
parte, tranne le Grandi potenze) erano semplici destinatari delle valutazioni giuridiche internazionali che il potere politico pubblico delle
Potenze indirizzava a poteri statali semplicemente “autonomi”. Attualmente, nell’ordinamento internazionale, tutti gli Stati, nessuno escluso ed eccettuato in via giuridica di principio, sono parti integranti della comunità internazionale nel suo insieme complesso, ma poi gli stessi Stati, tutti, nessuno escluso ed eccettuato, sono enti caratterizzati
dal fatto che agiscono e quando agiscono partecipano alla comunità
intemazionale semplice. C’è l’autorità giuridica internazionale, ma il
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diritto internazionale è autorevole, non autoritario, poiché ha cessato
di essere oligarchico.
Gli Stati che agiscono come soggetti della comunità internazionale semplice, e quindi sono punto di imputazione della disciplina sistematica, vorrebbero vedere l’ordinamento perfetto, chiuso, appunto, nel sistema, è questa la visualizzazione dei diritto che li appaga. Gli
Stati invece che agiscono come partecipanti della comunità internazionale nel suo insieme vedono l’opera dell’ordinamento incompiuta,
imperfetta e perciò perfettibile, operano, in questa veste, nella parte
extrasistematica dell’ordinamento, in relazione agli scoppi che in esso
si verificano.
Come, dunque, nell’ambito del sistema, correlativo alla comunità
internazionale semplice, la soggettività è concetto da prendere etimologicamente come posizione di sottoposizione al sistema, come concetto giuridico determinabile a priori, così nell’ambito extrasistematico, correlativo alla comunità internazionale nel suo insieme, la soggettività si determina come “esito” o risultato del funzionamento del fatto sociale complesso, cioè come concetto giuridico determinabile soltanto a posteriori.
E) A questo punto possiamo renderci conto del cambiamento
profondo della disciplina giuridica nell’ordinamento internazionale in
tempo di crisi. Il “doppio standard” della regolamentazione giuridica
oggi in vigore consiste in ciò: 1) che tutti gli Stati sono enti pubblico-politici. Dalle loro scelte (e non può essere diversamente giacché
l’ordinamento internazionale resta anorganico) deriva la parte del diritto internazionale che gli Stati insieme e solidalmente determinano,
partecipando alla “comunità internazionale nel suo insieme” che è il
solo fatto o forza sociale sotteso ad un diritto che si forma extrasistematicamente onde – appunto – non può avere la sua fonte sociale che
nella comunità internazionale nel suo insieme; 2) ma anche che, sempre tutti gli Stati, sono enti pubblico-amministrativi, infatti nella loro
sfera di interessi si determinano: a) i principi, le norme, gli istituti, la
cui formazione dipende dall’intervento degli Stati come enti pubblicopolitici, che comportano obblighi giuridici non più esterni e negativi,
ma interni e positivi nell’altrui sfera di interessi. E qui appunto emerge
la qualità che distingue gli enti internazionali pubblico-politici e gli
enti internazionali pubblico-amministrativi: i primi sono liberi nelle
scelte, non sono gravati di obblighi interni e positivi, mentre i secondi
lo sono: il loro potere non è mai libero ma sempre discrezionale, soggetto quindi al potere di intervento degli Stati nella veste di enti
politico-pubblici in seguito alle loro libere scelte in tale veste.
– 134 –
Il “doppio standard” della disciplina dell’ordinamento internazionale vigente è dunque ben diverso da quello della precedente fase
dell’Ottocento-Novecento. In tale periodo la plurisoggettività si distingueva in due parti: alcuni soggetti titolari di potere
pubblico-politico, la restante massa dei soggetti titolari di situazioni
giuridiche di mera autonomia. Nell’attuale ordinamento tutti i soggetti sono invece al contempo (ma secondo le circostanze della crisi in
cui operano) titolari di potere pubblico-politico, e tutti di potere
pubblico-amministrativo. Lo sdoppiamento della personalità dipende
dallo sdoppiamento della comunità internazionale complessa o semplice e quindi dello sdoppiamento dell’ordinamento internazionale in
extrasistema e sistema.
F) Gli obblighi interni e positivi che oggi gravano su tutti gli Stati
sono correlativi alla presenza di interessi strategici della comunità internazionale, la cui tutela dipende da tutti gli Stati in quanto dotati discelte politiche appunto di carattere strategico. La figura della doppia
rilevanza della comunità internazionale (complessa o semplice) della
doppia rilevanza dell’ordinamento (extrasistematica o sistematica) della
doppia rilevanza della personalità (pubblico-politica o pubblico-amministrativa) si inserisce nel presupposto dell’orientamento dell’Ordinamento sui “contenuti”, quindi non più giuridico-formale, ma
giuridico-sostanziale, e pertanto sulla necessità di una griglia giuridica
vuota per condizioni giuridiche future e non definite (ma che vanno
regolate nel contenuto di volta in volta che accadono scoppi o esplosioni dallo spazio giuridico dell’ordinamento) e sul correlativo presupposto che il trattamento giuridico non è mai “fatto” ma “si va facendo” nell’ordinamento che, per dir così, non sta mai seduto (non
“sta” come lo Stato), ma sempre in movimento o pronto al movimento, onde sono i fatti giuridici ripetitivi, meccanici, automatizzati, relativi al sistema, che l’ordinamento non tollera disconoscendo loro l’assolutezza, l’immodificabilità, quasi fossero valori giuridici prestabiliti
in eterno.
G) Il potere giuridico internazionale di tutti gli Stati è degradato
da potere pubblico-politico in potere pubblico-amministrativo, a seconda delle circostanze in cui gli Stati agiscono, con la conseguenza
che gli Stati – tutti gli Stati, ripetiamo – sono tenuti obbligatoriamente
a perseguire fini determinati, fissati con gli obblighi giuridici interni e
positivi provenienti, in definitiva e in ultima analisi, dalla comunità
internazionale degli Stati nel suo insieme e quindi sotto il controllo
degli Stati come enti pubblico-politici, che compongono la comunità
internazionale nel suo insieme, ai quali gli Stati come enti pubbli-
– 135 –
co-amininistrativi rispondono internazionalmente. Resta come componente residuale o “recessiva” il diritto privato (un carattere come quello
biologico che, nell’evoluzione della specie, si manifesta in qualcuno
dei tratti dei discendenti).
Resta però una condizione di ambivalenza giuridica in questo regime (la “comunità internazionale nel suo insieme” riduce la “comunità semplice” a sistema, ma resta anorganica). Poiché quindi si rende
necessaria l’esistenza di un meccanismo ulteriore di valutazione e scelta, che tolga automatismo e passività al regime giuridico nuovo trasformandolo in assenza di automatismo e in azione, è necessario che
l’Ordinamento contempli una condizione di reciprocità. Se lo Stato, nella
veste di ente che amministra gli interessi che l’ordinamento tutela imponendo obblighi interni e positivi che vincolano la condotta dello
Stato, non si conforma a tali obblighi, allora l’altro Stato o gli altri
Stati possono agire prendendo le contromisure idonee ad obbligare
ad agire nel senso dell’adempimento degli obblighi e della restaurazione dell’ordinamento violato. Altrettanto è dirsi nei rapporti tra gli
Stati quando agiscono come enti pubblico-politici, anche nei loro rapporti vige la reciprocità. Il che vuol dire: “se tu non collabori, rompi la
solidarietà della comunità internazionale nel suo insieme, allora anche
io non collaboro e sono libero di adottare le contromisure del caso”.
Quanto alle contromisure in questione si discute nelle prassi se
possano essere unilaterali o multilaterali. Ma la distinzione è fatua, non
serve se non a fini ideologici, giuridicamente – è ovvio – anche oggi
possono farsi degli accordi multilaterali. Il problema è un altro. Nessuno Stato che ne abbia la possibilità, tanto meno la Super-Potenza
attuale (gli USA), può subire a proprio danno o a danno della comunità internazionale nel suo insieme (che – si ripete – è un concetto
solidaristico) la violazione del nesso di collaborazione o di solidarietà
internazionale. Questo vale anche nel caso che l’ostruzionismo altrui
nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la minaccia di porre il
veto, ecc. determini la violazione della condizione di reciprocità che,
essendo un elemento strutturale dell’ordinamento in tempo di crisi,
inerisce alla “esistenza” dell’ordinaniento e come tale trascende lo Statuto stesso delle Nazioni Unite. Insomma, l’ostruzionismo, il veto e
simili, restituiscono piena libertà politica agli Stati in quanto partecipi
della comunità internazionale nel suo insieme.
Sarebbe ora da approfondire l’argomento della struttura e della
funzione dell’ordinamento in tempo di crisi. Ma l’ora concessami è
quasi finita, sicché non è pensabile cominciare neppure un’analisi del
genere. Ne sarebbe, comunque, coinvolto il concetto stesso di “legge
– 136 –
internazionale e di “equilibrio” internazionale. Ciò che immobilizza
l’ordinamento in tempo di crisi è proprio la vigenza di una presunta
legge internazionale esclusivamente determinabile a priori nel chiuso
del sistema e così un equilibrio giuridico internazionale equivalente
alla semplice evoluzione in via sistematica dell’ordinamento. Siamo lontani dalla legge naturale e dall’equilibrio di Westfalia del Sei-Settecento
e dalla legge dell’autorità oligarchica e dell’equilibrio delle grandi Potenze dell’Otto-Novecento.
Infine possiamo accennare ai due aspetti: a) della sanzione in Diritto internazionale; b) del principio di certezza in questo Diritto.
Per quanto riguarda il primo punto, quando riteniamo che il regime giuridico internazionale, da pubblico-politico del secondo periodo (Ottocento primi due decenni del Novecento), azionato da un gruppo di Potenze da un lato e, dall’altro lato, osservato dagli Stati in regime privatistico, è diventato diritto internazionale oggi vigente in cui,
secondo le circostanze della crisi, gli Stati agiscono come poteri
pubblico-politici o poteri pubblico-amministrativi, il diritto non è “fatto”, ma si “va facendo”. Pertanto non è detto che debba essere tutto
quanto determinato, già pronto giuridicamente, già “sanzionato”, munito cioè di una sanzione bell’e pronta. Non si tratta di riconoscere
che un diritto privo di sanzione efficace è un diritto inesistente (questione puramente astratta), ma che l’ordinamento internazionale in tempo di crisi ridotto ad una sanzione efficace (nel senso di pre-definita),
sarebbe un diritto non vivente, cioè senza “idee mobili” anche in tema
di sanzione, cristallizzato in certe “idee a perpendicolo”, quasi fossero
altrettanto verità assolute, che finirebbero però per isterilire ogni concretezza.
Detto questo, quando noi riteniamo che gli Stati attualmente hanno potere pubblico-politico e potere pubblico-amministrativo, nelle
due posizioni c’è sempre la reciprocità. Come è proprio nel diritto
amministrativo c’è discrezionalità degli enti che amministrano, ma essendoci anche la “reciprocità” ne deriva che se uno degli Stati che è
gravato da vincoli interni e positivi, non adempie i propri obblighi è
ovvio che l’altro Stato in risposta attua le sue contromisure, che possono consistere anche nell’uso della forza. Anche la stessa Superpotenza, del resto, è obbligata a usare il potere con una certa discrezionalità, infatti quando opera nel sistema è vincolata a certi fini, cioè
non può trattare in maniera disumana i prigionieri etc., non può non
tener conto di quelli che sono i principi fondamentali della convivenza civile che attualmente sono “sistematizzati”. Ma, ripeto, il diritto è
in continuo movimento: se esaminiamo il caso della guerra in Iraq, la
– 137 –
valutazione dell’uso della forza non appare ancora definita. Alcuni Stati
si sono opposti in sede di Consiglio di Sicurezza e con questo hanno
fatto in modo che l’organo non funzionasse (porre o minacciare di
porre il veto significa impedire che si formi la volontà stessa dell’organo). È un “truismo” ritenere che quando in tema di sicurezza viene
posto il “veto”, l’ONU funziona, perché invece è frustrato lo scopo
dell’Organizzazione. Se l’uso della forza – ripeto – è stato illegittimo o
legittimo, nel caso dell’Iraq, ancora non lo possiamo dire, secondo me.
Mentre (come la Chiesa Cattolica ha condiviso) il mancato intervento
dell’ONU nel caso della Bosnia e del Kossovo, in cui i serbi di Milosivic facevano azioni di genocidio dei musulmani, non ha impedito di
riconoscere l’intervento fuori dall’ONU come legittimo intervento umanitario, perché uno degli obblighi positivi imposti dalla comunità internazionale nel suo insieme, e che attualmente hanno rilevanza “sistematica”, è il rispetto dei diritti dell’uomo che in quel caso veniva
violato dalla Serbia.
Per quanto riguarda il secondo punto, c’è da dire che vi è una
parte dell’ordinamento internazionale in cui la certezza, il principio
della certezza si applica, ma si applica limitatamente al sistema, fuori
dal sistema non può valere la certezza appunto perché siamo fuori dal
sistema, siamo bensì sempre nell’ordinamento, ma fuori dalla sua parte sistematica. E nello spazio giuridico extrasistematico occorre vedere se le scelte degli Stati, come enti pubblico-politici, giuridicamente
poi si stabilizzano passando a far parte del “sistema”.
Tutto il mio discorso che ha preceduto, necessariamente contratto nell’occasione, è stato poggiato su questo, cioè che lo stato d’incertezza esiste, non possiamo fare a meno di considerarlo; ma se assumiamo che la certezza sia una entità immutabile, che non possa essere
assolutamente scalfita, non facciamo altro che ripetere quello che è
stato detto per secoli riguardo al diritto internazionale, non teniamo
conto di ciò che è il Diritto Internazionale in tempo di crisi in cui la
dottrina non può che usare un criterio fallibilistico nelle sue costruzioni, non può ritenere che esista la “verità”, la “certezza”, la “giustizia”,
si deve andare a vedere caso per caso; questo è una parte del grosso
problema del Diritto internazionale vigente, a cui si riferiva testè il
prof. Galloni Direttore della scuola, nel suo cortese commento alla
mia esposizione.
PASQUALE PAONE
– 139 –
CONSIDERAZIONI SULL’ARBITRATO IN MATERIA
SOCIETARIA TRA RITUALITÀ E IRRITUALITÀ
NEL QUADRO DELLA RIFORMA DEL PROCESSO
SOCIETARIO DI CUI AL D.LGS. N. 5 DEL 17 GENNAIO 2003
1. Premessa
Con il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, recante definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 12
della legge 3 ottobre 2001, n. 366, pubblicato nella G.U. n. 17 del
22.01.2003 – Supplemento Ordinario n. 8 – come modificato dal d.lgs.
06.02.2004 n. 37, la riforma del processo societario rafforza e modifica l’importante diffusione dello strumento arbitrale quale forma alternativa di risoluzione delle controversie in ambito societario tra soci o
tra soci e società. Nonostante la presenza di forti e serrati limiti di
arbitrabilità per le controversie societarie, riscontrati da tempo dalla
prevalente giurisprudenza 1, risultano numerosi gli statuti e gli accordi
parasociali che già contengono al proprio interno delle clausole compromissorie, sì da poter essere pacificamente qualificate, oggi, quali
clausole di rito 2.
Con quanto previsto dall’art. 12, comma 3, legge 3.10.2001 n. 366,
il legislatore stabiliva che “il Governo può altresì prevedere la possibilità che gli statuti delle società commerciali (di cui all’art. 2249 comma 1
c.c.) contengano clausole compromissorie, anche in deroga agli artt. 806
e 808 del codice di procedura civile, per tutte o alcune tra le controversie
(1) Il trend giurisprudenziale citato risulta facilmente riassumibile, in considerazione del fatto che, in ambito societario, l’arbitrabilità delle controversie, alla luce
dei principi generali, è ammessa in tutte quelle materie che possono formare oggetto
di transazione e cioè quelle materie dove si ha la disponibilità del diritto oggetto della
controversia; v. in tal senso Cass., 06.07.2000, n. 9022 (in Dir. e pratica società, 2000,
21, p. 77). In breve: la natura dell’interesse coinvolto viene utilizzata come unità di
misura per l’individuazione dell’ambito di applicazione dello strumento arbitrale in
materia societaria.
(2) In tal senso cfr. D. AMADEI – N. SOLDATI, Il processo societario, Milano,
2003, p. 133.
– 140 –
societarie di cui al primo comma” 3, in ogni caso contenenti una species
arbitrale 4 non sostitutiva del modello codicistico, sicuramente ultrattivo anche in materia societaria, nel caso in cui lo stesso non venga
specificatamente derogato in materia societaria; sono, dunque, applicabili le disposizioni del codice di procedura civile che risultano compatibili.
Il legislatore delegato ha predisposto una dettagliata normativa
per l’arbitrato societario 5 che viene ad essere cristallizzata nel Titolo
V del d.lgs. 17.01.2003, n. 5 (artt. 34-37), dedicato all’Arbitrato. In
realtà, l’art. 37 del Decreto prevede quello che è ormai denominato
arbitrato economico, ovvero un meccanismo di risoluzione “dei contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle
decisioni da adottare nella gestione della società”, il suddetto articolo
rubricato “Risoluzione di contrasti sulla gestione di società” non sarà
oggetto della presente trattazione.
2. Ambito di applicazione
In applicazione delle nuove disposizioni gli atti costitutivi delle
società – eccetto quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di
rischio a norma dell’art. 2325 bis c.c., ovvero “società con azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse tra il pubblico in misura rilevan-
(3) Come è evidente dal tenore letterale della norma, si tratta di una mera facoltà e non di un dovere. In tal senso cfr. E. FAZZALARI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Riv. Arb., 2002, p. 444; R. VACCARELLA, La riforma del processo societario: risposta ad un editoriale, in Corr. Giur. 2003, 2, p. 262.
(4) In tal senso v. F. AULETTA, La Riforma delle società – Il Processo – a cura di
Bruno Sassani, Torino, 2003.
(5) Buona parte della Dottrina ha avuto modo di sottolineare come il d.lgs. n.
5/2003 abbia in realtà ecceduto i limiti della legge delega. Secondo alcuni quest’ultima non avrebbe delegato ad inserire un nuovo rito speciale, ma solo regole processuali finalizzate all’ottenimento della concentrazione del processo e la riduzione di
termini processuali. In tal senso v. A. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo
societario (note a prima lettura), in Foro it., 2003, 1, V, p. 12; G. COSTANTINO, Il nuovo
processo commerciale: la cognizione ordinaria in primo grado, in Riv. dir. proc., 2003, 2,
p. 387; M. BOVE, L’Arbitrato nelle controversie societarie, in www.judicium.it. In merito a dubbi di legittimità costituzionale suscitati dal d.lgs. n. 5/2003 per il superamento dei limiti posti dalla legge delega v. G. TARZIA, Interrogativi sul nuovo processo
societario, in Riv. dir. proc., 2003, 3, p. 641. Inoltre F. CRISCUOLO, L’opzione arbitrale
nella delega per la riforma delle società, in Riv. Arb. 2002, p. 45, il quale definisce
“abnorme” la disposizione.
– 141 –
te” 6 – potranno, mediante clausola compromissoria, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune o di tutte le controversie insorgenti tra i soci,
ovvero tra i soci e la società, che abbiano ad oggetto diritti disponibili
relativi al rapporto sociale 7; la conseguenza per le suddette società è che
non può essere esclusa la tutela giurisdizionale per le controversie societarie riguardo a quelle persone giuridiche in cui l’interesse dei soci è quello
di investire capitale. Si può tentare in tal senso una giustificazione di tale
esclusione ovvero delle “società con azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse tra il pubblico in misura rilevante”, in ogni caso non pienamente condivisibile, attraverso l’esigenza contenuta nell’art. 4 della legge 3
ottobre 2001, n. 366, (legge delega), ove vengono sancite per le suddette
società “regole caratterizzate da un maggiore grado di imperatività in considerazione del ricorso al mercato del capitale di rischio”.
Rimane, comunque, esclusa l’arbitrabilità delle controversie ove
si riscontrino interessi della società e violazioni di norme inderogabili
a tutela diretta dell’interesse collettivo dei soci o dei terzi. Si considerano, per esempio, non arbitrabili le controversie tra soci e società in
materia di chiarezza e verità della rappresentazione contabile 8, le controversie aventi ad oggetto interessi di cui i soci stessi non possano
disporre, in quanto pertinenti in via diretta alla società 9, le controversie riguardanti lo scioglimento della società, in quanto aventi ad og(6) Ai sensi dell’art. 111 bis delle disposizioni di attuazione del c.c. (introdotto
dall’art. 9.1, lett. f del d.lgs. 6/2003) la c.d. “misura rilevante” è quella stabilita a norma
dell’art. 116 del d.lgs. 24.02.1998, n. 58 (T.U. delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), e risultante alla data del 1° gennaio 2004. Il suddetto art. 116, a
sua volta, rimette alla Consob il compito di stabilire, con un regolamento (Regolamento
Emittenti), i criteri per l’individuazione della diffusione tra il pubblico in misura rilevante: secondo l’art. 2 bis della deliberazione Consob 14 maggio 1999 n. 11971, (così
come modificato dalla delibera n. 14372 del 23.12.2003) che prevede che la misura
rilevante sussista, quando “contestualmente: a) abbiamo azionisti diversi dai soci di controllo in numero superiore a 200 che detengano complessivamente una percentuale di
capitale sociale almeno pari al 5%; b) non abbiano la possibilità di redigere il bilancio
in forma abbreviata ai sensi dell’articolo 2435-bis, primo comma, del codice civile” ovvero siano dotati di un patrimonio netto non inferiore a cinque milioni di euro.
(7) Particolarmente incisiva e condivisibile risulta l’analisi della circostanza posta in essere da M. BOVE, L’arbitrato nelle controversie societarie cit., secondo il quale
«in materia societaria la giurisprudenza ha sempre confuso il problema dell’operatività di norme inderogabili col problema dell’individuazione dei diritti indisponibili»;
conf. F. CORSINI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Giur. it., 2003, 6; p.
1286; G. BIANCHI, L’arbitrato nelle controversie societarie, Padova, 2001, p. 81.
(8) Tribunale di Milano, 07.02.2002, in Giur. it., 2002, p. 1014.
(9) Corte di Appello di Firenze, sent. 31.01.2001, in Riv. Arb., 2002, p. 315, con
nota di A. Fusillo.
– 142 –
getto interessi della società stessa 10, ed infine l’esclusione di un socio
da una società formata da due soli soggetti 11.
A ciò si aggiungono tutta una serie di specifiche disposizioni, ad
hoc predisposte dal legislatore, per la clausola compromissoria inserita
nello statuto societario 12. Ciò porta necessariamente alla creazione di
un ulteriore genus 13 di compiuto procedimento arbitrale destinato a
modellarsi sulle particolari esigenze collegate all’attività societaria – indipendentemente dalla forma da essa assunta o dall’oggetto sociale –
con un evidente favor del legislatore verso il sistema privilegiato di risoluzione delle controversie societarie arbitrabili individuabili astrattamente
come oggetto di transazione. La clausola compromissoria rappresenta
una regola del gruppo sociale ed, in quanto inserita nell’atto costitutivo
e nello statuto, obbliga anche i soggetti che non hanno concorso a redigerla; infatti, come sancito dall’art. 35, comma 4, “le statuizioni del lodo
sono vincolanti per la società” ed ovviamente per tutti i soci, anche per
quelli la cui qualità di socio è oggetto della controversia, (divenendo
oramai scontata l’assoggettabilità alla clausola compromissoria di coloro che assumeranno la qualità di soci in un momento successivo), nonché in ossequio all’art. 34, comma 4, la clausola compromissoria vincola
gli amministratori, i liquidatori e i sindaci in considerazione dell’accettazione dell’incarico da parte degli stessi all’interno della società. Nella
norma suddetta non vengono ricomprese le figure dei componenti dei
consigli di gestione e di sorveglianza disciplinate dall’art. 2409 octies
c.c., ma considero pacifica l’applicazione dell’art. 34, comma 4, anche
agli organi previsti nel sistema dualistico di amministrazione, nonché in
quello monistico di cui all’articolo 2409 sexiesdecies c.c.
Di certo, per la corretta applicazione e vincolatività della norma
citata nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di gestione e
controllo all’interno della società è necessaria, oltre alla mera accetta(10) Cass., Sez. I, 19.09.2000, n. 12412, in Giust civ., 2001, II, p. 405 con nota
di G. Vidiri.
(11) Cass., 20.04.1985 n. 2611, in Rep., 1985, 480, n. 36.
(12) Sembra pacifico che il termine “atto costitutivo”, utilizzato dalla normativa in esame, debba essere inteso in senso ampio, ricomprendendovi anche lo statuto.
(13) In altre parole, la portata precettiva degli artt. 34-36 del d.lgs. n. 5/2003
consiste nell’aggiungere un’ulteriore tipologia di procedimento arbitrale, oltre all’Arbitrato ordinario (di cui agli artt. 806-831 del c.p.c.), all’Arbitrato internazionale (di
cui agli artt. 832-838 del c.p.c.), all’Arbitrato straniero (di cui agli artt. 839 e 840 del
c.p.c.), ed all’Arbitrato in materia di lavoro (di cui all’art. 412-ter del c.p.c.), una ulteriore forma di Arbitrato societario, cui necessariamente si accosta quella prevista dall’art. 37 che – anche per esplicito richiamo normativo – meglio si apprezza sul piano
sostanziale come una species di Arbitraggio (c.d. economico) per la risoluzione di contrasti sulla gestione sociale.
– 143 –
zione dell’incarico, la specifica accettazione in cui sia contenuta anche
l’indicazione della clausola compromissoria riportata nello statuto, che
disciplina la procedura arbitrale. Diversamente, nell’eventualità di
mancata accettazione dell’incarico, non può sussistere l’efficacia della
clausola compromissoria e, conseguentemente, la legittimazione attiva
e passiva prevista nella clausola compromissoria in capo ai soggetti
indicati nel quarto comma dell’art. 34 del decreto citato.
Per non addentrarsi eccessivamente in questioni che potrebbero
risultare fuorvianti, basti rilevare, in questa sede, come particolarmente
rigorosa risulti la disposizione di limiti e statuizioni per la corretta individuazione dell’ambito applicativo della nuova normativa volto ad un
corretto inserimento statutario e normativo delle materie arbitrabili (art.
34 comma 1, d.lgs. 17.01.2003 n. 5), anche in deroga e parziale estensione dei precedenti limiti oggettivi di devoluzione delle fattispecie al collegio arbitrale 14, ove è, peraltro, chiaro che il legislatore delegato con la
possibilità resa dall’art. 12, comma 3, della legge delega, avrebbe potuto
giustificare la possibilità che gli statuti delle società potessero contenere
clausole compromissorie derogatorie degli articoli 806 e 808 del c.p.c.,
con la previsione di un arbitrato in materia di diritti indisponibili. A
mio avviso, l’art. 34 del d.lgs. n. 5/2003 mantiene la regola che indica
possibile l’arbitrato esclusivamente per le controversie che abbiano ad
oggetto diritti disponibili. Sono senz’altro non soggette ad arbitrato le
controversie che necessitano dell’intervento obbligatorio del P.M. e quelle
che si riferiscono a diritti indisponibili. L’assunto si ricava dalla lettura
combinata dei commi 1 e 5 dell’art. 34, che evidenziano la non arbitrabilità delle controversie relative a diritti indisponibili e di quelle per le
quali è previsto l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero.
3. Clausole compromissorie statutarie
La clausola compromissoria contenuta in uno statuto societario,
che non risulti conforme alla disciplina introdotta dal secondo comma
dell’art. 34 del d.lgs. n. 5/2003, deve essere considerata contraria alle
(14) Limiti di disponibilità dell’oggetto di arbitrato (art. 34, comma 1, d.lgs. n.
5/2003) e dell’esclusione della materia si indicano nel caso in cui è previsto l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero (art. 34, comma 5, d.lgs. n. 5/2003). Ampia la
querelle dottrinale volta alla corretta determinazione del possibile oggetto delle controversie arbitrali in questione. Da ultimo v. M.F. GHIRGA, Strumenti alternativi di risoluzione delle controversie nel quadro della riforma del diritto societario, in www.judicium.it;
E. RICCI, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim. dir. proc., 2003, 2, p. 517; F. P.
LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc. 2003, 3, p. 705.
– 144 –
norme imperative; in particolare, l’art. 34, secondo comma, del decreto citato, sanziona con la nullità la mancata previsione nella clausola
compromissoria statutaria di un esplicito potere di nomina di tutti gli
arbitri per numero (anche uno) e modalità in capo ad un soggetto estraneo alla società, (ad esempio una camera arbitrale) fatto salvo, in via
residuale, e limitato al caso specifico, ove il soggetto estraneo designato non provveda, il potere di richiedere la nomina degli arbitri al Presidente del Tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale. Inevitabile, quindi, la necessità di procedere ad un adeguamento della
clausola compromissoria statutaria entro il 30 settembre 2004 per le
società (di cui ai capi V,VI, e VII del titolo del libro V, del codice
civile, iscritte nel registro delle imprese alla data del 1°gennaio 2004)
menzionate dall’art. 223 bis disp. att., ed entro la data del 31 dicembre 2004 (ora 31 marzo 2005, ex art. 36 d.lgs. n. 310/2004) per le
società (di cui al capo I del titolo VI del libro V del codice civile iscritte nel registro delle imprese alla data del 1° gennaio 2004) indicate
dall’art. 223 duodecies delle disposizioni di attuazione.
Certamente, in caso di mancata previsione della figura del terzo
estraneo super partes alla società, come designato per la nomina dell’arbitro o degli arbitri, sotto pena di nullità della clausola compromissoria, al caso di specie appare senza dubbio applicabile il meccanismo sostitutivo disciplinato dalla norma dell’art. 1419, comma 2, c.c. 15,
laddove permette la conservazione della clausola compromissoria con
la sostituzione ex lege della parte della clausola compromissoria in cui
è stato attribuito alle parti il potere di nomina degli arbitri. Sembra
preferibile, comunque, applicare il meccanismo di sostituzione automatica in relazione al contenuto di cui all’art. 34, comma 2, solo per le
società interessate dalla riforma che abbiano proceduto all’adeguamento dello statuto in ossequio alle previsioni del d.lgs. n. 6/2003.
Utile in tal senso evidenziare come ex art. 223 bis, comma 3, (ex
2), disp. att. c.c. 16 (così come introdotto dall’art. 9, d.lgs. 17 gennaio
2003 n. 6 e modificato dal d.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37), la delibera
(15) F.P. LUISO, Appunti sull’arbitrato societario cit.; contra F. AULETTA, La Riforma delle società – Il Processo – a cura di Bruno Sassani, cit., p. 341.
(16) Secondo il dettato dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 223 bis disp. att. c.c. (ex art.
9, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 6/2003, così come modificato dall’art. 5.1, lett. lll), n. 2
d.lgs. n. 37/2004), le previgenti disposizioni dell’atto costitutivo e dello statuto conservano la loro efficacia sino al 30 settembre 2004, termine ultimo per l’adeguamento
(con delibera dell’assemblea straordinaria a maggioranza semplice, qualunque sia la
parte di capitale rappresentata) degli statuti delle società di capitali alle disposizioni
inderogabili. Il mancato adeguamento costituisce causa di scioglimento ope legis.
– 145 –
dell’assemblea per l’adeguamento di tale clausola adottata successivamente al 1° gennaio 2004, ma non oltre la data del 30 settembre 2004,
ovvero entro il 31 dicembre 2004 (ora 31 marzo 2005, ex art. 36 d.lgs. n.
310/2004) per le società cooperative secondo l’art. 223 duodecies delle
disposizioni di attuazione, non richiede le maggioranze previste dall’art.
34, comma 6, del d.lgs. n. 5/2003 e può essere adottata dall’assemblea
straordinaria a maggioranza semplice, qualunque sia la parte di capitale
rappresentata dagli intervenuti 17. Per le società cooperative, le suddette
deliberazioni possono essere adottate in terza convocazione a maggioranza semplice dei presenti. Alle modifiche anteriori al 1° gennaio 2004
si applicavano, ovviamente, le regole al tempo vigenti. Al contrario, nel
caso di modifiche dell’atto costitutivo, introduttive o soppressive di clausole compromissorie, permangono i vincoli inerenti alla previsione di
una maggioranza qualificata prevista dall’art. 34, comma sesto, d.lgs. n.
5/2003, ovvero mediante approvazione di tanti soci che rappresentino
almeno i due terzi del capitale sociale. Inoltre viene previsto dall’art. 34,
comma sesto, anche come bilanciamento alla non menzione della regola
del consenso di tutti i soci, che i soci assenti o dissenzienti possano,
entro i successivi novanta giorni, esercitare il diritto di recesso. In ogni
caso pur se il primo comma dell’art. 223 bis disp. att. c.c., rimasto invariato anche a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. 6 febbraio
2004, n. 37, sancisce che “le società di cui ai Capi V, VI, e VII del Titolo
V del Libro V del Codice Civile iscritte nel registro delle imprese alla
data del 1° gennaio 2004, devono adeguare l’atto costitutivo e lo statuto
alle disposizioni inderogabili (di cui al d.lgs. 6/2003) entro il 30 settembre 2004”, in relazione però all’art. 43 d.lgs. n. 5/2003, per le clausole
compromissorie non si attuerebbe un regime di adeguamento differito
rimanendo sanzionata con la nullità la clausola compromissoria non
uniforme alle previsione dell’art. 34, d.lgs. n. 5/2003.
(17) In tal senso LUISO rileva come: «l’ultimo comma dell’art. 34 prescrive maggioranze qualificate (due terzi del capitale sociale) per l’introduzione o l’eliminazione
della clausola compromissoria nell’atto costitutivo; e prevede altresì che i soci assenti o
dissenzienti possano recedere dalla società ai sensi dell’art. 2437 c.c., ove una di tali
modifiche sia apportata all’atto costitutivo. Si è ritenuto, con ogni evidenza, che la variazione dello strumento di risoluzione delle controversie societarie non sia cosa da poco:
e, significativamente, la disciplina è identica vuoi per l’introduzione vuoi per la soppressione della clausola compromissoria. Non è, quindi, la sottrazione in sé della controversia alla giurisdizione che giustifica la maggioranza qualificata prevista nel sesto comma
(come se, invece, la soppressione di una clausola compromissoria e quindi la riconduzione della controversia nell’alveo della giurisdizione dovesse considerarsi un atto di
ordinaria amministrazione); quanto, appunto, il mutamento dell’assetto precedentemente
stabilito, quale che esso sia» (F.P. LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, cit.).
– 146 –
Si sottolinea anche la previsione dell’art. 41, n. 2, del d.lgs. n. 5/
2003 ove è stabilito che “alle modifiche deliberate, a norma degli articoli 223 bis e 223 duodecies delle disposizioni di attuazione del codice
civile, per adeguare le clausole compromissorie preesistenti alle disposizioni inderogabili del presente decreto legislativo non si applica l’articolo 34, comma 6”, confortando con ciò l’assunto che le modifiche
relative all’atto costitutivo e allo statuto adottate esclusivamente per
adeguare le clausole compromissorie preesistenti alle disposizioni inderogabili non consentono ai soci assenti o dissenzienti di esercitare il
diritto di recesso entro i successivi novanta giorni dalla deliberazione.
Un altro elemento doveroso da evidenziare in questa sede è che
la riforma del processo societario è sicuramente più estesa di quella
riforma c.d. “sostanziale” 18 e contenuta nel d.lgs. n. 6/2003; infatti
nell’art. 1, comma 1, lett. a) (d.lgs. n. 5/2003) viene sancito che l’ambito di applicazione riguarda: “i rapporti societari, ivi compresi quelli
concernenti le società di fatto, l’accertamento, la costituzione, la modificazione, o l’estinzione di un rapporto societario, le azioni di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e
di controllo, i liquidatori e direttori generali delle società, delle mutue
assicuratrici, e delle società cooperative”, con la conseguenza che l’applicazione concerne anche le società di persone. Per queste ultime che
non sono ricomprese nella riforma c.d. “sostanziale” ritengo che le
società di persone dovranno uniformare le clausole compromissorie
contenute nei relativi statuti con la previsione che la nomina dell’arbitro o degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla
società per non incorrere nella sottoposizione a nullità delle stesse clausole per violazione della norma imperativa di cui all’art. 34 comma 2,
del d.lgs. n. 5/2003.
In ciò si evidenzia l’intenzione del legislatore di rispondere prontamente ad un ordine di esigenze di adeguamento alla nuova normativa ed in particolare dell’art. 34, comma 2, d.lgs. n. 5/2003 19, poste in
essere nel decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, nel tentativo di
conciliare il diritto dei soggetti che partecipano alla società verso un
trattamento uguale per tutti con il rispetto della garanzia ex art. 24,
(18) N. SOLDATI, Osservazioni a margine degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie nella riforma del processo societario, in Le Società 2003, 6, p. 791.
(19) In particolare, il citato articolo prevede che la clausola compromissoria,
inserita negli atti costitutivi di società, debba prevedere il numero e le modalità di
nomina degli arbitri; il potere di nomina di tutti gli arbitri deve essere attribuito a
soggetti estranei alla società.
– 147 –
comma 1, Cost. per la protezione del singolo 20. In altre parole, in considerazione della natura negoziale individuata in capo alla clausola arbitrale, non si può prescindere in tal senso dal diritto insito nello status di
ciascun socio ad accettare personalmente e singolarmente le disposizioni in essa contenute ed allo stesso tempo di consentire alla totalità dei
soci di avere per quanto possibile una statuizione celere ed uniforme.
Nei fatti – a tutt’oggi – la gran parte delle clausole compromissorie attualmente inserite negli atti costitutivi e negli statuti delle società
(in particolare cooperative, di persone e di capitali di minori dimensioni), in ossequio alla previgente normativa, stabiliscono – quanto
meno – che la nomina di taluni arbitri sia fatta dalle parti, con l’effetto
di rendere in tal modo nulla la clausola stessa, per sopravvenuta contrarietà alle norme imperative in caso di non adeguamento del contenuto ai principi sanciti nell’art. 34, secondo comma, del citato Decreto; in particolare per la parte riguardante la nomina degli arbitri (indicazione del terzo estraneo alla società a cui è assegnata la nomina degli
arbitri) e l’inderogabilità in taluni casi circa l’impugnazione del lodo,
posto che le altre norme inderogabili sul processo arbitrale si applicano in via automatica anche nel caso di disposizione in senso contrario
della clausola compromissoria.
Di fronte alle inevitabili esigenze di uniformare l’atto costitutivo e
lo statuto alle nuove disposizioni inderogabili entro il 30 settembre 2004,
sembra molto utile per una società analizzare la propria situazione sociale ed approfittare del necessario adeguamento previsto per ottimizzare il risultato inserendo nella clausola compromissoria statutaria – oltre alle indicazioni di cui all’art. 34, comma secondo – la soluzione che
meglio risponde alle esigenze concrete dell’organizzazione societaria con
l’individuazione della forma di procedimento arbitrale più consona.
Per completezza, si sottolinea anche come altamente significativa
sembra la scelta perpetrata dal legislatore al fine di escludere dalla
novella normativa l’ipotesi di compromesso, per evitare ulteriori problematiche di «eccesso di delega» 21 22.
(20) Si sottolinea un approfondimento particolarmente acuto in merito all’efficacia automatica (o meno) della clausola compromissoria per i soci subentranti: M.
BOVE, L’Arbitrato nelle controversie societarie, cit.
(21) In tal senso v. F.P. LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, cit.
(22) I principali studiosi pronunciatisi in merito tendono ad escludere dalla recente innovazione anche le clausole compromissorie contenute in patti parasociali e
contratti di trasferimento di partecipazioni sociali (v. D. AMADEI - N. SOLDATI, Il processo societario, cit., p. 134; F.P. LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, cit.; E. RICCI,
Il nuovo arbitrato societario, cit., p. 518).
– 148 –
4. Pubblicità della domanda di arbitrato
In applicazione del comma 1 dell’art. 35, d.lgs. n. 5/2003, “la
domanda di arbitrato proposta dalla società o in suo confronto è depositata presso il registro delle imprese ed è accessibile ai soci”. La
finalità di tale disposizione deve essere collegata alla garanzia di tutela
di interessi plurisoggettivi nelle controversie societarie, nonché alla possibilità di intervento nel procedimento arbitrale di terzi a norma dell’art. 105 c.p.c., ammesso come intervento volontario, e di altri soci a
norma degli articoli 106 e 107 c.p.c. nel caso di intervento derivante
da una chiamata in causa o a un ordine del giudice, così come previsto
dal secondo comma dell’art. 35, successivamente al deposito della domanda di arbitrato, intervento in ogni caso ammissibile fino alla prima
udienza di trattazione. Nulla il legislatore indica in relazione alle conseguenze in cui il deposito non venga effettuato sembrando che dal
mancato espletamento dell’onere non derivino conseguenze sul piano
dell’efficacia dell’atto da depositare. In mancanza di deposito della
domanda di arbitrato ne deriva, in ogni caso, l’impossibilità di opporre ai soci diversi dalle parti in giudizio la decadenza dalla possibilità di
intervento, in considerazione del mancato assolvimento del deposito
come pubblicità dichiarativa, ma senza effetti negativi sulla domanda
nei rapporti tra le parti del giudizio arbitrale.
Anche il d.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, modificativo del d.lgs. n. 5
del 2003, ha inserito all’art. 35 un comma, il 5 bis, con il seguente
tenore letterale: “I dispositivi dell’ordinanza di sospensione e del lodo
che decide sull’impugnazione devono essere iscritti, a cura degli amministratori, nel registro delle imprese”.
Da evidenziare che le statuizioni del lodo sono vincolanti anche
per la società che è rimasta estranea al procedimento arbitrale, in ossequio ad una corretta interpretazione del contenuto dell’art. 35, comma
4, d.lgs. n. 5, rendendone quindi alla stessa opponibile il contenuto.
5. Tra ritualità ed irritualità. La disciplina inderogabile del procedimento arbitrale di cui all’art. 35 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5
Le disposizioni normative contenute in tutto il Titolo V del d.lgs.
n. 5/2003 risultano previste e qualificate per l’arbitrato in genere, senza ulteriore ed eventuale specificazione in termini applicativi. La sola
eccezione è rappresentata dalla previsione contenuta dall’art. 35, comma 5, del decreto legislativo in esame, che fa riferimento alla possibili-
– 149 –
tà di fare ricorso alla tutela cautelare, a norma dell’articolo 669 quinquies del codice di procedura civile, anche nell’ambito di una procedura arbitrale irrituale. Pertanto, riconosce espressamente – ove se ne
avvertisse la necessità – la più ampia possibilità di scelta in merito alla
forma (rituale o irrituale) del procedimento arbitrale da inserire all’interno della clausola compromissoria presente nello statuto societario 23.
Il legislatore ha utilizzato la novella legislativa, non solo per sancire esplicitamente il possibile utilizzo della forma irrituale anche nell’arbitrato societario, ma anche, e soprattutto, per porre fine ad una
vecchia querelle dottrinaria relativa alla dubbia compatibilità dell’arbitrato irrituale con la tutela cautelare 24, già anzi tempo risolta positivamente dalla Corte costituzionale 25, che ha sancito come il patto compromissorio irrituale non osta alla richiesta di tutela cautelare 26.
A tal proposito, ed in considerazione dell’adeguamento alla normativa inderogabile, sembra utile per ciascuna società rilevare come
in sede di redazione (o modifica) dell’atto costitutivo (rectius statuto)
sia conveniente operare ex ante una obiettiva selezione delle esigenze
sociali primarie necessariamente rapportate alle facultas connesse alla
scelta della “natura” del rito arbitrale. Nonostante che l’orientamento
(23) La riforma del processo societario ha espressamente sancito che il patto
compromissorio irrituale non è un impedimento alla tutela cautelare E. FAZZALARI,
L’arbitrato ..., cit., p. 447), ad ulteriore conferma della pronuncia della Corte costituzionale che ha espresso opinione favorevole ad una tale compatibilità (Corte cost.,
Ord. 05.07.2002 n. 320, in Riv. Arb., 2002, p. 503, con nota di B. Sassani, La garanzia
dell’accesso alla tutela cautelare nell’arbitrato irrituale).
(24) In tal senso v. G. GRASSO, Tutela cautelare ed arbitrato irrituale, in Giur. it.
1997, IV, p. 179; S. CHIARLONI, Davvero incompatibile tutela cautelare e clausola compromissoria per arbitrato libero?, in Giur. it., 1997, I, p. 555; F. CORSINI, Considerazioni
sui rapporti tra arbitrato libero e tutela cautelare, in Riv. dir. proc. 2000, 4, p. 1163; G.
CANALE Arbitrato irrituale e tutela cautelare: i soliti problemi tra vecchie soluzioni e
nuove prospettive, in Giur. it. 2001, 6, p. 1107.
(25) Corte Cost., Ord. 5 luglio 2002, n. 320, con nota di B. Sassani, La garanzia
dell’accesso ..., cit.
(26) Tra le posizioni a favore della riforma si evidenziano: E. FAZZALARI, L’arbitrato nella riforma ... cit.; M. BOVE, L’arbitrato nelle controversie societarie, cit. L’arbitrato irrituale rappresenta una forma negoziale di soluzione delle controversie, mentre la tutela cautelare è una tutela funzionale all’effettività di quella dichiarativa, negando in tal senso la possibilità di assimilare le due posizioni. Tuttavia in sede di
novella legislativa si sancisce la possibilità di ottenere un provvedimento cautelare
anticipato e svincolato dalla possibilità di addivenire ad un successivo giudizio di merito.
Da ciò l’a. conclude per un’interpretazione restrittiva della norma dettata dall’art. 35,
comma 5, d.lgs. n. 5/2003, nel senso che la sola tutela ammissibile per l’arbitrato
irrituale statutario sia quella prevista dall’art. 23 del medesimo testo, ovvero con l’esclusione dei provvedimenti cautelari conservativi.
– 150 –
della Suprema Corte spinga sempre più verso una parificazione dei
due tipi di arbitrato, ancora oggi permangono sostanziali differenze
che vanno sottolineate e prese in considerazione in ragione di una oculata scelta posta in essere nell’atto costitutivo o nello statuto societario
(ovvero in sede di adeguamento dello stesso).
Particolarmente interessante risulta la contestualizzazione della
novella contenuta negli articoli 34-36 del d.lgs. n. 5/2003, all’interno
di una tendenza costante del legislatore, volta ad un superamento della distinzione tra i due tipi di arbitrato, già in parte avvalorata dalla
Suprema Corte, che in recenti pronunce ha avuto modo di evidenziare la natura privata dell’arbitrato rituale al pari di quello irrituale, configurandosi sempre la devoluzione della controversia ad arbitri come
rinuncia all’azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato nonché,
quale opzione per la soluzione della controversia sul piano privatistico
secondo la scelta dei soggetti privati. Per il Supremo Collegio “a seguito delle modifiche apportate all’istituto dell’arbitrato dalla novella
(legge n. 25) del 1994, tanto all’arbitrato rituale che a quello irrituale
va oggi riconosciuta natura privata” 27, oltre ad una attenuazione delle
differenze. Ma non tutti gli studiosi condividono una tale tendenza
unificante ricondotta alla comune natura negoziale presente in entrambe le tipologie arbitrali: “si pensa che i due tipi di arbitrato siano una
medesima realtà, perché si è convinti che entrambi pongano capo ad
un lodo con gli effetti del negozio anziché ad un lodo con gli effetti di
una decisione giudiziaria” 28. In realtà si sottolinea una posizione distinta tra l’arbitrato libero (o irrituale), quale espressione diretta della
(27) Cass., 30.08.2002, n. 12714 (Rep. 2002, 480, n. 69); conf. Cass., 08.08.2002,
n. 11976 (Rep. 2002, 480, n. 70); Cass., 13.04.2001, n. 5527 (Corr. Giur., 2002, 361
con nota di O. Fittipaldi); Cass., Sez. un. 03.08.2000, n. 527 (Corr. Giur., 2001, 51,
con nota di G. Ruffini, M. Marinelli). La ratio insita nella soluzione approntata dalla
Suprema Corte vede la natura privata di entrambe le forme di arbitrato come il portato imprescindibile dato dalla loro origine pattizia o contrattuale. La corrente Dottrinaria (efficacemente sintetizzata negli scritti del Punzi), sostiene che la novella del
1994 al codice di procedura civile abbia eliminato le differenze fra arbitrato rituale ed
arbitrato irrituale, creando una figura unitaria di arbitrato che sarebbe l’unica alla
quale poter fare riferimento nel mutato sistema. In senso decisamente contrario esiste, però, una corrente dottrinaria che sostiene la netta distinzione fra le due figure di
arbitrato ed è supportata dalla giurisprudenza più recente. Secondo G. VERDE, La
posizione dell’arbitro dopo l’ultima riforma, in Riv. Arb., 1997, 3, p. 471: «l’istituto
dell’arbitrato irrituale ha ragione di sopravvivere nella misura in cui è giuridicamente
apprezzabile l’interesse ad escludere che la decisione possa essere incanalata nell’alveo della giustizia ufficiale».
(28) E. RICCI, Il nuovo arbitrato societario, cit.
– 151 –
composizione negoziale di una controversia, e l’arbitrato rituale caratterizzato da effetti assimilabili a quelli prodotti dal processo togato.
A prescindere, quindi, dalla posizione dottrinale e giurisprudenziale a cui si preferisce aderire, allo stato attuale, permangono sostanziali differenze che caratterizzano e distinguono le due forme di giudizio arbitrale statutario.
In materia di clausola compromissoria è la stessa Suprema Corte
a fornirci una definizione breve e completa delle due forme di arbitrato, rilevando come l’Arbitrato rituale “si attua, per volontà delle parti
compromittenti, mediante l’esercizio di una potestà decisoria alternativa rispetto a quella del giudice istituzionale e si risolve in un lodo
avente tra le parti la stessa efficacia di sentenza”, mentre l’Arbitrato
irrituale ha “natura negoziale e consisterebbe nell’adempimento del
mandato, conferito dalle parti all’arbitro, di integrare la volontà della
parti stesse dando vita ad un negozio di secondo grado, il quale trae la
sua ragione d’essere dal negozio nel quale la clausola è inserita e non
può sopravvivere alle cause di nullità che facciano venire meno la fonte stessa del potere degli arbitri” 29. Un tale richiamo alle disposizioni
giurisprudenziali in materia sembra indispensabile al fine di avere una
salda base di partenza in considerazione delle disparate posizioni che
ha assunto la Dottrina in merito alla natura negoziale o meno dell’arbitrato, ed in particolare riguardo alla natura negoziale di entrambi gli
istituti di diritto civile, in pieno ossequio alla tendenza unificativa 30.
L’arbitrato irrituale continuerebbe, dunque, a mantenere la propria
differente fisionomia anche dopo la riforma del 1994 31.
Evidenti le potenzialità e le differenze insite nella scelta dell’una
o dell’altra soluzione, anche se ciò che ci interessa sottolineare ed esaminare in questa sede è la possibilità che l’estensore dell’atto costitutivo o dello statuto non indichi alcuna predilezione in merito alla forma
di arbitrato prescelto.
Per giurisprudenza costante (anche ben oltre la riforma del 1994)
si ritiene che, nel dubbio se con l’accordo compromissorio le parti
abbiano voluto un arbitrato rituale od irrituale, deve optarsi per questa seconda soluzione: “Nel dubbio circa la qualificazione dell’arbitra(29) Cass., sent. 16.06.2000, n. 8222, in Rep. 2000, 480, n. 128.
(30) Come accennato in narrativa, la tendenza all’unificazione dell’arbitrato rituale e dell’arbitrato irrituale in una figura unitaria, era già presente nella Dottrina
anche prima della riforma del 1994. In tal senso si veda L. MONTESANO, Negozio e
processo nel nuovo arbitrato, in Riv. dir. proc., 1994, p. 221; P. RESCIGNO, Arbitrato e
autonomia contrattuale, in Riv. Arb., 1991, p. 13.
(31) Illustri autori quali M. Bove e S. La China sostengono questo orientamento.
– 152 –
to (rituale o irrituale) prescelto dalle parti è da preferirsi l’arbitrato
irrituale” 32. Si riconosce un particolare favor della Suprema Corte verso
la forma libera quale espressione negoziale, più attinente alla natura
privatistica del rito alternativo, caratterizzata da una marcata autonomia contrattuale che oggi ancora di più contraddistingue lo statuto
societario nel nuovo quadro normativo.
La giurisprudenza afferma chiaramente che, in presenza di dubbi o incertezze interpretative, si deve qualificare l’istituto come arbitrato di tipo irrituale o libero: “in tema di interpretazione di una clausola compromissoria, il permanere di una situazione di incertezza in
ordine alla natura dell’arbitrato impone come corretta opzione interpretativa la dichiarazione di irritualità dell’arbitrato, tenuto conto del
carattere pur sempre eccezionale dell’arbitrato rituale introduttivo di
una deroga alla competenza del giudice ordinario” 33. “Nell’indagine
sul carattere rituale od irrituale del compromesso in arbitri, e per il
caso in cui residuino incertezze sulla volontà dei contraenti, in esito
all’applicazione delle regole di ermeneutica negoziale, deve optarsi per
l’irritualità dell’arbitrato, tenendo conto che l’arbitrato rituale, introducendo una deroga alla competenza del giudice ordinario, ha natura
eccezionale” 34. “L’incertezza in sede di interpretazione di una clausola compromissoria e della correlativa qualificazione dell’arbitrato previsto dalle parti, va risolta nel senso che le parti abbiano inteso prevedere un arbitrato irrituale” 35. Infatti, per qualificare l’arbitrato e poterlo definire rituale o, all’opposto, irrituale, bisogna aver riguardo alla
volontà dei compromittenti tenendo conto sia delle espressioni lessicali adoperate nella clausola compromissoria, sia del comportamento
posto in essere dalle parti stesse e – si noti bene – allo scopo è rilevante esclusivamente il comportamento delle parti 36.
(32) Cass., Sez. I, 24 luglio 1997, n. 6928, in Foro it., 1999, I, p. 304 con nota di
C.M. Barone.
(33) Cass. Civ. Sez. II, 22.02.1999, n. 1476 in Rep., 1999, 480, n. 124.
(34) Cass. Civ. Sez. I, 20.03.1990, n. 2315 in Riv. Arb., 1991, p. 517 con nota di
Fazzalari.
(35) Cass. Civ. Sez. I, 09.06.1983, n. 3956 in Rep. 1983, 480, n. 32.
(36) Numerosa è la giurisprudenza in materia: “in tema di interpretazione di una
clausola compromissoria, il carattere rituale ovvero irrituale dell’arbitrato in essa previsto va desunto con riguardo alla volontà delle parti”(Cass. Civ. Sez. I, 23/06/1998, n.
6248, in Gazz. Giur., 1998, 30, p. 48). “Al fine di individuare l’esistenza in concreto di
un arbitrato rituale o invece irrituale , l’indagine sulla volontà delle parti, che ha carattere essenziale, deve fondarsi principalmente sul contenuto sostanziale delle clausole contrattuali, ma può anche tener conto di altri elementi, quali le espressioni letterali usate
nel compromesso”(Cass. Civ. Sez. I, 29/03/1991, n. 3427, Rep., 1991, 480, n. 86).
– 153 –
Praticamente univoca l’attenzione della giurisprudenza circa la
rilevanza della volontà delle parti che, nel caso di non esplicita previsione, trova un più prossimo corrispondente di natura negoziale e pattizia nella forma libera di arbitrato. L’Arbitrato irrituale o libero, del
tipo cioè che la legge non prevede e non regolamenta, è da tempo
utilizzato in maniera copiosa nella prassi commerciale. Con l’arbitrato
libero le parti si obbligano a fare propria la determinazione prodotta
dal giudizio arbitrale come se essa fosse il risultato diretto di un accordo intervenuto fra i compromittenti, quale espressione precipua della
propria natura negoziale. Il patto compromissorio acquista la sua efficacia vincolante dall’art. 1372 c.c., norma basilare per tutti i contratti,
che qualifica le pattuizioni sinallagmatiche quali atti aventi forza di legge
tra le parti. L’arbitrato libero necessariamente presuppone una controversia fra le parti e, dal portato dell’efficacia vincolante delle pattuizioni contrattuali acquista, a tutti gli effetti, funzione di un giudizio. Ciò comporta che l’arbitrato libero è un giudizio che, però, del
giudizio non ha tutte le caratteristiche strutturali, non essendo nemmeno applicabili le norme che regolano l’arbitrato rituale 37.
