LDB Frédé MAIN Comes unsuc planeta laguer deime Feltrinelli TraduzionediMatteo Schianchi ©Giangiacomo FeltrinelliEditore Milano Primaedizionenella collana“SerieBianca” novembre2010 ISBNedizione cartacea: 9788807171987 Notadell’editore Questolibrosibasasufonti precise. Le note a piè di pagina e la bibliografia – che non figurano nel libro –, la lista dettagliata delle 1250 persone intervistate in trenta paesi, l’indice dei nomiedellesocietàcitatie i numerosi dati statistici sono disponibili in rete sul sito, in francese, che è il prolungamento naturale di questo libro volutamente “bimediale”, cartaceo e digitale (vedi le Fonti e il sito www.fredericmartel.com). Inoltre,leparoleininglese, arabo, giapponese ecc. più utilizzate nel testo sono spiegate nel glossario alla finedellibro(vedip.427). Prologo Non esiste forse luogo meno “mainstream” dell’Harvard Faculty Club, il ristorante riservato ai docenti all’interno del campus della prestigiosa università di Harvard, Massachusetts, negli Stati Uniti. Qui Henry James era di casa e anche oggi vengono a conversarciipiùillustri docenti universitari di Harvard; vi si continua a respirare un certo spirito protestante, tipicamente maschile e dallapellebianca,fatto di puritanesimo e pietanze semplici (si mangiapiuttostomale). Nella sala da pranzo, seduto a un tavolo copertodaunatovaglia bianca, incontro SamuelHuntington. Negli anni in cui ho vissutonegliStatiUniti e ho fatto ricerche per scrivere questo libro, ho incontrato più volte Samuel Huntington, universalmente conosciutoperilsuoLo scontrodelleciviltà.La sua tesi è nota: le civiltà dell’epoca attuale sono ormai in lotta fra loro sul terreno dei valori, per affermare la propria identità e la propria cultura, e non solo per difendere i propri specifici interessi economici. Si tratta di un libro opinionated, comesidiceininglese, fortemente schierato e in cui sono messi a confrontol’Occidentee il“restodelmondo”:da una parte c’è un Occidente monolitico, dall’altra una pluralità di paesi non occidentali.Huntington sostiene il fallimento della democratizzazione dei paesi musulmani a causa dell’islam. Il testo è stato commentato, e spesso criticato, in tutto il mondo. Durante il pranzo consumato a Harvard pongo alcune domande a Huntington sulla sua teoria, sulla cultura di massa, sul nuovo ordine internazionale dopo l’11 settembre e su come vede la situazione attuale. Mi risponde in modo banale, con voce tremula, senza avere molto da dire sulla cultura globalizzata. Poi è lui a chiedere a me dove mi trovassi l’11 settembre, forse senza rendersi conto che questa è la solita domanda che tutti fanno negli Stati Uniti. Rispondo che quella mattina ero all’aeroportodiBoston, proprionelmomentoin cui i dieci terroristi si imbarcavano sui voli American Airlines 11 e UnitedAirlines175che si sarebbero schiantati poco dopo contro le due torri del World Trade Center. L’uomo anziano che ho di fronte – ha ottant’anni – si fa pensieroso. L’11 settembre per gli Stati Unitièstatounincubo, mentre per Huntington è stato il momento della consacrazione, poiché le sue tesi sulla guerra culturale mondiale già sostenute in precedenza si sono improvvisamente rivelate profetiche. Sul finire del pranzo ho l’impressione che stia quasi per appisolarsi (morirà qualche mese dopo le interviste che mi ha rilasciato). Resto insilenzioecomincioa guardare i quadri d’autoreappesiaimuri dell’Harvard Faculty Club. Mi chiedo cosa possapensareunuomo elitario come lui, simbolo dell’alta cultura, della posta in gioco della guerra tra diverse culture. Avrei voglia di chiedergli se ha mai visto Desperate Housewives, la serie televisiva che tutti guardano negli Stati Uniti, le cui protagoniste si chiamanoKyalaeNora Huntington. Decido poi di non fargli la domanda, consapevole che, con la sua rigidità puritana, Samuel Huntington non nutre certo grande interesse per l’entertainment, che è invece il tema di questolibro. Qualche settimana dopo mi trovo invece nell’ufficio di Joseph Nye, all’epoca presidente della Kennedy School, la prestigiosa scuola di scienze politiche e diplomazia, ugualmente ubicata all’interno del campus di Harvard. Nye è un uomo di settant’anni, pieno di energia, è stato viceministro alla DifesadiBillClintoned è anch’egli coinvolto nella guerra culturale mondiale.Maseleidee di Huntington hanno preparato l’epoca di Bush, quelle di Nye sono il preludio della diplomazia di Obama. Nye è un sostenitore delle “complesse interdipendenze” che governano le relazioni tra nazioni nell’era della globalizzazione e hainventatoilconcetto di “soft power”. La sua idea è che per influenzare gli affari internazionali e migliorare la propria immagine, gli Stati Uniti debbano utilizzare anche la loro cultura e non solo la forza militare ed economica (“hard power”). “Soft power significa esercitare un potere attrattivo e non coercitivo,” mi dice Joe Nyenelsuoufficio.“La cultura americana sta al centro di questo potere di influenzare e nelle sue diverse versioni, high o low, chesitrattidiarteodi intrattenimento, che sia prodotta da Harvard o da Hollywood.” Quantomeno Nye mi parla di cultura di massa globalizzata e sembra ben informato sulle questioni e le dinamichedeigruppidi media internazionali. “Ma soft power,” prosegue Nye, “significa anche esercitare un’influenza attraverso valori come libertà, democrazia, individualismo, pluralismo della stampa, mobilità sociale, economia di mercato, modelli di integrazione delle minoranze negli Stati Uniti. Il potere può essere soft anche attraverso norme giuridiche, con il sistema del copyright, con nuove parole, con le idee che siamo in grado di diffondere in tutto il mondo. E poi, naturalmente, il nostro poterediinfluenzaoggi è rafforzato da internet, da Google, YouTube, MySpace, Facebook.” Nye ha inventato alcuni concetti di successo e ha sostenuto che la nuova diplomazia di Barack Obama, che ben conosce, deve essere in stile “smart power”, deve unire persuasione e forza, softehard. Le celebri teorie di Huntington e Nye, per quanto opposte tra loro, sono davvero pertinenti in termini di geopolitica della cultura e dell’informazione? Le civiltà sono davvero inesorabilmente entrate in una fase di guerra mondiale sui contenuti, oppure dialogano tra loro molto di più di quanto si possa immaginare? Perché il modello americano dell’intrattenimento di massa domina il mondo? Si tratta di un modello fondamentalmente americano, oppure può essere riprodotto altrove? Quali contromodelli stanno emergendo? Come si costruisce la circolazione dei contenuti in tutto il mondo? La diversità culturale, che è l’ideologia della globalizzazione, è davvero reale, oppure si rivelerà ben presto una trappola che gli occidentali hanno teso a se stessi? Il libro affronta simili questioni legate alla geopolitica della culturaedeimedia. SullaspiaggiadiJuhu a Mumbai – nuovo nome di Bombay in India – Amit Khanna, amministratore delegato di Reliance Entertainment, una delle più potenti società indiane di produzione di film e di programmi televisivi recentemente entrata nel capitale della DreamWorks di Steven Spielberg, mi spiega quale strategia perseguono gli indiani: “Qui ci sono 1,2 miliardi di abitanti. Abbiamo soldi. Abbiamoconoscenze. Con il Sud-est asiatico rappresentiamo un quarto della popolazione mondiale, con la Cina un terzo. Vogliamo svolgere un ruolo da protagonisti, sul piano politico, economico, ma anche culturale.Crediamonel mercato globale e abbiamo valori da promuovere, quelli dell’India, vogliamo affrontare Hollywood sul suo terreno. Non solo per guadagnare soldi,maperaffermare i nostri valori. E sono profondamente convintochesaremoin grado di riuscirci. Dobbiamo contare anzituttosudinoi”. Qualche mese dopo mispostotral’Egitto,il Libano e i paesi del Golfo insieme ai dirigenti del gruppo Rotana. Rotana è una società fondata dal miliardario saudita Al Waleed con l’obiettivo di creare una cultura araba: la sede si trova a Riyadh, gli studi televisivi a Dubai, il settore musicale a Beirut, la divisione cinemaalCairo.Anche per Rotana al centro della strategia culturale basata sull’impiego di diversi media c’è una sorta di panarabismo che significa difendere e sostenere alcuni valori e una specifica visione del mondo. La sua forza sono i miliardi di dollari provenienti dall’Arabia saudita e una potenziale “audience” di 350 milioni di arabi (che potrebbero diventare 1,5 miliardi se si contano tutti i musulmani, soprattutto nell’Asia del Sud e del Sud-est). “Condurremo questa battaglia,” mi confermano i proprietari del gruppo Rotana. Nel corso di un altro viaggio, al diciannovesimo piano di un grattacielo di Hong Kong incontro Peter Lam, dirigente comunistaepresidente del gruppo eSun, colosso del cinema e dellamusicanellaCina continentale e a Hong Kong. “Abbiamo 1,3 miliardi di cinesi, abbiamo denaro, abbiamol’economiapiù dinamica del mondo; abbiamo esperienza: riusciremo a conquistare i mercati internazionali e faremo concorrenza a Hollywood. Diventeremo la Disney dellaCina.” Nei cinque anni in cui ho condotto questa inchiesta ho sentito discorsi simili nel quartier generale di Tv GloboaRiodeJaneiro, nella sede della multinazionale Sony a Tokyo, nelle sedi di Televisa a Città del Messico e di Telesur a Caracas, nella sede di Al Jazeera in Qatar, pronunciati dai dirigenti del primo gruppo indonesiano di telecomunicazioni a Giacarta, nella sede di China Media Film e di Shanghai Media Group in Cina. Oggi in Cina, India e Messico si inaugura in media un nuovo schermo al giorno all’interno dei multisala.Oltrelametà degli abbonati alle televisioniapagamento viveinAsia.Difatto,la guerra culturale mondiale è già stata dichiarata. Con l’emergere di nuove potenze all’interno dell’economiaglobale– Cina,India,Brasile,ma anche Indonesia, Egitto, Messico, Russia – aumenta anche la loro capacità di produrreprodottiperil divertimento e l’informazione. La cultura dei paesi emergenti comincia dunqueafarsispazio. Questi nuovi flussi mondiali di contenuti iniziano ad avere un certo peso e a contrapporsi all’industria americana dell’intrattenimento e alla cultura europea. Siamo di fronte alla costruzione di una nuova mappa degli scambi culturali. Tutto ciò ormai è una realtà, benché le statistiche dellaBancamondialee del Fondo monetario internazionale non riescanoamisurarnela portata, nonostante il silenzio dell’Unesco in questo campo (quando non riprende i dati della propaganda cineseorussa),benché il Wto renda conto di questi scambi culturali annoverandoli tra le categoriedeibeniedei servizi. Non siamo ancora consapevoli dellaportatadeigrandi cambiamenti attualmente in corso, e non sono ancora state condotte inchieste per dar conto della nuova battaglia su scala mondialesuicontenuti. Questi nuovi soggetti emergenti rappresentano per l’Occidente un nemico sul piano culturale? È corretto parlare di “scontro di civiltà”? Il lento affermarsi di potenti industrie nel settore audiovisivo e dell’informazione in Asia,inAmericalatina, in Medio Oriente pone nuove questioni che rendonoormaiobsolete le vecchie chiavi di lettura. Peraltro, in questa sede preferisco impiegare anche un’altra terminologia. Mi pare più opportuno parlare di “industrie creative” e di industrie “dei contenuti”, espressioni che non solo includono tutti i tipi di media compreso il digitale, ma che ritengo certamente più pertinenti della vecchia, connotata, e oggi inesatta, denominazione “industrie culturali”. Non si tratta più, infatti, solo di prodotti culturali, ma anche di servizi.Ingiocononc’è più solo la cultura, ma anche i contenuti e i formati. In questo scenario non ci sono solograndiaziende,ma figurano anche governi incercadisoftpowere piccole aziende alla ricerca di innovazione nei media e nella creazionevirtuale. Osservando i gruppi di comunicazione su scalaplanetaria,spesso diretti da nuove generazionidimanager e di artisti la cui giovane età è sconcertante, è possibile cogliere i complessi problemi di interdipendenzacongli Stati Uniti, le dinamichediattrazione e repulsione suscitate dal loro paradigma, le tensioni tra un’affermazione identitaria su scala regionale e la ricerca del successo mondiale, le difficoltà nel difendere valori specifici all’interno di un mondo in cui i contenuti stanno assumendo una dimensione globale. Vengono alla luce anche numerose disuguaglianze tra paesidominantiepaesi dominati, alcuni paesi emergono come produttoridicontenuti, altri sono sommersi da flussi culturali mondiali. All’interno di questo scenario, perché Egitto e Libano riescono a emergere e il Marocco no? Perché Miami e non Buenos Aires, perché Città del MessicoenonCaracas, perché Hong Kong e Taiwan e non Pechino, perché il Brasile e non il Portogallo? Perché sempre di più i cinquanta stati americani e sempre meno i ventisette paesi dell’Europa? Per comprendere questedinamicheeper tentarediabbandonare risposte semplicistiche mi è parso necessario condurre un’inchiesta sul campo. Per questo, per cinque anni ho attraversato il pianeta facendo il giro delle capitali dell’entertainment, intervistando oltre 1250 persone operanti in queste industrie creative, in trenta paesidituttoilmondo. Neèemersounquadro nel contempo inedito, affascinante e inquietante. È un’inchiesta sulla guerra mondiale sui contenuti. E questa guerra è già cominciata. Questo è un libro di geopolitica della culturaedeimedianel mondo.Èuntestosulla globalizzazione dell’intrattenimento e si occupa di ciò che fanno le persone quando non lavorano, di quelli che si chiamano svaghi o divertimenti–spessosi parla di “industrie dell’intrattenimento”. Nel concentrarmi su queste industrie che producono contenuti, servizi e prodotti culturali, mi interessa anche fare l’analisi numerica e quantitativa di queste merci, non solo della loro qualità. I temi trattati sono i film di successo,iblockbuster, le hit e i bestseller, dunque non quella che sichiamapropriamente “arte”, pure se Hollywood e Broadway producono anche arte, ma quella definita “cultura di mercato”. Infatti,questeindustrie creative fanno sorgere questioni interessanti in termini di contenuti, di marketing e di capacità di influenza, anche quando le opere che producono non lo sono. Studiare questi soggetti è utile per capire il nuovo capitalismo culturale contemporaneo, la battaglia mondiale per icontenuti,lestrategie per acquisire soft power, l’ascesa dei mediadelSudeillento cambiamento di civiltà che si sta profilando sotto la spinta di internet. In questo modo vorrei cercare di cogliere quello che Francis Scott Fitzgerald definì, parlando di Hollywood, “the whole equation”, l’insiemedelproblema: la matematica dell’arte e del denaro, il dialogo tra contenuti e reti, la questione del paradigma economico e della creazione per un pubblico di massa. Mi occupo di business dello show business. Cercodicapirecomesi parla, nel contempo, a tutte le persone e in tuttiipaesidelmondo. Le industrie creative oggi non sono più un’entità esclusivamente americana, hanno una domensione globale. Questa inchiesta mi ha dunque portato a Hollywood,maanchea Bollywood, a Mtv, a Tv Globo, nelle periferie americane alla scoperta di un gran numero di multisala e nell’Africa subsahariana dove ci sono davvero pochi cinema,aBuenosAires alla ricerca della musica “latina” e a Tel Aviv per capire l’americanizzazione di Israele. Mi sono occupato del piano di conquista di Rupert Murdoch in Cina e della strategia di guerra dei miliardari indiani e sauditi contro Hollywood. Ho cercato di capire come si diffondono il J-Pop e il K-Pop, il pop giapponese e coreano in Asia, e perché le serie televisive si chiamano “drama” in Corea, “telenovelas” in America latina e “teleromanzi del Ramadan”inEgitto.Ho seguito i lobbysti delle agenzie culturali e degli studios americani nelle loro audizioni al Congresso e ho visto RobertRedforddavanti al Senato americano. Ma ho passato più tempo ancora nei grandighettineridegli Stati Uniti. Ho seguito la produzione di Re Leone a Broadway con il patron di Disney e le riprese di un film di Bollywood a Mumbai interrotte da scimpanzé. Ho fatto inchieste nei territori occupati della Cisgiordania e di Gaza per capire il ruolo dei media e dei cantanti arabi in questo contesto e ho incontrato l’addetto stampa di Hezbollah per poter visitare Al Manar, il suo network televisivodiBeirutsud. Intervistando i capiufficiodiAlJazeera a Doha, Beirut, Il Cairo, Bruxelles, Londra, Giacarta e Caracas ho voluto capire se il fondatore dell’emittente, l’emiro del Qatar, avesse ragionequandodiceva: “Crediamo all’unione delle civiltà, non al conflittodiciviltà”. Il tema affrontato in questo libro è molto vasto e comprende per i cinque continenti, nel contempo, l’industria del cinema e della musica, gli spettacoli televisivi, i media, ma anche l’editoria, il teatro commerciale, i parchi d’attrazione, i videogiochi e i manga. Per capire i cambiamenti fondamentali attraversati da questi settori, il libro affronta anche lo scenario del digitale. Tuttavia, per scelta, non mi occupo diGoogle,nédiYahoo, né di YouTube (di proprietà del primo), né di MySpace (di proprietà di Murdoch). Ciò che mi interessa non è internet in quanto tale, ma come internet abbia rivoluzionato e stia rivoluzionando, in profondità, il settore delleindustriecreative. Ovunque, in Arabia saudita, India, Brasile, Hong Kong, ho incontrato persone che costruiscono le industrie creative digitalididomani.Sono imprenditori ottimisti e spesso giovani, considerano internet una fonte di opportunità, di mercato, una possibilità, mentre in Europa e negli Stati Uniti i miei interlocutori, spesso più vecchi, lo considerano una minaccia. Siamo di fronte a un radicale cambio di generazione, eforsediciviltà. Di fronte a un tema così ampio, la scelta di questo libro è di concentrarsi sull’inchiesta sul campo: sulle persone che ho realmente intervistatoesuiluoghi che ho visitato. Da qui la scelta, a me poco familiare, di una narrazione in prima persona capace di rendere conto dell’indagine sviluppata e diventata a sua volta uno dei temi del libro. Parlo di ciò che ho visto. Utilizzo soprattutto fonti di prima mano, e non informazioni raccoltedailibriodalla stampa. Sono consapevole ovviamente delle difficoltà che implica questo tipo di scelta e ho deciso di privilegiare una serie di problematiche originali e ricorrenti emerseall’internodelle industrie su cui ho fatto inchieste piuttostocheun’analisi esaustiva.Peresempio, sviluppo l’analisi di alcuni casi attraverso leinchiestecondottesu Disney e Rotana, mi soffermo su Motown, Televisa e Al Jazeera e le reti di Rupert Murdoch e David Geffen perché sono rappresentative dell’intrattenimento e della cultura commerciale, ma mi soffermo solo di sfuggita su Time Warner, Viacom, Vivendi o la Bbc, che sono altrettanto importantiesullequali ho condotto altre indagini. Si tratta di una scelta difficile che riguarda soprattutto il formato e la metodologia di ricerca di questo libro. Penso, peraltro, che l’analisi delle industrie creative acquisisca maggior profondità se non ci si limita unicamente alle questioni economiche. Nutro grande ammirazione per la sociologia americana degli anni sessanta, basata sulla valorizzazione della rigorosa osservazione sul campo e su un vasto numero di interviste. Infine, ho voluto scrivere questo testo sull’intrattenimento in modo “divertente”, per fare eco al tema stesso dellibro. Il libro propone dunque un’indagine, ma anche elementi di riflessione. I diversi capitoli hanno la forma delracconto,mentrele analisi sono raccolte nelle conclusioni; le fonti e i numerosissimi dati statistici figurano invece sul sito web. Spesso gli specialisti delle industrie creative che ho incontrato mi hanno comunicato le loro intuitions; tra questi professionisti, comehocapito,cisono molte persone che hanno chiaro cosa si deve fare. Ho invece incontrato poche persone che, in epoca di globalizzazione e di cambiamento digitale, avevano una visione: nelle conclusioni cerco invece di fornire una visione geopolitica globale. Nel corso di questa indagine mi sono dovuto scontrare con un problema fondamentale: l’accesso alle informazioni. Immaginavo che le fonti fossero rare in Cina per via della censuradistato,maho capito velocemente quanto fosse difficile risalirelagerarchia,un appuntamento dopo l’altro,aMumbai,Rioe Riyadh. Non immaginavo, tuttavia, chesarebbestatotanto difficile fare ricerche negli Stati Uniti, tra le major dell’industria discografica e negli studios di Hollywood. Ovunque ho dovuto formulare numerosissime richieste di interviste e la mia “fedina” giornalistica è stata attentamente vagliata dagliufficidipubbliche relazioni, i famosi “PR people”. Spesso l’informazione veniva bloccata all’interno dalla divisione “comunicazione” e all’esterno dall’agenzia specializzata alla quale venivo inviato. Mi ci è voluto del tempo per capire che questi PR people, che un po’ ingenuamente credevo fossero persone utili a facilitare la comunicazione, avevano di fatto il compito di impedirla: non diffondono informazioni, le trattengono.Sonostato accolto meglio da Al Jazeera e Telesur – la televisionediChávezin Venezuela–chedaFox eAbc. Di fronte a tutta questa omertà, chi parla allora? Tutti, naturalmente: i dirigenti delle major parlano dei concorrenti, gli indipendenti delle major, gli uni in “off”, gli altri attraverso un dialogo background informationonly,senza possibilità di farne il nome (tutte le interviste utilizzate in questo libro sono di prima mano e le dichiarazioni a microfoni spenti sono stateomesse,trannein casi giustificati e precisati nel testo). I sindacalisti parlano, i creativi parlano, le agenzie di talent scouting parlano, i banchieri e le agenzie di controllo parlano (quando si tratta di società quotate in Borsahoavutoaccesso anche ai dati reali). Tutti parlano per egocentrismo, per farsi pubblicità, soprattutto quando si riescono a trovare buoni canali d’accesso, evitando così i PR people. In fondo, se la Cina censura l’informazione perragionipolitiche,le major lo fanno per ragioni commerciali, dal momento che un filmoundiscosonoun prodotto strategico del capitalismoculturale.Il risultato è lo stesso: unaculturadelsegreto e spesso della menzogna – e questo paralleloconlaCinadi stampo comunista non va a gloria degli Stati Uniti. Tuttalamiaindagine è attraversata da alcune domande fondamentali: qual è l’incidenza del modello americano? Qual è il ruolo specifico degli Stati Uniti nei settori dell’intrattenimento e dei media in tutto il mondo?Illoropotereè evidente e, per il momento, hanno una macchina culturale imbattibile sui flussi di contenuti mondiali. È ciò che si potrebbe chiamare, ribaltando un’espressione di Che Guevara, “l’America con la A maiuscola”. Perquestosièimposta la necessità di cominciare questa inchiesta proprio dagli StatiUniti,percercare di capire come funziona l’intrattenimento a HollywoodeNewYork, ma anche a Washington attraverso le sue lobby, a Nashville e a Miami nell’industria discografica, a Detroit dove ha cominciato a diffondersi la musica pop, nelle grandi periferie dove sono stati inventati i multisala e nei campus universitari dove si fa ricerca e sviluppo per Hollywood. Prima di descrivere la globalizzazione della cultura e la nuova guerra mondiale dei contenuti nei cinque continenti – la seconda parte del libro – mi è sembrato opportuno comprendere l’incredibile macchina americanacheproduce immagini e sogni, quella dell’intrattenimento e della cultura che diventamainstream. Ero negli Stati Uniti, su un aereo che mi portavadaLosAngeles a Washington, quando ho avuto l’idea di intitolare questo libro Mainstream.Iltermine, difficile da tradurre, significa letteralmente “dominante” o “grande pubblico”, viene utilizzatogeneralmente per un media, un programmatelevisivoo un prodotto culturale che ha come obiettivo un vasto pubblico. Mainstream è il contrario di controcultura, sottocultura, nicchia; a torto o a ragione è il contrario di arte. Per estensione, il termine riguarda anche un’idea, un movimento ounpartitopolitico(la corrente dominante), che intende conquistare tutti. A partire da questa inchiesta sulle industrie creative e i media attraverso il mondo, Mainstream puòdunquepermettere di analizzare anche la politica e il business che, di sicuro, “vogliono parlare a tutti”. L’espressione “cultura mainstream” può peraltro avere anche una connotazionepositivae non elitaria, nel senso di“culturapertutti”,o più negativa nel senso di“culturadominante”, o di cultura formattata e uniformata. Mi piace anche l’ambiguità del termine, il fatto che abbia diversi significati; è un termine che ho sentito pronunciare da centinaia di interlocutori in tutto il mondo: tutti vogliono produrre una cultura mainstream, “come gli americani”. Mentre riflettevo sul titolo di questo libro, sono arrivato a Washington per intraprendere questa lunga indagine sulla circolazione dei contenuti e qui ho conosciuto uno dei più celebri promotori della cultura mainstream, JackValenti. Primaparte L’ENTERTAINM AMERICANO 1. JackValentielalobby diHollywood “Guardi da questa parte. Sulla destra di Johnson e Miss Kennedy,nell’angolodi sinistrainbasso,quello lì con un’aria triste e inquieta sono io.” Jack Valentiindicailvoltodi un giovane castano, dall’espressionetimida, su una grande foto in biancoeneromessasu unleggio.