5 Master Course in diritto del lavoro e amministrazione del personale Lezioni, contributi, documenti a cura di Enrico Gragnoli q i uaderni di formazione Collana di incontri e studi a cura della Federazione delle Banche di Credito Cooperativo dell’Emilia Romagna MASTER COURSE - Bologna, Gennaio - ottobre 2007 PRESENTAZIONE Giulio Magagni Presidente Federazione Regionale BCC Emilia Romagna e Iccrea Holding INTRODUZIONE Daniele Quadrelli Direttore Generale Federazione Regionale BCC Emilia Romagna Enrico Gragnoli - Luca Zaccarelli L'inquadramento dei lavoratori Potere di controllo del datore di lavoro Il licenziamento disciplinare pag. pag. pag. 9 29 43 Sintesi per schede delle giornate di studio pag. 65 Giuseppe Alai In conclusione pag. 99 Alessandro Trombetti - Roberto Zalambani Federazione Banche di Credito Cooperativo dell’Emilia Romagna Via Calzoni, 1/3 - 40128 Bologna - Tel. 051.6314011 - Fax 051.379084 [email protected] - www.fedemilia.bcc.it © 2 q Presentazione L e persone che agiscono nell’ambito dei processi chiave di business dell’industria dei servizi finanziari hanno bisogno di essere preparate al meglio per affrontare sistemi e mercati sempre più evoluti e competitivi. Con questo obiettivo primario, la nostra Federazione ha promosso un Master in diritto del lavoro e amministrazione del personale che ha inaugurato una nuova fase formativa e progettuale all’interno del sistema del Credito Cooperativo che ha fatto scuola e si sta rivelando di particolare utilità per affrontare le sfide e i cambiamenti che stanno interessando il personale delle BCC e delle società prodotto e di servizio. Fondamentale risulta al riguardo la crescita professionale della funzione risorse umane nell’ambito della gestione amministrativa delle persone con specifica attenzione agli aspetti amministrativi, giuridici e normativi che caratterizzano il rapporto di lavoro. Ringrazio pertanto il Direttore generale della Federazione Daniele Quadrelli che ha diretto e coordinato il Master, Enrico Gragnoli, relatore, docente universitario e avvocato di chiara fama, per la consulenza scientifica tanto del percorso formativo che di questo “Quaderno”, il nostro q 3 servizio formazione e tutti i colleghi e collaboratori che hanno supportato l’aula, e tutti i prestigiosi docenti che ci hanno accompagnato in questo impegnativo ma fruttuoso percorso. Giulio Magagni Presidente della Federazione delle Banche di Credito Cooperativo dell'Emilia Romagna 4 q Introduzione Daniele Quadrelli Direttore Generale Federazione Regionale BCC Emilia Romagna Questo ‘ Quaderno’ nasce a un anno dalla conclusione del “Master Course in Diritto del Lavoro“, una grande novità formativa per il Credito Cooperativo, promossa dalla Federazione dell’ Emilia Romagna, modello per il sistema ma soprattutto finalizzato - con esiti eccellenti - a costruire nelle Bcc un gruppo di professionisti, preparati e motivati a gestire al meglio un settore così delicato e centrale: le risorse umane in azienda. Sono state ben 23 le giornate di lezione, ricche di stimoli per la varietà, ovviamente in un contesto di coerente programmazione, dei contributi formativi sia di docenti esterni di alto livello sia di competenze che il nostro sistema ha mostrato di saper mettere in campo. L’ attualità stringente di alcune problematiche e la continua evoluzione del quadro legislativo e normativo, per non parlare dei frequenti contenziosi interpretativi e di norme particolarmente complesse anche per gli addetti ai lavori, se riportate nell’ integralità con la quale sono state esposte, rischiavano di rendere questo "Quaderno" già vecchio appena fosse stato pubblicato. Abbiamo pertanto ritenuto di rendere un servizio più utile alle Bcc, ai partecipanti al Master e a tutti coloro che vorranno confrontarsi con le problematiche esposte, chiedendo al Coordinatore scientifico del corso, avvocato professor Enrico Gragnoli, e all’ avvocato e consulente del lavoro Luca Zaccarelli, che è stato protagonista di lezioni particolarmente apprezzate, di riprendere alcuni dei temi di maggiore interesse e utilità per i dirigenti e gli addetti delle Bcc all’ area risorse umane, e gestione del personale, e, modulandosi nell’ approccio utilizzato per il "Master" , di aggiornandoli nell’ ottica della legislazione e delle norme vigenti al momento della pubblicazione. Nel ringraziare pertanto loro e più in generale tutti i docenti del corso per la passione e la professionalità con cui hanno approcciato l’ aula composta da funzionari e operatori di quasi tutte le nostre Bcc, presentiamo ai lettori questo volumetto che, peraltro, oltre ai tre saggi di questi docenti, e la presentazione del Presidente della Federazione ingegner Giulio Magagni, riporta schede sintetiche degli argomenti trattati nelle 23 giornate e dei docenti che si sono q 5 alternati nelle aule della Federazione. Vorrei tuttavia, in questa introduzione, fare alcune osservazioni e riflettere su alcune tematiche sulle quali il credito cooperativo, peraltro non ancora a sufficienza, si confronta oggi nel mondo del cambiamento globale. La prima è che questo lungo e impegnativo percorso formativo ha consentito un fruttuoso scambio di conoscenze e di esperienze tra collaboratori di diverse età lavorative, provenienti da banche in apparenza assai differenti per dimensioni , approccio al territorio, contesti di riferimento. La seconda è che questo scambio è avvenuto ancor più fruttuosamente con i colleghi della Federazione e con la nostra struttura consulenziale potenziata nell’ assistenza tecnica, nei livelli di competenza, nelle tecnologie messe in campo quali le piattaforme di rete, i sistemi più avanzati di videoconferenza, la rete di saperi, la positiva accettazione degli obblighi formativi in settori delicati quali la sicurezza e il soccorso, che troveranno un contenitore particolarmente accogliente e innovativo nella nuova sede della Federazione in corso di avanzato allestimento all’ interno del Bologna Business Park. La terza è la conferma che ,anche trattando problematiche di carattere tecnico, di leggi “ uguali per tutti “, l’ approccio del credito cooperativo può mantenersi “ differente “ nel senso che il rispetto e la valorizzazione delle persone non possono fermarsi alle enunciazioni di principio ma devono trovare pratica quotidiana e riconoscibile 6 q nel lavoro di tutti i giorni, nell’ intranet e nelle relazioni aziendali ma anche, e soprattutto, nel rapporto con i soci e la clientela, che è un rapporto di forte prossimità, che lo vogliamo o no. Questo rapporto è evidentemente un’ arma a doppio taglio: un grande vantaggio competitivo nel momento nel quale la fiducia, da una parte e dall’ altra dello sportello, si costruisce, si consolida, si allarga nella comunità; un altrettanto grande rischio quando il rapporto si incrina, serpeggia l’ insoddisfazione per operazioni non andate a buon fine, deludenti nel rendimento anche per fattori esterni e imprevedibili, addirittura per piccole disattenzioni magari legate a casuali fattori del momento. Quel cliente insoddisfatto lo trovi anche fuori dal lavoro, in chiesa piuttosto che al bar, nei circoli ricreativi piuttosto che alla partita di calcio, nelle frequentazioni commerciali di ogni giorno; e non puoi pensare di rimuovere il problema con l’ allontanamento dalla zona del disagio, come invece fatto a volte dalle grandi banche. Abbiamo messo in campo la cultura, l’ innovazione, la competenza, la capacità di ascolto e di rapporto con gli altri anche attraverso tecniche che i nostri Corsi di formazione, grazie alla società del Gruppo SeF Consulting, propongono da tempo in aula e che riguardano tutta l’ area transazionale, dalla relazione con il cliente all’ emotività quale fattore di successo. In questo “ Master “ siamo partiti parlando di logiche di sistema del credito cooperativo, abbiamo parlato di relazioni sindacali, di risorse umane, di ruoli e di responsabilità nella gestione del personale.; abbiamo terminato calando la gestione del personale nei contesti aziendali, proponendo modelli di gestione e di sviluppo delle risorse umane nel settore bancario cooperativo, parlando di sinergie, competenze e responsabilità. Quindi, come acutamente ha osservato nell’ incontro conclusivo il Presidente della Commissione regionale sulla formazione Giuseppe Alai, i partecipanti hanno intensamente lavorato per crescere nelle responsabilità e per dotarsi di quelle capacità critiche che, per chi lavora nella cooperazione,significano: trasfe- rimento delle competenze, maggior senso del dovere, maggiore autonomia propositiva. E lo sforzo , anche economico, della Federazione e delle Bcc Associate sarebbe stato inutile se i corsisti, tornati nelle proprie aziende, non fossero stati messi nella condizione di attuare le cose che hanno appreso. Cosa che, per fortuna, non si è verificata, a merito delle Direzioni delle nostre aziende che ci affiancano nella condivisione delle scelte formative. Ringrazio anche la Direzione Generale di Federcasse che ha consentito di portare in aula in qualità di relatori i responsabili nazionali dei servizi di consulenza nei settori oggetto del "Master". q 7 8 q L'inquadramento dei lavoratori Enrico Gragnoli Luca Zaccarelli 1. Nozione. 2. Le qualifiche e l’art. 2103 cod. civ.. 3. Le categorie legali. 4. Le qualifiche della contrattazionecollettiva ed il sistema di inquadramento unico. 5. Il cosiddetto “diritto alla qualifica”. 6. La qualifica convenzionale. 7. La dequalificazione ed il risarcimento del danno. 8. L’adibizione a mansioni equivalenti. 9. La promozione. 10. L’inquadramento dei lavoratori pubblici. 1. Nozione. Se le mansioni sono i compiti affidati al singolo prestatore di opere e, pertanto, l’oggetto del contratto individuale, l’inquadramento è il sistema, legale e contrattuale, di classificazione del facere, affinché possano essere raggruppati i rapporti omogenei, con la correlata identificazione del trattamento economico e normativo, stabilito in relazione alle categorie dell’art. 2095 cod. civ. e, per altro verso, in ragione delle qualifiche identificate dai contratti collettivi. Se, in una prima accezione, “qualifica” è un semplice sinonimo di mansioni, più di frequente la locuzione identifica un meccanismo di valutazione dell’attività dovuta e svolta. Quindi, la qualifica coincide con la posizione nel complessivo inquadramento, attribuita secondo un procedimento logico di paragone fra le caratteristiche della prestazione e le declaratorie generali, formulate dall’accordo sindacale. q 9 L’inquadramento è il sistema di classificazione del facere, predisposto in un primo livello di approssimazione dall’art. 2095 cod. civ. e, poi, con un dettaglio molto maggiore, dalle intese collettive. In questa prospettiva, la qualifica è stata ritenuta un mero indice abbreviato di una serie di posizioni soggettive attive e passive e, cioè, uno strumento che riordina rapporti con connotazioni simili, al fine di suddividerli in gruppi omogenei e di fare sì che ciascun insieme abbia il medesimo trattamento, in ordine alla retribuzione, ma anche a molti altri aspetti, dalla durata del periodo di prova a quella del periodo di preavviso, per toccare i più diversi profili della regolazione collettiva. Da un primo punto di vista, lo studio dell’inquadramento postula la riflessione sull’art. 2095 cod. civ., per la necessaria considerazione delle categorie legali di dirigenti, quadri, impiegati ed operai, non solo per la reciproca distinzione delle varie figure, ma anche per cogliere le differenti disposizioni applicabili alle une od alle altre. Sotto un secondo punto di vista, l’analisi dell’inquadramento si traduce nella ricostruzione di una parte presente in tutti i contratti nazionali di categoria, con enorme varietà di soluzioni, seppure con alcuni tratti comuni. La definizione della qualifica presuppone l’interpretazione degli accordi e, dunque, delle numerose declaratorie che, in ciascuno di essi, delimitano i confini di ogni qualifica e, di conse10 q guenza, le prestazioni ivi ricomprese. Una certa fantasia si esprime anche nella denominazione e si sprecano i riferimenti ai numeri ordinali e cardinali ed alle lettere, con varie combinazioni. Maggiore omogeneità si riscontra in tema di lavoro pubblico “privatizzato”, anche se, ormai, il sistema di inquadramento è abbastanza simile a quello del lavoro privato, nonostante l’applicazione solo parziale dell’art. 2103 cod. civ., per le deroghe apportate dal decreto legislativo n. 165 del 2001, in primo luogo in tema di promozioni. 2. Le qualifiche e l’art. 2103 cod. civ.. Nell’accezione prevalente di criterio di classificazione elaborato dalla contrattazione collettiva, la qualifica (e lo stesso vale per le categorie legali dell’art. 2095 cod. civ.) è in funzione delle mansioni e, pertanto, dei compiti oggetto del contratto individuale, a loro volta considerati dall’art. 2103 cod. civ., che, in particolare, alla luce delle trasformazioni apportate dall’art. 13 St. lav., si sofferma sulla protezione del prestatore di opere a fronte delle modificazioni organizzative dell’azienda e degli eventuali provvedimenti del datore di lavoro. Di per sé, l’art. 2103 cod. civ. non regola l’inquadramento e le relative tecniche, né interferisce con gli accordi collettivi e, in particolare, con quelli di categoria, lasciati arbitri di definire i parametri di valutazione delle diver- se attività e, quindi, il raccordo fra le mansioni ed il trattamento prefigurato. Peraltro, poiché l’inquadramento presuppone la sintesi delle mansioni, le relative indicazioni dei contratti proteggono la professionalità, con una tutela perfezionata dal testo oggi vigente dell’art. 2103 cod. civ.. Per tale ultima disposizione, i compiti iniziali sono stabiliti, al momento dell’assunzione, dal negozio individuale di lavoro; l’art. 2103 cod. civ. vieta la dequalificazione (legittima solo nei casi regolati in via espressa da norme derogatorie), permette la variazione delle mansioni a parità di qualifica solo qualora le nuove siano equivalenti alle precedenti dal punto di vista professionale e disciplina la promozione, riconoscendo l’immediato diritto alla maggiore retribuzione dal momento dell’adibizione alle funzioni più rilevanti e lo stabilizzarsi del provvedimento del datore di lavoro dopo tre mesi dalla sua adozione, salvo il caso della semplice sostituzione di un dipendente assente con diritto alla conservazione del posto. Peraltro, rispetto all’evoluzione del sistema contrattuale di inquadramento, le novità apportate nel 1970 all’art. 2103 cod. civ. non sono state affatto neutre, ma hanno incoraggiato i soggetti collettivi a sperimentare nuovi meccanismi di classificazione, con il progressivo consolidarsi del cosiddetto sistema di inquadramento unico e, quindi, con la concomitante considerazione, all’interno delle medesime posizioni, sia di impiegati, sia di operai e, in alcuni casi, dei quadri. Di fronte alla complessità delle declaratorie prefigurate dai contratti, l’interprete è costretto a delicati sforzi, per riportare clausole di difficile lettura al frenetico modificarsi del contesto aziendale ed alle rapide trasformazioni di ciascuna impresa e della sua organizzazione. Peraltro, hanno avuto scarso successo i tentativi di alcuni accordi di deferire ad organismi paritetici la responsabilità di stabilire l’inquadramento o di governare in modo consensuale i processi di carriera. Quindi, in prima battuta, spetta al datore di lavoro procedere alla ricostruzione della volontà dei soggetti collettivi e, sulla base della ricognizione delle mansioni, identificare il corrispondente inquadramento, comunicando le sue conclusioni, anche ai sensi dell’art. 96 disp. att. cod. civ.. L’eventuale contestazione del prestatore di opere può portare ad un giudizio nel quale, per un verso, occorre accertare i compiti svolti e, per altro verso, ricondurli alle declaratorie, a loro volta da interpretare e, quindi, da riportare alla realtà produttiva ed alle dinamiche gestionali. Pertanto, “nel procedimento diretto alla determinazione dell’inquadramento non si può prescindere da tre fasi successive e, cioè, dall’accertamento delle attività esplicate, dall’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto di categoria e q 11 dal raffronto dei risultati di tali due indagini” (v. Cass. 16 febbraio 2005, n. 3069, in Giur. it. mass., 2005, c. 287). Dunque, la ricognizione delle mansioni si accompagna alla ricostruzione della portata di ciascuna qualifica e, quindi, all’interpretazione del testo negoziale. Il paragone richiesto non è sempre agevole; ad esempio, il carattere vicario dell’attività preclude il diritto al superiore inquadramento (v. Cass. 16 agosto 2004, n. 15968, in Giur. it. mass., 2004, c. 897) e, nell’ipotesi di mansioni promiscue, quella prevalente non deve essere individuata sulla base di una mera contrapposizione quantitativa, ma con l’identificazione, in base all’analisi qualitativa, del compito più significativo sul piano professionale (cfr. Cass. 23 giugno 1998, n. 6230, in Giur. it. mass., 1998, c. 457), quindi con una valutazione complessiva e, per ciò solo, opinabile. Comunque, in un eventuale giudizio, il lavoratore ha l’onere di allegare e di provare quali siano i profili caratterizzanti dell’inquadramento richiesto, raffrontandoli con la sua attività (v. Cass. 21 maggio 2003, n. 8025, in Mass. giur. lav., 2003, p. 699). In sostanza, il collegamento fra compiti e qualifica si traduce in quello fra la realtà della vita produttiva e le indicazioni normative delle clausole dei contratti, con un dialogo non sempre agevole fra il modificarsi progressivo e spesso rapido dei contesti aziendali e le previsioni generali che, riferite a molte situazioni diverse, sono talora 12 q impostate con locuzioni di voluta ambiguità. Le relative controversie si trasformano di frequente in dispute nominalistiche, sul significato delle varie parole, con la difficoltà di riportare il lessico dei contratti ad una appagante valutazione del lavoro e del suo multiforme atteggiarsi. Peraltro, con riguardo all’azione di accertamento giudiziale della qualifica superiore, il risultato utile e rilevante, richiesto per la sussistenza dell’interesse ad agire, è costituito dalla rimozione di uno stato di incertezza sull’esatta portata dei diritti e degli obblighi delle parti, correlati all’inquadramento (v. Cass. 4 giugno 2004, n. 10661, in Mass. giur. lav., 2005, p. 751). 3. Le categorie legali. L’art. 2095 cod. civ. regola un insieme di categorie, di varia importanza, a loro volta presupposto degli interventi della contrattazione collettiva, in parte votata a costruire su tale base il sistema delle qualifiche, in parte orientata a prescindere dalle indicazioni dello stesso art. 2095 cod. civ., come traspare dal cosiddetto inquadramento unico e, pertanto, dalla considerazione nello stesso sistema negoziale sia degli impiegati, sia degli operai. Con riguardo alle condizioni di attribuzione della dirigenza, per lo meno le tesi ultime della giurisprudenza sottolineano più il risalto delle clausole dei contratti collettivi che il significato intrinseco della figura, desumibile dall’art. 2095 cod. civ.; per esempio, si suggerisce di non fare riferimento alla nozione legale, ma alle relative previsioni degli accordi, cui il giudice di merito avrebbe il dovere di attenersi, per un loro preteso valore vincolante e decisivo, sorretto dalla valutazione dell’esperienza di ciascun settore merceologico, compiuto dai soggetti stipulanti (v. Cass. 26 aprile 2005, n. 8650, in Giur. it. mass., 2005, c. 479). Peraltro, in altre pronunce, i tratti caratteristici e tradizionali dell’impianto dell’art. 2095 cod. civ. riaffiorano in modo più chiaro, poiché si sottolinea l’importanza dell’autonomia e della discrezionalità delle scelte decisionali dei dirigenti, in modo che la loro attività influisca sugli obbiettivi complessivi dell’imprenditore (v. Cass. 30 agosto 2004, n. 17344, in Lav. giur., 2005, p. 281); anzi, il dirigente non dovrebbe essere sottoposto ad una dipendenza gerarchica, con l’esercizio di funzioni tali da influire sulla conduzione di una intera azienda o di un suo ramo autonomo, e non circoscritte ad un suo settore (cfr. Cass. 27 aprile 2004, n. 8064, in Gius, 2004, p. 3442). Ne deriva un panorama composito, nel quale il rinvio alle indicazioni negoziali si combina con l’opposta tendenza a sottolineare elementi desunti dalla ricostruzione dell’art. 2095 cod. civ.. Quindi, le sentenze si affidano ora alle formule più analitiche dei contratti, ora all’elaborazione tradizionale della stessa giurisprudenza, piuttosto basata sull’art. 2095 cod. civ.. Peraltro, il dibattito è significativo per le rilevanti conseguenze del ricono- scimento dell’appartenenza alla categoria di dirigente, con implicazioni sulla definizione dei contratti collettivi applicabili, soprattutto sulla disciplina dei licenziamenti individuali. Al contrario, resta confinata nell’interpretazione e nell’attuazione del negozio collettivo la determinazione del concetto di funzionario, ripreso solo da taluni accordi, ad esempio nel settore bancario, in contrapposizione alla dirigenza e, quindi, con la scontata applicazione della legge n. 604 del 1966. Al confine fra regolazione eteronoma e contrattazione si pone la legge n. 190 del 1985, che ha introdotto la categoria del quadro, peraltro rimettendo ai soggetti sindacali il compito di regolarne configurazione ed implicazioni. Se mai, nel segno di una attenuazione delle rigidità imposte dall’art. 2103 cod. civ., l’art. 6 della legge n. 190 del 1985 permette agli accordi collettivi di stabilire un periodo di tempo superiore a tre mesi per conseguire il diritto ad una qualifica propria della catego- q 13 ria dei quadri o di quella dei dirigenti (v. Cass. 5 luglio 2004, n. 12238, in Giur. it. mass., 2004, c. 1097), e questa pare una delle novità più significative dell’intera legge n. 190 del 1985. Se, ormai, in un sistema di inquadramento unico, la categoria degli intermedi ha perso di significato, le ultime evoluzioni normative hanno ridimensionato l’importanza della contrapposizione fra impiegati ed operai, per lo più imperniata sulla natura manuale od intellettuale dell’attività. Peraltro, la distinzione ha perso molto risalto, se non per aspetti previdenziali, ad esempio con riguardo al regime dell’indennità di malattia. Questa linea di tendenza ne testimonia una più generale; ad eccezione della categoria dei dirigenti, le altre dell’art. 2095 cod. civ. hanno vista ridotta la loro incidenza sulla determinazione del trattamento dovuto e, quindi, le implicazioni dei contratti hanno acquistato un peso sempre maggiore, divenendo il fulcro dell’intero inquadramento, a scapito dell’art. 2095 cod. civ. e delle sue nozioni. L’inquadramento è sempre più materia di contrattazione e non di legge, se si esclude il caso più contrastato e complesso dei dirigenti, in specie per le conseguenze in tema di disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. 