Circa la natura giuridica dell’arbitrato irrituale, quindi, la giurisprudenza mantiene una sostanziale uniformità di opinioni, affermando che
si tratta di un mandato rilasciato dalle parti per la composizione di determinate contese tra loro insorte od insorgenti tramite atto negoziale
riconducibile alla volontà dei mandanti e come tale per esse vincolante.
Il rapporto che si instaura fra gli arbitri irrituali e le parti è, dunque,
riconducibile a quello di mandato, disciplinato agli artt. 1703-1730 c.c.
“Per stabilire se la clausola compromissoria dia vita ad un arbitrato rituale od irrituale
occorre aver riguardo sia alla terminologia usata dai contraenti, sia alla loro volontà desumibile dal contenuto complessivo delle pattuizioni e dal comportamento. Solo in caso di
incertezza interpretativa è dato ricorrere al criterio ermeneutico del favor della competenza del giudice ordinario”(Trib. Civ. Torino, 14/04/1986, in Rep., 1987, 480, n. 46).
(37) Le conseguenze di ciò sono svariate, in primo luogo l’obbligo della forma
scritta non è richiesta ad substantiam ma ad probationem (a meno che le materie oggetto di compromesso non siano quelle elencate dall’art. 1350 c.c.). Si veda a titolo
esemplificativo Cass. 22.02.1999, n. 1476, in Rep., 1999, 480, n. 124; Cass., 25.08.1998,
n. 8417 in Riv. arb., 1999, p. 259 con nota di A. Chizzini. Dalle pronunce della Suprema Corte si apprende come all’arbitrato libero non siano applicabili le norme di carattere processuale degli artt. 806 e s. c.p.c., dettate per l’arbitrato rituale (Cass. n.
111/80); ed ancora come le norme processuali dettate dagli artt. 806 e s. c.p.c. attengano unicamente alla disciplina dell’arbitrato rituale, ma non si applichino all’arbitrato irrituale o libero, in considerazione del suo carattere contrattuale e, quindi, extraprocessuale (Cass. n. 6054/79), entrambe in F. BARTOLINI - R.C. DELCONTE, Il codice
dell’Arbitrato, Piacenza 2002, p. 271).
– 154 –
Il rapporto di mandato che intercorre fra il mandante e i mandatari (gli arbitri che compongono il Collegio arbitrale) è un rapporto
strettamente personale.
Tutto ciò viene oggi ad essere stigmatizzato e limitato con quanto
previsto dalla nuova riforma del processo societario ed in particolare
con la previsione operata dall’art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 5/2003, in
base alla quale la nomina degli arbitri deve essere fatta da soggetto
terzo rispetto alle parti, soprattutto in ragione della plurisoggettività
dei soggetti che sottostanno alla clausola e del possibile coinvolgimento della società stessa ovvero di organi o funzionari di rilievo (quali il
consiglio di amministrazione o l’amministratore delegato). Essendo in
presenza di una forma alternativa di soluzione delle controversie inerenti ad un “gruppo” sociale, e come tale plurisoggettiva, il legislatore
si è orientato verso una soluzione che individui un soggetto super partes, distante il più possibile dagli interessi e dalle scelte compiute dalla
società, dai propri membri, nonché dai propri organi direzionali 38.
Sembra, comunque, problematico armonizzare una tale tendenza interpretativa costante della Suprema Corte con le novità normative inserite dal d.lgs. n. 5/2003, in materia di redazione e/o modifica
della clausola compromissoria statutaria.
In ogni caso, secondo l’art. 35, comma 3, d.lgs. “nel procedimento arbitrale non si applica l’art. 819, primo comma, del codice di procedura civile” che sancisce per gli arbitri la sospensione del processo
arbitrale nel caso in cui sorga una questione incidentale che per legge
non possa costituire oggetto di giudizio arbitrale e dalla quale gli arbitri ritengano dipenda il giudizio ad essi affidato. Il principio è in linea
con l’estensione dei poteri in capo agli arbitri anche attraverso la devoluzione agli stessi delle impugnative assembleari e, dunque, della
possibilità di consentire loro di decidere in via incidentale le c.d. questioni non compromettibili afferenti, cioè, a diritti non disponibili, statuendo sempre l’art. 35, comma 3, del d.lgs. che, in tal caso, il lodo è
sempre impugnabile per nullità, ai sensi dell’art. 829, comma 2, c.p.c.,
nonché sottoponibile a revocazione ordinaria o ad opposizione di terzo. Il lodo, dunque, in tal caso è sempre impugnabile “anche in deroga a quanto previsto per l’arbitrato internazionale dall’art. 838 del co(38) Contra v. C. CONSOLO, Esercizi imminenti sul c.p.c.: metodi asistematici e
penombre, in Corr. Giur., 2002, p. 1541. Si è concordi sul rilievo operato dall’a. in
merito all’assenza di una specifica garanzia di indipendenza dell’arbitro rispetto agli
interesse ed ai membri della società all’interno della quale si è sviluppata la controversia arbitrabile.
– 155 –
dice di procedura civile, a norma degli articoli 829, primo comma, e
831 dello stesso codice”. In definitiva, quando il lodo è emesso in seguito ad una risoluzione incidentale di questioni non compromettibili
(in virtù del superamento del divieto in via ordinaria di conoscere incidenter tantum le questioni non compromettibili), esistono motivi,
malgrado ci si trovi in presenza di un arbitrato secondo equità, ovvero
con rinuncia preventiva delle parti ad impugnare (quindi decisione
convenuta con lodo non impugnabile), per derogare a quanto le stesse
hanno stabilito sui metodi di decisione che devono essere utilizzati.
Gli arbitri, dunque, devono decidere secondo diritto quando abbiano
conosciuto di questioni non compromettibili, anche se autorizzati a
decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile 39.
La decisione del lodo secondo diritto, in ossequio all’art. 36, comma 2, d.lgs., si estende anche al caso in cui l’oggetto del giudizio riguardi la validità delle delibere assembleari 40.
In ultimo, è doveroso evidenziare che, nel comma 3 dell’art. 35
d.lgs., le prescrizioni in esso contenute non risultano dettate in via
esplicita per l’arbitrato irrituale, pur mancando nella riforma qualunque richiamo di distinzione tra le due forme di arbitrato.
È unicamente nel quinto comma dell’art. 35 d.lgs. che il legislatore ha previsto espressamente, anche nel caso di arbitrato irrituale, il
ricorso alla tutela cautelare ai sensi e per gli effetti dell’art. 669 quinquies c.p.c., risolvendo in senso definitivo e positivo le divergenze giurisprudenziali in particolare tra la giurisprudenza di merito e la Corte
Costituzionale che, con la sentenza Corte Cost., ord. 5 luglio 2002 n.
320, aveva reputato “manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 669 quinquies e 669 octies c.p.c. in
relazione all’arbitrato irrituale stante la mancanza di base positiva alla
lettura restrittiva fornitane rispetto all’accesso alla tutela cautelare” 41.
In base al riconoscimento in capo agli arbitri della potestà cautelare, anche il comma 5, ultima parte, dell’art. 35 d.lgs., sancisce, nel
caso di estensione della clausola compromissoria a controversie di impugnativa di delibere assembleari, la facoltà di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera, anche
inaudita altera parte.
(39) Cfr. in tal senso A. BUCCI, Manuale pratico dei procedimenti societari, Padova, 2004, p. 190; sul punto v. anche G. ARIETA - F. DE SANTIS, Diritto Processuale
societario, Padova, 2004.
(40) In tal senso v. G. ARIETA - F. DE SANTIS, Diritto Processuale societario, cit.
(41) Cfr. in tal senso P.L. NELA, Il nuovo processo societario – Commentario
diretto da Sergio Chiarloni, Bologna, 2004, I, p. 1000.
– 156 –
Tale potere di sospensione della delibera assembleare impugnata, a mio avviso, ed in via interpretativa dell’inciso “sempre” contenuto nel comma 5, ultima parte, dell’art. 35, dovrebbe riferirsi sia al potere degli arbitri rituali che a quelli liberi.
6. Osservazioni conclusive
Per dovere di completezza si rileva come entrambe le forme di
arbitrato conducano al medesimo risultato, quello cioè di offrire alle
parti un accertamento della situazione soggettiva controversa, tramite
lo svolgimento di un vero e proprio processo, corredato delle fondamentali garanzie. Si rilevano, ad ogni modo, posizioni contrastanti 42
che escludono l’assimilazione fra arbitrato irrituale (con caratteristiche transattive) e transazione; nell’arbitrato libero il risultato non è
necessariamente la soluzione più o meno intermedia fra le opposte
pretese, ma quella considerata giusta secondo diritto o secondo equità. In sostanza, pur nella persistenza della natura contrattuale, nell’arbitrato libero mancherebbero le reciproche concessioni che costituiscono l’essenza del negozio transattivo. In tal senso, l’individuazione
di una funzione assimilabile, sia per la clausola compromissoria che
per la transazione, volta all’individuazione della solutio ad una controversia presente o futura, non conduce necessariamente ad una equiparazione dei due istituti. L’oggetto della transazione è la situazione controversa per cui le due parti contrapposte sono disponibili o meno a
reciproche concessioni, anche prescindendo da un rapporto giuridico
sottostante 43. Al contrario, nella clausola compromissoria le parti intervengono in fase preventiva sull’oggetto della controversia, rinunciando ex ante all’opzione giurisdizionale ordinaria, non implicando
una disposizione del diritto sostanziale, ma rilevando sul solo diritto
di difesa ex art. 24 Cost. 44.
In realtà, ciò che interessa sottolineare in questa sede si limita
alla corretta individuazione delle tipologie di controversie societarie
(42) In tal senso v. L. MONTESANO, Aspetti problematici nella giurisprudenza della Cassazione sugli arbitrati liberi, in Riv. dir. proc., 1995, 1, p. 1; sul punto si veda
anche C. CONSOLO - M. MARINELLI, La Cassazione e il “duplice volto” dell’arbitrato in
Italia: profili comparatistici e di circolazione dei lodo, in Corr. giur., 2003, 6, p. 827.
(43) E. DEL PRATO, voce “Transazione”, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, p. 841.
(44) Corte Cost., sent. 14 luglio 1977, n. 127, in www.giurcost.org a cura di P.
Costanzo.
– 157 –
che possono essere oggetto di arbitrato, rilevando in sede di analisi
come esista una quasi perfetta sovrapponibilità tra le fattispecie potenzialmente oggetto di transazione e quelle arbitrabili. Implicitamente alla comune natura negoziale, si individua, infatti, il medesimo ambito di applicazione, circoscritto – salvo eccezioni – alla sola materia
dei diritti nella disponibilità dei soggetti in controversia.
Certamente, in mancanza di indicazioni a riguardo fornite dal legislatore sia nell’art. 34 del d.lgs., sia nel successivo art. 35, stesso decreto, bisognerebbe concludere che tutte le norme in commento siano
applicabili all’arbitrato irrituale o libero, molto diffuso all’interno degli atti costitutivi societari 45, anche con il riconoscimento della tutela
cautelare a tutte le forme di arbitrato. Sul punto, comunque, il dibattito è necessariamente aperto in quanto in più parti la legge delega sembrerebbe avere limitato l’operatività delle clausole esclusivamente all’arbitrato rituale laddove, come già detto l’art. 35, comma 3, prevede
che il lodo sia sempre impugnabile a norma degli articoli 829 e 831
c.p.c., nonché per la parte della legge delega (art. 12, comma 3, legge
3 ottobre 2001, n. 366), in cui si indica la possibilità di deroga agli
articoli 806 e 808 del codice di procedura civile, e per il meccanismo
che permette l’intervento nel processo arbitrale con tutte le problematiche connesse anche all’efficacia del lodo nei confronti della società che non sia stata parte nel giudizio 46.
FRANCESCO CRISI
(45) Una forma standard di clausola compromissoria pensabile all’esito della
riforma potrebbe essere la seguente: “qualsiasi controversia tra i soci, ovvero tra questi e la Società, ovvero tra la Società ed i suoi organi, relativa o connessa a rapporti
sociali o parasociali, con esclusione delle materie che per loro natura non possono
formare oggetto di compromesso o comunque indisponibili per legge, è suscettibile
di composizione in via arbitrale e verrà definita da un Collegio Arbitrale composto da
un numero dispari di arbitri nominati tutti da (soggetto estraneo alla società) o, in
difetto o in mancanza di nomina da parte della persona designata, dal Presidente del
Tribunale del circondario ove ha sede la società.”
Le controversie saranno risolte dal Collegio Arbitrale inappellabilmente senza
formalità di procedura e secondo equità.
(46) Così P.L. NELA, Il nuovo processo societario – Commentario diretto da Sergio Chiarloni, cit., pp. 1010 – 1011.
– 159 –
SANZIONI E PROCEDURE SANZIONATORIE
ALLA LUCE DELLA DIRETTIVA EUROPEA N. 6/2003 *
SOMMARIO: 1. Nuovi orientamenti del legislatore comunitario in tema di sanzioni di
illeciti finanziari. – 2. L’esperienza francese in tema di repressione degli illeciti
finanziari. Il cumulo di sanzioni penali ed amministrative e le problematiche
conseguenti: a) il principio « non bis in idem »; b) il principio della proporzionalità della pena; c) il principio del contraddittorio della procedura ch’essa sia
inquisitoria o accusatoria; d) il principio della separazione delle funzioni (legislativa, istruttoria e giudicante); e) il principio dell’uguaglianza del cittadino
dinanzi al giudice. 3. Le prospettive di attuazione in Italia delle indicazioni della direttiva n. 6/2003 in tema di sanzioni e procedure sanzionatorie. a) Il cumulo di sanzioni penali e sanzioni amministrative. b) Poteri istruttori e diritto di
difesa nei procedimenti amministrativi sanzionatori. c) L’attribuzione del potere sanzionatorio.
1. Nuovi orientamenti del legislatore comunitario in tema di illeciti finanziari
Il primo intervento comunitario in tema di illeciti finanziari risale
a quindici anni fa, quanto la direttiva n. 89/592 del 13 novembre 1989
disciplinò l’insider trading. Grazie a tale fonte, se non si armonizzò
appieno la repressione delle operazioni di borsa effettuate da persone
in possesso di informazioni privilegiate, quanto meno in ciascun sistema nazionale furono inserite sanzioni (penali o amministrative) per
operazioni d’insider trading.
La direttiva sull’insider trading era tuttavia incompleta per vari
aspetti. Infatti, non tutti i possibili illeciti finanziari sono riconducibili
alle condotte d’insider trading, come all’epoca definite, poiché la manipolazione dei prezzi di mercato o la diffusione d’informazioni ingannevoli sono anch’essi comportamenti che è necessario sanzionare
per assicurare la fiducia degli investitori e dei risparmiatori rendendo
i mercati il più possibile trasparenti.
(*) L’articolo riproduce la relazione presentata al convegno sul tema “Tutela del
risparmio e stabilità dei mercati” tenutosi presso l’Università degli studi di Roma “Tor
Vergata” il 21 settembre 2004.
– 160 –
La direttiva sugli «abusi di mercato» n. 2003/6 del 28 gennaio
2003 abroga la direttiva del 1989 ed estende opportunamente l’intervento comunitario a tutela dell’integrità dei mercati finanziari.
Non si tratta, tuttavia, di una mera estensione della disciplina precedente: il legislatore europeo ha anche cambiato la propria «politica
legislativa ». Non interviene più per dare agli Stati membri direttive
per armonizzare la qualificazione dei reati o degli illeciti: tanto più che
non si può negare il parziale fallimento della prima direttiva al riguardo. Oggi, il legislatore europeo lascia agli Stati membri la libertà di
scegliere lo strumento giuridico che ritengano più adeguato per migliorare la trasparenza del mercato, tenendo solo presente la necessità
di rispettare una certa omogeneità tra le discipline nazionali.
Non di meno una certa dose di imperatività si coglie anche nella
direttiva più recente.
L’imperatività della fonte si palesa nell’intento di creare un quadro istituzionale omogeneo delle autorità di vigilanza ed una disciplina repressiva uniforme di tipo amministrativo. La direttiva n. 2003/6
non solo impone la creazione di un’unica Autorità di mercato di natura amministrativa (articolo 11), ma introduce anche l’obbligo di organizzare una procedura sanzionatoria di natura amministrativa (articolo 14).
La direttiva ha già avuto i primi effetti in tal senso. Il legislatore
francese, anticipando la direttiva, ha disposto la fusione della COB,
Commission des opérations de bourse, con il CMF, Conseil des marchés financiers, in un’unica istituzione, l’AMF, Autorité des marchés
financiers 1.
Anche il legislatore italiano si trova nella necessità di intervenire
e dai contenuti della proposta di legge delega in corso di approvazione sembra prospettarsi l’adozione del sistema francese della doppia
procedura sanzionatoria, con tutti i problemi che la prassi francese ha
evidenziato e dei quali si parlerà più avanti.
Prima di affrontare ed approfondire i rimedi che ha apportato la
legge francese del 2003 alle numerosissime difficoltà che derivano dal
sistema della doppia via sanzionatoria, non può non sottolinearsi qualche ulteriore aspetto del nuovo indirizzo legislativo comunitario.
L’articolo 14 della direttiva n. 2003/6 si apre riconfermando la
sovranità degli Stati membri, ai quali spetta il compito esclusivo di
assicurare, con norme penalistiche, l’ordine pubblico all’interno dei
propri confini nazionali: «Fatto salvo il diritto degli Stati membri di
(1) Cfr. la legge n. 2003-706 del 1 agosto 2003, c. d. Loi de sécurité financière.
– 161 –
imporre sanzioni penali», recita infatti l’articolo 14. Come nella direttiva sull’insider trading viene dunque salvaguardata la sovranità delle
Nazioni alle quali è richiesto soltanto di cooperare tramite un’Autorità di mercato (articolo 16).
Le sanzioni amministrative irrogate dall’autorità amministrativa
hanno, però, un forte carattere repressivo e perciò, per la Corte di
Strasburgo, rientrano nella categoria delle sanzioni penali di cui all’articolo 6 della Convenzione sui Diritti dell’Uomo 2. Si può quindi affermare che la direttiva n. 2003/6 ha privato, certo in modo meno
vistoso che se avesse imposto sanzioni penali, gli Stati membri del potere di individuare le sanzioni relative alla materia finanziaria e di organizzare le relative procedure sanzionatorie. La direttiva entra dunque in un campo finora lasciato alla sovranità delle Nazioni: ciò può
essere discusso in termini di rispondenza alle previsioni del Trattato,
ma consegue alle necessità derivanti dall’integrazione raggiunta dai
mercati finanziari europei e dalla lotta alla criminalità finanziaria. Non
risulta, d’altronde, che si siano levate voci contrarie a questa nuova
espansione del diritto europeo.
Una della ragioni consiste forse nel fatto che oggi ovunque il potere amministrativo viene contestato meno di quello giudiziario; l’uomo
del terzo millennio, più tecnicizzato (e felice di esserlo), s’inchina docilmente davanti ad una disciplina giuridica amministrativa più tecnica ...
Proprio nel tecnicismo amministrativo della direttiva trova estrinsecazione il principio di sussidiarietà di cui all’art. 5 del Trattato, laddove la Commissione Europea viene autorizzata ad adottare misure
tecniche di attuazione, sentito un apposito Comitato (artt. 16 e 17).
2. L’esperienza francese in tema di repressione degli illeciti finanziari. Il
cumulo di sanzioni penali ed amministrative e le problematiche conseguenti
La «storia» dei quindici anni della doppia via sanzionatoria in
Francia mette in rilievo alcuni problemi di fondo che merita presentare anche al fine di valutare le prospettive di attuazione delle direttiva
in Italia. I profili problematici sono emersi in relazione alla possibilità
di coordinare l’introduzione di una sanzione amministrativa degli illeciti finanziari con i seguenti principi dell’ordinamento:
(2) Cfr. CEDU, 8 giugno 1976, Engel c /Paesi Bassi, Serie A, n. 22; CEDU, 21
febbraio 1984, Ostürk c/ Germania, Serie A, n. 73.
– 162 –
– il principio «non bis in idem»;
– il principio della proporzionalità della pena;
– il principio del contraddittorio;
– il principio della separazione delle funzioni;
– il principio dell’uguaglianza del cittadino dinanzi al giudice.
a) Il principio «non bis in idem»
La legge n. 89-531 del 2 agosto 1989, che ha attribuito alla COB
un proprio potere sanzionatorio, non ha modificato il preesistente sistema sanzionatorio penale. Dall’epoca, perciò, alcune condotte illecite in ambito finanziario possono essere perseguite e sanzionate due
volte, una dal giudice penale ed una dalla COB. Anche le impugnazione dei relativi provvedimenti sanzionatori sono parimenti parallele ed
indipendenti: per il reato sono competenti la Corte di Appello e la
sezione penale della Corte di Cassazione; per l’illecito amministrativo,
la prima sezione della Corte di Appello e la sezione commerciale della
Corte di Cassazione.
La duplicità di procedure, però, in ossequio al principio della
proporzionalità della pena rispetto all’illecito, principio peraltro rammentato dal Conseil constitutionnel nella decisione relativa alla citata
legge del 1989 3, non implica un raddoppio della sanzione complessivamente inflitta. Si è in effetti previsto che, qualora la COB abbia irrogato una sanzione amministrativa, l’importo della stessa può essere
imputato nella sanzione penale. Ciò è precisamente quanto è accaduto
nel primo caso di doppia procedura sanzionatoria. Si tratta della pronuncia sul caso Picciotto, in cui fu sanzionato con un’ammenda di dieci milioni di franchi, il massimo della sanzione all’epoca prevista, un
délit d’initié che aveva fruttato una somma ben superiore (sette volte
la sanzione). Anche il Tribunale penale giunse ad una pronuncia di
condanna, in cui però tenne conto della sanzione già irrogata dalla
COB 4.
(3) Décision n° 89-260 del 28 luglio 1989, in J. O. del 1 agosto 1989.
(4) Cfr. décision COB, 22 dicembre 1992, confermata da Cour d’Appel di Parigi,
sezione COB, 26 mai 1993, in Les Petites Affiches, 1993, n° 74, p. 14, con nota di C.
Ducouloux-Favard e TGI Paris, 11° Ch, 3 dicembre 1993, in Les Petites Affiches, 19
gennaio 1994, n° 8, p. 8, con nota di C. Ducouloux-Favard.
– 163 –
b) Il principio di proporzionalità della pena
Il valore massimo per i due tipi di sanzione pecuniaria (penale ed
amministrativa) è uguale ed assai elevato: 1.500.000 euro. Al fine di
parametrare la sanzione al reato rispettando il principio di legalità della
pena, che impedisce al giudice di andare oltre l’entità della sanzione
massima prefissata, la norma penale (attualmente l’articolo L 465-1
del code monétaire et financier) statuisce la possibilità di superare il
valore massimo e di giungere fino al decuplo del profitto illecito. Inoltre, è previsto testualmente che la sanzione pecuniaria penale (amende) deve essere almeno uguale al profitto. Il regolamento amministrativo ha fissato l’entità delle sanzioni sulle stesse basi, senza tuttavia
precisare l’obbligo di far coincidere l’importo della sanzione con l’illecito profitto e c’è da chiedersi se si tratti di una dimenticanza voluta ...
A tutt’oggi la COB e l’AMF, che sono obbligate a rispettare il principio di legalità e di proporzionalità della sanzione, hanno sempre tenuto conto dell’ammontare dell’illecito profitto, che, d’altronde, raramente ha superato il massimo dell’ammenda, fatta eccezione del caso Picciotto in cui era ben superiore. In tal caso la COB ha fissato la sanzione nell’importo massimo previsto, all’epoca dieci milioni di franchi,
importo che era ben al di sotto del profitto ottenuto. Il Tribunale penale, d’altronde, non si spinse oltre, per una curiosa concezione del
profitto solo potenziale, atteso che il reato consisteva in acquisti da parte di insiders senza rivendita. Tale impostazione appare evidentemente
insoddisfacente al fine di garantire un effetto dissuasivo alla pena 5.
Ancora un rilievo importante sul punto: l’ordinamento francese
prevede la responsabilità penale delle persone giuridiche anche per i
reati finanziari 6. Per la storia tale tipo di responsabilità non si è applicata ai reati di borsa sin dall’entrata in vigore del codice penale del
1994, poiché questo affermava il principio della specialità della responsabilità penale delle persone giuridiche, ovvero la limitazione della stessa alle fattispecie per le quali era prevista, tra le quali non figuravano i
reati di borsa.
Solamente a seguito della legge n. 1996-597 del 2 luglio 1996, le
persone giuridiche possono essere condannate per reati di borsa, che
(5) Sul punto sia consentito rinviare a C. DUCOULOUX-FAVARD, L’amende et son
rapport avec le profit illicite, in Les Petites Affiches, 2004, n. 54, p. 3.
(6) Sul tema in generale LAMY, Droit pénal des affaires, 2004, prima parte, capitolo 6.
– 164 –
spesso vengono posti in essere da un dirigente o da un manager per
conto della propria società 7.
Le ammende sono più elevate per gli enti che per le persone fisiche. Ciò permette di adeguare l’ammenda al profitto illecito che può
essere molto più elevato qualora il reato è posto in essere a vantaggio
di una società con notevoli mezzi finanziari, ivi inclusi i titoli posseduti. Invece, per l’illecito amministrativo l’entità massima della sanzione
è la stessa per le persone fisiche e giuridiche. Ciò non rispetta il principio di proporzionalità che dovrebbe essere applicato tanto dal legislatore nella fissazione delle pene quanto dal giudice nella determinazione delle sanzioni all’interno dei limiti legali. Alla luce del diritto
amministrativo positivo occorre ricordare tuttavia che il principio di
proporzionalità vuole che la pena sia commisurata non soltanto alla
gravità della colpa ma anche all’entità del patrimonio del soggetto sanzionato.
c) Il principio del contraddittorio
In tema di rispetto del principio del contraddittorio, le vicissitudini giudiziarie che hanno avuto ad oggetto le procedure sanzionatorie della COB dimostrano che si presenta difficile per un’autorità amministrativa rispettare appieno tale principio e, malgrado gli interventi legislativi e regolamentari, a tutt’oggi il problema non è risolto.
Il contenzioso è cominciato nel 1993 quando la Corte d’Appello
ha annullato un provvedimento pronunciato dalla COB contro la società VEV, Vitos – Etablissement Vitoux, che sanzionava una falsa informazione del mercato: in occasione di una fusione di due società
nella VEV le informazioni diffuse attraverso il BALO contenevano inesattezze e lacune che avevano comportato la condanna del presidente
e della società stessa 8. Il principio del contraddittorio non era stato
rispettato, poiché due giorni dopo la notificazione dell’atto di contestazione della violazione la COB aveva pubblicato un comunicato che
informava il mercato della violazione da parte della società degli obblighi informativi e aveva ripetuto tale indicazione nel rapporto annuale. L’Autorità di mercato aveva dunque ottemperato, come d’uso,
a quanto previsto dall’art. 3 dell’Ordonnance del 1967 sugli obblighi
(7) Si noti che il principio della specialità sarà abbandonato il 31 dicembre 2005
in base alla legge n. 2004-204 del 9 marzo 2004 (legge Perben).
(8) C. App. Parigi, sezione COB, 15 gennaio 1993, in Dalloz, 1993 , p. 273, con
nota di C. Ducouloux-Favard.
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di informazione del mercato, ma così facendo, aveva anticipato la decisione di sanzionare la condotta prima di aver ascoltato le persone e
la società interessate.
Il problema esplose in tutta la sua evidenza due anni più tardi,
quando il Presidente della COB in un’intervista rilasciata alla stampa
finanziaria dichiarava che il dirigente del gruppo Oury, composto da
trentasei società “Phenix”, aveva effettuato delle “acrobaties comptables” attraverso le quali gli hotels di proprietà del gruppo erano passati con valori sovrastimati tra le varie filiali “comme on joue au mistigri”. Ne derivò l’annullamento delle procedure sanzionatorie della COB
da parte della Corte di Appello, con decisione poi confermata dalla
Corte di Cassazione, che per sottolineare l’obbligo del rispetto del principio del contraddittorio si è pronunciata in udienza plenaria con una
sentenza 9, che ha suscitato un vivace dibattito anche scientifico. All’esito di una serie di ulteriori casi analoghi la COB ha finito per rivedere le proprie procedure sanzionatorie 10.
Oggi l’AMF presenta al suo interno due organi, il Collège e la
Commission des sanctions: l’informazione del mercato è compito del
Collège, che non è più l’organo che irroga le sanzioni 11. Si vedrà in
futuro se una tale organizzazione possa considerarsi soddisfacente e
pienamente rispettosa del principio del contraddittorio.
d) Il principio di separazione delle funzioni
Nel 1989, quando si propose di attribuire alla COB un proprio
potere sanzionatorio, la questione della separazione dei poteri (legislativo e giudiziario) fu sollevata poiché la COB, come oggi l’AMF,
elaborava i propri regolamenti, ivi compresi quelli contenenti le norme che definiscono gli illeciti amministrativi. Il problema fu superato
in considerazione del fatto che i regolamenti debbono essere omologati con arrêté ministériel e dunque formalmente sono atti emanati dal
Governo. Attualmente la questione del rispetto del principio della separazione dei poteri non si pone più poiché è stata positivamente ri-
(9) Cass. Ass. plén. 5 febbraio 1999, in La semaine juridique, 1999, II, p. 636
con nota di H. Matsopoulou.
(10) Cfr. LAMY, Droit pénal des affaires, 2004, n. 1078.
(11) Cfr. l’intervento di M. ODILE SIMART, Le pouvoir de sanction à la lumière de
loi de sécurité financière et dans la perspective de la directive sur les abus de marché al
convegno «Tutela del risparmio e stabilità dei mercati» (Università di Roma «Tor Vergata », 21 settembre 2004), in www.creg.it.
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solta dal Conseil constitutionnel nel suo parere del 28 luglio 1989, a
proposito della citata legge.
Sotto altro profilo, ab origine la separazione delle funzioni istruttorie e decisorie non era rispettata, poiché il relatore, “le rapporteur”, che
era un componente del Collège che decideva sulla sanzione, assunse un
ruolo crescente nell’inchiesta. Il relatore non era in effetti in posizione
equiparata a quella degli altri componenti del Collège, poiché gli era
affidato il compito di approfondire il dossier al fine di relazionare sinteticamente sullo stesso ed esprimere la propria opinione al Collège. Il
sistema, d’altronde, non faceva altro che ripartire i compiti come accade in tutti gli organi collegiali che trattino questioni complesse.
Nelle procedure sanzionatorie era d’uso nominare relatore il membro della COB designato tra i giudici della Corte di Cassazione, che era
indubbiamente il componente del collegio più competente in materia. Il
sistema entrò in crisi quando, su pressione dei difensori degli interessati, fu consentita la possibilità di leggere e contestare la relazione del rapporteur ancor prima che fosse sottoposta al collegio, cosicché il ruolo di
quest’ultimo ne risultò formalizzato. La situazione si aggravò quando
l’art. 3 di un decreto del 23 marzo 1990 riconobbe alla persona assoggettata alla procedura il diritto di rispondere alla notificazione degli addebiti, in sostanza, il diritto di difendersi, prevedendo che la COB potesse quindi decidere, senza motivazione, se archiviare la procedura o,
al contrario, proseguirla nominando un relatore. Quest’ultimo divenne
allora un anello essenziale della catena del procedimento istruttorio e
sanzionatorio. Purtroppo, la confusione tra le funzioni non fece che aggravarsi con la legge del 1996, c.d. legge di modernizzazione delle attività finanziarie, con cui si precisò che il relatore doveva necessariamente
essere nominato tra i componenti del Collège.
Gli avvocati difensori delle persone indagate scatenarono una vera
e propria contesa sulle procedure. Dopo il famoso caso Oury, già richiamato, nell’intento di migliorare il contraddittorio nelle procedure
sanzionatorie amministrative un decreto del 1997 permise al relatore
di procedere, con il concorso degli uffici ispettivi della COB, a compiere ogni indagine utile e ad effettuare audizioni anche dell’indagato.
La riforma trasformò il relatore in un vero e proprio giudice istruttore, che restava componente del “collegio giudicante”. Il rispetto del
principio del contraddittorio era salvo, ma la confusione di funzioni
istruttorie e deliberative era ormai totale.
Il legislatore ha ritenuto di portare rimedio a tale confusione in
occasione della fusione delle autorità di mercato “imposta” dalla direttiva europea n. 6/2003. L’AMF, ormai rimasta unica autorità di
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mercato, in realtà, contiene al proprio interno due diversi organismi 12.
Resta da verificare se tale dualismo all’interno di un’unica Autorità
sarà sufficiente per assicurare la separazione delle funzioni e come si
orienteranno gli altri paesi che adotteranno la doppia procedura repressiva in base alla citata direttiva europea...
e) Il principio dell’uguaglianza del cittadino dinanzi al giudice
La storia insegna che in Francia la lotta della Monarchia contro il
Parlamento si protrae oggi nella lotta tra la giustizia amministrativa ed
il potere giudiziario.
La legge del 1989 dotando un’autorità amministrativa, la COB,
di un potere di sanzione a carattere repressivo, incideva sulle competenze tradizionalmente riconosciute ai tribunali. In cambio di tali competenze definite ratione materiae furono devoluti alla Corte di Appello di Parigi ed alla sezione commerciale della Corte di Cassazione i
giudizi di impugnativa delle decisioni individuali della COB, fatta eccezione di quelle rese in materia disciplinare, le cui impugnative sono
di competenza del Consiglio di Stato.
Logicamente con la fusione delle autorità di mercato le vie di
ricorso sarebbero dovuto restare identiche. Ma al momento dell’approvazione della legge n. 2003-706 del 1 agosto 2003, fu fatta scivolare una virgola nell’art. 621-9 del code monétaire et financier riconoscendo così la competenza del Consiglio di Stato non solamente per i
ricorsi nei casi di responsabilità disciplinare degli intermediari, ma
anche quando gli stessi commettono illeciti amministrativi in materia
borsistica. Così per esempio, se abusi di informazione privilegiata sono
posti in essere da amministratori di società quotate e da intermediari e
tutti vengono sanzionati dall’AMF, la competenza a decidere sulle impugnative spetta a due giudici diversi, la Corte di Appello di Parigi ed
il Consiglio di Stato. Si tratta di una discriminazione inammissibile.
Inoltre, per i primi è possibile il ricorso in Cassazione avverso la decisione della Corte di Appello, mentre per i secondi la decisione del
Consiglio di Stato è definitiva, cosicché in una stessa vicenda ad alcuni sono riconosciuti due gradi di giudizio ad altri soltanto uno ...
Tale palese discriminazione è stata da tempo evidenziata e non
potrà che essere sanata 13.
(12) Cfr. N. RONTCHEVSKY, Les sanctions administratives: régime et recours?, in
Bull. Joly Bourse, gennaio 2004, p. 1.
(13) Cfr. J. RIFFAULT-SILK, Le projet de loi de sécurité financière, in Rev. Sciences
crim., 2003, p. 581 e C. DUCOULOUX-FAVARD, Où va le contentieux boursier?, in Les
Petites Affiches, luglio 2004, n. 140, p. 8.
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3. Le prospettive di attuazione in Italia della direttiva n. 6/2003 in materia di sanzioni e procedure sanzionatorie
L’esame dell’esperienza francese in tema di repressione delle condotte di insider trading e di manipolazione del mercato si presenta di
immediato interesse in Italia in considerazione dei contenuti dell’art.
6 legge comunitaria 2004, in corso di approvazione, che delega il Governo all’attuazione della direttiva n. 6/2003 14.
L’attuazione della direttiva comporterà infatti, in particolare rispetto ai profili sanzionatori, una parziale osmosi dell’impostazione
adottata in Francia, con i conseguenti problemi di coordinamento con
i principi generali dell’ordinamento, pur non mancando, come si vedrà, elementi di peculiarità dell’ordinamento italiano.
a) Il cumulo di sanzioni penalistiche e sanzioni amministrative.
Il primo dato degno di sottolineatura è costituito dall’introduzione, imposta dalla direttiva, di una repressione degli abusi di informazioni privilegiate e delle manipolazioni del mercato attraverso sanzioni di natura amministrativa 15. L’art. 14 della direttiva, infatti, sul punto è esplicito, rimettendo agli Stati soltanto la facoltà di introdurre o
meno sanzioni penali, nonché di determinare la natura e l’entità delle
sanzioni amministrative. Anche rispetto all’entità della sanzione, peraltro, gli Stati sono vincolati dagli usuali criteri della efficacia, proporzionalità e dissuasività, che concorreranno presumibilmente ad una
progressiva armonizzazione degli ordinamenti 16.
(14) Il disegno di legge governativo è stato approvato dal Senato il 20 luglio
2004 ed è quindi passato all’esame della Camera dei Deputati. Successivamente alla
data del Convegno in cui è stata presentata la relazione, il testo della legge comunitaria 2004 è stato sensibilmente modificato; invariate risultano comunque alcune delle
problematiche di fondo prospettate di seguito.
(15) Il passaggio dell’art. 14 relativo all’adozione di “opportune misure amministrative” o all’irrogazione “delle opportune sanzioni amministrative” non sembra interpretabile in chiave alternativa, ma integrativa. Gli strumenti di contrasto delle condotte illecite
debbono essere costituiti, infatti, da misure sia preventive sia repressive e tra queste, oltre
alle sanzioni in senso proprio, gli Stati possono adottare altre misure (ad esempio, la confisca dei profitti), che concorrano al perseguimento delle finalità indicate dalla direttiva.
(16) In ordine alla determinazione dell’ambito del vaglio da parte della Corte di
Giustizia in tema di congruità di sanzioni previste da fonti interne in attuazione di
fonti comunitarie si veda, però, Cass. 28 novembre 1996, n. 10585 per cui “una volta
che un regolamento comunitario abbia imposto un obbligo di condotta, demandando
la sanzione (che non incida su posizioni giuridiche garantite dal diritto comunitario)
alle legislazioni nazionali, rientra nella discrezionalità del legislatore statale determinare la qualità e la misura della sanzione e tale scelta discrezionale non è censurabile
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Data l’introduzione delle sanzioni amministrative per vincolo comunitario e vista la sempre maggiore rilevanza offensiva di interessi
pubblici delle condotte oggetto della direttiva, che induce gli Stati ad
introdurre fattispecie penali, gli ordinamenti nazionali dovranno fronteggiare il problema della regolamentazione del cumulo di sanzioni e
della sua compatibilità con i principi generali in tema di proporzionalità delle sanzioni, che hanno trovato riconoscimento al livello comunitario, in particolare grazie alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Sul punto l’esperienza francese in materia finanziaria appare
particolarmente significativa, anche se è bene subito evidenziare un
elemento importante di divergenza tra l’ordinamento italiano e quello
transalpino.
La proposta di legge delega al Governo per l’attuazione della direttiva prevede che, rispetto agli illeciti amministrativi di abuso di informazione privilegiata e di manipolazione del mercato, come da ridefinirsi in base alle indicazioni della direttiva, le fattispecie penali si
caratterizzano per alcune delimitazioni, soggettive od oggettive. Le
fattispecie penali non saranno, cioè, coestese agli illeciti amministrativi, potendosi concretare soltanto in presenza di elementi di maggiore
gravità, che dovranno essere precisati seguendo i due criteri indicati
nella norma delegante, ovvero il criterio quantitativo riferito alle variazioni dei valori di mercato conseguenti alle condotte ed il criterio
qualitativo, in relazione al soggetto che ha posto in essere il comportamento.
Nell’ordinamento francese il problema del cumulo delle sanzioni
è invece certamente più ampio, poiché, benché le definizioni del délit
d’initié e del délit de fausse information non siano testualmente coincidenti con quelle degli illeciti amministrativi corrispondenti, il legislatore non ha predeterminato una delimitazione delle fattispecie criminali correlata alla sfera applicativa degli illeciti amministrativi.17
in relazione all’Ordinamento comunitario sotto il profilo della eccessiva gravità della
sanzione, non essendo ciò previsto da alcuna norma o principio di tale Ordinamento
e non potendo pertanto configurarsi alcuna violazione degli impegni comunitari dello
Stato”.
(17) Ciò non esclude che la sussistenza di un fondamento giuridico autonomo
per le diverse fattispecie sanzionatorie possa condurre ad una loro diversa sfera di
applicazione; la giurisprudenza ha coerentemente affermato che l’ordinanza di non
luogo a procedere in sede penale per un délit d’initié è irrilevante nel procedimento
amministrativo di irrogazione di sanzioni per un manquement d’initié: cfr. T. Parigi,
13 maggio 1997, Dalloz Affaire, 1997, p. 787; Banque et droit, luglio – agosto 1997, p.
40 con osservazioni di de Vauplane; Bull. Joly Bourse, 1997, p. 628 con nota di de
Vauplane (Haddad).
– 170 –
Ciò premesso, limitatamente alle fattispecie che saranno oggetto
di sanzione penale, anche in Italia si porrà il problema del cumulo
delle sanzioni, sotto il duplice profilo della sua compatibilità con il
principio “non bis in idem” e con il principio di proporzionalità della
sanzione.
La sovrapposizione di sanzioni penali ed amministrative nell’ordinamento italiano è normalmente evitata attraverso l’utilizzazione del
principio della specialità ex art. 9 della legge 24 novembre 1981, n.
689, che però, attesa la natura di legge ordinaria, non vincola il legislatore delegato.
Nel caso di specie, l’applicazione del principio di specialità condurrebbe, vista la maggiore ampiezza applicativa dell’illecito amministrativo, alla sola incriminazione penale nelle fattispecie di maggiore
gravità. Sebbene tale soluzione non si ponga in contrasto con il testo
della norma che delega il Governo all’attuazione della direttiva, norma che non fa specifico riferimento al cumulo delle sanzioni, il tenore
della direttiva sembra tale da precludere ogni possibilità in tal senso.
Se, dunque, adeguandosi alle indicazioni comunitarie, il legislatore italiano prevederà la sanzionabilità in via amministrativa di tutte
le condotte di insider trading e di manipolazione del mercato, limitatamente alle ipotesi penalmente rilevanti si porranno i problemi già evidenziatisi in Francia circa il rispetto dei principi del “ne bis in idem” e
della proporzionalità della sanzione.
Per il primo aspetto, la diversità della natura dell’illecito, che di
per sé comporta anche una diversa valutazione della fattispecie, quantomeno per la svalutazione dei profili di colpevolezza nell’illecito amministrativo, senza considerare la diversità delle procedure di accertamento, esclude la configurabilità di un contrasto con precetti di valore costituzionale 18.
Proprio perché eccezionale, tuttavia, il cumulo di sanzioni di diversa natura dovrebbe essere tenuto in considerazione nella valutazione della loro adeguatezza e proporzionalità rispetto all’illecito.
Non assume rilievo, invece, il fatto che ai reati in esame si applichi la normativa in tema di responsabilità amministrativa degli enti,
con conseguente applicazione di sanzioni di varia natura, anche pecuniaria, nei confronti dei soggetti giuridici nell’interesse o a vantaggio
(18) D’altronde, non mancano nella legislazione nazionale fattispecie sanzionate, in deroga al principio di specialità, tanto penalmente quanto in via amministrativa:
v. esemplificativamente il testo originario dell’art. 37 della stessa legge n. 689/1981,
poi però modificato dall’art. 116 della legge 23 dicembre 2000, n. 388.
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dei quali sia stata posta in essere la condotta criminosa 19. La responsabilità così configurata è autonoma rispetto a quella penale dell’autore persona fisica e grava su un soggetto giuridico diverso; quindi la
sanzione amministrativa applicabile a tale titolo non rileva nella valutazione della proporzionalità della pena alla gravità del reato.
In tema di entità della sanzione si rileva che, a differenza della
disciplina francese, né la sanzione amministrativa, né quella penale,
che è modellata sulla prima, sono specificamente parametrate sull’ammontare dell’eventuale profitto tratto dall’autore dell’illecito. Ciò implica che, per quanto attiene ai profili pecuniari, la sanzione rischia, in
linea teorica, di risultare inadeguata nel caso di operazioni che comportino profitti elevatissimi: il cumulo delle sanzioni pecuniarie amministrative e penali non può infatti superare sei milioni di euro. Deve
tuttavia considerarsi che, in virtù della possibilità di confisca dell’illecito profitto, la sanzione, anche se ipoteticamente inferiore a quest’ultimo, ha comunque una adeguata capacità deterrente.
Occorre piuttosto chiedersi se sia opportuno introdurre nella normazione delegata una disposizione che imponga alle autorità amministrativa e giudiziaria di considerare ai fini della determinazione della
sanzione la sussistenza di eventuali altre sanzioni, anche di diversa natura, già irrogate in base alla stessa condotta. Tra i criteri specificamente indicati ex art. 133 c.p. ed ex art. 11 della legge n. 689/1981 per
la determinazione delle sanzioni rispettivamente penale ed amministrativa non figurano specifici richiami utilizzabili nella fattispecie di
cumulo di sanzioni di diversa natura. Non si dubita, tuttavia, che, visto l’ampio potere sia dell’autorità amministrativa sia del giudice penale nella determinazione dell’entità della sanzione pecuniaria, la sussistenza di una pregressa irrogazione di una sanzione non finisca per
essere tenuta di fatto in considerazione. Sarebbe comunque opportuno che per le ipotesi di cumulo siano previsti sistemi di computo complessivo delle sanzioni pecuniarie analoghi a quelli previsti in tema di
concorso di reati, anche in considerazione della richiamata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che, ai fini della valutazione della
proporzionalità della pena, assimila alle sanzioni penali in senso proprio le sanzioni amministrative a forte carattere repressivo.
(19) Tale disposizione è sintomatica della forza espansiva della disciplina di cui
al d.lgs. n. 231/2001, già mostrata peraltro dalla responsabilità penale delle persone
giuridiche in Francia, che è stata recentemente generalizzata (legge Perben n. 2004204 del 9 marzo 2004).
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b) Il diritto di difesa nei procedimenti amministrativi ispettivi e sanzionatori.
Il tema della applicazione delle prerogative in cui tradizionalmente
si estrinseca il diritto di difesa nei procedimenti amministrativi è ben
noto anche in Italia con particolare riferimento ai procedimenti delle
autorità indipendenti, siano essi o meno suscettibili di concludersi con
provvedimenti sanzionatori 20.
Alcune delle prerogative riconducibili al diritto di difesa trovano
riconoscimento attraverso la disciplina generale del procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241/1990. In primo luogo, gli artt. 7 e
8 affermano il diritto alla comunicazione dell’avvio del procedimento
e ne determinano i contenuti essenziali nell’amministrazione competente, nell’oggetto del procedimento, nell’ufficio e nella persona responsabile dello stesso e nell’indicazione dell’ufficio ove si può prendere visione degli atti. Tale comunicazione è richiamata nell’art. 13 del
regolamento concernente l’organizzazione ed il funzionamento della
Consob 21 e non potrà che trovare attuazione anche nei procedimenti
ispettivi e sanzionatori, così come riformati in attuazione della direttiva. In relazione ai procedimenti sanzionatori, qualora nel corso del
procedimento emergano ulteriori addebiti, il rispetto del principio del
contraddittorio impone che essi siano oggetto di specifica comunicazione, così da consentire la formulazione di adeguate difese ed eventuali controproduzioni 22.
Parimenti dotato di un riconoscimento generale nella legge sul
procedimento amministrativo (art. 10) è il diritto di prendere visione
degli atti del procedimento e di presentare memorie scritte e documenti che trova riscontro nel citato regolamento Consob (art. 13, comma 1, lett. c) nel diritto all’esame dei documenti e all’intervento me-
(20) Tra le ricostruzioni più recenti cfr. A. SCOGNAMIGLIO, Il diritto di difesa nei
procedimenti amministrativi, Milano, 2004 e, con particolare riferimento all’Autorità
Garante per il Mercato e la Concorrenza, P. LAZZARA, Autorità indipendenti e discrezionalità, Padova, 2001.
(21) Regolamento adottato con delibera n. 8674 del 17 novembre 1994, successivamente modificato con delibera n. 13195 dell’11 luglio 2001.
(22) Si è evidenziato di recente come tale corollario dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento trovi riscontro sia nella giurisprudenza amministrativa in materia di procedimenti disciplinari, sia in alcune pronunce della Corte di
Giustizia in relazione ai procedimenti della Commissione in materia di concorrenza:
cfr. A. SCOGNAMIGLIO, Il diritto di difesa nel procedimento amministrativo, cit., p. 211.
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diante audizione e/o invio di memorie 23. Entro questi limiti, dunque,
la tutela del diritto di difesa non trova soverchi ostacoli all’interno del
procedimento amministrativo.
Più complesso, è il tema della necessaria distinzione delle funzioni istruttorie e deliberative, che tende ad acuirsi nella materia in esame per l’orientamento della direttiva alla concentrazione delle funzioni di vigilanza del mercato finanziario in capo ad un’unica autorità.
Sul punto si segnalano orientamenti difformi tra la Corte di Giustizia e le Corti nazionali. Secondo la prima, chiamata a pronunciarsi
in relazione alla legittimità della sussistenza in capo alla Commissione
di funzioni inquirenti e decisorie, tale circostanza non inficerebbe la
necessaria imparzialità dell’amministrazione, dovendosi considerare sufficiente garanzia la possibilità di una revisione giudiziale della correttezza ed imparzialità della amministrazione 24. Negli ordinamenti nazionali tende, invece, a prevalere sia attraverso specifiche previsioni
normative o regolamentari, sia negli orientamenti giurisprudenziali
un’interpretazione più rigorosa della terzietà ed imparzialità del giudice, che si estende anche ai procedimenti amministrativi. Così in Francia, come in Italia, come si è sopra riferito, proprio rispetto all’Autorità di vigilanza del mercato finanziario si è venuto affermando il principio della necessaria distinzione tra la funzione istruttoria, riservata agli
uffici, e la funzione deliberativa, rimessa al Collegio.
La Consob, per la verità, ha da tempo adeguato i propri modelli
procedimentali, anche quando non suscettibili di concludersi con l’irrogazione di sanzioni, operando una distinzione tra la funzioni istruttoria e la funzione deliberativa. Ciò non ha impedito tuttavia l’annullamento di un provvedimento di nulla osta su prospetto, che è stato
ritenuto illegittimo dal Tar Lazio, in considerazione del ruolo non
(23) Proprio in tema di provvedimenti della Consob il TAR Lazio ha avuto
modo di affermare il rilievo viziante della mancata verbalizzazione dell’audizione dell’amministratore delegato della società interessata dal provvedimento e dell’insussistenza di una “effettiva rielaborazione da parte della Commissione delle questioni
controverse, quale sarebbe stata necessaria in relazione alle contestazioni sollevate
dalle parti ...”. Cfr. TAR Lazio, sez. I, 10 aprile 2002, n. 3070 in Foro it., 2002, III, c.
487 con nota di G. Scarselli, in Foro amm., TAR, 2002, p. 1278 non nota di Corso e in
Le società, 2002, p. 1025 con nota di S. Rizzini Bisinelli.
(24) Da ultimo, Corte di Giustizia, 15 dicembre 1995, causa C. 415/93, Unione
royale belge des sociétés de football ASBL et a. c. Bosman et a., in Racc. I, p. 4921. La
Corte di Giustizia ritiene ammissibile anche che lo stesso funzionario partecipi sia alla
fase istruttoria che a quella decisoria, l’imparzialità della Commissione risultando comunque soggetta a verifica grazie alla possibilità di impugnarne giudizialmente i provvedimenti.
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meramente consultivo svolto in concreto dai funzionari che avevano
seguito l’istruttoria in occasione della riunione deliberativa del Collegio 25.
Non vi è dubbio che l’ampliamento dei poteri istruttori e la previsione di sanzioni amministrative in fattispecie in precedenza non sanzionate o sanzionate soltanto penalmente non potrà che dare ulteriore
rilievo a tali problematiche per la crescente necessità di supporto del
Collegio da parte degli uffici deputati all’istruttoria. Non sembra tuttavia che l’introduzione di nuove fattispecie sanzionabili in via amministrativa imponga necessariamente una riorganizzazione dell’ente,
quanto piuttosto maggiore attenzione al rispetto dei rispettivi ruoli all’interno dell’autorità, una accurata procedimentalizzazione ed una
puntuale verbalizzazione delle diverse fasi del procedimento.
Vi è, tuttavia, un problema evidenziato dall’esperienza francese
che sembra difficilmente risolubile.
Nel caso VEV 26 la Corte di Appello di Parigi ha annullato il provvedimento sanzionatorio della COB, ritenendo che la pubblicazione
di un comunicato stampa ed il riferimento nella relazione annuale alla
vicenda, effettuati dalla Commissione prima della conclusione del procedimento sanzionatorio al fine di assicurare tempestivamente la corretta informazione del mercato, mettevano in dubbio l’imparzialità della
Commissione e viziavano quindi il provvedimento di irrogazione della
sanzione.
Nei limiti in cui si ritenga, in linea generale, che l’adozione di
misure urgenti di tutela dell’informazione sul mercato possa mettere
in discussione l’imparzialità dell’Autorità chiamata a pronunciarsi sulla sanzione si coglie un possibile contrasto di fondo tra la funzione
amministrativa di tutela del mercato e del risparmio e quella sanzionatoria. In effetti, l’assunzione di misure di tutela del mercato si caratterizza per una certa discrezionalità da parte dell’Autorità, che, ad esem(25) Cfr. TAR Lazio, sez. I, 10 aprile 2002, n. 3070, cit. Il provvedimento della
Consob di nulla osta subordinato a modifiche fu annullato poiché il TAR, dopo aver
rammentato i contenuti del regolamento di organizzazione e funzionamento della
Consob, in particolare rispetto alla distinzione tra il ruolo istruttorio degli uffici ed il
ruolo deliberativo rimesso esclusivamente al Collegio, rilevava che nella riunione cui
fece seguito la deliberazione del Collegio, parteciparono alcuni funzionari, di cui uno
formalmente non convocato, che parteciparono attivamente alla discussione. Tra questi il funzionario incaricato del procedimento avrebbe svolto “un ruolo di puntualizzazione e polarizzazione dell’andamento e delle conclusioni della discussione” e non
avrebbe quindi assolto soltanto “una funzione di chiarimento istruttorio”.
(26) V. supra alla nota 8.
– 175 –
pio, laddove ritenga di dover intervenire per correggere le informazioni fornite al mercato, non può essere vincolata al previo completamento della procedura sanzionatoria connessa all’infrazione degli obblighi di informazione.
A ben considerare la vicenda francese in cui si è posto il problema si rileva, però, che il dubbio sulla non imparzialità dell’Amministrazione è derivato dalle modalità con cui la COB nella comunicazione al pubblico prospettava l’erroneità o l’incompletezza delle informazioni fornite dall’emittente al mercato ovvero senza evidenziare che
si trattava di elementi ancora soggetti a verifica in contraddittorio con
la società.
In sostanza, ne deriva che le funzioni di tutela dell’informazione
del mercato ed i poteri sanzionatori non sono necessariamente incompatibili, ma impongono all’Autorità che sia titolare di entrambi di operare tenendo in considerazione che ogni proprio atto può assumere
una duplice valenza.
c) L’attribuzione del potere sanzionatorio.
Il problema del coordinamento tra le funzioni di vigilanza e la
funzione sanzionatoria nella disciplina che deriverà dall’attuazione della
direttiva presuppone l’individuazione della titolarità del potere sanzionatorio.