Èlui. Da quando è stata scattata quella foto sono ormai passati quarant’anni.Valentisi passa nervosamente una mano nella sua leggendaria chioma di capelli bianchi e vaporosi. È abbronzato e raggiante. Ho di fronte a me uno dei giganti di Hollywood, indossa stivali da cowboy ed è alto un metro e settanta. Sono nel suo ufficio di Washington, il quartier generale della Mpaa. La famosa Motion Picture Association of America è la lobby e il braccio politico degli studios di Hollywood. Ha sede al civico 888 della Sedicesima Strada, a meno di duecento metri dalla Casa Bianca. Jack Valenti è stato presidente della Mpaa per trentotto anni, dal 1966al2004. La fotografia che mi ha mostrato è storica. È stata scattata a bordo dell’Air Force One, ritrae Lyndon Johnson con la mano alzataeJackieKennedy con il volto livido. In quel preciso istante, il 22 novembre 1963, Johnson presta giuramento e diventa presidente degli Stati Uniti. Sul fondo della carlinga dell’aereo, anchesenell’immagine non si vede, sotto la bandiera a stelle e strisce, c’è il corpo di John Fitzgerald Kennedy, assassinato dueoreprimaaDallas. Valenti era nel corteo ufficiale, ha sentito i tre colpi di arma da fuocoedèstatoportato via dagli agenti dell’Fbi. Come in un film, quel giorno la vicenda personale di Valenti incontra la grande storia. Accade tutto in brevissimo tempo e, qualche ora dopo, su quell’aereo, diventa consigliere speciale del nuovo presidente degli Stati Uniti. Di fronte a me, quel mattino a Washington Valenti prende tempo. È stato uno degli uomini più potenti di Hollywood, per quattro decenni è stato il portabandiera del cinema americano in tutto il mondo e si apprestaaraccontarmi la sua storia. Ormai è in pensione e ama parlare di sé. È nato nel 1921 in Texas e proviene da una famiglia di ceto medio di origini siciliane che gli ha insegnato ad amare gli Stati Uniti, quasi come l’inizio del film Il padrino di Coppola in cui si dice: “I believe in America”. È appassionato di cinemadegliannid’oro diHollywoodedurante le vacanze scolastiche lavora all’apertura di una sala a Houston. Durante la Seconda guerra mondiale è un coraggioso pilota dei bombardieri B-25; poi consegue un master a Harvard cui accede grazie alla legge che favorisce l’accesso all’università degli ex combattenti nei gruppi speciali di intervento. In seguito torna in Texas e si mette in affari, prima nel settore petrolifero, poi in quello della carta stampata. È in questo ambito che conosce LyndonJohnson. Per tre anni Jack ValentilavoraallaCasa Bianca: scrive per il presidente, gli fa da consigliere in ambito politico, diplomatico e nella comunicazione. Sempre in modo leale. A fianco di Johnson impara come si fa attivitàdilobbyadalto livello. Impara come si fa pressione per riuscireafarapprovare dal Congresso le leggi sostenute dal presidente. Impara come negoziare con i capi di stato stranieri. Durante la presidenza Johnson, Valenti dirige le operazioni parlamentari a favore della Casa Bianca, costruendo coalizioni e accordando favori. È una strategia che funziona. Alcune delle leggi più audaci della storia degli Stati Uniti, in campo sociale, educativo e culturale, la legge sull’immigrazione che ha cambiato il volto dell’America e le più celebri leggi sui diritti dei neri sono state votate durante la presidenza Johnson (e non Kennedy). Valenti diventa “padrone del Senato”maattirasudi sé anche le critiche di quelli che lo considerano semplicemente un lacchè al seguito di Johnson.Il“WallStreet Journal” irride il suo servilismo. La fedeltà ha comunque dei limiti. Nella fase in cui la Guerra del Vietnam mina il credito dell’amministrazione Johnson, Valenti si allontana dalla Casa Bianca e nel 1966, con quell’aura da gentleman e patriota, accetta di candidarsi alla presidenza della potente lobby degli studios di Hollywood. Dopo aver conosciuto i corridoidellapoliticasi ritrova dunque per la prima volta nel cuore dell’industria del cinema. Jack Valenti si scusa con me e risponde a una telefonata che sembra urgente. Lo stanno chiamando da Hollywood. Il suo successore mi rivelerà che ha sempre diretto la Mpaa in questo modo: con un numero infinito di telefonate e appuntamentipersonali più che con riunioni ufficiali. E non ha egualinellacapacitàdi mettere d’accordo il repubblicano più a destra e il cineasta più di sinistra. Lo ascolto sbrigarelaquestionein pochi minuti, è un uomo vivo ed energico nonostante i suoi ottantadue anni, trattiene l’impazienza, quella dell’uomo sempre di fretta, dissimulataafaticacon una gentilezza tutta diplomatica. Dopotutto di fronte a sé ha un francese – sono un ospitedatrattareconil riguardo con cui si trattano i peggiori nemici della Mpaa – e Valenti mi mostra con fierezza la medaglia della Legione d’onore assegnatagli dal ministro della Cultura francese Jack Lang. Alla guida di un vero e proprio corpo diplomatico di Hollywood con sede a Washington come la Mpaa,Valentièstatoil primo ambasciatore e diplomatico della culturaamericana. In tutto il mondo, da Seul a Rio de Janeiro, da Mumbai a Tokyo, dal Cairo a Pechino, la Motion Picture Association (per sembrare meno americana, all’estero, la Mpaa si scrive con unasolaA,Mpa)veglia sugli interessi di Hollywood. In tutte queste città ho incontrato i suoi rappresentanti, personaggi dediti alla causa, spesso ottimi conoscitori della realtà locale. Questa importante lobby di professionisti degli studiosènatanel1922 all’epoca del cinema muto, su iniziativa di Louis Mayer (quello della Metro Goldwyn Mayer).OggilaMpaaè diretta da un consiglio d’amministrazione composto da tre rappresentanti per ciascuna delle sei principali case cinematografiche (Disney, SonyColumbia, Universal, Warner Brothers, Paramount e 20th Century Fox). Il presidente “esecutivo” di un’organizzazione davvero potente coordina il lavoro di pressione sul Congressoamericanoe veglia sui controlli del settorepubblico;segue le trattative più delicate con i sindacati di Hollywood e pianifica la strategia di conquista mondiale. È una lobby che agisce nell’ombra all’estero e alla luce del sole in territorioamericano. La prossimità di questo organismo senza scopo di lucro, ufficialmente indipendente, con il potere politico americanoèunsegreto di Pulcinella. Il percorso di Jack Valenti lo dimostra. Dalle finestre del suo ufficio di Washington vedolaCasaBianca–è qualcosa di più di una semplice questione simbolica. Il Congresso non è molto più lontano: “Quando c’era unparlamentareunpo’ recalcitrante, andavo a incontrarlo portando conmeClintEastwood, Kirk Douglas, Sidney Poitier o Robert Redford”, mi dice Valenti.“Avevasempre un effetto molto positivo.” Nel 2008 ho avuto l’occasione di accompagnare Robert Redford a un’audizione al Congresso. Ho potuto constatare direttamente l’impatto della sua presenza così familiare sui senatori americani: erano tutti molto entusiasti di averedifrontealoroa difendere la cultura americana il celebre attore di Tutti gli uomini del presidente, incarneeossasottola bandiera a stelle e strisce.“Hofattoilmio dovere.Pertuttalamia vita, in tutti i miei film e oggi alla guida del Sundance film festival homilitatoafavoredel cinema. E quando c’è bisognodimerispondo presente,” mi ha detto Redford, nel lungo corridoio del Senato, dopo la sua audizione, prima di riprendere un aereoperLosAngeles. Jack Valenti è coerente con le sue idee. Per rafforzare la sua influenza, durante glianniottantahafatto omaggio a Ronald Reagan di una sala cinematografica all’interno della Casa Bianca.Tuttiglistudios di Hollywood hanno dato il proprio contributo affinché il cinema presidenziale fosse, secondo l’espressione di Valenti,stateoftheart (ultramoderno). Fa predisporre un servizio Vip: i film richiesti dal presidente, spesso in anteprima, sono immediatamente mandati da Hollywood con un aereo speciale, in versione 35mm. Il presidente Reagan e i suoi successori hanno trascorso molte serate in questo cinema, facendosi portare hot dog e popcorn – come inunveromultisala. Quando il lavoro di pressione su Washington non è sufficiente, Valenti utilizzailsuoassonella manica: Los Angeles e il suo potere di fundraising. Comincia allora a invitare i membri influenti del Congresso e i consiglieri del presidente alle serate degli Oscar, oppure a pranzi di lavoro nella sua lussuosa suite privata dell’Hotel Peninsula di Beverly Hills (Valenti è uno dei lobbysti meglio pagati di Washington, il suo stipendio annuale supera 1,3 milioni di dollari). “Quando si dirige la Mpaa si rappresentano gli studios, ma si deve lavorare anche con gli indipendenti, i sindacati, le società degli autori,” aggiunge Valenti. “È come se si facesse tutti i giorni una campagna elettoraleperdiventare sindaco.” In che senso una campagna elettorale? Valenti non lo dice, ma bisogna sapere che è stato uno dei più importanti fundraiser della politica americana. A titolo personale, o a nome di altri magnati di Hollywood, ha organizzato numerose raccolte fondi per finanziare le campagne elettorali di candidati, democratici o repubblicani, che avevano atteggiamenti “simpatici” verso l’industria del cinema. È questo il segreto del potere di un gruppo di pressione come la MpaanegliStatiUniti. In campo internazionale il braccio politico degli studios si affida al Congresso anche per favorire l’esportazione dei film hollywoodiani e, con il costante sostegno del ministero del Commercio estero, del dipartimento di Stato e delle ambasciate americane, esercita pressioni sui governi per liberalizzare i mercati, eliminare le quote di riserva e i diritti doganali e per ammorbidire la censura. Attraverso una decina di uffici e uncentinaiodiavvocati sparsi in tutto il mondo, la Mpaa sostiene dunque, sulla scena internazionale, pratiche anticoncorrenziali e concentrazioniverticali vietate invece in terra americana dalla Corte suprema. Fuori dagli Stati Uniti questi metodi sono stati spesso accusati invano diusare“duepesi,due misure”. La strategia internazionale di Jack Valenti è spesso discreta.Sibasasuuna visione d’insieme delle necessitàdiHollywood. In Italia, per esempio, laMpahaincoraggiato gli studios a investire sui multisala, a creare proprie catene di distribuzione locale e aumentare le coproduzioni con gli italiani. “È una strategia a trecentosessanta gradi,” dice il responsabile dell’Associazione dei produttori italiani, Sandro Silvestri, intervistato a Roma. “La Mpa e Jack Valenti sonostatimoltofurbia spingerelegrandicase cinematografiche a introdursi nel contempo nella produzione, nella distribuzione e nella gestione dei film in Italia. In questo modo ricavano una percentuale sugli incassidituttalafiliera dell’industria del cinema.” Questa strategia globale funziona bene in Europa e in America latina, ma conosce una battuta d’arresto di fronte alle percentuali imposte dalla Cina e dai paesi arabi. Per cercare di ovviare a questi problemi, Valentispingeovunque affinché sia eliminata la censura, sostituita da un codice deontologico promosso direttamente dall’industria del cinema. Come accade negliStatiUniti. “Sono i professionisti a dover stabilire le regole, non i governi,” mi conferma nel suo ufficio di Washington Jack Valenti. “Oggi, negli Stati Uniti, il cinemanonhacensura, e questo grazie a me.” Da quando nel 1966 è diventato presidente della Mpaa, infatti, Jack Valenti ha realizzato,anomedella sua organizzazione, un nuovo sistema, il “rating system”, per classificare i film secondo categorie in relazione al livello di violenza, alle scene di nudo, di sessualità (scenedifilmincuic’è qualcuno che fuma è uncriterioaggiuntonel 1997).Èstatouncolpo damaestro.Conquesto codice, Valenti ha dato un nuovo significato allelettereG,P,N,CeX: unfilmidentificatocon “G” si rivolge a tutti i tipi di pubblico, “PG” invita i genitori alla vigilanza, “PG-13” è un film sconsigliato ai minori di tredici anni; infine“NC-17”èunfilm strettamente vietato ai minori di diciassette anni,edunqueproibito nelle sale commerciali (questa categoria ha sostituito nel 1990 quelladella X).“Questo sistema di codici ha grande influenza in tuttoilmondo.Dicerto ha una matrice spiccatamente americana perché la mia intenzione,” mi spiega Valenti, “era chefosseHollywoodad autoregolarsi: è stata una decisione dell’industria del cinema e non del governo o del Congresso. Non si tratta di una censura politica, ma di una scelta fatta direttamente dagli studios.” In realtà, il codice di classificazione dei film, che è stato presentato come strumento per proteggere le famiglie, ha preservato soprattuttogliinteressi economici delle case cinematografiche, all’epoca sotto la minaccia del Congresso. Mentre ascolto Valenti parlare, mi viene in mente la formuladiPeterParker inSpider-Man:“Conun grande potere ci vuole una grande responsabilità”. In effetti, non mi sbaglio, poiché Valenti aggiunge: “Negli Stati Uniti, la libertà va di pari passo con la responsabilità”. Valenti conosce bene la storia delle case cinematografiche Rko, Orion, United Artists e Metro Goldwyn Mayer e sa che gli studios sono vulnerabili. Proteggerli è stato l’obiettivo della sua professione. Per questo, il lavoro della Mpaa è andato ben oltre la missione di lobbying. Jack Valenti non riesce a capire dove voglioandareaparare. Gli faccio alcune domande sul calendario delle uscite dei film, questione ormai di rilevanza planetaria. Ci sono davvero accordi tra i principali studi di produzione cinematografica per evitare di farsi concorrenza tra loro? Valenti continua a non capire il senso della domanda. Negli Stati Uniti, i dueperiodicrucialiper fare uscire un film mainstream, commerciale, sono piuttosto definiti: anzitutto l’estate, tra il Memorial Day (ultimo lunedì di maggio) e il Labor Day (festa del lavoro, primo lunedì di settembre). In seconda battuta c’è il periodo dellefestedifineanno, trailThanksgivingDay (il quarto giovedì di novembre) e Natale. Anche se di minor importanza, un altro periodo interessante è quello delle vacanze scolastiche, che però variano spesso da uno stato all’altro e a secondadelgradodelle scuole. In questi periodi dell’anno esce la maggior parte dei film di cassetta, i famosi blockbuster, come Harry Potter, Shrek, I pirati dei Caraibi e Avatar. Più raramente le uscite sono in primavera, il periodo più fiacco del botteghino statunitense, quello in cui i produttori sanno di non poter ambire ad alcunOscareincui,in tutto il mondo, aumenta la quota del cinemanonamericano. Tuttavia, le date di uscitadeifilmogginon si giocano più solo su scala nazionale ed è qui che le cose si complicano. Valenti mi spiega questo rompicapo di portata internazionale. Anzituttoc’èquelloche nel nostro incontro chiama “domestic boxoffice” che, stranamente, oltre agli Stati Uniti comprende anche i biglietti del cinema venduti in Canada, paese che Hollywood ha annesso al territorio americano in termini economici. In Canada le date di uscita sono diverse, soprattutto perché la festa del Ringraziamento cade il secondo lunedì di ottobre e le vacanze sono organizzate in altromodo.InMessico, paese cattolico, fondamentale per la sua vicinanza geografica, le cose si complicano ulteriormente poiché non esiste la festa del Ringraziamento. In Europa, mercato cruciale per gli americani,ilcalendario è ancora più complicato poiché bisognatenercontodei diversi paesi, delle vacanze scolastiche, delle ferie lavorative, ma anche delle partite deiMondialidicalcioe del clima – che hanno un forte impatto sul botteghino. In Asia, le date ideali per fare uscire i film sono nuovamente diverse. Per avere successo in Cina, è necessario essere in sala a San Valentino, per la festa nazionale cinese (1° ottobre),ilgiornodella Festa del lavoro o durante l’estate – ma proprioperevitareche i film americani possano dominare il botteghino cinese, la censura proibisce generalmente l’uscita di film stranieri in questedate.InIndia,il momento ideale si colloca attorno alla grande festa di Diwali, inautunno,cheinIndia è come il Natale in Europa. Nei paesi arabi,invece,ilperiodo miglioreperdistribuire film di cassetta è l’estate; in questo periodo escono generalmentelegrandi commedie egiziane. Bisogna invece evitare assolutamente il Ramadan, che impedisce di programmare qualsiasi film – il Ramadan cambia data ogni anno e talvolta cade in estate. Per riuscire a raggiungere un ampio pubblico nei paesi arabi, è meglio orientarsiversoledate cruciali della fine del Ramadan(lafestadella interruzione del digiuno, Aid el Fitr), la festadelSacrificio(Aid el Kebir, la festa più importante dell’islam, che segna la fine del pellegrinaggio e in cui avviene il sacrificio del montone), o più generalmente i fine settimana (che cadono da giovedì a venerdì sera in Arabia saudita, madavenerdìasabato sera nel Maghreb). Un filmcheesceduranteil Ramadan o tra le due feste dell’Aid ha poche possibilità di conquistare un largo pubblico. Per Hollywood, tuttavia, il botteghino dei paesi arabi non conta e dunque il piano commerciale di uscita di un film americano può non tenere conto di queste date del mondo arabo. “La seasonability della nostraprofessioneèun fattore decisivo,” mi conferma qualche settimana dopo, a Los Angeles, Dennis Rice, unodeipresidentidella casa cinematografica UnitedArtists. Proprioperfarfronte a questo complesso calendario internazionale,laMpaa ha inventato un sistema anticoncorrenza con l’obiettivo, segreto, di permettere alle sei principali major di accordarsisulledatedi uscita nazionali e internazionali dei film piùmainstream.Sedue film di cassetta rischiano di farsi concorrenza poiché è prevista la stessa data di uscita, si organizza una riunione di conciliazione e l’uscita di una delle due pellicole è posticipata. Queste “intese” sono organizzate sotto gli auspici della Mpaa. Jack Valenti mi garantisce che simili pratichenonhannomai avutoluogo. Dan Glickman scoppia a ridere. “Non ha proprio capito,” mi dice dopo che mi sono permesso di fargli notare che secondo me ha sbagliato “job”. Glickman è un deputato democratico del Kansas, è stato ministro dell’Agricoltura durante la presidenza Clintonerecentemente ha sostituito Jack Valenti alla presidenza della Mpaa. Il passaggio dall’agricoltura alla cultura è quantomeno sorprendente. Ironicamente faccio questa osservazione a Glickman.“Quandoero ministro di Clinton mi occupavo di quote agricole, soprattutto di mais.Adessoinvecemi occupo di cinema. E sa qual è l’elemento centrale dell’economia del cinema? I popcorn. Prima mi occupavo della coltivazione, adesso della vendita. Dal corn al popcorn, a me sembra proprio la stessa identica professione!” Adesso sono io a scoppiare a ridere. Daquando,nel2007, Valenti è morto, Dan Glickman tiene da solo leredinidellaMpaa.Lo incontro nel suo ufficio di Washington e mi dà l’impressionediessere, nel contempo, un fedele erede di Valenti e il suo contrario, non cercadieluderetroppo le domande, è franco e diretto. È nato nel Kansas e proviene da unafamigliaimmigrata di origini ucraine, è stato eletto al Congresso dove si è specializzato sulle quote agricole e sulle barriere doganali internazionali (è stato anche presidente della Commissione parlamentare di controllo dei servizi segreti americani al Senato) e, rispetto al suo predecessore alla testa della Mpaa, si prende meno sul serio. È un po’ smorto, con una personalità non molto marcata, mentre Valenti era un tipo caloroso e piuttosto schiamazzante, di quelli che negli Stati Uniti si dice siano dotati di un “Texassized ego” (un ego delle dimensioni del Texas). Glickman sembra invece tormentato, addirittura ansioso, con una tensione che cerca di compensare con un’apparente disinvoltura, con un’etica del lavoro e soprattutto un gran senso dell’ironia di cui mi dà prova nel nostro incontro. Dan Glickman conosce i confini del suo impero. Dall’inizio degli anni novanta le industrie dell’intrattenimento sono al secondo posto nelle esportazioni americane dopo il settore aerospaziale. Dalmomentoche,negli Stati Uniti, il mercato del cinema ristagna e dato l’aumento dei costi di produzione, gli studios sono condannati a perseguire una strategia commerciale su scala mondiale. Su questo fronte, Glickman può restare ottimista poiché il botteghino internazionale di Hollywood è in forte crescita (è aumentato del 17 per cento tra il 2004 e il 2008). Glickman peraltro è consapevolechequesto mercato globale è ampiamente sbilanciato: i film di Hollywood vengono proiettati in circa centocinque paesi, ma pergliintroitipuòfare affidamentosoprattutto su otto di essi: Giappone, Germania, Regno Unito, Spagna, Francia, Australia, Italia e Messico (per ordine di importanza, in media, escluso il Canada). Solo gli incassi in questi paesi rappresentano tra il 70 e il 75 per cento del botteghino internazionale di Hollywood. Glickman, tuttavia, pensagiàallaprossima mossa. Sa che negli ultimi anni è in costante aumento l’esportazione di film verso il Brasile e la Corea. Per questo viaggia più spesso diretto a Città del Messico, Seul, San Paolo, ma anche Mumbai e Pechino. Il suo obiettivo sono i paesi emergenti dove leentratedell’industria cinematografica americana stanno attualmente facendo registrare una crescita a doppia cifra. Per il momento,ilnumerodei biglietti aumenta più velocemente di quello degli incassi in termini di dollari, ma il futuro di Hollywood si colloca in questi orizzonti. Glickman sa che tra non molto non si potrà più contare sui vecchi mercati europei, ma su quelli dei paesi appena entrati nel G-20, sui paesi Bric (Brasile, Russia, India, Cina) e sugli altri paesi del Sudest asiatico. Si disegna dunque una nuova cartografia mondiale del mercato delcinemaamericano. Nello stesso tempo Glickman mette un freno al proprio ottimismo. Le case di produzione hollywoodiane corrono il rischio di diventare “attivi non strategici” all’interno di grandi multinazionali come Sony. Le situazioni di monopolio, in precedenza fortemente regolamentate negli Stati Uniti, oggi non hanno più alcun limite; dall’epoca reaganiana gli studios sono stati autorizzatiadacquisire reti televisive e possono inoltre avere proprie sale cinematografiche, situazione invece proibita dalla Corte suprema dal 1948. C’è poi il problema della pirateria,un’ossessione per Glickman e la Mpaa.Segiàconidvd alcuni mercati come la Cina facevano registrare il 95 per cento di prodotti contraffatti, la situazione è ulteriormente peggiorataconinternet che permette di scaricare qualsiasi film addirittura prima dell’uscita negli Stati Uniti. Infine c’è l’aumento vertiginoso dei costi di Hollywood. Oggi, solo il settore trucco di un film supera spesso i cinquecentomila dollari. Dan Glickman mi enumera i punti di forza e i limiti del sistema hollywoodiano. Al centro di questa equazione economica complessa ci sono soprattuttolestar.Solo la presenza di un numero ristretto di attori – Johnny Depp, BradPitt,MattDamon, Tom Cruise, Tom Hanks, Leonardo Di Caprio, Nicole Kidman, Julia Roberts, Harrison Ford, George Clooney, Will Smith soprattutto – può consentire a un film di uscire ovunque nel mondo. Il cachet di queste grandi star rappresenta una quota sempre crescente nel budget dei film, anche perché comprende, generalmente, anche una percentuale sugli incassi. Tutto il dilemma è qui: realizzare un film di carattere internazionale senza grandi nomi comporta un’assunzione di rischio elevata, ma avere una star conosciuta in tutto il mondo implica costi esorbitanti. La Mpaa all’assalto dell’Americalatina In Brasile l’uomo della Mpa si chiama Steve Solot. Dal suo ufficiodiRiodeJaneiro organizza le operazioni degli studios in tutta l’America latina. Lo incontro proprio a Rio emispiegache“perla Mpaa, l’importanza dell’America latina non è tanto per il botteghino, ma in termini di influenza e di numero di biglietti venduti. La quota di cinema americano al botteghino brasiliano supera l’80 per cento, come spesso accade in America latina. Anche sul restante 20 per cento non bisogna dimenticare che numerosifilmbrasiliani sono coprodotti con gli americani. Nel complesso, si supera dunquel’85percento”. L’ufficio della Mpa di Rio analizza le evoluzioni del mercato cinematografico: televisioni, emittenti satellitari, lotta contro la pirateria su internet e stretto controllo per evitare ogni misura protezionista dell’industria brasiliana. Daquestabaseviene sorvegliata tutta l’America latina: quando il Messico ha cercato di mettere in campo misure per proteggere la propria industria,SteveSolotsi è trasferito in Messico per coordinare una strategia controffensiva. Con l’appoggio, a Washington, di Jack ValentiedelCongresso americano, la Mpa è riuscita a far fallire il progetto di legge messicano e ad annullare le misure inizialmente previste. “Gli americani sono statimoltoabili.Hanno condotto una doppia offensiva: anzitutto sul fronte del governo messicano,innomedel Nafta, l’accordo nordamericano per il libero scambio, poi hanno esercitato attività di pressione direttasuigestoridelle sale,comeme,affinché mostrassimo la nostra contrarietà alle percentualiimpostedal governo. Ai messicani piacciono i grandi film di cassetta americani e con quelle misure il nostro giro d’affari sarebbe diminuito. Per questo ci siamo opposti,” afferma il messicano Alejandro Ramirez Magana, direttore generale dell’importante rete di sale Cinepolis, che sono riuscito a intervistare a Città del Messico. Per molto tempo il rappresentante della Mpa in America latina è stato Harry Stone. Stando alle parole di Jack Valenti: “Era una sorta di ufficiale di cavalleria inglese, grande e baffuto, parlava perfettamente spagnolo e portoghese. E chiunque fosse il presidente del Brasile, Harry era suo amico”. (Non ho incontrato Stone poiché è decedutoallafinedegli anniottanta.) A Rio faccio allora qualche domanda a Steve Solot sul suo predecessore. Per quarant’anni, Harry Stone ha fatto attività di pressione alla vecchia maniera: in grande stile, con feste mondane. Conosceva i presidenti di tutti i paesi dell’America latina. Organizzava sontuosi ricevimenti con champagne franceseecavialenelle ambasciate e nei consolati degli Stati Uniti. Le élite di Brasile e Argentina si precipitavano per venire a vedere in anteprima, in un’epoca in cui film americani impiegavano diverse settimane per arrivare da queste parti, 2001. Odissea nello spazio, Il padrino, Taxi Driver. Questa strategia si basava sulla promozionedeivalorie dellaculturadegliStati Uniti per incentivare il commercio. Alberto Flaksman, dell’agenzia governativa di promozione del cinema americano, conferma il ruolo determinante di HarryStoneinAmerica latina: “Era noto che Harry fosse omosessuale, ma era sposato con una facoltosa signora brasiliana.Inqualitàdi presidente della Mpa per l’America latina davagrandiricevimenti cuiinvitavaibanchieri, il jet set, gli uomini d’affari, le grandi famiglie, ma anche i militari delle dittature, cosa che dava alle serate un’atmosfera un po’ viscontiana. Negli anni settanta, la Mpa lavorava bene durante la dittatura in Brasile, quella di Pinochet in Cile, mentre aveva qualche difficoltà in Argentina con Perón, che era fortemente antiamericano. Harry Stonefrequentavapoco invece le personalità del cinema dell’America latina; le trovava troppo di sinistra o troppo nazionaliste. Senza di loro,maconidittatori, lanciava i film hollywoodiani di successo–eilsuccesso arrivava. L’oligarchia brasiliana e cilena amava il cinema americano e si è sempre venduta alla Mpa”.Questavicinanza con i poteri locali ha permesso alla Mpa di ottenere vantaggi per la diffusione di film come l’abolizione delle tasse di esportazione sulle copie, un miglior tassodicambioperfar rientrare negli Stati Uniti gli incassi del botteghino, e talvolta, quando esistevano, la mancata applicazione delle quote percentuali nazionali. Ho incontrato gli emissari della Mpa che difendono il cinema americano a Rio de Janeiro, Buenos Aires, Città del Messico e ancheCaracas.Ingran parte sono i sudamericani a gestire le reti di distribuzione sostenendo i grandi film di cassetta di Hollywood. Ma perché lo fanno? Per denaro, risponde a Rio Alberto Flaksman. “È un po’ come accade con la Coca-Cola:ovunquevoi andiate nel mondo, nel più piccolo villaggio dell’Asia e dell’Africa, troverete una bottiglia fresca di Coke. Sul piano locale, la maggior parte dei distributori di film non è americana. Qui ci sono dei brasiliani che promuovono il cinema americano non per ragioniideologiche,ma semplicemente per interesse commerciale.” Questi emissarilocalilavorano spesso in contemporanea per diverse major hollywoodiane. In America latina, infatti, gli studios non sono in concorrenza tra loro, ma si sostengono. Esistono accordi di distribuzione tra Disney e 20th Century Fox, tra Warner e Columbia e soprattutto tra Viacom e Universal che, addirittura, in Brasile gestiscono insieme alcuni cinema. Le leggi che proteggono il libero gioco della concorrenza negli Stati Uniti non si applicano in America latina. Alberto Flaksman sospira: “Di fronte a questa formidabile macchina da guerra, noisudamericanisiamo molto divisi. Non abbiamo nessuna rete di distribuzione comune. E non abbiamo un cinema ‘latino’dadifendere”. Incontro in Messico Jaime Campos Vásquez, un uomo con un percorso di vita singolare. “Sono peruviano e per venticinque anni ho lavorato per i servizi segreti del mio paese. Oggi lotto contro la pirateria per conto della Mpa,” mi dice appena lo incontro, parlando in spagnolo (stranamente Vásquez non parla inglese). Lo incontro nella sede dell’Mpa di Città del Messico. È tutto tirato, porta una cravatta a losanghe malva in stile Vasarely, un pacchiano orologio dorato, ha capelli pettinati alla perfezione, è un personaggio che difficilmentesiriescea classificare e, contro ogni attesa, è un tipo simpatico. “Venticinque anni di servizisegretièlungo,” ripete sorridendo, pieno di sé, mostrandomi con insistenza i capelli bianchi. Dietro quella giovialitàscorgoitratti di un uomo temibile. “La pirateria dei film è un crimine più leggero,”midice.