4. Le qualifiche della contrattazione collettiva ed il sistema di inquadramento unico. Salutata con entusiasmi forse ecces14 q sivi, la svolta della contrattazione a favore del sistema di inquadramento unico ha contribuito a ridimensionare l’importanza della distinzione fra attività impiegatizie ed operaie, in un contesto produttivo nel quale l’adozione di moderne tecnologie addensa anche nelle funzioni per tradizione operaie componenti intellettuali, con il necessario uso di macchine complesse ed il ricorso a cognizioni non banali, in specie di natura informatica. Invece, sul piano del trattamento e, quindi, delle implicazioni economiche delle diverse qualifiche negoziali, l’inquadramento unico non ha apportato le evoluzioni attese e, in primo luogo, non ha introdotto significativi miglioramenti patrimoniali per i lavoratori adibiti alle mansioni di minore contenuto professionale. In realtà, con il sistema di inquadramento unico vi è stata una riduzione delle differenze retributive tra i livelli alti e quelli bassi. In generale, la giurisprudenza riconosce un ampio spazio di autonomia all’accordo sindacale, al quale è consentito prorogare l’efficacia dei precedenti contratti, modificare, anche in senso peggiorativo, i vecchi inquadramenti e le pregresse retribuzioni, fermi i diritti quesiti, nonché disporre sulla prevalenza da attribuire di volta in volta ad una clausola del contratto nazionale o di quello aziendale (v. Cass. 26 giugno 2004, n. 11939, in Mass. giur. lav., 2004, p. 789). Del resto, queste conclusioni riportano al tema specifico un più generale approccio del diritto contemporaneo sull’autonomia sindacale e sui suoi atti. Peraltro, di fatto, sono contenute le differenze di trattamento collegate all’inserimento nell’una o nell’altra qualifica, poiché la progressione economica è spesso poco pronunciata, per una scelta comune a molti accordi di categoria. Quindi, la valorizzazione della professionalità e le sue implicazioni sulle dinamiche salariali sono rimesse con intensità molto maggiore al negoziato individuale, in specie per quei prestatori di opere con meriti significativi e con competenze rilevanti dal punto di vista tecnologico e produttivo. Di conseguenza, l’inquadramento ha visto ridimensionate le sue ricadute patrimoniali e non è più il principale criterio di diversificazione del corrispettivo dovuto e di valorizzazione del merito. Il frequente intervento del contratto individuale e la remunerazione della dedizione personale con superminimi hanno ridotto l’impatto dell’attribuzione dell’una o dell’altra qualifica, con una tendenza alla compressione delle differenze rispettive e, dunque, con una progressiva perdita di significato patrimoniale dell’inquadramento. Tale linea di tendenza, ancora contrastata, ma abbastanza evidente, determina una netta distinzione dall’impostazione del lavoro pubblico, invece basato sempre, anzi in misura crescente, sull’inquadramento quale meccanismo fondamentale di organizzazione gerarchica e di remunerazione dell’impegno di ciascun prestatore di opere. Se, nel lavoro privato, le capacità trovano riscontro nel contratto individuale, nelle amministrazioni il senso di appartenenza di ciascun prestatore di opere per la sua qualifica rimane cruciale, vista l’assenza di altre forme di incentivazione o di premio. In ogni caso, sia nel lavoro privato, sia in quello pubblico, la classificazione ha luogo con valutazioni che collocano ciascuna prestazione in scale caratterizzate da una crescente complessità concettuale, con il delicato tentativo di stabilire l’impegno richiesto, le responsabilità connesse e, dunque, il valore organizzativo e retributivo di ogni attività. L’innovazione tecnologica costante e la rapida trasformazione dell’assetto produttivo minacciano la credibilità di tale catalogazione, in specie facendo emergere in modo repentino l’importanza di funzioni prima ignote e di difficile collocazione. Quanto più rapidi sono tali processi, tanto minore è la complessiva coerenza del sistema, come è dimostrato dall’esperienza delle aree più dinamiche del mondo dell’impresa, aree nelle quali è massiccio lo spiazzamento della logica dei contratti collettivi e dove è imponente il ricorso al negoziato individuale per la specifica individuazione della retribuzione. Se, invece, l’organizzazione è meno fluida e più stabile e l’innovazione è più lenta, come accade nelle pubbliche amministrazioni, ma anche in vari q 15 settori del lavoro privato, non è scalfita la centralità dell’inquadramento, non solo in una logica gerarchica, ma come strumento di classificazione, con il conforto di una più diffusa sensibilità dei lavoratori. Vi è da chiedersi se il trattamento di fatto riconosciuto sia oggetto in modo prevalente delle implicazioni delle intese individuali o collettive; in tale secondo caso, il passaggio inevitabile è la qualificazione dell’attività per mezzo dell’inquadramento, mentre, nella prima ipotesi, scompare la mediazione sindacale a fronte di un dialogo serrato sui meriti di ciascun collaboratore e sulla sua forza negoziale, derivante dalle sue competenze, vere o pretese e, in ogni caso, dalla sua capacità di imporsi alla controparte. Nella moderna società economica, non si assiste tanto ad una crisi dei meccanismi di inquadramento, quanto ad un più generale ripensamento sul nesso fra la contrattazione collettiva e quella individuale. Tale tensione coinvolge in modo inevitabile il più circoscritto profilo delle qualifiche, del loro valore evocativo e della loro importanza applicativa. 5. Il cosiddetto “diritto alla qualifica”. Si è discusso a lungo se esista un “diritto alla qualifica” e, accantonato l’equivoco riferimento alla nozione di status, se il prestatore di opere sia titolare di uno specifica posizione soggettiva all’attribuzione dell’inqua 16 q dramento conforme alle indicazioni della legge (in ordine alle categorie) e, in particolare, al riconoscimento delle qualifiche negoziali, sulla base delle declaratorie dei contratti collettivi. La tesi negativa si fa preferire, perché la qualifica è solo un meccanismo che consente di selezionare i principi applicabili al rapporto e di individuare la collocazione di ciascun prestatore di opere nel sistema organizzativo, sulla base della valutazione delle mansioni e del loro inserimento in classi omogenee. Dunque, l’inquadramento è uno strumento di determinazione delle previsioni legali o negoziali riferibili a ciascun rapporto, con il sorgere di diritti inerenti alle varie componenti del trattamento correlato e non alla qualifica in sé; anche ai sensi dell’art. 96 disp. att. cod. civ., il diritto a conoscere le determinazioni del datore di lavoro non presuppone una autonoma posizione soggettiva che abbia per oggetto l’inquadramento. Questa è una semplice “formula sintetica” utilizzata per cogliere in modo univoco la titolarità in capo al lavoratore di altri diritti, a partire da quello alla retribuzione. Quindi, l’atto dell’art. 96 disp. att. cod. civ. ha mero valore ricognitivo; se la qualifica e la categoria selezionano le prescrizioni legali e convenzionali vigenti in ordine a ciascun rapporto e, pertanto, il corrispondente trattamento, l’impresa deve rendere edotto il lavoratore delle sue valutazioni sul regime al quale è assoggettato il contratto e, se la qualifica dichiarata è contestata, il prestatore di opere può agire in giudizio, non per tutelare un inesistente “diritto alla qualifica”, ma le effettive posizioni soggettive aventi per oggetto le singole componenti del trattamento. Non è di questa opinione la giurisprudenza più recente, per la quale “il diritto alla qualifica superiore è configurabile come specifica posizione soggettiva e, anzi, essa si prescrive nell’ordinario termine decennale dell’art. 2946 cod. civ., mentre il credito alle differenze retributive spettanti è sottoposto alla prescrizione quinquennale dell’art. 2948 cod. civ. (v. Cass. 6 aprile 2005, n. 7116, in Guida dir., 2005, fasc. 18, p. 66). Se si identifica un “diritto alla qualifica”, è inevitabile ravvisare l’operare del termine decennale di prescrizione; peraltro, a temperamento di questo criterio, si soggiunge che “il decorso del decennio dal momento dell’insorgenza del diritto non preclude l’accesso al superiore inquadramento allorché continui l’attività idonea a determinarlo” e, quindi, l’adibizione alle mansioni di maggiore contenuto professionale. Infatti, se permane la situazione di fatto alla quale la clausola negoziale e l’art. 2103 cod. civ. collegano il sorgere del diritto, “la prescrizione decorre da ogni giorno successivo a quello nel quale si è per la prima volta concretata tale situazione, fino alla sua cessazione” (v. Cass. 17 luglio 2001, n. 9662, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, p. 290). Sono ragionevoli le soluzioni applicative di queste indicazioni, ma la tesi di fondo desta perplessità. E’ difficile immaginare che, in quanto espressione sintetica idonea a collegare le mansioni ad un trattamento legale o negoziale, la qualifica possa essere oggetto di un diritto, distinto da quelli concernenti i vari beni della vita riconosciuti per legge o per contratto e correlati all’inquadramento stesso. 6. La qualifica convenzionale. In generale, sia il riconoscimento della categoria legale, sia quello della qualifica regolata dai contratti hanno luogo a seguito di una considerazione analitica delle mansioni e, quindi, sono in funzione di queste ultime. In quanto indicative della dimensione professionale, esse sono il presupposto dell’inquadramento e, perciò, della classificazione della prestazione. Tuttavia, tale nesso è relativo e può essere superato nell’esercizio dell’autonomia individuale, poiché è possibile riconoscere “ad un lavoratore la categoria di dirigente a prescindere dalla corrispondenza della stessa alle mansioni. q 17 Il principio fondamentale desumibile dall’art. 2103 cod. civ., secondo cui la qualifica deve corrispondere ai compiti, essendo stabilito a tutela del lavoratore, può essere derogato in suo favore, anche qualora la deroga non sia del tutto propizia, ma presenti aspetti in astratto pregiudizievoli. Essa è legittima espressione di autonomia negoziale se risponde ad un apprezzabile interesse e non ha finalità elusive di norme imperative” (v. Cass. 12 settembre 2002, n. 13326, in Dir. e giust., 2002, fasc. 36, p. 64). Pertanto, il nesso fra mansioni ed inquadramento non impedisce un accordo modificativo, con l’attribuzione di una categoria o di una qualifica superiori a quelle alle quali il lavoratore avrebbe diritto. In tale caso, la rottura del raccordo fra il facere e la sua valutazione è giustificato proprio dalla riserva al prestatore di opere del trattamento migliorativo collegato al riconoscimento della qualifica superiore. Il lavoratore non cambia mansioni, né ha diritto ad eseguire una attività più qualificata, ma gode solo dei benefici dipendenti dal più elevato inquadramento, con variazioni concentrate sul trattamento, senza implicazioni in ordine alla prestazione di facere. Per le impostazioni più recenti, il potere di attribuire qualifiche più elevate non trova limite in alcun principio di parità di trattamento (v. Cass. 23 febbraio 2004, n. 3571, in Guida dir., 2004, fasc. 14, p. 58). Pertanto, ai fini della determinazione giudiziale dell’inquadramento, il termine 18 q di paragone non può mai essere dato dall’altrui qualifica, poiché essa può essere stata riconosciuta in via convenzionale. Tale riferimento ha un valore limitato ed occorre sempre una prioritaria comparazione con le declaratorie dei contratti collettivi. Solo le relative clausole normative fanno sorgere posizioni soggettive attive in capo a ciascun dipendente, che non può pretendere una generica parità di trattamento, ma solo invocare il rispetto degli accordi sindacali o, per altro verso, dall’art. 2095 cod. civ.. 7. La dequalificazione ed il risarcimento del danno. Al di fuori dei casi previsti dalla legge (e fra essi il più importante è quello dell’accordo stipulato con riguardo ad una procedura di mobilità, per evitare un licenziamento), dall’art. 2103 cod. civ. si desume a ragione un generale divieto di dequalificazione e questo è il necessario corollario dell’attribuzione al datore di lavoro di un potere di modificazione dei compiti nel rispetto dell’equivalenza. Quindi, i criteri di identificazione delle mansioni inferiori per contenuto sono speculari a quelli impiegati per cogliere la nozione di equivalenza; la dequalificazione implica una compressione del globale livello delle prestazioni, con una sottoutilizzazione delle capacità ed una consequenziale, apprezzabile menomazione della professionalità, nonché con la perdita di potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno (v. Cass. 29 ottobre 2004, n. 20989, in Giur. it. mass., 2004, c. 1735; Cass. 8 novembre 2003, n. 16792, in Amb. e sic., 2004, fasc. 8, p. 86). Il parametro è di natura professionale, con una specifica attenzione per le ripercussioni pregiudizievoli sulla posizione del dipendente non soltanto nell’organizzazione aziendale, ma nel mercato, con la tutela delle ulteriori occasioni di reddito. Ha lineamenti autonomi ed è oggetto di valutazioni contrastanti il problema dell’adibizione a mansioni inferiori al fine evitare l’intimazione del licenziamento, fuori dal caso di quelli collettivi, fattispecie regolata in via espressa dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991. Se, talora, si invita il datore di lavoro a valutare anche compiti dequalificanti ai fini dell’assolvimento del cosiddetto obbligo di ripescaggio (v. Cass. 19 agosto 2004, n. 16305, in Giur. it. mass., 2004, c. 1035; con riguardo ad un prestatore di opere invalido, cfr. Cass. 3 maggio 2005, n. 9122, in Guida dir., 2005, fasc. 24, p. 78), in altre situazioni si giunge a conclusioni opposte, in nome dell’inderogabilità dell’art. 2103 cod. civ. (cfr. Cass. 20 agosto 2003, n. 12270, in Gius, 2004, p. 515). Il contrasto di opinioni può essere risolto in modo equilibrato se si ritiene che l’impresa debba proporre la prosecuzione del rapporto con mansioni dequalificanti e che l’eventuale accordo sia valido (v. Cass. 7 febbraio 2005, n. 2375, in Guida dir., 2005, fasc. 9, p. 88); non si vede perché il lavoratore non potrebbe sacrificare il bene tutelato dall’art. 2103 cod. civ., in nome del perseguimento di interessi di maggiore risalto. Diverso sarebbe imporre l’adozione di un provvedimento unilaterale, seppure per prevenire il recesso; a tale fine, l’assegnazione dei compiti di minore contenuto postula il consenso del dipendente, cui deve essere rappresentata in modo chiaro l’alternativa. In generale, l’ingiustificata violazione dell’art. 2103 cod. civ. determina una responsabilità contrattuale e, secondo la tesi maggioritaria (v. Cass., sez. un., 14 marzo 2006, n. 6572, in Arg. dir. lav., 2006), il lavoratore deve allegare e dimostrare il danno (professionale od anche nella sua eventuale componente di pregiudizio alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) ed il nesso di causalità con l’inadempimento (cfr. Cass. 28 maggio 2004, n. 10361, in Mass. giur. lav., 2004, p. 719). Tale impostazione supera qualunque automatismo e, in particolare, mette in crisi l’abituale tendenza di larga parte della giurisprudenza di merito a calcolare il risarcimento in funzione della retribuzione versata a ciascun prestatore di opere; se tale soluzione è comoda dal punto di vista applicativo, non si capisce che nesso possa avere l’entità del- q 19 la retribuzione con la quantificazione del ristoro (in senso diverso, v. Cass. 2 marzo 2005, n. 4370, in Mass. giur. it., 2005, c. 357). Se mai, possono essere utilizzati “molti criteri, come la perdita di opportunità di carriera, la posizione gerarchica abbandonata (alla quale possono essere connessi il danno all’immagine e la sofferenza psicofisica), la durata della dequalificazione, l’età del lavoratore, l’elemento psicologico della condotta del datore di lavoro” (v. Cass. 8 novembre 2003, n. 16792, in Guida dir., 2003, fasc. 49, p. 53). Il potere equitativo del giudice è ampio ed è inevitabile il ricorso alle presunzioni; ciò ridimensiona la complessità dell’onere di allegazione e di prova del prestatore di opere, il quale, comunque, deve dare elementi rilevanti ai fini dell’identificazione dei danni, della loro natura e della loro entità, con tesi calate nella specifica situazione. In modo un po’ sorprendente, varie sentenze negano che, in caso di dequalificazione, il dipendente possa rifiutare di eseguire la prestazione, qualora sia versata la retribuzione (v. Cass. 23 dicembre 2003, n. 19689, in Gius, 2004, p. 2232; Cass. 7 febbraio 1998, n. 1307, in Mass. giur. it., 1998, c. 93). L’effetto lesivo dell’illegittimo provvedimento è identificato nella perdita della possibilità di esercitare i compiti coerenti con la propria esperienza e non nell’aggravio, anche psicologico, indotto dallo svolgimento di una attività imposta in modo illecito. Tale punto di vista non è persuasivo 20 q e non si vede perché, a fronte della condotta dell’impresa in violazione dell’art. 2103 cod. civ., il prestatore di opere non possa reagire con il rifiuto di svolgere compiti la cui esecuzione non può essere pretesa. 8. L’adibizione a mansioni equivalenti. Il potere unilaterale di adibire il prestatore di opere a mansioni equivalenti presuppone la ricostruzione di tale ultima nozione e, a questo riguardo, è insufficiente il fatto che i compiti appartengano alla stessa qualifica, poiché l’art. 2103 cod. civ. non si limita ad una protezione del solo interesse economico, ma cerca di salvaguardare in modo più articolato le competenze professionali, evitando turbative nello svolgimento dell’attività che pregiudichino le competenze acquisite e, così, le aspettative non solo inerenti all’ulteriore corso del rapporto, ma, soprattutto, alla posizione sul mercato del lavoro. Per la giurisprudenza, l’equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti deve essere intesa non solo nel senso di pari valore oggettivo alla stregua del sistema dell’inquadramento, ma anche come attitudine a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l’arricchimento del patrimonio di abilità (v. Cass. 12 aprile 2005, n. 7453, Giur. it. mass., 2005, c. 487). Anzi, non è sufficiente il riferimento in astratto alla qualifica, ma i compiti devono essere aderenti alle specifiche capacità, salvaguardandone il livello e garantendone l’accrescimento progressivo. A tale fine, si chiede di verificare i contenuti delle attività. In particolare, le nuove mansioni sono equivalenti alle ultime soltanto qualora sia tutelata la professionalità e la nuova collocazione consenta di sfruttare le pregresse conoscenze e le esperienze (cfr. Cass. 30 luglio 2004, n. 14666, in Lav. giur., 2005, p. 73). Peraltro, “l’art. 2103 cod. civ. pone il divieto di adibire il lavoratore a mansioni non equivalenti, in quanto proprie di un livello di inquadramento inferiore, rispetto alle ultime. Invece, non rientra in tale previsione la successiva equiparazione, in termini di inquadramento, di mansioni inferiori ad altre prima considerate superiori” (v. Cass. 19 aprile 2001, n. 5761, in Giur. it. mass., 2001, c. 457). Quindi, l’equivalenza non pone limiti all’esercizio dell’autonomia negoziale collettiva e non impedisce diverse soluzioni convenzionali sulla conformazione di ciascuna qualifica e dei presupposti per l’inserimento in essa. A tale riguardo, l’art. 2103 cod. civ. non preclude, né scoraggia differenti valutazioni degli accordi sindacali che si siano succeduti nel tempo, ma si riferisce solo ai provvedimenti del datore di lavoro incidenti sul facere, al fine di proteggere le competenze dei prestatori di opere, per i valori morali ed economici sottesi e, quindi, per la difesa della dignità e, al tempo stesso, delle abilità, quale premessa all’ulteriore attività e, pertanto, al conseguimento di una conforme collocazione. In questa prospettiva, la professionalità è una componente della personalità. 9. La promozione. L’art. 2103 cod. civ. regola le conseguenze dell’adibizione a mansioni superiori e, quindi, relative ad un più elevato inquadramento, senza soffermarsi sulla natura dell’atto di promozione. Se talora si nega il carattere unilaterale del provvedimento, la tesi maggioritaria è di diverso avviso e riporta la fattispecie ai poteri del datore di lavoro, non ad un apposito accordo. Peraltro, l’art. 2103 cod. civ. asseconda la naturale vocazione di ciascun prestatore di opere a progredire nella complessità e nell’importanza dei compiti, e regola le implicazioni economiche della promozione, tra l’altro distinguendo fra quella stabile e quella temporanea e, in tale secondo caso, imponendo il suo consolidarsi decorso il termine di tre mesi, salva l’ipotesi di sostituzione di un altro lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Dunque, “il diritto alla migliore qualifica è fondato sullo svolgimento delle mansioni superiori, fatto oggettivo qualificato dal suo presupposto, costituito dal livello” della prestazione (v. Cass. 3 gennaio 2005, n. 24, in Mass. giur. lav., 2005, p. 292). Nella struttura dell’art. 2103 cod. civ., la protezione non si impernia sulle connotazioni dell’atto di modificazione del facere e, in particolare, prescin- q 21 de per intero dalla considerazione del suo carattere unilaterale o convenzionale. L’art. 2103 cod. civ. considera solo le mansioni, stabilendo il sorgere di un diritto a svolgere in modo continuativo quelle superiori dopo tre mesi e, comunque, l’immediato diritto a godere del trattamento corrispondente al migliore inquadramento. Non a caso, con esatta interpretazione dell’art. 2103 cod. civ., si rileva che il diritto alla retribuzione è garantito in modo autonomo dal conseguimento della qualifica superiore e, quindi, deve essere riconosciuto per tutto il periodo di effettiva adibizione (v. Cass. 12 marzo 2004, n. 5137, in Mass. giur. lav., 2004, p. 539), anche a prescindere da un espresso provvedimento, tanto meno formale. L’art. 2103 cod. civ. presuppone la regolazione negoziale dell’inquadramento e recepisce tale modello di classificazione del facere, per un verso assicurando il diritto all’immediata percezione del compenso proporzionato ai compiti espletati e, per altro verso, prescrivendo la cosiddetta promozione automatica e, quindi, il diritto allo stabile espletamento delle mansioni superiori decorsi tre mesi. In entrambe le ipotesi, l’accento grava sul fatto dell’attività esercitata, più che sulle determinazioni dell’impresa e sul loro carattere negoziale, ed il termine di paragone è dato comunque dalle indicazioni degli accordi sindacali sulle qualifiche, indice dei corrispondenti trattamenti e, pertanto, della valutazio22 q ne della complessità della prestazione secondo una scala crescente. Non a caso, lo stesso negoziato collettivo può disciplinare con apposite clausole il problema delle mansioni “promiscue”, per determinare quali rientrino in ciascuna qualifica (v. Cass. 10 marzo 2004, n. 4946, in Gius, 2004, p. 2996), con un problema per lo più risolto con il criterio della prevalenza. 10. L’inquadramento dei lavoratori pubblici. Il complesso tema dell’inquadramento dei lavoratori pubblici ha una articolata tradizione storica, nell’ambito della quale è centrale la legge n. 93 del 1983. Se tale fonte ha superato il precedente sistema delle carriere, ha anche accorpato in poche qualifiche, per lo più otto o nove, tutte le posizioni retributive presenti nel frastagliato regime antecedente, vincolando in larga parte i successivi accordi sindacali ed i relativi decreti presidenziali di recepimento, e rendendo omogenee la retribuzione e le qualifiche nelle diverse amministrazioni, con un unitario disegno trasversale. Esso si è basato sulle due comuni categorie legali della qualifica funzionale (conformata in modo simile nei singoli comparti) e dei profili professionali, visti come articolazione della qualifica ed indicativi della specifica vocazione e della natura dell’attività. Caratterizzato da una notevole rigidità, tale impianto presupponeva che il passaggio dall’una all’altra qualifica avesse luogo con una novazione del rapporto ed a seguito di un concorso pubblico, dunque con la competizione fra i dipendenti e gli esterni, nonostante numerose deroghe siano state introdotte da prescrizioni eteronome e dai contratti sindacali, su sollecitazione di gruppi più o meno numerosi di impiegati. La complessiva revisione della disciplina ha avuto luogo a seguito della “privatizzazione” e, pertanto, del decreto legislativo n. 29 del 1993 e, da ultimo, dell’art. 52 del decreto legislativo n. 165 del 2001, che regola le mansioni e le forme della loro modificazione, secondo principi ispirati a quelli dell’art. 2103 cod. civ., ma con evidenti differenze. In sintonia con l’esperienza del lavoro privato, il decreto n. 165 del 2001 non si sofferma sull’articolazione dell’inquadramento, impostata, per ciascun comparto, dai contratti nazionali del quadriennio 1999 - 2001, con soluzioni fino ad oggi confermate nel loro assetto fondamentale dalle successive intese. Le posizioni di inquadramento sono raggruppate in aree, identificate da lettere, con suddivisioni interne, contras- segnate da numeri cardinali. Si discute fino a che punto l’art. 2095 cod. civ. sia applicabile al lavoro pubblico. Se, in ordine ai dirigenti, sovviene la specifica regolazione del decreto n. 165 del 2001 e se esso prevede anche, per le amministrazioni statali, la discussa figura della vicedirigenza, per la giurisprudenza maggioritaria (v. Cass. 5 luglio 2005, n. 14193, in Arg. dir. lav., 2006, 577) la legge n. 190 del 1985 non potrebbe essere invocata dagli impiegati pubblici, che non potrebbero chiedere in via giudiziale l’accertamento del diritto al riconoscimento della categoria di quadro. Se la legge n. 93 del 1983 aveva mirato a rendere omogeneo il sistema di inquadramento in tutti i comparti e per qualunque amministrazione, i contratti relativi al quadriennio 1999 - 2001 hanno adottato impostazioni differenti, cercando di soddisfare le esigenze di maggiore duttilità organizzativa degli enti locali e delle Regioni e conservando un regime più tradizionale per lo Stato, gli enti pubblici non economici e le università degli studi. I singoli accordi hanno previsto anche la possibile introduzione di “posizioni organizzative”, che non interferiscono con la classificazione del facere, ma identificano e remunerano funzioni le quali dovrebbero denotare specifiche responsabilità. Se le “posizioni organizzative” sono state immaginate per incarichi a termine e retribuiti in modo specifico, esse dovrebbero essere eterogenee rispetto al sistema di inquadramento. q 23 L’assegnazione dell’obbiettivo e del compenso dovrebbe prescindere dalla modificazione della qualifica, anche perché la “posizione” non attiene alla valutazione qualitativa del facere, ma alla selezione ed alla ripartizione di funzioni complesse. Solo in apparenza l’art. 52, primo comma, del decreto n. 165 del 2001 rievoca l’art. 2103 cod. civ. a proposito della modificazione delle mansioni in senso orizzontale. Infatti, le espressioni utilizzate (il prestatore di opere può essere adibito “alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi”) e molte clausole dei negozi sindacali hanno indotto a chiedersi se l’assegnazione di mansioni “equivalenti” postuli una valutazione sulla coerenza professionale dei compiti, alla stregua di quanto accade con l’applicazione dell’art. 2103 cod. civ. nel lavoro privato, o se il provvedimento dell’amministrazione sia libero da ulteriori vincoli, purché siano attribuite funzioni proprie della medesima qualifica secondo le declaratorie dei contratti collettivi. Nonostante il tenore letterale dell’art. 52, primo comma, la prima tesi, più garantista, si fa preferire, perché sarebbe singolare un potere dell’istituzione di trasformare il facere senza che ne sia considerata la specifica vocazione professionale, soprattutto se si considera come nella stessa posizione di inquadramento siano comprese, in tutti gli accordi collettivi, mansioni molto diverse le une dalle altre. 