A leggere bene l’art. 6 della proposta di legge comunitaria 2004,
infatti, mentre è chiara l’attribuzione alla Consob di competenze in materia di cooperazione internazionale nella vigilanza finanziaria (lett. b),
di poteri regolamentari (lett. c), di poteri di vigilanza e d’indagine (lett.
d), la disposizione che prefigura l’introduzione di sanzioni amministrative non determina l’Autorità competente alla loro irrogazione.
Appare, dunque, legittimo il dubbio che la delega intenda implicitamente mantenere l’assetto attuale, con l’attribuzione ad un’amministrazione diversa dalla Autorità di vigilanza (il Ministero del Tesoro) del
nucleo del potere di irrogazione di sanzioni amministrative o quantomeno rimettere alla fonte delegata l’opzione tra tale ipotesi e quella dell’attribuzione alla Consob anche di un proprio potere sanzionatorio.
Resta da chiedersi se la fonte comunitaria sia suscettibile di attuazione in entrambe le modalità.
L’art. 11 della direttiva n. 6/2003 impone infatti agli Stati di designare “un’unica Autorità competente a vigilare sull’applicazione” della stessa. È ben vero che nell’enumerazione dei poteri ricondotti alla
vigilanza non figura quello dell’irrogazione di sanzioni amministrative
– 176 –
pecuniarie e che la norma che impone l’introduzione di tali tipo di
sanzioni non prescrive esplicitamente che il potere sanzionatorio sia
attribuito all’Autorità di vigilanza. Tuttavia, dal complesso della direttiva e da alcuni spunti testuali – tra cui l’articolo 14, comma 4, che
prescrive che l’Autorità di vigilanza deve curare la pubblicazione dei
provvedimenti sanzionatori, sembrando dunque logico che i provvedimenti siano stati dalla stessa emanati – emerge evidente l’indicazione in favore dell’attribuzione del potere sanzionatorio all’Autorità di
vigilanza. In assenza di una prescrizione imperativa in tal senso non
sembra tuttavia possibile ritenere vincolati gli Stati in tal senso.
Né la direttiva né la proposta di legge delega impongono dunque
soluzioni predeterminate.
In termini di opportunità è evidente che l’attribuzione alla Consob di un proprio potere sanzionatorio nelle materie di cui alla direttiva accrescerebbe sensibilmente non soltanto il quadro istituzionale dell’Autorità, ma anche le sue possibilità di svolgere un’opera di moral
suasion. Sul piano organizzativo, l’ipotesi sembra percorribile anche
senza giungere alla struttura bicefala francese 27, ma potrebbe richiedere una specificazione dei modelli procedimentali nell’ottica, da una
lato, di assicurare il rispetto del diritto di difesa e, dall’altro, di evitare
che lo svolgimento di funzioni di vigilanza e tutela del mercato pregiudichino la correttezza del procedimento sanzionatorio.
C. DUCOULOUX-FAVARD e FEDERICO PERNAZZA
(27) C’è anzi da chiedersi se, ritenendo imperativa l’unitarietà dell’Autorità
amministrativa deputata allo svolgimento di tutte le funzioni indicate nel regolamento, ivi incluse quelle sanzionatorie, il sistema francese sia rispondente alle prescrizioni
comunitarie, posto che la Commission deputata all’irrogazione delle sanzioni costituisce un’entità di fatto autonoma rispetto all’AMF.
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AI MARGINI DELLA TEORIA DELL’IMPRESA: LA “IMPRESA STRUMENTALE” DELLA FONDAZIONE BANCARIA ( *)
1. Ringrazio molto per quest’invito a parlare in tema di Fondazioni bancarie. Mi ha imposto di riflettere sul fenomeno, cosa che avevo finora evitato per un sorta di diffidenza verso istituti che ritenevo
sorti per stabilizzare la partecipazione alle banche in un processo di
loro privatizzazione, e che poi ho visto voler dapprima continuare a
influire sul governo del credito e poi invece in molti casi perdere ogni
interesse per il settore. La privatizzazione dei protagonisti in un mercato concorrenziale è in genere evocata per ragioni anzitutto di equilibrio e di chiarezza nella competizione. Paul Valery ricordava peraltro
“les mystères de la clarté”. A mia impressione, le fondazioni bancarie
si ascrivono appunto a cripte del genere.
La rilettura del d.lgs. 17 maggio 1999, n. 153 – nel testo consolidato con l’art. 19 della l. 7 marzo 2001 n. 62; con l’art. 11 della l. 28
dicembre 2001 n. 448; con l’art. 80, comma 20, della legge 27 dicembre 2002 n. 289; con l’art. 4 del d.l. 24 giugno 2003, n. 143, come
modificato dalla legge di conversione 1° agosto 2003, n. 212; con l’art.
39 comma 14 nonies del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, come modificato dalla legge di conversione 24 novembre 2003, n. 326; e con l’art.
2, comma 26, della legge 24 dicembre 2003, n. 250: l’iter legislativo,
senza peccare di immodestia, conferma le mie diffidenze originarie –
mi ha suscitato invece adesso, devo riconoscerlo, cospicuo interesse
quanto meno su un punto.
Le Fondazioni bancarie, ai sensi dell’art. 2, “perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico ...”, indirizzando la propria attività “esclusivamente nei settori
ammessi” tutti, nell’enunciato dell’art. 1, c bis del d.lgs. 153, di interesse generale; “operano – come precisa l’art. 3, comma 1 – nel “rispetto di principi di economicità di gestione”; possono infine “eserci-
(*) Testo dell’intervento tenuto all’Accademia dei Lincei il 26 novembre 2004,
in occasione di un Convegno sulle Fondazioni di origine bancaria. Il testo è destinato
alla pubblicazione negli studi in onore del prof. Federico Martorano.
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tare imprese solo se direttamente strumentali ai fini statutari ed esclusivamente nei settori rilevanti”. E qui cominciano gli interrogativi.
Lasciamo da parte il ricordo della necessaria “economicità di gestione”. È formula vetusta, propria del sistema degli enti pubblici economici, che svolgendo attività sostanzialmente fuori del mercato si vedevano, e si vedono ricordato che quanto meno devono cercare di
non perdere. Ha origine illustre, e portata precettiva di non poca importanza sistemica, se si ritiene – come credo difficile contestare – che
l’intervento pubblico nell’economia si rende opportuno se non necessario in determinate congiunture, o in determinate fasi di sviluppo,
proprio per difendere il mercato o per portare al mercato. Può peraltro suscitare perplessità se si segue l’approccio, di creazione di un effettivo ed efficiente mercato competitivo, iniziato con i primi anni ’90.
Ma non è su problemi di politica economica che mi compete di parlare.
Lasciamo da parte ancora la legittimazione ad attività di impresa
solo in “settori rilevanti”. La formula, a prima vista ambigua, non è
infatti propriamente selettiva di settori ammessi o meno, ma – come
spiega l’art. 1, d – puntualizza semplicemente che la Fondazione non
può operare in più di cinque settori alla volta, scelti a cadenze triennali (credo potendo anche mai cambiare almeno se le cose vanno bene).
Impone, vale a dire, non eccessivo zelo nella corsa alla varietà di investimento operativo, in una visione sufficientemente prudenziale delle
politiche da seguire.
Fermiamoci invece sulla “impresa strumentale”.
2. “Impresa strumentale” – recita l’art. 1, h – è la “impresa esercitata dalla Fondazione o da una società di cui la Fondazione detiene
il controllo, operante in via esclusiva per la diretta realizzazione degli
scopi statutari perseguiti dalla fondazione nei settori rilevanti”. Due
ipotesi di lavoro dunque, che esercente l’impresa strumentale sia la
Fondazione, o invece una società controllata da una Fondazione.
Le differenze fra le due ipotesi potrebbero essere notevoli. La
Fondazione ha vincoli istituzionali; la società controllata almeno in
principio no. La presenza di soci di minoranza nella società controllata dovrebbe inoltre impedire l’abbandono o l’elusione del suo statuto
giuridico tipico. L’impresa strumentale esercitata da una società controllata da una Fondazione dovrebbe dunque non differire da ogni
altra impresa, laddove discorsi diversi potrebbero essere condotti, almeno in tesi, per l’altra figura.
Temo che non sia così, o che per lo meno non sia interamente
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così. L’art. 6, 1° comma del d.lgs. 153 dispone infatti che “le Fondazioni possono detenere partecipazioni di controllo solamente in enti e
società che abbiano per oggetto esclusivo l’esercizio di imprese strumentali”. Sicché l’“impresa strumentale” emerge come figura autonoma, diversa dalla normale impresa, atteso che altrimenti il “distinguo”
ora sottolineato non troverebbe ragione. Dovendocisi allora chiedere
tout court: cosa si intende, o cosa il legislatore vuole intendere per
impresa strumentale?
Cercando di abbreviare il discorso, che come ogni giuscommercialista ben comprende potrebbe portarci lontano, dico subito che non
è su un piano per così dire di mera correlazione merceologica che può
essere trovata la soluzione. In altre parole, non basta dire che ad es.
l’impresa esercitata da una Fondazione che opera nel settore della religione possa produrre e vendere solo santini e rosari, o che un’impresa esercitata da una Fondazione che opera nel settore della sicurezza
pubblica possa allevare e vendere solo speciali cani addestrati ad hoc o
produrre e vendere solo sistemi telematici di protezione. Il problema
è di ben più ampio respiro. E incide, a rigore, sulla connotazione di
vertice dell’impresa, che si vuole esclusivamente mirata – come precisa il d.lgs. 153 – alla “diretta realizzazione” degli scopi statutari della
Fondazione. Dovendosi escludere, dunque, anche un problema di semplice Eigentüm des Unternehmens, e di Stiftungsunternehmen nelle quali
– come ben spiegato alla fine degli anni ’60 da Pietro Rescigno e da
Renzo Costi – l’impresa resta libera di essere impresa, e l’assetto della
Fondazione si limita alla distribuzione dei ricavi dell’impresa, che vanno
a scopi altruistici o anche ai discendenti del fondatore ecc.
Per vero, l’enfasi data alla necessità di una “diretta realizzazione”
“in via esclusiva” degli scopi della Fondazione bancaria tradisce un
certo sospetto per il mondo dell’impresa. L’impresa, allora commerciale, è qualcosa che evidentemente non si confà con le finalità altruistiche della Fondazione. Francesco d’Assisi, del resto, quando volle
diventare santo si spogliò delle vesti di mercante. Sicché la strumentalità agli scopi altruistici della Fondazione si è voluta ben precisa, e a
ragione, per evitare esagerazioni mercantili nell’utilizzo di denaro che
si pretende evidentemente sottratto a tali prospettive. Gli è solo che
scendendo dall’empireo delle scelte politico-economiche al microcosmo giuscommercialistico, nel quale si deve comunque alla fine operare, occorre ricordare che la nozione d’impresa, rectius l’accertamento
dell’esistenza di un’attività d’impresa ha, nel sistema sia nazionale che
comunitario vigenti, valore normativo. Fatti ascrivibili ad un’attività
d’impresa trovano infatti regolazione diversa da come invece quando
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compiuti in un contesto non commerciale, di privato cittadino. Per citare i più significativi: la rappresentanza commerciale è diversa dalla rappresentanza di diritto privato, dell’attività d’impresa deve essere tenuta
contabilità secondo criteri prestabiliti e della vita privata no, le imprese
in crisi sono soggette a procedure concorsuali mentre il privato cittadino è abbandonato alle iniziative di ogni singolo creditore; e potremmo
continuare. La ragione è assai semplice. L’esercizio di attività economica organizzata coinvolge e incide su una molteplicità di interessi, anche
terzi rispetto alle parti degli atti in cui l’attività si fraziona, sicché la sua
regolazione cessa di essere articolata a soggetto, com’è nel diritto civile;
si vuole applicata per il semplice fatto che quell’attività sia svolta, indipendentemente dallo status e dalle stesse intenzioni del soggetto agente;
ed è mirata alla tutela di interessi (ovviamente sempre di uomini e non
trascendenti o superiori ecc., ma) che non si esauriscono in quelli direttamente mossi dai singoli atti. In ciò sta del resto la specialità del diritto
commerciale inteso come diritto delle imprese.
Ebbene, l’impresa strumentale, al di là delle qualifiche che non
contano nulla, soggiace alle discipline dell’impresa, o il nucleo privatistico della Fondazione tracima e azzera il referente commercialistico?
3. Dico subito che su alcuni punti si pronuncia la legge, su altri
parrebbe non difficile una soluzione per deduzione, su altri infine il
problema è notevole. Ed ovviamente la mia esposizione vuole essere
indicativa, utile a rispondere in una prima battuta al quesito sollevato,
non certamente esaustiva.
a) “le Fondazioni – avverte l’art. 9, comma 3 – predispongono
contabilità separate con riguardo alle imprese dalle stesse esercitate”. La contabilità dell’impresa strumentale è dunque intesa a priori,
e a ragione, diversa da quella della Fondazione. E per la precisione –
lo dice sempre l’art. cit. – le imprese strumentali tengono in via autonoma “i libri e le scritture obbligatorie previsti dal codice civile
per le imprese soggetto all’obbligo di iscrizione nel registro”. La ordinazione contabile di ciò che è destinato all’attività di impresa non
si confonde dunque con la registrazione dell’attività della Fondazione (e si avrà così un patrimonio anche formalmente destinato all’attività d’impresa ai sensi della disciplina del codice).
b) Non avrei dubbi che si applichino le regole della rappresentanza commerciale. Chi compra da un commesso che si trova dietro il
banco del negozio gestito dall’impresa strumentale della Fondazione
bancaria non deve e neppure può esigere, e si conserva in buona fede
se non esige, che il commesso giustifichi i suoi poteri.
– 181 –
c) Certamente si applica la disciplina della concorrenza sleale. Se
è svolta attività d’impresa per principio si tiene conto della realtà effettuale, non della qualifica del soggetto. Ed è del resto di comune
insegnamento che l’atto di concorrenza sleale, di confusione o di storno di dipendenti ecc., se obiettivamente tale, è imputabile nei confronti di chiunque, e che chiunque soggiace alla disciplina, d’impresa,
all’uopo stabilita. Del resto, sembra fuori discussione che se il prof.
Libonati, o la Fondazione bancaria Y, mettano in essere a via del Babuino vetrina eguale a quella di Bulgari in via Condotti – s’intende se
ci riescono, ma il mio esempio vuole essere di scuola – creano confusione nel consumatore anche maggiore di quando l’atto de quo sia compiuto da un gioielliere che non sia Bulgari.
d) Il d.lgs. 153 non dispone l’iscrizione della Fondazione che eserciti impresa strumentale nel registro delle imprese. Molti anni fa sul
punto della iscrivibilità nel registro delle Fondazioni che esercitassero
imprese si è molto discusso, e diverse impostazioni furono proposte.
Vorrei qui richiamare (i) un’opinione di Francesco Santoro Passarelli,
che agli inizi degli anni ’60 osservava potersi ben avere impresa senza
imprenditore; (ii) l’art. 5, 1° comma del d.lgs. n. 153 che impone alle
Fondazioni di operare “secondo principi di trasparenza”, e sarebbe
allora ben poco trasparente la Fondazione che occultasse il suo esercizio di attività d’impresa, seppure in via strumentale, proprio là dove il
pubblico ha modo di apprendere chi esercita attività d’impresa; e (iii)
la corrente nessuna rilevanza della figura dell’imprenditore nella ricostruzione delle discipline dell’attività d’impresa: questa è infatti attività economica organizzata obiettivamente considerata, sicché il suo centro di imputazione è obiettivamente individuabile, se e quando necessario, quale che sia la sua qualifica soggettiva o status (tant’è che falliscono medici, avvocati, generali, o chi si vuole se esercita attività d’impresa).
e) Le Fondazioni sono qualificate “enti non commerciali” (v.
art. 12, comma 3). Nondimeno ricadono nelle discipline antitrust,
ove ne ricorrano i presupposti. Ho sempre trovato divertente sentire
evocata davanti alla Direzione Comunitaria della concorrenza la natura non commerciale o la nazionalità non europea dell’autore dell’intesa e dell’abuso di posizione dominante per evitare la condanna
per comportamento anticoncorrenziale, come ho sempre trovato corretto sentire risposto che se viene compiuto un atto contrario alle
regole della concorrenza nel mercato comunitario, l’autore è passibile di sanzione ex Trattato di Roma quale che ne sia lo status o il
domicilio o la sede ecc.
– 182 –
f) La Fondazione esercente attività d’impresa cade, quando ne
ricorrano i presupposti, in procedura concorsuale. Non soggiace a fallimento, com’è frequente quando le imprese sono soggette, come le
Fondazioni, a vigilanza. All’art. 11, comma 8 si legge peraltro che
“quando ricorrono particolari ragioni di interesse generale l’Autorità
di vigilanza può provvedere alla liquidazione coatta amministrativa”.
Ebbene: non credo revocabile in dubbio che in caso di insolvenza ricorrano ragioni di interesse generale per aprire liquidazione coatta; e
la liquidazione coatta è procedura concorsuale, seppure sui generis.
Nulla quaestio dunque. L’impresa strumentale è impresa come ogni
altra; e “strumentale” ha mero significato evocativo di una dipendenza, di una missione.
Ahimè, no.
Resta infatti un’ultima circostanza. L’impresa strumentale della
Fondazione gode di capitali a tasso zero. Non deve remunerare chi vi
investe, che istituzionalmente non ha scopo di lucro, e data la ricchezza di chi vi investe – si tratta di Fondazioni bancarie, con patrimonio
di tutto rispetto – non deve correre alla ricerca di costosi finanziamenti. È sufficiente – lo dice la legge – la economicità della gestione. È
perciò in una situazione privilegiata rispetto alle imprese concorrenti,
che se non remunerano i capitali investiti non ne trovano. Inoltre, l’impresa strumentale – che comincerei ad indicare come la c.d. impresa
strumentale – gode di agevolazioni fiscali, sicché anche sotto tale profilo si trova appunto in posizione privilegiata. Se quel tipo di investimento provenisse dallo Stato, o di quel tipo di agevolazione godesse
impresa a partecipazione statale, il richiamo ad aiuto di stato sarebbe
invero pressocché obbligato.
Con il che sono ben lontano dal condannare forme di intervento
pubblico nell’economia, quando necessarie; meno che mai poi quando l’intervento si vuole a fini sociali. L’intervento nel mercato di circa
70 fondazioni bancarie, di cui – mi sembra – 12 in Piemonte e 19 in
Emilia, non può peraltro paragonarsi ad un programma keynesiano
né a un sistema centralizzato di governo dello sviluppo economico dove
carente. Comprendo bene che le Fondazioni Bancarie sono servite a
scandire nel tempo il drenaggio dei capitali necessari per la privatizzazione delle banche. Comprendo ancora che la ricchezza ivi investita
non possa restare inutilizzata. Comprendo meno che possano esercitare attività d’impresa nel modello che poc’anzi ho descritto, senza
causare disequilibri perniciosi. Vi sarebbe un’inammissibile disparità
di trattamento fra concorrenti nello stesso mercato. Giuseppe Guarino alcuni anni fa scrisse molto bene distinguendo fra attività d’impre-
– 183 –
sa ed attività di erogazione, contrapponendo, se ben ricordo, ad es.
clinica ad ospedale, casa di riposo ad ospizio. Forse il legislatore avrebbe fatto bene a leggere quello scritto. Vero è infatti che se una Fondazione bancaria che si occupa di “agricoltura di qualità”, come prevede
l’art. 1, c bis e produce ed immette in massa sul mercato beni di alta
qualità per rispondere ad istanze non primarie, ad es. frutta o vino di
alto pregio, non pagando l’investimento e godendo di agevolazione
fiscale, qualche protesta sarà certamente da prevedere.
4. Ciò mi porta alla convinzione che sia nel vero chi ritiene che
nell’art. 1, h, della nozione, rectius del nomen di “impresa” sia stato
fatto un uso improprio rispetto alla nozione codicistica, o che l’impresa di cui parla il d.lgs. 153 sia una sorta di fenomeno a sé, che in termini per adesso poveroni riassumo in attività economica a carattere erogativo o suppletivo, sia pure con produzione del bene o servizio in
termini di economicità, in settori dove il mercato è carente o assente,
e che perciò è gratificata da agevolazioni fiscali. Si sarebbe pressocché
all’antitesi del fenomeno dell’impresa e dell’impresa commerciale.
Dell’organizzazione ad impresa si raccoglierebbero alcune norme: ad
es. la contabilità. Della disciplina dell’impresa si subirebbero alcune
discipline quando se ne invadesse il campo: in tema di concorrenza, e
ciò è perfettamente coerente al sistema, le discipline dell’impresa non
costituendo un complesso regolatorio compatto da applicare a chi ricopra lo status di imprenditore (status che per vero non sussiste, appunto perché si tratta di regolazione ad attività e non a soggetto). Ma
il modello di base sarebbe diverso. La “diretta strumentalità” alla Fondazione ne cancellerebbe gran parte dei connotati propriamente imprenditoriali, vuoi sotto il profilo finanziario che strutturale, e tutto si
ridurrebbe a ciclo produttivo con neutralità di remunerazione dell’investito, utile a sopperire alla carenza di mercato, e di concorrenza di
imprese sul mercato, là dove l’istanza di utilità sociale lo consiglia perché i servizi o i prodotti offerti in regime di concorrenza mancano o
non sono sufficienti o comunque non soddisfano l’esigenza o il bisogno a carattere generale riconosciuto meritevole (e da qui la stessa
ragione d’essere della Fondazione e del suo operare in quel settore).
La applicazione del modello sarebbe certamente variegata; sviluppabile anche in forma societaria, seppure con problemi, come indicherò appresso; limitata se si vuole alle attività fuori mercato, il che
forse potrà non piacere ad alcuni ma sicuramente conforterà chi sia
effettivamente sensibile alla naturale missione di ogni Fondazione; valida per la sua funzione sociale e meritevole per la linea seguita nella
– 184 –
destinazione delle ricchezze accumulatesi nelle Fondazioni. Resterebbe la confusione terminologica, o anche concettuale se si accogliesse
una nozione di impresa più vasta di quella dettata dal codice, di poco
danno peraltro quando se ne sia consapevoli.
5. Un’ultima osservazione. I problemi che ho sollevato si ripetono nelle società controllate da Fondazioni bancarie? In parte sì, in
parte no.
L’art. 6, 1° comma parrebbe rigoroso. Le Fondazioni bancarie
possono detenere partecipazioni di controllo solamente in enti e società che abbiano per oggetto esclusivo l’esercizio di imprese strumentali. Gli stivali polverosi, tradizionale simbolo di chi frequenta i mercati, non sono ammessi neanche dalla porta di servizio nel salotto di
chi è fuori mercato. La adozione della forma societaria, e l’accettazione di azionisti di minoranza, permette, o impone però tante cose. Anzitutto la società è un forma d’esercizio collettivo o entificato di impresa. Imputarle una sostanzialmente non impresa come la impresa
strumentale lascia perplessi. L’intero sistema di organizzazione patrimoniale adesso rafforzato nella riforma del 2003 finirebbe con l’essere
almeno in parte ultroneo. Le capacità di espansione applicativa, di camuffamento, della struttura della società per azioni sono comunque –
come dimostra la loro storia – notevoli. Nel rispetto seppure talora
faticoso della forma, il modello funzionale di gestione di attività economica può trasformarsi anche in modello funzionale di gestione di
attività non economica. L’esperienza delle società a partecipazione statale talora ne è stata dimostrazione. E sotto questo profilo il richiamo
all’economicità di gestione acquisisce ben più pregnante significato.
Non sono aduso all’assistenza di Fondazioni bancarie. Mi consta peraltro che in massima parte, se non sempre, le Fondazioni non abbiano avviato imprese strumentali ma abbiamo costituito o partecipino
in società. Ciò si spiega – devo credere – con l’applicazione più elastica del modello consentita dall’adozione della forma societaria. Attendo peraltro con curiosità il dibattito che certamente si aprirà quando
una Fondazione costituisca una società per azioni mirata ad operare
nel settore ammesso avente ad oggetto “la realizzazione di lavori pubblici o di pubblica utilità” (come mi risulta legittimo ai sensi della integrazione al d.lgs. 153 provocata dall’art. 7 della legge 166/2002). Dovrà allora precisarsi cosa si intenda per realizzazione di lavoro di pubblica utilità tramite impresa strumentale di una società controllata da
una Fondazione (si badi bene, non per erogazione da una Fondazione). Temo che come spesso è successo, il modello della società per
– 185 –
azioni finirà per fare la parte del leone; e ci ritroveremo con ben più
semplici e lineari applicazioni di Stiftungsunternehmen, filtrate tramite una società per azioni per comodità gestionali, finanziarie e contabili. Il mio pasticciato discorso sulla singolarità ed eterodossia della
c.d. impresa strumentale si dimostrerà così fortunatamente inutile. E
ciò, a chiusura di discorso, conferma la mia diffidenza, se volete forse
ingenua, per istituti sufficientemente ambigui che comunque finiscono per inquinare la linearità e la trasparenza del mercato.
BERARDINO LIBONATI
–1–
CASSAZIONE, 6 febbraio 2004, n. 2301
Pres. VITTORIA, Rel. SPIRITO
La liberazione del fideiussore per fatto del creditore, ai sensi dell’art. 1955 c.c., si verifica in conseguenza della colposa violazione, da parte del creditore, di un dovere imposto da una norma di legge o dal contratto, tale da causare al garante un pregiudizio giuridico, quale la perdita del
diritto di surrogazione o di regresso, restando per contro irrilevante ogni
comportamento del creditore che sia fonte per il fideiussore di un mero
pregiudizio economico o che comporti una maggiore difficoltà per far valere i diritti allo stesso spettanti. (1)
La decadenza dalla fideiussione (prevista dall’art. 1957 c.c. per il
caso in cui il creditore, entro sei mesi dalla scadenza della obbligazione
principale, non abbia proposto le sue istanze contro il debitore), può verificarsi, se il debito principale è ripartito in scadenze periodiche, in relazione a ciascuna scadenza se ogni pagamento sia stato considerato come debito autonomo; se invece l’obbligazione è unica e la divisione in rate costituisce solo una modalità per agevolare una delle parti – come nel caso
di un mutuo, le cui diverse rate di restituzione non costituiscono autonome e distinte obbligazioni, bensì l’adempimento frazionato di un’unica
obbligazione – il debito non può considerarsi scaduto prima della scadenza dell’ultima rata. (2)
(Omissis) – Svolgimento del processo.
La Banca Popolare di Mussomeli concesse al C. un mutuo per
l’acquisto di un’autovettura dalla SCALB, pattuendo la restituzione
rateale a mezzo di 18 pagherò cambiari. Contestualmente la SCALB
stipulò con la banca un contratto di fideiussione per garantire tutto
quanto dovuto dal C. in dipendenza del menzionato finanziamento.
Successivamente la Banca Popolare Sant’Angelo, avendo assorbito il
sopra citato istituto di credito e facendo valere la fideiussione, convenne in giudizio la SCALB perché fosse, condannata al pagamento dell’importo corrispondente alle rate di mutuo non assolte dal C. Il Tribunale di Caltanissetta accolse la domanda con sentenza che fu poi confermata, a seguito di gravame della SCALB, dalla Corte d’appello della
stessa città.
La SCALB propone ora ricorso per la cassazione della sentenza
della Corte d’appello nissena, svolgendo due motivi. Non resiste la Banca
Popolare S. Angelo nel giudizio di legittimità.
–2–
Motivi della decisione – Con il primo motivo – nel quale è lamentata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1949, 1955, 2697 c.c., 2
e 7 R.D1. n. 436 del 1927, nonché l’omessa contraddittoria ed insufficiente motivazione su punti decisivi – la ricorrente censura quel punto
della sentenza in cui è stato escluso che il fideiussore (la stessa SCALB)
fosse stato liberato ex art. 1955 c.c. dalla garanzia offerta per fatto del
creditore (la Banca). Sostiene, invece, che, nell’ambito delle pattuizioni
effettivamente stipulate, l’inerzia del creditore non solo costituì un’evidente violazione dell’obbligo di sperimentare tempestivamente l’azione esecutiva speciale di cui all’art. 7 dei R.D.L. n. 436 del 1927 ma fu
anche fonte di svantaggio per il garante, essendo stata intrapresa l’azione speciale non a seguito del mancato pagamento di una delle rate pattuite, bensì dopo che erano scadute tutte le rate convenute. Né vale –
aggiungo la ricorrente – la mancata richiesta da parte sua dei titoli di
credito insoluti da parte della stessa alla banca, sia perché non esiste un
obbligo in tal senso, sia perché l’obbligo di comunicazione al fideiussore del sopravvenuto inadempimento era a carico della banca creditrice.
Il motivo è infondato e va respinto.
La ricorrente ribadisce in questa sede un motivo d’appello già respinto dalla sentenza impugnata con motivazione congrua e logica,
nonché sulla base di principi giuridici corretti. Nella specie, il giudice
di merito ha accertato che la Banca assunse il comportamento che giuridicamente le era dovuto assumere, esperendo sia l’azione speciale ex
art. 7 dei R.D.L. n. 436 del 1927 (ma il sequestro del veicolo non fu
eseguito, poiché il mezzo era stato coinvolto in una rapina e bruciato),
sia l’azione cambiaria contro il C. (ma l’ufficiale giudiziario redasse verbale di pignoramento negativo, non essendo stati rinvenuti presso il
debitore beni di qualche valore economico).
Quanto, poi, alla circostanza che la Banca abbia esperito la menzionata azione speciale solo alla scadenza dell’ultima rata, benché il C.
ne avesse già lasciato insolute molte in precedenza, la Corte territoriale
l’ha giustamente valutata come una mera inerzia non configurante la
colposa violazione di un dovere giuridico. Ciò, in quanto, per un verso,
l’azione stessa non è soggetta a particolare termine e, per altro verso,
essa ha avuto cattivo esito non per fatto imputabile alla Banca, ma per
l’avvenuta distruzione del veicolo da sequestrare.
Per il resto, la Corte territoriale s’è adeguata al consolidato orientamento di questa S.C. secondo cui, per il verificarsi della liberazione
del fideiussore per fatto del creditore, ai sensi dell’art. 1955 c.c., è necessario che questi incorra nella colposa violazione di un dovere giuridico imposto da norma di legge o di contratto (Cass. 11 ottobre 1978,
–3–
n. 4546) e che abbia con il suo comportamento causato al garante un
pregiudizio giuridico e non soltanto economico, ossia la perdita del
diritto di surrogazione, ex art. 1949 c.c., o di regresso, ex art. 1950 c.c.
(Cass. 5 marzo 1999, n. 1870). E nella specie ha accertato che l’unico
pregiudizio sopportato dalla SCALB è di natura economica, non potendo essa soddisfare il suo credito, in surrogazione o in regresso, per
inesistenza di beni del debitore principale. Ha pure aggiunto che la
perdita del privilegio di cui all’art 2 del citato R.D.L. non è avvenuta
per comportamento antigiuridico della Banca, ma per distruzione del
veicolo, e che, soprattutto, la società non ha dimostrato che l’incendio
fosse stato successivo alla prima data in cui era esperibile l’azione ex
art. 7 del R.D.L. n. 436 del 1927.
Infine, quanto alla questione della mancata trasmissione dalla Banca alla società fideiussore delle cambiali emesse dal C. la circostanza
che la seconda non abbia adempiuto alla propria obbligazione di garanzia esclude ogni dovere in tal senso da parte della Banca.
Il secondo motivo – dove si censurano sia la violazione e falsa
applicazione degli artt. 1957, 1375 c.c., 2 e 7 del R.D.L. n. 436 del
1927, sia i vizi della motivazione – è rivolto verso quel punto della sentenza nel quale si esclude che sia venuta meno l’obbligazione fideiussoria per violazione, da parte del creditore, del termine semestrale di cui
all’art. 1957 c.c., decorrendo quel termine dalla scadenza dell’ultima
rata. Sostiene, invece, la ricorrente che il termine di proposizione delle
istanze nei confronti dei debitore coincideva con la scadenza della prima delle cambiali sia perché il credito era assistito dal privilegio speciale, sia perché l’art. 7 del citato R.D.L. riconosce al creditore una tutela
speciale attraverso l’esecuzione dell’immediato sequestro e la successiva vendita dell’autoveicolo. Diversamente, ricorrerebbe un ingiustificato squilibrio contrattuale a favore del creditore, nonché il mancato
rispetto, da parte dello stesso, dei principio di buona fede.
Il motivo è infondato e va respinto.
Anche in questo caso la sentenza impugnata s’è adeguata al principio secondo cui la decadenza dalla fideiussione (prevista dall’art. 1957
c.c. per il caso in cui il creditore, entro sei mesi dalla scadenza della
obbligazione principale, non abbia proposto le sue istanze contro il
debitore) può verificarsi – se il debito principale è ripartito in scadenze
periodiche – in relazione a ciascuna scadenza, se ogni pagamento sia
stato considerato come debito autonomo. Ma se l’obbligazione è unica,
e la divisione in rate costituisce solo una modalità per agevolare una
delle parti, il debito non può considerarsi scaduto prima della scadenza
dell’ultima rata (Cass. 11 ottobre 1978, n. 4546; cfr. anche Cass. 23
–4–
maggio 1980, n. 3411, la quale precisa che esclusivamente nella fideiussione riguardante obbligazioni ad esecuzione periodica o ripetuta il termine di scadenza, agli effetti dell’art. 1957 c.c., è quello entro il quale
debbono eseguirsi le singolo prestazioni e non quello che segna l’estinzione dell’intero rapporto, giacché, solo in questa ipotesi, ogni prestazione relativa all’obbligazione garantita ha un suo carattere giuridicamente autonomo e segue una sorte propria in modo che non influenza
le altre, né è dalle altre influenzata; a conferma, Cass. 26 febbraio 1985,
n. 1655, in relazione alla retribuzione mensile del lavoratore subordinato, fa decorrere il termine di cui all’art. 1957 c.c. dalla scadenza di
ciascuna mensilità, considerandola una vera e proprìa obbligazione
autonoma e distinta dalle altre).
Nella specie, trattandosi di mutuo, la restituzione del capitale
mutuato e l’inerente dovere costituiscono l’effetto del contratto ed, al
contempo, causa di estinzione; ma il dovere di restituzione è differito
nel tempo, sicché il mutuo acquista il carattere di contratto di durata e
le diverse rate in cui quel dovere è ripartito non costituiscono autonome e distinte obbligazioni, bensì l’adempimento frazionato di un’unica
obbligazione. D’altronde, un mutuo in cui l’obbligazione di restituzione non fosse differita nel tempo e fosse soggetta all’arbitrio del mutuante sarebbe economicamente inconcepibile, perché inutile per il
mutuatario, il quale, essendo autorizzato a consumare la cosa mutuata
(art. 1817 c.c.), non sempre (o quasi mai) sarebbe in grado di procurarsi immediatamente l’equivalente da restituire. Ed è proprio in ragione
dell’unicità dell’obbligazione di restituzione che l’art. 1819 c.c. prevede, per il caso in cui sia stata convenuta la restituzione rateale ed il
mutuatario non adempia l’obbligo del pagamento anche di una sola
rata, che il mutuante possa chiedere l’immediata restituzione dell’intero.
Può, quindi, concludersi (come, peraltro, la sentenza impugnata
ha correttamente concluso) che il beneficio del pagamento rateale è
solo una modalità prevista per favorire il mutuatario attraverso l’assolvimento ripartito nel tempo della propria obbligazione, ma non consegue l’effetto di frazionare il debito in tante autonome obbligazioni, con
la conseguenza che il termine dell’art. 1957 c.c. decorre non dalla scadenza delle singole rate, bensì dalla scadenza dell’ultima.
Il ricorso va, dunque, rigettato, restando esonerata la Corte dal
provvedere sulle spese del giudizio di cassazione in ragione della mancata difesa, nel giudizio stesso, dell’intimata Banca. (Omissis)
–5–
(1-2) In tema di estinzione del contratto di fideiussione per fatto del
creditore
SOMMARIO: 1. Il fatto – 2. La giurisprudenza e l’art. 1955 c.c: l’estinzione della fideiussione per fatto del creditore si verifica solo in presenza di una violazione di
disposizione contrattuale o di un obbligo di legge – 3. Insufficienza della ricostruzione prevalente – 4. Fideiussione ed operazione economica – 5. Il comportamento a carico del creditore ex art. 1955: onere od obbligo? – 6. Buona fede
ed obbligo del creditore di tenere informato il fideiussiore – 7. L’art. 2037 code
civil e l’art. 48 lois 1° mars 1984 – 8. Scadenza dell’obbligazione e termine ex
art. 1957.
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione torna nuovamente ad occuparsi del contratto di fideiussione, soffermandosi in particolare sulle disposizioni di cui agli articoli 1955 e 1957 c.c., che, unitamente all’art. 1956, descrivono le speciali cause di estinzione del contratto de quo (1).
La vicenda in esame si presenta piuttosto lineare: un istituto di
credito concede ad un privato un finanziamento per l’acquisto di un’autovettura, stipulando contestualmente con la società venditrice un contratto di fideiussione a garanzia di quanto dovuto dal soggetto finanziato. Successivamente, la banca che ha incorporato l’istituto di credito
mutuante si rivolge alla società venditrice per far valere la fideiussione
stipulata, ottenendo, sia in primo grado che in appello, la condanna
della stessa al pagamento delle rate di mutuo rimaste insolute.
La società venditrice ha proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che il comportamento della banca mutuante avrebbe provocato, ai sensi dell’art. 1955 c.c, l’estinzione della fideiussione, in quanto la
banca stessa avrebbe dovuto attivarsi per esperire l’azione esecutiva
prevista da R.D.L. 436/1927 subito dopo la scadenza della prima rata e
non dopo che erano scadute tutte le rate.
2. Pronunciandosi al riguardo, il S.C. conferma il proprio consolidato orientamento che richiede, ai fini dell’estinzione della fideiussione per “fatto del creditore”, un comportamento di quest’ultimo consi(1) Speciali, si intende, perché costituiscono modalità di estinzione tipiche del
contratto di fideiussione, in aggiunta alle modalità di estinzione di ordine generale
che hanno ad oggetto l’obbligazione garantita; cfr. sul punto, in luogo di molti, BOZZI,
La fideiussione, le figure affini e l’anticresi, in Tratt. di dir. priv. diretto da P. Rescigno,
Torino, 1985, XIII, t. 5, p. 264 ss.
–6–
stente nella violazione di una disposizione legislativa o pattizia, tale da
provocare nel fideiussore un pregiudizio giuridicamente rilevante; resta, invece, del tutto irrilevante un pregiudizio meramente economico
o di mero fatto subito dal fideiussore e derivante dalla semplice inazione del creditore(2).
Si è pertanto escluso che possa integrare la fattispecie di cui
all’art. 1955 c.c. il comportamento del creditore che, pur costringendo il fideiussore ad uno sforzo più intenso per rendere operativo il diritto alla surrogazione di cui all’art. 1949 c.c., non lo renda
giuridicamente inattuabile(3); e contestualmente la giurisprudenza
(2) Così Cass. 16 giugno 2003, n. 9634, in Giust. civ. Mass.; Cass., 21 gennaio
2000, n. 675, in Banca borsa tit. cred., 2001, II, p. 431; Cass., 14 marzo 1999, n. 1870,
in Giur. it., 2000, p. 287, con nota di FELICE, Contratto di fideiussione e sua estinzione:
il fatto del creditore e la scadenza dell’obbligazione principale; Cass., 14 agosto 1997, n.
7603, in Mass. Giur. it, 1997; in Banca borsa tit. cred., 1999, II, p. 157; Cass., 11 aprile
1997, n. 3161, ivi, 1998, II, p. 380; Cass., 16 marzo 1995, n. 3080, in Mass. Giur. it,
1995; Cass., 20 agosto 1992, n. 9719, in Foro it., 1993, I, p. 2173, con nota di VALCAVI,
Sul carattere interpretativo della norma che vieta la fideiussione “omnibus” e sulla sua
applicazione retroattiva alle liti pendenti; in Giur. it., 1993, I,1, p. 1256; Cass., 27 marzo 1990, n. 2472, in Banca borsa tit. cred., 1991, II, p. 350. Analogamente la giurisprudenza di merito: cfr. Trib. Milano, 16 giugno 1994, in Banca borsa tit. cred., 1996, II,
p. 233; Trib. Pordenone, 11 maggio 1993, ivi, 1994, II, p. 565; Trib. Napoli, 25 ottobre 1983, in Dir. giur., 1984, p. 1035; Trib. Milano, 28 dicembre 1981, in Banca borsa
tit. cred., 1983, II, p. 75, con nota di MONTICELLI, Postergazione dell’ipoteca a garanzia
del debito principale e liberazione del fideiussore ex art. 1955 c. c.; App. Milano, 13
gennaio 1981, in Arch. civ., 1981, p. 322; Trib. Napoli, 22 novembre 1975, in Dir.
giur., p. 1980; App. Ancona, 25 ottobre 1966, in Banca borsa tit. cred., 1966, II, p. 573;
App. Genova, 1 dicembre 1969, ivi, 1970, II, p. 414.
(3) A titolo esemplificativo, si è escluso che possa provocare l’estinzione della
fideiussione per “fatto del creditore”: la mancata attivazione della clausola risolutiva
espressa contenuta nel contratto di locazione finanziaria e l’intervenuto fallimento del
locatario: Trib. Milano, 1 giugno 1987, in Riv. it. leasing, 1987, p. 743; il voto favorevole del creditore beneficiario della garanzia fideiussoria per l’ammissione del debitore principale al concordato preventivo: Trib. Cosenza, 19 novembre 1987, in Banca
borsa tit. cred., 1989, II, p. 492, con nota di G. SCOGNAMIGLIO, Concordato preventivo
e surrogazione del fideiussore; il comportamento del fideiussore che, assumendo
contestualmente il ruolo di amministratore e garante della società debitrice, pur se a
conoscenza della situazione patrimoniale di quest’ultima, abbia sollecitato delle dilazioni dei pagamento, poiché in tal caso il pregiudizio è ricollegabile all’attività stessa
del fideiussore: Trib. Milano, 18 gennaio 1988, in Banca borsa tit. cred., 1989, II, p.
183; la mancata opposizione del creditore, creditore anche verso una società di persone di cui il debitore è socio, all’omologazione del concordato preventivo (art. 180,
comma 2, l.f.), proposto con cessione dei beni personali di questi (art. 160, n. 2, l.f.),
perché il fideiussore, pregiudicabile dalla soddisfazione dei creditori sociali, è legittimato all’opposizione, mentre invece il creditore se non si oppone, da un lato non
–7–
ha ritenuto che in capo al creditore non sussiste alcun obbligo di
attivarsi per rafforzare la propria posizione creditoria, anche al fine
di portare vantaggio al fideiussore, interpretando così l’espressione
“fatto del creditore” nel senso di “fatto quanto meno colposo, o
comunque illecito, che abbia sottratto al fideiussore concrete possibilità esistenti nella sfera del creditore al tempo della garanzia, che
gli avrebbero consentito l’attuazione dell’obbligazione garantita”(4),
ed escludendo pertanto l’irrilevanza di ogni comportamento “negativo” dello stesso.
Nel caso di specie, la Corte osserva come sia incontestabile il fatto
che la banca si è attivata sia per esperire l’azione speciale di cui all’art.
7 del r.d.l. n. 436/1927, sia per azionare l’azione cambiaria contro il
finanziato, ma che entrambe le procedure hanno avuto esito negativo;
al riguardo, il collegio giudicante rileva che non sussiste un termine ex
lege per la procedura speciale sopra ricordata, e che l’esito negativo
della stessa non è imputabile alla banca, ma alla circostanza che il veicolo da sequestrare è stato coinvolto in una rapina e poi bruciato. In
linea con le pronunce poc’anzi ricordate, la Corte ritiene che non sia
pertanto addebitabile alla banca alcuna violazione di un dovere giuridico, aggiungendo che neanche l’immediata e tempestiva proposizione
della stessa azione speciale avrebbe condotto ad un esito diverso, stante la distruzione del veicolo.
3. L’opinione suesposta, anche se ampiamente consolidata in giurisprudenza, e accolta positivamente dalla dottrina, sia da quella più recente (5),
omette un’attività a cui è giuridicamente obbligato, ma dall’altro esercita in tal modo
il suo diritto di preferire il concordato preventivo al fallimento per soddisfare i crediti
nei confronti della società: Cass., 23 gennaio 1998, n. 656, in Fallimento, 1999, p. 45,
con nota di RAGO, Limiti di applicabilità dell’art. 1955 del codice civile nel concordato
preventivo; la mancata notifica al debitore principale dell’avvenuta cessione del credito al factor: App. Milano, 27 ottobre 1998, in Banca borsa tit. cred., 2000, II, p. 305; il
comportamento della banca che, non avendo ricevuto il pagamento delle fatture dal
debitore ceduto, a causa della mancata notifica al fideiussore della cessione dei crediti, si era rivolta nei suoi confronti per ottenere lo stesso pagamento, non riscosso a
motivo della propria omissione: Cass. 5 marzo 1999, n. 1870, cit.; la mancata iscrizione dell’ipoteca giudiziale da parte del creditore sui bene del debitore principale: Trib.
Napoli, 22 novembre 1975, cit.
(4) Così, Cass., 16 giugno 2003, n. 9634, cit.
(5) Cfr. GAZZONI, Manuale del diritto privato italiano8 Napoli, 2000, 1236; GIUSTI, La fideiussione e il mandato di credito, Milano, 1998, 264; BOZZI, La fideiussione,
le figure affini e l’anticresi, cit. p. 268; FALQUI MASSIDA, Fideiussione, in Enciclopedia
giuridica Treccani, Roma, 1989, vol. XIV.
–8–
che da quella più risalente (6), non ha mancato, comunque, di suscitare
riserve (7).
La tesi dominante – si è asserito – sembra infatti non del tutto
rigorosa, sia sotto il profilo dell’esegesi letterale, sia sotto il profilo sistematico; da una parte infatti, l’irrilevanza, a carico del creditore, di
qualsivoglia obbligo di predisporre ulteriori forme generiche di garanzia, non troverebbe conforto nella lettera della legge, posto che dal
combinato disposto degli articoli 1949 e 1955 c.c. sembra potersi desumere a carico del creditore un obbligo di “conservare anche in fatto la
pratica attuabilità del subingresso [del fideiussore], giacché la conservazione delle ragioni, ipoteche e privilegi sarebbe vana se il fideiussore
dovesse appagarsi di un nudo titolo il quale non producesse poi alcun
effetto utile” (8).
Dall’altra parte, si è sottolineato come sia determinante, ai fini di
una corretta comprensione del sistema, una lettura dell’art. 1955 c.c.
che consideri, da un lato, l’art. 1949 c.c, che assicura la surrogazione
del fideiussore nei diritti, e dall’altro, il principio di buona fede e correttezza di cui all’art. 1175 c.c.(9).
4. In realtà, la tesi prevalente sembra peraltro insoddisfacente
anche alla luce di ulteriori elementi. Si è infatti osservato – seppur con
riferimento al diverso problema della validità della fideiussione omnibus (10) – che “il contratto di fideiussione si configura infatti nella realtà
(6) RAVAZZONI, La fideiussione, Milano, 1957, p. 57; FRAGALI, Fideiussione. Mandato di credito, in Comm. del cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1968, p. 468
ss. L’indirizzo espresso nella pronuncia in esame affonda peraltro le sue radici nell’interpretazione giurisprudenziale formatasi, nella vigenza del codice civile del 1865, in
relazione all’art. 1928, che dell’attuale articolo 1955 costituisce l’antecedente: cfr. Cass.,
26 aprile 1937, n. 1318, in Riv. dir. priv., 1937, II, p. 141; App. Roma, 27 maggio 1890,
in Temi rom., 1890, p. 446; App. Torino, 24 febbraio 1891, in Giur. torinese, 1891, p.
304; Cass. Firenze, 18 luglio 1887, in Temi ven., 1887, p. 457; App. Catania, 16 aprile
1895, in Foro catanese, 1895, p. 104; per la dottrina formatasi sul codice del 1865, cfr.
CAMPOGRANDE, Fideiussione, in Digesto Italiano, Torino, 1892-1898, vol. XI, p. 158,
spec. 191 ss.; VENZI, Diritto civile italiano, Torino, 1938, p. 453.
(7) C.M. BIANCA, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994, p. 500; cfr.
altresì G. SCOGNAMIGLIO, Concordato preventivo, cit., p. 496, che definisce l’orientamento dominante come “(forse eccessivamente) restrittivo”.
(8) Così GIUSTI, La fideiussione e il mandato di credito, cit., p. 266; C.M. BIANCA, op. ult. cit. p. 501; DI BENEDETTO, Diritto civile2, Sant’Arcangelo di Romagna, 2002,
p. 899.
(9) DI BENEDETTO, op. ult. cit., p. 899.
(10) Cfr. sul punto M. VIALE, Le garanzie bancarie, Padova, 1994, p. 21 ss.
–9–
dei traffici come trilatero” (11); si è cercato, in altri termini, di descrivere il contratto di fideiussione in modo da coglierne, in concreto, la complessiva “funzionalità” derivante dagli interessi delle parti coinvolte (12).
Quanto sopra, del resto, appare significativamente messo in evidenza
da quella parte della dottrina che negli ultimi tempi ha dedicato particolare
attenzione alla figura della operazione economica, intesa come “sequenza
unitaria e composita che comprende in sé il regolamento, tutti i comportamenti che con esso si collegano per il perseguimento dei risultati voluti, e la
situazione oggettiva nella quale il complesso delle regole e gli altri comportamenti si collocano, poiché anche tale situazione concorre nel definire la
rilevanza sostanziale dell’atto di autonomia privata” (13).
Il concetto di operazione economica sembra peraltro pienamente
riconosciuto dalla giurisprudenza, che in più di un’occasione ha sottolineato come il risultato complessivo cui tendono le parti coinvolte in
una operazione economica non possa considerarsi semplicemente come
(11) Così GAZZONI, Manuale del diritto privato, cit., che evidenzia, peraltro, come
in relazione alla questione in esame, l’Abi, attribuendo altresì rilievo ai rapporti tra
creditore e fideiussore, ha dettato una serie di regole, nell’ambito delle norma bancarie uniformi, in base alle quali la banca-creditrice si impegna a trasmettere al fideiussore
che ne faccia richiesta informazioni circa l’esposizione del debitore garantito; in senso
analogo anche GIUSTI, La fideiussione e il mandato di credito, cit., p. 266-267, che, in
riferimento all’art. 1955 c.c., afferma che “la norma concorre a un disegno dell’obbligazione fideiussoria in termini di rapporto complesso, all’interno del quale l’obbligo
di garanzia del fideiussore è solo in nucleo fondamentale di una struttura integrata da
una serie di situazioni soggettive ad esso funzionalmente connesse”.
(12) Per la rilevanza di tale profilo, cfr. E. GABRIELLI, Studi sui contratti, Torino,
2000, p. 737; PERLINGERI, Nuovi profili del contratto, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 232;
analogamente, Cass., 27 aprile 1995, n. 4645, in Giust. civ., 1996, I, p. 1093, con nota di
CHINÈ, Il collegamento contrattuale tra tipicità ed atipicità, individua il criterio distintivo
tra contratto unico e contratto collegato, nella “unicità o pluralità degli interessi perseguiti”; NIUTTA – JOVINO, Contratto preliminare di compravendita immobiliare assistito
dalla polizza fideiussoria con clausola “solve et repete”: la funzione complessiva dell’operazione economica si riflette sulla causa dei singoli negozi giuridici che la compongono,
nota a Trib. Roma 6 novembre 1999, in questa Rivista, 2001, II, p. 59.
(13) E. GABRIELLI, Il contratto e l’operazione economica, in Riv. dir. civ., 2003, I,
93, 95. Il tema del rapporto tra contratto e operazione economica, in realtà, si presenta particolarmente complesso e intriso di risvolti assai significativi, soprattutto con
riferimento al profilo degli interessi delle parti coinvolte nell’operazione economica;
data la natura del presente lavoro, è possibile fornire solo alcune indicazioni
bibliografiche essenziali: cfr., al riguardo, PALERMO, Divergenza e incompatibilità tra
tipo negoziale e interesse perseguito, in Scritti in onore di Santoro-Passarelli, Milano,
1972, III, p. 641; C. SCOGNAMIGLIO, Intepretazione del contratto e interesse dei contraenti, Padova, 1992, passim (ma spec. p. 255 ss.); DE LUCA, L’interpretazione del contratto nell’analisi economica del diritto, in L’interpretazione del contratto nella dottrina
italiana, a cura di Irti, Padova, 2000, p. 475.
– 10 –
la somma delle singole operazioni che “compongono” l’operazione stessa (14).
5. Il tentativo di ricostruzione del contratto di fideiussione (rectius, del rapporto nascente tra i soggetti coinvolti in un contratto di fideiussione) in termini di operazione economica si riflette – è opportuno sottolinearlo – in maniera significativa sulla natura e sulla qualificazione giuridica dei comportamenti delle parti coinvolte nell’operazione complessivamente considerata.
In particolare, quanto da ultimo evidenziato sembra riflettersi con
una certa intensità sulla questione, assai controversa in dottrina, relativa all’esatta qualificazione del comportamento che il creditore è tenuto
ad osservare – pena, la perdita, per il fideiussore, del diritto di surrogazione, ex art. 1949 c.c., e per il creditore stesso, della garanzia fideiussoria, ai sensi dell’art. 1955 – e cioè se trattatasi di un obbligo o di un
onere. Un tentativo di ricostruzione della fattispecie in esame, a mio
avviso, può tentarsi, cercando di evidenziare come il principio di correttezza nell’esecuzione dell’obbligazione non possa, nel caso di specie, ritenersi meramente confinato al rapporto tra fideiussore e debitore, ma si estenda anche ai rapporti tra il primo ed il creditore.
È opportuno preliminarmente rammentare, al riguardo, la nota
divergenza di opinioni che si palesa in dottrina in merito all’interrogativo testè richiamato, ed è altrettanto significativo che la diversa soluzione adottata – se trattasi di un obbligo (15) o di un onere (16) – con(14) Cfr., Cons. Stato, Sez VI, 14 gennaio 2002, n. 150, in Foro amm. – CDS,
2002, p. 147; Cass., 29 settembre 1999, n. 10685, in questa Rivista, 2000, II, p. 255,
con nota di AZZARO, Pegno “rotativo” e operazione economica; Cass., 25 marzo 1999, n.
2801, in Giust. civ. 2000, I, p. 1801, con nota di CANNELLA, Revocatoria fallimentare di
negozi collegati; Cass., 23 marzo 1996, n. 2558, in Giur. it., 1997, I, 1, p. 950; Cass., 17
maggio 1991, n. 5571, in Giust. civ., 1991, I, p. 2973; Cass., 18 gennaio 1988, n. 321,
ivi, 1988, I, p. 1214; Trib. Palermo, 3 ottobre 2000, in Dir. fall., 2002, II, p. 768.
Peraltro, in alcune pronunce è possibile rilevare un utilizzo della locuzione “operazione economica” come sinonimo di “affare”: cfr. Cass., 19 luglio 2002, n. 10558, in
Mass. Giur. it., 2002; Cass., 27 marzo 1996, n. 2715, in Contratti, 1997, p. 273; App.
Monza, 13 gennaio 2000, in Giur. milanese, 2000, p. 179. Diverso, invece, l’atteggiamento tenuto in materia tributaria: cfr. Cass., 15 giugno 1999, n. 5935, in Fisco, 2000,
p. 6699; Cass., 13 novembre 1996, n. 9938, in Foro it., 1997, I, p. 1206; Giur. imposte,
1997, p. 211. Appare in maniera piuttosto chiara come le problematiche in argomento rappresentano una parte dell’ampio dibattito in tema di contratti collegati; cfr, sul
punto, FERRANDO, I contratti collegati, in Nuova giur. civ., 1986, II, p. 256.
(15) VILLANI, “Fatto del creditore” ed estinzione della fideiussione, in Riv. trim.,
1971, p. 309; SILVESTRONI, Estinzione della fideiussione per fatto del creditore ed
inestensibilità dell’art. 1955 all’avallo, in Banca borsa tit. cred., 1977, II, p. 22.