“Qui, in Messico, è un commercio illegale sostenuto dal crimine organizzato, dalle reti mafiose.Lavoriamocon la polizia locale, alle dogane, e la mia esperienza nei servizi segreti mi aiuta molto in termini di analisi dell’informazione, d’investigazione e di intelligence tecnologica.” Gli chiedo se non sia una contraddizione lavorare per gli americani. Vásquez sorride: “Non ho alcun problema a lavorare per i gringos. Io lotto contro la contraffazione e contro l’economia sommersa illegale. Tutto ciò che indebolisce il crimine organizzato in America latinaèpositivo.Siamo per la tolleranza zero”. Poi esita, si raddrizza sulla poltrona e riprende il discorso, visibilmente imbarazzato dal fatto che un francese gli abbia mosso un’osservazionesulsuo lavorare per conto degli americani: “Di certo saprà che in Messicoilcinemadeve molto agli americani. Quindici anni fa non c’erano più cinema, non si proiettava più alcun film. Oggi, invece,sicostruisceun nuovo multisala al giornoeinMessicoc’è il doppio dei cinema del Brasile, mentre la popolazione è la metà. Tuttociòvienedaifilm commerciali americani che permettono al cinema di essere nuovamente redditizio ealpubblicoditornare nelle sale. Inoltre, gli americaniincoraggiano e finanziano la produzione locale. Formano registi ispanici nelle loro università e danno loro una possibilità a Los Angeles.Oggiilcinema messicano sta rinascendo”. (Hollywood controlla il 90 per cento del botteghino in Messico, il cinema messicano menodel5.) La sede della Mpa di Città del Messico è discreta, è una casa di famiglia borghese, senza alcun cartello all’ingresso, al centro di un quartiere residenziale. Al suo interno non c’è alcun segno distintivo particolare, eccetto un magnificovecchiojukebox. Vi lavorano venticinque persone, assunte da diverse società. Jaime Campos Vásquez, per esempio, non risulta ufficialmente come dipendente della Mpa: è il direttore della Apcm, Associazione di sostegno a cinema e musica. Questa associazione è stata creata congiuntamente dalla Mpa e dall’industria discografica americana per lottare contro la pirateria. “Mpa è lo sbirro buono e noi quello cattivo,” dice Vásquez. “Li ospitiamo nella nostra sede, ma non vogliamo apparire direttamente come responsabili del programma di repressione,” conferma l’avvocato Rita Mendizaal Recanses, responsabile della Mpa in Messico, che mi riceve negli stessi uffici. Infatti, l’Acpm è il settore di polizia della Mpa ed è legata direttamente a Los Angeles, dove dipende da Bill Baker, un ex responsabile dell’Fbi, poidellaCia,chefada supervisore alla lotta contro la pirateria e dipende direttamente dal presidente della MpaaaWashington. Jack Valenti aveva già oltre settantacinque anni quando incontrò il peggior nemico della sua carriera, peggiore anche della Guerra del Vietnam che aveva posto fine alla carriera del suo mentore Lyndon Johnson. Il grande nemico è internet.All’internodel suo ufficio di Washington, Valenti si scalda improvvisamente quandoaffrontoquesto tema, su cui so essere sensibile. Internet è il suo nemico personale, lasuaossessione,ilsuo incubo. Di fronte a me Valenti sbarra i grandi occhi, le sue braccia si alzano:sipotrebbedire che è diventato un personaggio esageratamente animatodellaPixar. Per condurre questa battaglia, Jack Valenti è tornato sotto i riflettori. Alla vigilia della pensione si comporta come i divi cheannuncianosempre l’ultimatournéeperpoi fareuninattesoritorno sulla scena. Nelle avversità dà il meglio disé.SacheHollywood ha bisogno di essere amata,maanchechela Mpaa non deve avere pauradiesseretemuta. All’inizio del nuovo millenniotornainsella, in pratica ricomincia a fare politica. Organizza, in modo metodico, la lotta contro la contraffazione di film, avvia la guerra contro le nuove tecnologie, mobilita il Congresso, tutti gli ambasciatori degliStatiUnitietutte le polizie, esagerando sui dati delle statistiche e facendo assurgere la propaganda degli studios contro la pirateria a causa nazionale americana. “È stata la battaglia dellamiavita,”midice Valenti. Ma in questo modo sottovaluta l’avversario, si perde un cambio epocale e, con la sua battaglia contro internet, riproduce lo storico errore commesso dall’industria discografica quando, alla fine degli anni dieci,volevaproibirela radio per timore della concorrenza. Ancora unavoltalabattagliaè persainpartenza. A pensarci bene, peraltro, si tratta di unagrandeinvoluzione strategica per Hollywood: dopo aver fatto di tutto, per decenni,perdiffondere il cinema americano ovunque nel mondo e con tutti i mezzi, la Mpaa è ferocemente passata dalla promozione alla repressione, dalla cultura alla polizia. Bisogna tuttavia riconoscere che la contraffazione di videocassette e dvd in Asia rappresenta una veraepropriaindustria (il 90 per cento del mercato in Cina, il 79 in Thailandia, il 54 a Taiwan, il 29 in India, secondo le stime della Mpaa), in Africa, in Medio Oriente, in America latina (il 61 per cento del mercato in Messico) e in Russia (il 79). La Mpaa stima oggi che Hollywood perda 6,1 miliardi di dollariall’annoacausa della pirateria. Questo dato dipende ancora in gran parte dalla contraffazione di videocassette e soprattuttodidvd(il62 per cento del totale) e in parte inferiore, ma crescente, a causa di internet. Tuttavia, Valenti ha immediatamente colto ilproblema:lapirateria di prodotti culturali “materiali” finora non hacolpitogliincassidi Hollywood perché si concentravasumercati poco redditizi; ma con la smaterializzazione dei film si diffonde la pratica di scaricare film in modo illegale in Europa,inGiappone,in Canada e in Messico e anche negli Stati Uniti. Questa volta il pericolo èincasa. La Mpaa ha dunque fatto della lotta alla piraterialasuapriorità mondiale, è nata una nuova strategia che ha rovesciato gli equilibri e provocato cambiamenti di alleanze. Si ritrova dunque alleata con i governi francese e tedesco, mentre questi ultimi erano in precedenza reticenti a collaborarci poiché difendevano le proprie cinematografie nazionali. Nel contempo è nata una crescente incomprensione con i paesi emergenti e i paesi del Sud del mondo, che si rifiutano di sanzionare la pirateria per ragioni economicheepolitiche. La Cina, per esempio, non condivide la filosofia americana sul copyright e la Russia non intende favorire le esportazioni statunitensi. Il paradosso sta nel fatto che, nel frattempo, la Mpaa ha dimenticato la lotta contro le percentuali nazionali. “L’abolizione delle quote percentuali ediriservanonèpiùla nostra priorità d’insieme,” mi conferma Dan Glickman, l’attuale presidente della Mpaa, nel suo ufficio di Washington. Piuttosto che lanciarsi in una guerra globale, la Mpaa negozia caso per caso, ora con il Messico, ora con la Corea. La nuova diplomazia americana del cinema non segue una politica multilaterale, ma rincorre una “multipartnership”. Attraverso i canali diplomatici, attraverso il suo dialogo con il Congresso e le polizie, la Mpaa, per quanto affermi di essere indipendente,èdifatto un’agenzia americana “quasi governativa”. Non bisogna tuttavia cadere nella teoria del complotto. Nulla di tuttociò,ilegamiconil governo, né quelli con la Cia o l’Fbi, spiegano realmente la potenza, né la crescente importanza del cinema americanonelmondo. Per comprendere il monopolio internazionale degli Stati Uniti sulle immagini e sui sogni è necessario risalire alle origini di questo potere, non a Washington, ma a Los Angeles, non alla Mpaa, ma agli studios di Hollywood. È necessario anzitutto occuparsi del pubblico americano: milioni di spettatori che ogni anno acquistano circa 1,4 miliardi di biglietti d’ingresso al cinema per una spesa di oltre diecimiliardididollari. Oggi consumano film soprattutto nelle sale cinematografiche delle grandi periferie degli Stati Uniti. Tutto è cominciato qui: nei centri commerciali ai bordi delle autostrade, nei drive-in, negli exurbseneimultisala. 2. Multisala “Le toilette sono talmente belle che mi chiedo se un giorno non si verrà al cinema solo per andarle a vedere. Inizialmente volevano addirittura farne pagare l’uso ai turisti.” Sorride Mohammed Ali, manager dei multisala di City Stars, uno dei più grandi centri commerciali del Medio Oriente, a Nasr City – città di Nasser – vicino Eliopoli, venticinque chilometri a est del Cairo,inEgitto. Aldisopradeicubiin cemento che compongono i sette piani dello “shopping mall” svettano tre piramidi di vetro illuminate. Esclusa quest’ultima caratteristica in stile egiziano, questo è un luogo simile a tutti i centri commerciali del mondochehovisitato– aOmahanelNebraska, aPhoenixinArizona,a Singapore, Shanghai, Caracas e Dubai. City Stars è stato finanziato dal Kuwait, ha aperto i battenti nel 2004 ed è la risposta araba al benessere e al consumismo.Nonsose rappresenti un’operazione di cattivo gusto, ma dal punto di vista commercialeCityStars funziona a meraviglia. Èluogodiapprodoper tutto il Medio Oriente, la gente ci viene per comprare le maggiori marche internazionali e, come ovunque, anche un po’ di sogno americano. All’interno del centro commerciale, una via di mezzo tra un progetto faraonico e una cattedrale nel deserto, ci sono due multisala che, stando a quanto mi dice Mohammed Ali, fanno registrare un quarto degli incassi del botteghino egiziano (il dato reale è il 20 per cento, che comunque è una percentuale già considerevole). Il più grande dei due cinema ha tredici sale alle quali si accede da una grande hall il cui pavimentoècopertoda una moquette decorata in stile Guerre stellari, mentre i muri e il soffitto sono ornati con “astrazioni colorate” proiettate da riflettori simili a quelli della 20th Century Fox primadeititoliditesta. All’interno della hall c’è una lunga serie di postazionichevendono piramidi di popcorn. “Mangiare popcorn fa parte dell’esperienza dell’andare al cinema,” commenta il manager. Poi aggiunge: “Contro ogni attesa, il segreto del nostro successo è dato da due cose che poco hanno a che fare con il cinema in senso stretto: l’aria condizionata e la sicurezza”.Questoèun luogo sicuro per i giovani e per le famiglie – fattore decisivoperilsuccesso dei multisala in tutto il mondo, dall’Egitto al Brasile, dal Venezuela agli Stati Uniti. Naturalmente anche la programmazione è importante ed è pianificata secondo un sottile compromesso tra proiezione di commedieegizianeedi film commerciali americani. “Anche se i giovani, in realtà, vogliono vedere solo film americani,” constata Mohammed Ali. Paradise 24 è un altro multisala in stile tempio egiziano. Ha aperto da poco i battenti,ècompostoda ventiquattro sale e somiglia anch’esso a una piramide, con tanto di colonne e geroglifici. È stato concepito secondo quello che oggi si chiama “theming”, ovvero la pratica di dare un’ambientazione a uno spazio commercialeattraverso un trionfo di stereotipi cherealizzanounluogo immaginario. Questo tempio egiziano si trova a Davie, sull’Interstate 75, in Florida, negli Stati Uniti. Nel corso del 2010 verrà inaugurato un altro grande multisala: il cinema Muvico, all’interno di un centro commerciale del New Jersey, il più grande multisala americano in assoluto, anch’esso decorato in stileegiziano. Per comprendere l’intrattenimento e la cultura di massa negli Stati Uniti – ma anche nelrestodelmondo–è necessarioripercorrere le tappe più importanti della grande rivoluzione che ha portato dal drive-in al multisala, dal suburb all’exurb, dai popcorn alla Coca-Cola. Si tratta di una rivoluzione tutta a stelle e strisce, cominciata nel cuore dell’America mainstream. Dal drive-in multisala al Negli Stati Uniti, primadeimultisala(ne ho visitati oltre un centinaio in trentacinque stati) c’erano i drive-in, frutto di un’idea, tanto geniale quanto duratura, di aprire un cinema sullo spiazzo di unparcheggio. Oggi, negli Stati Uniti, i drive-in non esistono quasi più. Ne ho visti alcuni, abbandonati, trasformati in mercatini delle pulci delladomenica,oppure aperti solo in estate a San Francisco, a Los AngeleseinArizona.Il primo drive-in è stato inaugurato nel 1933 nel New Jersey, nel 1945 se ne contavano meno di cento, ma pochi anni dopo erano quattromila. Nel corso degli anni ottanta sono scomparsi quasi tutti. Cosa ha dunque portato alla fine del fenomeno del drive-in, che costituisce una delle matrici della cultura di massa americana del dopoguerra? Scottsdale, Arizona. In questa periferia di Phoenix, ancora oggi esiste lo Scottsdale Drive-in, dotato di sei schermi a cielo aperto. È stato realizzato nel 1977 e inizialmente si chiamava “Desert Drive-in”, poiché si trovava nel deserto. Oggi, invece, è all’interno del tessuto urbano e vi si accede percorrendo una larga strada a otto corsie costruita appositamente per il drive-in. Le sei “sale” sono una di fronte all’altra, occupano un grande spiazzo che di giorno sembra abbandonato, mentre di notte è illuminato e affollatodacentinaiadi auto. Il drive-in è aperto trecentosessantacinque giorniall’anno,“rainor shine” (che piova o faccia bello), mi dice Ann Mari, una dipendente dello Scottsdale Drive-in. Può ospitare fino a 1800 auto. “Bisogna venire con una macchina comoda, perché si passa la serata seduti sui sedili della propria auto,” precisa Ann Mari. “Bisogna avere anche una buona autoradio, poiché l’audio del film arriva direttamente nell’auto attraverso una stazione radio in frequenza Am. Meglio avere anche l’aria condizionata.” I drive-in ancora esistenti ai bordi delle autostrade americane conservano l’atmosfera di una volta. Tutti hanno fluorescenti luci al neon con colori vivaci e sono ben visibili da lontano: il Rodeo-Drive, a Tucson inArizona,siriconosce perlaluminosacowgirl che fa ruotare il lazo per aria; il New Moon Drive, a Lake Charles in Louisiana, per una luna fluorescente in cielo; il Campus Drive di San Diego per una fiammeggiante ragazza pon-pon. Nel 1956, negli Stati Uniti, c’erano oltre quattromila drivein che, peraltro, vendevano più biglietti deicinematradizionali. Il drive-in era un fenomeno giovanile e stagionale. Il prezzo d’ingresso era basso: due dollari per auto, indipendentemente dal numero di persone che c’erano a bordo; poi è stata introdotta una quota per ciascun passeggero(equalcuno ha cominciato a nascondersi nei bagagliai, prima che venisseroregolarmente ispezionati). Con il biglietto si aveva diritto a due proiezioni. La qualità delle immagini era mediocre, ma era poco importante: sullo schermo si vedevano belleragazzee,lontano dai genitori, si poteva baciare la propria fidanzata all’interno dell’auto. In inglese si dice: “to ball” – che è qualcosa di più del semplice baciare. Il drive-in ha avuto un ruolo importante nelle prime esperienze sessuali degli adolescentiamericani. La rapida esplosione deidrive-inèdovutaal fatto che sono attività estremamente redditizie. Non tanto per i biglietti d’ingresso per assisterealleproiezioni dei film, ma grazie alle concessioni e al sistema “pop & corn” (Coca e popcorn). Gli americanicomincianoa prendere l’abitudine di mangiare al cinema proprio sui parcheggi dei drive-in. Di lì a poco, le auto familiari si trasformeranno in veri e propri fast-food conleruote. Inoltre, non c’è più bisogno di badare al vestito per uscire, al cinemacisipuòandare semplicemente in jeans. Si può restare informali, liberi, senza ghingheri. Ovunque ci sono colori vivi, jukebox scintillanti, belle cameriere su pattini a rotelle vestite in rosa caramella o blu turchese, il cielo è solcato da luci al neon e la serata si chiude con qualche fuoco artificiale – questa è la felicitànell’Americadel dopoguerra. Oggi, mentre percorro le strade nordamericane,faticoa comprendere come i sogni di cinema delle classi medie abbiano potuto passare dalle grandi sale degli anni trenta,immensipalazzi in marmo e con belle moquette rosse, alle proiezioni su un muro di cemento in un parcheggio cui si assiste all’interno della propria auto. Ma per capire è sufficiente guardarsi un po’ meglio attorno. I giovani, le famiglie, la nuova classe media, in realtà, non si sono poi allontanati molto da quei parcheggi. Con i nuovi shopping-mall, gli americani continuano ad andare al cinema nei parcheggi, non più i drive-in,maimultisala. Omaha, Nebraska. A una trentina di chilometri dal centro città, in mezzo a un vecchio campo di mais ha appena aperto un multisala. Si potrebbe pensare che l’imprenditore americano che ha costruito questo multisala abbia fatto una pazzia. “Macché pazzia, questo è business,” mi dice Colby S., manager del VillagePointCinema. I lavori di realizzazione del multisala sono stati da pocoultimati,ilcinema sorgerà in mezzo a un immenso centro commerciale, il Village Point Mall, ancora in costruzione. Mi trovo in una zona rurale dal nome imprecisato: qualche settimana prima non c’era nulla, solo mucche. Per identificare la zona si dice semplicemente West Omaha. Come spesso accade nelle periferie americane, i centri abitati sono individuati con i punti cardinali, con il nome dell’autostrada vicina oppure, molto spesso, con il nome del principale centro commerciale di riferimento. Non è un caso che i promotori immobiliari abbiano voluto creare Village Point Mall in questo posto lontano e “alla fine della città”, sanno infatti che Omaha si estende verso ovest. Le autostrade non sono ancorastateterminate, i semafori ancora non esistono, ma è già chiarocheprestoquici vivranno centinaia di migliaia di persone. A dominare il centro commerciale c’è il multisala. È il cinema che “fa la città”: dà queltocco“culturale”a questo spazio. Il multisala significa l’avventodellacittà. In questo grandioso multisala si respira un’atmosfera piacevole,glispettatori sonoindirizzativersole sale attraverso linee sul pavimento, un po’ come negli aeroporti. “La cosa più importante,” spiega Colby, sono le toilette “in particolare per le famiglie e le persone anziane.” Ci sono infatti numerosi e spaziosibagni,comein tutti i multisala. Il numero è stato scientemente calcolato secondopreciseregole. “È necessario in media un gabinetto per quarantacinque donne presenti nel cinema,” mi spiega il manager. Due belle scale mobili conducono gli spettatori verso le sale dei piani superiori e, allafinedellaserata,la loro direzione è invertita, così il pubblico può comodamente dirigersi versol’uscita. Come dappertutto negliStatiUniti,lesale sono organizzate secondo il cosiddetto modello dello “stadium”, con una forte pendenza in cui ogni settore è più elevato rispetto al precedente in modo da offrire una vista perfetta in ogni ordine di posti. I posti a sedere sono larghi, i corridoi spaziosi. Il multisalaècompostodi sedici sale da ottantotto a trecento posti. Da dove nasce l’idea di fare un cinema con diversesale?Èforseun modo per favorire una programmazione diversificataeproporre nel contempo film di successo e film di nicchia? Colby: “Nulla di tutto ciò. Semplicementepernon lasciarci sfuggire neanche un teenager”. Qui i film commerciali e di successo, i blockbuster, sono proiettati in diverse sale in contemporanea: “nelle ore di punta” le proiezioni cominciano ogni quindici minuti, prima di venire al cinema non è neanche più necessario consultare gli orari. Per ogni spettacolo ci sono1300persone,che vuol dire 7000 persone al giorno. Qui gli spettatori sono tutti al caldo e in tutta sicurezza: all’ingresso del multisala c’è, infatti, un cartello che ricorda che è vietato introdurviarmi. La programmazione del multisala di Omaha è tipicamente mainstream – SpiderMan 3, Shrek 2, Gli incredibili, Io, Robot, mentre si punta poco suifilmrated,vietatiai minori di tredici o diciassette anni. Anche il sabato non ci sono proiezioni dopo le ventidue. Le famiglie rappresentano una parte importante del pubblico, tra cui anche un 30 per cento di anziani. La programmazione non prevede film stranieri sottotitolati:“Leggerei sottotitoli significa chiedere di fare uno sforzo. Qui il pubblico viene per divertirsi e non per tornare a scuola”, mi spiega il manager. Il ragionamento sembra logico. Perché il multisala collocato nel cuore del centro commerciale è diventatoilsimboloper eccellenza dell’esperienza del cinema negli Stati Uniti, e ben presto in tutto il mondo? I gestori delle sale e i distributori americani sono stati lungimiranti ehannocapitoprimadi altri che il centro commerciale è diventatoilcentrodelle periferie americane. Ha preso il posto della famosa main street delle piccole città e di downtowndellegrandi. Nel 1945, negli Stati Uniti esistevano 8 di quelli che all’epoca si chiamavano “shopping center”,nel1958erano 3000, nel 1963 erano oltre 7000, nel 1980 erano 22.000 e oggi sonooltre45.000. Quando, nel corso degli anni settanta, si sono resi conto che negli Stati Uniti si apriva in media un nuovo centro commerciale ogni quattro giorni, i proprietari di General Cinema, American Multi-Cinema e poi di Cineplex-Odeon – i tre inventori del multisala – hanno capito che dovevano aprire i loro cinema in periferia e non più in città. Il multisala rappresenta, nel contempo, un cambiamento di posizione geografica e unmutamentodiordini di grandezza. Il primo cinema con due sale è nato nel 1963 (il Parkaway Twin in un centro commerciale di Kansas City, creato da General Cinema). Nel 1966 aprono le quattro sale del Metro Plaza Complex (sempre a Kansas City, creato dal concorrente American Multi-Cinema, detta Amc). Nel 1969, nasce il “sixplex” a Omaha, poièlavoltadelprimo “eightplex”, nel 1974, ad Atlanta. Aumentando il numero delle sale all’interno di uno stesso cinema di periferia, gli inventori del multisala, in realtà, non inventano nulla: riutilizzano semplicemente una formula di successo, quella dei vicini centri commerciali, che ospitano i negozi e i fast-food delle diverse catene per soddisfare tutti i gusti del pubblico. Ben presto Amc, che nel 1972 possiede già 160 sale, inaugura la pratica di dare il nome del cinema con il numero delle sale, criterio oggi ormai generalizzato (Empire-4, Midland-3, Brywood-6). Alla fine degli anni settanta, questo gruppo estende ulteriormente il concetto di multisala con impianti dotati di 10, 12 e addirittura 14 sale, spesso collocate nel sottosuolo, separate semplicementedamuri in cartongesso (con il triste effetto di seguire i dialoghi di Io e Annie con in sottofondo la musica di Guerre stellari). Il multisala è moderno, efficace, vicino al posto in cui vivono gli americani e, fattointeressante,èun fenomeno che negli Stati Uniti è sempre stato valorizzato, sia dalla stampa sia dal mondo di Hollywood, che ha considerato lo sviluppo di questi complessi come un alleato e non come un nemico del cinema. Siamobenlontanidalle critiche formulate in Europa sull’uniformità delle periferie e sulla deculturalizzazione prodotta dai multisala all’interno dei centri commerciali. Ma questo successo popolare doveva ancora trovare il suo modelloeconomico. Quando sono i popcorn afarvivereicinema Alcivico401diSouth Avenue a Bloomington, diciotto chilometri a sud di Minneapolis, si trova l’Amc Mall of America 14. Mall of America è stato aperto nel 1992, ha 520 negozi, 50 ristoranti e 12.000 posti auto ed è uno dei centri commerciali più grandi almondo.Perquestolo si chiama “megamall” (con i relativi “megacasini” dovuti al ritardo dell’avvio delle attività).Èunimmenso rettangolo, piuttosto brutto, di tre piani. Al centro c’è un immenso parco d’attrazione interamente coperto con le giostre e una ruotapanoramica.Ogni anno, è meta per 40 milioni di persone, in gran parte ovviamente clienti e consumatori, macisonoanchemolti turistiattrattidallasua grandezza e dal suo valore storico, come quando si va a visitare ilLouvreolePiramidi. Rispetto alle dimensioni del centro commerciale, il suo multisala,l’AmcMallof America 14, appare piuttosto modesto. Qui Avatar può essere proiettatosoloventidue voltealgiorno(davvero poco rispetto alle quaranta proiezioni giornaliere disponibili all’Amc Empire 25 a Times Square, New York).Questoimpianto, tuttavia, appartiene alla nuova generazione di multisala ideata neglianniottantadalla retecanadeseCineplex Odeon: un’efficace combinazione tra il numero di schermi dei multisala di prima generazioneelegrandi dimensioni dei palazzi che ospitavano i cinema prima della guerra. Le sale sono più grandi, sono collocatesupiùpianie non ricavate nei sotterranei come avveniva in precedenza; ci sono grandi vetrate che permettono di vedere la città-periferia che si estendeall’infinito. Contrariamente a quanto fanno i responsabili delle case di produzione di Hollywood,chetalvolta si assumono rischi incredibili, i gestori delle sale cinematografiche sanno perfettamente cosa devono fare: sannocheillorolavoro èvenderepopcorn. L’arrivo dei popcorn nei cinema americani risale alla Grande depressione del 1929. In quest’epoca di recessione nazionale, i proprietari delle sale cinematografiche, spesso ancora indipendenti, sono alla ricerca di nuove forme diincasso.Lasoluzione sta nelle abitudini del pubblico che, prima di vedere un film, acquista dolciumi e caramelleaibaracchini eaichioschinellazona attornoalcinema.Così i gestori decidono di cominciare a vendere caramelle e bottiglie di Coca-Coladirettamente alle casse. È una scommessa, ma il pubblico reagisce a meraviglia. Un prodotto magico comeipopcorndiventa popolare nel corso degli anni trenta. Il vantaggio offerto dai popcorn è duplice: facile da produrre e con costi minimi rispetto ai guadagni poiché il 90 per cento dell’incasso è puro guadagno. Per questo i drive-in e poi i multisala costruiscono la propria fortuna attorno ai popcorn. I cinema cominciano a comprare mais all’ingrosso, direttamente dalle industrie agroalimentari addette alla raffinazione. In commercio si trovano buone macchine automatiche per la produzione di popcorn. Nel contempo l’industria del mais, concentrata nel Midwest, si sviluppa e aumenta la propria produzione di venti volte tra il 1934 e il 1940. Gli Stati Uniti diventano, e sono tuttora, il primo produttore mondiale di mais. La lobby del “corn” getta radici al Congresso a Washington ed è sostenutadalministero dell’Agricoltura e da quello della Guerra. In breve tempo il granoturco invade tutti i prodotti, spesso sotto forma di corn syrup e, a partire dagli anni settanta, di high fructuose corn syrup (una sorta di sciroppo zuccherato di mais che contiene più fruttosio rispetto allo zucchero di canna). È contenuto negli yogurt, nei biscotti, nel ketchup, nel pane per hot-dog e hamburger e ovviamente nella Coca- ColaenellaPepsi.