24 q In modo chiaro, l’art. 52 del decreto n. 165 del 2001 propone una regolazione derogatoria della promozione, poiché l’assegnazione di mansioni superiori può avvenire solo “nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura”, o di “sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto”. Peraltro, a prescindere dal ricorrere di tali fattispecie, “al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore”. Dunque, la promozione disposta in situazioni diverse da quelle consentite determina la nullità dell’atto, ma non incide sul diritto alla maggiore retribuzione, salva la responsabilità patrimoniale del dirigente, per la violazione dello stesso art. 52. Però, non esiste alcuna forma di promozione automatica, perché “l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento (...) o dell’assegnazione di incarichi di direzione”. Nel definire il nuovo sistema delle qualifiche, i contratti relativi al quadriennio 1999 - 2001 hanno previsto forme di progressione basate su procedure di selezione regolate dal diritto comune. A tale fine, gli accordi distinguono fra “progressioni orizzontali”, con l’acquisizione di una posizione superiore all’interno delle aree, e “verticali”, con il passaggio da una area all’altra. Il forte dibattito giurisprudenziale di questi anni ha indagato sul riparto di giurisdizione, con tesi differenti e con un quadro complessivo ancora in attesa di definizione, in particolare viste le posizioni della Corte costituzionale, secondo la quale l’attribuzione di una qualifica superiore presuppone sempre la partecipazione e la vittoria ad un concorso pubblico, con la stipulazione di un contratto novativo (v. Corte costituzionale 23 luglio 2002, n. 273, in Lav. pubbl. amm., 2002, p. 573 ss.; Corte costituzionale 16 maggio 2002, n. 194, ibid., 2002, p. 289 ss.; Corte costituzionale 29 maggio 2002, n. 218, in Giust. civ., 2002, I, p. 437 ss.). In realtà, né i principi costituzionali, né la stessa struttura degli istituti possono indurre ad equiparare in modo necessario le promozioni e le assunzioni e, pertanto, non si vede perché le prime dovrebbero implicare un concorso pubblico. Né vi può essere giurisdizione del giudice amministrativo, poiché essa attiene ai concorsi inerenti all’accesso. E’ pacifica la giurisdizione amministrativa in tema di concorsi esterni, anche qualora vi siano quote riservate (cfr. Cass., sez. un., 23 marzo 2005, n. 6217, ord., in Foro amm., 2005, 1665). Per altro verso, a differenza di quanto si ricava dalle più recenti indicazioni, la giurisdizione del giudice ordinario non riguarda solo le procedure che abbiano in palio una progressione all’interno di ciascuna area, ma anche quelle cosiddette verticali (invece, v. Cass., sez. un., 20 maggio 2005, n. 10605, ord., in Foro amm., 2005, p. 1344; Cass., sez. un., 18 ottobre 2005, n. 20107, in Giur. it. mass., 1205, c. 1379; Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2005, n. 2998, in Giur. it., 2005, c. 2205; Cons. stato, sez. IV, 7 giugno 2005, n. 2987, in Foro amm., 2005, p. 1708). Non si vede come si possa ritenere diversa la giurisdizione nei due casi, se si considerano la stessa matrice convenzionale ed il simile regime sostanziale delle “progressioni”, a prescindere dal fatto che siano “orizzontali” o “verticali”. Nonostante, in apparenza, l’idea emersa nella giurisprudenza più recente possa sembrare una comoda soluzione di compromesso fra orientamenti opposti, alla ricerca di un punto di equilibrio fra la giurisdizione del giudice amministrativo e di quello ordinario, non è così. Infatti, se le “progressioni verticali” implicassero una assunzione, non sarebbe in discussione solo il riparto della giurisdizione, ma andrebbe in crisi la validità stessa delle clausole convenzionali, che concepirebbero la promozione secondo meccanismi non in sintonia con l’art. 97 cost. e, cioè, con il semplice espletamento di selezioni regolate dal diritto privato. Vi è da chiedersi se le sentenze degli ultimi mesi non sottintendano la nullità delle previsioni dei contratti che hanno voluto concorsi di diritto comune per la modificazione dell’inquadramento. q 25 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE ARANGUREN, La qualifica nel contratto di lavoro, Milano, 1961; ARANGUREN, Diritto alla qualifica e pretesi limiti derivanti da nuovi sistemi retributivi, in Riv. dir. lav., 1962, I, p. 212 ss.; BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, in Comm. cod. civ., Milano, 1997; BROLLO, Mansioni e qualifiche dei lavoratori, in Dig., disc. priv., sez. comm., vol. IX, p. 242 ss.; CAMPANELLA, Mansioni, qualifiche, jus variandi nell’impiego pubblico “privatizzato”, in Riv. giur. lav., 1996, I, p. 460 ss.; CAMPANELLA, Mansioni e jus variandi nel lavoro pubblico, in Lav. pubbl. amm., 1999, p. 49 ss.; F. CARINCI, Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro: il rapporto individuale, in Giorn. dir. lav. e rel. ind., 1985, p. 227 ss.; F. 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Il sistema della legge n. 300 del 1970 e quello della legge n. 675 del 1996 e del decreto legislativo n. 196 del 2003. 6. Il potere di controllo del datore di lavoro ed il trattamento dei dati personali. 1. Nozione. La legge n. 300 del 1970 ha introdotto specifici limiti all’esercizio dei controlli del datore di lavoro, per contemperare l’interesse individuale alla riservatezza con quello dell’impresa a verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni del prestatore di opere e, a maggiore ragione, per proteggere la sfera privata del dipendente, a proposito di fatti estranei alla dimensione professionale. Poi, il tema del controllo ha avuto ampio risalto a seguito dell’emanazione della legge n. 675 del 1996 e del decreto legislativo n. 196 del 2003, sul cosiddetto “trattamento dei dati personali”, vista l’incidenza di tali fonti sul rapporto di lavoro. Sul piano ricostruttivo, si discute se esista una specifica posizione soggettiva del datore di lavoro avente per oggetto il controllo sul prestatore di opere e sul suo adempimento e, per lo più, si riconosce tale potere, ricompreso fra quelli che caratterizzano la subordinazione e la stessa struttura causale del contratto. Si obbietta che il potere non si distinguerebbe da quello in generale proprio di qualunque creditore; q 29 quindi, non esisterebbe una separato posizione soggettiva, distinta dal diritto all’esecuzione dell’altrui facere. Il controllo non avrebbe natura diversa da quello di ciascun creditore, nonostante la relativa disciplina legale e, quindi, i vincoli apposti alle iniziative dell’impresa. Tale ultima tesi non è persuasiva; a differenza di altri creditori, il datore di lavoro cerca ed acquisisce informazioni sull’adempimento in modo duraturo e stabile, con un riscontro non solo prolungato nel tempo, ma effettuato grazie ad una apposita organizzazione, con una coordinata e riconoscibile funzione aziendale di analisi costante sul comportamento dei prestatori di opere. E’ una attività concepita ed eseguita come un programmato, razionale e metodico controllo, influenzato non in modo estrinseco, ma nella sua stessa conformazione e nelle sue organizzate modalità di esecuzione dal fatto che il rapporto è, per sua natura, di durata. La coabitazione in azienda comporta l’assoggettamento ad una verifica sistematica, espressione specifica dell’autorità del datore di lavoro, con una possibile interferenza sulla libertà personale e sulla riservatezza. Per un verso, l’esporsi del dipendente all’informazione è uno degli elementi della causa del contratto, con una netta differenza da altri negozi, che non implicano analisi così invasive e continuative; per altro verso, il controllo è oggetto di un potere, espressione della subordinazione. Esso incontra limiti appositi nel diritto positivo, sia nella 30 q legge n. 300 del 1970, sia nel decreto legislativo n. 196 del 2003. Tale potere si distingue da quello direttivo e da quello disciplinare e l’acquisizione di conoscenze non coincide con altre e differenti manifestazioni dell’autorità. Se mai, dal punto di vista empirico, i risultati del controllo sono di stimolo per l’esercizio del potere direttivo o di quello disciplinare, all’interno della complessiva sfera decisionale dell’impresa, senza che tali nozioni possano essere considerate coincidenti o sovrapponibili. Quindi, il potere di dirigere il facere, per trarne un risultato soddisfacente, comporta quello di conoscere la condotta solutoria dei lavoratori. Nel circoscrivere le legittime iniziative dell’impresa, la disciplina di tutela del dipendente identifica taluni metodi di controllo e rende non utilizzabili, in primo luogo ai fini disciplinari, informazioni acquisite in violazione dei divieti. Se la legge n. 300 del 1970 ha considerato le espressioni più brutali e poliziesche dei meccanismi di verifica propri degli anni ‘60, la legge n. 675 del 1996 ed il decreto n. 196 del 2003 hanno aggiornato le impostazioni normative a fronte del prorompere di nuove tecnologie informatiche e delle connesse insidie alla libertà in azienda ed alla riservatezza. In qualche modo, sia gli artt. 2 ss. St. lav., sia i principi sul “trattamento dei dati personali” (per quanto attiene al controllo) realizzano il criterio generale dell’art. 1 St. lav., sulla libera manifestazione del pensiero in azienda, in sintonia con una più generale vocazione personalista del nostro diritto. 2. Limiti all’esercizio del potere di controllo visivo del datore di lavoro. I limiti apposti dagli artt. 2 ss. St. lav. alle forme di esercizio del potere di controllo riguardano i metodi più tradizionali di verifica sul facere, basati sull’analisi visiva. Pertanto, tali disposizioni presuppongono il potere e lo adeguano ad esigenze di socialità e di promozione della persona e delle sue libere manifestazioni, anche in quella necessitata comunità di vita costituita dall’azienda. Quindi, non è persuasivo cogliere nella legge n. 300 del 1970 l’intento di “spersonalizzare” il rapporto. Per un verso, nonostante le restrizioni apposte ai meccanismi di controllo, la prestazione resta dominata dall’elemento della persona del dipendente, il quale esprime le sue capacità e le sottopone all’inevitabile valutazione altrui. Per altro verso, gli artt. 2 ss. St. lav. vogliono fare emergere e razionalizzare il conflitto fra persone presenti in azienda, e non già eliminarlo. La coabitazione dovuta alla stipulazione del contratto è una specifica convivenza fra soggetti con interessi confliggenti e con aspettative morali e patrimoniali divergenti, alla ricerca di un punto di equilibrio razionale, seppure per lo più instabile. L’elemento personale qualifica il rapporto e la legge n. 300 del 1970 ne è consapevole fino dall’art. 1, con l’enunciazione del basilare criterio di effettiva tutela della libertà del prestatore di opere. Tale prospettiva deve essere conciliata con l’interesse economico dell’impresa; dunque, il potere di controllo è in funzione delle ragioni economiche di questa ultima ed i limiti mirano a contemperarle con la difesa della dignità. Sarebbe impensabile un lavoro “spersonalizzato”, con una insanabile contraddizione fra i due termini, poiché la prestazione è resa ed apprezzata proprio nella sua inevitabile e qualificante dimensione personale. Oltre al rispettare criteri generali desumibili dal canone di correttezza, il datore di lavoro deve osservare le disposizioni sull’impiego di guardie giurate (art. 2 St. lav.), sui compiti e sulla necessaria identificazione del personale di vigilanza (art. 3 St. lav.), sul ricorso ad impianti audiovisivi (art. 4 St. lav.), sugli accertamenti sanitari (art. 5 St. lav.) e sulle visite personali (art. 6 St. lav.). Sebbene il potere di controllo non debba essere visto solo in funzione dell’avvio del procedimento disciplinare, ma, se mai, prima di tutto, in connessione con quello direttivo, corona queste prescrizioni q 31 l’art. 7 St. lav., appunto dedicato alle sanzioni disciplinari, in una integrata valorizzazione della persona e, quindi, con la predisposizione di uno spettro articolato di misure di tutela. Gli artt. 2 ss. St. lav. non incidono sul controllo eseguito dai superiori gerarchici, ai quali, in particolare, non si applica l’art. 3, sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale (ad esempio, v. Cass. 17 giugno 1981, n. 3960, in Giust. civ., 1981, I, p. 2227; Cass. 26 febbraio 1982, n. 1263, in Not. giur. lav., 1982, p. 352; Cass. 10 maggio 1985, n. 2933, ibid., 1985, p. 417). Inoltre, le stesse norme non impediscono verifiche sulla commissione di reati, come è per le iniziative dei cosiddetti agenti provocatori nelle imprese della grande distribuzione (v. Cass. 14 luglio 2001, n. 9576, in Giur. it. mass., 2001, c. 739) o per gli altri interventi a tutela del patrimonio aziendale (cfr. Cass. 7 febbraio 1983, n. 1031, in Foro it., 1985, I, c. 439; Cass. 18 settembre 1995, n. 9836, in Orient. giur. lav., 1996, p. 17; Cass. 25 gennaio 1992, n. 829, in Not. giur. lav., 1992, p. 523). Il controllo delle guardie giurate o di una agenzia investigativa non può riguardare l’adempimento dell’obbligazione di facere, poiché ciò è sottratto a tale invasiva vigilanza; essa si deve limitare agli atti illeciti diversi dal mero inadempimento, come l’appropriazione indebita di denaro (v. Cass. 7 giugno 2003, n. 9167, in Arch. civ., 2004, p. 531). Inoltre, gli artt. 2 e 3 St. lav. non sono applicabili per iniziati32 q ve compiute fuori dall’azienda, come è per i riscontri su dipendenti incaricati di attività promozionali esterne (v. Cass. 3 novembre 2000, n. 14383, in Notiz. giur. lav., 2001, p. 161). A maggiore ragione, sono legittime tutte le azioni di protezione del patrimonio compiute nei periodi non compresi nell’orario di lavoro (cfr. Cass. 3 luglio 2001, n. 8898, in Giur. it. mass., 2001, c. 679). L’art. 6 St. lav. regola le visite personali e, quindi, un metodo di verifica talora indispensabile, seppure di particolare incidenza sulla dignità del prestatore di opere. L’art. 6 consente queste operazioni solo se necessarie e per l’esclusivo obiettivo di difendere gli strumenti, le materie prime od i prodotti. Si discute se le cautele dell’art. 6 debbano essere applicate anche ad ispezioni sulle borse (in senso contrario, v. Cass. 29 ottobre 1999, n. 12197, in Giur. it. mass., 1999, c. 989; Cass. 10 febbraio 1988, n. 1461, in Orient. giur. lav., 1988, p. 310). Sarebbe singolare se un intervento comunque invasivo, come l’ispezione degli involucri portati con sé dal dipendente, non godesse delle garanzie proprie delle visite personali. In tale prospettiva acquista specifico risalto l’autorizzazione concessa, in via alternativa, da un accordo sindacale o dai servizi ispettivi della Direzione provinciale del lavoro, affinché sia accertata l’oggettiva necessità di questa forma di verifica. 3. Gli strumenti di controllo a distanza. L’art. 4 St. lav. vieta l’uso di “impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, con una disposizione la quale, sorta in un diverso contesto tecnologico, identifica una ipotesi tipica che fatica ad ambientarsi nel nuovo orizzonte, dominato dall’informatica e dalle sue più complesse e sofisticate risorse di verifica. Pensando in via diretta alle telecamere, l’art. 4 St. lav. ammette l’uso di tali strumenti solo qualora sia richiesto “da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro”, nonostante gli apparecchi rivolti a tali fini consenta il controllo del personale. Però, in questa ipotesi, l’utilizzazione deve essere autorizzata o da un accordo sindacale o, in via alternativa, da un provvedimento dei servizi ispettivi della Direzione provinciale del lavoro. Peraltro, “la potenzialità di controllo a distanza deve ritenersi innata negli impianti audiovisivi e l’art. 4 St. lav. opera a prescindere dalla prova della concreta idoneità dell’impianto al controllo” delle persone (v. Cass. 16 settembre 1997, n. 9211, in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, p. 830). E’ oggetto di un intenso dibattito la possibilità di estendere gli stessi principi a forme di analisi sul comportamento realizzate con risorse informatiche, del tutto differenti dagli strumenti audiovisivi, sebbene, in vari casi, possano portare a risultati paragonabili. Se lo scopo della disposizione è proibire indagini lesive della dignità perché compiute in modo inquisitorio, lo stesso obbiettivo dovrebbe essere perseguito con riguardo alle tecnologie informatiche, non immaginabili dal legislatore del 1970. L’art. 4 St. lav. intende preservare la tranquillità del prestatore di opere rispetto a controlli imprevedibili, compiuti all’insaputa del destinatario, protratti per un lungo lasso di tempo. Anzi, per l’art. 4, secondo comma, St. lav., qualora possa implicare una verifica sulla condotta dei dipendenti, richiede una espressa autorizzazione l’installazione di macchine comunque coerenti con esigenze organizzative e produttive. Se non contrasta con l’art. 4 St. lav. l’uso di pareti di vetro, non sono proibiti neppure i riscontri che attengano al risultato della prestazione e non alla sua esecuzione ed alle relative modalità, nonostante tali analisi abbiano luogo a distanza e senza contraddittorio. Del pari, sfuggono al divieto dell’art. 4 St. lav. gli strumenti di verifica sulle q 33 porta l’irrilevanza su quello probatorio delle immagini o delle informazioni acquisite in modo illegittimo (v. Cass. 17 giugno 2000, n. 8250, in Orient. giur. lav., 2000, I, p. 857). presenze, anche se automatici, nonché i centralini che permettano di identificare se le telefonate rispondano a ragioni di servizio, ferma l’illiceità di registrare la conversazione (v. Cass. 3 aprile 2002, n. 4746, in Arch. civ., 2003, p. 207) ed i numeri chiamati senza l’occultamento delle ultime tre cifre. Di fatto, ormai si accetta l’impiego costante di programmi informatici indispensabili ai fini della produzione, ma i quali, come effetto secondario, consentono un riscontro sull’attività di ciascun dipendente. Del resto, la nostra società e la sua crescente dimensione tecnologica non possono ammettere un generale divieto di impiegare le risorse informatiche per il controllo, a maggiore ragione se il fine è contrastare la commissione di reati (v. Cass. 12 giugno 2002, n. 8388, in Arch. civ., 2003, p. 442). Pertanto, sono legittime le verifiche eseguite sui registratori di cassa, con l’uso delle relative potenzialità di memorizzazione delle operazioni compiute (cfr. Cass. 18 febbraio 1997, n. 1455, in Giust. civ., 1997, I, p. 493). La violazione dell’art. 4 St. lav. non rileva solo sul piano penale, ma com34 q 4. Il potere di indagine su fatti attinenti all’idoneità professionale. Distinzione dal potere di controllo del datore di lavoro. Non rientra nella disciplina in senso stretto delle modalità di controllo dell’adempimento il divieto di indagini sulle opinioni dei prestatori di opere, oggetto diverso dall’esecuzione della prestazione e come tale concepito dall’art. 8 St. lav., che allarga lo sguardo dal semplice controllo ad iniziative invasive rivolte all’intera persona ed agli aspetti indicativi delle sue libertà e delle scelte individuali, sul terreno morale, politico, sindacale, familiare, affettivo. Con l’uso consapevole del termine “indagini”, l’art. 8 St. lav. ha considerato situazioni nelle quali la conoscenza sia la conseguenza di uno sforzo apposito di ricerca, invece di essere il frutto di casuali constatazioni e di eventi non programmati e non provocati da una scelta consapevole e predeterminata. Peraltro, l’indagine non implica un processo di particolare sofisticazione, né deve essere condotta in modo occulto o sleale, poiché basta una semplice domanda, illegittima qualora non attenga a circostanze rivelatrici dell’idoneità professionale. Quindi, per l’operare dell’art. 8, non occorro- no né la violazione di un segreto, né il superamento dell’opposizione e della resistenza del lavoratore o di terzi, ma è sufficiente la preordinazione di mezzi (anche molto semplici) al fine di acquisire notizie, non desunte dal semplice comportamento del soggetto passivo. Questi può rivendicare anche sul luogo di lavoro la sua fede, la sua militanza politica o sindacale, le decisioni sulla sua vita e le sue convinzioni etiche, come confermato dall’art. 1 St. lav.. Del resto, in larga parte, le informazioni indicate dall’art. 8 sono note e, talora, pubbliche ed ostentate. Però, il datore di lavoro non può indagare lo stesso. In questa prospettiva, l’art. 8 vuole evitare che, anche con sforzi programmati di verifica, l’impresa possa imporre una complessiva soggezione a precostituiti modelli di comportamento, con interventi invasivi che possano mettere in pericolo la spontaneità e la serenità delle scelte individuali. E’ ancora presente nella società contemporanea la grave tentazione di vedere nella pretesa fedeltà del dipendente una sorta di asservimento personale al datore di lavoro, che può essere portato a proiettare suoi modelli etici ed a pretenderne il rispetto. Non rientrano nell’oggetto dell’art. 8 St. lav. questionari anonimi, destinati a riscontri sulle motivazioni, in primo luogo se è impossibile risalire dalle risposte all’autore; invece, l’art. 8 ha avuto larga risonanza in giurisprudenza con riguardo al sindacato di bandi di concorso privati i quali indicavano fra i requisiti di partecipazione aspetti privi di qualunque connessione con un oggettivo riscontro dell’idoneità professionale, come è per la condizione di parente con chi fosse già stato assunto dalla stessa impresa. Ad esempio, è stata considerata nulla “la clausola del bando di concorso per il reclutamento di nuovo personale da parte di un ente pubblico economico qualora si subordini l’assunzione sia all’esistenza, sia alla mancanza di vincoli di parentela con dipendenti” (v. Cass. 19 gennaio 2002, n. 570, in Giur. it. mass., 2002, c. 79). L’art. 8 St. lav. pone il problema di identificare i fatti rilevanti ai fini del giudizio sull’idoneità professionale e la loro selezione si collega dall’ampiezza con la quale si colga nel contratto e nella sua causa un elemento fiduciario. Peraltro, a tale riguardo, non possono avere rilievo le soggettive valutazioni del datore di lavoro, ma occorre utilizzare parametri oggettivi, nonostante il dibattito presenti notevoli incertezze. In primo luogo, ci si chiede fino a che punto le organizzazioni di tendenza possano subordinare la prosecuzione del rapporto a comportamenti tenuti nella normale vita di relazione, come è per i prestatori di opere di strutture dalla dichiarata matrice cattolica. Quanto più si annette risalto a tali circostanze, come la convivenza more uxorio, tanto più si allarga il confine dei fatti significativi sul piano dell’idoneità professionale. Per altro verso, di frequente sono intimati licenziamenti, ad esempio ai q 35 dipendenti di istituti di credito, per condotte illecite estranee all’adempimento, per lo spiccato desiderio di molti datori di lavoro di proteggere la loro immagine e la loro credibilità con l’espulsione di chi si sia macchiato di reati gravi, seppure nella vita privata. Poiché tali comportamenti sono considerati meritevoli del recesso se incidono sull’idoneità all’adempimento (v. Cass. 24 febbraio 1986, n. 1141, in Dir. lav., 1986, II, 497), l’art. 8 St. lav. non vieta indagini su queste materie, mentre sono illegittimi controlli sul possesso di un titolo di studio superiore a quello richiesto (cfr. Cass., sez. un., 11 dicembre 1979, n. 6452, in Giur. it. mass., 1979, 367). Se anche la singola impresa non vuole avere lavoratori laureati per attività proprie dei diplomati, tale specifico (e singolare) punto di vista non consente verifiche, perché, sul piano oggettivo, il profilo non rientra nell’idoneità professionale. In sostanza, per identificare i confini di tale categoria, non importa stabilire che cosa il datore di lavoro desideri conoscere; se così fosse, sarebbe travolta la portata garantistica dell’art. 8 St. lav.. Occorre utilizzare parametri di meritevolezza sociale. In particolare, in carenza di appositi divieti, nell’esercizio della sua libertà contrattuale, l’impresa può porre alla base delle sue decisioni aspetti contrari a principi di equilibrio ed ai postulati della nostra vita civile, e persino valutazioni immorali. Ad esempio, non vi è modo di costringere ad assumere lavoratori extracomuni36 q tari chi non lo voglia fare. Tuttavia, non vi è equiestensione fra la libertà negoziale e quella di indagine, proprio perché questa ultima si può esplicare solo su materie che, sul piano oggettivo, siano indicative dell’idoneità professionale. A prescindere dalla difficoltà di stabilire fino a quale punto si possa dare risalto agli elementi fiduciari nel contratto di lavoro, l’art. 8 St. lav. porta la protezione della dignità oltre a quanto è previsto dalla disciplina antidiscriminatoria in relazione all’esercizio della libertà contrattuale. Tale profilo non deve sorprendere se si considera fino a che punto la coscienza sociale contemporanea annetta risalto alla gelosa difesa della riservatezza. Se mai, la legge n. 300 del 1970 desta ammirazione per avere saputo precorrere i tempi della complessiva evoluzione del diritto privato, con un percorso faticoso coronato dall’emanazione della legge n. 675 del 1996 e dal decreto legislativo n. 196 del 2003. 