(16) Di onere nell’interesse altrui (del fideiussore) si tratta secondo RAVAZZONI,
La fideiussione, cit., p. 50; FRAGALI, Fideiussione. Mandato di credito, cit., p. 309.
– 11 –
duce a porre su un piano del tutto differente l’elemento psicologico
alla base della condotta del creditore: come elemento costitutivo della
fattispecie, nel primo caso, come affatto irrilevante, nel secondo.
Non è questa la sede per ripercorrere analiticamente i profili problematici relativi alla classificazione dogmatica delle figure dell’obbligo-dovere e dell’onere; basta, ai nostri fini, riportarsi alle argomentazioni più diffuse nella dottrina specialistica che, in linea di prima approssimazione, tendono a descrivere l’onere come comportamento necessitato al fine di condurre l’onerato ad una posizione di ulteriore vantaggio (17), mentre individuano l’elemento qualificante dell’obbligo in
un comportamento necessitato imposto in ragione della tutela di un
interesse del terzo (18).
Nel caso di specie, l’art. 1955 pone a carico del creditore la necessità di tenere un dato comportamento al fine di evitare che il fideiussore subisca il danno derivante dall’impossibilità di surrogarsi nei diritti
del creditore stesso, ponendosi pertanto in legame diretto con l’art.
1949 c.c.; il creditore deve, quindi, far sì che il fideiussore non subisca
pregiudizio da un proprio comportamento. Ora, ripercorrendo le caratteristiche strutturali delle figure dell’onere e dell’obbligo, e soprattutto avendo a mente che queste divergono tra loro, soprattutto, ma
non solo, in ragione del diverso interesse tutelato – di chi agisce (l’onerato), nell’onere, di chi, terzo, è straneo al rapporto contrattuale, nell’obbligo – sembra che configurare il comportamento descritto nell’art.
1955 c.c. come onere non tenga in dovuto conto il fatto che è proprio il
fideiussore, con il mancato subingresso nei diritti del creditore, a subire il danno dal comportamento del creditore (19). Quest’ultimo, infatti, vantava una garanzia a tutela del proprio credito, che però si estingue in conseguenza di un proprio comportamento: attribuire ad un
siffatto comportamento la qualifica di onere significherebbe considerare la “mancata estinzione” della fideiussione come il “risultato” cui
tenderebbe il creditore stesso. Ciò non sembra coerente soprattutto in
relazione ad un profilo, per c.d., sistematico: il risultato cui tende l’one(17) GELATO, Onere, in Digesto IV, Disc. Priv. – sez. civ., XIII, Torino, 1995,
pp. 59, 62.
(18) Cfr., da ultimo, G. TERRANOVA, La struttura delle situazioni soggettiva: contributo ad una semantica dell’obbligo, in Europa e dir. priv., 2002, p. 511; NIGLA, Ai
confini tra diritto privato e legislazione comunitaria. La teoria dell’obbligo interpretativo,
in Riv. trim., 2001, p. 65.
(19) BETTI, Dovere giuridico, in Enciclopedia del diritto, XIV, Milano, 1965, p.
53, ritiene (p. 57) che nell’onere “la molla dell’azione è data dalla necessità o coazione
che la situazione degli interessi esplica su chi è chiamato ad agire, e il pregiudizio
dell’azione mancata o deficiente è logicamente risentito da lui stesso”.
– 12 –
rato, infatti,è stato sostanzialmente identificato nel raggiungimento e
nel conseguimento di una posizione ulteriore, qualitativamente e quantitativamente diversa, da quella nella quale egli già si trova (20).
6. Alle suddette considerazioni è opportuno aggiungere alcune
ulteriori riflessioni.
Una prospettiva, infatti, che descriva il contratto di fideiussione
come operazione economica non sarebbe scevra di significative conseguenze in merito, soprattutto, ma non esclusivamente, alle relazioni
intercorrenti tra le parti coinvolte nell’operazione così descritta. Nella
prospettiva poc’anzi descritta, in altri termini, la “trilateralità” dell’operazione di fideiussione costituirebbe il meccanismo per far emergere,
anche in ambito extracontrattuale, doveri la cui rilevanza è, generalmente, confinata nell’ambito del rapporto contrattuale. Si considerino,
peraltro, i più recenti orientamenti giurisprudenziali che individuano il
nucleo fondante del principio di buona fede nella sussistenza – tra l’altro – di una serie di obblighi di natura, lato sensu, informativa (21); in
tale prospettiva, sembra potersi affermare che, nel caso di specie, il
generico dovere di correttezza e di buona fede si concretizza in un dovere del creditore di informare il fideiussore delle vicende del rapporto
obbligatorio che lo lega al debitore; in altri termini, la rilevanza del
principio di correttezza dovrebbe indurre il creditore a tenere il fideiussore informato delle vicende (comprese eventuali anomalie e/o difficoltà che dovessero sorgere in relazione all’adempimento dell’obbligazione garantita) concernenti il complesso dell’intera operazione economica composta, da un lato, dalla fideiussione, e dall’obbligazione garantita, dall’altro.
Il punto è particolarmente delicato: informare il fideiussore delle
anomalie e delle difficoltà che si prospettano nell’esecuzione dell’obbligazione garantita non significherebbe altro – ad avviso di chi scrive –
che ipotizzare a carico del creditore un obbligo di attivarsi per rappresentare al fideiussore le alternative percorribili per far sì che l’obbligazione garantita venga, comunque, adempiuta e che possa, quindi, concretizzarsi il subingresso di cui all’art. 1949 c.c. Costituirebbe, pertanto, una violazione del principio di buona fede, da intendersi nella “ve(20) GELATO, Onere, cit., p. 64.
(21) Cfr., ad esempio, la ormai copiosa giurisprudenza in merito all’obbligo dell’istituto di credito di fornire, al cliente che ne richiede copia, tutta la documentazione
relativa ai rapporti contrattuali intrattenuti con lo stesso: cfr., Cass., 27 settembre 2001, n.
12093, in Contratti, 2002, p. 122; in Fallimento, 2002, p. 718; Cass., 16 novembre 2000, n.
14865, in Corriere giur., 2001, p. 762; Trib. Milano, 9 gennaio 2001, in Foro pad., 2001, I,
p. 415; Trib. Napoli, 8 gennaio 1999, in Banca borsa tit. cred., 2001, II, p. 306.
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ste” peculiare sopra indicata, il comportamento del creditore che pregiudichi al fideiussore il subingresso di cui all’art. 1949, e questo – si
intende – a prescindere dal fatto che sia attuato mediante azione o inazione.
Si è, del resto, perfettamente consapevoli che la rilevanza del principio di correttezza e buona fede trova il suo terreno d’elezione principalmente nell’ambito dei rapporti contrattuali, e così si esprime, del resto, la giurisprudenza dominante (22), oltre che parte della dottrina (23).
Non può, parimenti, sfuggire, che la stessa giurisprudenza si è espressa
con minore rigidità nell’applicazione di alcuni istituti che il nostro codice
disciplina per il singolo rapporto obbligatorio; si fa riferimento, ad esempio, all’eccezione di inadempimento nell’ambito dei contratti collegati,
avanzata tra contraenti legati da contratti collegati (24), o all’applicabilità dell’art. 1419 a più contratti collegati, anziché, per come testualmente
previsto, alle diverse clausole di un singolo contratto (25).
Analogamente, la più recente giurisprudenza di merito – ma anche di legittimità (26) – sembra aver mostrato una certa attenzione,
(22) Cfr., ad esempio, Cass., 8 agosto 2002, n. 5024, in Arch. civ., 2003, p. 185;
Cass., 16 ottobre 2002, n. 14726, in Danno e responsabilità, 2003, p. 174.
(23) Un’analisi accurata ed attenta ai profili storici e comparatistici dei rapporti
tra operazione economica e disciplina contrattuale è svolta da D’ANGELO, Contratto e
operazione economica, Torino, 1992, il quale (p. 279), rileva, tra l’altro, come non sia
possibile “una ricostruzione ed applicazione dei valori della buona fede avulsa dal
piano contrattuale”
(24) Cfr. Cass., 11 marzo 1981, n. 1389, in Giur. it., 1982, I, 1, p. 377, con nota
di CIRILLO, Negozi collegati ed eccezione di inadempimento; Trib. Genova, 28 dicembre 1970, in Giur. merito, 1972, I, p. 149, con nota di SPALLAROSSA, Contratti collegati
e giudizio di buona fede; in dottrina, cfr. E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Collegamento
negoziale e efficacia della clausola compromissoria: il leasing e altre storie, in Riv. trim.,
2000, 1085, spec. pp. 1093 – 1095.
(25) Cfr. Collegio Arbitrale Milano, 18 luglio 1995, in Notariato, 1996, p. 33;
Cass., 18 gennaio 1988, in Giust. civ., 1988, I, p. 1214; Cass., 30 maggio 1987, n. 4822,
ivi, 1987, I, p. 2883; Cass., 12 febbraio 1980, n. 1007, in Giur. it., 1981, I,1, p. 1537.
(26) Cass., 17 gennaio 2003, n. 611, in Mass. Giur. it., 2003; Cass., 15 marzo
1999, n. 2284, in Mass. Giur. it.; Cass., 13 gennaio 1993, n. 343 in Giur. it., 1993, I, 1,
p. 2129, con nota di SICCHIERO, Appunti sul fondamento costituzionale del principio di
buona fede. Un discorso assai complesso, peraltro, merita la questione relativa alla
valenza del principio di buona fede e correttezza nell’ambito del contratto di concessione di credito, sia con riferimento alla questione della legittimità del recesso ad nutum
da parte dell’istituto di credito sia, per converso, in relazione alla fattispecie,
diametralmente opposta, della concessione abusiva di credito; al riguardo, per il primo aspetto, cfr. App. Milano, 9 aprile 2002, in Giust., 2003, 365; per il secondo, mi
sia consentito il rinvio alle annotazioni svolte a commento di App. Bari, 17 giugno
2002, Concessione abusiva del credito e legittimazione attiva del curatore all’azione
risarcitoria, in questa Rivista, 2003, II, 183.
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nell’ambito del contratto di fideiussione, al principio di buona fede e
correttezza, ritenendo altresì rilevante, ai fini dell’estinzione della fideiussione per “fatto del creditore”, la violazione da parte di quest’ultimo, dei principi testè ricordati (27), così da attenuare la posizione del
fideiussore a fronte di comportamenti del creditore non improntati a
diligenza o comunque per nulla attenti agli interessi del fideiussore stesso(28).
A fronte di tale interpretazione, alcuni comportamenti, dapprima
irrilevanti – secondo l’interpretazione consolidata della giurisprudenza
– ai fini dell’estinzione della fideiussione per “fatto del creditore”, sa(27) Cfr. Trib. Milano, 3 gennaio 2000, in Banca borsa tit. cred., 2001, II, p. 608,
con nota di DE LUCA, Estinzione della fideiussione ex art. 1955 c.c. e ritardo sleale
nell’esercizio del diritto; Trib. Milano, 29 giugno 1989, in Giur. it., 1990, I 647; cfr.
altresì GALGANO, Diritto civile e commerciale, II, t.2, Padova, 1999, p. 484, per il quale
la regola di cui all’art. 1955 c.c. costituisce un’applicazione del principio dell’exceptio
doli. Al riguardo, per la tesi secondo la quale il principio dell’exceptio doli sia implicitamente contenuto nel nostro sistema legislativo, cfr. G. L. PELLIZZI, Exceptio doli –
Diritto civile, in Saggi di diritto commerciale, Milano, 1988, 705, spec. pp. 717-718.
(28) È noto come il concetto di buona fede (in senso oggettivo) abbia interessato in larga misura la dottrina, e come discordanti siano le posizioni sul punto; sembra
comunque che l’orientamento fatto proprio dalla giurisprudenza richiamata nel testo
possa essere ricondotto a quella dottrina che vede nella buona fede una regola di
condotta che si specifica nell’obbligo di preservare gli interesse dell’altra parte a prescindere dagli obblighi contrattuali e dal precetto del neminen laedere: così C.M. BIANCA, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir.
civ., 1983, I, p. 205; MORELLI M. R., La buona fede come limite all’autonomia negoziale
e fonte di integrazione del contratto nel quadro dei congegni di conformazione delle
situazioni soggettive alle esigenze di tutela degli interessi sottostanti, nota a Cass., 20
aprile 1994, n. 3775, Giust. civ., 1994, I, p. 2168; P. GALLO, Buona fede oggettiva e
trasformazione del contratto, Riv. dir. civ., 2002, I, p. 239; cfr., al riguardo, T.A.R.
Campania – Napoli, Sez. V, 4 luglio 2002, n. 3927, in Foro Amm. TAR, 2002, 2622.
Tale impostazione sembra, peraltro, proporre una lettura del principio di buona fede
e correttezza soprattutto alla luce del nuovo assetto politico derivante dalla Carta Costituzionale, ed in particolare dall’art. 2 della Costituzione; si è infatti in più occasioni
posto in risalto (e cfr. al riguardo La Relazione al Codice Civile, § 558) come il principio sancito dall’art. 1175 c.c., nella versione originaria del codice (“Il debitore e il
creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza, in relazione ai principi della solidarietà corporativa”: il riferimento ai “principi della solidarietà corporativa”
è stato eliminato con il d.lgs.lgt. del 14 settembre 1944, n. 287) costituisca calzante
espressione del clima ideologico e culturale che ha accompagnato la codificazione del
1942; cfr. sul punto, tra gli altri, ALPA, Pretese del creditore e normativa di correttezza,
in questa Rivista, 1971, II, p. 278; G.C.M RIVOLTA, La teoria dell’impresa e gli scritti di
Giorgio Oppo, in Riv. dir. civ., 1987, I, p. 203; LUCARELLI, Solidarietà ed autonomia
privata, Napoli, 1970, p. 197 ss.; SICCHIERO, Appunti, cit., p. 2130, e di recente, P.
SPADA, Diritto commerciale, I, Parte generale, Padova, 2004, p. 25 ss.
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rebbero per converso riconducibili, con le note conseguenze, all’ipotesi di cui all’art. 1955 c.c., che vedrebbe pertanto notevolmente ampliata la propria portata applicativa (29).
7. Di particolare interesse, in relazione al tema in esame, può risultare una ricognizione della disciplina positiva nell’ordinamento francese, nel quale l’art. 2037 del code civil francese presenta, con riferimento al fenomeno della exctinction de la caution, una formulazione
del tutto analoga a quella dell’art. 1955 (30); analoghi a quelli sollevati
dagli studiosi italiani quindi, sono stati i problemi sui quali la dottrina
francese si è dovuta misurare nel tentativo di individuare il significato
dell’espressione fait du creancier (31).
L’esperienza francese, del resto, si presenta particolarmente interessante e meritevole di qualche approfondimento in ragione della presenza di una disposizione che sembra, per alcuni versi, sovrapporsi proprio all’art. 2037 del code civil; si fa riferimento all’articolo 48 della
legge n. 84-148 del 1° marzo 1984, il quale, al primo comma stabilisce
che « Les établissement de crédit ayant accordé un concours financier à
une entreprise, sous la condition du cautionnement par une personne
physique ou une personne morale, sont tenus au plus tard avant le 31
mars de chaque année de faire connaître à la caution le montant du principal et des intérêts, frais et accessoire restant à courir au 31 décembre de
l’année précédent au titre de l’obligation bénéficiant de la caution, ainsi
que le terme de cet engagement. Si l’engagement est à durée indéterminée,
ils rappellent la faculté de révocation à tout moment et le conditions dans
lesquelles celle-ci est exercée ».
In base a questa disposizione, quindi, l’istituto di credito finanziatore – creditore, se il credito è garantito da una fideiussione, ha l’onere
di informare il fideiussore, con cadenza annuale, dell’entità del debito
residuo; e che si tratti di un onere, e non di un obbligo, sembra desumersi dal secondo comma della disposizione in esame, in base al quale:
“le défaut d’accomplissement de la formalité prévue à l’alinea précédent
emporte, dans les rapports entre la caution et l’établissement tenu à cette
formalité, déchéance des intérets échus depuis la précédent information
(29) Cfr. sul punto DE LUCA, Estinzione della fideiussione, cit., p. 611; GIUSTI,
La fideiussione, cit., p. 267.
(30) «La caution est déchargée, lorsque la subrogation aux hypothèques et privilèges
du créancier, ne peut plus, par le fait du créancier, s’opérer en faveur de la caution. Toute
clause contraire es réputée non écrite».
(31) BETANT – ROBET, La décharge de la caution en application de l’article 2037,
in Rev. trim. dr. civ., 1974, p. 309.
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jusqu’à la date de communication de la nouvelle information” (32). In
altri termini, la mancata comunicazione al fideiussore delle informazioni relative all’entità residua del debito dallo stesso garantito, importa, a
carico del creditore, la perdita dell’azione contro il fideiussore per il
recupero degli interessi: trattasi, quindi, di una sanzione che colpisce
direttamente, ed esclusivamente, il creditore.
Una conferma di quanto testè rilevato si ritrova, sotto altro profilo, nelle decisioni giurisprudenziali che sono state pronunciate sul rapporto tra l’art. 2037 code civil e la disposizione da ultimo ricordata. In
diverse decisioni, al riguardo, si è stabilito, che “sauf dol ou faute lourde
du dispensateur de crédit, l’omission des informations est sanctionnée
par la seule déchéance des intérets” (33); in presenza, quindi, di un comportamento doloso o fautive del creditore, non troverebbe applicazione l’art. 48 (le droit spécial), ma, in via residuale, l’art. 2037 (le droit
commun). In ogni caso, affermare che in presenza di una faute del creditore si applica l’art. 2037, e non l’art. 48, non significa altro, a mio
avviso, che la faute du créancier altro non è che il fait du créancier (34).
Da quanto sopra può trovare ulteriore conferma la tesi – alla quale si ritiene di aderire – in base alla quale, in capo al creditore, ex art.
1955, non sussiste un onere, ma un obbligo; di conseguenza, ai fini
della valutazione del comportamento dello stesso nei confronti del (mancato) subingresso del fideiussore ex art. 1949, appare altresì indispensabile verificare l’atteggiamento psicologico che ha sorretto il compiersi del “fatto” del creditore.
8. Anche in relazione al secondo profilo di interesse del provvedimento in esame, la Corte conferma l’indirizzo espresso in precedenti
pronunce in base al quale, ai fini della decorrenza dei termini per proposizione dell’istanza di cui all’art. 1957 da parte del creditore nei confronti del debitore, è necessario distinguere tra obbligazione ad esecuzione periodica o ripetuta, nell’ambito della quale il termine semestrale
entro il quale il creditore deve proporre la sua istanza, ai sensi ed agli
effetti dell’art. 1957 c. c., decorre dalla scadenza di ogni singola prestazione, ed obbligazione “unitaria”, nell’ambito della quale le prestazio(32) Cfr. Cour de Cassation, 6 novembre 2001, in Rev. trim. dr. comm., 2002, p.
143, con osservazioni di Cabrillac.
(33) Cour de Cassation, 25 aprile 2001, in Rev. trim. dr. civ., 2001, p. 922, con
observations di Crocq; Cour de Cassation, 6 novembre 2001, cit.
(34) Per una puntuale descrizione dei rapporti tra l’art. 48 della legge 1° marzo
1984 e l’art. 2037 code civil, cfr. JOBARD – BACHELLIER e BREMOND, De l’utilité du droit
de la responsabilité pour assurer l’équilibre des intérets des contracts, in Rev. trim. dr.
comm., 1999, p. 327.
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ni periodiche (le rate, nel caso in commento) costituiscono solo una
modalità di pagamento per agevolare una parte, ed in relazione alla
quale il termine per la proposizione delle istanze di cui sopra decorre
dal pagamento dell’ultima prestazione (35).
Sottolinea, infatti, la Corte che, nella vicenda in esame, la restituzione di quanto mutuato costituisce “l’effetto del contratto ed, al contempo, causa di estinzione”, e che, essendo l’obbligo di restituzione differito nel tempo, “il mutuo acquista carattere di contratto di durata e le
diverse rate in cui quel dovere è ripartito non costituiscono autonome e
distinte obbligazioni, bensì l’adempimento frazionato di un’unica obbligazione” (36). È del resto connaturato alla natura stessa del contratto
di mutuo la circostanza che l’obbligo di restituzione della somma mutuata possa essere oggetto di restituzione differita nel tempo, ponendo
peraltro lo stesso codice civile la regola di cui all’art. 1819 c.c. nel caso
di inadempimento del debitore alla restituzione di una singola rata.
In giurisprudenza è peraltro dominante, anche se non mancano
voci contrarie (37), l’opinione per la quale la decadenza dall’obbligazione fideiussoria disposta dall’art. 1957 può essere oggetto di rinuncia
espressa o tacita, trattandosi di materia non sottratta alla disponibilità
delle parti (38); ed analogamente si ritiene che la suddetta rinuncia non
(35) In tal senso, Cass. 6 agosto 2002, n. 11759, in Giust., 2003, 1, p. 34; Cass.,
26 febbraio 1985, n. 1655, in Foro it., 1985, I, p. 2672; Cass., 3 settembre 1982, n.
4811, in Banca borsa tit. cred., 1983, II, p. 419; analogamente, in dottrina, FRAGALI, La
fideiussione, cit., p. 498. In questa sede non può che farsi un cenno agli ulteriori temi
di indagine che possono scaturire dall’art. 1957, tra i quali, in primo luogo, può ricordarsi quello relativo alla esatta individuazione dell’attività del creditore per il verificarsi della c.d. perpetuatio obligationis a carico del fideiussore: cfr., sul punto, GIRINO,
Fideiussione e scadenza dell’obbligazione principale, in Riv. dir. civ., 1971, I, p. 544.
(36) Così GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 1123. In senso analogo,
cfr. Cass., 30 agosto 2002, n. 12707, in Giust., 2003, 2, p. 185, che ha affermato che
l’obbligo di restituzione della somma ricevuta in mutuo costituisce un debito unico, e
che sebbene possa essere tale debito possa essere rateizzato in più versamenti periodici, agli stessi non si applica non si applica la prescrizione quinquennale prevista dall’art.
2948 n. 4, cod. civ., relativa ai debiti che debbono soddisfatti periodicamente ad anno,
o in termini più brevi.
(37) Cfr. Trib. Pordenone, 11 maggio 1993, Banca borsa tit. cred., 1994, II, p.
565; Trib. Milano, 11 giugno 1986, in ivi, 1987, II, p. 216, per i quali la norma dell’art.
1957 c.c. è inderogabile in quanto espressione diretta del dovere di correttezza e buona fede; analogamente, in dottrina, VALCAVI, Se e entro quali limiti la fideiussione
“omnibus” sia valida, in Foro it., 1985, I, p. 507.
(38) Cfr. Cass., 27 marzo 2002, n. 4444, in Arch. civ., 2003, n. 69, per il quale la
clausola di deroga alla decadenza del creditore ex art. 1957 c.c. non contrasta con
l’art. 1229, comma 1, c.c. (che prevede la nullità di qualsiasi patto che esclude o limita
preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave), in quanto tale
– 18 –
debba essere approvata per iscritto né debba essere oggetto di una specifica approvazione, non costituendo una clausola vessatoria (39).
Il suddetto termine di decadenza semestrale, per contro, non trova applicazione nel caso in cui la durata della fideiussione sia correlata
non alla scadenza dell’obbligazione principale, ma al suo integrale adempimento (40); quando sia stato espressamente convenuto che la fideiussione si estingue solo con l’estinzione dell’obbligazione principale (41);
nell’ipotesi di contratto concluso da un falsus procurator (e perciò con
efficacia sospesa fino alla ratifica da parte del dominus), il termine semestrale entro il quale il creditore ha l’onere, ai sensi dell’art. 1957 c.
c., di chiedere giudizialmente l’adempimento dell’obbligazione garantita dal fideiussore (a pena di decadenza del suo diritto verso quest’ultimo), decorre non dalla data di scadenza dell’obbligazione, ma da quella
in cui la ratifica viene portata a conoscenza del creditore, giacché la
disposizione dell’art. 1399 c. c., secondo cui la ratifica dell’interessato
ha effetto retroattivo, non può esplicare influenza sul termine di decadenza della fideiussione, che avendo lo scopo di evitare la colpevole
inerzia del creditore verso il debitore principale, presuppone che il primo abbia la possibilità concreta ed attuale di proporre l’azione giudiziaria contro quest’ultimo (42).
GIANLUCA TARANTINO
clausola aggrava, anziché limitare, la responsabilità del fideiussore, che a sua volta
assume la veste di debitore nel rapporto (unilaterale) di fideiussione; Cass., 9 dicembre 1997, n. 12456, in Mass. Giur. it, 1997; Cass., 1 luglio 1995, n. 7345, ivi, 1995;
Cass., 20 agosto 1992, n. 9719, in Giur. it, 1993, I, 1, p. 1256; Cass., 28 marzo 1990, n.
2545, in Banca borsa tit. cred., 1990, II, p. 683; Trib. Milano 23 marzo 2000, in Giur.
milanese, 2003, n. 38; App. Milano, ivi, 2000, p. 222; App. Milano, 1 marzo 1996, in
Banca borsa tit. cred., 1997, II, p. 558; Trib. Crema, 2 gennaio 1993, in Foro it. 1993, I,
2175; Trib. Milano, 22 dicembre 1998, in Banca borsa tit. cred., 1989, II, p. 578.
(39) Cfr. Cass., 12 novembre 1988, n. 6142, in Giur. it., 1989, I,1, p. 990; Banca
borsa tit. cred., 1989, II, p. 412, con nota di DOLMETTA; Giust. civ., 1989, I, p. 308;
App. Milano, 31 gennaio 1996, in Banca borsa tit. cred., 1997, II, p. 309; Trib. Cagliari, 20 maggio 1994, in Riv. giur. sarda, 1996, p. 24; App. Milano, 5 febbraio 1988, in
Banca borsa tit. cred., 1989, II, p. 460; ma in senso contrario cfr. Trib. Napoli, 12
novembre 1988, ivi, 1990, II, p. 446; Trib. Biella, 29 marzo 1988, in Giur. piemontese,
1989, p. 364.
(40) Cfr. Cass., 27 novembre 2002, n. 16758, in Studium iuris, 2003, p. 376;
Cass., 19 luglio 1996, n. 6520, in Mass. Giur. it., 1996; App. Milano, 18 dicembre
2001, in Giur. milanese, 2002, p. 151.
(41) Cass., 8 settembre 1983, n. 5525, in Banca borsa tit. cred., 1985, II, p. 142;
Cass., 2 maggio 1980, n. 2899, in Rass. Avv. Stato, 1980, I, p. 791; Trib. Palermo, 14
marzo 1991, in Temi sic., 1991, 75.
(42) Cass., 20 agosto 1990, n. 8444, in Mass. Giur. it., 1990.
– 19 –
CASSAZIONE CIVILE Sezione II, 23 aprile 2004 n. 7780
Presidente CALFAPIETRA Estensore FIORE
Tomasi c. Sadler.
Il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità di un contratto
(ai sensi dell’art.1421 c.c. ) va coordinato con il principio della domanda.
Deriva da quanto precede, pertanto, che ove sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto, la cui validità rappresenti un elemento
costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare in qualsiasi stato
e grado del giudizio, indipendentemente dall’attività assertiva delle parti,
l’eventuale nullità dell’atto medesimo. Diversamente, qualora il thema
disputandum verta sulla illegittimità di questo è viziata di ultrapetizione
la dichiarazione d’ufficio della nullità per causa diversa da quella dedotta
dalla parte e costituisce domanda nuova la proposizione per la prima volta in appello della richiesta di declaratoria di nullità per un titolo diverso
da quello dedotto in primo grado.
Svolgimento del processo – Nel febbraio 1991, Diego Tomasi conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Trento, la costruzioni Fersina
di Targa Enzo e C. s.n.c., Giuliana Bott e Fabio Bertoldi, chiedendo
che si dichiarasse, anche ai fini restitutori, la nullità del contratto 26
Ottobre 1989, con cui esso attore, in proprio e nella qualità di procuratore dei fratelli Ivo, Arrigo ed Enzo Tomasi, comproprietari del bene,
aveva venduto alla società convenuta l’immobile, tavolarmente identificato nelle pp.mm. 2 e 3 della p. ed. 1591 C.C. Cognola, nonché la
nullità del successivo contratto 2 Gennaio 1991, con cui quella società,
previo frazionamento dell’immobile, ne aveva venduto una parte ai
convenuti Bott e Bertoldi.
Sosteneva, infatti, che l’immobile presentava delle irregolarità edilizie, tali da determinare la nullità dei contratti, ai sensi dell’art. 17,
Legge 28 Febbraio 1985, n. 47.
I convenuti si costituivano e resistevano alle domande, deducendo anche la temerarietà della lite.
Ordinata ed eseguita l’integrazione del contradditorio nei confronti dei fratelli Ivo, Arrigo ed Enzo Tomasi, si costituivano soltanto i
primi due, contestando qualsivoglia loro responsabilità in ordine alla
dedotta nullità contrattuale e chiedendo, in subordine, che l’attore li
manlevasse.
Con sentenza del 21 settembre 1994, il Tribunale di Trento di-
– 20 –
chiarava la nullità dei contratti in oggetto e condannava i convenuti a
restituire all’attore i beni compravenduti.
La Società Costruzioni Fersina di Targa Enzo e C. interponeva
gravame.
Interponevano gravame altresì Giuliana Bott e Fabio Bertoldi.
Diego Tomasi, Arrigo Tomasi ed Ivo Tomasi resistevano ai gravami.
Enzo Tomasi era contumace.
Nel processo, svolgevano intervento volontario Giuliano Sadler
ed Andrea Sadler, da un lato, quali aventi causa della società Costruzioni Fersina di Targa Enzo e C. nonché Dario Bonfioli e Clara Carlini, da
altro lato, quali aventi causa di Diego Tomasi.
Con sentenza del 17 Novembre 2000, la Corte di Appello di Trento, in riforma della decisione del primo giudice, rigettava le domande
di Diego Tomasi e lo condannava al pagamento delle spese dei due
gradi di giudizio in favore della società Costruzioni Fersina di Targa
Enzo e C., nonché di Giuliana Bott, Fabio Bertoldi, Giuliano Sadler ed
Andrea Sadler. Le spese relative agli altri rapporti processuali erano
invece compensate.
Rilevava in primo luogo la Corte l’insussistenza della nullità dedotta, di cui all’art. 17, legge 28 Febbraio 1985, n. 47, posto che tale
nullità riguardava gli atti relativi ad edifici o loro parti strutturalmente
autonome, la cui costruzione fosse iniziata dopo l’entrata in vigore della medesima legge, mentre, nella specie, le irregolarità edilizie, in prime
cure ritenute non sanate dalla concessione indicata nell’atto di vendita
(: sopraelevazione di circa cm. 30 del tetto; realizzazione di una finestra
nella falda del tetto; realizzazione di una porta finestra in luogo di una
finestra; realizzazione di tramezze interne non previste nel progetto
originario), non avevano alcuna autonomia strutturale rispetto all’edificio iniziato a costruire diversi anni prima dell’entrata in vigore della
legge 28 Febbraio 1985, n. 47. Osservava, poi, che dalla dichiarazione
sostituiva di atto notorio in atti, proveniente dallo stesso Tomasi, l’edificio risultava essere stato ultimato al grezzo, nell’ottobre del 1983, compresa la copertura, così che le ipotizzate irregolarità della sopraelevazione del tetto e dell’apertura in esso di una finestra dovevano ritenersi
già realizzate in quel tempo, prima dell’entrata in vigore della legge
citata. Osservava, altresì, che la domanda di condono, allegata all’atto
di vendita, nella quale era indicata come data di completamento dell’opera l’anno 1983, costituiva “ulteriore conferma della circostanza
che le difformità rispetto alle originarie concessioni fossero state completate in epoca anteriore alla entrata in vigore della legge sul condono”. Concludeva, quindi, per il diniego della nullità dell’atto di vendita
– 21 –
tra il Tomasi e la Società Costruzioni Fersina di Targa Enzo e C., in data
26 ottobre 1989, diniego che riteneva assorbente rispetto a tutte le altre
questioni, sollevate in giudizio. Esponeva, infine, la mancanza di prova
di danno da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. e regolava le spese
di giudizio.
Per la cassazione di tale sentenza, Diego Tomasi ha proposto ricorso in forza di cinque motivi.
La società Costruzioni Fersina di Targa Enzo e C. ha resistito con
controricorso ed ha proposto ricorso incidentale condizionato in forza
di un unico motivo.
Giuliana Bott e Fabio Bertoldi hanno resistito anch’essi con controricorso ed hanno proposto ricorso incidentale condizionato in forza
di un unico motivo.
Giuliano ed Andrea Sadler hanno resistito anch’essi con controricorso ed hanno proposto ricorso incidentale, solo in parte condizionato, in forza di tre motivi.
Le parti innanzi indicate hanno depositato memorie.
Arrigo, Ivo ed Enzo Tomasi, nonché Dario Bonfioli e Clara Carlini, non hanno svolto difese.
Motivi della decisione – 1. Preliminarmente, va dato atto della riunione dei ricorsi perché proposti avverso la stessa sentenza (art. 335
c.p.c.) e, in difformità del contrario assunto dei controricorrenti Giuliana Bott e Fabio Bertoldi, va rilevato che tali parti, col deposito del
controricorso, hanno sanato l’irritualità della notificazione del ricorso,
sì avvenuta presso il loro procuratore costituito, nello studio di lui, in
Mezzolombardo, ma non nel domicilio eletto per il giudizio, in Trento
(v. Cass. S.U. n. 925/99).
2. Dei ricorsi vanno dapprima esaminati, involgendo una questione preliminare, rilevabile d’ufficio (v. Cass. S.U. n. 212/01), quelli incidentali della società Costruzioni Fersina di Targa Enzo & C., di Giuliana Bott e Fabio Bertoldi, nonché di Giuliano ed Andrea Sadler, laddove, pur condizionandone l’esame all’accoglimento del ricorso principale, censurano la sentenza impugnata, per avere ritenuto esistente l’interesse del ricorrente all’azione di nullità esperita, in violazione dell’art.
100 c.p.c.
La censura non ha pregio.
Ed invero, difformemente da quanto raffigurato dai ricorrenti, la
Corte di merito ha fatto corretta applicazione dell’art. 100 c.p.c., rilevando in particolare che l’azione di nullità esperita “avrebbe portato
alla restituzione dell’immobile e quindi il soddisfacimento di un rile-
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vante interesse del Tomasi”, il che era stato in effetti statuito con la
decisione del primo giudice, poi riformata.
L’esperita azione di nullità del contratto, infatti, ove accolta, avrebbe
determinato (anche) la restituzione della res compravenduta al ricorrente
principale, così facendogli conseguire un risultato utile sperato e non altrimenti conseguibile se non con l’intervento del giudice; e ciò, prescindendosi dall’esame del merito della controversia e della ammissibilità della
domanda, sotto altri e diversi profili, come appunto dovuto nell’accertamento e nella valutazione dell’interesse ad agire, ai sensi dell’art. 100 c.p.c.
3. Sul ricorso principale di Diego Tomasi.
Con il primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione
dell’art. 17, legge 28 febbraio 1985, n.47, nonché difetto di motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata, per avere ritenuto che
le irregolarità edilizie riguardassero parti strutturalmente non autonome dell’edificio e che quelle riguardanti il tetto (:sopraelevazione ed
apertura di una finestra) fossero state realizzate prima del completamento di tale manufatto, nel 1983.
Sostiene, infatti, che “la motivazione sul punto dell’autonomia delle
parti è gravemente carente, perché discende da una mera impressione
del Giudice, priva del benché minimo supporto probatorio in atti... le
parti hanno sempre concordemente ritenuto il contrario .. costituisce
ius receptum che le porzioni di edificio, come gli appartamenti, sono
entità autonome ai fini edilizi... Così pure ha ritenuto in parecchi atti,
depositati in causa, l’Autorità amministrativa. Analogo ingiustificato
prevalere dell’opinione personale sui fatti affligge la motivazione della
Corte, laddove ritiene che le modifiche riguardanti il tetto (sopraelevazione e apertura della finestra) debbano essere state realizzate per evidente necessità prima del completamento del tetto ... la Corte non solo
mostra di ignorare furbizie abbastanza consuete nell’edilizia ...ma...
disattende precisi documenti in atti ...”
Il motivo non ha pregio.
Ed invero, al di là della formale prospettazione come violazione e
falsa applicazione di legge ovvero come difetto di motivazione, la censura del ricorrente si risolve, palesemente, in una sostanziale e, in sede
di legittimità, non consentita richiesta di riesame del merito della controversia, in parte qua, attraverso una nuova valutazione dei materiali
probatori, diversa da quella che la Corte di merito ha operato nell’esercizio della discrezionalità a lei attribuita, dandone motivazione specifica, come innanzi riassunta in narrativa.
L’esposta irriducibilità della censura al paradigma di alcuno dei
motivi, di cui all’art. 360 c.p.c., è ancor più evidenziata dal fatto che il
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ricorrente, in violazione dello stesso principio di autosufficienza del
ricorso per cassazione, non espone in ricorso il contenuto specifico dei
documenti, che pure assume mal valutati o disattesi dalla Corte di merito.
Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 17 e 40, legge 28 febbraio 1985, n. 47, nonché omessa
pronuncia e difetto di motivazione, il ricorrente censura la sentenza
impugnata, per non avere valutato l’assunta nullità del contratto anche
sotto il profilo della disposizione, di cui al citato art. 40, disposizione
pure oggetto di discussione, quand’anche la domanda di nullità fosse
stata inizialmente fondata sulla disposizione dell’art. 17.
Sostiene, infatti, che “proprio in riscontro dei motivi di appello,
che espressamente indicavano l’art. 40, la Corte avrebbe dovuto estendere la propria indagine all’applicabilità di detto articolo, una volta
escluso per motivi temporali che si potesse applicare l’art. 17; ciò doveva fare comunque d’ufficio...”
Il motivo non ha pregio.
La sentenza impugnata, infatti, non è incorsa negli errori di attività e di giudizio, che le vengono attribuiti, per non avere valutato una
causa di nullità del contratto ex art. 40, legge 28 febbraio 1985, n. 47,
rilevabile d’ufficio, pur non dedotta nell’atto introduttivo di lite, ma
specificamente proposta in sede di gravame.
Ed invero, nel solco del consolidato orientamento di questa
Corte in materia (v. da Cass. 3820/85 a Cass. n. 13628/01), va osservato che il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità ex
art.1421 c.c. va coordinato con il principio della domanda fissato
dagli artt. 99 e 112 c.p.c., con la conseguenza che, ove sia in contestazione la applicazione o l’esecuzione di un atto, la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto
a rilevare in qualsiasi stato e grado del giudizio, indipendentemente
dall’attività assertiva delle parti, l’eventuale nullità dell’atto medesimo, mentre, qualora il thema disputandum verta sull’illegittimità
di questo, è viziata di ultrapetizione la dichiarazione d’ufficio della
nullità per causa diversa da quella dedotta dalla parte e costituisce
domanda nuova la proposizione per la prima volta in appello della
richiesta di declaratoria di nullità per un titolo diverso da quello
dedotto in primo grado.
Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione
degli artt. 17 e 40, legge 28 febbraio 1985 n. 47, nonché omessa pronuncia e difetto di motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata, per avere omesso di decidere la questione sollevata sulla nullità
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del condono per la nullità della relativa domanda, e per avere considerato quel condono come prova della anteriorità delle irregolarità edilizie rispetto al 1983.
Al riguardo, segnatamente deduce: “...che il Tomasi abbia dichiarato
nell’atto notarile, rifacendosi al condono, e in un atto notorio, che l’immobile era stato finito nel 1983, è incontroverso. Si tratta della dichiarazione
prevista dall’art. 31 della L. 47/85. Ciò vuol dire che l’immobile era ultimato al grezzo compresa la copertura. Non certo vuol dire che non vi siano
state modifiche in seguito, su tutto l’immobile o su autonome parti di esso,
come i piani o gli appartamenti. Si veda la domanda di concessione presentata dalla soc. Fersina al Comune... si vedano la dichiarazione di abitabilità
dd. 20.4.89... confrontandoli con il doc. 1 di primo grado ... ne consegue
che resta individuato il tempo della sopraelevazione, dopo il conseguimento dell’abitabilità: la Corte ha errato nello stabilire che la sopraelevazione
(e gli altri abusi) è stata fatta prima del 1983...”
Il motivo non ha pregio, per ragioni affatto analoghe a quelle esposte nell’esame del primo motivo, cui appunto si riallaccia, al fine anch’esso di un riesame non consentito del merito, quanto soprattutto a
tempi di realizzazione ed autonomia strutturale delle parti dell’edificio, ritenute irregolari.
Ed in vero, al di là dei dati formali enunciati, indicativi di una
generica omissione di pronuncia sulla questione di nullità del condono (omissione imprecisata in termini di decisività, posto che la sentenza impugnata considera assorbita la questione della rilevata inapplicabilità dell’art. 17 legge cit., per altre ragioni, innanzi riportate),
nonché di una violazione e falsa applicazione precluse dell’art. 40,
legge 28 febbraio 1985, n. 47 (precluse dal rilievo svolto nell’esame
del secondo motivo), la censura del ricorrente si sostanzia in una inammissibile richiesta di riesame del merito della controversia, attraverso
una nuova valutazione dei materiali probatori, neppure precisati quanto a contenuto effettivo, una valutazione appunto diversa da quella
che la Corte di merito ha operato nell’esercizio della discrezionalità a
lei riservata, dandone specifica motivazione, come innanzi riassunta,
in narrativa.
Con il quarto motivo, denunciando violazione e falsa applicazione
degli artt. 17 e 40, legge 28 febbraio 1985 n. 47, nonché omessa pronuncia e difetto di motivazione, il ricorrente si duole che “anche riguardo ai
contratti derivati, la Corte ha omesso qualsiasi motivazione e considerazione in ordine alle domande degli intervenienti e alla eccezione di nullità dei contratti derivati tutti proposta dall’appellato, e qualsiasi motivazione in ordine ai documenti presentati relativi ad esse...”.
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Il motivo non ha pregio.
Ed invero, l’omissione denunciata è smentita dal disconoscimento operato dalla Corte di merito in ordine alla dedotta nullità dell’iniziale atto di vendita del 26 ottobre 1989, tra il ricorrente e la società
Costruzioni Fersina di Targa Enzo & C.
Quella smentita, infatti, non poteva non implicare sul piano logico, analoga smentita per gli atti di vendita tra la società sopraindicata
ed i suoi aventi causa, secondo successione e derivazione degli stessi da
quello iniziale, come appunto prospettato dal ricorrente.
Il motivo, dunque, non è meritevole di accoglimento e tale si presenta, altresì, siccome genericamente svolto, senza chiarimento della
stessa legittimazione del ricorrente a proporlo, nell’ipotesi si ritenesse
volto a coinvolgere in sé gli atti di vendita successivi a quello iniziale del
26 ottobre 1989, perché pregiudicati da nullità proprie.
Con il quinto motivo, infine denunciando omessa pronuncia e
difetto di motivazione, il ricorrente si duole che la “Corte non si pronuncia sulla eccezione di buona fede della parte Bertoldi Bott. Si ripropone a titolo cautelare e in vista di una eventuale decisione nel
merito quanto dedotto nella comparsa di costituzione nella causa promossa da Bertoldi e Bott, in quanto la mancata allegazione dei documenti che originava comunque la nullità derivava dalla allegazione ad
esso della domanda di condono in bianco e fuori termine del Tomasi,
e mancava il requisito di allegazione di tutte le concessioni già rilasciate...”
Il motivo non ha pregio.
Ed invero, per come svolta, priva – come è – di esposizione specifica dei fatti della causa e della posizione assunta dalle parti nel processo, la doglianza del ricorrente non consente affatto di comprendere,
puntualmente e compiutamente, sia l’oggetto che la misura ed i limiti
della questione posta all’esame di questa Corte, lacuna – questa – che
non è colmabile con le ulteriori deduzioni, svolte in ricorso, per quanto
anch’esse non contengono elementi utili alla cognizione chiara e compiuta della controversia, in parte qua.
4. Sul ricorso incidentale di Giuliano ed Andrea Sadler.
Alla censura relativa all’interesse ad agire, condizionatamente svolta
ed in principio esaminata con esito negativo, i ricorrenti incidentali
Sadler, diversamente dagli altri ricorrenti incidentali (che solo quella
censura hanno proposto), accompagnano altre due censure: la prima,
non condizionata, in punto spese processuali; la seconda, condizionata
all’accoglimento del ricorso principale, in punto irregolarità edilizie,
ritenute non sanate dal primo giudice.
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Si dolgono, infatti, che la Corte di merito, non abbia loro liquidato le spese della memoria di replica, in sede di gravame, ritenendola erroneamente depositata oltre il termine consentito, quando invece il deposito era tempestivamente avvenuto l’11 ottobre 2000, nei
cinque giorni anteriori all’udienza di discussione, fissata per il 17 ottobre 2000, e si dolgono, altresì, dell’erronea valutazione del verbale
di sopralluogo 20 settembre 1989 quanto alle supposte irregolarità
edilizie.
La seconda censura è assorbita dal mancato accoglimento del ricorso principale, cui è appunto condizionata.
La prima e non condizionata censura, invece, non ha fondamento.
Ed invero, con riguardo al processo in corso, pendente in grado
d’appello dal novembre 1995, essa censura postula, inopinatamente,
l’applicazione dell’ art. 190 c.p.c., in relazione all’art. 352 c.p.c., nel
testo anteriore alla legge di riforma n. 353 del 1990, laddove era previsto che le parti potessero comunicarsi brevi memorie di replica cinque
giorni prima dell’udienza di discussione.
Il nuovo testo dell’art. 190 c.p.c., infatti, come sostituito dall’art.
24 della citata legge di riforma, applicabile nella specie, in virtù del
principio tempus regit actum (e mancando disciplina specifica contraria, prevista invece per i nova, ai sensi dell’art. 90, comma 6, legge n.
353 del 1990), dispone che le memorie di replica debbano essere depositate entro i venti giorni successivi al termine previsto per il deposito
delle comparse conclusionali, termine – quest’ultimo – di sessanta giorni dalla rimessione della causa al collegio.
5. Conclusivamente, quindi, per le ragioni esposte, sia il ricorso
principale che quelli incidentali debbono essere rigettati.
Soccombenza reciproca giustifica la totale compensazione delle
spese del giudizio di cassazione tra tutte le parti “costituite”, nulla dovendosi invece disporre con riguardo agli intimati, che non hanno svolto alcuna difesa.
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Rilevabilità d’ufficio della nullità nel negozio giuridico
e nei contratti a favore dei consumatori
SOMMARIO: 1. La rilevabilità d’ufficio della nullità nella giurisprudenza. – 2. La
rilevabilità d’ufficio della nullità nella dottrina. – 3. Rilevabilità d’ufficio
unidirezionalmente orientata: tutela del consumatore. – 4. Critiche: a) contrasto col principio di imparzialità del giudice e del contraddittorio. – 5. Segue b)
Ratio della rilevabilità d’ufficio. – 6. Segue c) Compatibilità tra rilevabilità d’ufficio e legittimazione relativa all’azione. – 7. Conclusioni.
1. La rilevabilità d’ufficio della nullità nella giurisprudenza
La sentenza in oggetto, in merito alla rilevabilità d’ufficio della
nullità del negozio giuridico, si colloca nell’ormai costante indirizzo
della Corte di legittimità, secondo il quale ove oggetto del giudizio sia
la illegittimità del negozio non è consentito dedurre o rilevare ex officio
una nullità basata su ragioni diverse da quelle ab origine proposte dalla
parte nell’esercizio del suo diritto d’azione o di eccezione (1). La nullità invece può sempre essere rilevata d’ufficio dal giudice quando la
domanda è diretta all’esecuzione del contratto e dunque quando si facciano valere diritti che presuppongono la validità del contratto; mentre
ove la parte chieda l’annullamento, la rescissione o la risoluzione del
contratto la rilevabilità della nullità sarebbe preclusa in virtù del principio della domanda (2).
(1) La Cass. 14 Gennaio 2003 n. 435 afferma che il principio della rilevabilità
d’ufficio della nullità dell’atto va necessariamente coordinato con il principio dispositivo e con quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Pertanto quando la
parte chiede la dichiarazione di invalidità di un atto ad essa pregiudizievole, la pronuncia del giudice deve essere circoscritta alle ragioni di illegittimità denunciate dall’interessato senza potersi fondare su elementi rilevati d’ufficio o tardivamente indicati, giacché in tal caso l’invalidità dell’atto si pone come elemento costitutivo della
domanda attorea. In senso conforme: Cass. 1 Agosto 2001 n. 10498; Cass. 23 Settembre 2000 n. 12644; Cass. 08 Maggio 1996 n. 4269; Cass. 22 Aprile 1995 n. 4607; Cass.
24 Ottobre 1995 n. 11063 in Studium iuris, 1996, p. 367; Cass. 10 Ottobre 1997 n.
9877; Cass. 6 Marzo 1970 n. 578 in Foro it., 1970, I, p. 1721. In senso contrario Cass.
2 Aprile 1997 n. 2858.
(2) In questo senso: Cass. 7 Marzo 2002 n. 3345 in Foro It. 2002,I, p. 1702;
Cass. 9 Gennaio 1999 n. 117; Cass. 4 Novembre 1997 n. 10781; Cass. 22 Aprile 1995
n. 4607; Cass. 8 Maggio 1996 n. 4269; Cass. 15 Febbraio 1991 n. 1589; Cass. 23 Giugno 1990 n. 6358; Cass. 27 Novembre 1975 n. 3974; Cass. 18 Aprile 1970 n. 1127. Per
tutte Cass. 9 Febbraio 1994 n. 1340, in Foro It. 1995, p. 611 che ha affermato che la
nullità del contratto è rilevabile d’ufficio solo nella controversia promossa per fare
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La norma dell’art. 1421 c.c. – ha precisato la Corte per quel che
concerne l’attribuzione del potere di dichiarare d’ufficio la nullità –
deve essere coordinata con quella dell’art. 112 c.p.c. sicché la rilevabilità d’ufficio opera solo quando la parte chieda l’applicazione del contratto ovvero la sua esecuzione poiché diversamente opinando si violerebbe il principio dispositivo che impone al giudice il divieto di decidere su domande non proposte dalle parti al fine di non incorrere nel
vizio di extrapetizione (3).
Se la domanda è dunque il limite per la pronuncia del giudice, la
nullità potrà essere rilevata ex officio solo quando incida sugli elementi
costitutivi della domanda privandoli di fondamento ovvero quando l’attore chieda l’adempimento del contratto e non quando agisca per eliminare gli effetti del contratto con l’azione di risoluzione, rescissione o
annullabilità, con la conseguenza che il giudice, ricorrendone i presupposti dovrebbe pronunciare la risoluzione, la rescissione o l’annullamento anche se il contratto è nullo.
2. La rilevabilità d’ufficio della nullità nella dottrina
Tale orientamento, per quanto sedimentato in giurisprudenza, si
offre a critiche (4).
Ritiene autorevole dottrina che sia la domanda di adempimento che
quella di risoluzione, presuppongono un contratto valido ed efficace, e
dunque entrambe hanno a fondamento l’applicazione del contratto.
Di fronte all’inadempimento dell’obbligo di eseguire la prestazione dedotta nel negozio, la parte potrà chiedere la risoluzione o l’ademvalere diritti presupponenti la validità del contratto medesimo, non anche nella diversa ipotesi in cui sia richiesto lo scioglimento del contratto, per ragioni diverse dalla
nullità, ostandovi il divieto di pronunciare ultra petita. In senso contrario Cass. 18
Luglio 1994 n. 6710 secondo cui la nullità del contratto è rilevabile d’ufficio a norma
dell’art. 1421cc anche nel giudizio in cui una delle parti proponga domanda di risoluzione del contratto stesso, perché anche in tal caso la validità del contratto configura
un elemento costitutivo di detta domanda, la cui sussistenza o meno il giudice deve
accertare d’ufficio.
(3) Cass. 18 Aprile 1970 n. 1127 in Giust Civ. 1970, I, p. 959, ed ancora in Foro
Pad. 1971, I, p. 741, in Giur. It. 1971, I, p. 1444, in Foro It. 1970, I, p. 1907.
(4) Per un quadro esaustivo del dibattito: V. MARANO Limiti alla rilevabilità
d’ufficio della nullità del contratto in Giust. Civ. 90, p. 57 G. VIDIRI Sulla rilevabilità
d’ufficio della nullità del contratto in Giust. Civ. 1997, I, p. 2464- A. BONFIGLIO-V.
MARICONDA, L’azione di nullità in I contratti in generale in Giur. sistematica di diritto
civile e commerciale, fondata da W. Bigiavi, ivi, Torino 1991, p. 463.
– 29 –
pimento ma in entrambi i casi la domanda avrà come antecedente logico la validità del negozio poiché se così non fosse non esisterebbe neppure l’obbligo di adempiere (5).
La risoluzione, volta com’è a dirimere gli effetti del negozio, postula un negozio valido ed efficace perché altrimenti nessun effetto ci
sarebbe da eliminare.
Ove il giudice pronunciasse la risoluzione del negozio nullo, o
addirittura condannasse al risarcimento dei danni per un obbligo mai
sorto, si sostituirebbe alla legge, a quella legge che vuole il negozio
nullo privo di effetti (6).
Non solo l’azione di risoluzione ma anche l’azione di rescissione e
l’azione di annullamento presuppongono la validità del contratto i cui
effetti sono volti ad eliminare pertanto “la nullità dovrà essere rilevata
d’ufficio tutte le volte che la parte vuole utilizzare nel processo come
valido il contratto nullo” e tanto sia se l’azione esperita sia di risoluzione che di annullamento o rescissione (7).
La dottrina si è poi posta l’ulteriore interrogativo se il giudice debba
rilevare la nullità in via principale od in via incidentale al fine di non
violare il principio della domanda.
Secondo un orientamento, poiché la domanda di annullamento,
rescissione o risoluzione presenta rispetto alla domanda di nullità un
petitum ed una causa petendi diversa, solo l’accertamento incidenter
tantum consentirebbe al giudice di non violare il disposto dell’art. 112
c.p.c.
(5) N. IRTI, Risoluzione del contratto nullo? in Foro Pad.1971, I, p. 744 con
rinvii a G. STOLFI, Sopra un caso di modificazione della domanda in corso di giudizio in
Giur. It. 1948, I, 2, p. 148 – E. GRASSO, La pronuncia d’ufficio Milano, 1967, I, p. 320C.M. BIANCA, Diritto civile, Il contratto, Milano.
(6) F. AMATO, Risoluzione, rescissione, annullamento del contratto nullo? In Giur.
It. 1971, I, 1, p. 743.
(7) F. AMATO Risoluzione, rescissione, annullamento del contratto nullo? in Foro
Pad. 1971, I, p. 744. rileva che l’annullabilità consiste nella possibilità di eliminare gli
effetti ex tunc attraverso l’esercizio del potere di annullamento seguito dalla sentenza
del giudice che riconosce esistente il cosiddetto diritto potestativo. Ne consegue che
questo diritto potestativo ha come suo oggetto necessario l’esistenza degli effetti dell’atto, quindi laddove questi non sussistono perché l’atto è nullo non sussiste neppure
il diritto potestativo di annullamento. G. MASSETANI Ingiustificate limitazioni alla
rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, in Foro It. 1989, I, p. 1943 ribadisce che
la nullità del contratto è rilevabile d’ufficio sia nelle cause dirette all’adempimento
che alla risoluzione e all’annullamento poiché è come se tutte queste domande “fossero avanzate al giudice con questa premessa: poiché non sussistono ragioni di nullità
del contratto, propongo domanda di risoluzione, annullamento, adempimento”.