Èun vero fiore all’occhiello dell’agricoltura nazionale americana e ogni tentativo, secondo ragioni ecologiche, sanitarie o dietetiche, di limitare l’invasione degli zuccheri del mais e dei derivati del “corn” si è infranto contro i costi ridotti di questa produzione e contro la potenza della lobby del granoturco. Tutto ciò nonostante sia dimostrato che il corn syrup e l’high fructuose corn syrup siano tra i fattori aggravanti dell’obesità della popolazione americana. Negli anni cinquanta l’agro-business del mais individua nelle sale cinematografiche un potenziale sbocco persmaltireglieccessi di produzione. Comincia allora un’offensiva commerciale verso i gestori dei cinema che vengono incentivati a venderepiùpopcornin cambio di campagne pubblicitarie fatte apposta per le loro sale. Si tratta in realtà di campagne per promuovereipopcorn. Se erano già diffusi nei drive-in, nei multisala i popcorn diventano la regola. I banconi dove si fa la vendita diventano più grandi, aumentano anche le porzioni – e ovviamente i prezzi. Uno dei manager di Amc Mall of America 14, che ho intervistato a Minneapolis, mi spiega che la redditività del cinema non è data tanto dai biglietti d’ingresso, ma soprattutto dalle concessioni, i cui introiti vanno totalmente al gestore. Secondo i suoi calcoli ogni spettatore spende in media due dollari in popcorn. “I film d’azione ne fanno vendere più porzioni,” dice. Il 90 per cento degli incassi si fa all’inizio del film, il 10 per cento durante il filmedènulloallafine. “Gli spettatori non consumanomaiquando vanno via,” dice dispiaciutoilmanager. Una delle principali reti di multisala, Cineplex Odeon, acquisirà a breve una marca di popcorn, Kernels Popcorn Limited. In questo modo potrà vendere i propri popcorn nei propri cinema e gli incassi saranno ancora maggiori.Comemidice una dipendente dell’Amc Mall of America 14, quasi sul tono della battuta: “Il proprietario di un cinema deve anzitutto individuare una buona posizioneperlavendita dei popcorn, poi ci costruisce attorno il multisala”. Dalsuburball’exurb Edwards Metro Pointe 12, posto all’incrocio tra le autostrade 405 e 55, è un tipico multisala del gruppo Regal Entertainment.Siamoa Orange County, a sud- est di Los Angeles, tra il Pacifico e le montagne di Santa Ana, in quello che oggi negli Stati Uniti si chiama exurb (termine che deriva da “extraurbia”, si parla anche di fenomeno dell’exurbia).L’exurb è la città all’infinito, la città che continua a estendersi. In questi luoghi, non lontano dalle autostrade a diciottocorsiepostesu più livelli che disegnano anelli nel cielo, ci sono le chiavi del successo della cultura di massa americana. In origine c’era anzitutto il suburb, la periferia. Tra il 1950 e il 1970 la popolazione delle città americane è aumentata di dieci milioni di abitanti, le periferie di ottantacinque milioni. È sufficiente sfogliare le pagine dei vecchi numeri della rivista “Life” per avere un’idea di quanto il suburb fosse una delle massime aspirazioni della classe media americana degli anni cinquanta: lavatrici di grosse dimensioni, frigoriferi giganti e passeggini per due e addirittura tre gemelli, prati verdi impeccabilmente rifiniti. Questi sono gli anni in cui nasce il fai date,èl’epocaincuile famiglie trasportano cucine componibili interamente da montare sul tetto di piccoleFord,primache Home Depot cominci a trasformare i suburbs in immensi empori permanenti. I genitori sognano famiglie con due o tre figli (con il baby boom, invece, ne avranno quattro o cinque). All’interno di questi nuovi spazi si vive anche una dimensione comunitaria attraverso lo sport, le scuole e le chiese.Certo,ilsuburb nonènéunkolkotz,né un kibbutz, ma evoca ancora qualcosa di vagamente“socialista”, che scompare poi con l’exurb. Per i gestori dei cinema il suburb è stato il grande affare degli anni cinquanta, grazie ai drive-in, mentrel’exurbèquello dell’America contemporanea, grazie ai multisala. Il suburb era il primo anello periferico costruito attorno alle città, che continuava a essere il polo d’attrazione. Le persone continuavano ad andare nel centro dellacittàperlavorare, per andare al ristoranteealcinemae poi tornavano in periferia la sera. Il suburb era la città- dormitorio. L’elemento di novità dell’exurb, e in un certo senso l’elemento strutturale che lo contraddistingue, sta nello spostamento del mercato del lavoro. Nell’exurb, diversamente dal suburb,gliamericanici vivono e ci lavorano. E naturalmente ci passano anche il loro tempo libero. Per questo allo sviluppo degli exurbs corrisponde anche la progressiva apertura delle sale cinematografiche. Questo fenomeno è cominciato negli anni quaranta, si è ulteriormente accentuato negli anni settanta e si è definitivamente diffuso negli anni ottanta e novanta grazie alle nuove tecnologie che hanno accelerato e semplificato le comunicazioni. È il modellodiLosAngeles: la città, invece di crescere in altezza, come New York, dove lo spazio era limitato, siestendeesisviluppa in larghezza. Generalmente, l’exurb nasce lontano dalla città, all’incrocio tra due autostrade, una in direzione nord-sud (sempre indicata con un numero dispari negli Stati Uniti) e l’altra est-ovest (numero pari). Ovunque, a Phoenix, Denver, Houston, Miami, Dallas, Austin, Atlanta, ho visto città distesepercentinaiadi chilometri e pluricentriche. Spesso mi sono sembrati luoghi completamente uniformi e tutti uguali: gli stessi magazzini culturali (Barnes & Noble, Borders, Hmv, Blockbuster), le stesse marche (Sears, Kmart, Saks, Macy, Gap, Banana Republic), spesso le stesse catene di ristorazione per un pubblico di massa (BurgerKing,Popeye’s, McDonald’s, Wendy’s, Subway, The CheeseCake Factory e le tre cateneinfranchisingdi Pepsi-Cola: Kentucky Fried Chicken, Taco Bell e Pizza Hut). Naturalmente, quasi ovunquehovistoluoghi perfettamente identici, i caffè Starbucks e i supermercati Wal- Mart. Uniformità, automobile e centri commerciali: l’America credeva di avere una grande eterogeneità e si riscopre invece uniforme. Questa apparente omogeneità nasconde tuttavia realtà sorprendenti. Negli exurbs ho trovato, infatti, tutto e il contrario di tutto: librerie giapponesi, studi dentistici per lesbiche, teatri latinoamericani, negozi di sandali tunisini e ceramiche africane, lavanderie cinesi che fanno pubblicità in mandarino, un Trader Joe’s per vegetariani, un fast-food che propone ovviamente il “Usa n. 1 Donuts”, un negozio di dvd di Bollywood e ristoranti con piatti di carne kosher o halal. Ho trovato più diversità di quanta se ne possa immaginare, meno conformismo, mediocrità culturale e omogeneità di quanto dicano gli intellettuali newyorkesi che, dagli anni cinquanta, hanno cominciato a considerare prima il suburb, poi l’exurb come il responsabile di tutti i mali. Oggi, ormai, le città con più schermi cinematografici per numero d’abitanti non sono più New York e Boston, ma Grand Forks (Dakota del Nord), KilleenTemple (Texas) e Des Moines (Iowa). Ovvero, degli exurbs. Quando si arriva ad Atlanta,peresempio,la città di Coca-Cola e Home Depot, percorrendo l’autostrada I 75, si attraversano per cinquanta chilometri exurbs in cui si succedono multisala, centri commerciali, fast-foodehotelabuon mercato, poi si arriva incentrocittà,cheèun ghetto, deserto, abbandonato e a maggioranza nera (Martin Luther King è natoesepoltoqui).Nel corso degli anni novanta, Atlanta ha avutounincrementodi popolazione di 22.000 abitanti,ilsuoexurbdi 2,1milioni. Con l’exurb, una sorta di periferia della periferia, gli abitanti si sono trasferiti dalla prima cerchia dei suburbs alla seconda o alla terza cerchia, e – cosa importante – non passano più per la città. Ci si allontana e tutto cambia. Di fronte alla congestione di auto, ai problemi di parcheggioincittà,alla mancanza di scuole, ai costi degli appartamenti e delle babysitter, di fronte all’inquinamento, ma anche alla droga e alla violenza, gli americani sono scappati dal centro città. Sembra pertinente l’affermazione del filosofo George Santayana quando diceva: “Gli americani non risolvono i loro problemi, se li lasciano allespalle”. La nuova frontiera americana,l’exurb,non ha più bisogno della città, non è neanche più una periferia, ma una nuova città. Se, di fatto,ilsuburbrafforza il bisogno della città e neaffermanuovamente la sua supremazia, l’exurb, semplicemente,negala città. Il 90 per cento degli uffici costruiti negli Stati Uniti negli anni novanta è collocato negli exurbs, soprattutto negli office parks, lungo le autostrade,enonpiùin centro. Anche la culturasièinsediatain queste lontane periferie alla Steven Spielberg:ilmultisalaè ilcinemadell’exurb. Coca-Cola acquisisce Columbia A tremila chilometri daAtlanta,versoovest, si trova Mesa, in Arizona. È una città con mezzo milione di abitanti, ma è poco conosciuta. Qui ho incontrato Gerry Fathauer,direttricedel nuovo centro culturale della città. Mesa è il tipicoexurb.Èanchela terza città dello stato, dopoPhoenixeTucson. “Fra dieci anni saremo laseconda,”pronostica Gerry Fathauer. Mesa si espande verso est, dove c’è il deserto. A qualche chilometro di distanza ci sono le riserve indiane, quelle degli apache. Fathauer mi dice: “Mesa è una città che si sviluppa alla velocità di un cavallo al galoppo”. Da allora sono ossessionato da questa espressione. “Daunpuntodivista culturale, siamo stati spesso accusati di essere una periferia constradeampieeuna mentalità ristretta,” prosegue Gerry Fathauer. “Noi vogliamo dimostrare che qui possiamo fare cultura e anche arte. Nel contempo, però, dobbiamo adattarci ai desideridellacomunità e ai suoi gusti. Qui a Mesa c’è una tipica popolazione da classe media.Elagentevuole i multisala.” A Mesa ci sono tre multisala, tra cui un immenso Amc Grand 24, accortamente collocato – è diventata ormai un’abitudine – all’incrocio tra due loops autostradali, autostrade che somigliano a tangenziali attorno alle città, identificate negli Stati Uniti con numeri a tre cifre (qui siamo all’incrocio tra la Beltway 202 e la Beltway101). L’Amc Grand 24, a duepassidaldeserto,è a mia insaputa uno degli oggetti del contendere di una “guerra” inimmaginabile, la guerraperlaconquista dell’American mainstream. Due colossi tradizionalmente nemicicomeCoca-Cola e PepsiCola si contendono, infatti, il controllodeimultisala. La contesa per il controllo delle sale cinematografiche risale, in realtà, agli anni cinquanta. Prima di allora, né Coca né Pepsi avevano come obiettivoilmercatodei giovani: erano ancora marchi indifferenziati che si rivolgevano alle famiglie, semplicemente orientati verso un consumo di massa. Del resto, i palaces, i grandiosi cinema degli anni venti, non vendevanobibite. Nel dopoguerra, l’azienda di Atlanta, la Coca-Cola, avvia per la prima volta campagne pubblicitarie nelle radio e nelle sale cinematografiche. Il suo obiettivo sono in particolare i drive-in, conicelebrispotincui si vede la coppia felice seduta su un’auto decappottabile mentre guarda un film e beve Coca-Cola. Gli slogan sono celebri: “Sign of good taste”, “Be really refreshed”e“Gobetter refreshed”. I gestori dei drive-in stanno al gioco e istituiscono l’intervallo tra il primo e il secondo tempo del film per poter vendere più popcorn e Coca. Queste campagne pubblicitarie sono, tuttavia, ancora generaliste e si rivolgonoatuttiitipidi pubblico. Il cinema è ancora uno spazio pubblicitario come un altro. Solo a partire dagli anni sessanta i giovani sono considerati una fascia di mercato fondamentale per l’industria delle bibite: è il momento in cui i teenager diventano, per la prima volta, un gruppo distinto dagli altri in termini di consumi, portatore di culture e codici specifici. A intraprendere questa nuova strada è Pepsi, eternosfidante,quando lancia una delle più celebri campagne della storia della pubblicità americana: la “Pepsi Generation” (ne Il maschio e la femmina di JeanLuc Godard anche Chantal Goya affermadifarneparte). Questa campagna fa registrare un successo incredibile (“Come alive! You’re the Pepsi Generation”, 1963) e celebra lo spirito della gioventù che si ribella contro l’establishment (rappresentato ovviamente da CocaCola). Sul piano del marketing, questa campagna va in controtendenza rispettoaunastrategia di massa e introduce l’idea di rivolgersi a mercati specifici, nella fattispecie i giovani e i modi di vita dei teenager (“Now it’s Pepsi, for those who thinkyoung,”1961).La cosafunziona. La campagna Pepsi Generation inonda le nuove emittenti radiofoniche e i cinema. Di lì a poco Pepsi differenzia ulteriormente i propri spot e decide di puntare sui giovani neri, si moltiplica così l’effetto della “Pepsi Generation”associando la bibita, proprio nel momentoincuilacasa discografica Motown diventa celebre per la musica pop nera, all’idea di “hip” e di “cool”. Coca-Cola non risponde immediatamente alla nuova strategia di Pepsi, resta assestata sull’idea di un mercato generalista, teme di lanciarsi in campagne pubblicitarie mirate per paura di perdere il mercato di massa. Decidepoidigiocarela carta dell’autenticità del suo marchio contro Pepsi, implicitamente accusata di essere una bibita usurpatrice. (“It’s the real thing”, 1969; “Can’t beat the real thing”, 1990; “Always Coca-Cola”, 1993). Nel multisala di Mesa, attorno a me, i muri sono letteralmente invasi da manifesti con lo slogan “CocaColaReal”. Sullo sfondo della battaglia tra Pepsi e Coca ci sono accordi realizzati in esclusiva con le società che gestiscono le sale cinematografiche. A condizione che Pepsi o Coca diventi la “bibita ufficiale”all’internodei multisala, queste società riescono ad avere accordi pubblicitari stimati in milioni di dollari e riduzioni importanti sull’acquisto di altri prodotti delle due multinazionali (Coca- Cola controlla anche i marchi Fanta, Sprite, Minute Maid, Canada Dry, Schweppes e l’acqua Dasani, mentre Pepsi-Cola controlla PepsiOne,PepsiTwist, Tropicana, Slice e l’acqua Aquafina). A Mesa c’è dunque un multisala che vende solo Coca e l’altro solo Pepsi (tra le autostrade, anche servendomi di un navigatore satellitare nonsonomairiuscitoa trovare il terzo multisala). IlconfrontotraPepsi eCoca-Colahasegnato la storia degli Stati Uniti – e naturalmente anche quella di Hollywood.Labattaglia si è giocata sulle dimensioni e sulla forma delle bottiglie delle due bibite, sul prezzo(Pepsisirivolge sempre a un pubblico più popolare e con prezzi più bassi), sulle lattine in metallo e poi in polietilene, oppure sul gusto nuovo contro quello classico. È una guerra che si inserisce nel già indicato scenario del mais: i gestori dei drive-in erano già abituati a mettere molto del cosiddetto "sale Morton" nei popcorn per far aumentare la sete – e dunque incentivare il consumo di bibite. I gestori dei multisala fanno addirittura meglio: aggiungono ai popcorn il famoso golden flavored butter, un burro salato versato caldo, dal forte odore, in grado di far aumentare ancora di piùlasete.Labattaglia si è giocata anche sul terreno delle bibite dietetiche,PepsiDiete poi Diet Coke (CocaCola Light in Europa). Ovviamente anche i cinema sono coinvoltinellestrategie di marketing delle due multinazionali e in breve tempo la battaglia coinvolge anche le star. La campagna “Pepsi, the choice of a new generation” è fatta con duecelebrivideoclipdi Michael Jackson nel 1984. Poi è la volta di Lionel Richie e Tina Turnernel1985,diRay Charlesnel1990(“You got the right one baby, uh-huh!”) e di Aretha Franklin nel 1999, sempre in stile pop, black e giovane. Le campagnepubblicitarie al cinema seguono tuttequesteevoluzioni. A partire dagli anni cinquanta i cinema sono diventati il terreno privilegiato della storica concorrenzatraCocae Pepsi. Il mercato in gioco è esorbitante se si pensa che, secondo alcune stime, oggi, Coca-Cola vende ogni giorno, in tutto il mondo, un miliardo di pezzi delle quattrocentomarchedi bibite che controlla. Per rendersi conto fino a che punto è arrivato ilpericolosolegametra Hollywood e Coca-Cola (che con un gioco di parole si potrebbe definire“soda-maso”)è sufficiente ricordare che il marchio di Atlantahaacquisitonel 1982 gli studios Columbia,poirivenduti a Sony. Nello stesso tempo Pepsi è stata proprietaria per qualche tempo di Universal. In entrambi i casi si è trattato di operazioni difficili che non hanno dato i risultatisperati.Lereti di distribuzione hanno fatto invece un percorso inverso: General Cinema, colosso con oltre quattrocento schermi di multisala prima di essere acquisita da Amc nel 2002, ha diversificato la propria attività lanciandosi fin dal 1968 nel commercio di bibite e aprendo industrie di imbottigliamento per Pepsi-Cola. Dal secondo dopoguerra in poi, il cinema americano vive dunque astrettocontattoconil mercato delle bibite. Stranodestino! I multisala, come gli exurbs, non sono tuttavia fenomeni limitati agli Stati Uniti. In Cina, nel 2010, si inaugura in media un nuovo schermo da multisala al giorno. In Messico, solo la rete Cinepolis ha inaugurato nel 2008 trecentonuovischermi. In India, grazie a incentivi fiscali del governo, il numero degli schermi di multisala dovrebbe passare da 700 a 4000 tra il 2008 e il 2010 (per il momento le 12.000 sale principali sono ancora cinema tradizionali, dotati di un solo schermo per i grandi film di Bollywood).InEgittosi costruiscono numerosi multisala nelle periferie delle due principali grandi città, Il Cairo e Alessandria. È inoltre probabile, secondo i distributori locali, che il numero degli schermi, attualmente attorno ai 500,possaraddoppiare nelgirodicinqueanni. In Brasile, dove il numerodeglischermiè ancoralimitatoa2200, un dato basso per una popolazione di quasi duecento milioni di abitanti, l’aumento dei multisala è rapido e la frequentazione in rialzo, grazie all’accresciuto potere d’acquisto di questo paese emergente. Ovunque, il numero di multisala è aumentato: in Italia con le sale Warner-Village (100 per cento Pepsi) e quelle della rete Uci (100 per cento Coca), in Medio Oriente con i cinema Showtime, a Singapore con la rete Cathay,nelQatarconi Grands Cinecentres, in Indonesia con Blitzmegaplex, in Venezuela con il circuito Cinez Unidos, in Giappone con multisala che in modo divertente i giapponesi chiamano cinema “complex”. Il fenomeno dei multisala ha raggiunto la piena maturazione nelsuopaesed’origine, gli Stati Uniti: 40.000 schermi ripartiti in 6300 cinema (di cui 1700 con un solo schermo, 2200 mini multisala tra 2 e 7 schermi, 1700 multisala con schermi tra 8 e 15 e 630 mega multisala con oltre 16 schermi). Dopo aver invaso i paesi occidentali e industrializzati, il fenomeno diventa oggi internazionale e, ovunque, nei paesi emergenti, come in quelli del Sud del mondo, i multisala modificano profondamente le abitudini del divertimento. Sotto il segno della modernizzazione americana in corso, l’esperienzadelcinema si trasforma e diventa, nel bene e nel male, intrinsecamente legata al centro commerciale, ai popcorn, all’exurb e almultisala. 3. GlistudiosDisney Sette nani giganteschi mi accolgono con le braccia alzate e grandi sorrisi.Sononellasede della Walt Disney Company a Burbank, exurb a nord di Los Angeles. I nani, disegnati sulla facciata principale dell’edificio, sono più che un simbolo. È necessario avere tutte le carte in regola per poter varcare la soglia del civico numero 500, all’estremo sud di Buena Vista Street, a fianco dell’autostrada 134. Gli studios, dominati dall’edificio dell’emittente Abc, sono circondati da una cancellatacompostada una miriade di stanghe in ferro su cui sono fissate immagini di Topolino. Mi trovo a Team Disney, il quartier generale della Disney. “Qui la regola è lo spirito di squadra, per questo l’edificio si chiama‘TeamDisney’,” dice la mia accompagnatrice. A occuparsi di me è l’équipe di Public RelationsDepartement, che gestisce il settore della comunicazione e controlla anche i miei movimenti all’interno degli studios, sempre più limitati. “Dopotutto,” prosegue il mio angelo custode, “Disneynonhasegreti. È possibile fare qualsiasi domanda.” Poi aggiunge: “Naturalmente, come abbiamo convenuto, lei non può citare il nome di nessun collaboratore”. Nelquartiergenerale della Disney, in realtà, ci sono poche persone: idirigenti,gliimpiegati degli studios, del network Abc e della distribuzione,cheporta il nome della via in cui mi trovo, Buena Vista International, anche se non sono riuscito a capire se è Disney ad aver ribattezzato la strada, oppure se è la strada ad aver dato il nome al settore della distribuzione della major. Con una certa sorpresa scopro che per accedere alla torre di Abc è necessario percorrere un ponte che passa al di sopra dell’autostrada. Sono ancora più stupito del fatto che molti degli edifici Disney che intendo visitare si trovino al di fuori del “lot”,cosìèchiamatoil complessodeglistudios diHollywood. All’interno di un edificio rosso su due piani, un po’ più lontano, c’è il celebre Disney Imagineering. Qui lavorano gli imagineers di Disney, gli innovatori, quelli che creano i nuovi design e c’è anche la divisione ricerca e sviluppo. Qui vengono “immaginati” nuovi personaggi,attrazionie parate per i parchi, nuove ambientazioni. Tutta la progettazione è fatta in digitale. Le persone che lavorano qui hanno funzioni che mifannosorridere,per esempio principal creative executive e chief creative officier. Disney ha da poco acquisito l’editore di fumetti Marvel, con cinquemila personaggi che vanno da SpiderManaX-Menpassando per Thor e Iron Man, questi imagineers avrannodicertolavoro per i prossimi decenni poiché dovranno far figurare questi supereroi in prodotti derivati, attrazioni e serie di prodotti commerciali. Poco dopo ho appuntamento con Anne Hamburger (non è uno pseudonimo), al 1326diFlowerStreeta Glendale, non lontano daTeamDisney.Lascio l’auto nel parcheggio, dietrounedificiobludi un unico piano, talmente discreto che credo di aver sbagliato indirizzo. Anne Hamburger è presidente di Disney CreativeEntertainment e si definisce una “creative producer”. Parla con più libertà rispetto agli altri dirigenti che ho incontrato e accetta di essere menzionata, benché coadiuvata da una sospettosa addetta allepubblicherelazioni (che ha messo un apparecchio sul tavolo perregistrarelanostra conversazione). Anne Hamburger proviene dal teatro d’avanguardia ed è stata ingaggiata da Disney per sviluppare la creatività dell’azienda. Mi fa visitareilocaliincuisi possono vedere centinaia di disegni, prove, modellini, progetti su computer che serviranno per gli spettacoli, e per i product tie-ins, così sono chiamati negli Stati Uniti i prodotti derivati. Con stupore scopro che qui, come in un vero teatro, si prepara la maggior parte degli spettacoli dei parchi d’attrazione e delle parate dei “resort” del tutto compreso (un resort non è solo un parco d’attrazione, ma un luogo di vacanza e di divertimento in cui ristoranti e alberghi diventano la principale fontediincasso).Quisi preparano anche gli spettacoli degli undici Disney on Ice e per le quattro navi da crociera Disney con oltre mille posti ciascuna, di cui ignoravo completamente l’esistenza. Anne Hamburger mi fa una buona impressione, ha una parlantina sciolta e sa sempre mettere le parole al posto giusto. “Dirigo il più grande teatro degli Stati Uniti,” mi dice con umiltà (avrebbe potuto dire “del mondo”). “Con le nostre migliaia di spettacoli, di parate e di show, abbiamo un pubblico di milioni di personeognimese,non qualche decina di individui come accade con il teatro sperimentale. Questa è una grande responsabilità. Il mio compito è sensibilizzare all’arte il pubblicodimassa.Una cosa completamente diversa rispetto al teatro sperimentale, in cui il pubblico era già interessatoall’arte.” Lastrategiaculturale dellaDisneysifocalizza soprattutto sul “crossover”. Alla Disney Creative Entertainment si mescolano continuamente arte e cultura di massa. “Il nostro obiettivo è scompaginare la frontiera tra arte e intrattenimento. Qui sono ideati, contemporaneamente, veri spettacoli teatrali, parate, spettacoli di marionette, fuochi artificiali ed eventi larger than life.” “Largerthanlife”èuna bellissima espressione che ben sintetizza il lavoro di Anne Hamburger: ideare singoli personaggi capaci di andare oltre, essere attraenti per diversefasced’etàein diversipaesieingrado di diventare universali emainstream. “Nello stesso tempo, tuttavia, il nostro compitoèesseremolto site specific,” precisa Hamburger. “Ogni spettacolo, infatti, è rappresentato in un paese diverso, come Giappone, Cina, Francia: dobbiamo dunque adattarci a culture molto diverse tra loro. A Hong Kong, i nostri ‘ospiti’ parlano trelinguediverseedal momento che con i bambini i sottotitoli non funzionano, cerchiamo di fare spettacoli senza parole.” Alla Disney nonsidicemaiclientio consumatori:siparladi guests(ospiti)comeBe our guest, la celebre canzone del film La BellaelaBestia. Grazie ad Anne Hamburger posso visitare l’avamposto della creazione del più grande teatro del mondo e scopro in esclusiva che Nemo verrà completamente riadattato per farne una commedia musicale nei parchi d’attrazione e che Toy Story durerà solo cinquantacinqueminuti nella versione per le crociere (contro le due ore del film). Anne Hamburger dirige una squadra di trentasei creatori e produttori che coordinano l’insieme delle operazioni. Ogni progetto implica il coinvolgimento di centinaia di persone (assunteconcontrattia tempo determinato) che preparano gli spettacoli. Una volta pronti, gli spettacoli sono rappresentati in tutto il mondo, con migliaia di artisti reclutati in loco. Il numero di persone è davvero elevato poiché le diverse équipe devono garantire una decina di rappresentazioni al giorno, sette giorni su sette,perdiversiannie naturalmente ci sono anchegliunderstudies, i sostituti in caso di malattia o di assenza. “Diamo lavoro a migliaia di artisti che possono così essere occupati a tempo pieno. Siamo uno dei principali datori di lavoro per gli attori negli Stati Uniti,” sottolinea la mia interlocutrice. Nella nostra conversazione il terminechericorrepiù spesso è “creazione”. Anne Hamburger fa capo al Cco (Chief creative officer) di Disney Imagineering e, come mi continua a ripetere,ilsuolavoroè produrre creative entertainment. Il principio attorno a cui si struttura commercialmente Disney è quello del media franchise, che consiste nello sfruttare un film per realizzare diversi tipi di prodotti. I film Disney sono utilizzati per produrre nuovi prodotti secondo un ordine piuttosto immutabile: anzitutto c’è la parata, dove vengono introdotti e presentati al pubblico i nuovi personaggi, poi ci sono le commedie musicali, infine gli spettacoli per le navi da crociera. “La invito avedereunodeinostri spettacoli,” mi dice improvvisamente Anne Hamburger. Avrei dovuto pensarci prima. Dovevo per forza vedereunospettacolo. A un’ora di strada a sud-est di Los Angeles, due giorni dopo, incontro John McClintock, direttore delle pubbliche relazioni del parco Disney di Anaheim. Qui,il17luglio1955,è stato aperto il primo parco a tema Disney, nell’immenso exurb di Orange County. Insieme a John, piacevole senior publicist, visito il parco: l’inevitabile main street Usa, gli spazi Frontierland, Adventurland e Tomorrowland, la giungla, il battello a vapore“MarkTwain”a grandezzanaturaleche naviga su un fiume artificiale, mentre uno strabiliante pupazzo che raffigura Abramo Lincoln proclama, parlando e gesticolando, i valori della democrazia costituzionale. Arriviamo poi al luogo dello spettacolo. Oggi, all’Hyperion Theatre, è in programma Aladino. John è sempre al mio fianco.Glichiedoseha già visto lo spettacolo. “Sì, una decina di volte.” Resto stupito. Mi dice che questo spettacolo gli piace davvero ed è felice di poterlo vedere insieme a un francese. “E poi, c’è molta improvvisazione, dunque ogni volta è diverso.” Insieme a noi ci sono duemila bambini che assistono allospettacolo“live”di quarantacinque minuti. Tra le file degli spettatori spuntano cammelli e tappeti che volano davvero. Aladino è sorridente, magnifico. È un attore asiatico, poiché Disney ha una politica di assunzioni intenzionalmente rivolta alla diversità. All’improvvisocompare una torre Eiffel, poi una piramide egiziana. Inaspettatamente, Aladino pronuncia il termine “MySpace”. “È una novità,” mi sussurra John all’orecchio, “di solito non parla di MySpace. Per questo adoro lo spettacolo,ognivoltaè diverso.” Quando ci si trova a Disneyland, nel grande exurb di Anaheim, si afferra immediatamente il significato del termine “sinergie”: si trova Aladino sotto forma di commediamusicale,Re Leone proiettato su uno schermo, Ratatouille nella caffetteria,Toy Story e Gli incredibili nella parata, Pirati dei Caraibi in cd, Grey’s