5. Il sistema della legge n. 300 del 1970 e quello della legge n. 675 del 1996 e del decreto legislativo n. 196 del 2003. Nel regolare l’informazione del datore di lavoro, la legge n. 675 del 1996 non la considera una funzione conoscitiva e la regola in modo indistinto, non per specifici aspetti, qualificati per i loro oggetti. Quindi, l’informazione non è un fenomeno unitario, ma una attività psichica continuativa, di cui solo alcuni segmenti hanno ricevuto una regolazione apposita, circoscritta a pochi settori. Mentre l’idea soggettiva della conoscenza traspare dalla legge n. 300 del 1970 e dal suo sistema più tradizionale, orientato a regolare i comportamenti, ad esempio quelli più intrusivi, con l’incisiva limitazione dell’esercizio del potere di controllo, tale concezione è meno nitida nella legge n. 675 del 1996 e nel successivo decreto legislativo n. 196 del 2003. L’elaborazione elettronica permette una utilizzazione diversa dai vecchi strumenti, con una differente capacità di incidere nella sfera del soggetto al quale le notizie si riferiscono e con la conseguente necessità di corrispondenti tutele. Non importano tanto la rapidità e la sicurezza dei dati ottenibili (rispetto a quelli immessi), la prolungata conservazione ed il progressivo arricchimento delle cognizioni, quanto la facoltà di creare collegamenti celeri e certi fra aspetti diversi, i quali restano irrilevanti se considerati in modo isolato e, invece, sono fonte di minaccia grazie alle intersezioni provocate in via informatica. A questi rischi ha cercato di ovviare la legge n. 675 del 1996, con un chiaro divario metodologico dal sistema consueto del diritto del lavoro. Incentrata sul “dato”, come preteso frammento oggettivo, senza riferimento alla sua origine, la tutela diverge da quella dell’art. 8 St. lav., il quale, con il rinvio alle indagini, impernia il divieto sul processo intellettivo. Si può quasi contrapporre la dimensione dinamica dell’art. 8 St. lav. e dell’intera legge n. 300 del 1970 (volta a cogliere la conoscenza come rapporto con l’oggetto) a quella statica della legge n. 675 del 1996, intenta a ricavare una immagine del “dato” come entità isolata, per conferire ad esso una “realtà” fittizia ed arbitraria. Ne è derivato un nuovo orizzonte di problemi con i quali il diritto del lavoro si sta cimentando, per trovare una sintesi accettabile fra il suo impianto tradizionale e le trasformazioni apportate dalla legge n. 675 del 1996 e dal successivo decreto legislativo n. 196 del 2003. La legge n. 675 del 1996 si è rivolta a “qualunque informazione”; vi si trova l’ambizione di comprendere nell’oggetto della nuova normativa una generale idea di “informazione” e di “trattamento”, inteso quale operazione comunque inerente alla notizia. Ne sono derivati vincoli anche per condotte in passato ritenute immeritevoli di tutela. Tale approccio generico ha comportato un diffondersi di doveri strumentali, reso inevitabile dalla pretesa di disciplinare ogni area economica ed i comportamenti di famiglie, associazioni, imprese e pubbliche amministrazioni. Questa tentazione di dominare l’intero problema dell’informazione è il frutto della consapevolezza dei collegamenti inevitabili nel formarsi della conoscenza; a tale esatta constatazione ha fatto seguito una regolazione che, salve le eccezioni, ha voluto ripercorrere la traiettoria della conoscenza e sovrapporre ai suoi sviluppi imprevedibili un apparato di q 37 restrizioni destinate a contenerne gli esiti più pericolosi. In questo sta il fascino della legge n. 675 del 1996 e del decreto n. 196 del 2003, ma anche la ragione della loro difficile attuazione, dovuta al taglio generale e quasi mai selettivo di disposizioni volte a regolare la sorte di tutte le notizie. Invano si cercherebbe una definizione di riservatezza in tali testi normativi; essi ne prescindono, per concentrarsi sull’informazione e sulla sua sorte, accantonando l’identificazione dettagliata del bene protetto. In contrasto singolare con il modello della legge n. 300 del 1970, il decreto n. 196 del 2003 abbraccia ogni “dato personale”, cioè riferibile ad un soggetto noto; quindi, sono considerate tutte le notizie non anonime, a prescindere dalla forma e dalle cause del processo conoscitivo, nonché dagli ulteriori sviluppi del giudizio individuale, cioè dai comportamenti successivi all’apprendimento. Senza circoscrivere il suo campo di applicazione e rinnegando il taglio selettivo della legge n. 300 del 1970, quella n. 675 del 1996 ha investito questioni tradizionali nel dibattito antecedente, ma fra loro differenti. Sarebbe stato strano se la pretesa di disciplinare qualsiasi informazione (con modeste eccezioni) avesse condotto ad una regolazione coerente; se non il testo, almeno la sua attuazione ha dovuto riscontrare come la rilevanza giuridica non sia della conoscenza in sé, ma dell’appuntarsi del processo intellettivo su oggetti specifici. Se non si muo38 q ve dalle varie aspettative del singolo e delle formazioni sociali, non si può discriminare quanto può o deve avere rilevanza giuridica; essa non attiene ad ogni comportamento cognitivo, né a tutti i connessi, possibili risultati, ma si impernia sulla loro qualificazione in ragione di interessi precisi. 6. Il potere di controllo del datore di lavoro ed il trattamento dei dati personali. Il sistema di protezione della legge n. 675 del 1996 e, ora, del decreto legislativo n. 196 del 2003 si aggiunge a quello della legge n. 300 del 1970, con un metodo prescrittivo diverso, basato non sulla considerazione e sul divieto di specifici comportamenti, ma sulla costruzione di categorie generali, destinate ad applicarsi anche ai lavoratori subordinati, pubblici e privati. La legge n. 300 del 1970 ed il decreto legislativo n. 196 del 2003 si riferiscono in modo diverso agli stessi fatti, con innegabili punti di affinità, poiché, ad esempio, le norme sul cosiddetto “trattamento dei dati sensibili” ricordano l’art. 8 St. lav. e, soprattutto, giungono a risultati paragonabili nella protezione della riservatezza. Peraltro, di fronte a due contesti normativi differenti, seppure non incompatibili, il datore di lavoro deve rispettare tutte le disposizioni. Ad esempio, l’osservanza dell’art. 4 St. lav. non esonera dall’adempimento dell’obbligo di informare il lavoratore sulle modalità del trattamento e, per altro verso, in caso di installazione di impianti audiovisivi per finalità di tutela del patrimonio aziendale, la necessaria stipulazione dell’accordo sindacale ai sensi dell’art. 4, secondo comma, St. lav. non evita il rispetto delle prescrizioni dell’Autorità garante sull’uso di strumenti di vigilanza a distanza, con particolari previsioni aggiuntive rispetto ai più sintetici obblighi desumibili dall’art. 4 St. lav.. Ad esempio, tale ultima norma non si occupa della custodia e dell’uso delle cassette contenenti le immagini registrate, mentre sul punto si soffermano vari provvedimenti dell’Autorità garante. Nell’esperienza applicativa, l’osservanza degli obblighi introdotti dal decreto legislativo n. 196 del 2003 non ha provocato problemi molto significativi e la tutela già predisposta dalla legge n. 300 del 1970 è stata talora perfezionata (soprattutto grazie ad alcune decisioni dell’Autorità garante), ma non è stata alterata né nei suoi fondamenti teorici, né nei suoi pilastri regolativi; a quasi quaranta anni dalla sua ideazione, la legge n. 300 del 1970 mantiene piena attualità e continua ad essere il principale baluardo nella difesa della riservatezza in azienda. I molti obblighi procedurali e strumentali voluti dal decreto legislativo n. 196 del 2003 (come quello di informazione del lavoratore) e la tenace valorizzazione del principio del consenso del soggetto passivo (nozione propugnata dallo stesso decreto) non hanno portato a risultati molto migliori in tema di valorizzazione della dignità rispetto a quanto già era stato ottenuto con la legge n. 300 del 1970. In particolare, se essa presentava in molte parti, ad esempio con riguardo all’art. 8, seri problemi di effettività, essi non sono stati superati dalla legge n. 675 del 1996 e dal decreto legislativo n. 196 del 2003, nonostante la loro diversa ispirazione. Ad oggi, la separata applicazione su temi simili di due differenti sistemi prescrittivi ingenera problemi interpretativi e qualche sconcerto nelle imprese, perché può essere difficile capire ed accettare come il potere di controllo incontri vincoli introdotti in successivi momenti storici ed in fonti normative con separata ispirazione. Ferma la perdurante centralità della legge n. 300 del 1970, il datore di lavoro deve anche agire nel rispetto del decreto legislativo n. 196 del 2003, verificando di volta in volta la legittimità dei suoi comportamenti sulla base dell’uno e dell’altro testo normativo. Essi non possono essere sovrapposti, ma devono essere esaminati alla luce della loro diversa concezione sistematica e, quindi, se mai, devono essere contrapposti. Proprio per questo non è attuale alcuna ipotesi di ricomposizione ricostruttiva dei due orizzonti regolativi; le relative divergenze devono essere accettate sia sul piano della riflessione teorica, sia su quello operativo. q 39 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE AIMO, Privacy, libertà di espressione e rapporto di lavoro, Napoli, 2003; BALANDI, L’informazione nei rapporti di lavoro e sindacali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1993, p. 739 ss.; BELLAVISTA, Il controllo sui lavoratori, Torino, 1995; BELLAVISTA, Le prospettive della tutela dei dati personali nel rapporto di lavoro, in Riv. giur. lav., 2003, I, p. 55 ss.; F. 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La nozione di licenziamento disciplinare. 3. Il licenziamento come sanzione disciplinare. 4. Inadempimento, disciplina e licenziamento. 5. La proporzione, il potere del giudice ed i codici disciplinari. 1. L’applicazione dell’art. 7 St. lav. al licenziamento. Se ha avuto grande intensità nel passato1, il dibattito sul licenziamento disci- plinare si è andato spegnendo nell’ultimo periodo, per lo meno per quanto attiene alle implicazioni applicative, poiché, se non altro in giurisprudenza2, non si dubita dell’operare dell’art. 7 St. lav. e delle relative disposizioni procedurali a proposito del recesso per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo3 e, forse in via definitiva, lo stesso principio è stato enunciato con riguardo al licenziamento del dirigente4 e, quindi, nell’area presidiata dall’art. 10 della legge n. 604 del 1966. A dire il vero, se ancora si contesta che coincidano nei loro lineamenti strutturali il licenziamento disciplinare e quello per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo5, l’esito al quale è pervenuta la giurisprudenza, sul necessario rispetto dell’art. 7 St. lav., è persuasivo e forse non avrebbe meritato tante tensioni e così accese contrapposizioni, in qualche modo sedate6. L’operare dell’art. 7 St. lav. non comporta una trasformazione strutturale della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo, né impone di identificare tali categorie sulla scorta delle esclusive previsioni dei codici disci- q 43 plinari e, quindi, per lo più dei contratti collettivi nazionali di categoria. Nel suo nucleo originario, l’art. 7 St. lav. prefigura forme di tutela procedurale che rendono il possibile destinatario di una misura punitiva consapevole dell’intenzione del datore di lavoro e, quindi, in grado di comprendere in anticipo l’eventuale provvedimento. Pertanto, a prescindere dalle sue conseguenze ed anche se è legittimo il recesso ad nutum, qualora l’atto dell’impresa sottintenda un rimprovero, di qualunque natura, per un inadempimento contrattuale, il prestatore di opere deve essere messo nelle condizioni di sapere in anticipo che cosa stia accadendo, prima che lo sappiano i colleghi, le persone che si occupano di amministrazione del personale, i curiosi in grado di anticipare od immaginare le intenzioni del datore di lavoro. Del resto, il cosiddetto procedimento dell’art. 7 St. lav. non condiziona nel merito le determinazioni in procinto di essere assunte, ma introduce una protezione formale, non per questo meno importante nella difesa della dignità. Per qualche verso, proprio la strutturale limitazione delle garanzie dell’art. 7 St. lav. ed il loro mancato incidere sull’elemento sostanziale dei singoli provvedimenti rendono più agevole e lineare l’applicazione della norma. Chi può subire un licenziamento non può essere ignaro e non può attendere l’adozione dell’atto per avere conoscenza delle intenzioni del datore di lavoro, con una posizione che sarebbe deteriore a paragone di chi affronta 44 q una piccola misura conservativa, di marginale rilievo nel progredire di un rapporto di lavoro. In questa prospettiva, in parte anche di carattere equitativo, bene si comprendono le posizioni della giurisprudenza costituzionale e di quella di legittimità che, rinunciando a collegare la nullità alla violazione dell’art. 7 St. lav.7, hanno fatto rientrare tale ipotesi in quella dell’illegittimità8, con il ricorso alle corrispondenti sanzioni9 e, cioè, ad esempio, a quelle comminate dall’art. 18 St. lav., dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966 o dai contratti collettivi per i dirigenti10. A prescindere dal problema delle conseguenze sanzionatorie, in qualche modo autonomo, il tema dell’applicabilità dell’art. 7 St. lav. ai licenziamenti per giusta causa e per giustificato motivo può essere affrontato, in prima battuta, se si ridimensiona l’importanza di identificare i confini delle sanzioni disciplinari. A prescindere dai limiti di tale concetto e, quindi, dai loro elementi distintivi, l’art. 7 St. lav. non può essere riferito solo alle sanzioni disciplinari in senso stretto e, come ha affermato in modo persuasivo la giurisprudenza, deve riguardare qualunque atto che abbia quale presupposto un addebito di responsabilità per inadempimento. Non a caso, l’art. 7 St. lav. non può essere invocato per licenziamenti riguardanti comportamenti del prestatore di opere tenuti nella vita privata e, comunque, non nell’assolvimento delle mansioni. Infatti, tali condotte non possono evocare le garanzie procedurali pensate per contestazioni concernenti l’attività convenuta. Però, in tale ambito, l’art. 7 St. lav. non apporta un contributo, tanto meno innovativo od originale, alla costruzione dei lineamenti teorici del potere disciplinare e del suo nesso con la più complessiva nozione di subordinazione. Anzi, la disposizione si muove in un terreno molto meno impegnativo e solleva problemi ricostruttivi più contenuti, perché non qualifica le finalità e le ragioni fondative del potere, ma ne regola le modalità di esercizio procedurali, per la valorizzazione della dignità e, quindi, della serenità e della libertà del lavoratore, in primo luogo informato in anticipo dei dubbi che l’impresa si pone sulla puntualità dell’adempimento. Se si accetta questa prospettiva, che ridimensiona il senso stesso dell’art. 7 St. lav. e ne valorizza l’effettiva portata garantistica, si giunge alle medesime conclusioni della giurisprudenza; non vi è nessuna plausibile motivazione per cui, a prescindere dalla definizione teorica del potere disciplinare e dall’analisi sulla sua dimensione di autorità, la stessa promozione della libertà e della dignità del dipendente non debba essere garantita nel caso della massima e più intensa minaccia a tali valori e, cioè, nell’ipotesi del licenziamento. Le ultime indicazioni sul recesso del dirigente sono concordanti con questo disegno complessivo11. Libera di licenziare senza rendere note le ragioni, salvo il diritto del lavoratore all’indennità supplementare, se, per escludere tale eventualità o anche per sottrarsi agli obblighi del preavviso, l’impresa addebita un inadempimento, l’art. 7 St. lav. deve essere rispettato. Proprio perché esso recepisce una più complessa idea di contraddittorio, il cui fondamento è nell’art. 2 cost., il dirigente ha diritto alla tutela dell’art. 7 St. lav.12 e, se così è, a tutti i lavoratori devono essere assicurate le stesse forme di protezione. Per stabilire se debba operare l’art. 7 St. lav., non ci si deve chiedere se il provvedimento finale sia una sanzione, ma se, mettendo a repentaglio la dignità del prestatore di opere, esso invochi l’instaurazione del contraddittorio. Se così non fosse, non per tutti i lavoratori l’azienda diventerebbe il luogo di promozione della persona, ed a ciò può indurre solo una concezione, superata sul piano storico, del diritto del lavoro come strumento di protezione privilegiata di chi sia in condizioni di specifica debolezza economica. L’offesa alla dignità si può accompagnare anche ad una elevata retribuzione e, soprattutto nella moderna società, la salvaguardia della persona e dei suoi valori deve prescindere da qualunque considerazione delle possibilità patrimoniali e delle risorse professionali13. Neppure attribuendo le massime gratificazioni economiche, l’impresa può acquisire il diritto a conculcare la dignità dei collaboratori e l’elevata retribuzione non esonera dal rispetto delle q 45 procedure, necessarie qualora si discuta di un possibile inadempimento. Esse non sono mai uno sterile baluardo se permettono una migliore protezione dell’interesse di ciascun prestatore di opere ad essere protagonista consapevole del suo destino14. Quindi, non è persuasiva la ricorrente affermazione per cui “il giudizio circa l’applicabilità al dirigente delle garanzie procedimentali dell’art. 7 St. lav. in caso di suo licenziamento per motivi disciplinari involge accertamenti di fatto (coinvolgenti l’identificazione delle reali mansioni e della collocazione nell’organizzazione) diretti a stabilire se l’interessato appartiene al numero dei dirigenti di vertice, cioè con funzioni di respiro tale da caratterizzare la vita dell’azienda, ai quali soli non sono applicabili dette garanzie”15. Invece, poiché il contraddittorio protegge la dignità e prescinde da valutazioni organizzative, dove vi è rimprovero vi deve essere un aperto confronto preventivo. Se esso è ricondotto alla sua vera ragione di promozione della persona, non vi può essere una appagante giustificazione per la selettiva limitazione dei destinatari di una delle garanzie che più contribuiscono a promuovere la responsabile consapevolezza del prestatore di opere sul suo destino16. 2. La nozione di licenziamento disciplinare. L’applicazione del criterio del contraddittorio è compatibile con la disciplina 46 q legale sulla libera recedibilità, perché, come bene ha messo in luce di recente la Suprema Corte17, la mancata contestazione degli addebiti non determina la nullità dell’atto, ma provoca solo l’attuazione degli specifici meccanismi sanzionatori previsti dal contratto collettivo per i dirigenti18. Tale principio è ormai consolidato con riguardo ai recessi dei lavoratori sottoposti alla cosiddetta tutela obbligatoria19, appunto da invocare qualora l’impresa abbia violato l’art. 7 St. lav.20. Se si vede nell’art. 7 St. lav. una tutela della dignità, il licenziamento disciplinare diventa la massima pena suscettibile di essere inflitta21; si deve attribuire “al principio del contraddittorio (...) un valore di speciale canone di garanzia dei diritti fondamentali dell’individuo, di modo che finisce per configurarsi come del tutto illogica, alla luce del parametro di eguaglianza, una differenziazione legislativa che non imponga al datore di procedere alla preventiva contestazione degli addebiti in caso di licenziamento determinato da fatto del lavoratore”22. Se si accetta questa linea di argomentazione, l’operare dell’art. 7 St. lav. prescinde da una compiuta definizione sia della giusta causa, sia del giustificato motivo; senza che si entri nella discussione sulla struttura di tali figure, il contraddittorio è garantito perché esse implicano comunque un “rimprovero” nei confronti del prestatore di opere o, meglio, fanno riferimento ad un suo inadempimento. Quindi, l’art. 7 St. lav. è colto nella sua dimensione fondativa23, di prescrizione che presidia sulle implicazioni personali e relazionali dell’esercizio di qualunque iniziativa di autorità del datore di lavoro, a prescindere dal fatto che essa preluda a misure conservative od all’estinzione del rapporto24. In questa prospettiva, non sono rilevanti le previsioni dei contratti collettivi e, quindi, l’esplicita indicazione del licenziamento quale sanzione disciplinare. Per un verso, anche nel silenzio dei codici, i giudici possono identificare la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo, qualora la condotta del prestatore di opere violi criteri generali di comportamento, fuori dalle specifiche ipotesi contemplate dalle intese sindacali25. Per altro verso, se l’operare dell’art. 7 St. lav. non è condizionato dalla configurazione specifica della giusta causa e del giustificato motivo, a maggiore ragione non hanno incidenza le disposizioni convenzionali. Il discrimine è dato dalla componente di “rimprovero” che, comunque, è insita nel licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, poiché si riprende dall’art. 7 St. lav. il principio del contraddittorio quale espressione di una evoluta forma di “civiltà giuridica”26. In ordine alle tecniche di tutela derivanti dall’applicazione dell’art. 7 St. lav., si può convenire con le più generali osservazioni secondo cui “il modulo è quello classico del diritto privato, cioè di un rapporto, che viene a costituire il «supporto» di posizioni soggettive attive e passive, con una duplice variante, la quale contraddistingue il diritto del lavoro come peculiare. Quantitativa, la prima, data dalla ricchezza di tali posizioni, introdotte ex lege; qualitativa la seconda, rappresentata dalla loro tecnica «sanzionatoria»”, poiché “la ragione è al tempo stesso semplice e nota, essendo alla base della nostra materia, cioè l’implicazione della persona del lavoratore, che chiama in causa tutta una serie di valori costituzionalmente garantiti, destinati a «penetrare» nel rapporto attraverso una mediazione legislativa, divenuta col tempo sempre più diffusa ed intensa”27. Infatti, l’art. 7 St. lav. ha avuto la specifica funzione di introdurre una lunga serie di posizioni soggettive del lavoratore, inerenti non tanto all’oggetto del potere disciplinare e, quindi, alla reazione in sé, quanto alle sue forme e, pertanto, a complessi vincoli procedurali. E’ un po’ sterile chiedersi fino a che punto abbia avuto successo il tentativo dell’art. 7 St. lav. di stemperare gli elementi di forte autorità dell’idea stessa di disciplina, incidendo sulle modalità di esercizio di tale prerogativa e, cioè, costringendo il datore di lavoro all’instaurazione del contraddittorio e, quindi, per un verso a confrontarsi con il prestatore di opere e, per altro verso, a garantire il rispetto della sua dignità. Con tutti i suoi evidenti limiti, dovuti al fatto che si colloca fuori dal cuore del potere dell’impresa e non considera le fattispecie delle sanzioni conser- q 47 vative o del licenziamento, l’art. 7 St. lav. ha avviato un imponente dibattito ed una sterminata giurisprudenza, talora con risultati solo in apparenza sorprendenti. Come è per qualunque intervento sulla forma, alcune delle garanzie prefigurate dalla disposizione hanno ... protetto i colpevoli e non sono riuscite a proteggere le persone più meritevoli. Tuttavia, questi rischi erano inevitabili ed un esame della ricca giurisprudenza mette in evidenza conclusioni scontate. Per la sua struttura, la salvaguardia di carattere formale prescinde dalla considerazione della meritevolezza sociale dei comportamenti del singolo e tocca in modo trasversale qualunque prestatore di opere. Peraltro, ciò non riduce l’importanza della “procedimentalizzazione”, a prescindere dal fatto che molte imprese si dimostrino incapaci di dominare procedure talora sofisticate come quelle dell’art. 7 St. lav.. Infatti, la forma promuove una maggiore consapevolezza del possibile destinatario del procedimento, creando a suo favore posizioni soggettive attive su adempimenti del datore di lavoro prodromici all’adozione dell’atto finale. L’impresa si deve destreggiare in un articolato panorama di misure preparatorie all’eventuale recesso e, pertanto, deve sfoggiare adeguata consapevolezza non solo della struttura del procedimento disegnato dall’art. 7 St. lav., ma anche della composita interpretazione giurisprudenziale. 48 q Però, questo impatto della cosiddetta “procedimentalizzazione” è inevitabile, come lo è la centralità del dibattito sulla forma ai fini della valutazione della legittimità del recesso. Nonostante le passate, radicate resistenze a sancire l’operare dell’art. 7 St. lav. in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, resta l’importanza della protezione e della promozione della dignità, sottesa al riconoscimento dell’applicabilità dell’art. 7 St. lav.. Anzi, la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità hanno finito per ricomporre intorno a tale disposizione un quadro unitario di obblighi ed oneri che, imperniati sulla figura del contraddittorio, presidiano le fattispecie di contestazione e di “rimprovero” per gli inadempimenti. A tale riguardo, il ricorso ad una procedura non è un inutile appesantimento; invece, solo questa attenzione al procedimento promuove la coerenza fra la forma di esercizio del potere disciplinare per le misure conservative e quella che deve essere seguita per i licenziamenti, in relazione alla loro comune matrice e, cioè, al vertere su un inadempimento. Se esso rileva ai fini della prosecuzione del rapporto o, comunque, all’adozione di provvedimenti sanzionatori, implica un apprezzamento che riguarda una condotta umana e, come tale, postula una immediata considerazione per le ragioni della persona sottoposta alla critica altrui, già sulla base dell’art. 2 cost. e della valorizzazione della dignità, quale bene non negoziabile e meritevole di incondizionata tutela, prima ancora che si dia risalto ai profili di natura patrimoniale. Se la subordinazione è il presupposto teorico del potere disciplinare e di quello di licenziamento, non di meno vi sono forme da valorizzare, perché sia così difesa la consapevolezza del dipendente. Questi ha il diritto di affrontare il recesso ... come avrebbe fatto Farinata degli Uberti. 