– 30 –
E così la pronuncia del giudice dovrebbe riguardare in via principale la domanda di risoluzione, annullamento, rescissione mentre la
nullità verrebbe rilevata d’ufficio incidentalmente al fine di negare fondamento alla domanda stessa. In tal senso perciò sarebbe d’ausilio anche l’argomentazione letterale – seppure va rilevato che non sempre la
terminologia usata dal legislatore risponde a differenziazioni di carattere sostanziale – secondo la quale l’art. 1421 c.c. avrebbe utilizzato il
termine “rilevare” e non “pronunciare”, per indicare come la nullità
deve essere fatta valere (8).
Di contrario avviso, altra parte della dottrina, rileva che nell’art.
1421 c.c. il “rilevare d’ufficio” si contrappone al “far valere da chiunque” e che le due formule non indicano tipi diversi di pronuncia ma il
modo in cui la nullità entra nel processo.
L’art. 1421 c.c. non deve perciò leggersi in concomitanza con l’art.
112 c.p.c. ma con l’art. 2907 1° comma c.c., in virtù del quale il giudice
ha l’obbligo di pronunciare – nei casi tassativamente previsti dalla legge – senza l’impulso di parte e al di là dei limiti della domanda (9).
Questa tesi è però avversata da chi fa osservare come l’art. 2907
c.c. trova applicazione soltanto nei casi in cui il giudice sia autorizzato
dalla legge a promuovere autonomamente l’azione, così derogando al
principio della domanda, e a concludere con un provvedimento l’esercizio della attività giurisdizionale come avviene nel caso della dichiarazione di fallimento pronunciata d’ufficio ad opera del giudice (art. 6
L.F.), mentre invece il potere assegnato dall’art. 1421 c.c. non può intendersi esteso fino ad iniziare senza alcuna domanda di parte la procedura tendente ad invalidare il contratto (10).
A favore della rilevabilità incidenter tantum – ove le parti non chiedano il contrario – propende anche chi osserva come “l’art. 1421 c.c.
non impone che la questione della nullità venga decisa con efficacia
piena di giudicato” e pertanto sembrerebbe più coerente una lettura
combinata dell’art. 1421 c.c. con l’art. 34 c.p.c. in virtù del quale la
(8) Secondo F. AMATO Risoluzione, rescissione, annullamento del contratto nullo? in Foro Pad. 1971, I, 1, p. 743 il petitum dell’azione di nullità è costituito dall’accertamento della inesistenza degli effetti di un determinato negozio o atto giuridico e
la causa petendi è data dalla mancanza di un titolo valido ed idoneo a produrre gli
effetti; nelle domande di annullamento, rescissione il petitum è un provvedimento
costitutivo mentre la causa petendi è costituita dal fatto che fa sorgere il diritto
potestativo alla eliminazione degli effetti.
(9) N. IRTI, Risoluzione del contratto nullo? in Foro Pad. 1971, I, p. 744.
(10) S. MONTICELLI, Fondamento e funzione della rilevabilità d’ufficio della nullità negoziale in Riv. di Dir. Civ. 1970, I, p. 701.
– 31 –
questione pregiudiziale viene decisa con efficacia di giudicato solo nei
casi in cui sia richiesto dalla legge o per esplicita richiesta di una delle
parti (11).
Sembrerebbe allora preferibile che il giudice rilevi sempre la causa di nullità, rilevandola incidentalmente ove difetti una espressa domanda.
Osserva la dottrina che tuttavia le nostre Corti sono ferree nel
disconoscere la rilevabilità incidentale della nullità come fatto diverso
dalla declaratoria di nullità eppure esemplificando per assurdo, se taluno agisse in giudizio chiedendo la risoluzione di un contratto concluso
in sogno qualsiasi giudice pronuncerebbe la improduttività di effetti
giuridici del fatto “ e tutti gli scrupoli dipendenti dal petitum e dall’oggetto originario del giudizio crollerebbero di colpo” (12).
3. Rilevabilità d’ufficio unidirezionalmente orientata: tutela del consumatore
Nelle ipotesi considerate, in cui al giudice è dato il potere di rilevare d’ufficio la nullità, questa verrà naturalmente rilevata indistintamente nei confronti di entrambe le parti del processo come è naturale
che sia per una invalidità di carattere neutrale ed astratto come è la
nullità (13).
A questo che potrebbe sembrare un principio ovvio, la dottrina, seguita dai giudici di merito, ha ravvisato una eccezione che troverebbe fondamento in seno alla legislazione in materia di tutela del consumatore.
L’avvento di una serie di norme di origine comunitaria (14) ha
segnato la crisi del criterio qualitativo a lungo utilizzato per distinguere
la categoria della nullità dalla annullabilità.
(11) G. MASSETANI, Ingiustificate limitazioni alla r. d’ufficio della nullità del contratto in Foro It. 1989, I, p. 1943.
(12) R. SACCO, Il contratto, in Trattato di diritto civile italiano diretto da Vassalli,
Torino 1975, p. 889 ed in Noviss. Dig. It., Torino 1965, p. 467: premesso come “la
pronuncia vertente su un qualsiasi effetto del negozio giuridico presupponga logicamente accertata l’attitudine del negozio a produrre l’effetto medesimo’’ sottolinea l’indirizzo restrittivo della giurisprudenza ed osserva che in tal modo la nullità o almeno
talune nullità degradano verso forme di invalidità intermedie tra nullità in senso stretto ed annullabilità.
(13) A. MAJO in Il contratto in generale – Trattato di diritto privato diretto da M.
Bessone, Giappichelli 2002 p. 129.
(14) Art. 117 d.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385; artt. 6-9 L. 192/98; L. 185/99;
art. 1469 quinquies; artt. 23-24 legge su intermediazione bancaria.
– 32 –
Tradizionalmente la nullità era intesa come mezzo per sanzionare
la lesione di un interesse pubblico facente capo alla collettività, mentre
l’annullamento sanzionava le fattispecie incidenti esclusivamente sull’interesse del singolo contraente.
Da ultimo invece la categoria della nullità è stata utilizzata a tutela
dell’interesse della parte debole del contratto ed il fondamento della
nullità è stato ravvisato non più in un interesse pubblico generale ed
astratto ma in un interesse strumentale alla soddisfazione delle esigenze del singolo contraente, che il legislatore tutela anche con lo strumento della invalidità (15).
La crisi del modello della nullità ed il suo frazionamento nelle
nullità relative e di protezione ha influito inevitabilmente sulla disciplina dei caratteri salienti della figura quali la improduttività di effetti, la
legittimazione relativa, la rilevabilità d’ufficio, la non convalidabilità e
la natura della sentenza resa dal giudice.
E così non sono più eccezionali le ipotesi in cui il legislatore ha
previsto che la nullità possa essere rilevata soltanto da una parte o ha
addirittura escluso o limitato la stessa rilevabilità d’ufficio da parte del
giudice, e ciò in virtù di un preteso favor per il consumatore – parte
debole nella contrattazione – sotteso a tutta la legislazione, espressione
non da ultimo di un principio di ordine pubblico di protezione.
Anzi, ogniqualvolta le nullità disciplinate da dette norme sono rilevabili soltanto dal consumatore, per una coerenza del sistema e conformemente alla ratio delle norme stesse, il giudice non potrà rilevarle
d’ufficio se non in quanto favorevoli alla parte debole al fine di garantire l’equilibrio contrattuale anche a favore di soggetti deboli.
Diversamente opinando “se il giudice potesse rilevare d’ufficio la
nullità illimitatamente ovvero anche nell’interesse della parte diversa
(15) G. GIOIA, Nuove nullità relative a tutela del contraente debole in Contatto e
impresa 1999, p. 1332. R. FERRO, Nuove forme di nullità, La Tribuna, Piacenza 2002 p.
106. P.M. PUTTI, La nullità parziale ESI Napoli 2002 p. 308. P.M. PUTTI, L’invalidità
nei contratti del consumatore in Dir. Priv. europeo, Padova 1997, p. 693. R. QUADRI Le
cd nullità protettive in Dir. dei consumatori e nuove tecnologie, vol. I a cura di F. Bocchini, Giappichelli, Torino 2003 p. 436; F. CARINGELLA, Studi di diritto civile, Giuffrè,
Milano 2003 p. 2343. G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, Giuffrè Editore, 1995. R. CAMEROS. DELLA VALLE, La nuova disciplina dei diritti del consumatore, Giuffrè 1999. V. ROPPO,
voce Clausole vessatorie in Enc. Giur. Roma 1996 p. 9 ss. V. ROPPO, Il controllo sugli
atti di autonomia privata in Riv. crit. dir. priv. 1985, p. 485. S. MONTICELLI, Dalla inefficacia della clausola vessatoria alla nullità del contratto, p. 577; R. TOMMASINI Nullità
in Enc. Dir., XXVIII, Giuffrè, Milano 1978, p. 876. L . FERRONI Le nullità negoziali,
Giuffrè, 1998, p. 28.
– 33 –
da quella che è legittimata ad esercitare l’azione di nullità, vi sarebbe
una esplicita e grave incoerenza del sistema che da una parte attribuisce la legittimazione solo ad una parte e dall’altra prevede la rilevabilità
d’ufficio anche nell’interesse dell’altra” (16).
Conformemente a tale prospettazione, la giurisprudenza di merito chiamata a decidere in materia di credito al consumo testualmente
recita che: “le nullità del capo VI del testo unico in materia bancaria
debbano/possano essere rilevate d’ufficio (solo) quando esse si traducano in un vantaggio per il cliente. Tale valutazione va svolta con grande prudenza ed in riferimento alla situazione concreta, ossia tramite
l’esame delle domande ed eccezioni fatte valere in giudizio: l’eccezione
potrà/dovrà sollevarsi ex officio solo quando contribuisca all’accoglimento delle istanze proposte dal cliente e non invece qualora sussista
anche solo il dubbio sul contrasto tra il rilievo della nullità e l’interesse
del destinatario della tutela o se il cliente manifesti una volontà contraria all’esperimento del rimedio” (17).
4. Critiche: a) Contrasto col principio di imparzialità del giudice e del
contraddittorio
L’impostazione della rilevabilità d’ufficio condizionata all’esito
favorevole per una parte solleva non poche perplessità.
Anzitutto ostativo alla rilevabilità condizionata a favore del contraente debole sarebbe il principio di imparzialità del giudice – principio di dignità costituzionale quantomeno pari a quello di ordine pubblico economico di protezione – che gli impone di tenere una posizione
di equidistanza rispetto alle parti, per cui il giudice non può trasformarsi in tutore della parte debole, e tale sarebbe allorquando gli si impone di rilevare la nullità solo se favorevole ad una parte, tacendo se il
contrario.
Nel rispetto del diritto di difesa, di valenza anch’esso costituzionale, il giudice non può poi violare il principio del contraddittorio e
tanto farebbe con una rilevazione del vizio condizionata all’interesse
esclusivo di una parte.
(16) G. GIOIA in Corriere Giuridico 99, p. 600; F. CARINGELLA, Studi di diritto
civile, Giuffrè, Milano 2003 p. 2335.
(17) Pret. Bologna 4 Gennaio 1999 su Corr. Giur. 99, p. 600; G. PANZARINI Sulla
nullità del contratto bancario in Contr. impresa, 1995, 2, p. 418. Contra Pret. Bologna
20 Gennaio 1998 in Foro It. 98 I, p. 653.
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In tal senso perciò una soluzione capace di conciliare il principio
posto dall’art. 1421 c.c. con il principio del contraddittorio, della domanda e della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, potrebbe
essere rappresentata dal ricorso all’art. 183 comma 3 c.p.c., in virtù del
quale il giudice indica alle parti le questioni rilevabili d’ufficio delle
quali ritiene opportuna la trattazione (18). Tanto permetterebbe al giudice di sollevare la nullità favorevole alla parte debole ma nel rispetto
del contraddittorio.
5. Segue: b) Ratio della rilevabilità d’ufficio
La rilevabilità d’ufficio della nullità unidirezionalmente orientata
appare poi contraddire la stessa ratio dell’art. 1421 c.c.
Recita l’art. 1421 c.c. che “salvo diversa disposizione di legge, la
nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile d’ufficio dal giudice”.
Al momento della emanazione del codice del 1942, la portata della
previsione legislativa – di cui non c’era traccia nel codice del 1865 – era
di non poco conto se si pensa che con essa si consentiva al giudice ed ai
terzi di incidere sulle vicende del contratto che tradizionalmente era configurato come espressione della signoria della volontà delle parti.
La giustificazione della norma veniva perciò ravvisata nella natura
stessa della nullità, preposta alla tutela di interessi di carattere generale
e di protezione dei valori dell’ordinamento.
La dottrina non mancò di mettere in evidenza che se per legge un
atto è nullo, il magistrato adito deve sempre pronunciarla, poiché diversamente opinando, applicherebbe ad un atto nullo una norma che
presuppone un atto valido, così violando la legge (19).
Altra parte della dottrina – esaminando l’evoluzione storica della
rilevabilità d’ufficio – formulò invece critiche all’idea che la rilevabilità
fosse posta come strumento di difesa dei valori fondamentali senza distinguere tra le diverse cause di nullità (20).
(18) A. PROTO PISANI, Osservazioni a Cass. 18 Aprile 1970 n. 1127 in Foro It.
1970, I, p. 1908; A. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, 1994, p. 101; C.
MANDRIOLI, Corso di diritto proc. civ. II 1993, p. 78; G. TARZIA, Lineamenti del nuovo
processo di cognizione,1991, p. 85; P. LAGHEZZA, Osservazioni a Cass. 9 Febbraio 1994
n. 1340 in Foro it. 1995, I, p. 611;
(19) G. STOLFI Sopra un caso di modificazione della domanda in corso di giudizio
in Giur It. 1948, I, 2, p. 151; P. GALLO, Dig. disc. priv. voce Nullità e annullabilità, Utet
1995 p. 293.
(20) G. FILANTI, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, ed. Jovene, Napoli
1983.
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In particolare, osservava detta dottrina, che sotto l’imperio del
codice del 1865, la rilevabilità d’ufficio era ritenuta applicabile sia all’ipotesi del negozio inesistente che del negozio nullo per contrarietà
all’ordine pubblico.
Nel primo caso, la rilevabilità d’ufficio doveva essere vista nell’ambito della normale attività del giudice che gli impone di verificare
le condizioni dell’azione, al fine di non dare corso ad una domanda
rivolta a chiedere l’esecuzione del negozio totalmente inefficace, mentre nel caso di contrarietà all’ordine pubblico – caso in cui il negozio
era considerato efficace – si giustificava con l’impossibilità che l’ordinamento apprestasse il proprio apparato giudiziario per l’esecuzione
di un atto contrastante con i suoi stessi principi fondamentali. A seguito della unitaria configurazione dei vizi dell’atto ed in particolare della
unificazione – quanto a disciplina – della inesistenza con la nullità per
contrarietà all’ordine pubblico, la ratio della rilevabilità d’ufficio venne ravvisata unitariamente nella funzione di contrastare gli atti lesivi di
interessi preminenti per l’ordinamento.
Tale impostazione era però inaccettabile poiché l’operatività della
rilevabilità era comunque condizionata all’iniziativa della parte che promuove un’azione relativa al negozio nullo e l’esigenza di ricorrere alla
nullità per sanzionare le ipotesi di illiceità non era la stessa delle ipotesi
in cui la nullità fosse comminata per la carenza di un elemento essenziale.
La rilevabilità d’ufficio aveva perciò un altro significato, ovvero
“impedire il formarsi di giudicati sulla validità del negozio nullo e, per
altro verso, eliminare un atto idoneo a suscitare affidamenti essenzialmente precari, salvaguardando così l’ordinato svolgimento del traffico
giuridico”.
Si tratterebbe in sostanza di una sanzione posta a tutela di un interesse di rango superiore a quello dei singoli ma non di un valore fondamentale del sistema (21).
Chiarisce ancora l’autore che, ove la nullità non fosse rilevabile
d’ufficio da parte del giudice, potrebbe accadere che trovi accoglimento la domanda di esecuzione di un negozio nullo – nel quale siano però
presenti gli elementi costitutivi –, il quale diverrebbe presupposto e
fondamento di ulteriori negozi, creando così una parvenza di legittimità che entrerebbe in contrasto con il principio di certezza dei traffici. I
terzi potrebbero infatti agire in ogni momento per fare dichiarare la
(21) G. FILANTI, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Napoli 1983.
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nullità del negozio originario e così quelli eventuali successivi, presupponendo l’efficacia del primo, si rivelerebbero a loro volta inefficaci.
Ove invece la nullità sia conseguenza della mancanza di un elemento essenziale del negozio, e dunque non si crei una situazione di
affidamento, il giudice pronuncerebbe la invalidità del negozio facendo ricorso semplicemente al normale potere di controllo delle condizioni dell’azione senza perciò ricorrere alla rilevabilità d’ufficio (22).
Altra dottrina nel solco dell’orientamento citato ha evidenziato
come la rilevabilità d’ufficio integri un profilo di disciplina sostanziale
del vizio della nullità e rappresenti “la logica conseguenza della inidoneità del contratto nullo a produrre effetti regolamentari degli interessi
delle parti, nonché, ad un tempo, un’opzione normativa irrinunciabile
sia per garantire l’effettività della tutela degli interessi protetti con la
previsione della nullità, sia per eliminare quello indice di appartenenza
delle situazioni giuridiche che è il negozio nullo” (23).
6. Segue c) Compatibilità tra rilevabilità d’ufficio e legittimazione relativa all’azione
Così delineato il fondamento della rilevabilità d’ufficio, pare difficile ritenerla compatibile con la legittimazione relativa.
Lo stesso legislatore d’altra parte ha inserito all’art. 1421 c.c. l’inciso “salva diversa disposizione” così consentendo eccezioni alla regola
generale e ciò nel senso che la legittimazione relativa per forza di cose
esclude la rilevabilità d’ufficio che nasce intrinsecamente connessa alla
legittimazione assoluta.
La rilevabilità d’ufficio, vuoi se considerata come posta a tutela di
valori fondamentali dell’ordinamento, vuoi se a tutela dell’affidamento
e dei traffici giuridici, è comunque espressione di un interesse superindividuale che come tale giustifica l’intervento del giudice nelle vicende
del negozio in modo incondizionato rispetto all’interesse delle parti,
mentre laddove la previsione di una legittimazione relativa sia frutto
della protezione che l’ordinamento appresta ad interessi esclusivi e particolari di un soggetto allora non potrebbe neppure parlarsi di rilevabilità d’ufficio da parte del giudice.
(22) G. FILANTI, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Napoli 1983.
(23) A. BONFILO e V. MARICONDA, L’azione di nullità in ALPA e BESSONE, Contratti IV, 1, p. 500; PONTICELLI, L’azione di nullità in I contratti in generale diretto da P.
Cendon p. 58,2.
– 37 –
Ogniqualvolta perciò il legislatore preveda la legittimazione relativa a tutela di interessi soltanto individuali la rilevabilità d’ufficio dovrà ritenersi esclusa in virtù dell’inciso “salvo diversa disposizione di
legge” di cui all’art. 1421 c.c.
Ad evidenziare l’incompatibilità tra azione relativa e rilevabilità
d’ufficio si è sottolineato che se nella nullità relativa il soggetto unico
legittimato all’azione non eccepisce la nullità, si forma un giudicato
sulla validità del negozio.
In questo caso non si crea una vicenda pregiudizievole per l’ordinato svolgimento del traffico giuridico poiché ai terzi è precluso fare
valere la nullità e pertanto, anche l’intervento del giudice, non troverebbe alcuna ragione (24).
Di contrario avviso parte della dottrina osserva che, fermo restando che la legittimazione relativa esclude per incompatibilità logica la
rilevabilità d’ufficio, il non fare valere il vizio non significa convalidare
il contratto, poiché l’azione è imprescrittibile ed il comportamento della parte non può costituire acquiescenza (25).
Ancor più di recente si è precisato che ritenuta ammissibile nel
sistema la legittimazione relativa all’azione, pensare poi che persista la
rilevabilità d’ufficio della nullità significherebbe svuotare di contenuto
proprio l’inciso iniziale dell’art. 1421 c.c., poiché ove la parte non legittimata alleghi e provi gli elementi costitutivi della nullità il giudice dovrebbe pronunciarsi sugli stessi, così svuotando di contenuto la legittimazione relativa (26).
Se incompatibile appare la rilevabilità d’ufficio con la legittimazione relativa ancor più incoerente sarebbe parlare di una rilevabilità
condizionata all’interesse di una parte, posto che la rilevabilità d’ufficio – elemento della disciplina sostanziale della nullità – non può che
riflettere il carattere di neutralità della nullità sostanziandosi nella equidistanza rispetto all’interesse individuale delle parti.
È vero comunque che da ultimo in svariate norme (27) il legislatore ha previsto contemporaneamente la legittimazione a favore del con(24) G. FILANTI, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Napoli 1983, p. 140.
(25) A. GENTILI, Le invalidità in I Contratti a cura di E. Gabrielli, II, Torino 1999,
p. 1347; A. GENTILI, L’inefficacia delle clausole abusive in Riv. Dir. Civ., 1997, I, p. 403.
(26) G. PASSAGNOLI, Nullità speciali Giuffrè 1995 p. 188.
(27) Art 1519 octies c.c.: la nullità può essere fatta valere solo dal consumatore e
può essere rilevata d’ufficio dal giudice; art. 1469 quinquies c.c.: l’inefficacia opera
soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice; art.
127 d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385 T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia: le
nullità previste dal presente titolo possono essere fatte valere solo dal cliente.
– 38 –
sumatore nonché la rilevabilitàd’ufficio della nullità da parte del giudice, dal che la elaborazione dottrinale della rilevabilità unidirezionale.
Tali norme – a dir poco contraddittorie – sembrano però rappresentare il frutto del compromesso tra la disciplina classica della nullità,
così come nata nel nostro sistema giuridico e la necessità di dare risposte alle pressanti esigenze di tutela dei consumatori, quali parti supposte deboli.
Se il legislatore ha sentito la necessità di configurare la rilevabilità
tra le caratteristiche, sostanziali e processuali ad un tempo, della nullità
è perché attraverso la rilevabilità possono trovare protezione interessi
superindividuali anche se non fondamentali per l’ordinamento. E se a
tali interessi bisogna prestare tutela, la stessa non può avvenire che attraverso il ricorso congiunto tra la legittimazione assoluta e la rilevabilità d’ufficio incondizionata.
Dunque legittimazione relativa e rilevabilità d’ufficio non solo rappresentano categorie in contrasto ma anzi la legittimazione relativa rappresenta una limitazione di tutela per il contraente debole che nella
esperibilità dell’azione anche da parte di terzi può trovare sostegno per
fare emergere quegli interessi superindividuali coincidenti col proprio.
Non si dimentichi comunque che la tutela del consumatore non è
affidata solo alla legittimazione relativa, va infatti rimarcato che la legislazione di derivazione comunitaria ha previsto una serie di mezzi a
tutela del consumatore quali il diritto di recesso, il foro esclusivo del
convenuto, azione inibitoria, oneri formali per la trasparenza delle condizioni, nullità e/o inefficacia di clausole vessatorie, che se esercitate
correttamente dalla parte – che spesso più che debole è poco diligenteconsentono di sanare ogni possibile squilibrio strutturale.
In ogni caso, poiché alla legislazione in favore del consumatore
non è sottesa soltanto una logica di protezione del contraente debole
ma anche la tutela del corretto funzionamento del mercato e della concorrenza e dunque interessi che debordano quelli del singolo contraente, la legittimazione all’azione deve essere riconosciuta in capo a qualunque interessato, anche se terzo rispetto al negozio mentre la rilevabilità d’ufficio non può che essere incondizionata.
D’altra parte se non si configurassero sottesi alle nullità in oggetto
interessi generali non ci sarebbe ragione alcuna a non inquadrare tali
invalidità nel regime della annullabilità, per definizione posta a tutela
di interessi individuali e che si presta anch’essa a realizzare una efficace
tutela del contraente debole.
Non sarebbe infatti d’ostacolo la brevità del termine di prescrizione considerato che l’eccezione potrà sempre farsi valere, mentre la le-
– 39 –
gittimazione relativa sarebbe la giusta conseguenza di una azione a tutela esclusiva dell’interesse individuale.
Non sarebbe ancora d’ostacolo l’osservazione della dottrina secondo cui la parte debole necessita di tutela anche nel processo, e perciò a tanto soccorrerebbe la rilevabilità d’ufficio unidirezionale della
nullità (28).
Si deve al contrario evidenziare che nel nostro sistema processuale le uniche occasioni in cui alla parte è consentito stare in giudizio
personalmente sono limitate ai casi in cui la causa sia di valore non
eccedente un milione di vecchie lire e di competenza del giudice di
pace, dunque si tratta di ipotesi meramente marginali.
In tutte le altre controversie la parte potrà esercitare giudizialmente i propri diritti solo mediante l’ausilio di soggetto qualificato come
l’avvocato così da rendere effettivo l’esercizio del diritto di difesa e da
evitare ogni possibile situazione di debolezza processuale.
E dunque dall’eventuale abuso negoziale in danno della parte debole non si passerà ad alcun abuso processuale perché il nostro sistema
processuale tanto non consente in virtù della espressa previsione dell’art. 82 c.p.c.
Non si trascuri poi che lo stesso legislatore con l’art. 427 c.c. per il
quale “gli atti compiuti dall’interdetto, dopo la sentenza di interdizione possono essere annullati su istanza del tutore, dell’interdetto o dei
suoi eredi o aventi causa” codifica un esempio di difesa del contraente
debole attraverso il ricorso al regime della annullabilità (29), e non alla
nullità e tanto trova giustificazione non nello squilibrio eventuale del
contratto (mentre nei contratti dei consumatori lo squilibrio sarebbe
strutturale) ma nella natura dell’interesse protetto che nella fattispecie
è soltanto di carattere individuale.
Al contrario ove sotteso alla fattispecie sia un interesse superindividuale il legislatore è ricorso alla categoria della nullità assoluta come
in materia di disciplina dei tassi usurari di cui all’art. 1815 c.c., comma
2, novellato dalla legge L. 108/96, in virtù del quale se sono convenuti
interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi.
In tale ipotesi la tutela del contraente debole – e tale è sicuramente chi subisce l’imposizione di tassi usurari – viene realizzata dall’ordinamento attraverso il regime della nullità assoluta e dunque attraverso
(28) In questo senso F. DI MARZIO, Il fenomeno delle clausole ricorrenti in Diritto e Formazione 2003, Giuffrè, p. 1379.
(29) In questo senso già R. QUADRI, Le c.d. nullità protettive in Dir. dei consumatori e nuove tecnologie, vol. 1, p. 451.
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il rilievo della nullità da parte del giudice in modo incondizionato oltre
che attraverso la legittimazione assoluta.
La giustificazione del ricorso alla nullità assoluta in tale ambito
risiede nella ratio della norma che, prima ancora che l’interesse del contraente debole, tutela interessi generali quali principi di ordine pubblico ed in subordine di ordine pubblico di direzione (30).
Si è evidenziato che la finalità che viene anzitutto perseguita è
quella macroeconomica di contenimento del costo del denaro quale
strumento funzionale allo sviluppo dell’attività economica.
La finalità di sviluppo generale “si intreccia con la tutela dei soggetti coinvolti operante, assai più che nella tradizionale dimensione
dell’usurato, nella prospettiva collettiva, piuttosto, della protezione di
categorie sociali esposte sistematicamente ad abusi, per la debolezza
sul mercato del credito”.
Dunque si assiste all’abbandono – nella disciplina dell’usura – “del
tradizionale riferimento al patrimonio del soggetto (...) mentre viene
presa in considerazione in via prevalente la tutela dell’ordinamento del
credito in vista di un corretto funzionamento del mercato finanziario” (31).
La tutela di interessi superindividuali quali il corretto funzionamento ed equilibrio del mercato spiega pertanto il ricorso alla nullità
assoluta.
Allora, ogniqualvolta il legislatore oltre che alla parte debole voglia prestare protezione ad interessi superindividuali quali il corretto
funzionamento del mercato, l’ordine pubblico, la certezza dei traffici,
non può che ricorrere alla rilevabilità incondizionata d’ufficio della
nullità e alla legittimazione assoluta all’azione perché solo allargando il
novero dei soggetti legittimati, gli interessi superindividuali presenti
nella fattispecie, potranno emergere.
È poi di tutta evidenza che essendo le singole nullità predisposte a
tutela della parte debole – perché attraverso il singolo si tutelano interessi generali – la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice – seppure si
ribadisce incondizionata – non potrà che tornare nella pratica a vantaggio del contraente debole.
(30) A. GENTILI, I contratti usurari: tipologie e rimedi in Riv. Dir. Civ., 2001 I,
p. 353.
(31) E. QUADRI, Usura e legislazione civile, in Corriere giuridico, 1999 p. 890.
– 41 –
7. Conclusioni
In conclusione poiché le nullità di protezione nascono connotate
a tutela oltre che della parte debole anche di interessi generali come
l’equilibrio del mercato e la tutela della concorrenza, il ricorso alla rilevabilità d’ufficio incondizionata e alla legittimazione assoluta sembrano le migliori risposte alle esigenze di tutela.
Questa prospettazione del resto pare scorgersi anche tra le righe
della giurisprudenza della Corte di Giustizia che, lungi dal condizionare l’istituto della rilevabilità d’ufficio ad una rilevazione solo pro-parte,
afferma che “l’obiettivo perseguito dall’art. 6 della direttiva, che obbliga gli Stati membri a prevedere che le clausole vessatorie non vincolino
i consumatori, non potrebbe essere conseguito se questi ultimi fossero
tenuti a eccepire essi stessi l’illiceità di tali clausole (...) Una tutela effettiva del consumatore può essere ottenuta solo se il giudice ha facoltà di
valutare d’ufficio tali clausole (...) Del resto il sistema istituito dalla
direttiva si basa sull’idea che la disuguaglianza tra il consumatore ed il
professionista può essere riequilibrata solo grazie ad un intervento da
parte di soggetti estranei al rapporto contrattuale ed è per questo che
l’art. 7 della direttiva impone agli stati membri di fornire mezzi per fare
cessare l’inserzione di clausole abusive come la possibilità per le organizzazione dei consumatori di adire le autorità giudiziarie perché accertino l’illiceità delle clausole” (32).
Il riferimento che la giurisprudenza comunitaria fa alla rilevabilità
d’ufficio del giudice ed all’intervento giudiziale dei soggetti estranei al
rapporto contrattuale non può che tradursi nel nostro sistema legislativo nella figura della nullità assoluta.
In definitiva il ricorso all’istituto della nullità assoluta potrebbe
costituire un valido strumento giuridico e processuale in grado di assicurare la legittimazione all’azione in capo ai terzi così apprestando un
efficace mezzo per fare emergere in ogni singola fattispecie gli interessi
generali che si traducono anche in tutela del singolo contraente, nel
contempo permettendo al giudice di non snaturare il suo potere-dovere di rilevabilità d’ufficio della nullità del negozio che dovrà avvenire in
modo incondizionato.
MARIA MICHELA IACONO
(32) Corte Giust. della Comunità Europea 27 Giugno 2000 in Foro It. 2000 c.
413.
– 43 –
TRIBUNALE DI ROMA; ordinanza 4 aprile 2003;
Giud. FINITI; Soc. Finspa.
Nel corso di un procedimento per l’accertamento dell’illecito amministrativo dipendente da reato (ai sensi del d.lgs. n. 231/2001), il modello
organizzativo predisposto ex post non può essere considerato idoneo a
prevenire l’irrogazione di una sanzione interdittiva qualora non risulti
più incisivo di quello che l’ente avrebbe potuto predisporre prima che il
reato fosse commesso.
Il modello organizzativo non può essere considerato altresì idoneo
se ad esso non è attribuita adeguata valenza esterna e se non preveda, in
deroga all’art. 2388 c.c., una maggioranza qualificata del consiglio di
amministrazione per la sua modifica.
(Omissis) Il g.i.p. dott.ssa Marina Finiti, a scioglimento della riserva di cui al verbale di udienza del 4 aprile 2003, osserva:
preliminarmente deve rilevarsi che il Provvedimento emesso da
questo Ufficio in data 22 novembre 2002, nell’àmbito dell’odierno procedimento, costituisce parte integrante della presente ordinanza e deve
intendersi ivi integralmente richiamato e trascritto.
L’oggetto delle odierne considerazioni è dato evidentemente dalle
valutazioni dell’elaborato peritale depositato dal dr. Franco, in relazione al quesito formulato all’udienza del 6 dicembre 2002, in particolare
in ordine alla rispondenza dei moduli organizzativi predisposti dalla
Finspa – successivamente alla contestazione degli illeciti amministrativi –, alle previsioni dell’art. 17 lett. b) d.lgs. n. 231/01, e, dunque, la
sostanziale idoneità delle misure predisposte dall’ente al fine di scongiurare il pericolo di reiterazione di illeciti della stessa specie di quelli
per cui si procede.
In sostanza le specifiche misure adottate dal gruppo Finspa possono essere sommariamente indicate nell’autolimitazione dell’operatività, nell’adozione del modello organizzativo e nelle misure di controllo al riguardo previste; nelle dimissioni del presidente dei c.d.a. della
società capogruppo e nella corresponsione rateale di una somma di
denaro all’Inail a titolo di risarcimento del danno – salva e impregiudicata ogni questione sulla fondatezza dell’ipotesi accusatoria –, e infine,
nell’adozione di misure di perfezionamento del modello con la delibera del 24 marzo 2003, adottata all’esito del deposito dell’elaborato peritale, a seguito dei rilievi ivi formulati.
Osserva il giudice che la condotta prevista dal citato art. 17 lett. b)
– 44 –
è sostanzialmente identica a quella prevista dall’art. 12 comma 2 lett. b)
relativa ai casi di riduzione della sanzione pecuniaria.
I moduli organizzativi e di gestione dell’ente vengono previsti anche dall’art. 6 del citato decreto, norma che prevede che l’ente vada
esente da responsabilità qualora i reati siano stati commessi da persone
poste in posizione di vertice all’interno dell’azienda e ricorrano una
serie di requisiti.
Tra questi la lett. a) dell’art. 6 richiede che l’organo dirigente abbia «adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del
fatto, modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire reati della
specie di quello verificatosi».
I modelli debbono necessariamente rispondere alle esigenze previste dal comma 2 dell’art. 6 cit., ovverosia individuare le attività nel cui
àmbito possono essere commessi reati (nell’ipotesi evidentemente di
predisposizione dei modelli prima della commissione del fatto, come
prevede l’art. 6, prevedere specifici protocolli diretti a programmare la
formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati
da prevenire, prevedere l’istituzione di un organismo di vigilanza deputato a verificarne il buon funzionamento, individuare modalità di
gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione
dei reati, prevedere specifici obblighi di informazione nei confronti
dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e sull’osservanza
dei modelli e, infine, introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto della misure indicate nel modello organizzativo.
Si tratta di indicazioni fornite dal legislatore in via preventiva,
utilizzabili evidentemente, con i necessari adattamenti, anche ai modelli organizzativi predisposti dall’ente ex post, dunque ex art. 17.
Le linee guida indicate dall’art. 6 hanno, cioè, indubbia valenza
anche in relazione ai modelli organizzativi previsti dall’art. 17, ma ritiene il giudice che alla diversità di situazioni – modelli adottati in via
preventiva in un caso, dopo la contestazione dell’illecito nell’altro –,
debba corrispondere un diverso àmbito di operatività e incisività dei
modelli.
I protocolli rivolti a «procedimentalizzare» la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente ove vengono adottati non in funzione
di prevenzione del rischio, ma successivamente al verificarsi dell’illecito, non potranno non tener conto nel concreto della situazione che ha
favorito la commissione dell’illecito, sì da eliminare le carenze organizzative che hanno determinato il reato. Si tratta di una valutazione da
formularsi dunque non in termini esclusivamente prognostici ed ipote-
– 45 –
tici, ma anche in considerazione del dato fattuale desumibile dalla prospettazione accusatoria.
Conseguentemente, in siffatta ipotesi, il contenuto programmatico
dell’attività dell’ente, specificato nei modelli, in relazione al quale l’intervento normativo non prevede rigide formule o cristallizzazioni, dovrà essere mirato e calibrato espressamente sulle carenze organizzative
che hanno favorito la commissione del reato.
Il criterio di minimizzazione del rischio, richiamato dal dr. Franco
nell’elaborato e evidenziato nella relazione governativa, vale cioè per i
modelli organizzativi predisposti ex ante. Quando il rischio si è
concretizzato e manifestato in un’elevata probabilità di avvenuta commissione dell’illecito da parte della società, i modelli organizzativi predisposti dall’ente dovranno necessariamente risultare maggiormente
incisivi in termini di efficacia dissuasiva e dovranno valutare in concreto le carenze dell’apparato organizzativo e operativo dell’ente che hanno favorito la perpetrazione dell’illecito.
Il già citato art. 6 al comma 3 prevede che «i modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati... sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della Giustizia che, di concreto con i Ministeri competenti può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sull’idoneità
dei modelli a prevenire i reati».
Le associazioni di categoria che ad oggi risultano aver elaborato
codici di comportamento, le c.d. «linee guida», sono state la Confindustria, l’Abi, l’Ania e l’Ance (Associazione Nazionale Costruttori Edili).
In particolare, l’Ance, che interessa in relazione all’attività del gruppo Finspa, indica nelle c.d. «linee guida» quali momento di rischio le
«...fasi delle procedure selettive, di autorizzazione del subappalto, di
gestione dell’eventuale contenzioso del subappalto...», con riferimento
agli enti interessati a pubbliche gare o trattative per l’affidamento di
lavori pubblici in appalto o in concessione.
La Confindustria prevede «in ogni società controllata deve essere
istituito l’organismo di vigilanza ex art. 6 comma 1 lett. b) ...; l’organismo della controllata potrà avvalersi... delle risorse allocate presso l’analogo organismo della capogruppo, i dipendenti dell’organismo della
capogruppo, nella effettuazione di controlli presso le società del gruppo, assumono nella sostanza la veste di professionisti esterni che svolgono la loro attività nell’interesse della controllata stessa».
Circa l’organo o i soggetti deputati a disporre tali misure osserva il
giudicante che, mentre l’art. 17 fa espresso riferimento all’ente, l’art. 6
(comma 1 lett. a), menziona espressamente l’organo dirigente.
– 46 –
Peraltro ritiene questo giudice che sia corretto demandare in entrambi i casi al c.d.a., ovverosia all’organo amministrativo, detta previsione. Si concorda con la difesa sulla legittimità del modulo adottato
con delibera dell’organo amministrativo, e dunque in assenza di
qualsivoglia modifica statutaria. Invero, nessuna indicazione viene fornita al riguardo dal legislatore e rilevante appare il dettato dell’art.
2384-bis c.c., che prevede che «l’estraneità all’oggetto sociale (dunque
in violazione delle disposizioni dello statuto) degli atti compiuti dagli
amministratori in nome della società non può essere opposta ai terzi di
buona fede».
In data 20 novembre 2002 l’ing. Luigi Sparaco ha rassegnato le
proprie dimissioni dall’incarico di presidente «per favorire un completo ricambio e non condizionare in alcun modo l’operato del consiglio»,
pur ribadendo la completa estraneità ai fatti sia personale che del gruppo societario.
Il rag. Francesco Moroni non risulta invece essersi dimesso dalla
carica di presidente del c.d.a. e amministratore delegato dell’impresa
Sparaco Spartaco s.p.a., potendosi altrimenti «determinare una situazione fortemente pregiudizievole per l’impresa...», atteso il ruolo dallo
stesso svolto all’interno dell’azienda e i rapporti da questi da sempre
intrattenuti con fornitori, subappaltatori e imprese bancarie (cfr. nota
sottoscritta, consegnata al perito dal rag. Moroni – all. 6).
La prospettazione accusatoria ipotizza che i reati di cui al parallelo procedimento penale siano stati commessi da due soggetti in posizione «apicale», soggetti che hanno avuto funzioni di rappresentanza,
amministrazione o direzione dell’ente, o di una sua unità organizzativa
dotata di autonomia finanziaria e funzionale, ovvero che hanno esercitato anche di fatto la gestione e il controllo dello stesso. Si tratta dei
rag. Francesco Moroni, amministratore e legale rappresentante della
Sparaco Spartaco s.p.a., società partecipante la Siac s.r.l. e l’Ape s.r.l..;
e dell’ing. Luigi Sparaco, gestore e responsabile di fatto della Sparaco
Spartaco s.p.a. (incarico da cui si è dimesso il 20 novembre 2002) e
socio di maggioranza della Finspa s.p.a.
Ampia rilevanza viene data dal perito e dalla difesa all’autolimitazione dell’operatività disposta con la citata delibera del 20 novembre
2002 dalla capogruppo Finspa, misura non prevista nelle c.d. linee guida, misura che il dr. Franco ritiene sostanzialmente idonea a scongiurare ogni rischio di recidivanza.
Nel modulo si stabilisce, testualmente: «La Finspa e le società da
essa controllate dovranno da oggi astenersi dal partecipare a gare di
appalto per la realizzazione di opere pubbliche che non siano regolate
– 47 –
dalla l. n. 109/94, come modificata dalla l. 1° agosto 2002 n. 166, c.d.
legge Merloni, e non dovranno più partecipare a bandi di enti pubblici
per la vendita e/o l’acquisto di immobili e sarà compito del comitato
controllare che queste disposizioni siano eseguite e relazionare in merito nel rapporto quindicinale».
Nella stessa data i c.d.a. delle società Sparaco Spartaco s.p.a., ing.
Gagliardi Chiodoni Bianchi s.p.a., e i ll.rr. delle società La Dorica s.r.l.,
Siac s.r.l., Gira S.r.l., Iraes s.r.l. e l’assemblea ordinaria dei soci della
Cogespa s.r.l. deliberano di porre in atto tutte le procedure che il comitato nominato dalla Finspa vorrà predisporre per l’adozione e l’attuazione del modello organizzativo idoneo a scongiurare il pericolo di reati contro la p.a., nonché dì astenersi dal partecipare ad appalti per
l’esecuzione. di opere pubbliche non regolate dalla legge Merloni, nonché di bandi di enti pubblici per la vendita e/o l’acquisto di immobili.
La legge Merloni (art. 24) non preclude in assoluto il ricorso alla
trattativa privata, lo limita in un ristretto àmbito di operatività (non
superiore ai 300.000 euro, salvo i casi di ripristino di opere già esistenti
danneggiate da eventi di natura calamitosa). Peraltro, la società con la
successiva delibera dei 24 marzo 2003 (cfr. documento prodotto all’udienza del 26 marzo 2003 in atti), ha inserito nel modello il divieto
per tutte le società del gruppo di partecipare a qualsiasi tipo di trattativa privata con la p.a.
Sostanzialmente ritiene il perito che il divieto di partecipazione
della società del gruppo a gare di appalto non ricomprese nella legge
Merloni (detta normativa pur non vietando in modo assoluto il ricorso
alla trattativa privata, prevede che i procedimenti di gara per l’assegnazione di appalti di opere pubbliche sono il pubblico incanto e la licitazione privata) e l’autolimitazione all’operatività voluta dal gruppo
Finspa, relativa al divieto di partecipare a bandi indetti da enti pubblici
per la vendita o l’acquisto di immobili di proprietà degli stessi enti pubblici, di cui alla più volte menzionata delibera 20 novembre 2002, criteri recepiti delle società del gruppo, risultino idonei a scongiurare il pericolo di commissione di illeciti della stessa specie di quelli per i quali si
procede, attese le particolari modalità di commissione delle contestate
ipotesi di corruzione propria, favorite dall’utilizzo da parte dell’Inail, a
beneficio del gruppo Finspa, per l’acquisto di immobili, della forma
negoziale dei c.d. contratto di compravendita di cosa futura ex art. 1472
c.c.
Rileva al riguardo il giudicante che l’autolimitazione all’attività
voluta dal gruppo societario di per sé è determinazione unilaterale, non
costituisce norma imperativa, e non assume adeguata valenza esterna,
– 48 –
neppure a seguito della pubblicizzazione sul sito internet aziendale.
Dunque si porrà un problema di valenza dell’atto rispetto all’altro contraente e al terzo di buona fede e, conseguentemente, di idoneità della
previsione a garantire efficacemente il pericolo di recidiva dell’illecito.
In merito al contenuto dei modelli, si rileva che le due principali
società operative, l’impresa Sparaco Spartaco e la Gagliardi-ChiodoniBianchi, in quanto operanti in sistema di qualità, risultano aver acquisito la certificazione Soa Iso 9002 prevista dalla l. 1209/94, c.d. legge
Merloni. Trattasi sostanzialmente di una attestazione dell’esistenza in
tali soggetti, esecutori di lavori pubblici, di una serie di requisiti indicativi di correttezza e validità a livello tecnico, organizzativo e economico
finanziario. Le suddette società operano secondo le indicazioni di cui
alla «Procedura gare ed appalti», che fissa le linee guida e la procedura
per le partecipazioni a gare pubbliche e private nell’àmbito del sistema
di qualità.
Con riferimento alle attività nel cui àmbito possono essere commessi i reati, il modello considera in particolare l’area relativa all’ufficio gare, che deve garantire, secondo le linee programmatiche adottate
dal c.d.a.:
1) di avere rapporti con gli enti appaltanti improntati alla massima trasparenza;
2) di non avere con altri concorrenti rapporti e/o scambi di informazioni che possono configurare il reato di turbativa di asta.
Per i contratti di subappalto, che costituiscono un’indubbia area
di rischio, attesa la prospettazione accusatoria, l’art. 15 prevede che
«per ... la quota di lavori che le imprese del gruppo dovessero affidare
in subappalto ... resta stabilito che i subappaltatori non potranno stabilire rapporti diretti con i rappresentanti della p.a. interessati all’esecuzione dell’appalto per cui ogni intervento o comunicazione su quella
quota di lavori dovrà sempre avvenire tramite l’impresa intestataria,
così come previsto dalla normativa vigente. Nei contratti di subappalto
dovrà essere evidenziata questa precisazione, con l’avvertenza aggiuntiva
che il mancato rispetto della disposizione verrà una prima volta contestato con una comunicazione ufficiale diretta al subappaltatore ed al
committente per conoscenza: un secondo successivo inadempimento
sarà causa motivata di rescissione in danno del contratto».
Inoltre nella già citata delibera del 24 marzo 2003 del c.d.a. viene
introdotto l’obbligo per tutti i soggetti delle società del gruppo che a
vario titolo compartecipano nella specifica e principale attività aziendale
(appalti pubblici e privati) di segnalare le anomalie che dovessero rilevarsi nelle diverse fasi in cui tale operatività si articola. Anche nei con-
– 49 –
fronti degli altri soggetti che partecipano alle decisioni e alle definizioni ed esecuzioni dei subappalti viene inserito l’obbligo di evidenziare
anomalie di qualsiasi tipo con riferimento all’attribuzione dei subappalti,
alle prestazioni rese al subappaltatore e ai prezzi pattuiti.
Al riguardo, deve rilevarsi che in considerazione dell’ipotesi accusatoria e delle concrete modalità delittuose evidenziate nella prospettazione accusatoria del p.m., allo stato suffragate dalle risultanze delle
numerose informative della G.d.F. in atti, le gravi vicende corruttive
contestate risultano perpetrate per il tramite di un subappaltatore vicino al gruppo Sparaco, tale Emidio Luciani.
Ritiene il giudice che, in considerazione di tale risultanza, l’area
dei subappalti doveva essere necessariamente oggetto di specifica considerazione volta a scongiurare la possibilità di subappalti creati artatamente al precipuo scopo di precostituire costi a bilancio in tutto o in
parte fittizi.
Né si concorda in proposito con le conclusioni del perito sul punto, laddove sostiene che la più volte richiamata «autolimitazione» dell’attività dei gruppo costituisca mezzo idoneo a scongiurare pericolo di
reiterazione di episodi corruttivi. Né al riguardo appare adeguata la
predisposizione di un’integrazione delle previsioni di cui al citato art.
15 del modello. Invero una mera segnalazione appare assolutamente
inefficace. Al riguardo appare necessaria l’adozione di una sorta di codice di autoregolamentazione che preveda espressamente il divieto di
contratti di subappalto all’interno delle società del gruppo.
Con riferimento all’organismo di controllo, previsto nella più volte menzionata delibera del c.d.a., osserva il giudice che tale organismo,
per essere funzionale alle aspettative, deve necessariamente essere dotato di indispensabili poteri di iniziativa, autonomia e controllo. Evidente, infatti, che al fine di garantire efficienza e funzionalità, l’organismo di controllo non dovrà avere compiti operativi che, facendolo partecipe di decisioni dell’attività dell’ente, potrebbero pregiudicare la
serenità di giudizio al momento delle verifiche. Al riguardo appare
auspicabile che si tratti di un organismo di vigilanza formato da soggetti non appartenenti agli organi sociali, soggetti da individuare eventualmente ma non necessariamente, anche in collaboratori esterni, forniti
della necessaria professionalità, che vengano a realizzare effettivamente «quell’organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e
controlli». Indubbio che per enti di dimensioni medio grande la forma
collegiale si impone, così come si impone una continuità di azione,
ovverosia un impegno esclusivo sull’attività di vigilanza relativa alla
concreta attuazione dei modello.
– 50 –
Al riguardo, rileva il giudice, l’inidoneità dell’indicazione dell’ing.
Gianfranco Mariorenzi quale componente dell’organo di controllo,
considerato che questi, essendo deputato a compiti di controllo interno, in quanto responsabile delle procedure del sistema Iso 9002 e della
sicurezza all’interno della principale società operativa, potrebbe non
possedere quei requisiti di autonomia e di indipendenza che dovrebbero caratterizzare l’organismo di vigilanza. Vi è un’indubbia commistione
tra il ruolo di vigilanza impostogli dalla partecipazione all’organo di
controllo e un ruolo di amministrazione attiva, quale deriva dalla concorrente situazione di responsabile della sicurezza e del sistema Iso 9002.
Né si concorda con il perito che la circostanza che sia stato previsto un
organo collegiale, costituito oltre che dal Mariorenzi da altro professionista esterno al gruppo, sia di per sé sufficiente ad escludere pericoli di
interferenza tra organo di controllo e società controllata.
Si consideri che nelle linee guida fissate in sede di codice comportamentale predisposto dall’Ance viene evidenziata la necessità di assicurare «sempre la separazione e l’indipendenza gerarchica tra coloro
che elaborano la decisione, coloro che la attuano e chi è tenuto a svolgere i controlli».
Ugualmente la Confindustria prevede la «non attribuzione di compiti operativi che, rendendolo partecipe di decisioni ed attività operative, ne minerebbero l’obiettività di giudizio nel momento delle verifiche
sui comportamenti e sul modello. Mene altresì sollecitata, in particolare nelle aziende di grandi e medie dimensioni, la costituzione di un
organismo dedicato esclusivamente ed a tempo pieno all’attività di vigilanza, privo di mansioni operative.
Nel caso in esame, poi, l’organismo di controllo, come precisato
dal perito nell’elaborato e in sede di esame all’udienza del 26 marzo
2003 (cfr. pag. 12 del p.v. trascrizione udienza), risulta previsto con
delibera espressa solo con riferimento alla Finspa, in quanto società
capogruppo. In proposito, il perito sottolinea la lacuna del modulo con
riferimento all’assenza di previsione per le altre società del gruppo, assenza maggiormente rilevante per le due società medio-grandi dei gruppo, in particolare l’impresa ing. Gagliardi-Chiodoni-Bianchi e l’impresa ing. Sparaco Spartaco s.p.a. (cfr. elaborato peritale e esame del dr.
Franco all’udienza del 26 marzo 2003, p. 10 dell’elaborato). Le altre
società del gruppo, sia pure con differenze quantitative l’una dall’altra,
rientrano nelle categorie delle piccole imprese, per le quali il codice di
comportamento elaborato dall’Ance ritiene che i compiti di controllo e
vigilanza possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente, recependo sul punto le previsioni dell’art. 6 comma penultimo l. n. 231/
– 51 –
01. Evidente poi la necessità di prevedere uno specifico obbligo della
società controllata di informare tempestivamente l’organo preposto al
controllo delle vicende rilevanti. In tal senso la lett. d) del comma 2
dell’art. 6 impone uno specifico obbligo di informazione nei confronti
dell’organisino deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei
modelli.
Il modello organizzativo predisposto dalla Finspa, prevede una
serie di protocolli da attuare da parte delle società interessate, che entro il 5 ed il 20 di ogni mese dovranno far pervenire alla Finspa s.p.a.
una relazione dettagliata e documentata dei rapporti tenuti dai suoi
legali rappresentanti, capi commessa, dirigenti di cantiere, ecc., con i
rappresentanti della p.a. con le quali sono attivati rapporti contrattuali,
le persone preposte agli uffici Gara debbono far pervenire con la stessa
cadenza un elenco dettagliato delle gare alle quali partecipano; la Finspa
entro il 10 e il 25 di ogni mese consegna la documentazione ricevuta
dalle società controllate, con una breve relazione d’accompagnamento
all’organismo di controllo.
Dunque, appare adempiuto l’obbligo di informazione nei confronti
dell’organismo di vigilanza sull’osservanza dei modelli. L’organismo di
controllo, secondo le previsioni dell’art. 9 dei modello, «potrà agire
all’interno delle società del gruppo con i più ampi poteri di iniziativa e
di controllo, per verificare la correttezza dello svolgimento delle attività svolte da chiunque rappresenti le società facenti parte del gruppo».
L’art. 14 prevede le sanzioni disciplinari volte a colpire il mancato rispetto delle misure indicate in modello, sanzioni che nella sostanza appaiono adeguate.
Con riferimento all’esigenza di «individuare modalità di gestione
delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati il
modello stabilisce che i pagamenti da effettuare a nome e per conto
delle società interessate, devono essere effettuati in base a documenti
amministrativi emessi nel rispetto delle pattuizioni contrattuali e della
normativa fiscale...».
Da aggiungere, per completezza espositiva, la lacuna rilevabile dalla
mancata previsione di un termine di non modificabilità del modulo
organizzativo adottato. In particolare, si concorda con il p.m. sull’opportunità di inserire una previsione in deroga all’art. 2388 c.c., che preveda una maggioranza qualificata del c.d.a. in caso di modifiche dei
modulo organizzativo adottato, una maggioranza particolarmente significativa, si da garantire la stabilità e l’effettività del modulo.
Pertanto, ritenuto non sufficientemente satisfattivo il modulo
organizzativo predisposto dall’ente (in particolare per quanto concer-
– 52 –
ne i subappalti, l’organo di controllo e la maggioranza necessaria a
modificare il modulo organizzativo adottato), deve valutarsi l’idoneità
e l’adeguatezza della misura cautelare invocata dal p.m. – l’interdizione
dalla capacità di contrattare con la p.a. per il termine di anni uno –, in
relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare
nel caso concreto, misura che per espresso dettato normativo deve altresì risultare proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che si
ritiene possa essere applicata all’ente (cfr. artt. 45 e 46 d.lg. n. 231/01).
Sulla gravità degli episodi corruttivi contestati, sulla reiterazione
delle condotte criminose e sul livello di diffusione delle stesse, sulla
gravità degli indizi, questo giudice si è già soffermato ampiamente nella
parte motiva della precedente ordinanza. Il concreto pericolo di reiterazione di illeciti della stessa specie consegue con evidenza dal livello di
diffusione e radicamento del sistema corruttivo posto in essere, e dalla
recente epoca di commissione degli illeciti.
La gravità è tale da consentire in via astratta l’adozione della misura cautelare interdittiva richiesta dal p.m. Peraltro, ex art. 15 decreto
citato, considerato che «l’interruzione dell’attività dell’ente (che lavora
prevalentemente con la p.a.) può provocare, tenuto conto delle sue dimensioni e delle condizioni economiche del territorio in cui è situato,
rilevanti ripercussioni sull’occupazione», deve disporsi la prosecuzione dell’attività con la nomina di un commissario giudiziale per il periodo di anni uno a decorrere dall’esecuzione della presente ordinanza.