Anatomy in dvd, Nemo ingioco,CarsalDisney Store e ovunque ci sono pubblicità dei prossimi film Disney, Miramax e Pixar. Questa filosofia continua anche al parcheggio: ho lasciato lamiaautoalPippo8F (ho evitato Simba Parking e Pinocchio Parking Lot, erano troppo lontani). “I prodotti derivati, gli alberghi e i ristoranti rappresentano la parte fondamentale degli incassi del parco,” mi confermaRobert(detto Bob) Fitzpatrick, fondatore ed ex amministratore delegatodiEurodisney, che ho intervistato a Chicago. Mi comunica anche che i parchi e i resort hanno fruttato alla Disney, l’anno scorso, 10,6 miliardi di dollari. Anche Robert Iger ci tiene a farsi chiamare “Bob”(negliStatiUniti è un diminutivo molto diffuso);èunmodoche gli permette di dare di sé un’immagine informale. Ho appuntamento con lui per un pranzo veloce all’Hotel George V di Parigi,inoccasionedel lanciodiReLeone – in versione commedia musicale di Broadway, che ha raddoppiato i già considerevoli introiti dell’omonimo film. Bob Iger è una persona affabile, scherza e sorride. È il presidente di una delle principali multinazionali dell’intrattenimento, The Walt Disney Company. Si trova a capo di un impero che comprende, oltre agli studios Disney, l’emittente Abc, diversi parchi d’attrazione conosciuti in tutto il mondo, le major Touchstone,Miramaxe Pixar, l’editore di fumetti Marvel Entertainment, numerosi canali satellitari, il teatro New Amsterdam a Broadway e centinaia diDisneyStoreintutto ilmondo. Non è stato Bob Iger a fondare l’impero Disney, lui è semplicementeunoche lo gestisce. La multinazionale è stata creata dallo stesso Walt Disney e da Michael Eisner, che ha trasformato una casa cinematografica indipendente e molto specializzata, simbolo del capitalismo protestante familiare americano,inunveroe proprio conglomerato multinazionale nell’epoca della finanziarizzazione dell’economia. In questo modo Disney è diventato l’emblema della cultura mainstream globalizzata. Ben dopo il vecchio zio Walt, Michael Eisner diventa amministratore delegato di Disney nel 1984. Fino a quel momento non ha mai visto un film Disney, neancheBiancaneveei sette nani, né è mai andato a Disneyland. Per mettersi nei panni del direttore della società, come vuole la tradizione aziendale, accetta dunque di trascorrere una giornata intera vestito da Topolino nel parco d’attrazione Disneyland. Nel frattempo Michael Eisner ha già firmato il contratto, accompagnato dai suoi avvocati. L’accordo prevede uno stipendio annuale di settecentocinquantamila dollari, più un bonus dello stesso valore alla firma del contratto, e naturalmente una gran quantitàdistockoption – punto centrale del contratto e fattore che lo renderà miliardario. Si aggiungono poi un bonus annuale del 2 per cento su tutti i profitti della Disney, clausole rescissorie esorbitanti e, ciliegina sulla torta, un prestito di 1,5 milioni di dollari senza restituzione. Come in Cenerentola, dove i sogni diventano realtà, Michael Eisner diventa l’uomo meglio remunerato di tutta la storiadiHollywood. È di certo un uomo molto ben pagato, ma Eisner non pensa in grande solo per se stesso:lesueambizioni riguardano anche Disney, vuole che diventi immensa. I risultati che ottiene sono proporzionali al suo stipendio: in vent’anni Disney diventaunadelleprime multinazionali dell’intrattenimento, con novecento film in catalogo, centoquaranta Oscar vinti,epermetteaisuoi azionisti di realizzare plusvalenze astronomiche. Inoltre, si diverte e dice di trarne “a lot of fun”! Eisner dichiara in un’intervistadidirigere laDisneycomesefosse in un negozio di giocattoli:“Laseranon soqualegiocoportarmi a casa, perché sono tutti meravigliosi e funzionano tutti magnificamente. Sono talmente eccitato che non riesco a prendere sonno”. (Dopo le mie ripetute richieste di ottenere un’intervista per questo libro, l’assistente di Eisner mi ha detto che non desiderava parlare di Disney dopo le sue dimissioni.) Come ha fatto Eisner arisvegliareDisneydal suo torpore? Innanzitutto,“tornando al Dna di Disney”, mi ha detto in un’intervista Jeffrey Katzenberg, ex direttore di Walt Disney Studios. “Back to basics”: Eisner è ripartito dai punti forti di Disney e si è concentrato sui film di successo rivolti alle famiglie.Avevatuttele competenze di marketing necessarie al progetto, poiché, in precedenza, era stato direttorediParamount. Sotto la sua supervisione erano stati lanciati La febbre del sabato sera, Grease, Flashdance, Beverly Hills Cop e soprattutto il primo Indiana Jones. Il metodo Eisner è semplice: privilegiare la qualità della storia rispetto agli attori, gli effetti della messa in scena rispetto al regista.Inquestomodo si possono evitare agenti e star molto costosi che, per di più, vogliono una percentuale sugli incassi (l’acquisizione di Marvel da parte di Disney segue la stessa strategia: un celebre personaggio dei fumetti è spesso più efficace per promuovere un film ed è meno costoso di una star in carne e ossa). Secondo Eisner il progetto di un film si deve fondare soprattutto su una storia solidamente costruita(story-driven), con animaletti carini, una trama semplice e un efficace happy end. Il “pitch”, l’argomento, deve poter essere sintetizzato in poche semplici frasi, una sola sepossibile. Il metodo Eisner si basapoisuldettagliato controllo dei costi di produzioneperlimitare tutto ciò che si chiama “overhead”, spese generali di gestione e funzionamento. Infine, segue interamente il processodipromozione del prodotto costruendo una macchina del marketing capace di agire in tutti i continenti e utile per incrementare notevolmente il merchandising. Poco dopo il suo insediamento, Eisner decide di aprire i Disney Store: anzitutto negli Stati Uniti, in centinaiadiexurbs,nei centri commerciali e negli aeroporti e, ovviamente, il negozio portabandiera nel cuorediTimesSquare, poi in tutti gli altri paesi del mondo. Oggi cenesono742. La strategia internazionale di Disney è l’altra grande priorità di Eisner: trasformare un’azienda californiana in una multinazionale. Andy Bird, amministratore delegatodiWaltDisney International, mi confida che l’obiettivo della società è raggiungere il 50 per cento di introiti al di fuori degli Stati Uniti per il 2011 (oggi sono soloil25percento). Da un punto di vista imprenditoriale, Michael Eisner ha privilegiatolastrategia di integrazione verticale di Disney. Tuttiidipartimentiele filiali devono lavorare di concerto per la casa madre,anchelacasadi produzione cinematografica.Tuttii contenuti culturali devono essere prodotti dal gruppo che ne detieneilcopyright,poi vengono riadattati all’infinito per tutti i tipi di formato, dal lungometraggio alla parata, e attraverso tutti i media: emittenti televisive, canali satellitari come EspnStar in Asia e Utv in India. Questa diversificazione avviene, parallelamente,sututti i supporti: home video, dvd, libri pubblicati da Disney (con il marchio Hyperion), dischi dell’etichetta Hollywood Records, prodotti derivati con l’unità Walt Disney Consumer Products, negozi Disney Store. Naturalmente ci sono anche le infinite possibilità offerte oggi da internet per diversificare, quello che si chiama “global media”.MichaelEisner crede dunque alle sinergie, termine cult degli anni novanta che consiste nel pensare economie di scala e strategie di marketing comuni all’interno di ungruppo. Alla guida di Disney Eisner privilegia la strategia del versionning, modalità che permette di aumentareilpubblicoe le vendite di un unico contenuto adattato per molteplici versioni. Eisner è anzitutto e soprattutto un uomo interessato ai “contenuti”. È convinto che i programmi e la loro distribuzione debbano restare all’interno di un’unica azienda al servizio di contenuti che poi vengono diffusi, non considera la distribuzioneunfinein sé. A questa stessa strategia rispondono la messa in opera di un efficace settore di distribuzione internazionale, Buena Vista, e l’acquisizione dell’emittente televisiva Abc, che serve a trasmettere i contenuti prodotti da Disney e non per avviare una distribuzione di contenuti indifferenziata. Fedele a questa linea, Eisner ha avuto grandi reticenze ad allontanarsi dal core businessdiDisneyche, a suo avviso, deve continuare a produrre intrattenimento mainstream rivolto alle famiglie.Nonhavoluto avventurarsi, come ha fatto invece Time Warner, nella distribuzione su internetpertimoreche l’intera infrastruttura costruita con tanta cura venisse sostituita da tecnologie più performanti. Ha rischiato di dover collaborareconunodei più grandi fornitori di internet, l’operatore Comcast, quando quest’ultimo ha lanciatoun’Opaostilea Disney, ma Eisner non hamaicredutocheuna simile operazione avrebbe portato alla creazione di un gruppo coerente (nel 2009 Comcast ha poi acquisito NbcUniversal all’interno di GeneralElectric). L’obiettivo di Eisner nonèfarediDisneyun gruppo con un’ampia diversificazione: vuole giocare a tutto campo, ma all’interno di un settore commerciale ben definito. Si concentra dunque su alcune tipologie professionali attorno alle quali costruisce collaborazioni e sinergie, ma non va oltre. È restio a incoraggiare la concorrenza interna non controllata, come accade invece in molti conglomeratimediatici, per esempio l’americano Viacom, il tedesco Bertelsmann e il francese Vivendi. È un tipo “hold media”, non crede nemmeno alla “convergenza” di contenuti e tecnologie e, come la maggior parte dei patron di Hollywood degli anni novanta e duemila, ha un atteggiamento sospettoso, disdegnoso eostileneiconfrontidi internet. Ha imposto che il gruppo Disney restasse “pure player” (un’azienda focalizzata nel suo settore principale) e anche quando ha fatto investimenti in settori contigui, non ha mai pensato di far diventare Disney un gruppo generalista lanciato in settori diversi da quello dei “contenuti”. Il suo obiettivo non è somigliare a Sony, Orange, Reliance o General Electric, conglomerati in cui l’industria dei contenuti costituisce una quota limitata degli introiti accostata all’informatica per un pubblico di massa, al settore elettrico e telefonico. Secondo Eisner, la missione di Disney è il content, i contenuti. In parte, questa strategia gli è stata imposta dal consiglio d’amministrazione e dagli azionisti, dal momento che Disney è quotata in Borsa. Tuttavia, nel corso degli anni, attraverso un abile gioco di nomine, Eisner è riuscito a neutralizzare ilprimoeaemarginare i secondi, pur restando sensibile ai risultati trimestrali del gruppo. Le industrie creative americane oggi sono ampiamente finanziate dai fondi d’investimento. Sono dunque molto sensibili alle variazioni di mercato. Eisner si assume comunque pochi rischi: fa investire i fondi speculativi nei film più audaci, ma fa finanziare al 100 per centodaDisneyifilmil cui successo è più prevedibile. Pur promettendo ai suoi azionisti profitti del 20 per cento annuo, Eisner non perde di vista che la sua missione consiste, secondolasuaformula, nel “renderli felici”. È dunque diventato un maestro nel gestire la contabilità del gruppo acolpidimagia–quasi fossero effetti speciali dei film di Disney. Per esperienza sa che l’industriadelcinemaè sempre stata un buon business,mauncattivo investimento. Per Eisner resta da affrontare un problema.Dal1984,da quando è diventato amministratore delegato, Disney incarna una cultura familiare un po’ retrograda che fatica a rinnovarsi. La casa cinematografica ha perso il treno dell’emancipazione delle donne, del movimentoneroedella liberazione omosessuale(Eisnerha rifiutato per molto tempo il Gay Day a Disneyland e ha permesso tardi che coppie omosessuali danzassero a Disney World, solo dopo centinaia di manifestazioni e petizioni). È una strategia motivata da questioni di principio, dalla necessità di proteggereilmarchioe daragionieconomiche: dalmomentochesonoi film a portare i maggiori incassi a Disney, la produzione deve mantenere un profilo mainstream e non si può dunque correre il rischio che unfilmvengavietatoai minori di tredici o diciassette anni. Certo, in queste condizioni, alla fine del Ventesimo secolo è difficile avere appeal su teenager e giovani adulti appassionati di film d’azione e privi di qualsiasitabùsessuale. Per salvare capre e cavoli, l’immagine familiare di Disney e il bisognodiallargaregli orizzonti, con abilità e inventiva, Eisner decidediprodurrefilm “vietati” con altre case controllate da Disney, prima Touchstone PicturesepoiMiramax acquisitanel1993. Da Toy Story a Re Leone MichaelEisnerèuna superstar del business americano e per lungo temporiesceadirigere Disney come accadrebbe all’interno di un racconto fantastico in cui le zucche si trasformano in stock option. A un certo punto, però, le cose si complicano, a cominciaredaPixar. Per il momento Pixar è ancora una giovane aziendaspecializzatain tecnologie grafiche innovative, nata dal genio dell’inventore di Guerre stellari, George Lucas, ormai non più particolarmente legato a questo progetto che comincia a costare troppo. Nel contempo, Roy Disney, nipote di Walt abilmente messo alla testa degli studios di animazione da Eisner per via del prestigio che il suo nomeportaall’azienda, identifica Pixar come importante luogo di innovazione e potenziale concorrente per Disney. È infatti consapevole che, alla Disney, il settore dei cartoni animati comincia a essere in recessione e guarda versoilfuturo.Ilfuturo si chiama Pixar. Roy Disney incontra segretamente gli amici di George Lucas, visita l’azienda, resta sbalordito dalle possibilità di rivoluzionare il cinema d’animazione attraverso il digitale e il 3D, mentre Disney realizzaancoraipropri film d’animazione a mano. Poi, Roy Disney viene a sapere che Lucas ha bisogno di soldi e che è pronto a venderelesuequotedi Pixar, così ne sostiene l’acquisizione da parte della Disney. Eisner rifiuta categoricamente, “non siamo una società di ricerca e sviluppo”, avrebbe detto, volendo affermare che la sperimentazione e il settore ricerca e sviluppo non fanno parte delle sue strategie. Si lascia così sfuggire un’occasione storica, quella che, nel 1985, gli avrebbe permesso di acquisire Pixar a basso costo. Poco dopo Steve Jobs, che ha appena lasciato la presidenza di Apple, e ha a disposizione un certo capitale, compra Pixaralsuoposto. Jeffrey Katzenberg, sessant’anni, testa rasata (dovrei dire calvo), occhiali piccoli, vestito di marca, è una delle figure chiave di Hollywood. Gli piace parlare, senza scomporsi, seduto su un divano bianco in riva al mare. L’impressione che mi suscitacorrispondealle descrizioni che mi erano state fatte sul suo conto: educato, divertente, preciso nelle risposte, tenace, capace di dire menzogne come se fosseroverità,racconta la sua vita come se fosse un romanzo e cerca di sedurre il suo interlocutore, a costo diimbrogliarelecarte. Katzenberg ha accettato di concedermi un’intervista per parlare del nuovo film Shrek 3, di nuove tecnologie e dell’innovazione a Hollywood. Chiarisce subito di non voler parlare di Pixar (ormai un concorrente), né di Disney (che ha rumorosamente lasciato dopo aver intentato una causa). Mi dice di non aver letto il libro Disney War, un recente bestseller sulla fine della sua collaborazione con Disney. So che sta mentendo.Perciòglielo dico. Lui ride. “Per me Disney è una vecchia storia. Sono proiettato verso il futuro, non verso il passato,” ribatte Katzenberg. Il futuro è DreamWorks Skg da lui fondata. È stata un’operazione realizzata per vendicarsi di aver dovutolasciareDisney? Katzenberg sorride nuovamente, senza rispondere. Katzenberg è stato l’arteficedellarinascita di Disney e dell’avvicinamento a Miramax e Pixar. Alla testadeglistudiosWalt Disney dal 1984 al 1994 ha supervisionato tutti i film che hanno permessoall’aziendadi diventare una delle principali major di Hollywood. “Sono sempre stato nel cuore del cinema mainstream, prima alla Paramount, poi per dieci anni alla Disney, oggi con la DreamWorks. Faccio film rivolti a tutti i tipi di pubblico e per tutte le fasce d’età; i miei film devono poter facilmente essere visti intuttoilmondo.Oggi, generalmente, li produciamo in ventotto lingue e il nostro obiettivo è che diventino big events movie, negli Stati Uniti eall’estero.Osereidire che li pensiamo, li costruiamo affinché siano global big-event movies. Credo di aver lavorato tutta la vita per un pubblico di massa. Per avere un impatto sugli spettatori. Lavoro per avere spettatori. Vado fiero di questo. E direi che il pubblico è una buona guida, un buon padrone.Inognicasoè lui il mio datore di lavoro.” In realtà, quando lavorava per Disney, il superiore di Jeffrey Katzenberg era Eisner. Hannolavoratoinsieme per una decina d’anni, Eisner alla testa della multinazionale e Katzenberg degli studiosDisney. Come prima di lui Roy Disney, Katzenberg ha capito quanto Pixar fosse all’avanguardianeifilm d’animazione e, da buon mediatore, ha stretto relazioni con John Lasseter, che è diventato la figura artistica principale dell’innovativa start-up di San Francisco. Il ruolo ufficiale di Lasseter alla Pixar è chiefcreativeofficer. Fra i vari progetti in corso di sviluppo, Lasseterhafralemani un film in cui cerca di darelavitaaunaserie di pupazzi giocattolo, Toy Story. Ne parla a Katzenberg che trova l’idea geniale, ma allo script mancano una narrazione coerente e unveroepropriostorytelling, stando alle sue parole è un mess (un casino). Propone dunque a Lasseter di lavorare nuovamente sulla storia e, a suo dire, gli consiglia di ispirarsi ai “classic buddy movies”, i film che raccontano la storia di due amici. Così Toy Story diventa la prima coproduzione tra Disney e Pixar, mi dice Thomas Schumacher, ex presidente degli studios d’animazione Disney, incaricato da Eisner e Katzenberg di fare da tramite tra DisneyePixar. Realizzato da John Lasseter, prodotto da Pixar, finanziato e distribuito da Disney, Toy Story batte tutti i record al botteghino nella settimana della sua uscita nel 1995, incassa 191 milioni di dollari negli Stati Uniti e 356 in tutto al mondo. Lasseter vince un Oscar. Con Toy Story il cinema d’animazione diventa nonsolounodeisettori più redditizi di Hollywood, ma anche uno dei più creativi. In termini di prodotti derivati, il film – il cui concetto stesso è il gioco – è particolarmente redditizio. Una delle ragioni del successo di Toy Story, oltre alle innovazioni tecnologiche, a una sceneggiatura avvincente e appassionante basata, come voleva Katzenberg, sulla storiadidueamici,èla scelta degli attori che doppiano i personaggigioco. Tom HanksdàvoceaWoody in Toy Story di Pixar, così come Eddie Murphy, Justin Timberlake e Rupert Everett presteranno la loro voce alla serie di Shrek di DreamWorks. L’idea di fondo è la seguente:filmrivoltiai bambinieancordipiù, come se si trattasse di un altro film, al bambino che c’è in ciascun genitore. Essere giovane non è più un fatto di età, ma un’attitudine. Già Walt Disney diceva che i suoifilmeranopertutti perché “tutti siamo stati bambini e in ciascuno di noi c’è qualcosa che resta dellanostrainfanzia”. Michael Eisner stavolta ha capito la lezione. Ma è ormai troppo tardi per acquisire Pixar. Chiede alloraaSchumacher,il responsabile dello studio d’animazione, di negoziare un contratto di collaborazione con Pixarsupiùanni:sette film, incassi divisi, a Disney l’intero controllo dei prodotti derivatiedelfranchise. In poco tempo grazie a questo contratto, la quota di Pixar negli introiti dello studio d’animazione Disney raggiunge la soglia del 97 per cento. Tuttavia, progressivamente, la relazionetralamajore lo studio “indipendente” diventa poco produttiva. Aumentano le tensioni sulla libertà di creazione, soprattutto per via dei veti imposti da Eisner a diversi progetti di Pixar. La situazione peggiora e nonostante gli sforzi del presidente degli studios d’animazione Schumacher, Disney e Pixarsiallontanano. Incontro Thomas Schumacher al terzo pianodelcivico1450di Broadway, negli uffici della Disney a Manhattan.Daqualche tempo non si occupa più di film d’animazione ma di commedie musicali e dirige il Disney TheatricaldiNewYork. È il nostro terzo appuntamento e Tom, contravvenendo alle regole di riservatezza che Disney impone ai suoi dirigenti, parla in libertà (mi fornisce anche numerosi contattiefadatramite per alcuni appuntamenti con i responsabili della DisneyaBurbank). Sulla sua scrivania ci sono due figurine di Bianca e Bernie. “È il primo film che ho fatto per Disney,” si giustifica Schumacher. Ci sono anche marionette, locandine di film e, ben in vista, una fotografia in cui posa con Bill Clinton (Schumacher è un importante fundraiser dei democratici e ha ampiamente contribuito alla campagna di Barack Obama negli ambienti del cinema nel 2008). C’è anche una riproduzione in miniatura di una scena diReleoneenonposso impedireamestessodi cercare il logo di Burger King, memore dellagrandecampagna pubblicitaria fatta per Re Leone insieme ai magazziniToys“R”’Us che hanno creato duecento nuovi giochi ispirati al film e appositamente allestito una giungla all’interno deinegoziperospitarli, mentre il panino “Lion King” era diventato oggetto di una grande promozionedapartedi BurgerKing. L’idea di investire a Broadway è nata nel 1991, dopo il successo del film d’animazione La Bella e la Bestia. Quando il principale critico di teatro del “New York Times”, Franck Rich, elogia il film paragonandolo ai musical di Broadway, Jeffrey Katzenberg ha una rivelazione, deve farne una versione per Broadway! L’idea è originale, anche se nessuno sembra afferrarne la portata poiché rappresenta un elemento di rottura all’interno della tradizionedellacultura dimassaamericana:un tempo si riadattavano le commedie musicali di successo di Broadwayperfarnedei film, oggi avviene il contrario. È un ribaltamentostorico. Il problema è convincere Michael Eisner, che reagisce d’istinto bocciando l’idea: “Non dobbiamo rinvigorire il nostro narcisismopensandodi poter fare i produttori di Broadway”. L’amministratore delegatodiDisney,che non è un creativo, si è circondato di manager e direttori finanziari assillati dall’idea di mettere paletti ai creatori e di ridurre i costi e secondo loro sbarcare a Broadway è una follia. Poco dopo, Eisner torna sui suoi passi e Thomas Schumacher viene trasferito a New York per creare la divisione “teatro”diDisney. Improvvisamente sento l’urlo di Tarzan. Thomas Schumacher continua, imperturbabile, il discorso. Ogni ora, nel suo ufficio, la marionetta di Tarzan lancia un urlo. Per Disney, l’adattamento diTarzanaBroadwayè stato un fallimento nel 2006. “Non riesco a spiegarmi perché Tarzan sia stato un fallimento mentre Re Leone sia stato un successo. Lavoriamo all’interno di un’industria creativa e il successo non è mai garantito.Itrionfisono rari,mentreifallimenti sono frequenti.” Mentre lo ascolto parlare osservo una lianadiTarzanlasciata sullascrivania. AllabasediReLeone in versione musical c’è ilsuccessodelfilm:nei tre anni di distribuzione tra cinema, home video e prodotti derivati ha fruttato oltre un miliardo di dollari. “Eisner sapeva che le industrie creative devono continuamente rinnovarsi. Non voleva che Disney diventasse un museo, era dunque necessario continuare a evolversi, ogni giorno. Per questo motivo, dal momento che avevo fatto il film per Disney, mi ha dato il via libera per farne unmusicalper Broadway,” spiega Schumacher. L’avventura comincia in grande stile e con importanti mezzi finanziari: per sperimentare il progetto, Disney investe immediatamente 34 milioni di dollari. In secondo luogo, rileva un celebre teatro sulla Quarantaduesima Strada, l’Amsterdam, un gioiello di architettura in stile art nouveau,del1903,con affreschi allegorici, fregi, mosaici, ormai caduto in disuso mentre sexy-shop, prostituzione, droga e bande hanno invaso il quartiere. Schumacher coglie all’istante il problema: comeriuscireaportare le famiglie in una zona invasa da pornofilm tipo Gola profonda e dagli spacciatori di crack? Il terzo punto del progetto è bonificare il quartiere. Disney si allea con il sindaco repubblicano di New York, celebre sostenitore della “tolleranza zero”, per rivitalizzare Broadway attraverso un progetto basato su controlli della polizia, investimentieconomici, intrattenimento per le famiglie. Su disposizione comunale, tutti i sexy-shop sono chiusi, vengono aperti negozi turistici sovvenzionati da fondi pubblici (tra cui il più grande Virgin Megastore al mondo, un negozio Gap e un immenso Hotel Marriott) e le sedi di grandi multinazionali dell’intrattenimento e di emittenti televisive sono incentivate a insediarvisi attraverso riduzionifiscali.Disney diventa così la “mascotte” dell’operazione di bonifica della nuova Times Square: il solo nome della multinazionale di Topolino è garanzia di attenzione da parte delle famiglie. In un incrocio strategico come quello tra Broadway e la Quarantaduesima Strada viene aperto un DisneyStore. La produzione di Re Leone è preparata minuziosamente. A questo punto Tom Schumacher, che ha personalmente prodotto il musical, decide di affidare la regiaaJulieTaymor. “Sono un’artista che diverte,” mi dice Julie Taymor, grande figura delteatrosperimentale diNewYork,quandola intervisto nella suite di unhoteldicuièospite. “L’artista con la A maiuscola non riesce a capire il valore dell’intrattenimento, si accontenta di un pubblico limitato così non compromette la propria arte facendola diventarecommerciale. Questo è un atteggiamento elitario, un po’ snob. Io mi ispiro a figure come Aaron Copland, Leonard Bernstein. Mi piace mescolare i generi.” Julie Taymor ha trascorso gli anni della sua formazione, gli anni settanta, a contatto con la compagnia radicale Bread and Puppet, partecipando agli scioperi degli affitti, alle lotte contro la GuerradelVietnamea difesa della gratuità degli spettacoli. Progressivamente, nel corso degli anni ottanta, dopo un lungo soggiorno in India, ha cominciato a interessarsi alle forme originali di divertimento per il grande pubblico e alle marionette, pur continuandoafarearte – di recente ha messo in scena Il flauto magico al Metropolitan OperadiNewYork. Cade dunque dalle nuvole quando un giorno riceve la chiamata di Schumacher, il patron di Disney a Broadway. Schumacherlepropone di pensare a un adattamentoteatraledi ReLeone.JulieTaymor nonhamaivistoilfilm, acquistaildvdevapoi a incontrare il suo interlocutoreinFlorida e suggerisce l’uso di marionette e maschere africane, in modo che gli attori possano interpretare i personaggi del film d’animazione. L’elemento dominante dovrebbe essere la musica. “Ciò che al cinema doveva essere visto, a teatro dev’essere sostituito dalla musica africana,” suggerisce. Jeffrey Katzenberg, invece, che ha investito altre decine di milioni di dollari per avere apparati scenici straordinari, ha una rivelazione nel suo ufficio di Team Disney: la trama di Re Leone deve somigliare ad Amleto… Ilcolpodigeniodello spettacolo di Julie Taymor per Disney è tutto qui: mescolare i generi, mettere insieme il mainstream con il raffinato, high e low,arteeculturapop. “In Re Leone,” mi dice Julie Taymor, “ci sono situazioni per un gusto tipicamente popolare. Inoltre, le marionette non sono state pensate per i bambini, ma per gli adulti. C’è anche molta eleganza, molta ricerca. È uno spettacolochenonèné arte pura né semplice divertimento–nonèné l’una né l’altro. Io sto altrove.” Lo spettacolo creato nel 1998 è splendido, di una bellezza fiabesca.Sirestarapiti dalle marionette giganti e dalle mascheremeravigliose, si vedono volatili in movimento invadere il cielo e decine di antilopi correre per riuscire a salvarsi, con una coinvolgente musica africana e bellissime ambientazioni della savana. La commedia musicale lascia trasparire qualcosa dell’ingenuità e della generosità del primo Walt Disney. Il successoèeccezionale, la stampa è unanime nel sostenere che si tratta della più bella commedia musicale “di tutti i tempi”. Gli addetti ai lavori tributano lo spettacolo conferendogli sei Tony Awards – il principale premio di Broadway. Ma c’è di più: il successo di Re Leone nel cuore di una Times Square rivitalizzata porta a Disney milioni di dollari. “Un musical, quando funziona davvero,comenelcaso diReLeone, è davvero molto redditizio in termini economici. Proporzionalmente, il teatro fa registrare incassi maggiori sugli investimenti rispetto al cinema,” mi confida Schumacher nel suo ufficio. (Il costo della produzionediReLeone non è noto e Schumacher rifiuta di comunicarmelo; probabilmente supera i venti milioni di dollari, se così fosse si tratterebbe dello spettacolo più costoso mai prodotto a Broadway.) Ilsuccessoottenutoa New York è niente rispetto a quello riscosso altrove: da dodici anni lo spettacolo è portato in giro per gli Stati Uniti e in tutto il mondo, è rimasto in cartellone peranniinmoltipaesi, spesso ha fatto registrare il tutto esaurito, nonostante il costo del biglietto, cento dollari (senza riduzione per i bambini). Re Leone è già stato visto da oltre cinquanta milioni di persone e ha incassato oltre un miliardo di dollari in tutto il mondo. “Stasera, in tutto il mondo, ci sono dodicirappresentazioni di Re Leone,” mi dice Schumacher. Resta comunque uno spettacolo solo per paesi ricchi: non è statoincartellonenéin Africa, né in America latina né in Medio Oriente. “È troppo costoso produrre questo spettacolo al di fuori dei paesi sviluppati,” precisa Schumacher, che poi aggiunge, senza ironia: “In quei paesi sarebbe di sicuro un successo, ma non necessariamente un goodbusiness”. Solo una multinazionale come Disney, con capitali e un settore logistico immensi, può permettersi di avere in cartellone Re Leone in contemporanea in tre diversi continenti. L’avventura della Disney nel teatro è poi proseguita con Aida, Mary Poppins, La Sirenetta, mentre Tarzan è stato un fallimento e il progetto su Pinocchio è stato abbandonato. “Siamo dei creativi, degli artisti, ma facciamo anche intrattenimento di qualità,” aggiunge Schumacher.