3. Il licenziamento come sanzione disciplinare. Questa prima osservazione pone un problema ulteriore e, cioè, di stabilire se “il licenziamento conseguente al notevole inadempimento degli obblighi del lavoratore corrisponde e, secondo i più, riassorbe, in ambito giuslavoristico, la risoluzione giudiziale per inadempimento dei contratti sinallagmatici, ma rappresenta, in relazione alle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 St. lav., solo un equivalente funzionale del potere disciplinare”, perché i due poteri sarebbero diversi sul versante strutturale. Si soggiunge che il primo sarebbe “strumentale alla predisposizione del substrato aziendale che consente al lavoratore di adempiere alla sua obbligazione principale e si esprime, perciò, anzitutto, nella formazione del codice disciplinare”. Il potere di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa salvaguarda, invece, la pos- sibilità della parte fedele a mettere in discussione la sopravvivenza del contratto in caso di inadempimento degli obblighi fissati nel regolamento contrattuale e prescinde, pertanto, dal contenuto del codice disciplinare”, per lo meno in larga parte, se si vuole seguire la giurisprudenza. Quindi, si conclude, “la comunanza tra i due poteri, che giustifica l’applicazione ad entrambi del principio audiatur et altera pars, non risiede nel carattere sanzionatorio, che è inesistente in quello risolutorio per inadempimento. Essa va, piuttosto, cercata nel comune presupposto dell’inadempimento nonché nel fatto che i due poteri vengono esercitati in via stragiudiziale”28. Se pone una corretta sintesi del problema, la tesi è infondata, sotto più profili, a tacere dello specifico tema della rilevanza del codice disciplinare in relazione al recesso, aspetto secondario. In primo luogo, è persuasivo affermare che non occorre optare per la completa omologazione strutturale del licenziamento alle sanzioni conservative per sancire l’operare dell’art. 7 St. lav.. Peraltro, più che il riferimento al “principio audiatur et altera pars”, si dovrebbe vedere nell’art. 7 St. lav. l’imposizione di un dovere di preventiva instaurazione del contraddittorio a tutela della consapevolezza del destinatario (e non della ponderazione del provvedimento). Infatti, il datore di lavoro non è tenuto a considerare le difese del dipendente, né queste devono essere comunque presentate, né occorre una specifica q 49 motivazione a conclusione della sintetica procedura. Per altro verso, il potere di applicare le sanzioni disciplinari e quello di recedere per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo sono diversi dal punto di vista funzionale, né potrebbe essere in modo differente, se si considera come l’obbiettivo sia per natura diverso. Peraltro, a tale livello e, cioè, ad una analisi di carattere teleologico, si resta ad uno stadio estrinseco nell’approfondimento del tema e non si esamina il problema di fondo, dato non dalla funzione dei due poteri, ma dalla loro struttura. In difetto, si rimane ancorati a condivisibili, ma limitate considerazioni descrittive, con una caduta in ovvie tautologie. Solo se si esamina la struttura intrinseca si può stabilire se si discuta di separate prerogative del datore di lavoro, o di un unico potere, che, di volta in volta, per vari illeciti e per soddisfare disomogenei interessi dell’impresa, comporta l’applicazione di misure conservative od estintive. Un errore di prospettiva risiede nell’affermazione per cui “la comunanza tra i due poteri, che giustifica l’applicazione ad entrambi del principio audiatur et altera pars, non risiede nel carattere sanzionatorio, che è inesistente in quello risolutorio per inadempimento”. Tale osservazione è diffusa e, in qualche modo, la frase citata è una sorta di sintesi della prevalente opinione comune. E’ vero il contrario; vi è un unico potere disciplinare, che inerisce 50 q sia al licenziamento, sia ai provvedimenti conservativi, non perché tutti gli atti siano sanzionatori, ma perché nessuno lo è. Quindi, la carenza di tali componenti è l’indice primo dell’identità del potere, in quanto reazione ad un inadempimento, con la conseguente divaricazione rispetto al recesso per giusta o per giustificato motivo soggettivo intimati per fatti estranei al rapporto, seppure rilevanti ai fini dell’accreditamento sociale del datore di lavoro. Si può ricordare la tesi centrale ed insuperata di chi29 ammoniva a considerare come la vera sanzione, quale riaffermazione, in caso di trasgressione, dell’ordinamento violato presupponga sempre il processo e, pertanto, l’accertamento in sede giurisdizionale, senza il quale non si può dare ricostituzione piena del diritto oggettivo e, quindi, neppure sanzione. Dunque, fino all’intervento del giudice, qualunque procedimento espletato da una parte non può portare all’applicazione di una sanzione, ma solo all’adozione di un provvedimento nel quale prevalgono gli interessi (appunto di parte) di natura ripristinatoria, a scapito di quelli di esemplare chiarificazione del lecito o dell’illecito; questa ultima funzione compete al solo giudice, nel contraddittorio processuale. Tale considerazione vale a maggiore ragione per il datore di lavoro privato, il quale, pure nei vincoli dell’art. 7 St. lav., opera per realizzare le sue ragioni patrimoniali, e non per fini di giustizia. Dunque, né le misure conservative, né il licenziamento sono sanzioni e, sebbene sia diffusa nel linguaggio comune e, ormai, ineliminabile, tale locuzione deve essere intesa in senso improprio ed atecnico, se ci si riferisce al potere disciplinare. Lungi dal cercare la verità, seppure nei limiti delle facoltà umane, l’impresa agisce in sede disciplinare quale controparte del prestatore di opere, così che vi è un solo accertamento sul sussistere del preteso illecito, quello del giudice. A questi è rimessa la decisione sia sul ricorrere dell’inadempimento, sia sulla proporzione fra questo e la misura applicata, sia sulla complessiva responsabilità del dipendente. Pertanto, non vi è nessuna sanzione nei procedimenti dell’art. 7 St. lav. e, proprio sul piano strutturale, vi è un solo potere dell’impresa di reazione all’inadempimento, identico per le garanzie procedurali, ma anche per la natura della determinazione del datore di lavoro. Questi si deve interrogare sull’esistenza di un inadempimento e sulla possibilità di emanare un provvedimento, ma l’illecito può essere accertato solo dal giudice e, in tale caso, l’originaria misura può essere corroborata dalla sentenza. Se, poi, a fronte di una categoria non delimitata dal diritto positivo, come quella di sanzione, si volesse indicare un suo diverso confine e se si volesse scolpirne i tratti secondo una altra delle possibili varianti di tale impe- gnativa nozione, le conclusioni non cambierebbero. Ferma la contrapposizione teleologica e funzionale fra il licenziamento per inadempimento e le misure conservative, essi hanno identica struttura in ordine all’elemento qualificante e, cioè, al nesso fra l’analisi e la decisione del datore di lavoro ed il successivo sindacato del giudice. Poco importa che la giusta causa ed il giustificato motivo si distinguano dai meno gravi inadempimenti che portano ai richiami, alle multe ed alle sospensioni. Comunque, in tutti questi casi, il giudice deve riscontrare il sussistere dell’inadempimento, la proporzione con il provvedimento applicato, la coerenza nella conduzione del procedimento. Questi elementi fanno emergere come sia uno solo il potere di reazione all’inadempimento, né tale quadro di insieme viene meno per le differenze presenti nell’attuazione dell’art. 7, primo comma, St. lav., poiché la predisposizione del codice disciplinare ha natura ricognitiva di condotte illecite comunque riconoscibili e connesse alla violazione di obblighi posti dalle fonti autonome o da quelle eteronome. Pertanto, il limitato incidere dell’art. 7, primo comma, St. lav. in tema di recesso non modifica la conclusione preferibile e, cioè, l’individuazione di un solo potere disciplinare. In questa logica, la disciplina non è il potere di applicare sanzioni, ma di opporre misure di varia natura all’altrui inadempimento contrattuale. q 51 Se l’art. 2106 cod. civ. e l’art. 7 St. lav. sono espressione di una dimensione di autorità propria del contratto di lavoro ed indicativa del nucleo originario della subordinazione, lo stesso ragionamento vale per i provvedimenti conservativi e per quelli estintivi e, se mai, a tale ultimo riguardo, l’autorità emerge con un risalto ancora maggiore, a prescindere dalla configurazione della giusta causa e, cioè, dal fatto che essa sia il presupposto di un potere di recesso straordinario o solo del venire meno del diritto al preavviso ed alla relativa indennità sostitutiva. Peraltro, il ricondurre il licenziamento e le cosiddette “sanzioni” conservative al medesimo potere è un profilo neutro rispetto all’identificazione del proprio della giusta causa e del giustificato motivo e, per converso, della ragione della prefigurazione delle sanzioni conservative. Tali aspetti riguardano le connotazioni di ogni, singolo atto, mentre il sussistere di un solo potere si collega a comuni lineamenti strutturali, vale a dire al conferimento all’impresa del potere di reagire in via diretta all’inadempimento, salva la piena, ma successiva cognizione del giudice. 4. Inadempimento, disciplina e licenziamento. Se, ormai, non vi è quasi più discussione sul carattere contrattuale del potere disciplinare30, esso contribuisce a caratterizzare l’idea stessa della subordinazione, poiché il suo sorgere è uno 52 q degli effetti qualificanti della stipulazione del negozio31. Tale aspetto non assume spesso risalto centrale ai fini della qualificazione di un accordo, fra autonomia e subordinazione, poiché per sua natura il potere è ad esercizio sporadico e solo eventuale. Peraltro, ci si chiede “in quale misura l’interesse organizzativo del datore di lavoro, in tutte le sue complesse sfaccettature, trovi una corrispondenza più o meno ampia nella posizione debitoria del lavoratore che si esprime nel contratto di lavoro subordinato, e dunque in che grado il potere disciplinare possa essere considerato strumento di tutela di interessi «contrattuali» del datore, riconducendo così al solo contratto di lavoro il fondamento e l’origine della posizione di supremazia riconosciuta al capo dell’impresa”32. Il perspicuo quesito merita una risposta articolata, su più piani. In primo luogo, l’affermazione può apparire scontata, il potere disciplinare trova il suo fondamento nella legge e non nel solo contratto, poiché è un effetto legale (essenziale) dell’accordo e, pertanto, appartiene alla tipica configurazione della fattispecie. La volontà delle parti si indirizza alla costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, secondo la sua configurazione, propria del nostro ordinamento, ma non si indirizza mai al potere disciplinare quale isolata componente dei più articolati effetti che la norma riconnette alla stipulazione del negozio. Le parti valutano nella loro autonomia una composita figura di lavoro etero- diretto, senza prendere in esame le sue diverse componenti e, tanto meno, il potere disciplinare, di esercizio sporadico e rivolto a situazioni di conflitto. Se non avesse la sua matrice nella legge, il potere non potrebbe essere configurato, poiché esso rimanda ad una dimensione di autorità, comunque connessa ad una scelta del legislatore. Ciò non esclude in alcun modo che il potere derivi dal contratto33, poiché, come per qualunque altro effetto, esso è il frutto della concorde manifestazione di volontà, che comporta gli effetti prefigurati dalla fonte eteronoma. Quindi, il fondamento del potere è negoziale, ma in ragione della struttura del rapporto, voluta per legge. I due profili non sono in contraddizione reciproca, poiché il contratto produce gli effetti programmati dagli artt. 2094 ss. cod. civ., fra cui si iscrive l’art. 2106 cod. civ34.. Per altro verso, la struttura del rapporto ed il potere che in essa si inserisce non prefigurano interessi tipici dell’impresa, ma rimandano alle ragioni dell’attività espletata e, quindi, ad una ampia gamma di aspettative produttive. Esse non sono per loro natura oggetto del contratto, ma esulano dal suo ambito e, se mai, rinviano ai motivi delle scelte del datore di lavoro, rilevanti di volta in volta, sulla base di specifiche disposizioni, come è per il giustificato motivo oggettivo, alla stregua dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966. Il potere disciplinare e, cioè, quello di applicare misure conservative e di licenziare per giusta causa o per giu- stificato motivo soggettivo si impernia sulla reazione ad un inadempimento e, quindi, in tale ambito, non emergono i motivi dell’atto ed il giudice si interroga su profili oggettivi, l’esistenza dell’inadempimento e la proporzione del provvedimento adottato. Pertanto, gli interessi in concreto perseguiti sfuggono al paradigma dell’art. 2106 cod. civ., dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 e dell’art. 7 St. lav.. Anzi, tali esigenze non hanno alcuna implicazione sulla configurazione del potere, tutto rivolto al solo elemento dell’inadempimento. Altro è chiedersi perché, nel costruire il tipo del lavoro subordinato, la legge conceda tanto all’autorità del datore di lavoro, al punto da consentirgli di replicare all’altrui inadempimento o con il recesso o con misure conservative. A tale riguardo, più di considerazioni di ordine sistematico, soccorrono valutazioni di indole storica, se si considera come, fino dai suoi primordi, il lavoro subordinato della società industriale sia stato immerso in una logica di autorità che ne è divenuta una componente inscindibile. Peraltro, poiché sono diverse le forme di reazione, sono differenti anche le ragioni delle “sanzioni” conservative e del licenziamento e, se le prime rimandano all’assicurazione del fruttuoso esercizio del potere direttivo35, il recesso implica un fatto di gravità tale da giustificare l’estinzione del rapporto, a fronte di ipotesi riconducibili alla giusta causa od al giustificato motivo. Quindi, l’osservanza delle disposizio- q 53 ni relative alla disciplina è “in ogni caso comportamento che il lavoratore è chiamato a tenere in quanto obbligazione che nasce dal contratto e quindi la reazione disciplinare è sempre reazione ad un inadempimento”36, fermo il fatto che il problema si pone di fatto per le sanzioni conservative. Peraltro, tutte le misure disciplinari (che non sono sanzioni) fanno seguito ad un inadempimento37, poiché tale è la violazione di regole di comportamento del prestatore di opere, suscettibili di portare alla reazione del datore di lavoro, con il recesso o con un intervento conservativo. Poco importano a tali fini la gravità del fatto e la sua eventuale rilevanza ai fini di una responsabilità risarcitoria, poiché il concetto di inadempimento è più vasto di quello di condotta suscettibile di portare al risarcimento del danno e contempla tutte le ipotesi di imperfetta esecuzione del programma negoziale convenuto. Pertanto, qualunque illecito trova la sua giustificazione in doveri di matrice legale o contrattuale, con una codificazione del datore di lavoro solo riepilogativa e volta a rendere consapevole il prestatore di opere, così che “l’intrinseca correlazione fra prestazione lavorativa in forma subordinata, poteri del datore di lavoro ed inserimento del lavoro nell’impresa determina un limite interno alla possibilità di emettere ordini, nel senso che essi non potrebbero in alcun caso essere esterni all’obbligazione di lavoro, dovendosi escludere in radice efficacia agli atti 54 q di estrinsecazione del potere posti in essere eccedendo da tale delimitazione interna”38. Questa ultima considerazione rimanda alla valutazione del presupposto teorico del potere disciplinare; esso comporta comunque una reazione ad un comportamento illegittimo e, pertanto, alla violazione di un obbligo, il quale trova il suo fondamento nel contratto e nella legge, che determina gli effetti del primo. Se mai, il problema è di identificare come siano stabiliti, nello svolgersi del rapporto, gli specifici doveri del dipendente ed essi non possono essere tutti identificati nell’originario accordo, né nella legge, ma implicano una successiva fase di precisazione e di analitica determinazione della collaborazione pretesa. Tuttavia, tale sviluppo non rimanda al potere disciplinare, ma a quello direttivo, di conformazione della condotta richiesta a ciascun lavoratore e, in questa logica, l’art. 7, primo comma, St. lav., a proposito della predeterminazione del codice, presuppone precedenti provvedimenti di delimitazione degli obblighi. A ragione, si osserva che “funzione del contratto (...) è anche quella di specificare il contenuto della prestazione (...) in vista del fine produttivo, nonché di coordinare tale prestazione con quella degli altri lavoratori”39. Questa componente dei poteri del datore di lavoro afferisce alla direzione, non alla disciplina, la quale ha un contenuto molto più circoscritto. Se vi è un obbligo e, quindi, se il prestatore di opere ha ricevuto un ordine legittimo e vincolante, egli cade in un inadempimento qualora trasgredisca a tali indicazioni. Quindi, se, ricevuta una prescrizione valida, il dipendente non ottempera40, la reazione ha come sua premessa tale preteso comportamento illecito e la disciplina si limita appunto a tale replica dell’impresa all’altrui violazione, la cui esistenza è alla fine accertata dal giudice, se del caso. In questa prospettiva, il potere è la risposta autoritaria alla dichiarata trasgressione a doveri. Altro è stabilire come e quando essi esistano e questo profilo sfugge al potere disciplinare ed al suo oggetto, né soccorre l’art. 7, primo comma, St. lav., per la natura riepilogativa del codice e delle sue indicazioni. In questa logica, non vi è alcuna distinzione strutturale fra le misure conservative ed il licenziamento; seppure con diversa rilevanza, tutti tali atti hanno quale premessa l’inadempimento, né sulla ricostruzione del potere si riflette il meccanismo mediante il quale il prestatore di opere diventa titolare del dovere e, cioè, se esso trova la sua immediata ragione nel contratto od in una successiva dichiarazione. Comunque, resta ferma la natura contrattuale dell’inadempimento, il quale, se non altro in via indiretta, rimanda all’accordo costitutivo del rapporto ed alla legge, regolatrice degli effetti del negozio. La stessa natura contrattuale ha il potere disciplinare, che è il riflesso dell’inadempimento e ne condivide i caratteri. 5. La proporzione, il potere del giudice ed i codici disciplinari. A ragione, si osserva che l’art. 7 St. lav. prosegue “nel solco già tracciato dalla Carta del lavoro e dall’art. 2106 cod. civ. riconoscendo alla contrattazione collettiva quel ruolo di fonte di definizione della normativa disciplinare, già tradizionalmente e diffusamente assunto nel settore privato”41. In questa prospettiva si iscrive il dibattito sull’art. 2106 cod. civ., di pacifica applicazione al licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, poiché, comunque, al giudice compete una valutazione di proporzione fra la sanzione e la reazione42. A tale riguardo, non soccorre solo il principio di buona fede, ma si manifesta l’elemento proprio del potere disciplinare, aspetto che vale sia per i provvedimenti conservativi, sia per quelli espulsivi, vale a dire la natura dell’atto di replica ad un inadempimento. Se non vi è sanzione, perché manca l’accertamento del giudice, tale componente di reazione spiega per quale ragione essa debba seguire criteri di proporzione, che costituiscono l’intrinseco limite sostanziale della prerogativa autoritaria attribuita all’impresa, soprattutto (ma non solo) se si discute della fine del rapporto. Altro è stabilire (e ciò compete all’analisi della giusta causa e del giustificato motivo, non del licenziamento disciplinare) come debba trovare applicazione l’art. 2106 cod. civ. e, dunque, secondo quali parametri debba avere q 55 luogo il giudizio di proporzione43. Peraltro, tale analisi rientra per sua natura nei compiti del giudice44, al punto che le indicazioni dei contratti collettivi non hanno natura vincolante, perché, in questo modo, il conflitto fra il datore di lavoro ed il prestatore di opere trova la sua definizione nella complessiva decisione giudiziale. Anzi, proprio il principio di proporzione è il segno del fatto che le misure conservative e quelle espulsive sono oggetto del medesimo potere, poiché fra le une e le altre prevalgono i momenti di continuità e non vi è un rigido iato, nel comune afferire alle forme di reazione all’altrui inadempimento. La loro legittimità presuppone la loro proporzione, con un diretto ed integrale sindacato del giudice45, il quale, così, ripercorre tutto l’itinerario condotto dall’impresa nella valutazione della condotta. Anzi, il sindacato di proporzione implica il riferimento non a canoni di razionalità, ma a principi assiologici, come rileva la giurisprudenza, per la quale, “per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire 56 q se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare”46. Quindi, lungi dal limitarsi ad un controllo esterno della coerenza delle decisioni dell’impresa e dal soffermarsi sui suoi fini, di fatto il giudice si sostituisce al datore di lavoro e penetra nell’intimo della determinazione, per chiedersi se vi sia proporzione (e, quindi, giustizia sostanziale) nel raccordo fra il comportamento e la misura applicata. A maggiore ragione, quella disciplinare non è una sanzione, poiché solo il giudice punisce, decidendo sul provvedimento e verificandone fino nel profondo la sua legittimità. Sul punto, spetta al giudice l’applicazione della sanzione, previo accertamento dell’inadempimento e della responsabilità, e ciò rende molto meno traumatica la dimensione di autorità insita nell’art. 2106 cod. civ. e nell’art. 7 St. lav.. In qualche modo, il potere disciplinare soddisfa esigenze di tempestività dell’iniziativa dell’impresa, in grado di decidere subito, ma, per altro verso, costretta a difendere la perspicuità e la giustizia delle sue determinazioni, che sono oggetto del definitivo accertamento processuale. Non a caso, si dice che “la valutazione del giudice di merito, che escluda la sussistenza dei presupposti per una legittima irrogazione di una sanzione estintiva nel caso di sottrazione di merce di modesto valore da parte di dipendente immune da precedenti rilievi e addetto a mansioni non fiduciarie in senso stretto (nella specie, compiti generici di addetto al magazzino di un supermercato), è conforme a criteri di logica e rappresenta una applicazione del principio di proporzionalità”47; a prescindere dalla perspicuità della soluzione sul punto specifico, che ha causato un ricco e controverso dibattito48, simili orientamenti mostrano che l’autorità manifestata dall’esercizio del potere disciplinare è in qualche modo provvisoria, poiché il conflitto trova il suo sbocco finale nel giudizio e questo implica una revisione complessiva di ogni profilo rilevante ai fini dell’esercizio del potere. Anzi, è molto ridimensionata l’importanza del codice disciplinare e dell’art. 7, primo comma, St. lav., se si considera quanto sia ampio il sindacato del giudice, alla stregua dell’art. 2106 cod. civ.. Non a caso, si riporta il problema della proporzione alla dialettica fra l’art. 4 cost. e l’art. 41 cost.49, quindi fra le ragioni dell’impresa ed i suoi interessi organizzativi e quelle del lavoro, alla continuazione del rapporto. Su tale raccordo non domina un incondizionato potere autoritario del datore di lavoro, ma la reazione disciplinare crea una composizione provvisoria del conflitto prodotto dall’inadempimento, in previsione dell’accertamento giudiziale e della connessa decisione sul comportamento, visto come fatto e, al tempo stesso, come occasione di un contrasto fra le aspettative dei la- voratori e quelle aziendali, in cerca di una sintesi offerta dall’imparziale applicazione della disciplina positiva ad opera del giudice50. Non a caso, coloro che riportano la giusta causa ad una lesione della fiducia sottolineano come il giudice debba valutare se, vista nelle sue componenti oggettive o soggettive, la condotta illegittima possa ledere la fiducia stessa, ancora una volta con una piena sovrapposizione della sentenza alle determinazioni rese nell’esercizio del potere51. Quindi, se, talora, si afferma che il potere di determinazione della sanzione “è rimasto affidato al datore di lavoro, mentre al giudice è devoluto quello di controllare