(Omissis)
(1-2) Osservazioni a margine di un’interpretazione
giurisprudenziale in tema di responsabilità amministrativa
degli enti e modelli organizzativi
1. Premessa
Come era logico attendersi dopo quasi tre anni dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 231/2001 (1) (da ora anche decreto), la giurispruden(1) D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, recante la “disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di
personalità giuridica, a norma dell’art. 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300, recante la “ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti internazionali elaborati in base all’articolo K3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela finanziaria delle
Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, del suo primo Protocollo fatto
– 53 –
za ha ormai fatto proprio l’instrumentario tecnico introdotto dal decreto e diverse sono le decisioni che si basano sulla citata disciplina
della responsabilità amministrativa degli enti (2).
Nonostante si tratti, nella maggior parte dei casi, di ordinanze
emesse in sede cautelare, esse costituiscono, comunque, un importante
avvio per una riflessione, non più solo teorica, sui principi recati dal
decreto 231 e in particolare sulle interpretazioni emergenti sui c.d.
modelli organizzativi: aspetto quest’ultimo nodale sia nel contesto dell’ampio dibattito dogmatico sull’argomento, sia in una logica pragmatica, volta ad individuare prassi interpretative utili anche ad orientare
le scelte organizzative degli enti.
Si tenterà pertanto, prendendo spunto dalla recente Ordinanza
del Tribunale di Roma (3) di tracciare un primo quadro del riscontro
giurisprudenziale sul d.lgs n. 231/2001, necessariamente disomogeneo
nell’approccio, attesa anche la multidisciplinarietà delle tematiche affrontate.
a Dublino il 27 settembre 1996, del Protocollo concernente l’interpretazione in via
pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché
della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti
funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a
Bruxelles il 26 maggio 1997 e della convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di
pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso,
fatta a Parigi il 17 settembre 1997”, cui si aggiunge la “delega al governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di
personalità giuridica”.
(2) Si segnalano, in argomento, le seguenti decisioni edite: Trib. Pordenone, 11
novembre 2002, con nota di CAPECCHI, Funzione rieducatrice della pena e responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, in Diritto del commercio internazionale, 2003,
p. 193; G.i.p. Trib. Salerno, 28 marzo 2003 (ord.), con nota di FIDELBO, Misure cautelari
nei confronti delle società: primi problemi applicativi in materia di tipologie delle “sanzioni” e limiti all’operatività del commissario giudiziale, in Cassazione penale, 2004, p.
266; Trib. Roma, 4 aprile 2003, (ord.), in Il Foro It., 2004, II, c. 317 e commentata da
DI GERONIMO, Responsabilità da reato degli enti: l’adozione di modelli organizzativi
“post factum” ed il commissariamenti giudiziale nell’ambito delle dinamiche cautelari,
in Cass. pen., 2004, p. 253; G.i.p., Trib. Roma, 14 aprile 2004, (ord.), in Cass. pen.,
2003, p. 2803; G.i.p., Trib. Milano, 27 aprile 2004, (ord.), con nota di LANZI, L’obbligatorietà della legge italiana non si ferma davanti alle multinazionali, in Guida al dir.,
2004, p. 72.
(3) Trib. Roma, 4 aprile 2003, (ord.), Giudice Finiti, cit.
– 54 –
2. L’incisività del modello organizzativo nel post factum
2.1. Un tema centrale dell’impianto normativo recato da decreto
231 è quello dei c.d. modelli organizzativi. Si tratta di un argomento
oggetto di un dibattito serrato e che evoca problematiche diverse, molte delle quali ancora mai affrontate né in sede giurisprudenziale né,
diffusamente, in dottrina (4). Si pensi, solo per citarne alcune, ai dubbi
di legittimità delle norme sui modelli in relazione a quanto previsto sia
dalla legge delega che dai Protocolli internazionali cui l’Italia ha aderito con il d.lgs n. 231/2001 (5); al valore che detti modelli assumono sia
(4) Gli studi che hanno affrontato il tema sono numerosissimi, anche se la maggior parte di essi è sviluppata nella logica penalistica; limitandoci a menzionare solo
quelli che hanno posto particolare attenzione al tema dei presupposti e criteri per
l’imputazione di responsabilità, si rinvia a BERTONAZZI, La responsabilità amministrativa degli enti, in Giorn. di dir. Amm., 2001, p. 977; CALDARONE, La responsabilità degli
enti nei paesi aderenti all’OCSE, in Cass. pen., 2003, fasc. 6, p. 57; CHIMICI, Il processo
penale a carico degli enti: il quantum della prova ella colpa di organizzazione, in Dir.
pen. e proc., 2001, p. 1348; GARGANI, Imputazione del reato agli enti collettivi e responsabilità penale dell’intraneo: due piani irrelati?, in Dir. pen. e proc., 2002, p. 1061;
MANNA, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: il punto di vista
del penalista, in Cass. pen., 2003, p. 1101; PULITANO’, La responsabilità “da reato” degli
enti: i criteri d’imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 415; ID., La responsabilità da reato degli enti nell’ordinamento italiano, in Cass, pen., 2003, fasc. 6, p. 7; RORDORF,
I criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi e gestionali idonei a
prevenire i reati, in Società, 2001, p. 1297; DE MAGLIE, Principi generali e criteri di
attribuzione delle responsabilità, in Dir. e proc., 2001, pag. 391; MONTALENTI, Corporate
governance, consiglio di amministrazione, sistemi di controllo interno: spunti per una
riflessione, in Riv. soc., 2002, II, p. 803 e ss.
(5) Ci si riferisce in particolare: al fatto che il decreto abbia disciplinato i modelli organizzativi in assenza di previsioni al riguardo contenute nella legge delega; al
fatto che il decreto contempla la possibile esenzione da responsabilità dell’ente anche
per i reati commessi dai c.d. ‘soggetti apicali’, opzione legislativa da taluni considerata
non in linea con gli accordi internazionali (e, in particolare, con il III Protocollo della
Convenzione PIF) cui l’Italia ha dato attuazione con il decreto legislativo in discorso.
Si veda DE VERO, La responsabilità dell’ente collettivo dipendente da reato: criteri di
imputazione e qualificazione giuridica, in La responsabilità amministrativa degli enti
per illeciti amministrativi dipendenti da reato, 2002, p. 397 e ss.; GRASSO, La responsabilità amministrativa dipendente da reato delle persone giuridiche, delle società e delle
associazioni prive di personalità giuridica, Contratto e impresa, 2001, p. 1448; FRIGNANI
– GROSSO – ROSSI, La responsabilità amministrativa degli enti ed i “modelli di organizzazione e gestione di cui agli artt. 6 e 7 del d.lgs n. 231/2001, in questa Rivista, 2002, 1,
p. 150; IANNINI, La responsabilità delle persone giuridiche nell’esperienza dell’unione
europea: profili normativi e prassi operative, Relazione tenuta al convegno AGIS (Ministero di Giustizia e Commissione Europea), 27-30 ottobre 2004; CALDARONE, La
responsabilità degli enti nei paesi aderenti all’OCSE, cit., p. 384. Interessanti risultano
essere, con particolare riferimento ai criteri di imputazione degli enti per reati dei
– 55 –
all’interno dell’azienda che nei confronti dei terzi; ai profili di responsabilità penale e civile dei soggetti cui l’ente affidi il compito di monitorare l’efficacia dei modelli (6) e ai profili di responsabilità dell’organo
dirigente dell’ente nel caso di omessa adozione di un modello organizzativo sia prima che dopo la commissione del reato (7).
Le decisioni edite che, sino ad oggi, hanno coinvolto enti ai sensi
del decreto 231 riguardano soggetti metaindividuali che non erano
dotati, prima della commissione del fatto, di un modello organizzativo(8). Ciò significa che i giudici in questione non hanno potuto/dovuto
entrare nel merito della idoneità ex ante del modello organizzativo alle
finalità preventive cui esso è deputato, ma si sono trovati di fronte a
soggetti che, per ragioni diverse e in questa sede indifferenti, non avevano inteso cogliere le opportunità che il legislatore ricollega alla preventiva adozione del modello organizzativo.
Oggetto di valutazione sono stati, pertanto, modelli organizzativi
adottati dopo la commissione del fatto e come tali idonei – solo ed eventualmente – ad attenuare le conseguenze sanzionatorie collegate all’accertamento delle responsabilità ovvero ad evitare l’irrogazione di sanzioni interdittive in via cautelare.
Così anche nel caso sottoposto all’esame del Tribunale di Roma
che si è trovato a giudicare della idoneità di un modello organizzativo
adottato dall’ente nel post factum, al fine di evitare l’applicazione della
misura interdittiva cautelare del divieto di contrattare con la Pubblica
Amministrazione (9).
vertici, i commenti relativi al Progetto di riforma del Codice Penale della c.d. Commissione Grosso: per tutti, GIUNTA, La responsabilità per omissione nel progetto preliminare di riforma del codice penale, in Dir. pen. e proc., 2001, p. 401 ss.
(6) Si veda, per tutti, per gli aspetti più prettamente penalistici GARGANI, Imputazione del reato agli enti collettivi e responsabilità penale dell’intraneo: due piani irrelati, in Dir.
pen. e proc., 2002, p. 1061 ss.; per una analisi di tipo giuscommercialistico, seppure estremamente sintetica sul punto, MONTALENTI, Corporate governance, consiglio di amministrazione, sistemi di controllo interno: spunti per una riflessione, cit., p. 835.
(7) Il tema risulta, all’evidenza di grande interesse; da notare peraltro che nel
decreto in discorso è stata omessa l’attuazione di un principio di delega che imponeva
– si veda l’art. 11, comma 1, lett. t), della legge n. 300/2000 – oltre alla previsione di
un diritto di recesso del socio in caso di affermazione delle responsabilità della società, anche regole sull’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (lett.
u) e sul diritto al risarcimento del socio e del terzo danneggiato (lett. v). Si veda, sul
punto, MAIMERI, I controlli interni e la responsabilità amministrativa delle banca per i
reati dei suoi dipendenti, in Analisi giuridica dell’economia, 2004, p. 193 ss.
(8) Cfr. nota 2.
(9) L’ordinanza in questione è stata commentata da DI GERONIMO, Responsabilità da reato degli enti: l’adozione di modelli organizzativi “post factum” ed il commis-
– 56 –
Osserva al riguardo il Tribunale che, mentre il criterio di minimizzazione del rischio vale per i modelli organizzativi predisposti ex ante,
nel caso in cui, invece, il reato sia stato commesso, “i modelli organizzativi predisposti dall’ente dovranno necessariamente risultare maggiormente
incisivi in termini di efficacia dissuasiva e dovranno valutare in concreto
le carenze dell’apparato organizzativo e operativo dell’ente che hanno favorito la perpetrazione dell’illecito”.
Nonostante il ragionamento seguito dal Tribunale sul punto possa
apparire “di buon senso”, si ritiene che esso non meriti condivisione
laddove non considera che i criteri per la predisposizione del modello
organizzativo, secondo l’impianto della legge, sono sempre e solo quelli di cui agli artt. 6 e 7, qualunque sia il momento in cui il modello viene
adottato (10); peraltro, la maggiore incisività in termini di efficacia dissuasiva avrebbe senso richiederla nel caso in cui il modello organizzativo predisposto dall’ente avesse manifestato delle lacune che hanno poi
portato o comunque non ostacolato la commissione dell’illecito, ma
non invece nel caso in cui l’ente non possedesse affatto un modello
organizzativo prima della commissione del fatto-reato.
2.2. I dubbi ora sollevati circa la correttezza della pretesa maggiore incisività del modello organizzativo adottato nel post factum rispetto
a quello adottato ex ante pongono una questione che, a ben vedere, si
presta ad una prospettiva e ad una riflessione più ampia di quella immediatamente posta dalla soluzione del caso concreto: si tratta, infatti,
sariamenti giudiziale nell’ambito delle dinamiche cautelari, cit., p. 1228 ss.; si veda anche AMATO, Con l’eliminazione delle situazioni di rischio le misure cautelari diventano
superflue, in Guida al dir., 2003, n. 31 p. 71, dal quale emerge un commento adesivo
rispetto alle considerazioni espresse nell’ordinanza del Tribunale di Roma.
(10) In questo senso non appare condivisibile, a sostegno della tesi della maggiore incisività del modello adottato nel post factum, la circostanza che l’art. 17, lett. b
del decreto dispone che il modello in questione non è più generico bensì riguarda “i
reati della specie di quello verificatisi” (DI GERONIMO, Responsabilità da reato degli
enti: l’adozione di modelli organizzativi “post factum” ed il commissariamenti giudiziale
nell’ambito delle dinamiche cautelari, cit., p. 1235 ed in particolare la nota 21). Infatti,
da un lato la formula normativa “i reati della specie di quello verificatisi” è presente sia
nell’art. 6 che nell’art. 17 e vale quindi sia per il modello organizzativo adottato ex
ante che per quello ex post; inoltre, il riferimento alla eliminazione delle “carenze
organizzative” di cui all’art. 17, lett. b), non costituisce un di più rispetto al modello
organizzativo: la lettera della norma appare chiara nell’affermare che il modello è lo
strumento con il quale si colmano le suddette carenze organizzative e che non si tratta, pertanto, di due adempimenti diversi.
– 57 –
del rapporto tra la indeterminatezza di talune formule legislative (formule che delimitano “la colpa”) ed il principio di legalità (11).
Il decreto 231 e segnatamente gli artt. 6 e 7 individuano taluni
elementi di cui un modello organizzativo (inteso in senso ampio, come
insieme di regole utili e funzionali ad adeguarsi alle prescrizioni del
decreto) deve essere “dotato”.
Il legislatore espressamente afferma – comma 1 dell’art. 6 – che
“l’ente non risponde se prova” di aver adottato una serie di presidi
organizzativi ivi espressamente elencati. Ben avrebbe potuto, il legislatore – anche in virtù della estrema diversità dei soggetti cui il decreto si
riferisce – non spingersi fino ad una elencazione di ‘requisiti’ del modello, ben potendo prevedere solo la possibile esenzione di responsabilità collegata alla dimostrazione, in capo all’ente, di aver adottato un
sistema organizzativo idoneo alla prevenzione di certi illeciti.
Ma il legislatore ha operato una scelta diversa – proponendo, appunto, un elenco di ‘requisiti’ – il che deriva da una valutazione “di
vertice” che deve essere considerata, anche dall’interprete.
L’opzione della ‘tassatività’ deriva, infatti, dalla necessità di ancorare la colpa dell’ente a dei requisiti oggettivi, costanti e verificabili,
per fugare il rischio che l’onere della prova gravante sull’ente (nel caso
di reati commessi dagli apicali) si risolva in una vera e propria probatio
diabolica, con conseguente emersione di una forma di responsabilità
oggettiva in materia penale.
Con ciò non si vuole certo sostenere che la esenzione da colpa di
un ente debba essere con automatismo affermata ogniqualvolta siano
state formalmente osservate le indicazioni del legislatore; è ovvio, infatti, che non può essere sottratta alla valutazione del giudicante la verifica della congruità in concreto dell’assetto organizzativo: è ciò che lo
stesso legislatore, del resto, ha inteso affermare laddove menziona il
concetto di idoneità del modello organizzativo.
Si intende invece sottolineare la necessità che la indeterminatezza
del concetto di idoneità non diventi – attraverso interpretazione giurisprudenziale che di volta in volta indichi requisiti nuovi e sempre diversi – il veicolo per rendere indeterminata la colpa, al punto da non
(11) Si vedano le osservazioni di DE VERO, La responsabilità dell’ente collettivo
dipendente da reato: criteri di imputazione e qualificazione giuridica, cit., p. 422; MUSCO,
Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e misure interdittive, in Dir.
giust., 2001, 23, p. 8 ss.; GIUNTA, La responsabilità per omissione, in AA.VV., Un nuovo
progetto di codice penale: dagli auspici alla realizzazione?, a cura di De Francesco, Torino, 2001, p. 70 ss.
– 58 –
permettere la individuabilità della condotta conforme a diritto e, quindi, il confine del “penalmente” rilevante.
Come è stato correttamente osservato, infatti, collocandosi la responsabilità dell’ente in un orizzonte penalistico, il canone di determinatezza della fattispecie introduce un contrappeso costituzionale che
impone di restringere in una interpretazione costituzionalmente vincolata le potenzialità espansive di disposizioni generiche: tale onere ricade, evidentemente, sul giudice (12).
Né in questo senso appare rilavante la circostanza che l’art. 6 sia
una norma di favore per l’ente: essa, infatti, al di là di valutazioni in
fatto, deve essere letta come disposizione che delinea l’elemento soggettivo dell’ente, ossia quella norma che consente di riempire di significato precettivo il concetto di colpa organizzativa.
3. La “fonte” del modello organizzativo e la sua valenza esterna.
3.1. Come si accennava, il decreto si rivolge a soggetti metaindividuali che, quanto a struttura, dimensione, attività svolta possono essere in concreto estremamente diversi: esso, infatti, prefigura una responsabilità amministrativa che potrà coinvolgere tanto una impresa quotata quanto una associazione priva di personalità giuridica. Questa è, con
ogni probabilità, la ragione per la quale allorché il legislatore ha dovuto
individuare il soggetto cui compete la scelta se fare proprie o meno le
opportunità offerte dal decreto (ossia, la adozione del modello di organizzazione) ha utilizzato una formula generica, atecnica, quale è quella
di “organo dirigente”.
Appare chiara, a prescindere dalla formula utilizzata, l’intenzione
di attribuire il potere di adottare il modello organizzativo al soggetto,
monocratico o collegiale che sia, in grado di impegnare con le proprie
decisioni l’ente, cui è demandata, quindi, la gestione per il perseguimento dell’oggetto sociale. Ne è dimostrazione, nel contesto dello stes-
(12) Si veda PULITANÒ, La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri di imputazione, in Riv. it. Dir. proc. pen., 2002, pp. 515 e 516; sull’argomento specifico si vedano anche le interessanti riflessioni proposte da DE VERO, La responsabilità dell’ente
collettivo dipendente da reato: criteri di imputazione e qualificazione giuridica, cit., pp.
422 e 423 e PALIERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche e la tutela degli
interessi finanziari della Comunità europea, in GRASSO (a cura di), La lotta contro la
frode agli interessi finanziari della Comunità europea tra prevenzione repressione, Milano, 2000, p. 84 ss.
– 59 –
so decreto, quanto previsto dall’art. 6, comma 4, ove si riferisce che
negli enti di piccole dimensioni le funzioni dell’organismo di controllo
possono essere esercitate dallo stesso organo dirigente.
Si tratta di una soluzione condivisibile atteso che le competenze
degli amministratori includono anche quegli atti di amministrazione/
organizzazione dell’impresa sociale che costituiscono, arricchendolo di
contenuto, il potere di gestione (13).
In questo senso appare anche interessante ricordare che tra i principi contenuti nella legge delega (14), poi disattesi dal legislatore delegato, vi era quello di prevedere, oltre ad un diritto di recesso del socio
in caso di responsabilità della società (art. 11, comma 1, lett. t), regole
sull’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (art. 11,
comma 1, lett. lett. u) degli enti di cui fosse accertata la responsabilità
amministrativa. Tali principi, si noti, sono stati disattesi dal legislatore
delegato per evitare conseguenze deleterie dirette sulla stabilità delle
imprese e dei mercati finanziari: il che non toglie, ma anzi conferma,
che era però nella mente del legislatore di attribuire proprio agli amministratori (e non ai soci) il potere, dovere e la responsabilità di creare il
sistema organizzativo cui si andavano ricollegando le possibili esenzioni da colpa ovvero i benefici d’ordine sanzionatorio oggi espressamente previsti dal decreto (15).
3.2. Che, quindi, sia il consiglio di amministrazione a poter/dover
adottare il modello organizzativo appare un dato normativamente fondato e condiviso. Esso, però, viene implicitamente ed indirettamente
smentito allorché si richiede, come condizione di idoneità del modello
organizzativo aziendale, che esso assuma la forma di “norma imperativa” con “adeguata valenza esterna”.
Le decisioni del consiglio di amministrazione – e anche le delibere
relative al modello organizzativo – non sono, però, soggette ad alcuna
pubblicità né costitutiva né notizia, e non hanno, per definizione, alcuna funzione di tutela dei terzi che venissero in contatto con la società.
(13) Il rapporto tra amministrazione della società e gestione dell’impresa e
l’individuazione del confine tra il potere di organizzazione e quello gestorio costituiscono, come noto, un tema complesso la cui analisi esula dalla presente nota: si rinvia,
per tutti, a ANGELICI, Società per azioni, in Enc. del dir., XVII, 1990, in particolare pp.
998-1000.
(14) Legge 29 settembre 200, n. 300, pubblicata in G.U. 25 ottobre 200, n. 250,
suppl. ord.
(15) Cfr. nota 7.
– 60 –
Nel caso specifico considerato dal Tribunale di Roma, l’adozione
del modello organizzativo avveniva da parte di un ente coinvolto nel
processo, secondo i criteri di cui al decreto 231, per illecito amministrativo dipendente da reato commesso – secondo l’accusa – nell’ambito di gare di appalto per la realizzazione di opere pubbliche.
L’ente, secondo quanto si legge nell’ordinanza, al fine di scongiurare che illeciti della stessa specie di quelli per cui si procede possano
essere reiterati, inserisce nel proprio modello organizzativo una previsione secondo la quale la società (e le società da essa controllate) dovrà
astenersi dal partecipare a gare di appalto per la realizzazione di opere
pubbliche che non siano regolate dalla “legge Merloni”, nonché di bandi
di enti pubblici per la vendita e/o l’acquisto di immobili.
A prescindere dalla condivisibilità della scelta dell’ente o, interessante quanto affermato sul punto specifico dal Tribunale, secondo il
quale “l’autolimitazione all’attività voluta dal gruppo societario di per sé
è determinazione unilaterale, non costituisce norma imperativa, e non
assume adeguata valenza esterna, neppure a seguito della pubblicizzazione sul sito Internet aziendale. Dunque si porrà un problema di valenza
dell’atto rispetto all’altro contraente e al terzo di buona fede, e, conseguentemente di idoneità della previsione a garantire efficacemente il pericolo di recidiva dell’illecito”. Aggiunge poi il Tribunale – ritenendo
all’evidenza insufficiente quanto proposto dall’ente – che “appare necessaria una sorta di codice di autoregolamentazione che preveda espressamente il divieto di contratti di subappalto all’interno delle società del
gruppo”.
3.3. Quanto sostenuto dal Tribunale suscita perplessità. Non è
chiaro, infatti, sotto il profilo dalla “gerarchia delle fonti” (e quindi
della efficacia degli atti nei confronti dei terzi) quale sostanziale differenza dovrebbe sussistere tra una delibera di consiglio di amministrazione, quale è quella adottata dall’ente in questione, ed un “codice di
autoregolamentazione”: l’ente, la sua volontà, non può che manifestarsi attraverso delibere del suo organo gestorio; anche un codice di autoregolamentazione, quindi ed ad esempio, ben può essere (e probabilmente sarà) una delibera di consiglio di amministrazione.
Se, invece, il limite rilevato dal giudicante risiede non nella adeguatezza del singolo atto (delibera) ma nel fatto che l’autolimitazione
deve riguardare tutte le società del gruppo (avendo in mente, quindi,
una sorta di autolimitazione collettiva), in questo caso si ritiene che il
giudicante abbia prefigurato a carico dell’ente una condotta, in verità,
inesigibile e comunque non risolutiva sotto il profilo “tutela dei terzi”.
– 61 –
Infatti, da un lato si richiederebbe alla società capogruppo, si perdoni l’espressione, di “promettere il fatto del terzo” (perché le controllate godono comunque di autonomia organizzativa e gestoria e quindi
di autonomia in ordine a quali attività svolgere e quali no) (16). Inoltre,
dall’altro lato, come detto, il preteso “codice di autoregolamentazione” non potrebbe che essere il frutto di delibere dei vari consigli di
amministrazione delle società del gruppo, non venendo quindi meno
gli ulteriori limiti rilevati dal Tribunale in punto di “tutela dei terzi in
buona fede”.
Ma, anche ove fosse corretto ritenere che l’unico modo per prevenire una recidiva specifica sia, nel caso in esame, immaginare un codice
di autoregolamentazione infragruppo (somma di delibere di Cda collegate tra loro anche di società non coinvolte nella vicenda, sic), detto
codice non sarebbe comunque norma imperativa e certo non assumerebbe adeguata valenza esterna: le delibere di consiglio di amministrazione, infatti, non sono soggette ad alcuna pubblicità né costitutiva né
notizia, e la loro rilevanza si esaurisce sul piano del valore interno. Esse,
però, se legittimamente assunte, vincolano la società, il suo agire, almeno fino ad una successiva delibera contraria.
Dal punto di vista, poi, ancora più generale, non può non rilevarsi
come il modello organizzativo non assolva, nella logica del decreto,
una finalità di tutela dei terzi, neppure quando esso debba essere tale
da scongiurare la recidivà; esso serve sempre e solo all’ente per tracciare la filiera dei comportamenti, per definire il limite tra ciò è conforme
e ciò che non lo è rispetto alle regole cui lo stesso ente ha deciso di
dotarsi: il modello organizzativo porta alla creazione di ordinamento
giuridico autonomo (non statuale, certo, ma convenzionale) che è fonte di regole di comportamento (doveri) e fonte, come qualunque sistema completo, di responsabilità derivanti dall’inadempimento a tali doveri. Tanto si tratta di un ordinamento a se che il comportamento di chi
di discosti dalle regole aziendali risulta, per l’ente, fonte di sanzioni (ad
esempio) disciplinari a prescindere dal fatto che esso costituisca o meno
un illecito per l’ordinamento statuale.
(16) Peraltro, ritenere che rientri nel potere della capogruppo quello di assumere decisioni in merito alla adesione ai principi della 231 e, più in particolare, il poteredovere di stabilire i presidi organizzativi che le singole controllate devono adottare,
significherebbe riconoscere in principio che capogruppo esercita “in fatto” la gestione ed il controllo, appunto, della controllate: il che risulta all’evidenza un dato estremamente pericoloso perché la capogruppo potrebbe vedersi sempre addebitata la responsabilità amministrativa anche per i reati eventualmente commessi nell’ambito della
controllata, in virtù dell’art. 5, comma 1, lett. a).
– 62 –
In quanto atto interno dell’azienda, quindi, esso è per definizione
– usando la terminologia dell’ordinanza – un atto unilaterale, senza
valenza esterna: esso pertanto dovrà essere valutato nella sua idoneità a
prevenire illeciti della stessa specie di quello per il quale si procede. La
tutela dei terzi, anche di coloro che intrattenessero rapporti con l’ente,
non compete, neppure nel contesto della 231, all’ente medesimo.
3.4. Diversamente ritenendo si dovrebbe immaginare il modello
organizzativo come parte dello statuto dell’ente – quindi approvato
dall’assemblea straordinaria ai sensi dell’art. 2365 c.c. e con l’adempimento degli oneri previsti dalla legge (controllo notarile, eventuale controllo giudiziario) – e come tale soggetto alle regole societarie relative
alla sua eventuale modifica.
Ma tale impostazione non è da condividersi per diverse ragioni.
In primo luogo per il fatto, già considerato, che la lettera del decreto espressamente si riferisce alla competenza dell’organo “dirigente”, mentre avrebbe ben potuto affermare, sempre con terminologia
atecnica ma efficace, la competenza “dell’ente” medesimo ad adottare
il modello, con ciò evocando l’opportunità/doverosità di un agire dell’organo sovrano, ossia l’assemblea. Argomento sempre formale – certo suggestivo e significativo – il fatto che il legislatore delegante tanto
credeva nella competenza gestoria che indicava al legislatore delegato
di disciplinare una forma di responsabilità tipica per il consiglio di
amministrazione.
In secondo luogo perché, allora ed in conseguenza, se l’adozione
del modello dovesse andare ad integrare lo statuto sociale anche la ‘creazione’ dell’organismo di controllo dovrebbe passare per una modifica
statutaria (17): il che trasformerebbe detto organismo in organo, con
(17) Il coinvolgimento dei soci nella creazione dell’organismo di controllo è la
tesi sostenuta da GUIZZI (manoscritto di una Relazione tenuta ad un seminario
ABIformazione il 20-11-2004, inedito: si ringrazia l’Autore per l’opportunità della
sua consultazione) che – pur dando per scontata la competenza gestoria per la creazione del modello organizzativo – nell’ambito di una raffinata analisi sul posizionamento
di tale organismo nel sistema del governo societario, afferma: “(...) balza, infatti, subito agli occhi che se si vuole costruire un sistema efficiente nell’ottica delineata dal
legislatore delegato – in cui vi siano le condizioni per poter almeno impostare un
ragionamento in ordine alla possibilità dell’ente di sottrarsi alla responsabilità per
reati commessi da soggetti in posizione apicale – è essenziale che l’organismo debba
essere dotato anche di poteri di intervento attivo nei confronti degli amministratori,
al fine di promuovere l’osservanza da parte di costoro di tali regole procedurali, e
financo di poteri sanzionatori e comunque repressivi di fronte a comportamenti che si
manifestino come devianti rispetto a tali regole di condotta, atteso che altrimenti ver-
– 63 –
tutti i corollari dogmatici che ciò postula: primo fra tutti quello della
disponibilità – da parte dell’autonomia statutaria dei soci – del diritto a
creare “organi” atipici (18).
Si dovrebbe allora doverosamente riscrivere la disciplina della
governance societaria, dei poteri e dei doveri degli organi e le relative
responsabilità, i criteri che informano il sistema delle deleghe (19).
La tesi statutaria, infine, non convince perché verrebbe a smentire
in principio il fatto che l’adozione di un modello organizzativo sia un
atto tipicamente di consiglio di amministrazione: al riguardo si ritiene
utile accennare alla circostanza – che certo meriterebbe un approfondimento a sé – che proprio la recente riforma delle società ha accentuato i poteri in capo all’organo amministrativo, sottraendo all’assemblea
quel generale potere di controllo “sugli altri oggetti attinenti alla gestione della società” che erano, invece, espressamente contemplati dall’art. 2363, comma 4, c.c. (20).
rebbe ad essere messa in discussione la stessa idoneità del modello a prevenire la
concretizzazione del rischio penale. Il che, però, implicherebbe anche di accettare
una sorta di sovraordinazione dell’organismo di vigilanza rispetto agli stessi amministratori, così incrinando alcuni punti che pure si vorrebbero essere fermi e consolidati
nella teoria dell’organizzazione societaria; vale a dire l’idea che vuole che la valutazione ultima sull’operato degli amministratori, e l’adozione di eventuali provvedimenti
nei confronti di quelli che contravvengano ai doveri di corretta amministrazione, sia
riservata soltanto ai soci, con determinazioni da assumere esclusivamente in sede assembleare”.
(18) La atipicità dell’organismo deriva, si ritiene, non tanto e solo dal fatto che
si tratti di un soggetto facoltativo (si potrebbe, infatti, obiettare al riguardo che la
stessa riforma delle società ha postulato il diritto a scegliere tra diversi sistemi opzionali,
quindi facoltativi, di amministrazione e controllo e che gli organi in questione sono
pertanto facoltativi, ma comunque organi della società), quanto dalla circostanza che
manca una disciplina legale di tale soggetto (del resto, essendo la sua composizione
ed il suo posizionamento nell’organigramma della società rimesso all’autonomia privata, appare difficile delineare, in via generale ed astratta, una disciplina sui rapporti
con gli altri organi, sulle responsabilità, ecc).
(19) La esatta collocazione, a seconda della scelta organizzativa adottata, di tale
organismo nella governance della società è, del resto, un tema di viva attualità e che,
nonostante l’importanza sistematica, non è stato ancora affrontato in modo esaustivo
dalla dottrina.
(20) Era proprio la formulazione dell’art. 2363, comma 4 – insieme con altri
indici normativi, tra cui ad esempio quello contenuto nell’art. 2403 relativo ai doveri
del collegio sindacale nonché, ancora più significativo, quello di cui all’art. 2392, comma
2 sulla responsabilità verso la società degli amministratori – che avevano consentito
alla dottrina di individuare l’essenza del concetto di gestione (attraverso il binomio
“amministrazione della società e gestione dell’impresa”) e che portava ad un
bilanciamento di poteri tra consiglio ed assemblea oggi non più rintracciabile nel dettato normativo.
– 64 –
4. Regole per la modificabilità del modello organizzativo
Aspetto collegato a quello del ‘soggetto’ (consiglio di amministrazione ovvero assemblea) deputato ad adottare il modello organizzativo
è quello relativo alle regole che devono essere seguite per la modifica
del modello organizzativo medesimo.
Lo spunto, ancora una volta, deriva dalla ordinanza del Tribunale
di Roma (...) ove si legge: “si concorda con il p.m. sull’opportunità di
inserire una previsione in deroga all’art. 2388 c.c., che preveda una maggioranza qualificata del consiglio di amministrazione in caso di modifiche
del modulo organizzativo adottato, una maggioranza particolarmente significativa, sì da garantire la stabilità e l’effettività del modulo”.
L’osservazione proposta dal giudicante, infatti, non solo non è in
linea con quanto espressamente previsto dal decreto, ma ripropone in
tutta la sua ampiezza sia il tema della determinatezza del concetto di
idoneità di cui sopra si è detto, sia quello della fonte del modello organizzativo.
L‘art. 6, comma 1, lett. b) del decreto, infatti, espressamente prevede che “il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei
modelli, di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo
dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo”. Ora, seppure potrebbe in astratto criticarsi la previsione del legislatore visto
che non è perfettamente coerente immaginare che un soggetto (l’organismo di controllo) aggiorni qualcosa che non ha predisposto (è infatti
l’organo dirigente ad adottare ed efficacemente attuare il modello), la
lettera della legge non sembra comunque lasciare spazio ad interpretazione ulteriori: ciò significa, pertanto, che il potere/dovere di modificare il modello spetta non già al consiglio, ma a quell’organismo cui il
consiglio ha demandato tale compito.
Si diceva, poi, dell’ulteriore ricaduta i quanto affermato dal giudicante sotto il profilo della “determinatezza” e della “fonte”.
Il problema della determinatezza deriva, all’evidenza, dalla circostanza che il giudicante ha valutato la inidoneità del modello proposto
dall’azienda avendo riguardo ad un elemento organizzativo che non
trova alcun riscontro né formale né di ratio nel decreto.
Il problema della fonte deriva, invece, dal fatto che il giudicante,
nel richiedere che il consiglio di amministrazione, allorché debba modificare il modello organizzativo, si vincoli a deliberare con una maggioranza più qualificata rispetto quella prevista in via generale dal codice civile (art. 2388 c.c.), va a postulare, ancora una volta, un intervento
sullo statuto. Infatti, per la validità delle deliberazioni del consiglio è
– 65 –
necessaria la presenza della maggioranza degli amministratori in carica
e le deliberazioni sono prese a maggioranza assoluta dei voti, salvo che
l’atto costitutivo richieda un maggior numero dei presenti o una maggioranza più elevata.
CHIARA MANCINI
– 67 –
TRIBUNALE DI MANTOVA, – 13 ottobre 2003
Giudice Unico GIBELLI
Bianchi Paola c. Alfa Ack Servizi Finanziari Sim s.p.a. e Verdi Paolo
La difformità dei mezzi di pagamento utilizzati dal risparmiatore
non integra una ipotesi di concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227
c.c., tale da escludere la responsabilità solidale della società di intermediazione mobiliare, se non laddove si evidenzi una colpa esclusiva del
risparmiatore, per imprudenza non scusabile, che rivesta una incidenza
causale determinante ed unica nella creazione del danno (1).
La società di intermediazione mobiliare è responsabile in via solidale dei danni derivati all’investitore in conseguenza del fatto illecito del
promotore finanziario, ad essa legato da un rapporto di agenzia, che abbia
distratto fondi; in tal caso, soltanto la prova della consapevole collusione
tra risparmiatore e promotore finanziario è idonea ad escludere questa
responsabilità (2).
Svolgimento del processo – Con atto di citazione in data 13/9/2000
Bianchi Paola, residente in Oregno Po, evocava in giudizio la Alfa ACK
Servizi Finanziari Sim s.p.a., con sede in Milano, e Verdi Paolo, residente in Magnacavallo, esponendo:
1) di intrattenere rapporti sin dal 1990 con la Alfa ACK che nella
sua zona di residenza operava tramite il promotore Verdi Paolo;
2) che nel corso di dieci anni tra 1990 e 1999 aveva consegnato al
Verdi la complessiva somma di L. 849.000.000 a mezzo assegni bancari
come da elenco che allegava;
3) che nel corso di dieci anni di rapporto ella non aveva mai avuto
bisogno di smobilizzare somme per proprie personali esigenze e tuttavia il Verdi l’aveva convinta a disinvestire parte delle somme immobilizzate in fondi di investimento per impiegarle in strumenti finanziari
più remunerativi; era stato così che ella consigliata dal Verdi, si era
fatta liquidare dalla Alfa ACK parte delle somme investite in fondi di
investimento che le erano state accreditate in parte su un conto corrente appositamente acceso presso la ACK Bank ove erano state versate L.
289.000.000, e in parte sul proprio conto aperto presso la Banca AM
ove erano state versate somme per L. 211.000.000; detti importi erano
stati poi nuovamente consegnati al Verdi affinché li investisse utilizzando altri strumenti finanziari asseritamene più remunerativi;
4) che ella quindi utilizzando le somme ottenute liquidando fondi
d’investimento‘ aveva consegnato al Verdi gli assegni bancari tratti sul
– 68 –
proprio conto corrente presso la Banca AM di cui all’elenco che allegava per complessive L. 211.000.000 e aveva consegnato altresì ulteriori
assegni bancari tratti sul proprio conto corrente ACK Bank di cui all’elenco che pure allegava per ulteriori L. 289.000.000;
5) che il rapporto instauratosi con Alfa ACK, sempre a mezzo del
promotore finanziario Verdi Paolo, era divenuto particolarmente assiduo anche perché spesso il Verdi si era presentato presso la residenza
dell’attrice decantando la propria bravura e la bontà degli investimenti
effettuati e chiedendo all’attrice di investire sempre ulteriori denari con
la promessa che nel volgere di poco tempo si sarebbero sicuramente
moltiplicati; era così accaduto che il Verdi si facesse rilasciare assegni
privi dell’indicazione del beneficiario sostenendo che avrebbe personalmente provveduto alla compilazione sulla base della tipologia della
polizza da sottoscrivere, ovviamente la più remunerativa in quel determinato momento;
6) che il 20 agosto 1999, previo appuntamento, si erano presentati
presso l’abitazione dell’attrice tale rag. Fassa della Alfa ACK accompagnato da tale Rossi presentatosi quale nuovo promotore finanziario in
luogo del Verdi che aveva fatto presente all’attrice che forse la situazione dei propri investimenti non era esattamente quella fino ad allora
descrittale dal suo predecessore;
7) che, pochi giorni dopo, sempre nel mese di agosto 1999, era
pervenuta all’attrice la lettera datata 16/8/1999 della Alfa ACK con cui
si comunicava che il Verdi non faceva più parte dell’organizzazione
Alfa ACK;
8) che a quel punto l’attrice aveva iniziato a richiedere agli istituti
bancari le copie degli assegni consegnati al Verdi ed a richiedere insistentemente alla Alfa ACK informazioni sulla sorte dei propri investimenti; nel contempo ella aveva ottenuto la copia di un documento già
in possesso della Alfa ACK col quale il Verdi ammetteva tranquillamente di aver distratto somme consegnategli dall’attrice per la non
modica somma di L. 824.500.000 in parte incassando personalmente
gli assegni ed in parte girandoli a terzi sconosciuti, documento che lo
stesso Verdi aveva redatto, sottoscritto e consegnato in copia all’attrice
tramite terze persone;
9) che, all’esito degli accertamenti compiuti, aveva, proprio malgrado, potuto accertare che:
a) trentotto assegni per complessive L. 324.500.000 tutti consegnati al promotore non erano mai stati versati negli strumenti finanziari commercializzati da Alfa ACK ma in parte erano stati incassati dal
Verdi ed in parte da questi consegnati a terzi sconosciuti;
– 69 –
b) undici assegni relativi a somme prelevate dai fondi e accreditate sul conto Banca AM per complessive L. 211.000.000, tutti consegnati al promotore, non erano mai stati versati negli strumenti finanziari
commercializzati da Alfa ACK ma erano stati in parte incassati dal Verdi e in parte da questi consegnati a terzi sconosciuti;
c) diciannove assegni relativi a somme prelevate dai fondi e accreditate sul conto ACK Bank per complessive L. 289.000.000, tutti consegnati al promotore, non erano mai stati versati negli strumenti finanziari commercializzati da Alfa ACK ma in parte erano stati incassati dal
Verdi e in parte erano stati da questi consegnati a terzi sconosciuti;
quanto accertato dall’attrice coincideva con la relazione redatta dal Verdi
stesso;
10) che, a seguito delle innumerevoli richieste di essere reintegrata nel proprio patrimonio avanzate dalla attrice alla società Alfa ACK,
quest’ultima aveva risposto con lettera 20/6/2000 con la quale aveva
manifestato la disponibilità a rimborsare all’attrice la somma di L.
200.000.000;
11) che in data 7/7/2000 il legale dell’attrice aveva inviato alla
Alfa ACK lettera con cui si ribadivano le richieste già avanzate dalla
stessa attrice personalmente, si ribadiva altresì l’ammontare delle somme distratte dall’infedele promotore e si richiedeva il risarcimento del
danno;
12) che, a fronte di tale richiesta, era pervenuta al legale dell’attrice l’ulteriore lettera Alfa ACK del 25/7/2000 con cui si manifestava
la disponibilità a corrispondere all’attrice l’importo di L. 266.300.000,
lettera alla quale si era risposto rappresentando la disponibilità a trattenere la somma di L. 266.300.000 a titolo di acconto sul maggior
danno;
13) che da quanto esposto emergeva con evidenza la responsabilità del Verdi e della Alfa ACK per il danno subito. Ciò premesso
Bianchi Paola chiedeva l’accoglimento delle seguenti conclusioni nel
merito:
“Accertato come vero quanto esposto in premessa condannarsi la
società Alfa ACK Servizi Finanziari SIM spa in persona del legale rappresentante pro tempore ed il sig. Verdi Paolo in via tra loro solidale ad
immediatamente corrispondere all’attrice la capital somma di L.
824.500.000 oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi di legge
dalle date di negoziazione dei singoli assegni al saldo effettivo; condannarsi altresì i convenuti in solido tra loro a risarcire all’attrice il danno
derivato dal mancato investimento delle somme consegnate al promotore finanziario negli strumenti finanziari concordati con lo stesso nella
– 70 –
misura che risulterà di giustizia all’esito dell’espletanda istruttoria o
che sarà determinata dal Giudice anche equitativamente.
Vittoria di spese, diritti ed onorari di causa, 10% rimb. spese forf.,
CPA 2% ed IVA inclusi.”
Si costituiva ritualmente il Verdi il quale riconosceva la fondatezza delle domande dell’attrice e non contestava le allegazioni che le supportavano. Verdi Paolo concludeva pertanto per l’accoglimento delle
sopra riportate conclusioni. Si costituiva ritualmente pure la Alfa ACK
Servizi Finanziari SIM spa che, in via preliminare, formulava istanza di
riunione del processo con quello promosso contro il Verdi dopo aver
ottenuto sequestro conservativo di tutti i beni dell’ex promotore sino
alla concorrenza di L. 5.000.000.000. In tale giudizio pendente avanti
al Tribunale di Mantova, Magistratura del Lavoro, Alfa ACK Sim aveva chiesto la condanna dell’ex promotore al pagamento in suo favore
delle somme pretese dai vari sottoscrittori. In subordine Alfa ACK Sim
chiedeva la sospensione del giudizio in attesa della definizione della
controversia pendente avanti al Giudice del Lavoro. Nel merito Alfa
ACK Sim evidenziava che l’attrice era stata in grado solo in parte di
fornire adeguata documentazione a sostegno delle proprie pretese atteso che solo per alcuni degli assegni consegnati al Verdi era stato possibile trovare un collegamento con operazioni di investimento effettivamente richieste dalla cliente e pertanto era stato possibile procedere
al rimborso. L’eccepita carenza probatoria si rifletteva anche sull’altra
domanda prospettata dall’attrice e cioè sulla richiesta di risarcimento
del danno. In via subordinata Alfa ACK Sim deduceva l’applicabilità
nel caso di specie del principio di cui all’art. 1227 c.c. e formulava l’exceptio doli generalis avendo l’attrice taciuto nella prospettazione della controversia situazioni sopravvenute alla fonte negoziale del diritto fatto
valere concretantisi, nel caso di specie, secondo la prospettazione della
convenuta, nell’esistenza di una gestione in proprio da parte del Verdi
del denaro e dei titoli affidatigli dall’attrice. In via di ulteriore subordine Alfa ACK Sim chiedeva che il Verdi fosse condannato a tenerla indenne da qualsiasi conseguenza pregiudizievole che dovesse derivarle
in relazione ai fatti oggetto del giudizio:
La Alfa ACK Sim concludeva pertanto per l’accoglimento delle
seguenti conclusioni:
“Voglia l’Ill.mo Tribunale di Milano (rectius Mantova n.d.r.) ogni
avversa istanza eccezione e deduzione respinta così statuire:
1) in via preliminare disporre la riunione ex art. 274 c.p.c. del
presente giudizio al giudizio pendente davanti al Tribunale di Mantova
sezione Lavoro G.U. dott.ssa Mantovani con il n. 1499/99 R.G. o, in
– 71 –
subordine, disporre la sospensione ex art. 295 c.p.c. del presente giudizio in attesa dell’esito della citata causa pendente davanti al Tribunale
di Mantova Sezione Lavoro;
2) nel merito rigettare le domande proposte dalla dott.ssa Paola
Bianchi nei confronti della Alfa ACK Sim s.p.a.;
3) in via subordinata condannare il convenuto Paolo Verdi a manlevare e a tenere indenne la società esponente da qualsiasi conseguenza
pregiudizievole che dovesse derivare in capo alla società esponente in
relazione ai fatti oggetto del presente giudizio;
4) condannare l’attrice o chi per essa al pagamento a favore
della società convenuta delle spese, diritti e onorari di causa”. In verbale di udienza di prima comparizione la difesa dell’attrice dava atto che
Alfa ACK Sim aveva corrisposto la somma di L. 266.300.000 trattenuta
a titolo di acconto sulle maggiori somme pretese. Stante la dedotta connessione con altra causa pendente avanti lo stesso Tribunale il G.I. riferiva al Presidente del Tribunale il quale reputava opportuno che le cause restassero assegnate ai Giudici già designati. Fissata udienza per l’interrogatorio formale del Verdi questi non compariva all’udienza stessa
senza addurre alcun legittimo impedimento.
Assunta prova per testi, con ordinanza in data 29/1/2003 veniva
rigettata l’istanza di parte attrice volta ad ottenere ctu per accertare i
rendimenti delle somme versate dalla attrice al Verdi qualora fossero
state correttamente investite”.
Precisate le conclusioni come sopra riportate la causa, all’udienza
del 20/5/2003, veniva trattenuta per la decisione previa assegnazione
dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.
Motivi della decisione – Va preliminarmente osservato che l’attrice non ha riproposto in sede di precisazione delle conclusioni la domanda, originariamente formulata in atto di citazione, di risarcimento
del danno costituito dal mancato investimento delle somme consegnate al promotore negli strumenti finanziari concordati con lo stesso.
Ancora si deve dare atto che la difesa dell’attrice in comparsa conclusionale ha riconosciuto che la somma precisata in sede di conclusioni (L. 824.500.000) per mero errore materiale non tiene conto di quanto già versato da Alfa ACK.
Ciò premesso ulteriormente si osserva quanto segue.
La vicenda de qua si è sviluppata nell’arco di dieci anni, dal 1990
al 1999, nel corso dei quali si sono succeduti la legge 2/1/1991 n. 1
(Disciplina dell’attività di intermediazione mobiliare e disposizioni sull’organizzazione dei mercati mobiliari), il d.lgs. 23/7/1996 n. 415 (rece-
– 72 –
pimento della direttiva 93/22/CEE del 10 maggio 1993 relativa ai servizi di investimento del settore dei valori mobiliari e della direttiva 93/
6/CEE del 15 marzo 1993 relativa all’adeguatezza patrimoniale delle
imprese di investimento e degli enti creditizi) e il d.lgs. 24/2/1998 n. 58
(Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52).
L’art. 4 delle legge n. 1/91 prevedeva al quarto comma che “la
società di intermediazione mobiliare è responsabile in solido degli eventuali danni arrecati a terzi nello svolgimento delle incombenze affidate
ai promotori finanziari anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale”.
L’art. 23 del d.lgs. n. 415/96 e l’art. 31 del d.lgs. n. 58/98 prevedono al terzo comma che “il soggetto abilitato che conferisce l’incarico è
responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal promotore finanziario, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in
sede penale”.
Deve condividersi, a parere del Giudicante, l’orientamento giurisprudenziale che appare prevalente secondo cui la responsabilità dell’intermediario per il fatto del promotore ha carattere essenzialmente
oggettivo imputandosi alla società intermediaria, nell’interesse della
quale l’attività viene svolta dal promotore, il costo del rischio dell’attività medesima e quindi l’illecito del promotore. Il rischio infatti non
può cadere sull’inerme risparmiatore ma deve cadere su chi sceglie il collaboratore, se ne avvale, lo organizza, lo controlla e può tradurre il rischio stesso in costo.
Come è stato opportunamente osservato la normativa in questione rientra tra le norme a tutela del consumatore (nella fattispecie il
risparmiatore) di cui tende a proteggere la buona fede di fronte a soggetti in posizione preminente per il fatto di svolgere abitualmente e
professionalmente l’attività, inquadrandosi pertanto nello stesso filone
degli artt. 1469 bis e seg. c.c. sui contratti del consumatore, 1519 bis e
seg. c.c. sulla vendita dei beni di consumo, del d.lgs. 15/1/90 n. 50 sulla
vendita “porta a porta”, del d.lgs. 17/3/95 n. 111 sui viaggi “tutto compreso”.
Si deve quindi ritenere che:
a) è necessario e sufficiente per il risparmiatore provare la qualità
di promotore del soggetto che ha distratto i fondi e appunto la distrazione delle somme, spettando alla società intermediaria eccepire e dimostrare – quale unica possibilità di esclusione della responsabilità – la
collusione consapevole tra risparmiatore e promotore e cioè che l’investimento è avvenuto per espresso patto tra le parti al di fuori dell’inca-
– 73 –
rico conferito per avere il cliente consapevolemente richiesto investimenti finanziari del tutto estranei all’attività svolta dalla s.i.m. (Trib.
Verona 1/3/2001);
b) la responsabilità solidale della s.i.m sussiste anche se il promotore non abbia il potere di rappresentanza ed a prescindere dal fatto
che il promotore stesso sia o meno rappresentante apparente della società (Trib. Verona 1/3/2001);
c) la responsabilità solidale della s.i.m non è esclusa dal fatto
che il rapporto contrattuale intrattenuto dal promotore col cliente
sia formalmente riconducibile a soggetti terzi o al promotore stesso,
qualora questi abbia operato nel medesimo contesto spazio temporale in cui svolgeva le sue funzioni di promotore della s.i.m e per
analoghe finalità di investimento finanziario (Trib. Brescia 23/12/
2002);
d) la responsabilità solidale della s.i.m. non è esclusa dall’irregolare forma di pagamento adottata dal risparmiatore danneggiato, in difformità dalle indicazioni fornite dalla società preponente e dalla normativa Consob di settore, se non nel caso in cui si evidenzi una colpa
esclusiva del risparmiatore; per imprudenza non scusabile, tale da rivestire un’incidenza causale determinante ed unica nella creazione del
danno (Trib. Brescia 23/12/2002).
Si è pienamente consapevoli del fatto che si tratta di un orientamento giurisprudenziale assai rigoroso e tuttavia ogni diversa opzione
interpretativa sarebbe in contrasto – come è stato osservato – con la
ratio di una disposizione speciale che negli ultimi dieci anni è stata ribadita per tre volte e via via precisata al fine di fugare equivoci riduttivi.
Naturalmente l’onere della prova è contenuto nei limiti di cui sopra sub a) qualora non sia formulata (anche) domanda di risarcimento
del danno rappresentato dal risultato che il danneggiato avrebbe conseguito dalla puntuale negoziazione dei titoli atteso che in tal caso vale
quanto si è detto con ordinanza 29/1/03.
Nel caso di specie come si è sopra detto la domanda risarcitoria
avente ad oggetto il danno derivato dal mancato investimento delle
somme consegnate al promotore finanziario negli strumenti finanziari
concordati con lo stesso è stata rinunciata.
In fatto è pacifico che la società convenuta (all’epoca denominata
Alfa s.p.a) abbia conferito a Verdi Paolo il 24/9/1984 l’incarico di agente
non esclusivo allo scopo di promuovere e sviluppare il collocamento
sul mercato di beni e servizi mobiliari ed immobiliari distribuiti dalla
preponente secondo i termini e le modalità previste nelle condizioni
– 74 –
generali del contratto con assegnazione della zona di Magnacavallo e
Gronico Po.
Il prudente apprezzamento del materiale probatorio acquisito induce a ritenere provata la distrazione da parte del Verdi delle somme a
lui consegnate dall’attrice a mezzo degli assegni in atti in copia.
Il teste Omero Giuseppe, promotore finanziario di ACK Bank, ha
tra l’altro affermato (ud. 20/11/2002): “... Ho collaborato con la dott.ssa
Bianchi nella ricostruzione della sua posizione finanziaria nei rapporti
con Alfa ACK. Non ricordo con esattezza l’importo, però posso dire
che sicuramente le somme consegnate dalla dott.ssa al Verdi superavano gli 800 milioni ...”; e ancora: “... Nella ricostruzione della posizione
contabile della sig.ra Bianchi è emerso che a fronte della emissione di
un certo numero di assegni da parte della dott.ssa Bianchi non vi era
riscontro nei dati della Alfa ACK. In tali circostanze ho invitato la
dott.ssa Bianchi a compiere accertamenti presso la sua Banca e dagli
stessi è emerso che gli assegni in parte erano stati incassati direttamente
dal Verdi e in parte da terzi sconosciuti a me e alla dott.ssa Bianchi ...”.
La difesa della società convenuta sottolinea il fatto che il predetto
teste ha anche soggiunto che la circostanza della consegna degli assegni al
Verdi gli è stata riferita dall’attrice ed evidenzia che si tratta quindi di testimonianza de relato ex parte actoris, come tale priva di valore probante.
Va ricordato a questo punto che, contrariamente a quanto
ritenuto dalla difesa di Alfa ACK s.i.m., non è vietato al Giudice del
merito desumere elementi utili al proprio convincimento anche dalle
testimonianze de relato ex parte actoris, quando esse al suo prudente
apprezzamento appaiono, in concorso con altri elementi, dotate di efficacia probante (Cass. Civ. Sez. II 11/2/1987 n. 1492; Cass. Civ. Sez. II
18/5/1996 n. 4618).
Nel caso di specie le dichiarazioni dell’Omero acquistano efficacia probante valutate unitamente alle produzioni documentali di parte
attrice – tra le quali la relazione a firma (non disconosciuta) del Verdi,
doc. 5 di parte attrice – e al comportamento processuale dello stesso
Verdi che, costituendosi in giudizio, ha riconosciuto la fondatezza della
domanda di Bianchi Paola e, nel corso del giudizio, non è comparso a
rendere le risposte al dedotto interrogatorio formale senza addurre alcun legittimo impedimento.
La difesa della società convenuta richiama il principio secondo
cui “... la confessione del Verdi dei fatti per cui è causa – ci si riferisce
tanto alla confessione rappresentata dall’elenco dei c.d. mancati investimenti siglato dal Verdi (documento 5 avversario), tanto a quella derivante ex art. 232 c.p.c., dalla mancata comparizione dell’ex promotore
– 75 –
finanziario a rendere l’interrogatorio formale deferitogli – ... è, in ogni
caso efficace solo nei confronti del Verdi, e non già nei confronti della
Alfa ACK”.