“Creareè la nostra caratteristica principale.Equandole persone mi dicono che creare significa fare arte, e non intrattenimento, a me sembra un atteggiamento molto aristocratico e molto presuntuoso. Molto europeo.Nonlepare?” Miramax e DreamWorks:lacaduta Per l’amministratore delegato della Disney, Michael Eisner, Broadway è di certo una questione accessoria, dal momento che dirigere una multinazionale significa dover gestire questioni ben più importanti. Anzitutto c’è il settore televisivo, diventato ormai strategico dopo l’acquisizione dell’emittente nazionale Abc. L’obiettivo di questa operazione era creare sinergie tra studios e televisione: Abc può produrre serie televisive con il sostegno degli studios Disney e può trasmettere anzitutto i filmdellamajor(Eisner inizialmente avrebbe voluto acquisire Nbc ma è stato preceduto da General Electric). Questa acquisizione è stata possibile grazie a unalleggerimentodelle regole federali americane negli anni della presidenza ReaganeClinton:trail 1985 e il 1995 è stata favorita la concentrazione verticale dei gruppi di media negli Stati Uniti (Disney ha acquisito Abc, Universal si è associata a Nbc, Time Warner a Cnn e Hbo, NewsCorphaestesola rete Fox e, nonostante la recente scissione, sono nate importanti relazioni tra il gruppo Viacom e Cbs). Eisner si concentra dunque sulla produzione dei contenuti televisivi e si lancia in mercati fino ad allora considerati secondari,l’homevideo e le pay tv satellitari. Rafforza Disney Channel, creato nel 1983, investe in programmi educativi e per la famiglia (Abc Family, The History Channel) e nello sport, un’altra forma di intrattenimento secondo Eisner (acquisiscetuttalarete televisiva sportiva a pagamento Espn). Per raccogliere liquidità, il patron di Disney avvia anche un’abile operazione di riedizione in video e dvd di celebri film del catalogo. Anche questa strategia segue logiche precise: i classici Disney sono riproposti al cinema in media ogni sette anni, intervallo calcolato per coinvolgere ogni volta una nuova generazione di bambini, dunque Eisner pianifica la distribuzione di prodotti home video in periodi utili per non fare concorrenza ai filminsala.Ilsuccesso è grandioso: nel 2003, il primo giorno di messa in vendita del dvd di Nemo, sono venduti otto milioni di esemplari. Lecosevannounpo’ meno bene nel settore cinema. Con Pixar la crisisiaggravaeledue case rompono il sodalizio. Disney rimane così priva dello studio d’animazione. Apparentemente le cose vanno meglio con Miramax, etichetta indipendente, nota per il tocco “indie” e provocatore, non tanto per film come Nuovo CinemaParadiso,cheè stato un grande successo, ma per Sesso, bugie e videotape di Steve Soderbergh. Disney ha acquisito Miramax nel 1993 per solo un centinaio di milioni di dollari. Importanti successi confermano la lungimiranza di Eisner e il genio dei fratelli Weinstein, che sanno promuovere i loro film indipendenti come se fosserofilmdicassetta: Pulp Fiction, nel 1994, incassa da solo 108 milioni di dollari, solo al botteghino americano, cioè di più di quanto non sia costata l’acquisizione di Miramax. Seguono poi successi come Shakespeare in Love, Gangs of New York e TheHours. Tuttavia, la situazione cambia in breve tempo: Eisner è verticista e riesce difficilmenteatenerea frenolapersonalitàdei fratelli Harvey e Bob Weinstein ai quali cominciaastareunpo’ stretta l’alleanza con Disney. In regime di “indipendenza controllata”, imposto da Disney, la rottura si consuma quando Eisner rifiuta loro di fare l’adattamento cinematografico del Signore degli Anelli (realizzato poi con il noto successo con il concorrente Time Warner), riscrive al ribasso il budget di Ritorno a Cold Mountain e soprattutto quandocensural’uscita di Fahrenheit 9/11 di Michael Moore (il film costato 6 milioni di dollari, distribuito con circuito indipendente nel 2004 con incassi di 220 milioni in tutto il mondo). I fratelli Weinstein lasciano Disney (che resta proprietaria del marchio)efondanouna nuova etichetta, la WeinsteinCompany. Una disavventura simile tocca anche a Jeffrey Katzenberg, vulcanico patron degli studiosDisney. “Mi pare di essere statochiaro,nonvoglio parlare di Disney, per me è acqua passata,” mi ripete Jeffrey Katzenberg, sorridendo, quando torno alla carica sul tema. La questione peraltro è semplice, ancheseèdiventatala più celebre telenovela diHollywoodneglianni novanta. Quando il numero due della Disney, il presidente Frank Wells, muore in un incidente in elicottero, l’ambizioso Katzenberg, che dirige gli studios Disney ed è artefice dei successi cinematografici del gruppo degli ultimi anni, è convinto che quel posto spetti a lui di diritto. Se lo si accusa di aver voluto fareilrealpostodelre lui si difende, ma è indubbiocheambissea quel posto. Secondo i suoi avvocati, questi erano gli accordi con Eisner quando era stato reclutato dalla Disney. Eisner smentisce e, di sicuro, gli nega questa promozione e lo invita a dimettersi. Ne segue una lunga cronaca giudiziaria attorno all’indennizzo richiesto da Katzenberg, che è sostenuto da personaggi di spicco di Hollywood, in particolare da Steven Spielberg e dal produttore musicale David Geffen. Katzenberg vince in appello, intasca 208 milioni di dollari, che reinveste creando una casa cinematografica concorrente a Disney, DreamWorks Skg (quest’ultima sigla indica le iniziali dei tre fondatori, Spielberg, Katzenberg, Geffen). Arrivano anche grandiosi successi comeAmericanBeauty, KungFuPanda, Shrek, Minority Report e Madagascar. Katzenberg non ha molta voglia di aprirsi durantel’intervistache mi concede. Ripete semplicemente cose che ha già detto ovunque, ovvero che “Shrek è ugly-cute (terribile ma carino) e non ugly-scary (terribile e spaventoso)” e questo spiega il successo del film. Sibillino, aggiunge inoltre di essere un uomo di passioni: “La passione è l’unica cosa che riesca a spiegare il fattochemileggadieci o quindici sceneggiatureognifine settimana nella speranza di trovarne una formidabile. La passione è l’unica cosa che mi fa trascorrere sessanta ore alla settimanaaglistudiose che mi fa andare a vedere tre film di fila nelfinesettimana”. Incontro Bob Iger, nuovo amministratore delegato di Disney dal 2005, e mentre facciamo colazione insiemeglichiedoquali spiegazioni riesce a dare alla violenza della guerra avvenuta nel regno di Topolino, la Disney War minuziosamente raccontata da un libro di successo, in seguito alla quale il suo predecessore, Michael Eisner, è stato costretto a rassegnare le dimissioni. Bob Iger mi dice di non aver letto il libro. Certo che idirigentidiHollywood leggono pochi libri, ho pensato immediatamente. Ho poi chiesto se considerasse un buon affare l’acquisizione di Pixarper7,4miliardidi dollari nel 2006, mentre Steve Jobs l’aveva acquistata da George Lucas nel 1986 a 10 milioni. “Sì,” è stata la risposta. Infine glihochiestoseilfatto di avere nuovamente stretto rapporti con i fratelli Weinstein, fondatori di Miramax e allontanatidaEisner,e di aver fatto entrare Steve Jobs, geniale patron di Apple dall’umore mercuriale, all’internodelconsiglio di amministrazione di Disney rappresentasse una rottura rispetto all’epocadiEisner.Bob Iger mi ha detto che “era necessario inaugurare una nuova epoca e fare nuove scelte”. Avrei voluto chiedere a questo punto se fosse vero, secondo alcune voci, che è così ossessionato dal controllo dell’informazione e dallafugadinotizienei media da tenere una televisione anche nella doccia – ma ho preferito tacere sull’argomento. Per esperienza ero ormai consapevole che, quando si intervista il dirigente d’una grande multinazionale come Disney, non si apprendonomaigrandi cose. La caduta di Michael Eisner, l’uomo che ha permesso a Disney di diventare un conglomerato mediatico di caratura internazionale, è davvero indicativa poiché rivela che l’intrattenimento non è un settore industriale come gli altri. L’incapacità di gestire le personalità dei creatori,illorobisogno di libertà, ha portato Eisner a essere spodestato da una coalizione creatasi in nome dello zio Walt e capeggiata da Roy Disney, che egli stesso aveva portato all’interno della società. In ogni caso, il successo commerciale diMichaelEisnernonè in discussione. Gli utili netti di Disney ammontavano a circa 100 milioni di dollari l’anno in cui è arrivato alla presidenza della multinazionale e sono schizzati a 4,5 miliardi quando si è dimesso. Nel 1984 un’azione della Disney valeva 1,33 dollari, vent’anni dopo ne vale 25. Utili di questo calibro sono stati ottenuti grazie alla crescita di cinque settori considerati marginali nel 1984: la vendita dei dvd, le emittenti televisive a pagamento,soprattutto quelle sportive, i prodotti derivati, Broadway e infine i parchi d’attrazione, in particolare con gli alberghi collocati all’interno dei parchi stessi.Rispettoaquesti settori sono decisamente meno redditizi gli incassi del botteghinoegliintroiti dell’emittente gratuita Abc, benché il copyright sui film produrrà introiti e prodotti derivati sul lungoperiodo. MichaelEisner,conil suo aereo privato, guardiedelcorpo,nota spese illimitata e un tenore di vita da capo di stato, non è stato sufficientemente accortonelprenderele misure sull’unico settore in grado di minacciarlo, la creazione. Le industrie creative, infatti, non sono paragonabili a quelle del settore automobilistico o dell’agro-alimentare, sono ambienti in cui si deve diffidare dei creative people, personalità come Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg, George Lucas, John Lasseter, Michael Moore, Harvey e Bob Weinstein; se li si maltratta, se si minaccialalorolibertà artistica, loro se ne vanno. L’indipendenza è la regola non scritta e,anchequandoquesta indipendenza viene acquisitapercontratto, le apparenze devono essere salve. Quando non gli piacevano un film o una scena, Eisner diceva semplicemente: “This has to be edited” (questo deve essere “rivisto”) ovvero, “tagliato”. Oppure, interamente rifatto. Una simile gestione, all’antica, risultava inaccettabile per gente come i creatori di Toy Story e i colleghi di Tarantino. La caduta di Eisner, che non ha saputo giocare di squadra all’interno del Team Disney, preferendo invece controllare il lavorodegliartisti,può essere brevemente spiegata riconsiderando il significato dell’espressione “industrie creative”, in cui il termine più importante è il secondo, quello che ha a che fare con la “creazione”. 4. LanuovaHollywood “Salga sulla golfcart,” mi dice il responsabile delle relazioni pubbliche incaricato di farmi visitare gli studios della Columbia PicturesaLosAngeles. Mi trovo a Culver City, un quartiere a sud di Hollywood,tralaSanta Monica Freeway 10, che attraversa la città daestaovest,elaSan Diego Freeway 405, la via di scorrimento veloce a ovest di Los Angeles. Negli studios hollywoodiani anche le golf-cart, le piccole autousatesuicampidi golf, sono ormai diventate un’attrazione. Solo alla Columbia Pictures ne ho viste centinaia, lungo i viali e le stradine degli studios. “È un mezzo poco rumoroso, è elettrico, non è pericoloso e permette di spostarsi velocemente tra i diversi luoghi delle riprese, questo è, infatti, uno dei più grandi studios di Hollywood,” spiega il mioaccompagnatore. Tutti conoscono il logo di Columbia Picture che compare all’inizio dei suoi film, quello della donna longilinea avvolta nella bandiera americana conunatorciainmano cheilluminailcielo,ma qui a Culver City è poco visibile. Resta il fattochequestistudios sono sorprendenti per le loro dimensioni. Li attraversadaunaparte all’altra una main street piena di luci al neon, billboards, marquees e vertical blades (i frontoni e le insegne tipici delle vecchie sale cinematografiche), su cui si affacciano i ventidue principali teatridiposa,ciascuno dei quali è identificato con il nome di una delle personalità che ha fatto la storia della Columbia: Poitier, Kelly, Astaire, Capra, Garbo, Garland, Hepburn, Gable… Più lontano ci sono gli edifici della postproduzione e dell’amministrazione; i prati sono perfettamente tagliati, gli alberi danno un tocco bucolico. C’è poi il resto della “città”, attraversata da una rete di cabine telefoniche gratuite collegate al centralino interno, con ristoranti, studi medici, banche, palestre, un ufficio postale, negozi di souvenir, un’agenzia di viaggi e un cinema Loews. Il nome Columbia non figura da nessuna partepoichélamajorè stata acquisita nel 1989 da Sony (prima era rimasta a lungo indipendente, poi era stata comprata da Coca-Colanel1982).Ci sono una Sony Police, un Sony Mail Department, un Sony Family Center e addirittura una caserma dei pompieri, la Sony Fire. Di fatto, non mi trovo alla Columbia, ma alla Sony. “Gli studios banche” “Questi storici sono sono gli studios Columbia, però oggi tutto appartiene a Sony. L’intero complesso viene chiamato Sony Lot, proprio come vengono chiamati l’Universal Lot e il Paramount Lot.” La vicepresidente di Sony Pictures, France Seghers, mi accoglie offrendomi caffè italiano e dolcetti prelibati all’interno di unlussuosoedificiodel campus, il Jimmy Stewart Building. Parliamo a lungo. Inoltre, sono autorizzato a visitare gli studios e a incontrare altri dirigenti di Sony, a condizionedinonfarne i nomi (alla Sony vige la regola che non si possono esprimere opinioni pubblicamente sullequestioniinterne). Sony è una multinazionale molto decentralizzata. La sede è a Tokyo. I contenuti culturali, cinema e musica, sono gestiti da Sony Corporation of America, società americana quotata alla Borsa di New York, il cui unico azionista è la giapponese Sony Corporation. A Los Angeles c’è Sony Pictures Entertainment cheproducelamaggior parte dei film di successo che escono con i marchi Sony Pictures, Columbia Pictures e Tri-Star Pictures.Sonypossiede anche un’etichetta indipendente, Sony PictureClassics,chedi indipendente ha ovviamente solo il nome. “Qui ci sono gli studios,manonsempre i nostri film sono girati daquesteparti;inoltre, quando le nostre équipe sono ‘disoccupate’ gli studios vengono affittati ad altre major come Paramount, Warnere20thCentury Fox. Spesso la nostra funzione si limita ad affittare gli studios, ricoprire il ruolo di banca e dare green light ai progetti,” mi dice un dirigente di SonyPictures. A Hollywood, green light è un’espressione fondamentale. Gli studios danno “luce verde” ai progetti che vengono loro sottoposti, sotto forma di pitch o di script. Luce verde è il via libera che permette di cominciare lo “sviluppo” di un film e la sua messa in produzione. “Il green light è il fulcro dell’intera macchina, è il momento in cui la major esercita più chiaramente il proprio potere,” mi conferma France Seghers. In realtà non esiste un unico via libera, ce n’è uno a ogni tappa del progetto: quando un’idea viene proposta e testata, quando lo script è accettato e messo in lavorazione, quando parte la produzione. Talvolta, il progetto di un film su cui si è lavorato per diversi mesi non ottiene “luce verde” e chi detiene i diritti, spesso il produttore, può andare a proporlo a un’altra casa di produzione (per esempio, Shakespeare in love è stato progettato per tre anni all’interno di Universal Pictures, ma non ha ottenuto il “via libera”, è stato poi prodotto da Miramax e ha vinto settepremiOscar). Le cose, tuttavia, sono ben più complicate. All’interno della complessa trattativacheportaalla realizzazionediunfilm non figurano solo la major e il produttore: nella nuova Hollywood sono molti gli interlocutori e i soggettiingioco. Nell’epoca d’oro degli studios, tra gli anni venti e la fine degli anni quaranta, Hollywood era un sistema centralizzato, compattoeorganizzato secondo una rigida gerarchia verticale. Le case di produzione organizzavano l’intero processo di realizzazione di un film:dallastesuradello scriptalladistribuzione insala.Iproduttori,ma anche gli sceneggiatori,itecnici, i registi e la maggior partedegliattorierano stipendiati con contratti a lungo termine. Il cinema era anzitutto un’industria in cui, in un certo senso, tutti lavoravano alla catena di montaggio. Con il 1948, quando la Corte suprema degli Stati Uniti ha vietato i processi di concentrazione, gli studios hanno subìto un contraccolpo perdendo la posizione di monopolio e il controllo della rete delle sale cinematografiche (che hannodovutovendere), costringendole a limitare la produzione. A partire dalla metà degli anni cinquanta, il sistema industriale e centralizzato di Hollywood scompare e comincia ad assumere una dimensione meno rigida. Oggi, nella nuova Hollywood, i film sono sostenuti da major che finanziano, danno green light, ma sono estranee al processo di realizzazione. La lavorazione è affidata, sotto il permanente controllo di agenzie di talenti remunerate a percentuale a ogni transazione, a migliaia disocietàindipendenti: case di produzione, start-up che affrontano le questioni tecniche, piccole e medie aziende specializzate nel casting, nella post- produzione, negli effetti speciali e nella realizzazionedeitrailer promozionali. Le diverse fasi del film sono subappaltate ad aziendespecializzatein Asia, ad artigiani che lavoranoaLosAngeles, ad agenzie di comunicazione globalizzateeasocietà specializzate nella distribuzione di film in determinatipaesi.Tutti sono indipendenti, ma legati per contratto a un sistema infinitamente più complesso di quello degli studios di una volta. Secondo alcune stime, l’economia americanadelcinemae della televisione vede la partecipazione di 115.000 aziende, la maggior parte delle quali ha meno di 10 lavoratori, coinvolge complessivamente 770.000 dipendenti e indirettamente 1,7 milioni di impieghi. Al contrario della vecchia Hollywood in cui tutti erano dipendenti, nella nuova Hollywood tutti sonoindipendenti. Ogni film è dunque un’azienda autonoma. Per gestire l’intero processo, in genere viene creata appositamente una società di produzione, un’entità giuridica autonoma. La società è diretta da un produttore ingaggiato dalla major per gestire un unico film. Si dice che il produttore è work for hire (abbreviato in Wfh), espressione fondamentale negli Stati Uniti per definire la natura del contratto di lavoro tipico di Hollywood: un contratto in cui la persona non è assunta atempoindeterminato, come avveniva all’epoca d’oro degli studios, ma per un unico progetto; inoltre il contratto, come avveniva prima del 1948, prevede la cessione del copyright dapartedelproduttore allamajor. Con la stessa modalità del work for hire, lo stesso produttore (detto line producer) mette sotto contratto il regista, gli attori e le centinaia di persone e di aziende che contribuiranno alla realizzazione del film – tutti i contratti hanno la clausola di cessione del copyright alla major.“Perfarlabreve, siamounabanca,”dice FranceSeghers. In realtà, il ruolo degli studios è, nel contempo, più e meno complicato di quello di una semplice banca. Come accade per gli istitutifinanziari,quote ingenti del denaro di cui dispongono non appartengono direttamente agli studios: sono costituite da fondi versati anticipatamente da decine di coproduttori, ditelevisionidelmondo intero che fanno una prelazione sui diritti televisivi, sono l’esito di accordi con le case di produzione di videogiochi e di trattative con compagnie aeree e catene di alberghi che diffonderanno i film, ci sono inoltre le sovvenzioni pubbliche dei singoli stati per le riprese fatte in terra americana (ce ne sono inognistatofederalee bisogna aggiungere anche importanti crediti sulle imposte e riduzioni fiscali che corrispondono alla tecnica di sostegno pubblico più frequente al settore cinematografico negli Stati Uniti). Gli studios si avvalgono anche dei flussi finanziari provenienti da puri investitori, in particolarehedgefund, fondi pensione, equity partner, prestiti bancari e altri fondi d’investimento diversificati. Possono inoltre contare sugli apporti finanziari di ricchiprivaticittadini,i famosi civilians. Questi civilians, filantropi americani, miliardari indianioricchisceicchi arabi,intervengononel finanziamento del film, non tanto per investire denaro, ma per condividere un po’ del glamour hollywoodiano: sono invitati alle riprese, assistono alle anteprime, mangiano insieme agli attori. Figurano nei titoli di coda,perquantoilloro apporto non sia per nulla secondario, e soprattutto possono dedurre questo “investimento” dalle tasse sui redditi (spesso grazie a riduzioni fiscali all’estero). Gli studios, tuttavia, sonoanchequalcosadi piùdiunabanca.Oltre a fornire capitali, gestiscono anche il copyright del film, di cui sono proprietari, e dal valore spesso inestimabile.Unaparte importante dell’attività delle major è concentrata sulle vendite internazionali, suidirittiderivati,sugli adattamenti per la televisione; gli studios sono dunque anche banche di prodotti sottocopyright.Inoltre, si occupano di regolamentazioni, per esempio negoziano con la Mpaa per evitare l’attribuzione di un “rating” sfavorevole ai film e, naturalmente, coordinano la distribuzione nazionale e internazionale. “In termini generali, tutte le questioni internazionali sono seguite direttamente dalla casa di produzione, dal momento che oltre il 50 per cento degli incassi di un film viene spesso dall’estero,” conferma France Seghers.IlfilmdiSony Spider-Man 3, per esempio, costato 380 milionididollari,neha incassati 890 al botteghino globale, di cui 336 sul mercato interno americano (Canada incluso) e 554 all’estero in 105 paesi nel 2007. “Ormai ci muoviamo secondo un’otticainternazionale di business,” prosegue France Seghers. “Abbiamo sempre di più la consapevolezza che quando facciamo unfilm,lofacciamoper il mondo intero. È una realtà con una serie di conseguenze. Per esempio, i film sono concepiti fin dall’inizio in funzione dei mercati internazionali su cui vogliamo andare. Ovunque nel mondo i nostri prodotti devono essere desiderati e questo desiderio deve essere preparato; farlo è un mestiere.” France Seghers percepisce una certa sorpresa da partemiadifrontealla pianificazione di cui parla. Allora batte il chiodo: “Qui stiamo parlando di un settore industrialeenonsipuò capire Hollywood se non se ne misura interamente la portata. Non facciamo artigianato,voifrancesi siete degli artigiani. Voi volete avere successo nel mondo, ma non fate le cose in grande. Siete diffidenti verso gli studios, verso il denaro, verso il pubblico, temete che possano compromettere la vostra arte. Siete sospettosi verso il successo e dubitate della sincerità del pubblico. Noi invece amiamoilpubblicocon passione, lo amiamo cosìtantochevogliamo conquistarlo in massa, ovunque si trovi, in tutto il mondo. Questo è il cinema”. Conclude poi la sua requisitoria citando una celebre frasedell’imperatoredi Hollywood Samuel Goldwyn: “Questa industria non è stata chiamata show-art, ma show-business”. Qualche ora dopo, continuando la mia visita all’interno degli studios Sony Pictures, resto sorpreso da una serie di piccoli edifici che, mi si dice, sono quelli dei “produttori indipendenti”. Davvero non mi capacito di vedere produttori indipendenti all’interno di Sony Pictures. “Sì, abbiamo tutta una serie di produttori indipendenti legati alla nostra società, come accade per tutte le altre major,” mi dice France Seghers. “Sono nostri dipendenti o lavorano su commissione e questo ci dà il diritto di esercitarequellochesi chiama ‘first look’, nel sensochesiamoiprimi a valutare il progetto e abbiamo il diritto di prelazione, ma se rifiutiamo,ilproduttore è libero di andare a proporloaltrove.” Alla caffetteria di Sony pranzo insieme all’équipe di Imageworks, il settore effetti speciali di Sony Pictures. Il cibo è sorprendentemente buono e raccolgo numerose informazioni sul digitale e l’evoluzione delle tecnologie. Nel pomeriggio visito con loro l’unità specializzataemiviene regalata una maglietta da riprese, di quelle chesiindossanosulset e con grosse scritte come “Regista”, “Ingegnere del suono”, “Capo macchinista”. Sulla mia c’è scritto “Writer”, scrittore. Raramente sono stato accolto con tanta gentilezza negli stabilimenti di una major americana. Già, americana o giapponese? “Sony Pictures è di proprietà di una multinazionale giapponese. Ma siamo una major americana,” conferma France Seghers. “I giapponesi ci hanno acquisito proprio perché restassimo americani. Non hanno voluto che facessimo film giapponesi. Del resto, non saremmo capaci di farli.”Restostupitonel vedere nel suo immenso ufficio una grande locandina di Spider-ManIII.