la legittimità”52, si dovrebbe riconoscere quanto siano ampie le prerogative del giudice e fino a che punto egli indaghi nel merito sulle iniziative dell’impresa e sui loro presupposti. In questo modo, il nesso fra autorità e difesa delle ragioni del dipendente trova la sua sintesi nel processo e ciò contribuisce a spiegare come il contratto possa fondare il potere disciplinare, se questo rimette al datore di lavoro una decisione suscettibile di immediata esecuzione, ma anche di esteso ed intenso sindacato. Peraltro, questa situazione ha un diretto riflesso nella sostanziale e progressiva “giurisdizionalizzazione” del potere disciplinare, non solo in ordine alle forme di esercizio, ma soprattutto alle modalità di specifica realizzazione della disciplina, rimessa ad una costan- q 57 te e penetrante analisi di proporzione. Pertanto, se l’art. 7 St. lav. protegge il dipendente nella sua dignità e gli consente di conoscere in anticipo quali critiche gli stiano per essere rivolte, l’art. 2106 cod. civ. apre il potere alla cognizione del giudice ed incide sul versante sostanziale, non solo su quello formale. Quindi, con l’accertamento giudiziale, quelle disciplinari assumono una effettiva natura di sanzione, ma, al tempo stesso, il conflitto trova una definizione compiuta, non solo una composizione provvisoria, rimessa alle determinazioni dell’impresa. L’inadempimento provoca, in via simultanea, un dialogo, spesso duro, fra il datore di lavoro ed il prestatore di opere ed uno non meno intenso fra il primo ed il giudice, alla ricerca di una sanzione applicata in modo legittimo, conforme a giustizia, coerente con i fatti e proporzionata all’illecito. In questi vari raccordi sta l’inevitabile complessità del potere, nella delicata mediazione di ragioni contrapposte e di difficile conciliazione e nell’ambizione a proteggere l’interesse del datore di lavoro ad una rapida risposta e quello del lavoratore ad una misura conforme a giustizia. In questa logica, il dialogo fra il giudice ed il datore di lavoro non è mediato dal contratto collettivo o dal codice, che si limitano a riepilogare illeciti comunque sottoposti ad una valutazione di proporzione. NOTE (1) V.: PERA, Il licenziamento come sanzione disciplinare, in Giust. civ., 1983, I, 19 ss.; LAMBERTUCCI, Il licenziamento c. d. disciplinare al vaglio della Corte costituzionale, in Giur. it., 1982, I, 1, 1040; AMOROSO, Commento all’art. 7, in AMOROSO - DI CERBO - MARESCA, Il diritto del lavoro, II, Statuto dei lavoratori e disciplina dei licenziamenti, Milano, 2001, 180 ss.. (2) V. Cass., sez. un., 1 giugno 1987, n. 4823, in Foro it., 1987, I, 2031, con nota di DE LUCA, Il licenziamento disciplinare dalla Corte costituzionale alle Sezioni unite: opzione per la tesi “ontologica”, chiara definizione dei ruoli, coerente assetto delle fonti; Cass. 20 ottobre 2000, n. 13906, in Foro it. rep., 2000, v. Lavoro (rapporto), n. 610; Cass. 20 luglio 1998, n. 7103, in Not. giur. lav., 1998, 718. (3) V. Corte costituzionale 29 novembre 1982, n. 204, in Giust. civ., 1983, I, 19; Corte costituzionale 18 luglio 1989, n. 429; Corte costituzionale 23 novembre 1994, n. 398, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 3, con nota di PERA, Il licenziamento viziato nella forma da parte del piccolo datore di lavoro: una sentenza contraddittoria. (4) V. Cass., sez. un., 30 marzo 2007, n. 7880; v. già Cass. 2 marzo 2006, n. 4614. In senso più attenuato, con riguardo all’applicazione del licenziamento del 58 q dirigente del principio di necessaria tempestività, v. Cass. 22 settembre 2005, n. 18620, in Guida dir., 2005, fasc. 42, 69; Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, in Gius, 2003, 1852. In precedenza, sul fatto che l’art. 7 St. lav. sarebbe stato inapplicabile al dirigente in posizione apicale, v. Cass. 13 maggio 2005, n. 10058, in Lav. giur., 2006, 290; Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, in Lav. giur., 2003, 741, con nota di DUI; Cass. 15 novembre 2001, n. 14230, in Orient. giur. lav., 2002, I, 61. In generale, nel passato, sulla pretesa inesistenza di un licenziamento disciplinare in senso stretto nel caso dei dirigenti, v. Cass. 27 agosto 2003, n. 12652, in Gius, 2004, 531. (5) V.: TREMOLADA, Il licenziamento disciplinare, Padova, 1993, 29 ss.. (6) MONTUSCHI, Il licenziamento disciplinare secondo il “diritto vivente”, in Riv. it. dir. lav., 1996, I, 13 ss.; DE LUCA, La nuova disciplina dei licenziamenti individuali (legge 11 maggio 1990, n. 108), campo di applicazione delle “tutele” e giustificazione dei licenziamenti, in Foro it., 1990, V, 337 ss.. (7) Invece, cfr. Cass. 7 settembre 1993, n. 9390, in Mass. giur. lav., 1993, 671; Cass. 3 giugno 1992, n. 6741, in Giust. civ., 1993, I, 81; Cass. 4 marzo 1992, n. 2596, in Dir. e prat. lav., 1992, 1148; Cass. 5 dicembre 1991, n. 13097, in Giust. civ., 1992, I, 2403; Cass. 25 settembre 1991, n. 9993, in Not. giur. lav., 1992, 254. (8) Cfr. Cass. 22 gennaio 1991, n. 542, in Foro it., 1992, I, 1142, con nota di DE LUCA; Cass., sez. un., 26 aprile 1994, n. 3965 e n. 3966, ibid., 1994, I, 1708, con nota di AMOROSO, Nuovo intervento delle Sezioni unite in tema di licenziamento disciplinare; Cass. 18 maggio 1994, n. 4844, ibid., 1994, I, 2976, con nota di MAZZOTTA, “La terra è piatta?” “Forse ...” (A proposito di licenziamento disciplinare illegittimo e sanzioni conseguenti). (9) V. Cass. 9 giugno 1993, n. 6410, in Mass. giur. lav., 1993, 467; Cass. 4 marzo 1993, n. 2596, in Dir. prat. lav., 1993, 1203; Cass. 24 febbraio 1993, n. 249, in Foro it., 1993, I, 1848. (10) Cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 1995, n. 6041, in Nuova giur. civ. comm., 1996, I, 204, con nota di P. SCOGNAMIGLIO, Licenziamento disciplinare del dirigente ed applicabilità delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 St. lav., per cui “gli obblighi della preventiva contestazione e della attribuzione di un termine a difesa non riguardano il licenziamento del dirigente di aziende industriali e, cioè, del prestatore di lavoro che, collocato al vertice dell’organizzazione aziendale, svolge mansioni tali da caratterizzare la vita dell’azienda con scelte di respiro globale, e si pone in un rapporto di collaborazione fiduciaria con il datore di lavoro dal quale si limita a ricevere direttive di carattere generale, per la cui realizzazione si avvale di ampia autonomia, ed anzi esercita i poteri propri dell’imprenditore (del quale è un q 59 alter ego) assumendone, anche se non sempre, la rappresentanza esterna. La suddetta esclusione non si estende anche al cosiddetto pseudo - dirigente o dirigente convenzionale, relativamente al quale le mansioni attribuite ed esercitate non hanno le caratteristiche tipiche del rapporto dirigenziale”. In senso critico sulla contrapposizione fra dirigenti con responsabilità apicali e pseudo - dirigenti, ai fini della disciplina del recesso disciplinare, cfr. PAPALEONI, La frontiera mobile del licenziamento del dirigente e la persistente incertezza del versante sanzionatorio, nota a Cass. 11 febbraio 1998, n. 1434 ed altre, in Mass. giur. lav., 1998, 266 ss.. Sulle implicazioni di questa nota pronuncia, v. PERA, Non esiste il licenziamento c. d. disciplinare del dirigente?, in Giust. civ., 1995, I, 1760 ss.; PILEGGI, Le Sezioni Unite promuovono un contrasto di giurisprudenza sul licenziamento disciplinare del dirigente, in Dir. lav., 1996, I, 156 ss.; AMOROSO, Le Sezioni Unite non ammettono il licenziamento disciplinare del dirigente, in Dir. lav., 1995, II, 89 ss.. (11) Sull’alternativa teorica posta dalla giurisprudenza in ordine alla configurazione del recesso del dirigente, v. DE ANGELIS, Il licenziamento disciplinare del dirigente. Essere dell’ontologia o non essere del potere disciplinare?, in Riv. giur. lav., 1997, I, 17 ss.. V. anche TREGLIA, Licenziamento del dirigente: negata l’applicabilità dell’art. 7 St. lav., in Lav. giur., 1995, 1009 ss.. (12) V. Trib. Milano 10 settembre 1997, in Riv. crit. dir. lav., 1998, 190, per cui non è “giustificato il licenziamento del dirigente che non sia sorretto da motivi di una certa consistenza e ragionevolezza, tenendo conto delle posizioni e dei contrapposti interessi delle parti. In particolare, non può ritenersi contestabile il modo in cui il dirigente perviene a un risultato utile all’azienda, a meno che non gli si imputi di avere agito o in modo scorretto od illecito; nemmeno è censurabile l’avere posto all’azienda l’alternativa fra le proprie dimissioni e la risoluzione del rapporto con un consulente, perché il dirigente può disporre del proprio rapporto di lavoro e può e deve esprimere i propri giudizi e convinzioni nelle questioni sulle quali è chiamato a operare e rispondere”. (13) Cfr. Pret. Milano 15 aprile 1996, in Lav. giur., 1996, 761, per cui “non integra gli estremi della giusta causa e neppure del giustificato motivo di licenziamento una serie di azioni od omissioni continuate, non tempestivamente contestate ad un dirigente ed indicate in modo molto generico, dispiegatesi nell’arco di tempo di un anno prima del recesso, riassumibili nel non essersi adoperato a sufficienza nell’impulso e controllo della nuova attività di penetrazione in un mercato estero intrapresa dalla società datrice di lavoro, posto che gli scarsi risultati della nuova attività intrapresa dalla società 60 q hanno molto a che vedere col normale rischio imprenditoriale, piuttosto che con una pretesa incapacità del dirigente al quale non sono stati contestati comportamenti precisi e circostanziati con sicura efficacia concausale nella verificazione del lamentato insuccesso”. (14) V.: ROMAGNOLI, Per una rilettura dell’art. 2086 cod. civ., in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, 1059 ss.. (15) V. Cass. 21 luglio 2001, n. 9950, in Not. giur. lav., 2001, 675. (16) Sulle varie posizioni della giurisprudenza, cfr. R. MAGNANI, Recenti orientamenti della Corte di cassazione in materia di licenziamento del dirigente, in Dir. lav., 1997, I, 410 ss.; TOFFOLI, Il licenziamento disciplinare dei dirigenti, ibid., 1995, I, 175 ss.. (17) V. Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, cit.. (18) V.: TOSI, La questione del licenziamento c. d. disciplinare del dirigente d’azienda, in Questioni attuali di diritto del lavoro, Suppl. Not. giur. lav., 1989, 187 ss.. (19) Cfr. Cass., sez. un., 26 aprile 1994, n. 3966, cit.; Cass., sez. un., 18 maggio 1994, n. 4844, cit.. In senso critico, v. PERA, Il licenziamento viziato nella forma da parte del piccolo datore di lavoro: una sentenza contraddittoria, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 4 ss.. (20) V. anche TIRABOSCHI, Area di libera recedibilità, licenziamento disciplinare e violazione di regole procedurali: un’importante pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite sulla struttura causale del negozio di recesso, in Orient. giur. lav., 1994, 602 ss.. (21) V.: MONTUSCHI, Potere disciplinare e rapporto di lavoro privato, in Quad. dir. lav. e rel. ind., 1991, 9 ss.. (22) Cfr. FERRANTE, Forma e procedura del licenziamento. Il licenziamento disciplinare, in AA. VV., Il lavoro subordinato, a cura di F. CARINCI, tm. III, Il rapporto individuale di lavoro: estinzione e garanzie dei diritti, a cura di MAINARDI, Torino, 2007, 209 ss., che, in senso adesivo a questa tesi, ripresa dalla giurisprudenza costituzionale, sottolinea che “l’esaltazione del principio del contraddittorio come diritto fondamentale di rilievo primario, del resto, è già contenuta nella storia normativa dell’art. 7, nel quale non è difficile intravedere non solo la trasposizione in ambito privatistico del diritto disciplinare, comune alla regolazione dell’impiego pubblico di tutta la tradizione continentale, ma altresì una epifania di quel principio del giusto processo, che costituisce uno dei cardini dell’ordinamento statunitense, quale emanazione del c. d. «due process clause»”. (23) In senso critico sulle indicazioni della giurisprudenza, v. SUPPIEJ, La Corte costituzionale legifera sui licenziamenti disciplinari?, nota a Corte costituzionale 20 novembre 1982, n. 204, in Riv. it. dir. lav., 1983, II, 214 ss.. q 61 (24) Invece, in senso opposto, v. Cass., sez. un., 28 marzo 1981, n. 1781, in Riv. giur. lav., 1982, II, 132, con nota di FRATTINI, Il licenziamento disciplinare come sanzione e l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori: alcune considerazioni. (25) V.: PISANI, Licenziamento e fiducia, Milano, 2004, 37 ss.. (26) Sulla scorta della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, v. FERRANTE, Forma e procedura del licenziamento. Il licenziamento disciplinare, loc. cit., 211 ss., il quale, peraltro (v. pag. 213), riferisce l’art. 7 St. lav. anche all’ipotesi del licenziamento per giusta causa dovuta a fatti estranei all’esecuzione delle mansioni, mentre questa ultima affermazione non è persuasiva, perché in tale ipotesi non si discute di un “rimprovero”, ma di fatti lesivi dell’interesse dell’impresa alla sua immagine sul mercato e della sua fiducia sulla credibilità del prestatore di opere. (27) Cfr. F. CARINCI, Diritto privato e diritto del lavoro: uno sguardo dal ponte, in AA. VV., Il lavoro subordinato, a cura di F. CARINCI, tm. I, Il diritto sindacale, a cura di PROIA, Torino, 2007, LXXXVII ss.. (28) V.: NOGLER, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i “principi” costituzionali, testo provvisorio, 2007, 9 ss.. (29) V.: F. BENVENUTI, Le sanzioni amministrative come mezzo dell’azione amministrativa, in AA. VV., Le sanzioni amministrative, Atti del XXVI Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Milano, 1982, 42 ss.. (30) V.: BUONCRISTIANO, Profili della tutela civile contro i poteri privati, Padova, 1986, 282 ss., e, dello stesso A., I poteri del datore di lavoro, in Tratt. dir. priv., diretto da P. RESCIGNO, ed. I, vol. XV, tm. I, Torino, 1986, 573 ss.; R. PESSI, Il potere direttivo dell’imprenditore e i suoi nuovi limiti dopo la legge 20 maggio 1970, n. 300, in Dir. lav., 1973, I, 60 ss.; MAGRINI, Lavoro (contratto individuale), in Enc. dir., vol. XXIII, 369 ss.; PERULLI, Il potere direttivo dell’imprenditore, Milano, 1992, 110 ss.; ZOLI, Subordinazione e poteri dell’imprenditore tra organizzazione, contratto e contropotere, in Lav. dir., 1997, 240 ss.. (31) V.: MENGONI, Il contratto di lavoro nel diritto italiano, in AA. VV., Il contratto di lavoro nel diritto dei Paesi membri della Ceca, Milano, 1965, 59 ss.. (32) Cfr. MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, in Comm. cod. civ., a cura di SCHLESINGER - BUSNELLI, Milano, 2002, 16 ss.. (33) Invece, v. SUPPIEJ, La struttura del rapporto di lavoro, Padova, 1963, vol. I, 79 ss.. (34) V.: BUONCRISTIANO, I poteri del datore di lavoro, loc. cit., 19 ss.. (35) Cfr. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, 1966, 149 ss.. 62 q (36) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., 23 ss., con espresso rinvio a MENGONI, Le modificazioni del rapporto di lavoro alla luce dello Statuto dei lavoratori, in AA. VV., L’applicazione dello Statuto dei lavoratori, Milano, 1974, 24 ss.. (37) Sulla distinzione fra la responsabilità disciplinare e quella per inadempimento, v. G. F. MANCINI, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957, 26 ss.; ZOLI, Inadempimento e responsabilità per colpa del prestatore di lavoro, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1983, 1269 ss.. (38) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., 36 ss.. (39) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., 36 ss.. (40) Cfr. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, cit., 197; BUONCRISTIANO, I poteri del datore di lavoro, loc. cit., 575 ss.; MARAZZA, Saggio sull’organizzazione del lavoro, Padova, 2001, 348 ss.. (41) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., 36 ss.. (42) Cfr. Cass. 7 agosto 2006, n. 17799; Cass. 13 aprile 2006, n. 8679; Cass. 21 aprile 2005, n. 8303, in Mass. giur. lav., 2005, 634. (43) Ad esempio, v. Cass. 19 agosto 2004, n. 16260, in Lav. giur., 2005, 845, con nota di BELLUMAT, per cui, “in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non già l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti”. (44) Cfr. Cass. 7 aprile 2004, n. 6823, in Lav. giur., 2004, 1198. (45) V. Cass. 11 marzo 2004, n. 5013, in Gius, 2004, 2996. (46) V. Cass. 19 agosto 2003, n. 12161, in Gius, 2004, 364. (47) Cfr. Cass. 15 febbraio 2003, n. 2336, in Mass. giur. lav., 2004, 110. (48) Per sua natura, la soluzione del problema dipende dalla ricostruzione della categoria della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo. (49) Cfr. Cass. 4 dicembre 2002, n. 17208, in Lav. giur., 2003, 344, con nota di MANNACIO. q 63 64 q Programma Relatori Temi trattati Sintesi degli argomenti sviluppati q 65 I giornata - 19 gennaio 2007 Relatori: Dott. Tommaso Colajacovo, Dott. Daniele Quadrelli, Dott. Francesco Siniscalco, Dott. Valentino Cattani. Temi trattati: Introduzione e logiche di sistema. Sintesi degli argomenti sviluppati Introduzione: logiche, sistema e ruolo; il sistema di relazioni sindacali nel Credito Cooperativo; il ruolo di Federcasse e delle Federazioni locali; l'Area risorse umane della Federazione e i servizi diponibili per le Bcc: ruoli e responsabilità nella gestione del personale in Bcc; Consigli d'amministrazione, Direttori, capi intermedi, Responsabili aree risorse umane. Le strumentazioni di gestione delle risorse umane. La valutazione delle competenze: rilevare il patrimonio di esperienze, capacità e conoscenze di successo da riconoscere, remunerare e sviluppare per assicurare la crescita dell'organizzazione. L'ambito di rilevazione riguarda sia i comportamenti ma anche tipologie di conoscenze tecniche. Le stratificazioni retributive. I sistemi incentivanti o premianti, il premio di risultato, la negoziazione collettiva tra nazionale, regionale e aziendale. Le risposte organizzative. Cambiamenti rapidi e ricorrenti. La flessibilità. La modificazione dei ruoli. Carriere meno lineari, oblique, a scatti. Il monitoraggio del patrimonio di competenze. L'orientamento dell'azione del personale in senso strategico, la razionalizzazione dei costi. La mappa delle risorse. 66 q II giornata - 5 febbraio 2007 Relatori: Avv. Luca Zaccarelli Temi trattati: Le retribuzioni. Sintesi degli argomenti sviluppati Il prospetto di paga, visto che si trattano le tematiche relative all’amministrazione del personale, disciplinato dalla Legge 4/1953. La busta paga: che cos’è, quando va consegnata e cosa deve contenere. La retribuzione sotto il profilo civilistico, cioè come corrispettivo della prestazione di lavoro e quale obbligazione del datore di lavoro nei confronti del lavoratore. Le assenze come possibile deroga al principio di corrispettività della prestazione conto/retribuzione. Gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali disciplinati per lo più da un Testo Unico che è il D.P.R. 30 giugno 1965 n°1124. Reddito da lavoro dipendente ai fini previdenziali e ai fini fiscali, è quel reddito che deriva da rapporti aventi ad oggetto la prestazione di lavoro con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione altrui. I buoni pasto quale buono di lavoro e l’effettivo utilizzo ad essi correlato. q 67 III giornata - 12 febbraio 2007 Relatori: Avv. Luca Zaccarelli Temi trattati: Le sanzioni Le ispezioni Sintesi degli argomenti sviluppati Le sanzioni: sanzioni penali e sanzioni amministrative. Hanno un carattere affittivo, intendono cioè affliggere, punire, sanzionare. La stragrande maggioranza delle sanzioni amministrative, che trovano il loro riferimento nella Legge 689 del 1981, in materia di rapporti di lavoro è di carattere pecuniario. Le stesse, secondo il principio di legalità, si possono applicare soltanto quando sono previste da una legge che sia entrata in vigore prima della commissione del fatto illecito, come avviene anche per le sanzioni penali. Hanno natura strettamente personale e individuale. Le sanzioni penali: delitti e contravvenzioni. In materia di rapporti di lavoro la stragrande maggioranza dei reati sono contravvenzioni. La distinzione dipende dal tipo di sanzione: se il reato è punito con l’arresto o l’ammenda è una contravvenzione; se è punito con la multa, la reclusione o l’ergastolo è un delitto. Le sanzioni penali vengono applicate da un’Autorità Giudiziaria, quelle amministrative da un’Autorità Amministrativa. Le ispezioni Hanno l’obiettivo della lotta all’evasione e/o all’elusione contributiva. Possono essere di 2 tipi: l’ispezione generale amministrativa e l’ispezione a “commessa limitata”. Possono essere svolte da funzionari di Enti diversi (INPS, INAIL, Direzione Provinciale del Lavoro), ed essere “singole”, di due o più enti, coordinate o integrate. Il compito dell’ispettore del lavoro è quello di vigilare sull’osservanza delle leggi in materia di lavoro mentre quelli previdenziali vigilano sull’osservanza degli obblighi previdenziali e contributivi di competenza. Potere di fondamentale importanza degli Ispettori del Lavoro è quello di accesso, ovvero la possibilità di accedere nei luoghi di lavoro in qualsiasi ora del giorno e della notte, quando vi sia fondato motivo di ritenere in essere una violazione di legge. 68 q IV giornata - 20 febbraio 2007 Relatori: Prof. Avv. Alberto Pizzoferrato Temi trattati: L'instaurazione del rapporto di lavoro subordinato Sintesi degli argomenti sviluppati Aspetti di novità legati al tema del collocamento e agli adempimenti da attuare in materia di assunzioni. Tema, quello della mediazione tra domanda e offerta di lavoro, sul quale c’è stata un’evoluzione normativa importante. Fino agli anni 90’ era in vigore la Legge 264 del ‘49 che prevedeva il monopolio esclusivo del collocamento da parte dei soggetti pubblici, nessun altro soggetto privato poteva interferire nell’attività di mediazione e nel procedimento di avviamento al lavoro, che aveva natura vincolistica prima di giungere alla vera e propria assunzione. In sostanza solo passando attraverso l’ufficio di collocamento si poteva procedere all’assunzione; era una gestione rigidamente ancorata nelle mani dello stato. Sistema che viene smantellato dall’evoluzione normativa, ad opera della Legge 223 del ‘91, della 608 del ‘96, della 196 del ‘97, per passare al collocamento come servizio pubblico, quindi attività che non richiede l’esercizio di pubblici poteri autoritativi e può essere svolta anche da soggetti privati. Viene meno il monopolio esclusivo nell’intermediazione e viene meno anche la gestione statale, perché viene decentrata secondo un modello amministrativo introdotto dalla prima Legge Bassanini, cioè la 56 del ‘97, in base alle quale poi interverrà il decreto legislativo 469 del ‘97. Attraverso tale decreto si realizza il passaggio di funzione amministrativa del lavoro, dal versante ministeriale, statale, a quello regionale. Adempimenti necessari e connessi alla fase di assunzione: i testi normativi di riferimento sono da un lato il Dlgs. 181 del 2000 e dall’altro il Dlgs. 297 del 2002 e da ultimo, prima del Decreto Bersani, la Legge 248 del 2006 e poi della Legge Finanziaria per il 2007, la Legge 296 del 2006. q 69 V giornata - 27 febbraio 2007 Relatori: Prof. Avv. Enrico Gragnoli Temi trattati: La risoluzione del rapporto di lavoro Sintesi degli argomenti sviluppati La disciplina del licenziamento rappresenta il tema più complesso dal punto di vista pratico. Si prenderanno poi in considerazione il problema delle dimissioni, il problema del preavviso, che è comune alle dimissioni e al licenziamento, e i casi di licenziamento in cui si deroga al principio generale su cosiddetto principio di giustificazione, cioè sulla necessità per lo stesso di essere sorretto da un giustificato motivo, l’art.3 della Legge 604 del ‘67. I principali casi che saranno presi in considerazione riguardano i rapporti di lavoro che si estinguono per licenziamenti non dovuti a giustificato motivo soggettivo o oggettivo, ovvero i casi in cui il datore di lavoro estingue un rapporto senza doverlo motivare: il licenziamento del lavoratore anziano, del lavoratore in prova, del dirigente e dell’apprendista. Il licenziamento dell’apprendista:durante il periodo di apprendistato, il rapporto di lavoro è equiparato ad un qualsiasi rapporto di un qualunque lavoratore. Nel momento in cui il periodo di apprendistato giunge al termine, il lavoratore diventa licenziabile, senza che il datore debba spiegare il perché e senza che il giudice possa porre il problema di vedere se lo stesso è giustificato o ingiustificato. Il licenziamento del lavoratore in prova: non deve essere motivato, o meglio non succede niente se non è presente la motivazione. Se invece è presente è molto più facile per il lavoratore poter attaccare il licenziamento stesso. L’unico caso in cui si richiede la motivazione è quello della donna in stato interessante che abbia preventivamente presentato il certificato. Le ipotesi che il lavoratore ha per protestare tale forma di licenziamento sono sostanzialmente 3: il licenziamento discriminatorio, il positivo superamento della prova (da dimostrare) e la troppo breve durata del periodo di prova Il licenziamento del lavoratore anziano: ad una determinata età, se il lavoratore non si dimette, il datore acquista il potere di intimare un licenziamento libero. E l’età sono i 65 anni, secondo la giurisprudenza dominante, sia per l’uomo che per la donna, prorogabili a 67. questo perché si presume che tutti i lavoratori abbiano acquisito il diritto alla pensione di vecchiaia. 