Al riguardo si osserva che, se è vero che in caso di litisconsorzio
necessario la confessione resa da uno dei litisconsorti non può acquistare valore di prova legale anche nei confronti delle persone diverse
dal confitente in quanto costui non ha alcun potere di disposizione in
ordine a situazioni giuridiche che fanno capo a altri distinti soggetti del
rapporto processuale, è anche vero che il Giudice può apprezzare liberamente la dichiarazione confessoria e trarne elementi di convincimento valutabili secondo i principi della logica comune, anche nei confronti degli altri litisconsorti (Cass. Civ. Sez. II 6/9/2002 n. 12980); analoghe considerazioni valgono per il caso di litisconsorzio facoltativo (Cass.
Civ. Sez. III 23/ 4/2001, n. 5973).
L’apprezzamento, nel caso di specie, non può che essere in termini favorevoli alla prospettazione attorea atteso il riscontro, anche sotto
il profilo del quantum, salvo quanto si dirà oltre, che la ricostruzione
compiuta dall’attrice della movimentazione delle somme consegnate al
Verdi trova nella relazione del Verdi stesso.
La tesi della società convenuta secondo la quale ai sensi dell’ art.
1227 c.c., “il comportamento della dott.ssa Bianchi – consistito nel consegnare al Verdi assegni irregolarmente compilati o addirittura non intestati – costituisce, con ogni evidenza, un concorso del fatto colposo
del creditore, tale da escludere il diritto al risarcimento del danno” non
può essere condivisa. Come si è detto sopra la responsabilità solidale
della s.i.m. non è esclusa dall’irregolare forma di pagamento adottata
dal risparmiatore danneggiato in difformità dalle indicazioni fornite
dalla società preponente e dalla normativa Consob di settore se non nel
caso in cui si evidenzi una colpa esclusiva del risparmiatore, per imprudenza non scusabile, tale da rivestire un’incidenza causale determinante ed unica nella creazione del danno. Nel caso di specie ciò non è
sicuramente avvenuto atteso che la stessa società convenuta nel 1991
ha conferito al Verdi un ulteriore incarico accessorio a quello relativo
all’attività di promozione diretta e cioè l’assistenza commerciale relativa all’attività di un gruppo di agenti e poi nel 1998 ha sottoscritto un
nuovo contratto di agenzia col Verdi che comportava un notevole ampliamento della zona ed una conferma dell’incarico accessorio e collaterale di assistenza commerciale in relazione all’attività di un determinato gruppo di agenti. Tali comportamenti evidenziano l’incondizionata
fiducia da parte di Alfa ACK, primaria azienda nel settore dell’intermediazione mobiliare, nel Verdi e giustificano la fiducia della dott.ssa Bian-
– 76 –
chi che, medico ospedaliero, è lecito ritenere – come dedotto – persona
del tutto sprovveduta nella materia dell’investimento mobiliare.
In ogni caso poi la difformità nelle modalità di pagamento non
interrompe il nesso di occasionalità necessario e sufficiente per la nascita dell’obbligazione solidale.
Né può condividersi la tesi della società convenuta secondo cui la
stessa nel caso di specie non potrebbe essere chiamata a rispondere
atteso che il Verdi avrebbe operato per conto dell’attrice “una vera e
propria gestione in proprio dei patrimoni da essa imprudentemente ed
irregolarmente affidatigli”.
Alfa ACK s.i.m. infatti non ha provato l’impulso consapevole del
risparmiatore colluso, unica circostanza che, come si è sopra visto, avrebbe potuto esimerla dalla responsabilità solidale.
Incidentalmente si osserva che, come è stato opportunamente rilevato, nelle versioni normative più recenti (sopra richiamate) il legislatore ha fatto cadere l’inciso “nello svolgimento delle incombenze affidate ai promotori finanziari” e ciò al fine di evitare il tentativo di una
interpretazione sostanzialmente abrogativa della responsabilità delle
società di intermediazione. Per quanto riguarda la domanda subordinata della società convenuta con la quale la stessa ha chiesto, per l’ipotesi di accoglimento anche solo parziale della domanda attorea, che in
ogni caso il Verdi venga condannato a manlevarla da qualsiasi conseguenza pregiudizievole si osserva che Alfa ACK s.i.m deve ritenersi
carente di interesse; trattasi di carenza sopravvenuta atteso che, come
si rileva dalla comparsa conclusionale nell’interesse del Verdi – in relazione alla quale nulla ha replicato la difesa di Alfa ACK s.i.m. –, la
società convenuta ha concluso vittoriosamente la causa promossa nei
confronti del Verdi avanti a questo Tribunale, Magistratura del Lavoro
per la condanna al risarcimento di tutti i danni arrecati ad essa dal
comportamento del promotore.
La domanda di Bianchi Paola pertanto merita accoglimento; si
deve solo precisare che la domanda viene accolta con detrazione dell’importo di L. 10.000.000 atteso che quanto contenuto nella parte finale della relazione del Verdi (“... Dati: -05/99 L. 10.000.000 dal mio c/c
ACK bank”) trova riscontro nella lettera a firma dell’attrice in data 15/
2/2000 (doc. 8 del fascicolo Alfa ACK) nella quale Bianchi Paola chiede il rimborso di L. 814.500.000 cifra totale cui perviene detraendo
l’importo di L. 10.000.000.
Si deve tenere conto del fatto che Alfa ACK s.i.m ha già corrisposto all’attrice la somma di L. 266.300.000 trattenuta a titolo di acconto.
Verdi Paolo e Alfa ACK Servizi Finanziari SIM s.p.a vanno quindi con-
– 77 –
dannati in via tra loro solidale al pagamento in favore dell’attrice della
somma di • 283.121,67 corrispondenti a L. 548.200.000 pari alla differenza tra L. 814.500.000 e L. 266.300.000; oltre a ciò competono gli
interessi nella misura legale dalla data di negoziazione dei singoli assegni sull’importo annualmente rivalutato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in • 13.722,23 di
cui • 1292,23 per esborsi, • 4000,00 per diritti, • 7300,00 per onorari,
• 1130,00 per rimborso spese generali oltre a quanto dovuto per legge.
P.Q.M.
Il Tribunale ogni contraria istanza eccezione e deduzione disattesa così provvede: 1) Condanna Verdi Paolo e Alfa ACK Servizi Finanziari SIM s.p.a. in via tra loro solidale al pagamento in favore di Bianchi
Paola della somma di • 283.121,67 oltre interessi e rivalutazione monetaria come in motivazione;
2) Condanna Verdi Paolo e Alfa ACK servizi Finanziari SIM s.p.a.
in via tra loro solidale alla rifusione delle spese che si liquidano in
• 13.722,23 di cui • 1292,93 per esborsi, • 4000,00 per diritti,
• 7300,00 per onorari • 1130,00 per rimborso spese generali oltre a
quanto dovuto per legge.
– 79 –
TRIBUNALE DI LECCE - 28 giugno 2004
Giudice Onorario in funzione di Giudice Unico TINELLI
Addolorata M./Calabrese A. c. Banca San Paolo Invest SPA
Svolgimento del processo – In data 20 luglio 1997 il promotore
finanziario C.A. induceva la sig.ra M. a stipulare un contratto di partecipazione in due fondi della San Paolo: “Andromeda” (per L.
30.000.000) e “Junior” (per L. 25.000.000). L’attrice versava al sig. C.A.
brevi manu n. 5 assegni per l’ammontare complessivo di L. 50.000.000,
la restante somma di L. 5.000.000 era corrisposta per contanti, il tutto
per un totale di L. 55.000.000 che sarebbero dovuti essere versati sul
proprio libretto di risparmio e in seguito prelevati per l’acquisto di
fondi. In realtà, sosteneva l’attrice ciò non è mai accaduto ed i soldi
sono spariti. Con atto di citazione, notificato in data 10/05/1999, M.A.
citava a comparire in giudizio la Banca San Paolo Invest SpA ed il sig.
C.A., per sentire accogliere le seguenti conclusioni:
1) accertare e dichiarare la responsabilità risarcitoria del promotore finanziario C. A. in ordine alle lamentate irregolarità ed alla lesione dei diritti patrimoniali di M.A. nonché la responsabilità solidale della San Paolo Invest SpA;
2) conseguentemente, condannare C.A. e la San Paolo Invest SpA
al risarcimento dei danni patiti dall’attrice mediante pagamento in solido della somma di L. 55.000.000, in suo favore; oltre al mancato rendimento delle operazioni finanziarie di cui sopra, da determinarsi a mezzo di consulenza tecnica oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali, con vittoria di spese e compensi.
Si costituiva la Banca San Paolo Invest SpA con comparsa del 23/
06/1999 chiedendo il rigetto della domanda attorea ed in subordine
nella denegata ipotesi di accoglimento della stessa che fosse condannato il C.A. al rimborso delle somme che la banca fosse condannata a
rifondere all’attrice. Il sig. C.A. rimaneva contumace.
Le parti comparivano alla prima udienza del 14/10/99 ed il G.I.
dott.ssa Evangelista, si riservava di decidere sull’istanza della San Paolo Invest di notificare atto di costituzione e risposta al sig. C.A.
Il. G.I. scioglieva la riserva dichiarando la contumacia di quest’ultimo e rinviando la causa all’udienza del 13/01/2000, concedendo i
termini richiesti dalla San Paolo Invest per la suddetta notifica.
All’udienza del 13/01/2000 si chiedevano termini di rito ex art.
183, comma 5, c.p.c., che venivano concessi, con rinvio della causa all’udienza del 26/1012000, nella quale si chiedevano termini per il de-
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posito di note istruttorie, che venivano ammesse con alcune limitazioni
con ordinanza pronunciata fuori udienza il 3/12/02 a seguito di riserva
dell’udienza del 5/03/2002. Tale provvedimento oltre alla prova per
testi, ammetteva CTU affinché fossero determinati i rendimenti medi
delle operazioni finanziarie prospettate all’attrice dal sig. C. A., con
l’ingresso nei fondi “San Paolo Andromeda” e “San Paolo Junior”, fino
alla data di notificazione dell’atto di citazione.
Dopo la fase istruttoria all’udienza del 12/02/2004 le parti precisavano le proprie conclusioni innanzi al G.O.T. dott.ssa Maria Carmela
Tinelli e la causa veniva trattenuta per la decisione.
Motivi della decisione – La domanda dell’ attrice è fondata e va
accolta.
Nel caso de quo, la banca San Paolo eccepisce la mancata produzione di assegni in base ai quali l’attrice avrebbe spiegato domanda,
tale eccezione è superata oltre che per ammissione della stessa banca
laddove rileva che sono stati incassati oltre che dal C.A. anche da terzi
ma soprattutto dall’elaborato del C.T.U. dott. Giuseppe Carcagnì, il
quale in merito alla richiesta di documentazione originale presentata
dal convenuto Istituto San Paolo Invest S.I.M. poiché i titoli di cui
trattasi sono assegni circolari di proprietà dell’istituto di credito emittente “Banca Popolare Pugliese” filiale di Aradeo SpA e poiché la richiesta poteva essere soddisfatta solo in casi eccezionali su espressa
domanda del Giudice ha prodotto copia fronte-retro conforme agli
originali degli assegni in oggetto rilasciata dall’Istituto “Banca Popolare Pugliese” filiale di Aradeo. L’eccezione, va dunque reietta.
Né tantomeno meritevole di accoglimento è la richiesta di riduzione del risarcimento avanzata dalla banca ex art. 1227 c.c. sulla base
di una valutazione della rilevanza e delle conseguenze che i comportamenti della sig.ra A.M. hanno avuto nella determinazione del danno. Ed invero quanto eccepito circa le modalità di pagamento indicate dall’attrice vale a dire con assegni circolari a lei intestati e girati e
con denaro in contanti che risulterebbero irregolari in quanto difformi da quelle previste per legge è del tutto irrilevante al fine di accertare responsabilità in ordine all’oggetto per cui è causa. L’interrogatorio del C.A. consente pacificamente e senza ombra di dubbio di
superare ogni eccezione proposta dalla Banca in tal senso, nonché di
ravvisare ogni responsabilità in capo allo stesso ed alla Banca. Lo stesso
promotore infatti all’udienza del 15/0412003 asseriva: “La sig.ra M.
seguì tutte le mie indicazioni senza sollevare problemi confidando nel
buon esito delle operazioni stesse anche perché avevo pregressi ana-
– 81 –
loghi rapporti con altri membri della famiglia e riscuotevo della fiducia della signora”.
Dalle dichiarazioni del C.A. emergono evidenti le responsabilità
dello stesso e della San Paolo Invest SpA.
Ed infatti il C.A. ammette in toto quanto da parte attrice lamentato: è vero che lo stesso ha ricevuto le somme indicate in citazione è vero
che gli investimenti non sono mai stati effettuati. È vero che le somme
consegnategli sono dallo stesso state intascate per motivi personali, è
vero anche che consegnò alla sig.ra M. un libretto di risparmio nominativo contraffatto con l’annotazione dell’importo versato. Le testimonianze dei sigg.ri G.T. e T. M. escussi nella medesima udienza rafforzano ulteriormente quanto, in realtà, già palese e confessato dal C.A.
È di tutta evidenza come la responsabilità dell’accaduto sia da
addebitare in solido sia alla Banca San Paolo Invest SpA che al sig.
C.A. È innegabile la responsabilità di cui all’art. 31 del d.lgs. 58/98 che
fa seguito alla disciplina dettata dalla 1.1/91 e d.lgs. 415/96, pertanto
deve essere attribuita alla Sim la responsabilità per i danni cagionati
nello svolgimento dell’attività di raccolta del risparmio dal promotore
ad essa legato con rapporto di agenzia (Trib. Verona 06/0312001) e ciò
anche in considerazione dell’età della stessa M. che nel 1997 aveva 71
anni ed andava maggiormente tutelata proprio dalla Banca.
Nulla rilevando nel caso di specie che l’interrogando C.A. abbia
tentato di tenere indenne la Banca per quanto da egli trattenuto, poiché la Banca era ben consapevole che il C.A. intratteneva rapporti di
investimento con la sig.ra M.A.
Lo attesta inconfutabilmente la missiva (all. 9 al fascicolo di parte
attrice) del 24/11/1997 della San Paolo Invest SpA ed indirizzata alla
stessa, nella quale testualmente viene scritto: “ Gentile cliente, desideriamo informarla che il sig. C.A. attraverso il quale lei intrattiene rapporti con il San Paolo Invest, ha cessato......”. E ad onor del vero la
consegna dei danari al C.A. da parte della sig.ra M. è avvenuta nel luglio 1997, quindi ben 5 mesi prima della nota informativa della Banca.
Al momento dell’illecito il sig. C.A. era promotore della San Paolo Invest SpA e ciò non è mai stato contestato. Al di là della suddetta nota
del 24/11/1997 non è dato capire a far tempo da quale data il C.A. non
fosse più promotore di San Paolo Invest, certo è invece che al momento dell’illecito il C.A. era ancora al servizio della banca. Esaminati gli
atti di causa visto l’art. 31 del d.lgs. 58/98 e letti altresì gli artt. 5 comma
4 lex n. 111991 e 23 comma 3 d.lgs. n. 415/1996 sussiste responsabilità
solidale del soggetto abilitato all’offerta fuori sede che ha conferito l’incarico e cioè della San Paolo Invest SIM SpA, per i danni arrecati a
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terzi da fatto illecito del promotore finanziario C. A., “tale responsabilità sussiste anche nel caso in cui il promotore abbia agito illecitamente
ed anche quando il comportamento del promotore possa integrare gli
estremi dell’illecito penale. È configurabile peraltro in ipotesi di fatto
illecito del promotore finanziario ai danni della clientela della SIM, la
responsabilità della stessa anche ai sensi dell’art. 2049 c.c. Qualora il
danno ingiusto che il promotore finanziario abbia causato abusando
dei poteri a lui attribuiti dalla SIM e dalla fiducia dei clienti di quest’ultima, consista nell’espletamento di operazioni non autorizzate e nella
mancata esecuzione di quelle autorizzate dai clienti, il “quantum risarcibile, previo accertamento in concreto va determinato in ragione dei
risultati che il danneggiato avrebbe conseguito dalla puntuale negoziazione dei titoli” (Trib. Milano 02/05/1996).
Accertata e dichiarata la responsabilità solidale di banca e promotore va ora, individuato il quantum da essi dovuto all’attrice.
L’elaborato del CTU è servito a definire la perdita patrimoniale subita dalla M. individuandola nella sommatoria tra sorte capitale investita
pari a L. 55.000.000-(e 28.405,13 ) e rendimento dei due investimenti
prospettati alla stessa e che sono risultati essere: L. 5.649.000
(• 2.824,50) per il titolo “San Paolo Andromeda” e L. 13.067.500
(• 6.748,80) per il titolo “San Paolo Junior”. Quindi, nel complesso all’attrice spettano L. 73.536.500 pari ad • 37.978,43 oltre interessi legali e
rivalutazione monetaria, dalla domanda al soddisfo poiché trattasi di
debito di valore (cfr. Cass. 30/1/87 n. 907; Cass. 21/5/94 n. 5002; Cass.
6/11/98 n. 11190). Le spese di lite seguendo la soccombenza sono poste
in solido a carico dei convenuti e vanno liquidate come in dispositivo.
P.T.M.
Il Giudice Onorario di Tribunale, dott.ssa Maria Carmela Tinelli
in funzione di Giudice Unico del Tribunale di Lecce, seconda sezione
civile definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da M.A.
nei confronti di C.A. contumace nonché Banca San Paolo Invest SpA,
con atto di citazione notificato il 10/05/99, così provvede
1. Dichiara la responsabilità risarcitoria del promotore finanziario
C.A. in ordine alla lesione dei diritti patrimoniali patita da M.A. nonché la responsabilità solidale della Banca San Paolo Invest SpA e per
l’effetto condanna in solido i convenuti al pagamento in favore dell’attrice della somma di L. 73.536.500 pari ad • 37.978,43 di cui L.
55.000.000 pari ad e 28.405,13 quale sorte capitale investita ed •
9.573,30 quale rendimento accertato dal C.T.U. sugli investimenti medesimi, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla domanda al
soddisfo;
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2. Condanna C.A. e Banca San Paolo Invest SpA a rifondere in
solido a M.A. le spese di lite che si liquidano in complessivi • 7318,86
di cui e 269,93 per spese esenti, E 2.739,11 per diritti, E 3669,00 per
onorari di causa, E 640,82 per 10% quale rimborso spese generali, IVA
e CAP come per legge.
La responsabilità solidale della s.i.m. per il fatto illecito
del promotore finanziario
SOMMARIO: – 1. Premessa. – 2. La responsabilità solidale della s.i.m.: a) ambito soggettivo di operatività. – 3. Continua: b) la ratio della norma. – 4. Le incertezze
della disciplina codicistica. – 5. Sulla natura ed il fondamento teorico della
responsabilità degli intermediari. – 6. I limiti della responsabilità degli intermediari: a) lo svolgimento delle incombenze. – 7. Continua. I limiti della responsabilità degli intermediari: b) il concorso di colpa del risparmiatore.
1. Premessa.
Quello della responsabilità degli intermediari per il fatto dei promotori finanziari costituisce un tema che si pone con sempre maggiore
frequenza all’attenzione della giurisprudenza (1). In questo contesto la
sentenza in epigrafe, pur non presentando un percorso argomentativo
di grande rilievo (2), offre l’occasione per riflettere su alcuni nodi interpretativi che l’argomento solleva.
(1) È sufficiente sfogliare le pagine dei repertori di giurisprudenza per prendere
coscienza di come la questione della responsabilità degli intermediari per i danni arrecati a terzi dai promotori finanziari abbia acquisito nel tempo sempre più consistenza.
All’apparire della legislazione speciale ed al suo consolidarsi ha fatto seguito un costante incremento delle pronunce giurisprudenziali, sia di legittimità che di merito. Per un
primo monitoraggio giurisprudenziale, idoneo ad evidenziare il percorso evolutivo che
ha condotto alla diffusione di tale tipologia di responsabilità si vedano le pagine di V.
CARBONE, La responsabilità dei promotori e delle società finanziarie, in Danno e resp.,
1999, p. 615 ss. (più di recente offre un quadro esaustivo del panorama giurisprudenziale
P. LONGHINI, Le Sim e i promotori finanziari nella giurisprudenza, Milano, 2001).
(2) Come è agevole intuire dalla lettura della motivazione della sentenza in epigrafe, il giudicante si limita, seppure con qualche autonomia di pensiero, a riportare
gli assunti contenuti in due sentenze rese da altrettanti giudici del merito su questioni
analoghe a quella che forma oggetto della pronuncia in esame. Il riferimento è a “Trib.
Verona 1° marzo 2001, in Banca borsa tit. cred., 2002, II, p. 753 ss., con nota di A.
TUCCI, Illecito del promotore finanziario e responsabilità solidale della società d’intermediazione mobiliare”; e a Trib. Brescia 23 dicembre 2002, in Foro it., 2003, p. 1264
ss., con osservazioni di M. DE MARI.
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Nella fattispecie in esame un risparmiatore affidava ad un promotore finanziario, agente di una s.i.m., una cospicua somma di denaro
destinata ad essere investita in strumenti finanziari commercializzati
fuori sede dalla società in questione; in difformità rispetto a quanto
previsto dall’art. 96, comma 6, reg. Consob n° 11522/98, il promotore
accettava che il risparmiatore gli corrispondesse parte di tale somma
per il tramite di assegni bancari privi della indicazione del beneficiario
ovvero irregolarmente compilati (3). Appreso della avvenuta distrazione dei fondi ad opera del promotore, il risparmiatore conveniva in giudizio sia quest’ultimo che la sim per sentirli condannare, in via solidale,
alla restituzione della somma di denaro complessivamente versata, oltre interessi e rivalutazione monetaria. Il Tribunale di Mantova accoglieva la domanda attorea con la sentenza sopra riportata, disattendendo le difese della s.i.m. volte a far valere la propria estraneità rispetto
all’operazione posta in essere dal promotore e ad eccepire che la difformità dei mezzi di pagamento sarebbe stata idonea ad integrare, nel caso
di specie, una ipotesi di concorso del fatto colposo del danneggiato ex
art. 1227, 1° comma, c.c.
Tra le questioni che emergono dalla lettura della sentenza in commento, meritano un supplemento di riflessione: 1) talune osservazioni
di carattere preliminare non adeguatamente motivate dal giudicante;
2) la scelta di ricorrere alla norma speciale di cui all’art. 31, comma 3,
T.U.F., piuttosto che all’apparato codicistico, al fine di affermare la responsabilità solidale della s.i.m.; 3) la natura ed il fondamento teorico
della responsabilità degli intermediari per i danni arrecati a terzi dai
promotori finanziari; 4) l’ambito di estensione di detta responsabilità.
(3) Le regole di comportamento cui i promotori devono attenersi nello svolgimento della loro attività sono individuate in numerose previsioni legislative e regolamentari, tra cui figurano gli artt. 93 ss. del regolamento. Consob 11522 del 1°
luglio 1998, successivamente modificato con le delibere n. 11745 del 1998, n. 12409
del 2000 e 12498 del 2001. Per quanto riguarda le modalità di pagamento, ai promotori finanziari è fatto obbligo di ricevere dall’investitore soltanto: a) assegni bancari o assegni circolari intestati o girati al soggetto abilitato per conto del quale
opera ovvero al soggetto i cui servizi, strumenti finanziari o prodotti sono offerti
muniti di clausola di non trasferibilità; b) ordini di bonifico e documenti similari
che abbiano come beneficiari uno dei soggetti indicati nella lettera precedente; c)
strumenti finanziari nominativi o all’ordine, intestai o girati al favore del soggetto
che presta il servizi di offerta. Ai promotori è imposto, altresì, il divieto di ricevere
dall’investitore alcuna forma di compenso ovvero di finanziamento (art. 96, comma
6 reg. Consob 11522/98).
– 85 –
2. La responsabilità solidale della s.i.m.: a) ambito soggettivo di operatività.
Nel suo iter argomentativo il Tribunale di Mantova muove da due
assunti che necessitano di essere puntualizzati: in primo luogo, la sussumibilità della previsione di cui all’art. 31, comma 3, T.U.F. nell’alveo
della normativa dettata in tema di consumer protection (4); in secondo
luogo, l’identità della ratio sottesa ai diversi provvedimenti normativi
che nel tempo si sono succeduti in punto di solidale responsabilità della s.i.m. per il fatto del promotore (5).
(4) Osserva il giudicante che la norma deve inquadrarsi nel filone delle norme
dettate a tutela del consumatore, stante la finalità ad essa sottesa di proteggere la
buona fede del consumatore, nella specie il risparmiatore, a fronte di soggetti che
abitualmente e professionalmente esercitano l’attività di offerta fuori sede. In via
meramente esemplificativa, ma certamente non esaustiva, il Tribunale di Mantova richiama poi, espressamente soltanto alcuni dei provvedimenti in tema di consumer
protection.
(5) Il legislatore, istituita la figura dei promotori di servizi finanziari di cui le
s.i.m. appositamente autorizzate devono necessariamente avvalersi nella sollecitazione del pubblico risparmio fuori sede, afferma per la prima volta espressamente, nell’art. 5, comma 4, l. 1 gennaio 1991, n. 1 (cd. legge s.i.m.), la solidale responsabilità
delle s.i.m. per i danni arrecati a terzi dai promotori finanziari nello svolgimento delle
incombenze ad essi affidate (rileva l’affermazione non soltanto inequivocabile, ma altresì esplicita della responsabilità F. BOCHICCHIO, Illeciti dei promotori finanziari nei
confronti dei risparmiatori e responsabilità oggettiva dell’intermediario: articolazione
del principio di responsabilità nell’ambito delle dinamiche di impresa, nota a Trib. Milano 24 giugno 1996, in Giur. comm., 1997, II, p. 466 ss., (ivi a p. 470). Ormai inequivocabilmente affermata con l’intento di offrire al risparmiatore un sovrappiù di tutela, la responsabilità risulta rafforzata dalla previsione che l’illecito penale del promotore non vale
ad escluderla; così E. ROPPO, SIM di distribuzione e promotori finanziari nel regime dell’attività di sollecitazione del pubblico risparmio, in Contratto e impresa, 1992, p. 52 ss., (ivi a
p. 68), secondo cui questo significativo ampliamento, fino a ricomprendere in deroga ai
principi generali, le ipotesi in cui il fatto del promotore sia penalmente rilevante, “espressamente neutralizza la regola tradizionale secondo per cui l’illecito penale del preposto
esclude che al preponente possa imputarsi la responsabilità per il fatto di lui”.
Successivamente la norma è stata trasfusa dapprima nell’art. 23, comma 3, d.lgs.
23 luglio 1996, n. 415 (c.d. decreto Eurosim) ed, infine, nel già citato art. 31, comma 3,
T.U.F., ove il legislatore ha sancito la responsabilità solidale del soggetto che conferisce
l’incarico per i danni arrecati a terzi dal promotore finanziario, anche laddove tali danni
integrino gli estremi di una fattispecie penalmente rilevante. Fin qui il dato, possiamo
dire, meramente cronologico che, pur in presenza di innovazioni nella formulazione
letterale delle previsioni normative che si sono succedute (ma su tali modifiche v. infra
par. 6), ha indotto il giudicante ad affermarne l’identità, quanto alla ratio, ivi sottesa.
– 86 –
Come è noto la disciplina dell’offerta fuori sede di strumenti finanziari e di servizi d’investimento (6) desta da sempre una particolare
preoccupazione tanto per le caratteristiche strutturali, quanto per le
modalità operative (7) ed impone l’adozione di talune cautele a protezione del contraente debole (nella fattispecie il risparmiatore) (8).
(6) Sulla scia delle indicazioni comunitarie, il legislatore italiano, con l’avvento
del d.lgs. n. 415 del 1996, ha qualificato l’offerta fuori sede come “modalità dei servizi d’investimento”; in tal senso G. FERRARINI, Novità e problemi del decreto Eurosim,
in Banca borsa tit. cred., 1996, I, p. 883 ss. e non più nei termini di autonoma attività
d’intermediazione mobiliare, come avveniva nel vigore della l. n. 1 del 1991. In tal
modo, l’offerta fuori sede non presenta contenuti autonomi rispetto alla attività di
collocamento in generale. Per una chiara descrizione dei principali profili problematici
sollevati da questa particolare tecnica di collocamento si rinvia a v. C. RABITTI BEDOGNI,
L’offerta fuori sede. Regole e costi dell’intermediazione finanziaria, Roma, 1999, p. 10
ss.. È noto che tale peculiare tecnica di collocamento si concretizza nella promozione
o nel collocamento presso il pubblico: a) di strumenti finanziari in luogo diverso dalla
sede legale o dalle dipendenze dell’emittente, del preponente l’investimento o del soggetto incaricato della promozione o del collocamento; b) di servizi di investimento in
luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze di chi presta, promuove o colloca il
servizio.
(7) Definisce l’offerta fuori sede una tecnica sollecitatoria intrinsecamente pericolosa R. COSTI, Il mercato mobiliare, Torino, 2000, p. 106. La diffidenza mostrata dal
legislatore verso tale attività appare giustificata dal fatto che in essa è possibile cogliere le caratteristiche tipiche della contrattazione sorprendente: il risparmiatore, infatti,
risulta esposto al rischio di assumere delle scelte senza necessità ovvero senza averle
potute valutare adeguatamente ovvero senza aver potuto confrontare le alternative a
sua disposizione; così C. COMPORTI, L’offerta fuori sede di strumenti finanziari nel diritto comunitario: situazione attuale e prospettive di riforma, in Diritto della banca e del
mercato finanziario, 2003, p. 52 ss., ivi a p. 59).
(8) L’intervento dei promotori finanziari, persone fisiche iscritte in apposito albo
tenuto dalla Consob, di cui gli intermediari finanziari devono obbligatoriamente avvalersi nell’attività di offerta fuori sede, rappresenta uno strumento di rafforzamento
della tutela del risparmiatore avendo riguardo ad un’attività di particolare rilevanza
economica, ma anche caratterizzata da elevati rischi finanziari; sul punto v., in giurisprudenza Trib. Milano 17 maggio 2003, in Banca borsa tit. cred., 2004, p. 153 ss. con
nota di R. VIGLIONE. Che l’affidamento riposto dall’investitore nell’intermediario si
appunti sul promotore che costituisce il punto di riferimento dell’investitore è sottolineato da M. LO BUONO, La responsabilità degli intermediari finanziari, Napoli, 2001,
p. 248, secondo cui tale peculiare conformazione del rapporto giustifica gli ampi confini della responsabilità dell’intermediario.
La protezione del risparmiatore opera, peraltro, anche sul piano del diritto contrattuale e, più precisamente, si concretizza nella concessione al risparmiatore del c.d
jus poenitendi per una esaustiva esposizione della disciplina dello jus poenitendi nell’offerta fuori sede v. F. CARBONETTI, Lo jus poenitendi nell’offerta fuori sede di prodotti
finanziari in Banca borsa tit. cred., 2001, p. 770 ss..
– 87 –
Tuttavia, la lettura proposta dal Tribunale di Mantova quanto alla
identificazione del soggetto bisognoso di protezione con il solo risparmiatore-consumatore deve essere meglio specificata. Quando ci si riferisce al “consumatore”, infatti, ci si immette in un’area in cui con tale
espressione si individua il soggetto bisognoso di tutela sulla base di due
parametri accolti nel diritto di derivazione comunitaria, vale a dire la
natura di persona fisica ed il compimento da parte di tale persona di
attività estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta (9).
Le numerose critiche rivolte a tale impostazione esulano dalle finalità di queste pagine (10), nelle quali preme soltanto evidenziare come
la specificità propria della materia finanziaria (11) importa che le esigenze di tutela del contraente debole non si limitino affatto alla sola
categoria dei consumatori, come poc’anzi definita (12).
(9) La letteratura sui caratteri che connotano la figura del consumatore nel diritto di derivazione comunitaria è sterminata. Per una prima indicazione delle
problematiche sottese a tale categoria soggettiva v. V. ZENO ZENCOVICH, Il diritto europeo dei contratti (verso la distinzione fra “contratti commerciali” e contratti dei consumatori”) in Giur.it., 1993, IV, p. 57 ss.; R. PARDOLESI, Clausole abusive, pardon vessatorie:
verso l’attuazione di una direttiva abusata in Riv. critica dir. priv., 1995, p. 523 ss.; E.
ROPPO, La nuova disciplina delle clausole abusive nei contratti tra imprese e consumatori, in Riv. dir. civ., 1995, I, p. 277 ss.; G. ALPA – G. CHINÈ, Consumatore (protezione
del) nel diritto civile, in Digesto, disc. priv., sez. civ., Torino, 1997, vol. XV, p. 541 ss.
(10) La definizione di consumatore lascia irrisolti numerosi problemi, tra cui
quello relativo alla possibilità di ipotizzare una definizione più ampia della espressione consumatore, in grado di comprendere al suo interno non soltanto le persone fisiche, ma anche quelle giuridiche ovvero gli enti di fatto; sul punto v., per tutti, L.
GATT, Sub art. 1469-bis, comma 2, Ambito soggettivo di applicazione della disciplina. Il
consumatore e il professionista, in Commentario al capo XIV bis del codice civile: dei
contratti del consumatore Bianca e Busnelli, Padova, 1999, p. 153 ss.. La questione di
illegittimità costituzionale dell’art. 1469 bis, comma 2, c.c. per contrasto con l’art. 3
Cost., nella parte in cui non equipara al consumatore il piccolo imprenditore è stata
ritenuta non fondata dalla Corte costituzionale nella sentenza 22 novembre 2002 n.
469 (rel. Contri) rivenibile in Foro it., 2003, I, c. 332 ss.
(11) Sulle difficoltà terminologiche sottese alla individuazione del cliente dell’intermediario si vedano le osservazioni di G. ALPA, Decreto Eurosim: la tutela dei
consumatori, in Società, 1996, p. 1062 ss., (ivi a p. 1063), il quale osserva che nel diritto comunitario vi è la tendenza a ritenere ormai superata la distinzione tra risparmiatore e consumatore. Il risparmiatore altro non è, secondo tale autorevole dottrina, che
il consumatore, il quale invece di acquistare prodotti o servizi, ricorre al mercato finanziario con la finalità di investire i propri risparmi ovvero acquisire finanziamenti
non inerenti alla sua attività lavorativa o professionale.
(12) Che l’analisi giuridica della tutela del consumatore di servizi finanziari si
misuri con la preliminare difficoltà di individuare l’ambito soggettivo di applicazione
della disciplina è sottolineato da A.M. PACCES, Verso un sistema bancario e finanziario
– 88 –
Nel contesto dei servizi finanziari la predisposizione di forme di
tutela della controparte dell’intermediario non appare determinata da
caratteristiche socio economiche proprie di essa, bensì da sua una caratteristica intrinseca, vale a dire dalla mancanza di competenza ed esperienza che essa è in grado di vantare in materia di intermediazione finanziaria (13). E proprio tale dato assume una valenza sistematica precisa ai fini delle puntualizzazioni che si propongono alle parole del giudicante: il dato in esame conduce, infatti, a non escludere dalla tutela
apprestata dalla legislazione settoriale tutti quei soggetti che, pur non
sussumibili nella categoria dei consumatori come sopra individuata,
sono comunque caratterizzati da un certo grado di need of protection,
ossia da una esigenza di protezione determinata, come si è detto, dalla
scarsa conoscenza e competenza in materia di intermediazione finanziaria (14). Sussistono, infatti, anche con riguardo a tali soggetti – non
europeo? La disciplina europea dei servizi finanziari al dettaglio. Prospettive di
armonizzazione e di concorrenza tra ordinamenti nella tutela del consumatore in Quaderni di ricerche n. 47 – Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari Luigi Einaudi,
p. 9, il quale, nel contesto di una indagine volta a verificare le stato e le prospettive
evolutive di un sistema finanziario europeo, sottolinea come il consumo di servizi di
investimento e finanziari presenti caratteristiche ben diverse rispetto all’acquisto di
beni e servizi non finanziari da parte dei consumatori e, comunque, caratteristiche tali
da richiedere, affinché il consumatore di servizi finanziari sia tutelato, l’operatività di
strumenti regolamentari più ampi e comunque differenti rispetto a quelli impiegati
nella prestazione al dettaglio di beni e servizi non finanziari.
(13) Sul punto v., da ultimo, M. SALVATORE, Servizi di investimento e responsabilità civile, Milano, 2004, p. 80, ma anche le opportune annotazioni di A.M. PACCES,
Verso un sistema bancario e finanziario europeo? cit., p. 39, secondo cui l’esigenza di
protezione è sostanzialmente “(...) riconducibile alla scarsa dimestichezza con le technicalities del servizio prestato e, dunque, in termini economici, a un problema di asimmetria informativa. Quanto basta a delineare, nel contesto dei servizi finanziari, i contorni di una speciale categoria di consumatori, la cui definizione non discende da
un’apodittica enunciazione di debolezza dello status, bensì dal riconoscimento di uno
specifico need of protection”.
(14) Impostata in questi termini la questione, se ne desume che è dal gap informativo sussistente tra intermediario e risparmiatore – gap da valutarsi con specifico
riferimento alla materia della intermediazione finanziaria – che dipende il grado di
incisività della tutela dell’investitore e, quindi, la scelta di applicare o meno le regole
di tutela presenti nella legislazione settoriale. Ne deriva, in ossequio al principio ormai definitivamente accolto della graduale protezione dell’investitore in ragione della
sua competenza ed esperienza professionale, che la disciplina dell’offerta fuori sede,
con il suo corollario di norme dirette a tutelare il contraente debole, non trova coerentemente applicazione nelle ipotesi in cui la controparte contrattuale dell’intermediario finanziario in questione sia un investitore professionale (art. 30, comma 2, T.U.F.),
vale a dire il c.d. “operatore qualificato”, individuato dalla Consob nell’art. 31, reg.
Consob n. 11522 del 1998: “per operatori qualificati (investitori professionali)” – ha
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professionali o non qualificati – le medesime ragioni di protezione che
giustificano l’intervento del legislatore a favore del risparmiatore – consumatore (15).
Per impostare più correttamente il discorso in questione sembra
allora preferibile sgombrare in via preliminare il terreno dalle suggestioni derivanti dal ricondurre la disciplina in tema di responsabilità
dell’intermediario per i danni arrecati a terzi dal promotore finanziario
nell’ambito della normativa di consumer protection (16); più opportustabilito la Consob – si intendono gli intermediari autorizzati, le società di gestione
del risparmio, le SICAV, i fondi pensione, le compagnie di assicurazione, i soggetti
esteri che svolgono in forza della normativa in vigore nel proprio Stato d’origine le
attività svolte dai soggetti di cui sopra, le società e gli enti emittenti strumenti finanziari negoziati in mercati regolamentati, le società iscritte negli elenchi di cui agli artt.
106, 107 e 113 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, i promotori finanziari, le persone
fisiche che documentino il possesso dei requisiti di professionalità stabiliti dal Testo
Unico per i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo
presso società di intermediazione mobiliare, le fondazioni bancarie, nonché ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza od esperienza in
materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal
legale rappresentante”.
(15) Osserva opportunamente M. ATELLI, Commento sub art. 23, in Il Testo
Unico della intermediazione finanziaria. Commentario al d.lgs 24 febbraio 1998, n. 58
Rabitti Bedogni, Milano, 1998, p. 200 ss., spec. p. 211, che “la disciplina dei contratti
di intermediazione finanziaria si distingue nel nostro sistema giuridico perché, diversamente dalle altre normative che si pongono come “aggiuntive” rispetto alle regole
codicistiche in tema di contratto, la sua applicazione non è totalmente esclusa con
riguardo ai soggetti che, in un diverso settore di attività, non avrebbero, con tutta
probabilità, mai potuto fruire (per le loro caratteristiche) delle garanzie legali accordate al consumatore in senso proprio. Ciò sembra dovuto, in larga misura al predetto
alto contenuto intrinseco all’attività di intermediazione finanziaria (...)”. Del resto, è
agevole osservare che controparte dell’intermediario finanziario può essere sì un consumatore, ma anche un professionista, così come una persona giuridica, ed in tal caso,
laddove entrambi manchino di una specifica competenza ed esperienza in materia, le
regole non sono destinate a cambiare, giacché, ad esempio, la costituzione sotto forma di società non rassicura affatto, nel settore della intermediazione finanziaria, sull’effettivo grado di conoscenza della controparte contrattuale dell’intermediario che,
sollecitata fuori sede dal promotore, può risultare comunque esposta, data lo scarso
livello di competenza, ad eventuali comportamenti opportunistici del promotore: questa
la linea di pensiero C. COMPORTI, L’offerta fuori sede di strumenti finanziari nel diritto
comunitario: situazione attuale e prospettive di riforma, cit., p. 52 ss.; ma anche E.
ROPPO, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppo di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv.,
2001, p. 639 ss..
(16) Non vi è dubbio, tuttavia, che in tutti quei casi in cui la controparte dell’intermediario si trovi ad aderire ad un regolamento contrattuale da altri predisposto
e ad agire al di fuori dell’esercizio della sua attività professionale nulla osta a che
– 90 –
no appare, invece, collocare tale disciplina all’interno di un paradigma
contrattuale più ampio quanto all’ambito soggettivo di applicazione,
ma comunque caratterizzato da una asimmetria di potere tra i contraenti tale da giustificare la presenza di regole legislative, come quella di
cui all’art. 31 T.U.F., dettate a protezione della parte contrattualmente
debole (17). Parte contrattualmente debole che può essere rappresentata da chiunque non possieda quel grado di sofisticazione necessario a
consentirgli di apprezzare autonomamente quanto offerto dall’intermediario o da chi per conto di questo opera sul mercato.
3. Continua: b) la ratio della norma.
L’altra affermazione del giudicante sulla quale vale la pena soffermarsi è quella secondo cui la ratio sottesa ai diversi provvedimenti normativi che nel tempo si sono succeduti quanto alla solidale responsabilità della s.i.m. sarebbe rimasta nel tempo sostanzialmente immutata.
Ripercorrendo le tappe dell’evoluzione legislativa che ha condotto all’attuale formulazione della previsione normativa di cui all’art. 31, comma 3, T.U.F., ci si accorge, tuttavia, di un dato.
Non vi è dubbio che di per sé la norma in questione condivida la
medesima ratio legis delle disposizioni che l’hanno preceduta (18): l’esigenza fortemente avvertita di apprestare una adeguata tutela al risparmio,
quale interesse dotato di particolare rilevanza pubblicistica oltre che di
dignità costituzionale, spiega il sorgere della responsabilità solidale dell’inquesta sia considerata consumatore e, in quanto tale, resa destinataria delle regole di
tutela dettate dal codice civile: così C. RABITTI BEDOGNI, Obblighi di correttezza delle
Sim e controllo delle clausole abusive nei contratti dei consumatori, in Investimento
finanziario e contratti dei consumatori. Il controllo delle clausole abusive (a cura di G.
Alpa), Milano, 1995, p. 145 ss..
(17) È merito di un’attenta dottrina (il riferimento è ancora a E. ROPPO, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere
contrattuale: genesi e sviluppo di un nuovo paradigma, cit., p. 639 ss.) l’aver opportunamente rilevato come nell’attuale momento storico la categoria del consumatore, e
con essa quella del contratto del consumatore, sta attraversando una fase recessiva,
nella quale sembra destinata a venire meno gran parte della sua vis espansiva. Tale
categoria starebbe, infatti, perdendo la centralità che per molto tempo l’ha caratterizzata a fronte dell’emergere del più generale paradigma del contratto con asimmetria
di potere contrattuale.
(18) Sulla continuità di principi caratterizzante gli interventi legislativi che si
sono succeduti nel tempo v., da ultimo, R. BENZING, nota a App. Milano 9 febbraio
2000; Trib. Milano 7 marzo 2000; Trib. Milano, 1° febbraio 2001, in Banca borsa tit.
cred., 2003, II, p. 47 ss., spec. p. 48.
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termediario (19) e, con questa, la predisposizione di una forma di garanzia,
a favore del risparmiatore, costituita dalla maggiore consistenza patrimoniale dell’intermediario rispetto a quella che, con tutta evidenza, sarebbe
in grado di offrire un qualsivoglia promotore finanziario (20).
Ma vi è una circostanza rilevante che il giudice adito ha omesso di
considerare, vale a dire che la disposizione in esame si situa in un quadro sistematico di più ampio respiro rispetto alla legislazione previgente (21). Ne consegue che le articolate finalità riconducibili al T.U.F.
(19) Che questo fosse il motivo propulsore emerge chiaramente della pagine
della relazione al Reg. Consob n. 1739 del 1985 in C.RABITTI BEDOGNI-G.CANNIZZAROR.MAVIGLIA, La sollecitazione del pubblico risparmio, Milano, 1994, p. 65 ss.. Questa,
infatti, è la ragione addotta dalla autorità di vigilanza del settore al momento della
emanazione di tale regolamento che, nell’attuare l’art. 18-ter della l. 7 giugno 1974, n.
216 (così come modificato dall’art. 15 della l. 4 giugno 1985, n. 281), individuava tra
le condizioni necessarie affinché una società potesse ottenere l’autorizzazione all’esercizio della sollecitazione del pubblico risparmio fuori sede, quello di un impegno irrevocabile, assunto con apposita delibera del consiglio di amministrazione e sostenuto
da idonea garanzia bancaria ovvero assicurativa, ma anche da un fondo di garanzia, a
risarcire i danni eventualmente cagionati a terzi da coloro che, nell’esercizio delle incombenze affidate, operavano “(...) a qualunque titolo nell’interesse dei soggetti autorizzati”. L’eventualità che la società fosse chiamata a rispondere in via solidale con il
promotore finanziario per i danni da questo arrecati era, peraltro, già adombrata da
G.BRANCADORO, in A. MAFFEI ALBERTI, P. MARCHETTI (a cura di), L. 4 giugno 1985, n.
281, sub art. 15 in Nuove leggi civ. comm., 1990, p. 361 ss., nonché da N. IRTI, Notazioni esegetiche sulla vendita a domicilio di valori mobiliari, in AA.VV., Sistema finanziario
e controlli: dall’impresa al mercato, Milano, 1986, p. 111.
(20) Sul fatto che per il tramite di tale disposizione il legislatore abbia inteso
sancire una responsabilità ex lege “a senso unico”, dal momento che non è dato desumere l’esistenza di una garanzia del promotore per i danni che potrebbe arrecare alla
s.i.m. v. V. CARBONE, La responsabilità dei promotori e delle società finanziarie, cit. p.
615 ss. (ivi a p. 619).
(21) Nella vigenza della l. 2 gennaio 1991, n. 1 decisamente prioritaria appariva
l’esigenza di tutela del risparmiatore, destinata a completarsi attraverso la previsione
di numerose regole di condotta che i promotori erano tenuti ad osservare nello svolgimento della attività di intermediazione mobiliare. L’analisi condotta su tali regole di
comportamento (oggetto delle approfondite riflessioni di F. ANNUNZIATA, Regole di
comportamento degli intermediari e riforme dei mercati mobiliari – L’esperienza francese, inglese e italiana, Milano, 1993) rivela una decisa propensione verso le istanze di
protezione degli investitori che vengono soddisfatte essenzialmente attraverso il richiamo; ai doveri generali di diligenza, correttezza e professionalità cui l’intermediario è tenuto (art. 6, lett. a); agli obblighi informativi che si sostanziano nell’informare
preventivamente il cliente del tipo di attività svolta, del contenuto del contratto da
stipulare, della natura, caratteristiche e modalità di svolgimento dei servizi forniti, ed,
infine, della rischi sottesi operazioni; ai doveri di collaborazione imposti all’intermediario che si risolvono nell’obbligo di informarsi sulle caratteristiche del cliente, nonché di rispettare le istruzioni da questo ricevute. Il quadro così descritto inizia a mu-
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inducono a ritenere che il legislatore persegua sì l’obiettivo della tutela
del pubblico risparmio, ma che la tutela di tale interesse risulta funzionale – in ultima istanza – al raggiungimento dell’obiettivo primario realmente perseguito, ossia l’interesse generale alla salvaguardia dell’integrità del sistema finanziario nel suo complesso (22).
tare con l’avvento del d.lgs. 19 novembre 1997, n. 422 ove le finalità perseguite da
tale corpus di norme già non appaiono più “(...) legate alla sola realizzazione dell’interesse individuale del singolo cliente, ma collegate, in una prospettiva più generale,
alla soddisfazione di interessi della collettività” così esplicitamente A. PINORI, La responsabilità degli intermediari finanziari, in Danno e resp., 1997, p. 292 ss., (ivi a p.
293).
(22) In tal senso si ricavano dati essenziali dalla lettura del primo comma dell’art. 5 T.U.F., il quale dispone che la vigilanza regolamentare, informativa ed ispettiva
sulle attività degli intermediari finanziari persegue come finalità “la trasparenza e la
correttezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione dei soggetti abilitati, avendo riguardo alla tutela degli investitori e alla stabilità, competitività e al buon funzionamento del sistema finanziario”. Secondo autorevole dottrina (il riferimento è a G.
ALPA, La tutela del risparmiatore nella intermediazione mobiliare, in G. ALPA, Trattato
di diritto civile. I. Storia, fonti, interpretazione, Milano, 2001, p. 701) dall’analisi di
tale norma si evince che la tutela degli investitori si caratterizza come un obiettivo
secondario, riflesso ed indiretto; a costituire effettivamente l’obiettivo primario della
disciplina in questione sono la stabilità e la trasparenza dei soggetti, con la conseguenza che il risparmiatore si trova costretto a rinvenire nel diritto privato gli strumenti di tutela compatibili con le esigenze del mercato finanziario; così ancora “G.
ALPA, La tutela del risparmiatore. Note introduttive, in Giur. it., 1990, IV, p. 519. Secondo altra corrente di pensiero, invece, (il riferimento è a C. RABITTI BEDOGNI, Sub
art. 5, in Il Testo Unico nell’intermediazione finanziaria) il primo comma dell’art. 5
T.U.F. vedrebbe le molteplici funzioni di controllo, sulla trasparenza, correttezza e
sana e prudente gestione, indirizzate a rendere effettivo il perseguimento dell’obiettivo della tutela degli investitori. Per una qualificazione dell’art. 5 in termini di metanorma ovvero di norma programmatica v. B. BIANCHI, Sub. Art. 5, in Commentario al
testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, Milano, 1998, I,
p. 65. Si tratterebbe, pertanto, di operare una distinzione tra le finalità della vigilanza,
giacché in questo contesto la trasparenza, la correttezza dei comportamenti e la sana e
prudente gestione dei soggetti abilitati assumerebbero una valenza intermedia o strumentale rispetto al raggiungimento delle finalità più generali costituite dalla tutela
degli investitori e dalla stabilità, competitività e al buon funzionamento del sistema
finanziario.
Si tratta, come chiaramente evidenziato da G. GIOIA, Tutela giurisdizionale dei
contratti del mercato finanziario, in E. GABRIELLI, R. LENER, I contratti del mercato
finanziario, Torino, 2004, p. 63 ss., spec. p. 67 di opzioni che sottintendono due distinte opzioni interpretative, l’una, in cui prevalente è il momento pubblicistico, nella
quale l’obiettivo primario è la stabilità, competitività ed il buon funzionamento del
mercato finanziario nel suo complesso, l’altra in cui assume maggiore rilevanza l’esigenza di tutelare gli interessi dei risparmiatori, sia come singoli che come appartenenti ad una determinata categoria.
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In questa prospettiva, pertanto, la tutela del risparmiatore rappresenta soltanto il prodotto del perseguimento di finalità di più vasta
portata volte ad investire la solidità e la stabilità dell’intero sistema finanziario; in altre parole la sua stessa efficienza che rischierebbe di
essere seriamente compromessa dall’abbassamento del livello di fiducia che i risparmiatori nutrono nei confronti del mercato finanziario e
dalla diminuzione della propensione dei risparmiatori ad accedere a
tale mercato (23). Ciò che il legislatore intende salvaguardare, anche
per il tramite della normativa a tutela dei risparmiatori, è, pertanto, la
fiducia di questi ultimi nella prestazione dei servizi di intermediazione
finanziaria, nella trasparenza, professionalità e correttezza degli intermediari cui si rivolgono: tutti elementi, che concorrono alla formazione di un mercato non solo efficiente, ma anche fortemente competitivo (24).
L’enfatizzazione della tutela del risparmiatore rischia, allora, di
essere fuorviante, nella misura in cui occulta la vera ragione giustificativa della norma in esame. Così dicendo, tuttavia, non si vuole escludere che la salvaguardia degli interessi dei risparmiatori sia un obiettivo giuridicamente rilevante, ma soltanto evidenziare le reali ragioni
di tale tutela; l’accoglimento di una linea interpretativa che faccia della
protezione di tali interessi l’intento unico e primario perseguito dal
legislatore non risulterebbe, infatti, affatto coerente con il complesso
delle finalità sottese alla legislazione settoriale attualmente vigente (25),
(23) Sul punto v. le riflessioni di A.M. PACCES, Verso un sistema bancario e finanziario europeo?, cit., p. 38, secondo cui la tutela del risparmiatore rappresenta lo strumento piuttosto che il fine ultimo della regolamentazione finanziaria; il cui reale obiettivo è rappresentato dall’integrità del mercato dei servizi finanziari il cui funzionamento
ha come presupposto una regolamentazione che si dimostri attenta a rimediare ai fallimenti del mercato, anche per il tramite della tutela degli interessi dei risparmiatori.
(24) Una impostazione di tal fatta emerge ancora dalle pagine di A.M. PACCES,
Verso un sistema bancario e finanziario europeo?, cit., p. 10 ss., ove l’Autore rileva
come la regolamentazione cd. transattiva, che opera sul piano dei rapporti tra intermediari e clienti, seppure può apparire a prima vista a “spiccata vocazione protettiva”, in realtà trascende l’economia del singolo rapporto tra cliente ed intermediario
per soddisfare le esigenze di reputazione dell’intero mercato finanziario; nel contempo
la regolamentazione prudenziale, che costituisce un unicum del settore finanziario, ha
per oggetto la fiducia dei risparmiatori che alimenta un accesso diffuso e competitivo
al mercato finanziario e, quindi, la sua stessa efficienza.
(25) Ma quanto si va dicendo in ordine alle finalità più ampie ed articolate
sottese al T.U.F. non muta neppure laddove si volga lo sguardo al d.lgs. n. 422 del
1997 ove le finalità perseguite da tale corpus di norme già non apparivano più “(...)
legate alla sola realizzazione dell’interesse individuale del singolo cliente, ma collegate, in una prospettiva più generale, alla soddisfazione di interessi della collettività”:
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là dove, come opportunamente rilevato, la tutela del risparmiatore
trova “(...) un qualche spazio solo in via del tutto subordinata o di
riflesso, allorché l’ordinamento, nel disciplinare ciò che si prefigge
come obiettivo primario, è costretto a considerare anche il pubblico,
gli investitori non professionali, i clienti, offrendo loro, di conseguenza, una protezione, non diretta ed immediata, ma solo indiretta e riflessa” (26).
4. Le incertezze della disciplina codicistica.
Nel decidere della controversia sottoposta al suo vaglio, il Tribunale di Mantova si è avvalso della norma speciale di cui all’art.
31, comma 3, T.U.F., considerata come fonte della responsabilità in
oggetto (27).
così esplicitamente A. PINORI, La responsabilità degli intermediari finanziari, cit., p.
292 ss., ivi a p. 293. Del resto, che la tutela del risparmiatore possa assumere una
forma diretta, laddove le misure di intervento si presentino rivolte direttamente ai
risparmiatori, ed una forma indiretta, nelle ipotesi in cui il loro fine ultimo sia quello
di introdurre regole di buon funzionamento del mercato è sottolineato da G. ALPA,
Decreto Eurosim: la tutela dei consumatori, in Società, 1996, p. 1062 ss., ivi a p. 1063,
secondo il quale le regole dettate in punto di responsabilità degli intermediari attengono a tale seconda forma di tutela ma sul punto v. altresì G. ALPA- P. GAGGERO,
Profili della tutela del risparmiatore, in Società, 1998, p. 501 ss., ivi a p. 502.