Èpiùdi un simbolo, è il poster in versione giapponese di uno dei film più costosi della storia, prodotto da una casa americanapercontodi ungruppogiapponese. “Non abbiamo dato green light a SpiderMan” Sony City. Qualche settimana dopo mi trovoallasedecentrale di Sony, nel quartiere Shingawa nella zona sud-ovest di Tokyo. La casamadredelgruppo, in Giappone, è compostadatretorridi vetro, la più alta delle quali è nota per essere quella che ospita il consiglio d’amministrazione della multinazionale. Tutte le decisioni strategiche di Sony sono prese qui: quelle sull’elettronica destinataaunpubblico di massa, sui telefoni cellulari Sony-Ericson, sui computer, sulla Playstation e la Psp, sulle televisioni a pagamento via satellite di SkyPerfect Jsat in Giappone, ma anche le decisioni sui “contenuti”. In sintesi, Sony possiede due delle principali major mondiali del cinema e della musica, Sony Pictures Entertainment e Sony Music, disseminate in numerose filiali americane: gli studios Columbia, TriStar Pictures, Sony Pictures Classics e il 20 per cento di Metro Goldwyn Mayer; mentre per la musica, Cbs Music, Columbia Records,Arista,Rcaed Epic. Nel complesso, dalla casa madre di Tokyo dipendono mille società e filiali. Se in Europa e negli Stati Uniti Sony è nota per essere un’azienda di elettronica che ha intrapreso la via del cinema e della musica, in Giappone è una grande azienda di fondamentale importanza che fornisce ai giapponesi numerosi prodotti e servizi, dai servizi bancari alle pile elettriche e addirittura foiegras. Quando arrivo nel suo ufficio di Tokyo, Iwao Nakatani sta lavorando a un computer Sony all’ultimo grido. Iwao Nakatani ha studiato a Harvard, è stato consulente economico del primo ministro giapponese, è rettore di un’importante universitàdiTokyo,dal 1999 è membro del “board” di Sony ed è stato presidente del consiglio di amministrazione dell’intera Sony dal 2003 al 2005. È lui ad aver nominato il nuovo amministratore delegato di Sony, l’inglese sir Howard Stringer, ex manager di Cbs. Dopo il piacere del solito scambio di biglietti da visita e i reciproci ossequi, Iwao Nakatanientranelvivo dell’argomento. “Il compito di Sony è offrire alle persone di tuttoilmondoilmeglio del divertimento, per questo diamo loro, nel contempo, hardware, dispositivi, software, programmi e contenuti,” mi dice Nakatani parlando in giapponese (non ha voluto parlare in inglese e con me c’è un’interprete). Perché vi siete lanciatisulmercatodei contenuti, se i settori storici di Sony erano l’elettronica e l’informatica per un mercato di massa? “Bella domanda,” risponde Nakatani. “Qui a Tokyo siamo molto legati all’hardware, mentre i contenuti sono soprattutto appannaggio degli americani, per questo abbiamo acquisito una major come Columbia. Avevamo bisogno di contenuti, è stata una scelta puramente economica e dovevamo gestire il gruppo in modo verticale, secondo una strategia che tenesse insieme dispositivi, contenuti, cinemaemusica.Tutto ciò è accaduto prima che io arrivassi alla Sony. Ma il problema di Sony sta proprio nell’articolazione tra la sede di Tokyo e le numerose filiali che controlla, che appartengono a Sony madevonoavereanche una certa libertà. Comprare una società è facile, difficile è gestirla e farla funzionaredalontano.” Il problema principale di Sony, infatti, riguarda essenzialmente i contenutiperilcinema e la musica, mi conferma qualche giorno dopo a Tokyo Shuhei Yoshida, amministratore delegato di Sony Computer Entertainment Worldwide Studios. Secondo l’uomo che coordina la produzione diunamiriadedigiochi perlaPlaystationIII,la questionedeicontenuti varia a seconda dei settori:“Nelcinema,la trama è fondamentale; nei videogiochi le cose più importanti sono la funzionalità e il grado di interattività. Questo, in Giappone, sappiamo farlo. Facciamo ‘focus group’ e ‘play testing’ fino a quando non abbiamo trovato la soluzione migliore. Gli americani sanno fare meglio musica e cinema, noi i videogiochi”. Affermare valori giapponesi è parte dellastrategiadiSony? Vuole fare imperialismoculturale? “Non credo,” mi dice IwaoNakatani.“Sonyè percepita come una società apolide, senza nazionalità. Le circostanze hanno voluto che avesse sede in Giappone, ma non abbiamo mai avuto la volontà di imporre i nostri valori o di dominare attraverso i nostri contenuti. Non è nella nostra mentalità. Del resto, diamo carta bianca agli americani, loro gestiscono liberamente i settori cinemaemusica.” Per capire meglio come funziona la casa madre, chiedo a Iwao Nakatani (all’epoca presidente di Sony) quando la direzione giapponese di Sony è stata informata da Sony Pictures americana della decisione di fare i tre film Spider-Man, tra i piùcostosidellastoria, e quando è stata data luce verde. Nakatani mi risponde con precisione: “Dal Giappone non è stata maidataluceverdeper Spider-Man. Non abbiamo né visto né approvatoilbudgetdel film. È stata una decisione interamente presa da Sony Pictures Entertainment negli Stati Uniti. Da Tokyo non siamo in grado di fare considerazioni ponderate in materia, ci fidiamo delle nostre équipe negli Stati Uniti”. Questa dichiarazione è cruciale per comprendere le industrie internazionali deicontenuti. Ho appreso poi da Takashi Nishimura, direttorediUnijapan,e da Junichi Shinsaka, direttore della Motion Picture Producers of Japan (Eiren), due dei principali organismi professionali di regolazione del cinema giapponese che, “nelle statistiche dell’industria del cinema giapponese, Sonyèconsideratauna società ‘straniera’ e non ‘nazionale’. Per comprendere meglio questo dato essenziale, è necessario sapere che il settore cinema dà un apporto scarso agli introiti globali di Sony (19 per cento nel 2003, quota non lontana dagli altri conglomeratimediatici: Paramount incassa il 7 per cento degli introiti di Viacom, 20th Century Fox il 19 per cento di News Corp, Warner il 18 per cento di Time Warner, Universal aveva meno del 2 per cento degli introiti di General Electric prima di essere acquisita da Comcast e il cinema rappresenta il 21 per cento in Disney Corporation). Intervisto allora l’ex presidente di Sony per sapere se accade la stessa cosa con la musica. Nakatani mi dice: “Qui a Tokyo non abbiamo competenze néperilcinemanéper la musica. Non decidiamoenondiamo luce verde finanziaria, né sui progetti di Sony Music né su quelli di Sony Pictures negli StatiUniti”. Queste risposte sono significative e attestano che la casa madreSony,perlesue società, svolge semplicemente la funzione di una banca, nulla di più. Iwao Nakatani non contesta questo tipo di analisi. Ma allora Sony deve continuare a occuparsi di contenuti? In Giappone non si dice mai “no”. Nakatani esita prima di rispondere: “È una cosa che continuo a chiedermi. Fin quando ci sono guadagni non abbiamo urgenza di cambiare, ma se il gruppo avesse bisogno di liquidità, forse dovremmo pensare di vendere il settore del cinema o della musica. Dal mio punto di vista credo che Sony, lanciandosi nei contenuti, abbia perso potenza e specificità. Inoltre, contrariamente a quanto pensavamo all’inizio, gli addetti dell’hardware e quelli dei contenuti non riescono a lavorare insieme. L’esperienza di Sony-Bmg in ambito musicale è fallita perchénonsiriuscivaa lavorare con l’azienda tedesca Bertelsmann. Tra Giappone, Europa e Stati Uniti c’è troppa distanza, non solo geografica, ma anche culturale, e ciò non facilitalecose”. In Giappone, Sony non ha divisioni per il cinema e c’è solo un modestoufficiodiSony Music che si occupa esclusivamente di musica giapponese. Ho visitato gli uffici di Sony negli Stati Uniti, in Giappone, ma anche a Singapore, Hong Kong,Giacarta,IlCairo e la maggior parte dei miei interlocutori, che lavorassero per la musica o il cinema, mi ha confermato queste informazioni. Peraltro, tutti mi hanno detto di dipendere da Sony americana, non giapponese. Sony Music è una vera e propria major discografica americana, come Sony Pictures è una casa cinematografica americana. Da Culver City a Century City, dagli studios americani di Sony alla torre della Metro Goldwyn Mayer ci sono meno di cinque chilometri in linea d’aria,maperarrivarci in auto ci si può impiegare anche un’ora, dato il traffico di Los Angeles. A Century City ogni cosa evoca il cinema. Le strade si chiamano Avenue of the Stars, Fox Hills e Mgm Drive e gli studios della 20th Century Fox occupano tutta la zona sud del quartiere. Il Fox Plaza, che abbiamo visto esplodere in film come FightClub e Die Hard, è un grattacielo di trentacinque piani ben riconoscibile da lontano. Altrettanto ben visibile è l’immenso edificio bianco dell’agenzia Creative Artists Agency, costruito sul terreno precedentemente occupato dalla torre della catena televisiva Abc (oggi situata nella valley a Burbank, nel Nord di Los Angeles, all’internodellasededi Disney che l’ha acquisita). Al civico 1999 dell’Avenue of the Stars si trova la torre della banca J.P. Morgan. Mentre salgo al ventiseiesimo piano, mi rendo conto che in questatorrecisonogli uffici di altre banche, Lazard Frères all’undicesimo, Morgan Stanley al ventitreesimo, Ubs al trentaquattresimo. Mi trovo nel quartier generale che finanzia Hollywood e ho appuntamento con Ken Lemberger. KenLembergerèl’ex vicepresidente di Sony Pictures Entertainment e uno dei patron di Hollywood.Oggilavora nel settore di finanziamento del cinemaedirigel’ufficio “Entertainment” della banca J.P. Morgan in qualità di “J.P. Morgan Entertainment Advisor”. L’obiettivo di questo incontro è cercare di capire se le banche investono a Hollywood o se sono semplicemente agenzie di credito. “Le banche sono un soggetto importante del finanziamento di Hollywood, ma restano un soggetto marginale,” chiarisce subito Ken Lemberger. “Le vere banche sono gli stessi studios che investonoillorodenaro per realizzare i film. Il nostro ruolo è soprattutto quello di apportare loro la liquidità necessaria, ovvero garantire credito, a partire dal denaro che è stato promesso loro da numerosissimi partner, ma che non hanno ancora incassato. Non si tratta dunque di investimenti a fini speculativi, ma di prestiti di liquidità a partner deboli. Il mio lavoro è fare da consulente a J.P. Morgan in queste attività. Tutte le banchehannoreclutato come consulenti ex managerdellemajordi Hollywood.” Ken Lemberger prende da un tavolo in vetro un volume di duecento pagine, uno studio statistico sul mercato della televisione in India per mostrarmi la complessità del settore che deve analizzare. Sultavolocisonopoiil “WallStreetJournal”,il “Financial Times”, ma non il “Los Angeles Times”.Sologiornalidi finanza, nessuno di cinema. All’interno dell’economia globale del cinema americano, e tra la moltitudine di soggetti che contribuiscono a far funzionare Hollywood, mi chiedo chi sia, allora, il vero padrone: lebanche,glistudioso leagenzieditalenti? Ormai a Hollywood è calata la sera. Comodamente seduto inunosplendidodivano inpelle,alcentrodiun ufficio gigantesco i cui muri sono coperti di celebri opere d’arte provenienti da collezioni private della banca e con alle sue spalle una magnifica vista di Los Angeles illuminata all’infinito, Ken Lemberger mi risponde in modo categorico: “Contrariamente a quanto si crede, a Hollywoodc’èunsoloe unico padrone. Non sono le banche, né i produttori, né le agenzieditalenti,néle star multimilionarie, sono gli studios. L’unica domanda che ha senso fare è la seguente:chisiassume i rischi? La risposta, senza esitazioni, per tutti i principali film mainstream, è: gli studios. Gli studios sono i risk-takers. In questosistema,tuttigli altri soggetti, e sono numerosi, sono pagati e riescono sempre a sfangarla indipendentemente dal risultato al botteghino. Gli unici ad assumersi rischi finanziari sono gli studios. Forse li si può rimproverare di essere troppo prudenti nel dare green light, li si può trovare eccessivamente prudenti, troppo mainstream o troppo innovativi. Ma la verità è che tutti alla fine vengono pagati e gli unici ad assumersi dei rischi sono gli studios. Trovo dunque normale che siano loro a detenereilpotere”. Il ragionamento non fa una piega, ma non mi convince del tutto. Le banche sono un soggetto periferico sul fronte del cash flow, ma sono un soggetto importante sul versante “speculativo”, tema di cui Ken Lemberger ha taciuto nel nostro incontro. Con la finanziarizzazione dell’economiaavvenuta negli anni ottanta e novanta,iconglomerati mediatici sono oggi fortemente soggetti a unalogicacapitalistica, soprattuttoattraversoi fondi pensione, gli hedge fund e i mutual fund. La ripartizione del capitale all’interno di queste multinazionali è dunque una questione di grande portata e tutte queste complesse operazioni di Borsa sono realizzate dalle banche, come J.P. Morgan, e dai suoi consulenti, come i “J.P. Morgan Entertainment Advisors”. Il marketing, ovvero la transumanza tra i media Rimango all’interno di Century City, attraverso il quartiere apiediperraggiungere la Mgm Tower. Dal 2001, questo palazzo è la sede della Metro Goldwyn Mayer ed è ben riconoscibile da lontano per il leone, il celebreleoneruggente. La torre, tuttavia, non ospita solo la major hollywoodiana, molti uffici sono affittati a societàesterneofiliali. All’undicesimo piano della Mgm Tower incontro Dennis Rice, che mi riceve negli uffici della United Artists. “Il nostro azionista principale è Mgm, ma detengono quote di United Artist ancheSonyeComcast, 20 per cento ciascuna, e tra i nostri azionisti di minoranza ci sono anche cinque fondi di investimento e Tom Cruise,”midiceDennis Rice, uno degli uomini di marketing più rinomati di Hollywood e copresidente di United Artists. Ua era ilpiùpiccolodeigrandi studios hollywoodiani. Apparteneva un tempo a Charlie Chaplin e D.W.Griffithedèstato a lungo indipendente. Ha prodotto film come Scarface, High Noon, West Side Story, la saga di James Bond e Rocky e di recente BowlingaColumbinedi Michael Moore. Dalla fine degli anni sessanta, United Artists è stata dichiarata, di volta in volta, clinicamente mortaocompletamente rinata, in relazione a quando era acquisita o rivenduta (per esempio dalla banca francese Crédit Lyonnais, nel 1992). “Contrariamente a quanto pensa la gente, lanazionalitàdeinostri azionisti conta poco. Facciamo sempre film americani, ovvero film universali,” obietta il mio interlocutore. Dennis Rice dirige il marketing su scala mondiale di una major importante che oggi produce o distribuisce una ventina di film all’anno e descrive in questo modo la sua strategia internazionale: “Ogni film è un pezzo unico, non siamo un’industria ordinaria come Ford o Coca-Cola, siamo un’industria creativa. La particolarità di Hollywood sono i prodotti unici, anche quando produciamo serie come quella di James Bond. Per ogni film bisogna ricominciare tutto daccapo. La pubblicità di chi vende Coca-Cola ha un effetto immediato, ma anche più duraturo; la pubblicità di un film invece viene usata una solavolta”. Anche il marketing deifilmèdunqueunico e ormai ha raggiunto il 50 per cento delle spese complessive. La produzione di SpiderMan 3 è costata 380 milionididollari,dicui 260 milioni per il film (detto negative cost) e 120 milioni per il marketing globale. Date le cifre, è lecito pensare che la promozione del film vada spesso meglio dello stesso film. Almeno, così è stato scrittodallemalelingue per il remake americanodiGodzilla. “La campagna internazionale di marketing è finanziata principalmente dalla major,” spiega Dennis Rice, “ma il marketing per un film è deciso sempre a livello locale, dalle persone che sono sul posto. Guardi questa tabella.” Mi mostra una previsione del budget del marketing paese per paese per il film Truman Capote. A sangue freddo, con la quota della major e la quota locale finanziata da distributori, gestori di sale e aziende partner che curano il merchandising. “Come vede, si tratta di cifre moltodiversetraloroe all’estero si spende davvero poco rispetto agli Stati Uniti, anche quandositrattadifilm di successo. Soprattutto, i capitali investiti sono concentrati su un numero ristretto di mercati, in prevalenza Giappone, Germania, Regno Unito, Spagna. In una sessantina di altri paesi non si investequasinulla.” Durante il nostro incontro Dennis Rice ha l’aplomb del professionista,dauomo di marketing fornisce dati, risponde con cortesia alle mie domande,vadrittoalle questioni essenziali, non fa trapelare né sensazioni di fastidio né entusiasmo, tranne che in un’occasione. Quando gli parlo di Cina e India, Dennis Rice s’infiamma: “Ma leiriesceaimmaginare i potenziali introiti per Hollywood in Cina e in India!”. Con dispiacere mi spiega poi le attuali difficoltà dovute alla censura, alle percentuali sugli incassi e alla distribuzione,allequali deve far fronte in questi paesi. SpecialmenteinCina. Oggi, United Artists, come gli altri studios, ha un forte impatto sul box-office internazionale,cheèin continuo aumento. Nel 2000ilmercatointerno americano fruttava circa il 50 per cento degli introiti (l’altra metà proveniva dal mercato internazionale). Oggi, secondo i dati che mi fornisce, la quota interna è del 40 per cento,quellaesteradel 60 per cento. L’inversione delle proporzioni tra mercato interno ed esterno è avvenuta di recente, tra la metà degli anni novanta e i primianniduemila.“La globalizzazione del cinema hollywoodiano sta trasformando profondamente i film che facciamo, persino la scelta dei nostri attori.Perarrivareagli spettatori di tutto il mondo, abbiamo bisogno di star di primo piano e di storie con un valore più universale. Noi facciamo già intrattenimento,maqui si tratta di fare intrattenimento globale,” constata Dennis Rice. Poi aggiunge: “Siamo pronti ad accettare la sfida. Continuiamo a pensare di poterci espandere in Cina, India,Brasile,Messico, MedioOriente,Europa. Da tempo ormai non facciamo più film strettamente americani,maogginon abbiamopiùscelta:per riuscire a parlare al mondo intero, la nuova Hollywood, talmente globalizzata, deve fare film universali. (Dopo l’intervista, Dennis Rice ha dato le dimissioni da United Artists in seguito a un disaccordo con Tom Cruiseelasuasociain affariPaulaWagner.) La campagna commerciale di un lungometraggio hollywoodiano è un vero e proprio piano di battaglia organizzato su diversi continenti. È la tappa fondamentale di ogni film mainstream. Negli ultimi trent’anni, queste campagne sono diventate sempre più complesseeilorocosti sono raddoppiati (circa 2 milioni di dollari in media per un film di unamajornel1975;39 milioni in media nel 2003, ma si è arrivati anche a oltre 100 milioni per grandi film commerciali come Matrix e Pirati dei Caraibi). I direttori del marketing che ho incontrato nei principali studios di Los Angeles e i pubblicitari intervistati sulla Madison Avenue (quartiergeneraledelle agenzie di pubblicità a New York) mi hanno descritto il loro piano di conquista del pubblicodimassa. Prima di dare il via liberaaunfilm,lacosa più importante è determinare il suo potenziale pubblico. NegliStatiUnitiquesta operazione si fa generalmente seguendo tre criteri: l’età (più o meno di venticinque anni); il genere (uomo o donna); infine il colore della pelle (bianchi e “non-bianchi”). A partire da queste categorie, si fissa il target del potenziale pubblico, per esempio “gli uomini bianchi di meno di venticinque anni”. L’ideale consiste, naturalmente, nel produrre ciò che si chiama “four-quadrant film”, pellicole con un pubblico potenziale di uominiedonneattorno ai venticinque anni; il rischiomaggioreèfare un film che possa piacere solo alle ragazze di meno di venticinque anni, poiché tutti gli studi di mercato dimostrano che queste ragazze in genere accompagnano ifidanzatiavederefilm d’azione, mentre i maschi non vanno mai alcinemaavederefilm da “ragazze” (che dunquesonorari). Si fanno poi i focus group, strumento per eccellenza del marketing hollywoodianoapartire dagli anni ottanta. Si tratta di studi qualitativi che consistono nel porre domande approfondite a un numero ristretto di persone selezionate, invece di domande superficiali a un ampio campione di persone. I focus group, accompagnati da test screening e completati da sondaggi quantitativi per affinare il pubblico mirato, aiutano i responsabili del marketing a prendere le decisioni. Si intervistano gruppi di persone che appartengono potenzialmente al target per capire ciò chepensanodelfilm,e generalmente,aquesto stadio, si racconta loro latrama,gliattori,esi mostranoiprimitrailer per studiare le loro reazioni. In base ai risultati si avvia una pre-campagna nei cinema per annunciare il film, mentre le trasmissioni televisive a grande audience e i talk-show delle reti di proprietà delle major sono utilizzati per lanciare il “buzz”, il passaparola. A partire da queste prime campagne, sono avviati nuovi focus group per valutare il livello generale di informazione sul film e la sua presa nella memoria del pubblico dimassa(aHollywood, un direttore di marketing mi parla di stickness del film, se “resta ben appiccicato”). Si fanno poi i test screening, proiezioni del film, anche se incompiuto, davanti a nuovi focus group. Si elabora così un indice di soddisfazione e si affina il pubblico potenziale. A questo stadio, i direttori del marketing sono in grado di prevedere il successo del film con uno scarso margine di errore,secondoloro.In relazione ai risultati di questostudio,èancora possibile modificare la data d’uscita e ridurre la durata del film (“oltre l’ora e venti i minuti valgono doppio, e triplo dopo l’ora e trenta,” mi dice un produttore). Inoltre, alcune scene possono essere tagliate, attenuateotrasformate (a partire dai rushes – cioèleprimescenenon editate di un film – si aggiunge per esempio una scena d’azione se si tratta di un film estivoperigiovani,dal momento che tutti gli studi sul pubblico confermano che i giovani maschi preferiscono scene d’azione a scene di dialogo). Anche il lieto fine può essere modificato, se necessario. Queste operazioni di postproduzione sono delicate: in inglese si dicechedevonoessere fine tuned, regolate con precisione, poiché si tratta di dare al prodotto la sua identità,lasuapotenza mainstream, senza farlo diventare troppo banalenétroppobland (insulso e monotono, come spesso si dice della cultura popolare americana).Ilfilmdeve essere nel contempo per un ampio pubblico (sidicecrowd-pleasero crowd-puller, cioè che attira le masse), ma anchenuovoeunico,la storia deve dare l’impressione che si tratti di qualcosa di “speciale”. Quel “qualcosa di speciale” è fondamentale: è dato dallatrama,dagliattori e dagli effetti speciali, malapostproduzionee il marketing hanno la funzione di accrescerlo e moltiplicarlo. In questo modo, un film diventa un feel-good movie (un film che dà allo spettatore la sensazione di stare bene), accelera il suo ritmo, diventa più energico o upbeat (ottimista e combattivo). Talvolta, sipuntasulfattocheil filmsiabasedonatrue history, oppure sul protagonista bigger than life, per accentuare l’identificazione del pubblico. Si cerca in definitiva di trasformare un semplice prodotto in ricordi, esperienze e stilidivita. A partire da qui si fanno i piani e gli stanziamenti della promozione, si stabiliscono il contenuto dei trailer e il numero delle copie editate, che per il film di una major può oscillare tra novecento per i cinquanta stati americani e diverse migliaia (Batman. Il cavaliere oscuro, nella prima settimana d’uscita era su 4366 schermi negli Stati Uniti). Per i film più mainstream, queste campagne e i focus group sono organizzati molto prima della data di uscita del film (i primi tesears, video promozionali, di Spider-Man erano in sala un anno prima). Nella strategia di marketing ci sono anche i “prodotti tieins”,iprodottiderivati, che accompagnano in negozi e fast-food l’uscita di film mainstream come Guerrestellari,Shreke La nascita dei cobra. Sono prodotti che contribuiscono al finanziamento dei film, garantiscono un’ulteriore mediatizzazione e hanno il vantaggio di essere integralmente pagati dalle catene di negozi e fast-food. Per il ritorno sugli schermi di Guerre stellari, nel 1999, ciascuna delle tre catene controllate da Pepsi-Cola (Kfc, Taco Bell e Pizza Hut) ha propagandato un pianetadiversoeisuoi personaggi. L’ultimo stadio della campagna è comunemente chiamato “drive” – da cattle drive, la transumanza del bestiame nell’Ovest americano. Consiste nel martellare il nome del film e degli attori con tutti i mezzi possibili, su tutti i supporti e in diversi continenti nello stesso tempo, nelle due settimane che precedono l’uscita del film per motivare il pubblico ad andare a vederlo. Diversamente dalla diffusione dei trailer, che è gratuita inseguitoaunaccordo che risale all’epoca in cui le major erano proprietarie delle sale, queste campagne sono estremamente onerose. Tanto più che si fanno soprattutto acquistando spazi televisivi, e queste sono le uniche pubblicità realmente efficaci nel coinvolgere il pubblico di massa che può diventare potenzialmente spettatore al cinema, secondo tutti i miei interlocutori a Hollywood(nel2003gli studios hanno speso 3,4miliardididollariin spazi televisivi di grandi network come Nbc, Cbs, Abc o di emittenti specifiche come Hbo o Mtv, che appartengono proprio aglistessiconglomerati deglistudios). Senza giri di parole, James Schamus, amministratore delegato di Focus Entertainment, è categorico: “La cosa decisiva è il battage televisivo. È triste a dirsi, ma è ciò che non hanno capito i giapponesi. In Giappone, Hollywood è riuscita a imporre il cinema americano attraverso la pubblicità intelevisione,inquesto modo è stato ucciso il cinema giapponese. Abbiamo investito unicamente sulla televisione, abbiamo speso milioni di dollari in marketing e i giapponesi non sono riusciti a stare al nostropasso”. La densità della campagna finale, un vero e proprio attacco, è tipica della nuova Hollywood in cui il successo di un film è decretato spesso dal botteghino del primo fine settimana (detto opening-weekend gross). In precedenza, un film aveva tempo di farsi vedere e le campagne potevano durare diversi mesi, in relazione alle critiche della stampa e al passaparola; oggi invece tutte le spese sono concentrate nella settimana dell’uscita, decisiva e in grado di determinare – con il sostegnodialcunistudi sulle uscite dalla sala, che ricordano molto i sondaggi che si fanno all’uscita dalle urne duranteleelezioni–,la duratadivitadelfilme la data d’uscita in versionedvd. La macchina di Hollywood non deve il suo successo unicamente alla ricchezza delle case di produzione, ma anche alla professionalità e allacomplessitàdelsuo sistema, capace di adeguare continuamente i suoi mezzi in funzione del pubblico. L’offerta si adatta costantemente alla domanda e viceversa. Il marketing è al centro della fabbricazione mainstream. del Queste campagne di marketing, tradizionali e di massa, erano ben rodate fino all’avvento di internet, che ha cambiato completamente lo scenario. Ieri il pubblico era dipendente dalle informazioni fornite e controllatedallemajor; oggi invece può informarsiliberamente, èpiùdiffidentee,come mi dice un infastidito importante direttore di marketing: “Con internet il pubblico è diventato più sospettoso rispetto al marketing, ma riesce a riconoscere, indipendentemente dalle nostre strategie, ilbuonfilmdalcattivo, in pratica il pubblico oggi è intelligente”. Inoltre, la fuga di immagini è ormai ordinaria in rete. Le immagini delle riprese sonomessesuYouTube e rovinano piani di comunicazione ben costruiti. Gli stessi film sono ormai spesso su internet ancor prima dellaproiezioneinsala. Il mercato dei dvd è fortemente messo in discussione e molti prevedono la sua scomparsa a breve termine. Dopo aver dichiarato guerra a internet all’inizio del nuovo millennio – guerra ovviamente persa con una sonora sconfitta – gliaddettialmarketing di Hollywood si sono infinemessiadialogare con la rete invece di combatterla. Sono passati dal confezionare prodotti di massa a campagne non tradizionali condotte da decine di tecnici specializzati del marketingonline.Oggi, la campagna di promozione dei film include completamente la dimensione web. Vengono utilizzati strumenti ormai classici come la creazione di siti specializzati o il lancio di forum online, vengono scritte pagine wikipedia dagli stessi servizi marketing (cosa poco conforme alle regoledelweb2.0).Le nuove