70 q Il licenziamento del dirigente: ha 2 forme di tutela, un periodo di preavviso molto lungo (intorno all’anno) e l’indennità supplementare a cui ha diritto il lavoratore laddove si accerti che il licenziamento intimato dal datore è ingiustificato. A prescindere però che ci sia o non ci sia giustificato motivo soggettivo o oggettivo, il rapporto di lavoro con il dirigente si estingue per la volontà del datore di intimare il licenziamento. Dimissioni: atto unilaterale con cui il lavoratore pone termine al rapporto. Si verificano in 2 casi: si estingue il rapporto senza addebitare alcun comportamento illecito al datore di lavoro (dimissioni), oppure la scelta è provocata da un comportamento illecito del datore di lavoro (dimissioni per giusta causa). Preavviso: si parla di preavviso in caso di dimissioni, perché in realtà, nei casi di licenziamento, è rarissimo. O si raggiunge un accordo e in questo caso parliamo di risoluzione consensuale differita, oppure il datore intima il licenziamento per una giusta causa e allora il preavviso non è dovuto; altra situazione si verifica laddove il datore paga l’indennità sostitutiva e manda fuori da subito il lavoratore. La Giurisprudenza non rinuncia però alla teoria dell’efficacia reale del preavviso: il preavviso va fatto e va fatto in modo completo. q 71 VI giornata - 23 marzo 2007 Relatori: Prof. Avv. Germano Dondi Avv. Annalisa Nicoli Dott.ssa Anna Montanari Prof.ssa Susanna Palladini Temi trattati: La riforma del sistema pensionistico Sintesi degli argomenti sviluppati Prima fase: D.lsg n°503/1992 (cd. Riforma Amato). Obiettivo di stabilizzare il rapporto tra spesa previdenziale e prodotto interno lordo, garantendo trattamenti pensionistici obbligatori omogenei. Si eleva l’età pensionabile da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini (in modo graduale tra il ‘94 e il ‘99). Viene elevata la contribuzione minima per la pensione di vecchiaia da 15 a 20 anni (tra il 1993 e il 2000). Il divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro, prima in vigore solo per i redditi da lavoro dipendente, è esteso anche al lavoro autonomo (eccetto che per i lavoratori pensionati al 31 Dicembre 1993). Seconda fase: Legge n° 335/1995 (cd. Riforma Dini). Da un sistema di calcolo delle pensioni di tipo retributivo (imperniato sulla media delle retribuzioni degli ultimi 10 anni lavorativi), si passa, dopo un periodo transitorio, al sistema contributivo (basato sull’ammontare dei contributi versati in tutta la vita lavorativa). L’età pensionabile varia ora in base all’anzianità contributiva posseduta, cioè al numero di contributi accreditati. Le pensioni di anzianità sono destinate a scomparire con effetto dal 2009; nel periodo 1996-2008 si attua un regime transitorio con la modifica dei requisiti già vigenti al 31 Dicembre 1995. Relativamente alla previdenza complementare, viene garantito il decollo dei fondi pensione disciplinati dal D.lgs n°124 del 1993. Terza fase: Legge n°449/1997 (cd. Riforma Prodi). Riforme giustificate dall’esigenza di mantenere i parametri per l’ingresso in Europa. Inasprimento dei requisiti di età per conseguire, nel periodo transitorio fino al 2008, la pensione di anzianità. Aumento dell’onere contributivo a carico dei lavoratori autonomi. Eliminazione, o comunque sensibile riduzione, della perequazione automatica per le pensioni di importo elevato. Quarta fase: Legge n° 243/2004. Ha l’obiettivo di assicurare la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico e di completare il processo di separazione tra 72 q assistenza e previdenza pubblica. I punti principali di tale riforma riguardano la certificazione, da parte dell’ente previdenziale di appartenenza, del diritto alla pensione di anzianità ed alla pensione nel sistema contributivo al raggiungimento, al 31 Dicembre 2007, dei requisiti previsti dalla normativa previdente. Si potenzia la previdenza complementare, con il conferimento automatico, salva diversa esplicita volontà espressa dal lavoratore, del trattamento di fine rapporto maturando, alle forme pensionistiche complementari (delega attuata con D.lgs n°252/2005). Incentivo al posticipo del pensionamento tra il 2004 e il 2007 (cd. Bonus). Dal 1 Gennaio 2008 la pensione di vecchiaia sarà liquidata esclusivamente con il sistema contributivo e, fermo restando il requisito di anzianità contributiva di almeno 35 anni, si accederà alla pensione di anzianità con requisiti anagrafici più elevati. Inoltre, ampliamento progressivo della possibilità di sommare periodi assicurativi presso enti diversi (D.lgs n°42/2006) ed eliminazione dei divieti di cumulo ancora esistenti tra pensioni e redditi da lavoro. q 73 VII - VIII giornata - 28-29 marzo 2007 Relatore: Dott. Angelo Contessa Temi trattati: La Programmazione Neuro Linguistica (PNL) Sintesi degli argomenti sviluppati La P.N.L è una neuroscienza nata negli anni ‘70 in California ad opera di due studiosi: Richard Bandler (matematico e cibernetico) e John Grinder (professore di semantica), i quali si chiesero come mai gli allievi di uomini di successo non ottenevano gli stessi ottimi risultati. Bandler e Grinder decodificarono un metodo che oggi consente a chiunque di ottenere ottimi risultati in molteplici campi di applicazione. La P.N.L, infatti, è una metodologia che insegna alle persone il come educare la propria mente, invece che sul cosa educarla. Programmazione: perché durante la nostra esistenza ci programmiamo costruendo, dopo aver elaborato le informazioni. Se stabiliamo un’analogia con l’informatica, riteniamo che per tutta la vita il cervello, ossia l’hardware, rimanga grosso modo uguale. Ciò che invece possono cambiare sono le programmazioni subite o prodotte: cioè il nostro software. Neuro: perché tale capacità di programmarci dipende dalla nostra attività neurologica; la P.N.L. agisce, quindi, direttamente sulla nostra organizzazione neurologica, analizzando il modo di pensare di ogni individuo, per ottenere informazioni riguardanti il suo modo di costruire biologicamente le esperienze del mondo. Linguistica: in quanto la programmazione si determina attraverso il linguaggio, il quale struttura ed esplica il nostro modo di pensare. 74 q IX giornata - 16 aprile 2007 Relatori: Prof. Avv. Enrico Gragnoli Avv. Luca Zaccarelli Temi trattati: Obblighi e diritti dei lavoratori Sintesi degli argomenti sviluppati Obbligo di fedeltà: art. 2015 del Codice Civile. Ha contenuti molto specifici e settoriali che sono essenzialmente tre: non fare concorrenza al datore di lavoro, non divulgare informazioni del datore di lavoro, non usare le informazioni riservate del datore di lavoro. Molto importanti all’intesto del sistema bancario sono il divieto di usare l’informazione acquisita durante lo svolgimento dell’attività lavorativa e quello di divulgarla, trasferendo a terzi informazioni in cambio di denaro o di altre utilità economiche. L’articolo non distingue tra comportamenti dovuti a dolo o a colpa, tra comportamenti dovuti a trascuratezza o a desiderio di arricchirsi, tra comportamenti fatti per diverse motivazioni, è di per se illegittimo il divulgare o l’utilizzare le informazioni. Trattamento dei dati personali Posta elettronica. I messaggi di posta elettronica inviati ad una persona fisica anche all’interno dell’impresa sull’indirizzo che identifica una persona fisica, sono corrispondenze e non possono essere aperti dal datore di lavoro. Verifica impronte digitali. In nessun caso può essere sottoposto a verifica dei dati biometrici il dipendente. E quindi in nessun caso e per nessuna ragione ci possono essere dei meccanismi di controllo delle presenze, di ammissione agli interni della banca, di registrazione che presuppongano un controllo dei dati biometrici. I problemi di amministrazione del personale. Il curriculum: presenta un solo vincolo,ed è l’unica cosa che conta, è che non si può dare a terzi. Dati sensibili dei lavoratori: il fatto di essere assente per malattia, senza che sia specificata la diagnosi non rappresenta dato sensibile. Diversa è la situazione in cu ci sia la diagnosi. Il caso più facile è quello di infortunio da malattia professionale e l’altro è quello in cui il lavoratore che è ammalato, dichiara la sua malattia e per sue ragioni inserisce la diagnosi. In queste situazioni occorre che i documenti siano custoditi con un livello più alto di riservatezza. Note di qualifica: tutte le relazioni del capo ufficio, del capo servizio e dei supe- q 75 riori gerarchici preparatorie all’audizione del giudizio finale sulla nota di qualifica sono pubbliche. Il lavoratore ha diritto di averne copia, può esercitare il diritto di accesso. Il libro di matricola. Art. 24 e seguenti del d.p.r. 1124 del 1965. In origine e cioè nel testo unico dell’INAIL del 1965, quando fu concepito e approvato, lo scopo del libro di matricola e del libro di paga, era prevalentemente uno scopo con finalità assicurative, cioè il controllo dei soggetti che erano assicurati all’INAIL. Il libro di matricola è uno per il datore di lavoro dove vanno registrati tutti i dipendenti e, da quando è stato previsto l’obbligo INAIL con l’entrata in vigore del D.Lgs n°38/2000, anche tutti i collaboratori coordinati e continuativi. 76 q X giornata - 17 aprile 2007 Relatore: Avv. Tommaso Tommesani Temi trattati: I poteri del datore di lavoro Sintesi degli argomenti sviluppati I poteri e limiti del datore nella gestione del rapporto. Il datore di lavoro è capo dell’impresa e da lui dipendono i collaboratori che lui stesso organizza in una scala gerarchica, in questo senso si parla del potere gerarchico che altro non è che una faccia del potere direttivo o meglio, il potere di organizzare in una struttura piramidale i dipendenti in modo da ottenere il risultato produttivo. Il lavoratore viene descritto come soggetto che collabora all’attività dell’impresa, inserito all’interno di un’organizzazione altrui e lavora alle dipendenze (art. 2094 c.c.) e sotto la direzione dell’imprenditore. La dottrina parla di poteri giuridici in senso proprio, cioè di posizioni giuridiche di vantaggio esercitate discrezionalmente e nell’interesse proprio del titolare, cioè funzionarie al raggiungimento degli obiettivi che il titolare si è prefisso: il raggiungimento degli scopi produttivi. Ai poteri si contrappongono i limiti, dettati anch’essi dal codice civile. Anzitutto la tutela della salute del lavoratore e dei lavoratori in generale, cioè la tutela delle condizioni di lavoro, prevista dall’articolo 2087 del codice civile, come tutela dell’integrità fisica e anche della personalità morale del lavoratore. La limitazione al potere di recesso, riguarda il tempo entro il quale il recesso stesso deve avere efficacia salvo che non ci sia una giusta causa. Terzo limite essenziale previsto dal codice è la modifica definitiva delle condizioni del contratto di lavoro subordinato per quello che concerne la mansione e il luogo di svolgimento della prestazione. C’è però anche un limite di carattere generale, che si aggiunge a questi che sono i più specifici ed è dato dai principi generali in tema di obbligazioni contratti, cioè i principi della correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto. Principi inseriti in due norme del codice civile: art. 1175 e art. 1375. Per quel che riguarda la discriminazione, la base testuale di tutta la normativa è il motivo illecito. Mentre per motivo illecito che vede in particolare il caso di licenziamento si parla di “unico e determinante”, nel caso dei divieti di discriminazione, invece, la normativa è riferita ad un aspetto oggettivo purchè ci sia la violazione in sostanza. Il potere direttivo è il primo e il fondamentale dei poteri del datore di lavoro. Si manifesta attraverso una serie di atti: gli ordini di servizio che riguardano lo q 77 svolgimento dell’attività lavorativa, le note di qualifica che riguardano il sistema di valutazione della prestazione professionale, il regolamento aziendale cioè la regolamentazione del comportamento in azienda del lavoratore. Il potere disciplinare. La regolamentazione sta in due norme: l’art. 2106 del c.c. per quello che riguarda l’aspetto sostanziale e l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori per quello che riguarda l’aspetto procedurale. L’articolo 2106 individua come delazione sanzionabile l’inottemperanza agli obblighi previsti a carico del datore di lavoro dai due articoli precedenti (artt. 2104-2105 c.c.) e fissa anche il principio di proporzionalità tra sanzione e violazione. Il potere di vigilanza e di controllo. Il contratto di lavoro subordinato prevede che ad una parte spetti il potere di dettare direttive e all’altra di eseguire queste disposizioni, che hanno risvolti di carattere disciplinare e risarcitorio. Il datore ha la possibilità di eseguire un controllo sia sull’adempimento dell’obbligo di prestazione, sia sul comportamento che il lavoratore tiene in azienda. L’osservanza delle disposizioni costituisce l’oggetto del controllo esercitato dal datore di lavoro. 78 q XI giornata - 23 aprile 2007 Relatore: Prof. Avv. Enrico Gragnoli Temi trattati: Le sanzioni e il licenziamento disciplinare Sintesi degli argomenti sviluppati La predeterminazione nel codice disciplinare degli illeciti e delle sanzioni è riportata ad una logica di garanzia del prestatore di opere, nonostante si sia rilevata la ampia sfera di discrezionalità dell’impresa. La previsione del codice ha la duplice funzione di cristallizzare il momento precettivo attinente alla disciplina e di temperare la portata intimidatoria intrinseca ai contenuti del codice, con un criterio complessivo che trova una rilevante eccezione in tema di licenziamento. L’onere di redazione e di affissione del codice disciplinare non si può estendere a quei fatti il cui divieto risiede non già nelle fonti collettive o nelle determinazioni del datore di lavoro, ma nella coscienza sociale, quale minimo etico. Dunque, nell’ipotesi di violazione di doveri basilari, non occorre la pubblicità di alcun testo di tipizzazione del comportamento illecito. La prova di avere dato adeguata pubblicità al codice, risulta necessaria quando il recesso sia fondato anche sul codice stesso. La necessaria predisposizione del codice disciplinare, rientra nella disciplina sulla procedura, poiché l’obiettivo dell’art. 7, primo comma, St. lav. non è una sorte di definizione dell’oggetto del contratto e degli obblighi relativi. La consolidata giurisprudenza sul licenziamento smentisce la tesi di chi vede nella compilazione e nella pubblicità del codice una sorta di requisito costitutivo dello stesso potere disciplinare. Le indicazioni del codice non incidono sul ricorrere della condotta illegittima, ma sul legittimo esercizio del potere, che, in tema di licenziamento, può avere luogo a prescindere dall’osservanza dell’art. 7, primo comma, St. lav. Il codice disciplinare si limita a collegare la sanzione corrispondente ad un fatto di per sé illecito. Il collegamento tra condotta e sanzione è governato dal criterio di proporzione voluto dall’art. 2106 cod. civ. Quindi, le implicazioni innovative della dichiarazione del datore di lavoro sono contenute e sovrastate dalle indicazioni legali cogenti, in specie da quelle del citato art. 2106 c.c. Ne derivano due conseguenze: per un verso l’art. 7, primo comma, St. lav. regola la procedura e, cioè i modi di esercizio del potere, per altro verso, nel codice prevalgono le componenti informative su quelle negoziali. Il licenziamento è ritenuto un negozio unilaterale e recettizio, la dichiarazione q 79 si perfeziona nel momento nel quale giunge a conoscenza del destinatario , nel rispetto dell’art.2 Legge n°604/1996. Non a caso, la comunicazione fa scattare il termine di decadenza per l’impugnazione . Come ogni atto per il quale sia prevista la forma scritta ad substantiam, il licenziamento deve essere firmato dal titolare del potere e, quindi, da persona che possa impegnare la società e, comunque, il datore di lavoro. La contestazione presuppone la sola descrizione, precisa, dei fatti addebitati, non la loro qualificazione dal punto di vista giuridico. Il celere esercizio del potere dell’art. 7 St. lav. è in sintonia con i principi di correttezza, poiché l’impresa non può procrastinare le sue iniziative, in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto. Il lavoratore, da par suo, in nessun modo ha l’obbligo di difesa nell’ambito del procedimento disciplinare, ne deve collaborare con informazioni od allegazioni all’esercizio dell’iniziativa del datore di lavoro, in particolare dopo la contestazione, così che la mancata risposta od una replica formale, senza affermazioni sul merito degli addebiti, non possono comportare alcuna conseguenza pregiudizievole, ne possono assumere rilievo nel successivo giudizio, nell’ambito del quale il dipendente licenziato ha ogni possibilità di agire. 80 q XII giornata - 30 aprile 2007 Relatore: Prof. Avv. Enrico Gragnoli Temi trattati: Licenziamento per giusta causa e conversione L'impugnazione stragiudiziale e quella giudiziale Sintesi degli argomenti sviluppati Il favore della giurisprudenza per la conversione del licenziamento per giusta causa in uno per giustificato motivo soggettivo si basa spesso su ragionevoli motivazioni equitative; la gravità delle conseguenze patrimoniali derivanti dall’illegittimità del recesso, induce il giudice a chiedersi se, esclusa l’esistenza di fati riconducibili alla giusta causa, non si possa riconoscere al dipendente il diritto all’indennità sostituiva del preavviso, senza l’applicazione di più incisive forme di tutela. Si cerca un punto di equilibrio fra i differenti interessi sostanziali e si ritiene possibile la conversione del licenziamento intimato per giusta causa in uno per giustificato motivo soggettivo, salvo il rispetto della regola generale dell’immutabilità della contestazione. Il dibattito sulle motivazioni della conversione, evoca quello sulla natura della giusta causa e sul suo raccordo con il giustificato motivo. Qualora sia applicabile l’art. 18 delle Legge n°300/1970, l’intensità della sanzione induce a trovare nella conversione un equilibrato contemperamento di fronte ad inadempimenti dei lavoratori di gravità non drammatica, non costitutivi di una giusta causa, ma che non rendono neppure pretestuoso il recesso. La conversione dei recessi individuali non può essere paragonata all’eventuale conversione dei licenziamenti collettivi in quelli per giustificato motivo oggettivo. Se si nega che il licenziamento per giusta causa costituisca una fattispecie di recesso straordinario e la giusta causa, lungi dal configurarsi come fattispecie costitutiva del potere di recesso, nel rapporto a tempo indeterminato, influisce sul diritto al preavviso e non sulla legittimità del recesso, non presenta particolari difficoltà la spiegazione dell’istituto della conversione. Al lavoratore che non ha eseguito le sue prestazioni per il periodo di preavviso e rivendica la corresponsione di tutti i diritti derivanti dall’inerenza reale della clausola di preavviso, il datore oppone un’eccezione, sostenendo che il rapporto si è estinto all’atto della dichiarazione di recesso per l’esistenza di una giusta causa idonea a paralizzare l’efficacia differita del negozio di recesso. Se la giusta causa è connessa al preavviso piuttosto che al recesso, non si pone un q 81 problema di conversione, ma si deve considerare in via prioritaria la legittimità del licenziamento e, poi, in relazione al più limitato aspetto del preavviso, si deve ricercare l’esistenza della giusta causa. Tuttavia, se si riconduce la giusta causa a mera condizione del venir meno di ogni pretesa sul preavviso, il licenziamento non necessita di alcuna conversione. La giusta causa ed il giustificato motivo di licenziamento costituiscono qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’una con effetto immediato, l’altra con preavviso. L’atto di impugnazione stragiudiziale è recettizio; è un atto singolare idoneo ad impedire la decadenza. Deve pervenire nel termine previsto e deve essere scritto. Basta rendere nota la volontà di reagire, senza la necessità di esporre tutte le censure. Per l’impugnazione giudiziale, in linea di massima, per la giurisprudenza sarebbe insufficiente il deposito del ricorso in cancelleria, ma, nel termine fissato, occorrerebbe la notificazione. Solo questa realizzerebbe la conoscenza del ricorso da parte del convenuto e l’impugnazione giudiziale dovrebbe avere le stesse connotazioni di quella stragiudiziale, nel rispetto di una comune natura recettizia. È stata peraltro considerata sufficiente, la notificazione di un ricorso ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., recante a margine la procura del difensore. 82 q XIII giornata - 4 maggio 2007 Relatori: Prof. Avv. Germano Dondi Avv. Annalisa Nicoli Dott.ssa Anna Montanari Dott.ssa Augusta Alesse Temi trattati: La responsabilità del lavoratore e dell'azienda • Obblighi fondamentali • Obblighi per il personale di cassa • Responsabilità civile verso terzi • Comportamento negligente e comportamento omissivo Il luogo della prestazione • Il trasferimento del lavoratore • Missioni e mobilità • Le modalità di trasferimento della prestazione • I motivi leciti ed illeciti • I rimedi nei casi di trasferimento illegittimo Sintesi degli argomenti sviluppati Le modificazioni del luogo di adempimento dell’obbligazione di lavoro. Il tema è disciplinato da norme risalenti nel tempo, in particolare norme dello Statuto dei lavoratori, che ha avuto interventi anche recenti nel DLG. 276 del ‘93 con riguardo all’istituto cosiddetto del “comando”. Gli argomenti che sono oggetto sono: lo spostamento del lavoratore nell’ambito dell’unità produttiva, il trasferimento del lavoratore, il comando del lavoratore. Lo spostamento del lavoratore all’interno della unità produttiva. Il potere del datore di lavoro di effettuare questi spostamenti interni trova dei limiti? La risposta la troviamo nell’art. 15, lett. b dello Statuto dei lavoratori. Lo Statuto dei lavoratori ha avuto il compito di affermare l’applicabilità di principi costituzionali all’interno dei luoghi di lavoro. Le esigenze aziendali possono giustificare degli spostamenti, questi spostamenti possono comportare la conservazione delle mansioni o mansioni equivalenti, ma lo spostamento non deve essere basato su ragioni di discriminazione variamente intese e non può essere contrario a principi di correttezza. La nozione di trasferimento. Non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra. Abbiamo la dif- q 83 ferenza concettuale tra trasferimento e spostamento. Il trasferimento è quello esterno all’unità produttiva, da una unità produttiva a un’altra. Lo spostamento è quello interno. Differenza tra trasferta e trasferimento: la differenza sta nella temporaneità del mutamento del luogo dell’adempimento dell’obbligazione di lavoro. C’è trasferta quando è previsto il rientro; viceversa il trasferimento è tendenzialmente duraturo, non è previsto un rientro; non necessariamente il trasferimento deve essere definitivo, può esserlo potenzialmente. In sostanza la differenza sta nella temporaneità secondo la dichiarazione che il datore di lavoro decide di assumere. Differenza tra trasferimento e comando. Il comando ha caratteristiche autonome. Ha caratteristiche di temporaneità. Il comando comporta che il luogo di adempimento è di un terzo, quindi la prestazione viene resa a favore di un terzo. Nel caso della trasferta, il vincolo organizzativo del lavoratore resta forte con il datore di lavoro che l’ha mandato in trasferta presso terzi. Il trasferimento collettivo. Il trasferimento collettivo non esiste in sé come negozio unitario, esiste una serie di trasferimenti individuali e una serie di licenziamenti. Il trasferimento collettivo che coincide con l’insieme dei lavoratori di una unità produttiva esula dall’art. 2103. Se il trasferimento riguarda più lavoratori ma non la totalità dell’unità produttiva, l’art. 2103 si applica come se si trattasse di un trasferimento individuale. Il trasferimento disciplinare. Il trasferimento non può essere un provvedimento disciplinare. Sanzioni per motivi illeciti. Se le ragioni tecniche, organizzative, produttive non ci sono, o c’è un motivo illecito unico determinante, il trasferimento è illegittimo ed è nullo per violazione di legge. Norme relative al contratto collettivo. Vengono trattate le specifiche normative agli argomenti in oggetto, con specifico riferimento a quanto contenuto nel contratto collettivo del settore. 