(26) Così esplicitamente G. GIOIA, Tutela giurisdizionale dei contratti del mercato finanziario, in E. GABRIELLI, R. LENER, I contratti del mercato finanziario, Torino,
2004, p. 63 ss., spec. p. 65.
(27) Manca nella motivazione del Tribunale di Mantova un riferimento, ancorché
indiretto, al denominatore comune degli studi, più o meno recenti, sulla questione
della responsabilità degli intermediari per l’operato dei promotori finanziari, vale a
dire il rapporto esistente tra la legislazione speciale e la normativa codicistica. Tuttavia, l’opzione interpretativa accolta dal tribunale nel caso di specie riecheggia il pensiero di quegli Autori che hanno rinvenuto nella disciplina speciale, fin dal suo primo
apparire, una ipotesi destinata a superare e trascendere le regole codicistiche. In questo senso v., per tutti, V. CARBONE, La responsabilità dei promotori e delle società finanziarie, cit., p. 615 ss. ivi a p. 619; in giurisprudenza v. Trib. Milano, 11 giugno 1998, in
Contratti, 1999, p. 487 ss., con nota di A. MANIACI, La responsabilità della Sim per
fatto illecito del promotore. Tra i primi commentatori della disciplina speciale in questione non è comunque mancato chi ha considerato tale normativa semplicemente
una mera ripetizione dell’art. 2049 c.c., riducendo sensibilmente la portata innovativa
della norma attraverso la quale il legislatore del 1991 avrebbe inteso soltanto enfatizzare
il principio della responsabilità della s.i.m. per l’operato del promotore; in tal senso
ASSOGESTIONI, La legge 2 gennaio 1991, n.1 – un commento preliminare al titolo I, in
Quaderni di documentazione giuridica e ricerca, n. 7, Roma, 1991, p. 61. Riconosce alla
norma il pregio di aver contribuito alla dissoluzione di molti dubbi interpretativi, pur
– 95 –
Il giudicante, quindi, si è discostato dall’orientamento di quella
giurisprudenza che per lungo tempo (pure in presenza della norma
speciale) (28) ha continuato ad affermare la responsabilità degli intermediari invocandone a fondamento normativo talune previsioni codicistiche (29). Ci si riferisce, in particolare, alla disposizione di cui all’art. 1228 c.c. che sancisce la responsabilità contrattuale del debitore
che nell’adempimento delle obbligazioni si avvale dell’opera degli ausiliari (30); alla norma di cui all’art. 1989 c.c., in tema di promessa al
ritenendola non indispensabile “F. BOCHICCHIO, Illeciti dei promotori finanziari nei confronti dei risparmiatori e responsabilità oggettiva dell’intermediario: articolazione del principio di responsabilità nell’ambito delle dinamiche di impresa, cit. p. 466 ss., ivi a p. 471.
(28) Significativa in tal senso è l’indagine svolta da V. CARBONE, La responsabilità dei
promotori e delle società finanziarie, cit., p. 615 ss., il quale, avendo monitorato ben diciannove sentenze, di cui alcune pronunciate in base alla legislazione speciale vigente prima
dell’entrata in vigore della l. n. 1 del 1991 ed altre quando tale provvedimento normativo
era già in vigore, osserva come molte di queste pronunce ignorino la normativa speciale.
Si tratta di ipotesi che denotano, secondo tale Autore, una “(...) grave incompetenza professionale, sia dalle parti e dai loro difensori, che dai giudici, i quali ultimi avrebbero
potuto avvalersi dei noti brocardi jura novit curia, ovvero da mihi factum, dabo tibi ius”.
(29) La sostanziale elasticità della disciplina codicistica, capace di adattarsi, nelle interpretazioni che di essa sono state fornite, a numerose fattispecie, tra cui quella
della responsabilità degli intermediari finanziari è sottolineata da M. LO BUONO, La
responsabilità degli intermediari finanziari, Napoli, 2001, p. 152, secondo cui la disposizione di cui all’art. 2049 c.c. “(...) è stata chiamata ad assolvere funzioni nuove in
considerazione dei mutamenti intervenuti nella realtà economica e sociale. In particolare, tanto il diritto giurisprudenziale quanto la dottrina hanno posto in evidenza il
significato suscettibile di essere attribuito a tale norma nell’ambito della responsabilità derivante dall’esercizio delle attività d’impresa”.
(30) Per un prolungato periodo di tempo la prevalente giurisprudenza si è orientata
nel senso di ritenere che la previsione normativa in esame rappresentasse una estensione
alla sfera contrattuale dei principi sanciti all’art. 2049 c.c. in tal senso v., per tutte, Cass. 31
agosto 1952, n. 2467 in Rivista giur. circol. e trasp., 1953, p. 122. Soltanto successivamente
ha segnalato le differenze ritenuti sussistenti tra tali norme. Così Cass. 28 aprile 1965, n.
752 in Giust.civ., 1965, I, p. 1834, nella quale si legge che la perfetta coincidenza tra le due
norme non esiste, dal momento che la previsione di cui all’art. 2049 c.c. postula un rapporto di lavoro subordinato tra padroni e committenti, da un lato, e domestici e commessi, dall’altro; e che la norma di cui all’art. 1228 c.c. richiede soltanto che il contraente si
avvalga dell’opera di altri soggetti, senza che alcun rilievo abbia la natura del rapporto.
Peraltro, mentre per una parte della dottrina (il riferimento è a P. TRIMARCHI, Istituzioni di
diritto privato, Milano, 1991, p. 352) la previsione normativa di cui all’art. 1228 c.c. rappresenta una ipotesi di responsabilità oggettiva, altri Autori (in tal senso C.M. BIANCA,
Inadempimento delle obbligazioni in Comm. del cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma,
1979, p. 452) rilevano come l’irrilevanza della colpa del debitore nella scelta o nella vigilanza del suo ausiliario non conduca necessariamente all’affermazione del carattere oggettivo della responsabilità, dovendosi distinguere tra imputazione giuridica al debitore del
fatto del terzo ed imputazione dell’inadempimento.
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pubblico (31) e, sopratutto, alla previsione normativa dettata, in ambito aquiliano, all’art. 2049 c.c., riguardo alla responsabilità dei padroni e
dei committenti per il fatto illecito dei dipendenti e commessi (32).
La ragione della scelta compiuta nella sentenza in epigrafe si rinviene nella convinzione, avvalorata da parte della dottrina, che la tutela
degli interessi dei risparmiatori sia maggiormente garantita dalla disposizione speciale di cui all’art. 31, comma 3, T.U.F.; ad emergere è, in
altre parole, il timore che gli interessi che la normativa speciale ha inteso proteggere possano in qualche misura essere disattesi dal ricorso
all’apparato codicistico (33). Una considerazione questa che impone,
sia pure al limitato fine di giustificare in questa sede la condivisibile
centralità della normativa speciale in ordine al risarcimento dei danni
subiti dai risparmiatori per l’operato dei promotori finanziari, di far
cenno agli asseriti limiti che caratterizzano le disposizioni codicistiche
nel raffronto con la norma speciale.
La prima disposizione da considerare in tal senso è l’art. 2049
c.c.: come è noto, questo articolo offre soluzioni non univoche ad una
serie di problematiche, tra le quali assume particolare rilievo quella
relativa alla qualificazione del rapporto di lavoro tra promotori finanziari ed intermediari. Premesso che con una certa frequenza il promotore finanziario svolge la sua attività autonomamente piuttosto che in
virtù di un rapporto di dipendenza, la norma in esame, ove ne fosse
invocata l’applicazione, non rassicurerebbe affatto quanto all’esito positivo dell’eventuale controversia instaurata dal risparmiatore. Non si
dice certo cosa nuova, infatti, ricordando che se è pacifico che l’ambito
di operatività dell’art. 2049 c.c. è certamente comprensivo delle ipotesi
(31) Per un’applicazione giurisprudenziale di tale disposizione v. Corte d’Appello Firenze, 18 gennaio 1995 ined. cit. da V. CARBONE, La responsabilità dei promotori e delle società finanziarie, cit., p. 615 ss., ivi a p. 616.
(32) La giurisprudenza, al fine di configurare la responsabilità degli intermediari, ha fornito un’interpretazione estensiva di tale norma, avvalendosi di quei medesimi
presupposti ritenuti necessari a costituire il fondamento, appunto, della responsabilità del preponente ex art. 2049 c.c. Tali presupposti sono comunemente identificati: a)
nella esistenza di un valido rapporto di preposizione; b) nella presenza di un fatto
illecito del preposto; c) nella sussistenza di un nesso, tra le incombenze ed il danno, di
occasionalità necessaria.
(33) Si esprime nel senso che la norma speciale fornisca maggiore certezza rispetto a quella assicurata dalle regole generali sulla responsabilità P. GAGGERO, La
responsabilità delle società d’intermediazione mobiliare in La responsabilità civile. Aggiornamento 1988-1996, G. Alpa e M. Bessone, 2, in Giurisprudenza sistematica dir.
civ. e comm. W. Bigiavi, Torino, 1997, p. 719 ss., spec. p. 727.
– 97 –
in il cui preposto è un lavoratore subordinato (34), l’estensione di tale
ambito ai rapporti di agenzia e di mandato è tuttora controversa, con la
conseguenza che la giurisprudenza non ha seguito sul punto un orientamento uniforme. Così, se in alcune pronunce la circostanza che il
rapporto di collaborazione sia qualificabile come contratto di agenzia
ovvero il fatto che il promotore finanziario svolga il ruolo di procacciatore d’affari non preclude la configurazione della responsabilità in questione (35), non mancano i casi in cui i giudici rigettano le pretese avanzate dai risparmiatori muovendo dal presupposto che la previsione
normativa di cui all’art. 2049 c.c. non sia destinata a trovare applicazione laddove il promotore risulti legato all’intermediario da un rapporto
di agenzia, ossia da un rapporto di lavoro che rimane di carattere autonomo (36). Parimenti, per quanto attiene agli atti posti in essere dal
mandatario, la giurisprudenza prevalente si esprime nel senso di ritenere che la responsabilità di quest’ultimo possa essere affermata ex art.
2049 c.c. soltanto laddove questi abbia agito in qualità di rappresentante e la attività posta in essere sia stata tale da apparire ai terzi di
buona fede come rientrante nell’ambito del mandato (37).
Alla luce di ciò è pertanto innegabile il merito del legislatore speciale di aver contribuito alla dissoluzione di tali dubbi interpretativi
rendendo la normativa speciale suscettibile di trovare applicazione a
prescindere dalla qualificazione del rapporto giuridico che lega sim e
promotore in termini di lavoro subordinato ovvero autonomo (38).
(34) Nel senso che la giurisprudenza unanime ritiene che i committenti sono
coloro che alle loro dipendenze hanno lavoratori subordinati v., per tutti, G. VISINTINI,
Trattato breve della responsabilità civile. Fatti illeciti. Inadempimento. Danno risarcibile,
Padova, 1996, p. 624.
(35) In questo senso Cass. 17 maggio 1999, n. 4790, in Rep. Foro it., 1999, voce
Resp. civ., n. 256.
(36) Così, per quanto attiene ai rapporti di agenzia, Trib. Milano 24 novembre
1994/6 marzo 1995, n. 2350 cit. da P. LONGHINI, Le Sim e i promotori finanziari nella
giurisprudenza, cit., p. 156. Nel caso del procacciatore d’affari Trib. Milano 6 marzo
1995 (ined. cit. da V. CARBONE), La responsabilità dei promotori e delle società finanziarie, cit. p. 615 ss. (ivi a p. 616)”; Trib. Milano 15 ottobre 1992, sempre cit. da P.
LONGHINI, Le Sim e i promotori finanziari nella giurisprudenza, cit., p. 154; Pret. Milano 3 febbraio 1992, ivi, p. 147.
(37) In tal senso Trib. Milano 2 maggio 1996, in Resp. civ. prev., 1997, p. 1235
con nota di F. ANNUNZIATA, La responsabilità della Sim per i danni cagionati alla propria clientela dal promotore finanziario.
(38) Così F. ANNUNZIATA, Le regole di comportamento degli intermediari e riforme dei mercati mobiliari, Milano, 1993, p. 371. Per un’esauriente panoramica sulle
differenti modalità di atteggiarsi dell’attività del promotore in conseguenza del tipo di
rapporto che lo lega all’intermediario v. C. RABITTI BEDOGNI, L’offerta fuori sede. Re-
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Come in precedenza si è detto, ciò che assume rilevanza ai fini del riconoscimento della responsabilità solidale della sim è, sulla base della
norma speciale vigente, la sola circostanza che l’attività del promotore
finanziario, riconducibile ad una delle forme contrattuali previste dalla
legge per l’esercizio di tale attività, sia da questo svolta in regime di
monomandato, ossia nell’interesse esclusivo del solo intermediario per
il quale egli opera (39).
La maggiore tutela che la norma speciale appresta al risparmiatore trova, poi, ulteriore conferma nella scelta del legislatore di settore di
sancire espressamente la solidarietà della responsabilità in questione;
in mancanza di tale intervento, infatti, la stessa natura solidale dell’obbligazione risarcitoria potrebbe essere revocata in dubbio, giacché tale
esito, pure raggiunto in via interpretativa, non appare direttamente
desumibile dal tenore letterale degli artt. 1228 e 2049 c.c. (40).
E, infine, il tentativo di fornire maggiore consistenza alle pretese
dei singoli risparmiatori traspare altresì dal riconoscimento, effettuato
in deroga ai principi generali, che la responsabilità dell’intermediario si
estende anche alle fattispecie in cui l’illecito del promotore integri altresì un illecito penalmente rilevante (41).
gole e costi dell’intermediazione finanziaria, cit., p. 100 ss.. Isolata è la posizione di L.
ZITIELLO, Decreto Eurosim: la disciplina degli intermediari e delle attività, in Società,
1996, p. 1009 ss., ivi a p. 1017, secondo cui non sembra rilevante, per le finalità perseguite dalla normativa speciale, la riconduzione del rapporto intermediario-promotore
in categorie preordinate.
(39) Tra gli obblighi gravanti sul promotore finanziario figura quello di agire
nell’interesse esclusivo di un solo intermediario. E proprio l’obbligo di “monomandato” si presenta, secondo parte della dottrina. Il riferimento è a E. POLTRONIERI, I limiti
alla responsabilità della società d’intermediazione mobiliare per l’operato dei promotori
di servizi finanziari, nota ad App. Bologna 21 marzo 1997; Trib. Bologna 4 novembre
1996; Trib. Milano 3 aprile 1997, in Banca borsa tit. cred., 1999, II, p. 32 ss., ivi a p. 1,
quale elemento fondamentale ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’intermediario, giacché questa discenderebbe appunto dal riconoscimento del promotore
quale soggetto che opera in via esclusiva per un unico intermediario. Che la regola del
monomandato sia stata utilizzata dagli intermediari, insieme al riferimento allo svolgimento delle incombenze, nel tentativo di sottrarsi alla responsabilità è sottolineato da
G.ROTONDO, e (G.FALCONE, G.L.GRECO), La responsabilità nella prestazione dei servizi di investimento, Milano, 2004, p. 307.
(40) Previsioni normative che si limitano, rispettivamente, a prevedere, la prima, la responsabilità del debitore e, la seconda, quella dei padroni e dei committenti.
(41) Sulla circostanza che tale norma non abbia corrispondenti nell’art. 2049 v.
D.U. SANTOSUOSSO, La buona fede del consumatore e dell’intermediario nel sistema della
responsabilità oggettiva, in Banca borsa tit. cred., 1999, I, p. 32 ss., ivi a p. 47.
– 99 –
Da quanto esposto risultano, pertanto, evidenti i limiti sottesi alla
normativa codicistica; limiti che renderebbero incerta, e certamente
più ardua, l’affermazione della responsabilità degli intermediari per
l’operato dei promotori finanziari.
5. Sulla natura ed il fondamento teorico della responsabilità degli intermediari.
Altro profilo di rilievo affrontato nella pronuncia in epigrafe è
quello relativo alla natura e al fondamento teorico della responsabilità
in esame. Sul punto il Tribunale di Mantova mostra di aderire all’orientamento prevalente attestatosi tanto in dottrina quanto in giurisprudenza secondo cui tale responsabilità ha natura oggettiva (42). Si tratta, in sostanza, di una responsabilità imputata all’intermediario ex lege,
senza alcun riferimento né allo stato soggettivo del soggetto abilitato,
né alle modalità con cui questo ha scelto di avvalersi del promotore, né,
infine, alla violazione dei doveri di controllo che incombono sull’intermediario riguardo all’operato di colui per il cui tramite svolge l’attività
di offerta fuori sede (43).
Quanto al criterio di imputazione della responsabilità, il giudicante lo individua nel principio del rischio di impresa: ne consegue che
all’intermediario, il soggetto nella specie maggiormente in grado di va(42) Il panorama dottrinale ha indirizzato i propri sforzi nell’inquadrare tale
responsabilità nella dicotomia colpa-responsabilità oggettiva. Al riguardo, la maggioranza degli Autori si è mostrata propensa a riconoscere la natura oggettiva di tale
responsabilità; in questa linea di pensiero v. V. CARBONE, La responsabilità dei promotori e delle società finanziarie, cit., p. 615 ss., ivi a p. 619; D.U. SANTOSUOSSO, La buona
fede del consumatore e dell’intermediario nel sistema della responsabilità oggettiva, in
Banca borsa tit. cred., 1999, I, p. 32 ss., ivi a p. 38; E. POLTRONIERI, I limiti alla responsabilità della società d’intermediazione mobiliare per l’operato dei promotori di servizi
finanziari, cit., p. 32 ss., ivi a p. 52; A.PATRONI GRIFFI, L’offerta fuori sede, in A. Patroni Griffi – M. Sandulli – V. Santoro (a cura di), Intermediari finanziari, mercati e società quotate, Torino, 1998, p. 256; F. BOCHICCHIO, Illeciti dei promotori finanziari nei
confronti dei risparmiatori e responsabilità oggettiva dell’intermediario: articolazione
del principio di responsabilità nell’ambito delle dinamiche di impresa, cit., p. 466 ss., ivi
a p. 471; M.C. CALDARELLI – M. TOFANELLI, Il promotore finanziario e la responsabilità
solidale del soggetto abilitato, in Dir. econ., 1997, p. 341 ss., ivi a p. 353; C.E. ESINI –
G. MORELLO, Il promotore finanziario. I principali aspetti della figura tra legge n. 1/91
e decreto Eurosim, Torino, 1996, p. 157; contra A. MANIACI, La responsabilità della Sim
per fatto illecito del promotore, cit., p. 490 ss..
(43) In tal senso V.CARBONE, La responsabilità dei promotori e delle società finanziarie, cit., p. 615 ss. ivi a p. 619.
– 100 –
lutare e controllare le condizioni generali di rischio connesse alla sua
attività, è attribuito il costo di quegli stessi rischi che egli contribuisce a
creare (44). E ciò perché implicando l’impresa da egli svolta organizzazione e continuità, i danni da questa prodotti con una certa regolarità
– danni tra i quali un particolare rilevo assumono, oltre a quelli che si
realizzano all’interno dell’impresa, anche quelli che si propagano all’esterno di questa assumendo la forma di danni arrecati a terzi – fanno
sì che il rischio del loro verificarsi possa agevolmente essere tradotto in
costo ed inserito “armonicamente nel gioco dei profitti e delle perdite
con lo strumento della assicurazione o della autoassicurazione” (45).
Pur essendo la sentenza in esame in linea con la prospettiva verso
cui si orienta la giurisprudenza più recente, l’interpretazione da essa
(44) Nel determinare il fondamento teorico della responsabilità in esame la dottrina ha preso in prestito le riflessioni maturate con riguardo alla previsione codicistica
di cui all’art. 2049 c.c. In quel contesto, la corrente di pensiero maggiormente diffusa
trovava il motivo informatore della responsabilità dei padroni e dei committenti nel
principio del rischio di impresa; così P. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva,
Milano, 1961. L’attribuzione all’imprenditore del costo del rischio che egli crea è, in
questa linea di pensiero, funzionale ad evitare che “imprese marginali o settori marginali di impresa siano attivi dal punto di vista del singolo imprenditore, laddove dal
punto di vista sociale siano passivi, distruggendo un valore maggiore di quello che
producono, e si mantengano in vita solo in quanto una parte del loro passivo sociale,
e cioè il costo del rischio da esse introdotto nella società, venga pagato dal pubblico”.
Altri Autori rinvenivano il criterio di imputazione della responsabilità in questione nella scelta da parte di un soggetto di avvalersi della opera altrui per realizzare
un fine ed un interesse proprio; scelta che determinando un ampliamento della sfera
d’azione del soggetto implica che la responsabilità del danno si estenda da colui che il
danno ha cagionato a colui che, per il perseguimento di tale interesse, si avvale della
collaborazione di altri. In tal senso R. SCOGNAMIGLIO, Responsabilità per fatto altrui, in
Noviss. dig., 1968, p. 697 ss., secondo cui, nell’individuazione del fondamento della
responsabilità, assume un rilievo decisivo la relazione che lega padroni e committenti
a domestici e commessi; in questa linea di pensiero, la circostanza che un soggetto si
avvalga della collaborazione altrui per il perseguimento di un fine personale giustifica
che al padrone o al committente, nel cui interesse si svolge l’attività dannosa dei domestici e commessi sia consentito di sottrarsi alle conseguenze per il solo fatto di aver
agito a mezzo di altri.
In senso diverso si orientava, infine, una ulteriore corrente dottrinale volta ad
individuare il fondamento della responsabilità nella utilizzazione strumentale da parte
di un soggetto di un’utilità derivante dall’esercizio di un’attività, non necessariamente
imprenditoriale, svolta a mezzo di altri: questa l’opinione di V. RUFFOLO, La responsabilità vicaria, Milano, 1976, p. 115 ss., per il quale la responsabilità può essere impartita al
preponente giacché il danno appare causato da una attività svolta o esercitata per il
tramite di una “entità strumentale inanimata (cosa), animale, umana (commesso)”.
(45) Così esplicitamente P. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, cit., p. 50.
– 101 –
fornita non è l’unica. Si devono registrare, infatti, alcuni tentativi sia
giurisprudenziali che dottrinali volti ad accreditare la colpa presunta
quale criterio di imputazione della responsabilità, in particolare attraverso il richiamo alla culpa in eligendo o in vigilando (46).
Numerose sono, tuttavia, le obiezioni che si possono muovere a
tale impostazione. La prima trae origine dal tenore letterale dell’art.
31, comma 3, T.U.F., che non lascia alcuno spazio quanto all’esistenza
di una ipotetica prova liberatoria della quale l’intermediario possa avvalersi al fine di andare esente da responsabilità (47). La seconda obiezione muove, invece, dalla considerazione della ratio sottesa alla previsione normativa di cui all’art. 31, comma 3, T.U.F., come singolarmente
individuata (48). Adottando una regola di presunzione di colpa si otterrebbe un risultato non in linea con gli obiettivi che il legislatore speciale si proponeva di raggiungere attraverso l’entrata in vigore della
norma speciale: funzionale ad apprestare una più efficace tutela al risparmiatore, la norma, così interpretata, finirebbe per agevolare il solo
intermediario e pregiudicare la posizione del soggetto che dovrebbe
esserne tutelato; il risparmiatore, infatti, sotto il profilo delle allegazioni probatorie trae certamente maggiori facilitazioni da una regola di
(46) In giurisprudenza si è espresso nel senso di consentire agli intermediari, al
fine di esonerarsi dalla responsabilità per l’illecito del proprio promotore finanziario,
di fornire la prova rigorosa e puntuale dell’assenza di una propria culpa in vigilando
sull’attività svolta dal promotore Trib. Milano 23 gennaio 2003 in Banca borsa tit.
cred., 2004”, con nota di R. VIGLIONE; ma anche a Trib. Milano 11 giugno 1998, n.
7244 in Contratti, 1999, con nota di A. MANIACI, La responsabilità della Sim per fatto
illecito del promotore, cit., p. 490 ss. La possibilità che, nella vigenza della legge n. 1
del 1991, la s.i.m. potesse sottrarsi alla responsabilità solidale fornendo la prova di
aver agito con la diligenza dovuta è prospettata da A. MANIACI, La responsabilità della
Sim per fatto illecito del promotore, cit., p. 490 ss.. Tale Autore trae argomenti a conforto della propria tesi da una lettura congiunta delle norme dettate, rispettivamente,
in tema di responsabilità degli intermediari per i danni cagionati dai propri promotori
e in tema di oneri probatori gravanti sui soggetti abilitati nei giudizi di risarcimento
dei danni cagionati ai clienti nello svolgimento dell’attività di intermediazione mobiliare; una lettura congiunta che, nella vigenza sia della legge s.i.m. che del T.U.F.,
consentirebbe all’intermediario, secondo l’orientamento in esame, di vincere la presunzione di colpa fornendo la prova liberatoria consistente, appunto, nella prova di
aver agito con la diligenza dovuta. Mentre nella vigenza della legge n. 1 del 1991, tale
lettura risultava dal combinato disposto degli artt. 5, comma 4, e 13, comma 10, nella
vigenza del T.U.F. risulterebbe dall’art. 31, comma 3, e 23, comma 6.
(47) Così P. LONGHINI, Le Sim e i promotori finanziari nella giurisprudenza, cit.,
p. 159.
(48) Il rilievo è di M. LO BUONO, La responsabilità degli intermediari finanziari,
Napoli, 2001, p. 150.
– 102 –
responsabilità oggettiva che da una regola fondata su di una presunzione di colpa dell’intermediario, la quale lo espone al rischio di non riuscire a fornire in giudizio la prova del comportamento negligente dell’intermediario. In altre parole, non pare azzardato ipotizzare che l’effetto dell’accoglimento di tale linea di pensiero sarebbe soltanto quello di assicurare agli intermediari una sorta di immunità per i danni cagionati dai
promotori.
L’accoglimento di una regola basata su di una presunzione di colpa in luogo di una regola di responsabilità oggettiva manifesta, poi, un
ulteriore limite intrinseco, ben evidenziato dalla letteratura di analisi
economica del diritto. Come rilevato da attenta dottrina con riferimento alla previsione normativa di cui all’art. 2049 c.c., (49) la fissazione di
uno standard di diligenza tale da esonerare il danneggiante dalla relativa responsabilità non rappresenta affatto un modo di procedere utile a
diminuire il rischio che si verifichino eventi come quelli che hanno dato
luogo alla controversia in esame. Una scelta che andasse in una simile
direzione indurrebbe l’intermediario, una volta adottato lo standard di
diligenza richiesto, a svolgere la propria attività senza tener in alcun
conto l’aumento generalizzato del rischio ad essa connesso. Mentre a
risultati certamente diversi conduce l’adozione di un sistema di responsabilità oggettiva: rendere l’intermediario responsabile a prescindere
dal livello di diligenza impiegato, incentiva quest’ultimo ad investire
nella prevenzione dei danni che possono derivare dalla sua attività e “a
scegliere un livello di attività compatibile con le esigenze generali di
sicurezza(...)” (50).
La questione da considerare, a questo punto, attiene alla principale obiezione che viene mossa alla tesi che riconosce natura oggettiva
alla responsabilità in questione: l’aspetto di maggiore criticità è legato
al timore che, così intesa, tale disciplina possa andare a discapito della
generalità dei risparmiatori, in quanto il danno sofferto dal singolo risparmiatore vedrebbe l’intermediario, costretto a rispondere solidalmente per il danno cagionato dal promotore ed eventualmente ad assicurarsi, traslare l’aumento dei costi, determinato dall’attribuzione della responsabilità ex lege, sulla intera collettività dei risparmiatori. In
sostanza, la preoccupazione sarebbe quella di una possibile ripercussione di tale scelta sulla intera categoria dei risparmiatori, sui quali gra(49) In tal senso P.G. MONATERI, La responsabilità civile in Trattato di dir. civ.,
Sacco, Torino, 1998, p. 977 ss.
(50) Sono queste parole di P.G. MONATERI, La responsabilità civile, cit., p. 977
ss., spec. p. 979.
– 103 –
verebbe un aumento dei prezzi tale da riflettere i maggiori oneri economici sostenuti dagli intermediari e, quindi, i costi degli eventi dannosi (51).
In tali circostanze, non vi è dubbio che i costi dei servizi d’intermediazione potranno subire delle variazioni in aumento; tuttavia, l’obiezione ora esposta ci sembra non possa essere accolta, specie se si muove da un approccio sistematico che inquadra la previsione normativa in
esame nel più ampio contesto delle finalità perseguite nel settore della
intermediazione finanziaria.
Come si è tentato di evidenziare nelle pagine precedenti, una delle
peculiarità del mercato finanziario nel suo complesso sta nel contenuto
intrinsecamente fiduciario che lo caratterizza (52). Come si è detto,
all’interno di tale contesto, la regolamentazione è per lo più finalizzata
ad evitare che il comportamento scorretto di uno degli operatori comprometta la reputazione che sorregge l’intero sistema, finendo per scoraggiare il risparmiatore dall’investire all’interno del mercato stesso. E
proprio tale elemento dà ragione delle regole, come quella di cui all’art.
31, comma 3, T.U.F., volte a tutelare appunto la fiducia del contraente
debole rispetto ad eventuali comportamenti opportunistici posti in essere dall’intermediario o da chi agisce, o meglio dovrebbe agire, nel
suo interesse (53).
Ne deriva, allora, che nella misura in cui la responsabilità solidale
riconosciuta in capo all’intermediario finanziario contribuisce a rendere il risparmiatore, nel concreto, maggiormente sicuro in ordine al fatto
di poter fare affidamento su di un soggetto economicamente più solvibile rispetto al promotore finanziario e su di un sistema finanziario effettivamente in grado di tutelarlo, tale aspettativa si tradurrà a sua volta
in un incentivo, per la collettività dei risparmiatori, ad investire su di
un mercato che risulta senza dubbio maggiormente affidabile in termini di prospettive di tutela. Si tratta quindi di riconoscere ancora una
volta che la protezione del risparmiatore svolge un ruolo strettamente
(51) Preoccupazioni di tal fatta sono espresse da D. FINARDI, Responsabilità oggettiva delle Sim per fatto del preponente, nota a Trib. Verona, 6 marzo 2001, in Società, p. 963 ss., spec. p. 968.
(52) Sulla rilevanza dell’elemento fiduciario v. A.M. PACCES, Verso un sistema
bancario e finanziario europeo? cit., p. 12, il quale rileva opportunamente come il settore del mercato finanziario si caratterizzi per un contenuto intrinsecamente fiduciario ove la regolamentazione è indirizzata ad evitare che il comportamento scorretto di
alcuni intermediari possa compromettere la reputazione che sorregge l’intero sistema
finanziario.
(53) Sul punto v. supra par. 2.
– 104 –
complementare rispetto all’efficienza del mercato finanziario nel suo
complesso: essa accresce la fiducia nel sistema della intermediazione,
incentiva il ricorso del risparmiatore al mercato e, in tal modo, finisce
per assicurarne efficienza, competitività e buon funzionamento.
6. I limiti della responsabilità degli intermediari: a) lo svolgimento delle
incombenze.
La pronuncia del Tribunale di Mantova consente, infine, di soffermarsi su un nodo peculiare delle fattispecie di responsabilità in esame,
ossia i limiti di detta responsabilità. Prima di procedere oltre nell’analisi, è tuttavia opportuno ricordare come tale questione appare strettamente legata ad un’altra: ci si riferisce alla valenza che si intende attribuire all’abolizione di quell’inciso che, nella vigenza della legge n. 1 del
1991, richiedeva, al fine di far derivare la solidale responsabilità della
sim, che i danni dovessero essere arrecati dai promotori “nello svolgimento delle incombenze ad essi affidate”. Inciso che, espunto nel decreto Eurosim e non riproposto nell’art. 31, comma 3, T.U.F., è stato sostituito con un più generico riferimento alla responsabilità solidale del
soggetto che “conferisce l’incarico”.
La connessione tra tali questioni si spiega ponendo l’attenzione su
due dati: da un lato, la tendenza della dottrina, quasi unanime, a ritenere che nella sostanza la norma sia rimasta immutata, essendo il requisito dello svolgimento delle incombenze implicito nella nuova formulazione e presupposto comunque indefettibile per il sorgere della responsabilità solidale (54); dall’altro lato, l’attitudine della giurisprudenza a
(54) In tal senso v., per tutti, F. BOCHICCHIO, Illeciti dei promotori finanziari nei
confronti dei risparmiatori e responsabilità oggettiva dell’intermediario: articolazione
del principio di responsabilità nell’ambito delle dinamiche di impresa, cit., p. 466 ss.,
(ivi a p. 469; sostiene L. ZITIELLO, Decreto Eurosim: la disciplina degli intermediari e
delle attività, cit., p. 1009 ss., ivi a p. 1017, che la formulazione della norma, successivamente all’abolizione dell’inciso, sia tecnicamente più corretta; contra, nel senso che
il tenore letterale della norma, con il collegamento della responsabilità al mero
conferimento dell’incarico e con il persistente ed ambiguo riferimento ai danni conseguenti a responsabilità accertata in sede penale, unitamente ad ulteriori elementi non
meglio specificati, lasci troppo spazio al momento interpretativo, con conseguenti evidenti limiti nella fase applicativa della disposizione in commento, si esprime A. PATRONI GRIFFI, L’offerta fuori sede, cit., p. 257; secondo C.E. ESINI – G. MORELLO, Il
promotore finanziario. I principali aspetti della figura tra l. 1/91 e decreto Eurosim, cit.,
p. 157, l’abolizione dell’inciso avrebbe prodotto come effetto l’ampliamento della responsabilità della sim.
– 105 –
proporre, con riguardo alla norma speciale, le medesime elaborazioni
fiorite con riguardo alla interpretazione della previsione codicistica di
cui all’art. 2049 c.c. In una perspicua rassegna delle pronunce sulla
responsabilità degli intermediari emerge infatti la tendenza ad interpretare il limite dello svolgimento delle incombenze in modo tale da
richiedere la sussistenza, tra l’attività del promotore e l’evento dannoso, di un semplice nesso di occasionalità necessaria e non di un rigoroso nesso di causalità (55).
Adottando questa interpretazione della norma speciale, allora,
affinché possa affermarsi la responsabilità degli intermediari occorre
che le mansioni affidate al promotore assumano una valenza facilitativa
o comunque agevolativa rispetto al comportamento produttivo del danno, a nulla rilevando che tale comportamento ecceda i limiti dell’incarico, sia posto in essere in trasgressione degli ordini impartiti dall’intermediario ovvero si caratterizzi, quanto all’elemento soggettivo, per la
colpa o il dolo del promotore (56). Tuttavia, la dimostrazione che il
promotore abbia agito perseguendo finalità proprie, sue personali, in
nulla coerenti con quelle per cui le mansioni gli sarebbero state affidate, e rispetto alle quali l’intermediario non si sia dimostrato neppure
mediatamente interessato o compartecipe, sarebbe di per sé idonea, in
linea con il prevalente orientamento giurisprudenziale sul punto, ad
escludere la responsabilità dell’intermediario (57).
Questa conclusione spiega agevolmente come nelle maglie di
tale interpretazione si celi un rischio. Quello che gli intermediari
(55) Per un’applicazione di tale principio si veda Trib. Milano 11 giugno 1998,
n. 7244, in Contratti, 1999, con nota di A. MANIACI, La responsabilità della Sim per
fatto illecito del promotore, cit., p. 487 ss.; App. Milano 27 luglio 2001, in Banca borsa
tit. cred., 2002, II, p. 424 ss., con nota di A. CHIEPPA MAGGI, Sulla responsabilità indiretta della Sim.
(56) In questo senso App. Milano 27 luglio 2001; App. Bologna 21 marzo 1997,
in Diritto della banca e del mercato finanziario, 1998, p. 77 ss., con nota di D.U.
SANTOSUOSSO, La responsabilità solidale della S.I.M. per fatto illecito del promotore;
Trib. Milano 24 giugno 1996, in Banca borsa tit. cred., 1997, II, p. 466. ss., con nota di
F. BOCHICCHIO, Illeciti dei promotori finanziari nei confronti dei risparmiatori e responsabilità oggettiva dell’intermediario: articolazione del principio di responsabilità nell’ambito delle dinamiche di impresa, cit.; Trib. Milano 2 maggio 1996 cit.
(57) Esemplari in tal senso “Cass. 17 marzo 1990 n. 2226 in Giur.it., 1991, I, 1,
p. 354; “Cass. 27 marzo 1987 n. 2994 in Giur. it., 1988, I, 1, p. 1833. Per un’applicazione di tale principio con riferimento alla responsabilità della banca per il fatto illecito del proprio dipendente si veda App. Milano 25 giugno 1993, in Banca, borsa tit.
cred., 1995, II, p. 35; App. Milano, 7 luglio 1972 in Banca borsa tit. cred., 1973, II, p.
410 e Trib. Bologna 6 marzo 1979, ivi, 1979, II, p. 211.
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tentino di far valere il collegamento tra il danno e l’esercizio delle
incombenze in modo tale da dimostrare il perseguimento da parte
del promotore di finalità proprie, in nulla coerenti con le mansioni
affidategli, così da escludere, conseguentemente, la responsabilità
solidale in questione (58). Rischio che è si è materializzato non solo
nella fattispecie in esame, ove la sim ha tentato di eccepire la propria completa estraneità rispetto alle operazioni compiute dal promotore, ma anche in una fattispecie analoga sottoposta al vaglio del
Tribunale di Verona (59).
In quel caso, il giudicante scaligero espresse chiaramente il timore
che la normativa speciale potesse essere letta “al lume delle tendenze
interpretative (...) più favorevoli relative alla responsabilità indiretta
del committente per il danno arrecato dal fatto illecito del dipendente,
ai sensi dell’art. 2049 c.c.” (60). Ricondurre, infatti, la responsabilità
della società abilitata entro l’alveo dell’interpretazione giurisprudenziale resa in tema di art. 2049 c.c. avrebbe di fatto significato, come
opportunamente rilevato dal Tribunale, pervenire ad un’interpretazione abrogativa della lex specialis, ossia ad una interpretazione che avrebbe compromesso del tutto l’obiettivo della tutela del risparmiatore;
obiettivo che il legislatore speciale ha inteso raggiungere sia attraverso
la predisposizione della norma in questione, che per il tramite dell’abolizione dell’inciso, la cui finalità sarebbe stata, anche sotto la vigenza
della legge 1 del 1991, soltanto quella di “(...) chiarire che qualora l’atto
lesivo del promotore si fosse svolto in una sfera del tutto estranea (es.:
per impulso consapevole del risparmiatore colluso), non sarebbe scattata la responsabilità (...)” (61).
Di qui la necessità, ma soprattutto l’utilità del ricorso ad altri criteri idonei a far rimeditare i limiti connessi all’esercizio delle incombenze. Ed in particolare, individuato nel rischio d’impresa il fondamento teorico della responsabilità in questione, a quella soluzione interpretativa che individua il limite di tale responsabilità nel maggior
(58) Del resto, simili tentativi non si registrano soltanto nel settore della
intermediazione finanziaria, ma anche nel settore della intermediazione bancaria ove,
in mancanza di una apposita disciplina speciale, le banche sovente sono impegnate
nel dimostrare l’assoluta estraneità rispetto agli illeciti posti in essere dai propri dipendenti nell’esercizio di quella che è la loro personale autonomia.
(59) Il riferimento è a Trib. Verona 6 marzo 2001, cit.
(60) Il riferimento è a Trib. Verona 6 marzo 2001, cit..
(61) Quelle citate sono sempre parole del giudicante scaligero.
– 107 –
rischio, obiettivamente prevedibile, che l’impresa stessa introduce nella società (62). Affinché la s.i.m. possa essere chiamata a rispondere
solidalmente del fatto del proprio promotore occorre, in conformità a
questa ipotesi ricostruttiva, che il danno realizzato da quest’ultimo sia
espressione del maggior rischio introdotto nella società dall’esercizio
dell’impresa; ne consegue che dal novero dei danni risarcibili dovranno pertanto essere esclusi quei danni la cui probabilità di verificarsi sia
talmente remota da rappresentare un caso fortuito imprevedibile per la
s.i.m. stessa.
Seguendo, quindi, la linea di pensiero secondo cui il rischio d’impresa rappresenta il fondamento teorico della responsabilità in questione, non solo il danno dolosamente posto in essere dal promotore,
così come la commissione di un illecito penalmente rilevante, ma anche
la deviazione di questi rispetto all’incarico conferitogli, non consentiranno all’intermediario di andare esente da responsabilità; e tale esito
si produrrà egualmente nei casi, assai frequenti, in cui il promotore
abbia agito perseguendo finalità assolutamente personali. Ciò in quanto i rischi di simili comportamenti risultano agevolati e strettamente
collegati all’attività di impresa di intermediazione mobiliare obiettivamente considerata (63).
Agli intermediari rimarrà, pertanto, quale unica via per sottrarsi
alla responsabilità, quella di dimostrare l’intervenuta collusione tra promotore e risparmiatore sub specie di consapevolezza del risparmiatore
riguardo all’estraneità della condotta del promotore alla sfera di attività dell’intermediario per conto del quale egli avrebbe dovuto opera-
(62) Ricorre a tale criterio P. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, cit.,
p. 156 ss. Diversi i criteri prospettati da R. SCOGNAMIGLIO, Rischio e impresa, in Scritti
giuridici, 1. Scritti di diritto civile, Padova, 1996, p. 427 ss., il quale propone, nell’individuare il limite dello svolgimento delle incombenze, di ricorrere al criterio della pertinenza degli atti dannosi all’esercizio delle incombenze secondo un giudizio di
congruità. Ma ancora v. V. RUFFOLO, La responsabilità vicaria, cit., p. 111, che suggerisce l’utilizzazione di un criterio di equivalenza causale attenuata quale concausa sine
qua non.
(63) Sul punto v. P. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, cit., p. 159,
ove si legge che “certi tipi di truffe da parte dei dipendenti sono notevolmente agevolate dall’esercizio di certi tipi di imprese, alle quali appaiono collegati con una certa
regolarità statistica”. Ma come è noto, il concetto di attività d’impresa come attività
obiettivamente considerata costituisce un topos della dottrina commercialistica per il
cui approfondimento si rinvia a B.LIBONATI, Contratto bancario e attività bancaria, Milano, 1965 e AA.VV., L’impresa, in Quaderni romani di diritto commerciale (a cura di B.
LIBONATI e P. FERRO-LUZZI), Milano, 1985.
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re (64). Solo in tal caso, infatti, l’intervenuto patto tra promotore e risparmiatore darà prova che i danni derivanti al risparmiatore rappresentano l’effetto di scelte autonome e consapevoli proprie di questo e
soprattutto tale da recidere ogni nesso che consenta di affermare la
responsabilità solidale della sim per l’operato del promotore (65).
7. Continua. I limiti della responsabilità degli intermediari: b) il concorso
di colpa del risparmiatore.
Gli intermediari eccepiscono frequentemente il concorso di colpa
del risparmiatore nella produzione del danno, ex art. 1227, 1° comma,
c.c., nel tentativo di vedere esclusa ovvero limitata, sotto il profilo del
quantum debeatur, la propria obbligazione risarcitoria (66). In particolare, il concorso di colpa viene lamentato in quei casi in cui i risparmiatori si avvalgono di mezzi di pagamento difformi da quelli previsti nella
normativa regolamentare di settore (67).
E questo è quello che è accaduto, come si è detto, anche nella
fattispecie in epigrafe ove il tribunale di Mantova ha escluso che il comportamento del risparmiatore integri gli estremi del concorso di colpa
ed assuma rilevanza alcuna ai fini della esclusione della responsabilità
dell’intermediario.
(64) È questa una affermazione che trova unanimità di consensi in dottrina ed
in giurisprudenza, ove la consapevole collusione tra promotore e risparmiatore ovvero la consapevolezza dimostrata dal cliente riguardo all’estraneità della condotta del
promotore rispetto alla sfera di attività dell’intermediario – rispetto alla quale la difformità dei mezzi di pagamento utilizzati dal risparmiatore può assumere soltanto
valore indicativo – esclude la responsabilità dell’intermediario. Ritiene parte della
dottrina (F. BOCHICCHIO, Illeciti dei promotori finanziari nei confronti dei risparmiatori
e responsabilità oggettiva dell’intermediario: articolazione del principio di responsabilità nell’ambito delle dinamiche di impresa, cit., p. 466 ss., ivi a p. 475) che l’esclusione
della responsabilità dell’intermediario si spieghi agevolmente con la considerazione
che il rapporto di fiducia tra promotore e risparmiatore diviene a tal punto stringente
da non essere più riconducibile al rapporto instaurato dal risparmiatore con l’impresa, ma sia anzi tale da aver assunto assoluta e prevalente autonomia.
(65) Sul punto v. G. FALCONE, G.L. GRECO, G. ROTONDO, La responsabilità nella
prestazione dei servizi d’investimento, cit., p. 326.
(66) Quanto alla ratio della normativa regolamentare dettata in tema di mezzi
di pagamento è dibattuto se si tratti di norma posta a tutela del solo investitore o
anche degli stessi intermediari finanziari che, proprio attraverso la verifica del rispetto
di tale norme, potrebbero trarre indici significativi riguardo alla condotta dei promotori finanziari.
(67) Sulla difformità dei mezzi di pagamento v. supra par. 1, nota 3.
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L’atteggiamento di assoluto rigore assunto dal giudicante si colloca pertanto sulla scia di quelle correnti dottrinali che negano l’operatività della norma di cui al primo comma dell’art. 1227 c.c. nelle fattispecie come quella in esame, sia pure con diverse sfumature. Così, secondo alcuni autori, a far escludere il concorso di colpa del risparmiatore
sarebbe la comparazione della condotta di quest’ultimo e dell’intermediario; comparazione che lascerebbe intravedere il perseguimento da
parte di tali soggetti di obiettivi a tal punto divergenti da escludere
quella unitarietà di intenti tipica della concausalità (68). Secondo altri,
invece, l’operatività della previsione normativa di cui all’art. 1227, 1°
comma, c.c. non potrebbe trovare luogo nelle fattispecie come quella
in esame in cui la condotta colposa del risparmiatore si fronteggia con
quella dolosa del promotore (69).
Non mancano, tuttavia, pronunce in senso contrario (70) ed opi(68) In questo senso v. M.C. CALDARELLI – M. TOFANELLI, Il promotore finanziario e la responsabilità solidale del soggetto abilitato, cit., p. 341 ss., ivi a p. 365 e 366.
(69) Nel senso che l’applicazione dell’art. 1227, 1° comma, c.c. potrebbe ammettersi nelle sole ipotesi in cui la condotta colposa del risparmiatore sia fronteggiata
da una condotta colposa, e non anche dolosa del promotore v. F. BOCHICCHIO, Illeciti
dei promotori finanziari nei confronti dei risparmiatori e responsabilità oggettiva dell’intermediario: articolazione del principio di responsabilità nell’ambito delle dinamiche
di impresa, cit., p. 466 ss., ivi a p. 473. Si tratta di una linea di pensiero che risente di
quelle opinioni che, nella vigenza tanto della precedente codificazione quanto del
codice civile attuale, ritengono inapplicabile la previsione di cui al primo comma dell’art. 1227 c.c. alle ipotesi caratterizzate, a fronte della condotta colposa del danneggiato, dalla condotta dolosa del danneggiante, in considerazione del fatto che l’atto di
quest’ultimo è destinato ad assumere una valenza assorbente rispetto all’atto colposo
del danneggiato”.
(70) Nella giurisprudenza di merito si esprimono favorevolmente rispetto alla possibilità che il concorso di colpa del danneggiato possa rilevare al fine della determinazione
dell’entità del risarcimento Trib. Milano 11 febbraio 2002 in Banca borsa tit. cred., 2004, p.
153 ss., con osservazioni di R. VIGLIONE, nella quale il giudicante afferma che l’irregolare
forma di pagamento di cui si è avvalso il risparmiatore integra un’ipotesi di concorso del
fatto colposo del creditore ex art. 1227, 1° comma, c.c. tale da determinare una riduzione
del quantum debeatur (riduzione che nel caso di specie viene commisurata nella misura
del venti per cento, stante l’intensità della colpa non eccessiva del risparmiatore, valutata
con riferimento ad elementi quali il rapporto di parentela esistente tra risparmiatore e
promotore; nella stessa linea di pensiero v. altresì, Trib. Milano 11 giugno 1998 cit., in cui
il Tribunale, esprimendosi favorevolmente rispetto alla diminuzione del risarcimento del
danno per aver il risparmiatore dato causa, con l’inosservanza delle modalità di pagamento, al pregiudizio subito, ravvisa nelle norme regolamentari “(...) un onere di collaborazione destinato ad evitare il rischio di appropriazione indebita da parte del promotore finanziario in danno dell’investitore”. Per un precedente risalente nel tempo si rinvia a App.
Firenze 18 gennaio 1995, n. 84, (ined. cit. da V. CARBONE, La responsabilità dei promotori e
delle società finanziarie, cit., p. 615 ss., ivi a p. 616.
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nioni dottrinali che, maggiormente sensibili rispetto all’esigenza di
contemperare la tutela dei risparmiatori con quella degli intermediari finanziari, nonché preoccupate dagli effetti disincentivanti che
un uso eccessivamente sanzionatorio della norma speciale possa determinare quanto alla libertà di iniziativa economica, ritengono più
congruo ammettere che la previsione codicistica di cui all’art. 1227
c.c. sia applicabile anche laddove la condotta del promotore sia dolosa. Ciò in considerazione del fatto che debitore dell’obbligazione
risarcitoria è anche, seppure in via solidale, l’intermediario finanziario, il quale potrebbe risultare non essere né in dolo né in colpa,
in quanto abbia adempiuto correttamente a tutti gli obblighi informativi e di controllo posti a suo carico dalla normativa primaria e
regolamentare (71).
Seguendo questa ricostruzione, l’utilizzazione da parte dell’intermediario di tutti gli accorgimenti volti a tutelare la buona fede del risparmiatore insieme alla grave negligenza del risparmiatore che non ha
infranto, o comunque non ha tenuto in debita considerazione, i vincoli
posti dalla normativa in vigore, non potrebbe che condurre che ad una
riduzione del danno ex art. 1227 c.c.
Una tale conclusione, seppure pregevole quanto al tentativo ad
essa sotteso di introdurre un equo contemperamento degli interessi degli
intermediari, da un lato, e dei risparmiatori, dall’altro, non appare tuttavia condivisibile.
In primo luogo perché non appare suffragata dal dato normativo. Le
norme sui mezzi di pagamento sono disposizioni destinate a conformare
l’attività dei promotori finanziari (72); idonee a far sorgere obblighi a carico del promotore; introdotte nell’ordinamento con la funzione di apprestare una adeguata tutela al risparmiatore. Sarebbe allora quanto meno
illogico che della loro violazione fosse chiamato a rispondere proprio il
soggetto che dal rispetto di tali obblighi dovrebbe veder accrescere la propria protezione. Come opportunamente rilevato, infatti, la circostanza che
il risparmiatore abbia consentito al promotore di violare una norma detta-
Si esprime favorevolmente rispetto all’eventualità che il fatto colposo del cliente possa comportare una diminuzione dell’entità del risarcimento C. COLTRO CAMPI,
voce Promotori di servizi finanziari, in Digesto comm., Torino, 1995, XI, p. 408.
(71) Così D.U. SANTOSUOSSO, La buona fede del consumatore e dell’intermediario nel sistema della responsabilità oggettiva, cit., p. 32 ss., spec. p. 63.
(72) In questo senso v. M.LO BUONO, La responsabilità degli intermediari finanziari, cit., p. 256.
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ta a sua tutela, non può compromettere la finalità della disposizione, che si
trasformerebbe altrimenti in una sanzione impropria (73).
In secondo luogo, la tesi dianzi esposta contrasta apertamente con
l’accoglimento del rischio d’impresa come fondamento teorico della responsabilità in questione. Si è infatti sottolineato come la responsabilità
ex lege sia imputata all’intermediario non già in funzione della sua colpa
nella scelta o nel controllo del promotore, bensì in funzione dell’attività
d’impresa esercitata, con la conseguenza che la diligenza dell’intermediario non varrebbe in alcun modo ad escluderne la relativa responsabilità. In tali casi è peraltro il promotore a rendersi inadempiente rispetto
ad un suo obbligo e a creare, con il suo comportamento, le premesse per
il sorgere della responsabilità oggettiva dell’intermediario.
In quest’ottica non si deve comunque ritenere che la responsabilità risarcitoria della sim non possa essere esclusa. Questa, infatti, potrà,
come rilevato opportunamente dal Tribunale, essere esonerata dalla
relativa responsabilità nelle ipotesi – per la verità non facilmente dimostrabili – in cui il fatto colposo del danneggiato evidenzi una colpa esclusiva del risparmiatore, per imprudenza non scusabile, che sia stata causa determinante ed unica nella creazione del danno.
FEDERICA FARKAS
(73) Di sanzione impropria scrive opportunamente F. BOCHICCHIO, Illeciti dei
promotori finanziari nei confronti dei risparmiatori e responsabilità oggettiva dell’intermediario; articolazione del principio di responsabilità nell’ambito delle dinamiche d’impresa, cit., p. 466 ss., ivi a p. 473).
MASSIMARIO
(Fascicolo 1-2-3/2005)
CONTRATTO (TEORIA GENERALE DEL). Nullità. Rilevabilità di ufficio. Necessità di coordinamento con il principio processuale della domanda. Conseguenza.
CASSAZIONE, 23 aprile 2004, n. 7780 (con nota di M. M. IACONO) ...................
ENTI E PERSONE GIURIDICHE. Responsabilità amministrativa dipendente da reato ex
d.lgs. 231/2001. Adozione del modello organizzativo in seguito al verificarsi dell’illecito penale al fine di evitare l’irrogazione della sanzione in capo all’ente.
Necessità di una valutazione più rigorosa, in ordine all’idoneità del modello a
prevenire la commissione di reati, rispetto a quella da condurre in rapporto al
modello adottato ex ante. TRIB. Roma, 4 aprile 2003 (con nota di C. MANCINI)
ENTI E PERSONE GIURIDICHE. Responsabilità amministrativa dipendente da reato ex
d.lgs. 231/2001. Criteri per la valutazione dell’idoneità del modello organizzativo
di cui al d.lgs. 231/2001 a prevenire reati. Necessità della valenza esterna delle
regole in esso previste. Trib. Roma, 4 aprile 2003 (con nota di C. MANCINI) ..
FIDEIUSSIONE. Liberazione del fideiussore per fatto del creditore. Presupposti. Necessità di un comportamento del creditore implicante un pregiudizio giuridico
per il garante. Irrilevanza del comportamento implicante un mero pregiudizio
economico. Cassazione, 6 febbraio 2004, 2301 (con nota di G. TARANTINO) .
FIDEIUSSIONE. Decadenza dalla fideiussione in caso mancato esercizio delle azioni
contro il debitore principale. Rateizzazione dell’adempimento. Applicabilità
della decadenza in caso di mancato esercizio del credito in relazione ad una
singola rata. Esclusione. CASSAZIONE, 6 febbraio 2004, 2301 (con nota di G.
TARANTINO) ..........................................................................................................
MERCATO FINANZIARIO. Fatto illecito del promotore di servizi finanziari. Responsabilità solidale della società di intermediazione mobiliare per i danni sofferti dal
risparmiatore. Sussistenza. TRIB. MANTOVA, 13 ottobre 2003, e TRIB. LECCE, 28
giugno 2004 (con nota di F. FARKAS) .................................................................
MERCATO FINANZIARIO. Fatto illeccito del promotore di servizi finanziari in danno
del risparmiatore. Concorso di colpa del danneggiato. Configurabilità. Limiti.
TRIB. MANTOVA, 13 ottobre 2003, e TRIB. LECCE, 28 giugno 2004 (con nota di F.
FARKAS) ................................................................................................................
19
43
43
1
1
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