84 q XIV giornata - 7 maggio 2007 Relatore: Prof. Avv. Enrico Gragnoli Temi trattati: Sicurezza e salute nei luoghi di lavoro Sintesi degli argomenti sviluppati Controllo a distanza dei lavoratori. L’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, norma molto combattuta e problematica, vieta l’introduzione di strumenti di videosorveglianza. La norma in questione si riferisce agli impianti audiovisivi di controllo, quindi agli impianti che consentono a distanza di vedere e di sentire quello che fa il lavoratore, mentre in nessun modo fa riferimento al computer. Ma come si applica la norma? È possibile installare impianti audiovisivi di controllo purchè essi abbiano finalità organizzative diverse dal controllo sui lavoratori. Le telecamere devono essere comunque autorizzate e tale autorizzazione può essere concessa in alternativa tra due soggetti: o dalla rappresentanza sindacale aziendale, o dalla rappresentanza sindacale unitaria, oppure dai servizi ispettivi della direzione provinciale del lavoro. Inoltre, così come previsto dal Decreto Legislativo 196/2003, i lavoratori sottoposti devono essere preventivamente informati. Tutela della sicurezza del lavoratore. La norma di riferimento è l’art. 2087 del codice civile, secondo la quale il lavoratore ha diritto che sia tutelata la sua integrità fisica e la sua integrità morale, e per converso il datore di lavoro ha l’obbligo di proteggere l’integrità fisica e il benessere morale del prestatore d’opera, adottando ogni misura volta a raggiungere questo scopo. È responsabile anche per la colpa generica, cioè qualora non violi alcuna norma specifica, ma abbia mancato di porre in essere una regola cautelare, una regola di tutela del lavoratore, una regola di prudenza, che avrebbe dovuto identificare sulla base della sua normale prudenza. Molestie sessuali. Tale aspetto sta a metà strada tra il danno fisico e il danno morale. Solitamente risponde il datore di lavoro per le molestie sessuali commesse ai danni di una dipendente; risponde ai sensi dell’art. 2049 del codice civile per il solo fatto che il comportamento è stato tenuto da un suo dipendente (responsabilità per fatto altrui). Naturalmente il datore avrà il diritto di rivalersi sul suo dipendente, in prima battuta sul trattamento di fine rapporto e poi se il danno è molto grave e il q 85 trattamento di fine rapporto non sufficiente, potrà agire in via esecutiva. Mobbing. Tipica forma di violazione al benessere morale che ciascun lavoratore ha nel luogo di lavoro. L’art. 2087 del codice civile impone al datore di tutelare l’integrità fisica ma anche l’integrità morale intesa come tutela di condizioni di normale andamento relazionale dei rapporti in cui ciascun lavoratore possa esprimere il suo saper fare, la sua personalità in modo sereno. La tipica forma di trasgressione a questo dovere è il mobbing, l’antitesi del dovere di tutelare il benessere morale del lavoratore. Costituisce una serie di comportamenti illeciti in cui vi è un dolo di rendere danno al lavoratore. 86 q XV giornata - 9 maggio 2007 Relatore: Prof. Avv. Alberto Pizzoferrato Temi trattati: I contratti di lavoro Sintesi degli argomenti sviluppati I contratti di somministrazione. Contratti commerciali con cui l’impresa si assicura la disponibilità di uno o più lavoratori per una certa attività a tempo indeterminato o determinato. Un profilo fondamentale in tema di somministrazione è quello comune dell’indicazione specifica dei motivi tecnico, organizzativi, produttivi e sostitutivi che legittimano il ricorso alla somministrazione a tempo determinato. Non basta che nella sostanza ricorra una tale ragione per essere legittimo il contratto, è necessario che questa ragione sia all’inizio del rapporto di lavoro, specificatamente indicata ed individuata nel contratto di somministrazione, che lega l’impresa utilizzatrice con l’agenzia di lavoro somministrato. Ci deve essere questa specificazione dei motivi, deve essere contestualizzata rispetto alla situazione interna aziendale, quindi, nel momento in cui si sigla un contratto di somministrazione a tempo determinato, bisogna specificare quali di queste ragioni produttive ricorrono nel caso concreto. Ragioni che devono essere di carattere temporaneo eccezionale, limitate ad un determinato progetto temporalmente pre-definibile. Non esistono limiti quantitativi previsti dalla legge al ricorso alla somministrazione a tempo determinato, tali limiti sono rinviati dal legislatore alla contrattazione collettiva. Nell’ambito della somministrazione a tempo indeterminato invece ci sono delle restrizioni che non sono di tipo soggettivo, cioè che riguardano i singoli rapporti, ma si tratta di restrizioni di tipo oggettivo, cioè che riguardano l’attività somministrata. C’è la possibilità di recedere dal rapporto da parte dell’impresa utilizzatrice, il problema è che tale facoltà solitamente è soggetta da un lato ad una penale, dall’altro ad un preavviso minimo che le imprese fornitrici ovviamente tendono ad estendere. Appalto di servizi. Non si può ricorrere per il lavoro somministrato a soggetti non autorizzati, ma se ragioniamo in termini di servizio autonomo reso da un soggetto imprenditoriale, è evidente che nessun vincolo sussiste. In alcuni settori poi, tali soggetti rivestono la duplice veste di fornitori di lavoro somministrato e di appaltatori di servizio: classico caso sono le cooperative sociali che sono contestualmente q 87 anche accreditate per la somministrazione. L’apprendistato. Ridisciplinato dalla Legge Biagi, prevede tre tipologie: a) quello per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione (praticamente assente nel nostro panorama applicativo), b) l’apprendistato professionalizzante, c) quello per il conseguimento di un diploma di formazione superiore. Essendo un contratto a termine, scade alla scadenza del termine stesso, non in maniera automatica, ma solo in forza di un atto di recesso esplicito, anteriore alla scadenza. Relativamente al concorso delle fonti sulla disciplina c’è stato prima un rinvio alla sola legge regionale, cioè si è detto che per gli aspetti legati alla formazione, esterna o interna all’azienda, spetta la definizione di questi elementi, cioè la durata, l’articolazione, le modalità di svolgimento, alla stessa legge regionale, perché la formazione professionale ricade in materia esclusiva di competenza delle Regioni. Quindi lo Stato, attraverso gli artt. 47 e seguenti del Decreto Legislativo 276, pone la normativa di cornice sulla disciplina del contratto e le Regioni quella più specifica in dettaglio, sugli aspetti legati alla formazione. 88 q XVI giornata - 28 maggio 2007 Relatore: Dott. Angelo Contessa Temi trattati: Il concetto di persona nell'analisi transazionale, la comunicazione e le relazioni interpersonali, le transazioni e le regole della comunicazione, l'evoluzione umana tra adattamento e attaccamento. Sintesi degli argomenti sviluppati Teorie della personalità e psicoterapie sistematiche per la crescita e il cambiamento della persona. L’Analisi transazionale come potente strumento nell’addestramento alla direzione e all’analisi delle organizzazioni per comprendere le persone, i rapporti e la comunicazione. Il modello degli stati dell’Io: il genitore, il Genitore normativo, il Genitore affettivo, il Bambino adattato, il Bambino libero, l’Adulto. Le transazioni: semplici, parallele, incrociate, ulteriori. La svalutazione come incapacità di considerare informazioni che permetterebbero di risolvere un problema. Anatomia come insieme di tre capacità: la consapevolezza, la spontaneità e l’intimità. Come stimolare l’autonomia nostra e altrui attraverso i nostri comportamenti. q 89 XVII giornata - 29 maggio 2007 Relatore: Dott. Angelo Contessa Temi trattati: Il Copione, Il Sistema Ricatto, I Giochi, Il Sentimento e i Sentimenti Ricatto, La Tratto-Tipologia Analitico Transazionale. Sintesi degli argomenti sviluppati L’emozione come fenomeno complesso che riguarda l’uomo e che avviene su diversi piani: attivazione fisiologica, vissuto esperienziale e modelli comportamentali. Le quattro emozioni: paura, rabbia, tristezza e gioia. La competenza emotiva. Emozioni funzionali o disfunzionali. Il bisogno di stimoli quale meccanismo di sviluppo umano. Il bisogno di carezze: verbali/non verbali, positive/negative, condizionate/incondizionate, autentiche/di plastica. Le emozioni parassite e il racket, quale insieme di comportamenti messi in atto al di fuori di uno stato adulto di consapevolezza. I giochi psicologici, il triangolo drammatico tra salvatore, persecutore e vittima. Esseri umani quali vittime e beneficiari dei condizionamenti socio-culturali. Ingiunzioni, divieti che stabiliscono dei limiti sull’essere, sull’evolversi, sul fare e sul socializzare. Gli stati imposti dell’essere:non esistere, non essere se stessi, non star bene, non essere dei bambini, non crescere, non sentire, non pensare. Gli stati del fare: non, non riuscire, non essere importante. Gli stati del socializzare: non entrare in intimità, non far parte. Autoanalisi. La “Matrice di copione”. 90 q XVIII giornata - 5 luglio 2007 Relatore: Avv. Luca Zaccarelli Temi trattati: L'orario di lavoro (Decreto Legislativo n. 66 del 2003 in vigore dal 1° settembre 2004 - Circolare del Ministero del Lavoro n. 8 del 2005). Sintesi degli argomenti sviluppati La nuova definizione di orario di lavoro, i tempi di viaggio, l’orario “normale” di lavoro, straordinari e deroghe alla durata settimanale, i contratti collettivi di lavoro (validità e limiti), periodi di ferie, di malattia, le assenze legate allo stato invalidante (infortuni, gravidanze ecc.),l’organizzazione del lavoro per i contratti di formazione/lavoro, per gli apprendisti,i tirocinanti, i cococo, i lavoratori a domicilio, il personale viaggiante. Il riposo giornaliero, riposi e frazionamenti d’orario, riposo compensativo, protezione “adeguata”, le compensazioni economiche, gli obblighi di comunicazione, indennità per ferie non godute in caso di risoluzione del rapporto di lavoro. Il lavoro notturno. q 91 XIX giornata - 18 settembre 2007 Relatore: Dott.ssa Maria Rosa Gheido Temi trattati: Valutazione di adeguatezza patrimoniale delle banche: primi commenti alle nuove disposizioni; budget del personale; contratto di inserimento lavorativo. Sintesi degli argomenti sviluppati Le caratteristiche essenziali del Secondo pilastro di Basilea 2 e le norme di attuazione contenute nelle Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche (titolo terzo) emanate dalla Vigilanza, con commenti alle possibili interpretazioni; la progressiva maturazione della percezione dei rischi all’interno delle banche italiane. La determinazione del costo del personale: rilevazione e controllo dei costi; tipologie contrattuali, fringe benefits. Il budget: scostamenti e correttivi. La retribuzione: aspetti fiscali e contributivi; retribuzioni in natura e fringe benefit; la forfetizzazione, i buoni pasto, i viaggi, l’alloggio in uso ai dipendenti; l’uso personale dell’auto aziendale, prestiti ai dipendenti, i contributi alla presidenza complementare; i premi per polizze assicurative e contributi per l’assistenza sanitaria, le tipologie contrattuali. Il contratto di inserimento lavorativo. Definizione delle aree per gli incentivi. Contratto di apprendistato. Lavoratori disoccupati o sospesi, collocati in Cassa Integrazione Guadagni Straordinari, iscritti nelle liste di mobilità, contratto di solidarietà, ricollocazione incentivata dei dirigenti, la sicurezza e gli sgravi per la formazione. Riduzione del costo del lavoro e bonus assunzione, la fidelizzazione del lavoratore, le clausole retributive nelle lettere di assunzione, le politiche incentivanti. 92 q XX giornata - 27 settembre 2007 Relatore: Dott.ssa Maria Rosa Gheido Temi trattati: La determinazione del costo del personale: profili retributivi e assicurativi. Sintesi degli argomenti sviluppati Le maggiori e più significative voci di retribuzione. Obblighi contributivi. L’IRAP con le novità per l’alleggerimento del costo del lavoro per la maggiore deducibilità dalla base imponibile delle voci relative al personale. I contratti di inserimento lavorativo. La valutazione del datore di lavoro sulle capacità tecnico-organizzative e produttive. I contratti a termine tra vincoli e flessibilità. I presupposti per le cause di licenziamento. Organizzazione aziendale e esigenze del lavoratore. Maternità, malattia e calcolo delle indennità. Lavoro a progetto. Collaborazione coordinata e continuativa. La flessibilità. Luogo e orario di lavoro. L’ufficio paghe e la gestione dei collaboratori. q 93 XXI - XXII giornata - 2 - 3 ottobre 2007 Relatori: Dott. Silvio De Tommaso Dott. Domenico Ruggeri Temi trattati: La contrattazione di categoria La contrattazione di II° livello Gli accordi aziendali: opportunità e rischi La costituzione delle RSA La struttura delle OO:SS. regionale e nazionale Le agibilità sindacali Costituzione e diritti delle RSA CCNL BCC • Specificità del CCNL BCC • Accordo del 27.09.2005 e nuove ipotesi di rinnovo contrattuale • Accordo Regionale Emilia Romagna, sviluppo ed evoluzione CCNL BCC - parte speciale • Declaratoria generale • Quadri direttivi - profili, fungibilità,sostituzioni • Quadri direttivi - trattamento economico ed altre provvidenze, art. 98 • Aree Professionali - preposti a succursale, inquadramento minimo • Aree Professionali - assegnazione a mansioni superiori Sintesi degli argomenti sviluppati Si tratta degli aspetti relativi alla parte sindacale lavoristica e della contrattazione di secondo livello, della contrattazione di primo livello, ma anche di tutte quelle parti relative appunto a tutte le libertà sindacali, quindi una disamina piuttosto diffusa e profonda di quello che sono le norme relative appunto alle libertà sindacali della legge 300 del ‘70, il famoso Statuto dei Lavoratori. I nostri referenti normalmente sono le Federazioni Regionali, ma lo sono anche al tempo stesso le Banche di Credito Cooperativo, che normalmente dovrebbero però rivolgersi alla propria Federazione ove sono associate, per poi, in termini di 94 q assoluta sussidiarietà, intervenire noi come Federcasse. Oggi come oggi si parla esclusivamente di una disciplina contrattuale per i dirigenti con un unico livello di riferimento e auspichiamo che nel tempo questi livelli di riferimento per i dirigenti rimanga tale, cioè rimanga soltanto un livello e che quindi a livello aziendale non si realizzino distribuzioni articolate di livelli di dirigenza, come pure per quanto riguarda l’altra disciplina contrattuale si ha appunto il contratto collettivo nazionale di lavoro per quadri direttivi ed aree professionali. Attualmente sono in vigore due discipline contrattuali: quella per quadri direttivi ed aree professionali e quella del 27 settembre del 2005, quella disciplina contrattuale è scaduta il 31 dicembre del 2005. L’altro contratto collettivo nazionale di lavoro è quello per il personale dirigente ed è quello stipulato in data 19 febbraio 2002. Anch’esso scaduto il 31 dicembre del 2005. Ciò significa che i nostri trattamenti da un punto di vista economico e normativo sono fermi a quella data, 31 dicembre del 2005, per tutte le categorie di personale all’interno del sistema del credito cooperativo. È la prima volta nella storia del nostro sistema che assistiamo ad un tavolo sindacale assolutamente ricomposto, omogeneo ed unificato, che vede la presenza di tutte le organizzazioni sindacali dei lavoratori presenti nell’ambito del Credito Cooperativo. Per quanto riguarda invece il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale dirigente, ancorché sia scaduto al 31 dicembre 2005, non è stata presentata da parte delle organizzazioni sindacali alcuna piattaforma rivendicativa per il rinnovo dello stesso. Per quadri direttivi ripeto ed aree professionali abbiamo cercato di mettere insieme delle linee guida all’interno delle quali potrà muoversi questo rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro, nell’assoluta consapevolezza, quanto meno la parte normativa del C.C.N.L. del 27 settembre del 2005 non abbia bisogno di una grandissima manutenzione. Non ci saranno molti spazi da parte nostra da un punto di vista di modifiche normative, anche perché con estrema sincerità e trasparenza, noi non potremmo peraltro alle organizzazioni sindacali chiedere ulteriori sensibili flessibilità da un punto di vista contrattuale, perché di flessibilità la nostra attuale disciplina contrattuale né ha tantissime. Alcune considerazioni sulla contrattazione di secondo livello. Questa contrattazione di secondo livello è una tornata contrattuale assolutamente atipica, si innesta su un rinnovo di contratto nazionale dove tiene in considerazione tutta una serie di richieste che troviamo già nelle piattaforme rivendicative dei contratti di secondo livello, in modo assolutamente omogeneo su tutto il territorio di riferimento, leggasi: mercato del lavoro, diarie, trasferte, indennità q 95 di abbandono, stanno sul contratto nazionale, stanno nei contratti di secondo livello. Quindi assolutamente fuori dal tempo. Siamo in una situazione assolutamente atipica, ci accingiamo a rinnovare un contratto nazionale con grande anticipo nella sua complessità e ci accingiamo a rinnovare dei contratti di secondo livello che scadono il 31 dicembre 2007. L’uno, primo livello nazionale, con grandissimo anticipo, l’altro, secondo livello, tavolo locale, con grandissimo ritardo. I nostri assetti contrattuali, per quanto riguarda il Credito Cooperativo, non fanno altro che riprodurre il modello del protocollo del 23 luglio del 93 in fin dei conti, e tengono in considerazione un primo livello di contrattazione a livello nazionale e un secondo livello di contrattazione radicato a livello regionale. Poi esiste anche in alternativa al livello regionale una contrattazione radicata a livello aziendale per quelle destinatarie della contrattazione di secondo livello quali: Iccrea Banca S.p.A., Iccrea Holding, Aureo Gestioni, Agrileasing, Iside, e quindi aziende per le quali sia prevista la contrattazione di secondo livello radicata a livello aziendale, però normalmente per noi il secondo livello di contrattazione è a livello regionale. Quindi come si diceva per tutti gli ambiti di applicazione in questo contesto ovviamente la Federazione regionale di concerto con le organizzazioni sindacali locali, dovrà pervenire ad un equilibrio complessivo affinché il risultato prodotto possa essere fruibile da tutte le BCC associate a questo territorio di riferimento, dalla più piccola alla più grande. Le libertà sindacali. La fonte normativa principe di riferimento che è la legge 20 maggio del 1970 n. 300, cosiddetta Statuto dei lavoratori. All’articolo 19 del titolo terzo della legge 300 si parla di costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali. Nell’ambito del Credito Cooperativo l’unica norma di riferimento per la costituzione della rappresentanza sindacale aziendale è appunto costituita dalla legge 300. 96 q XXIII giornata - 23 ottobre 2007 Relatori: Dott. Oliviero Bernardi Dott. Tommaso Colajacovo Dott.ssa Isabella Covili Faggioli Prof. Enrico Gragnoli Dott. Daniele Quadrelli Dott. Giuseppe Alai Temi trattati: Gestione e sviluppo delle risorse umane nel rapporto di lavoro subordinato in BCC Sintesi degli argomenti sviluppati La gestione del personale nei contesti aziendali: esperienze e testimonianze. Modelli di gestione e sviluppo delle risorse umane nel settore bancario cooperativo: esperienze e testimonianze. Federcasse, Federazioni Regionali, BCC: sinergie, competenze e responsabilità nella gestione del personale. Il sistema delle relazioni sindacali nel Credito Cooperativo: analisi e competenza. L’associarsi alla Federazione regionale da parte delle BCC e alla Federazione Italiana da parte delle Federazioni locali e degli altri organismi di sistema comporta, nell’ambito di quelle che sono le regole del diritto sindacale,il conferimento di un mandato di rappresentanza sindacale. Ciò fa sì che quello che si decide in questi ambiti diventa efficace direttamente sulle Associate. Se oggi il Contratto Collettivo Nazionale per talune realtà finisce per calarsi in una regolamentazione che molto spesso è di dettaglio mentre invece la tendenza è quella di andare a realizzare una contrattazione di cornice o “leggera” che serva a definire gli istituti fondamentali che devono essere regolati in maniera uniforme per tutti gli appartenenti a quella categoria lasciando alla contrattazione di secondo livello gli ambiti, gli spazi che meglio riescono a definire una disciplina secondo le esigenze locali, aziendali e territoriali, in vicinanza a dove si produce il bene, il servizio, a dove si svolge l’attività lavorativa. La funzione Risorse Umane nel gruppo bancario Iccrea. I temi affrontati riguardano l’integrazione, le modalità operative delle società, i contratti integrativi, il sistema incentivante. L’integrazione è logistica, normativa e culturale. Il ruolo della Funzione Risorse Umane è impegnato a favorire i processi di inte- q 97 grazione, ad armonizzare i comportamenti normativi e regolamentari nelle diverse aziende, a creare consenso su un comune sistema di valori. Dall’unificazione logistica i processi di integrazione si allargano alla formazione e allo sviluppo avviando progetti di alta formazione, individuando le “risorse chiave” attraverso indagini sul capitale manageriale, unificando i sistemi di incentivazione. La gestione e lo sviluppo del personale in azienda. I valori sono importanti perché, se c’è aderenza tra i valori dell’individuo e i valori dell’azienda, il matrimonio lavorativo funziona meglio. Bisogna considerare ogni persona come un cliente interno perché normalmente il lavoro che si porta avanti arriva da qualcuno e va a qualcun altro. Bisogna far lavorare bene le persone, senza troppe difficoltà. Stiamo parlando di integrazione e quindi di come trattenere le persone chiave, i talenti. 98 q IN CONCLUSIONE Giuseppe Alai Presidente Commissione Formazione Federazione BCC Emilia Romagna L’iniziativa che abbiamo riassunto in questo “Quaderno” è di grande rilievo sia dal punto di vista della ricerca di soluzioni nuove sia nelle ottiche imprenditoriale e motivazionale. In qualità di Vice Presidente della Federazione, delegato a coordinare questo settore, ho potuto acquisire notevoli esperienze sulle dinamiche che ruotano intorno al mondo della formazione. Spesse volte la formazione viene sbandierata in termini di numeri e in termini di importi; è la cosa che serve di meno, nel senso che la formazione, il saper fare non è sufficiente in sé, lo abbiamo già detto tante volte; conta anche il voler fare e conta nel mondo imprenditoriale mettere nelle condizioni di poter fare chi sa fare e può fare le cose che ha appreso. Oggi, a fronte di una realtà che pone nel mondo del lavoro una quantità enorme di persone, siamo nell’era del sapere perché chi lavora alla produzione è inferiore numericamente a chi lavora nei servizi o negli uffici. Oggi nel mondo della nostra scuola un diploma di ragioniere o di geometra o di perito non si nega a nessuno. Dobbiamo essere molto chiari; oggi, con un po’ di impegno, si consegue anche una laurea. Però noi sappiamo che nel mondo del lavoro i valori che si vanno ad esprimere, le motivazioni, la capacità di espressione delle proprie aspettative di vita, sono altra cosa. Credo che, dopo il saper fare, il poter fare, il voler fare, debba essere valutata anche la volontà di essere, nel proprio ambiente. E questo non è secondario, perché oggi la cooperazione viene attaccata sul fronte fiscale, con alcune denunce presso la Comunità Economica Europea che stiamo affrontando con grande difficoltà. Io penso che, dopo il libro “Falce e carrello”, uscirà anche il libro “Falce e sportello”, perché le agevolazioni fiscali che stanno ricevendo le cooperative sono presentate in modo ambiguo e la risposta migliore è quella di dotarci di quelle responsabilità e di quelle capacità critiche capaci di tradursi in comportamenti che facciano percepire una cultura adeguata nel nostro modo di lavorare. Lavorare in cooperazione è difficile, occorre più senso del dovere, occorre più senso del capire, ma soprattutto occorre più autonomia propositiva. Questa è la grande differenza, questo è il paradosso cooperativo; nella stessa impresa c’è il cliente, il socio, l’azionista, il lavoratore. Troppi ruoli, dice qualcuno. La conciliazione di questi ruoli è difficile, poiché siamo dentro ad un’ampia complessità, lo sappiamo, sono stressanti da un lato ma appassionanti , avvincenti dall’altro. Per noi non è soltanto una questione di q 99 prezzo stare sul mercato, ma è questione di servizio, di far percepire l’utilità di esistere; se no siamo una banca come tutte le altre. Alla fine credo che la cosa più importante sia la spiegazione che ogni persona dà a se stesso quando ha finito una propria giornata di lavoro. E’ la forza attraverso la quale nello stesso ambiente di lavoro, a parità di condizioni, c’è chi si dà da fare come un dannato e c’è qualcuno invece che cerca di non fare un tubo. E’ lo stesso ambiente, sono gli stessi dirigenti, si vive la stessa situazione e c’è qualcuno che ha dentro di sé una forza spaventosa per dare il doppio, il triplo di un altro. Da cosa salta fuori questa forza? Qual è il meccanismo interiore che fa scattare queste volontà? Io credo che sia prima di tutto la soddisfazione di se stessi, la ricerca di dare una spiegazione a se stessi del proprio lavoro, una ragione della propria condizione che spesse volte non è tanto nel fatto di arrivare allo stipendio a fine mese oppure nel vedersi collocati dal punto di vista gerarchico, ma sta nella capacità di dare valore a se stessi del proprio lavoro, della capacità di essere obiettivi con se stessi, di essere critici con se stessi. Queste opportunità credo che in una Banca di Credito Cooperativo siano maggiori rispetto a qualsiasi altra realtà. Ed è dunque, in conclusione, nella possibilità di individuare un metodo di formazione, di cultura del saper essere collaboratori in un Banca di Credito Cooperativo, che si traduce tutto lo sforzo che stiamo compiendo in questi anni. 100 q q 101 Finito di stampare nel mese di novembre 2008 Idea grafica: Marco Bugamelli Redazione: Roberto Zalambani, Alessandro Trombetti Realizzazione editoriale e stampa: Edistudio di G. Forlani - Molinella (Bo) 102 q