strategie comprendono anche la diffusione “illegale” di spezzoni di film su siti come YouTube, un modoperraggiungerei giovani, suscitare il “buzz” e il marketing virale.Quasisemprein ritardo rispetto alla realtà, gli studios hanno cominciato a credere in MySpace, quando una parte dei suoi membri era emigrata su Facebook, hanno privilegiato Second Life quando il sito era già stato disertato, e alla fine si sono riconvertiti a Facebook, dimenticando Twitter nel momento in cui gli iranianilorivelavanoal mondo. Inizialmente, i blogger che diffondevano le voci e svelavanosegretierano minacciati di denuncia, poi sono stati presi sul serio: per esempio Nikki Finke, autore del blog Deadline Hollywood, oggi è vezzeggiato come le più grandi firme del “LosAngelesTimes”. È stato adattato al web ciò che esisteva già in precedenza. Per esempio,iblurbs,brevi citazioni a fini promozionali richieste a un critico o a un personaggio famoso prima dell’uscita di un film o di un libro, sono oggi messi sui blog o diffusi su internet attraverso l’acquisto di spazi pubblicitari. Il marketing del passaparola (“word-ofmouth marketing”) è stato adattato alla rete attraverso società specializzate come Buzzmetrics (acquisita da Nielsen), che lancia campagne passaparola sulweb.Altristrumenti come BuzzTracker, BuzzAudit, MediaPredict e Homescan Online, permettono di valutare lo stato del “passaparola” di un film in rete, di conoscere le “conversazioni” in corso sul tema su internet e di seguire in direttatuttiicommenti postatisualcunibloge alcuni forum. Quando questobuzzsifacritico e mette in pericolo il “buon” passaparola (il sito specializzato BuzzThreatTracker sorvegliaquestotipodi minaccia) attiva una controffensiva con nuove campagne. Con questi contatti diretti tra marketing e pubblico, internet restituisce un senso alla classica formula di un produttore di Hollywood: il pubblico è il coautore del film (“The audience as coauthor”). Globalmente, la strategiadelmarketing internet degli studios consistenelconfondere la linea di demarcazione che separa pubblicità e informazione in modo che l’intrusione pubblicitariasiameglio tollerata e forse addirittura desiderata. Questo, in fondo, è diventato il buzz: il passaparola diventato marketing. Il monopolio sindacati dei Al civico 7920 di Sunset Boulevard nel cuore di Hollywood ho appuntamento qualche giorno dopo con i responsabili della Directors Guild of America (Dga), l’onnipotente sindacato dei registi. Anche in questo caso, internet ha provocato importanti sconvolgimenti. Negli ultimiannicisonostati scioperi a ripetizione per imporre agli studios di inserire nei contrattiremunerazioni relativeainuovimedia. “AllaDirectorsGuildof America pensiamo che il regista sia un ‘autore’. Il nostro compito è proteggere i suoi diritti in quanto creatore, anche su internet. Per questo nonsiamounsindacato vero e proprio, ma una guild, una sorta di corporazione degli autori,” mi dice Kathy Garmezy, direttrice di Dga. I sindacati e le guildssonounsoggetto importante del sistema hollywoodiano. E per quanto possa risultare sorprendente in un paese ultracapitalista come gli Stati Uniti, Hollywood è un’industriatotalmente regolamentata, in cui i sindacati hanno il monopolio sulle assunzioni. Da John Ford, uno dei fondatori, a Steven Spielberg, passando per Martin Scorsese o Steven Soderbergh, la maggior parte dei registi del cinema e della tv americani (con la rara eccezione di George Lucas e Quentin Tarantino) ha aderitoallaGuild.Ilpiù celebrediquestiregisti è Alan Smithee: “È lo pseudonimo ufficiale, inventatodallaDgaper un regista quando non è soddisfatto del film perché è in disaccordo sul final cut con la major o il produttore. In questo caso, il membro della Dga chiede di apparire con lo pseudonimo Alan Smithee”, sorride Kathy Garmezy. Sono invece novecento i registi in carne e ossa che hanno lavorato per il cinema e la televisione americani iscrittiallaDgaeKathy Garmezy insiste su questopunto:“Ilfuturo di Hollywood è nel resto del mondo”. (Ma invece non dice nulla del lavoro che, su pressionedeisindacati, rende di fatto difficile per gli stranieri lavorare a Hollywood, unsistemachesivanta di non essere protezionista.) Per i suoi tesserati, Dga si occupa di tutte le questioni economiche e sociali della professione, in particolare della questione del salario minimo, della coperturamedica,delle condizioni di lavoro e delle pensioni, negoziando regolarmente e, se necessario, duramente, questeregolecollettive conlemajorelaMpaa. “Non facciamo per nulla il lavoro degli agenti o dei manager: cioccupiamodituttoil settore, collettivamente, in modomutualistico,non dei contratti individuali. Definiamo gli standard della professione, obbligatoriamente applicabili a tutti i contratti ed è a partire da questi minimi sindacali che gli avvocati e gli agenti negoziano i contratti individuali,” spiega KathyGarmezy. Nessun contratto di tutte le persone che lavoranoperglistudios o per la maggior parte dei film indipendenti sfugge alle regole salariali e previdenziali negoziate dai sindacati e dalle società di autori. Questa è la particolarità di Hollywood: è nel contempo un modello interamente commerciale e un sistemacompletamente sindacalizzato. La Dga ha, di fatto, il monopolio nelle assunzioni dei registi. Le major devono passare per questa organizzazione, così come devono passare per la potente Screen Actors Guild (Sag, presiedutaasuotempo da Ronald Reagan) per scritturare un attore, attraversolaProducers Guild of America (Pga) per i produttori, o per la Writers Guild of America (Wga) per scritturare uno sceneggiatore. La stessa cosa accade per i tecnici delle luci, del suono, i direttori del casting, le indossatrici, i parrucchieri: sono tutti sindacalizzati. “Probabilmente Hollywood è il settore piùsindacalizzatodegli Stati Uniti,” conferma Chuck Stocum, alla direzione della Writers Guild of America, che raccoglie la quasi totalità degli sceneggiatori di cinema e televisione americani. “Questo monopolio dell’assunzione si è costruito nel tempo grazie a un doppio meccanismo molto efficace da noi inventato. Da una parte, imponiamo a tutti i nostri membri di lavorare solo per le case cinematografiche che hanno firmato un accordo generale con noi; dall’altra, i nostri contratti prevedono una clausola obbligatoria per cui gli studios devono scritturare unicamente i nostri sceneggiatori,” racconta Chuck Stocum. Attraverso questo duplice meccanismo, gli studios sono stati progressivamente obbligati a prendere solo i membri della Wga alle condizioni sociali e salariali minime fissate dalla guild. La stessa cosa accade con tutte le professioni dell’industria del cinema e della televisione negli Stati Uniti. “In questo regime così vincolato, una major non potrebbe più avere alcun attore e regista se prendesse una sola persona al di fuori di questo sistema. Ecco come si è costruito il monopolio,” conclude Stocum. Decine di sindacatipartecipanoa queste trattative che si estendono al settore della televisione, della radio e persino a Broadway, come mi conferma a New York Alain Eisenberg, il celebre direttore del sindacato degli attori. “Cinema, televisione e teatro sono tre settori completamente sindacalizzati negli StatiUniti,poichétutti, nel corso della loro carriera sono stati ‘fottuti’ da un produttore, dunque la lealtà dei nostri membri è totale. In generale, peraltro, un attore è iscritto a tre sindacati: quello degli attori di Hollywood, quello della radiotelevisione a Los Angeles e da noi, l’Actors’ Equity per Broadway e New York.” Anche in questo caso, le regole sono numerosissime e davvero complesse, ma ilsindacatodegliautori ha un monopolio sul mercato del lavoro in tuttigliStatiUniti,per i teatri disciplinati secondo le regole di Broadway (sale oltre i 499 posti) e quelli Off Broadway(saletra100 e 499 posti) e continua a essere molto influente, senza monopolio, nelle sale Off-Off Broadway (sale con meno di 99 posti). Ma tutto ciò ha un costo. Ogni persona che aderisce a un sindacatoounasocietà di autori deve pagare un’adesione iniziale elevata, una quota annuale e una percentuale su tutti i suoi cachet (2,25 per centopergliautoriSag ediActors’Equity). “In effetti è costoso, ma è obbligatorio se si vuole lavorare a Hollywood o alla televisione negli Stati Uniti. È il prezzo da pagare per essere difesi dal proprio sindacato in trattative articolate e complesse,” aggiunge Chuck Stocum. “Si tratta di trattative complicate. Facciamo fronte comune con le società dei registi, i sindacati degli autori e le agenzie di talenti contro gli studios, ma siamo contro i registi per difendere gli sceneggiatori; infine controlliamo le agenzie di talenti, per esempio siamo stati noi ad aver limitato la loro percentuale al 10 per cento di tutti i contratti, per proteggere i nostri membri.” Stocum conclude: “In questo settore industriale tutti sono con tutti, ma è anche vero che tutti sono contro tutti. Tutti isoggetticoinvoltisono legatiallemajoresono anche indipendenti”. Quest’ultima espressione mi colpisce. Comincio a capire che nella nuova Hollywood il ruolo degli indipendenti è diventatocentrale. 5. Tutti“indies”,anche IndianaJones Congrandesorpresa, nell’ufficio di David Brooks, all’interno degli studios NbcUniversal di Los Angeles vedo un tavolo da ping-pong. Brooks è il direttore del marketing di Focus Features, uno degli studi di Universal. Dalla California controlla la strategia mondiale di marketing dellamajor. Il “lot” di Universal occupa diversi ettari lungo l’autostrada I 101, lontano, a nord di Hollywood. La zona occupata da questi studios è così grande che viene chiamata come se fosse una città, Universal City. Giro in auto, cartina alla mano, percorro strade che si chiamano James Stewart Avenue, Steven Spielberg Drive e Universal Studios Boulevard. L’ufficio di Brooks è al civico 100 diUniversalCityPlaza. Negli uffici di Focus Features c’è un clima disteso. Quasi ovunque cisono“openspaces”e “cubicles”, spazi individuali all’interno di un unico ambiente. Appeso al muro c’è un piccolo cartello con scritto “Permanent change” (continuare a cambiare). Brooks mi riceve in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica. Provienedallacostaest (prima dirigeva il marketing di Miramax a New York) e si è vestito “casual”, informale, in stile CaliforniadelSud.Alla direzione di Focus Features, lo studio di Universal, coordina il marketing della comunicazionesuscala mondiale di una ventina di film l’anno. Sono tutti film di “medio budget”, pellicolechestannotra il commerciale e l’indipendente. Per esempio, Focus Features ha prodotto Lost in Translation, Il pianista, Che Guevara, Broken Flowers, I segreti di Brokeback Mountain,MilkeHotel Woodstock. Iltavolodaping-pong serve per le riunioni dei responsabili del settoremarketingdella major, molti di loro sono in videoconferenza dai diversi continenti. “Lanciare una campagna internazionale di marketing,” dice Brooks,“èunpo’come giocare a ping-pong in tuttelegrandicittàdel mondo. Però, si gioca unapartitasola,nonsi puòsbagliare.” La cosa più interessante, all’internodeglistudios Universal, è che David Brooks e Focus Features sono “indipendenti”. Ho impiegato qualchetempoacapire perché a Hollywood tutti erano in condizione di essere in parte “studio” e in parte “indipendenti”. Inuncertosenso,sono tutti“indies”,compreso IndianaJones. Anche se controllata da Universal, Focus Features è una di quelle che si chiama “unitàspecializzate”(si dice anche “indie studio” o divisione “film d’autore” di una casa cinematografica). A partire dagli anni novanta, tutti i grandi studios di Hollywood hanno acquisito minimajor esterne, oppure hanno creato ex novo al loro interno studios “indipendenti”, che compongono quel settore chiamato talvolta “little Hollywood”, per non confonderloconla“big Hollywood”. Questi studios sono: Fox Searchlight Pictures all’interno di 20th Century Fox, Sony Pictures Classic all’interno di Sony, Paramount Vintage all’interno di Paramount, Warner Independent Pictures e New Line Cinema all’interno di Warner, mentre tra gli studios ci sono Miramax e Pixar acquisiti da Disney e, in una certa misura, DreamWorks Skg, ieri acquisita da Paramount e oggi nell’orbitadiDisney. “Tutte queste unità specializzate sono differenti, ma il loro compito è generalmente produrre film meno costosi rispetto ai film commerciali e di successo,destinatiaun pubblico più specializzato e spesso più internazionale. Sono queste caratteristiche a dargli la veste di film indipendenti,” mi spiega qualche settimana dopo a New York James Schamus, cofondatore e amministratore delegato di Focus Features (Schamus è anche sceneggiatore di film come La tigre e il dragone, Lussuria e Hotel Woodstock di AngLeeemiconfessa, purchéiononloscriva, che è stato anche cosceneggiatore de I segreti di Brokeback Mountain, anche se non ha voluto apparire neititoli). Ci sono altri motivi che spiegano l’esistenza di questi sotto-studios “indipendenti”. Per Focus Features è un modo per differenziare la proposta, per non cercare di rivolgersi necessariamenteatutti i tipi di pubblico contemporaneamente. La strategia è fare film a medio budget, destinati soprattutto agli adulti e con l’obiettivo di dare a Universal un’immagine menomainstream,utile ad attirare il plauso della critica e, spesso, a ottenere Oscar. Disneyinvecepersegue l’obiettivo di evitare di danneggiare il proprio marchio associato a film per la famiglia e per un pubblico di massa: il settore indipendente è un modopernonprodurre con il proprio marchio film vietati ai minori di diciassette anni a causa di immagini troppo violente o con scene di sesso troppo esplicite. Disney producequestifilmcon il nome di unità specializzate come Touchstone Pictures e Miramax. Peraltro è anche un modo per favorire la creatività compiacendo produttori e cineasti che vogliono mantenere l’immagine di “indipendenti”, ma che hanno bisogno dei soldi degli studios. “È unmodoperfidelizzare gli artisti,” mi dice James Schamus. Spesso, la minimajor permette di assumere maggiori rischi, o di scritturare un attore per una paga inferiore rispetto a quella che prenderebbe con una grandemajor.Inalcuni casi è addirittura possibile sfuggire ad alcune regolamentazioni sindacali, mentre, talvolta, è soltanto un modo per aprirsi ulteriormente sul fronte internazionale attraverso un marchio apparentemente meno americano (i film dello spagnolo Almódovar, del cinese Zhang Yimou, del taiwanese Ang Lee o del messicano Alejandro González Iñárritu sono stati prodotti o coprodotti da Focus FeaturesenondaNbcUniversal). Talvolta l’artificio funziona a meraviglia:nel2005,la stampa francese si è esaltata per Broken Flowers, la commedia di Jim Jarmusch, perché rappresentava la “quintessenza del cinema indipendente”, il “completo controllo dell’artista su film a scarsobudget”e“l’arte contro il denaro degli studios”, nessuno si è reso conto che si trattava di un film prodotto da Focus Features, ovvero Universal. Si trattava dunque di un bel film, ma interamente finanziatodaunamajor hollywoodiana. “Le unità specializzate si occupano di film di varia natura. Grazie a loro, gli studios possono rivolgersi al futuro, incoraggiano la diversificazione e offronolapossibilitàad artisti indipendenti di accedere a una miglioredistribuzione,” mi spiega Jeffrey Katzenberg, presidente di DreamWorks Animation. Geoffrey Gilmore, direttore del Sundance Film Festival, intervistato a Los Angeles conferma: “Queste unità specializzate si assumono dei rischi, sono molto coraggiose, molto creative, per esempio Miramax, ma ciò non toglie nulla al fattochefaccianoparte degli studios. Sono indipendenti in termini di creatività, sono più focalizzate sul regista, ma restano comunque degli studios”. Gilmore precisa: “Quentin Tarantino, per esempio, è un regista indipendente, ma è anche un uomo degli studios. A Hollywood, indipendente è una categoria estetica che non spiega nulla sulla natura finanziaria del film”. Il Sundance Film Festival di Robert Redford e Geoffrey Gilmore è stato spesso considerato una valida alternativa a Hollywood, ma recentemente è stato screditato poiché ha perso la propria indipendenza ed è diventato una macchinacheseleziona i film degli studios. Gilmore recentemente ha rassegnato le dimissioni per dedicarsiadattivitàpiù “indipendenti”. Tra l’unità specializzataelostudio che la controlla intercorrono relazioni simili a quelle tra major ed etichette nell’industria discografica, oppure tra conglomerati e imprints nell’editoria. Lo studio si occupa della gestione complessiva e delle questioni finanziarie: aspettigiuridicielegali soprattutto con la negoziazione dei contratti, distribuzione mondiale, detenzione del copyright e dell’Intellectual Property(dettodatutti negli Stati Uniti “Ip”). Al mini-studio spettano le scelte artistiche, la produzione e le riprese (“raramente realizzate negli studios della casa-madre,” afferma James Schamus), la strategia del marketing,lepubbliche relazioni e l’ufficio stampa. Tra le due entità, l’ordine gerarchico è variabile: alla Disney qualsiasi film deve ottenere luce verde dall’amministratore delegato, mentre alla Universal le cose sembrano meno rigide: James Schamus mi garantisce che a Focus Features, di cui è direttore, decide tutto lui. “Sehobencapito,lei vuole sapere a partire da quale momento la major esercita uno stretto controllo sul budget.Èunacosache varia a seconda degli studios, dipende dalle situazioni e dagli uomini, ma direi che oltre un budget di 1520milionididollariper un film, ottenere luce verde dalla major è quasi inevitabile. Mi pare in ogni caso una cosa normale che il diritto di decidere spettiachisiassumeil rischio finanziario,” sostiene Ken Lemberger, ex vicepresidente di Sony Pictures Entertainment. “Icontenutisiamonoi” “Tutte le sceneggiature, gli script, i progetti arrivano qui.” Nicholas Weinstock mi mostra alte pile di cartelline colorateedidocumenti rilegati posti su un lungo mobile che costeggia un’intera parete del suo ufficio. Poi dice: “I contenuti siamonoi”. Anche Nicholas Weinstock è un indipendente. È uno degli associati di Apatow Productions. Mi trovo al civico 11788 West Pico Bld., zona ovest di Los Angeles. L’edificio è modesto, su due piani, senza nulla di particolare, collocato tradueautostrade.Per accedervi bisogna prendere una scala in legno sul lato, poco visibile dalla via principale. Apatow Productions, come Imagine, Overbrook Entertainment, Section Eight (di Steven Soderbergh e George Clooney), o come centinaia di altre case di produzione, costituisce ormai il cuore di Hollywood. “Oggi, gli studios sono solo delle banche,” mi dice Nicholas Weinstock, come mi è giàstatodettodamolti altri interlocutori a Hollywood. Weinstock è un uomo sulla quarantinaeallespalle ha già una carriera di successo. Ha lavorato perFoxeperilgruppo News Corp dove scriveva i discorsi per Rupert Murdoch relativi alla 20th Century Fox. Era nel cuore di una major dell’intrattenimento. Oggi invece è in una piccola azienda con dodicidipendenti. Apatow Productions è una società indipendente il cui lavoro consiste nell’identificare progetti, svilupparli e poi sottoporli agli studios o alle reti televisive – talvolta sono la stessa entità – affinchésianorealizzati se ottengono luce verde. All’inizio la casa di produzione lavora con scrittori, attori, registi eagenzieditalentiper creare i progetti. La piccola azienda beneficia di un sostegno economico importante da parte degli studios per realizzare queste sperimentazioni e assumersi dei rischi (chiamati “Slush Fund”). In seguito, i progettisonosottoposti agli studios, che possono accettarli o meno, e spesso chiedono una nuova rielaborazione. Apatow produce circa sei lungometraggi all’anno per gli studios e una quindicina di film o di serieperlatelevisione. Iconfinitrastudiose società indipendenti non sono netti. Si capisce dunque perché il concetto di indipendente oggi non voglia dire granché a Hollywood: molti studios ricorrono a case di produzione autonomeperprodurre e realizzare i loro film, mentre tutti questi “indipendenti” hanno bisogno del denaro degli studios per realizzare i loro progetti. “È come un matrimonio combinato,” mi dice Nicholas Weinstock. “Si capisce subito perché tutti gli indipendenti sono finanziati dagli studios o quantomeno dalle emittenti televisive. È davvero molto semplice. Noi abbiamo bisogno dei loro soldi, loro hanno bisogno dei nostri progetti. Il problema degli studios èl’assunzionedirischi, la sperimentazione, il periodo di sviluppo iniziale. Chi si assume questo rischio, come innovare,comecreare? Hollywood ha gradualmente trovato la soluzione esternalizzando completamente queste funzioni a centinaia di case di produzione indipendenti che, con lalorodiversità,laloro capacità di innovare e il loro bisogno di denaro, innovano per vocazione – e per obbligo. Il principio dellaconcorrenzagioca apieno.” Maperchéglistudios non possono fare queste operazioni al loro interno? “Mettendo in concorrenza tra loro numerosi produttori, gli studios riescono a cogliere meglio le evoluzionidelmomento e possono diversificare i loro progetti. Hanno più scelta e risparmianodenaro.Gli studios non sanno più fare queste operazioni al loro interno (‘in house’).Nonhannopiù gentechefacciaquesto lavoro,” spiega Nicholas Weinstock. È dunquelecitochiedersi a cosa servono gli studios.“Afarelacosa più importante: per farla breve, gli studios sono una banca d’affari, una banca diritti, uno studio avvocati d’affari un’agenzia distribuzione mondiale.” di di e di Il giorno dopo mi trovo alla Overbrook Entertainment sulla Roxbury Drive, a Beverly Hills. Overbrook è stata creatadaWillSmith,il celebre rapper – noto come Fresh Prince – e attore nero americano (ha recitato in Men in Black,IndipendentDay eIo, Robot). La sede è al quarto piano dell’edificio e gli uffici sono certamente più lussuosi rispetto a quelli di Apatow Productions, ci sono anchepiùcollaboratori. Uno di loro, un produttore (che mi chiede di rimanere anonimo per via delle regole fissate dall’azienda) mi fa visitare la sede. La maggior parte dei dipendenti lavora sullo “sviluppo” dei film. In questo momento stanno lavorando allo sviluppo di quaranta progetti. Overbrook Entertainment si occupa appunto di “sviluppo”. Si tratta di un lungo processo che va dal pitch (l’idea iniziale sintetizzata in poche frasi) all’uscita del film, passando per la redazione dello script, la revisione e spesso il rimaneggiamento completo prima delle riprese. “Il pitch è la primissima tappa di un film,” mi spiega il produttore di Overbrook. “È ciò che sipresentaalleagenzie ditalentieaglistudios, i primi affinché segnalino uno sceneggiatore, un regista e gli attori, i secondi affinché decidano di investire nella fase iniziale dello sviluppo del film. Il pitch va meglio ed è più efficace se può essere ridotto a una solacatchphrase,cheè ciò che a Hollywood chiamiamo, senza ironia, un high concept.” (Spesso si è ironizzato, a ragione, sui pitch come sintomo della morte e della commercializzazione del cinema, ma il produttore di Overbrook, cinefilo incallito, mi cita a memoria la frase del criticoSergeDaneyper giustificare il concetto di pitch attorno a un’unicaidea:“Icattivi registi – peccato per loro–nonhannoidee.I buoniregisti–equesto è il loro limite – ne hanno troppe. I grandi registi – soprattutto quelli innovativi – ne hannounasola”.) Overbrook è una società di produzione “indipendente”, ma grazie alla notorietà di Will Smith ha un “rapporto preferenziale” con Sony per una serie di film. Secondo alcune stime, gli studios hollywoodianieleunità specializzate hanno complessivamente, e continuamente, circa 2500 film in corso di sviluppo,adiversistadi di produzione. Molti di questi progetti – nove sudieci–nonverranno mai realizzati. Un film può essere messo in produzione solo dopo aver ricevuto luce verde dagli studios. Da quel momento, la casa indipendente riceve un anticipo che può ammontare a diversi milioni di dollari. “Un film realizzato è in realtà un’eccezione,” constata il mio interlocutore. “Ci sono tanti film in progetto e tante idee in fase di sviluppo che non arrivano a essere realizzate,pernondire delledecinedimigliaia di script che girano ovunque (flying around) a Hollywood. Quando un film viene girato è un miracolo.” L’espressione “flying around” è divertente, manonpossoimpedire a me stesso di pensare alle migliaia di sceneggiature nate già morte e all’incredibile spreco di talenti e di idee che contraddistinguono la nuovaHollywood. A Beverly Hills, alla Overbrook Entertainment, ci sono centinaia di script e sceneggiature impilati gliunisuglialtri,come hovistoinaltrecasedi produzione. Ma come giungono a voi? Il produttore di Overbrook sembra stupito dalla mia domanda. “No, non sonoglisceneggiatoria portarceli facendo la fila davanti ai nostri uffici!Celimandanole agenzieditalenti.” Agentisegreti Al numero 2000 dell’Avenue of the StarsaLosAngelesc’è il sontuoso edificio bianco di dodici piani, tutto vetro e marmo e con un parco di alberi esoticidell’agenziaCaa (Creative Artists Agency, i cui responsabili hanno declinato la mia richiesta di un’intervista per questo libro). A una decina di strade di distanza, a Beverly Hills, ci sono gli edifici tutti neri della William Morris Agency. Mi trovo al civico 1 di William Morris Place – l’agenzia ha una via e una piazza con il proprionome. Cassian Elwes mi offre un caffè americanoinunatazza con inciso “XXXX”, il logo composto da quattro X di William Morris. A guardarle bene, le X rappresentano le lettere “W” e “M”, iniziali dell’agenzia, sovrapposte. È una cosa magica e magnifica vedere il logo a lettere dorate stagliarsi sulle immense facciate nere diWilliamMorris. Cassian Elwes ha accettato di incontrarmi–fattoraro per un’agenzia di talenti,aziendacheper natura vive vendendo informazioni e mantenendo segreti. Cassian è un veterano del content: è stato produttore di film, agente artistico e ha appena cofondato William Morris Independent, il ramo “indipendente” della casa madre. Non sono autorizzato a riportare le sue argomentazioni, mi dice il suo PR – che mi guarda con aria inquieta e partecipa al nostro incontro – in virtù di una regola interna che “vieta ogni discussione pubblica sugli affari dell’agenzia”. Le “Big Four”, così vengono chiamate le quattro principali agenzieditalenti(Caa, International Creative Management, United Talent Agency, William Morris e Endeavor, queste ultime due hanno avuto una fusione nel 2009), controllano complessivamenteil70 per cento dei contratti. ALosAngeles,tuttavia, ce ne sono altre duecento.L’agenziaèil principale intermediariopertuttii contratti stipulati a Hollywood. Si occupa dimettereincontattoi creatori, che sono i suoi clienti, con i produttorieglistudios. È dunque in posizione strategica tra i “talenti” e il business. In pratica è un’agenzia dilavorodialtolivello. Le agenzie si occupano degli attori ma anche dei registi, deglisceneggiatoriedi tutti i tipi di professione richiesti a Hollywood (questo sistema è simile a quello della musica, dell’editoria, della televisione e anche degli atleti). Per ogni contratto siglato l’agenzia incassa sistematicamente il 10 per cento. Spesso si è fatta ironia su questa percentuale rispetto al poco lavoro svolto, al punto che una battuta frequente a Hollywood ricorda che “gli agenti non prendono mai succo di pomodoro al bar per timore che si possa pensare che bevono il sangue dei loro clienti”. In realtà, all’interno di un sistema composto da migliaia di aziende come la nuova Hollywood, hanno un ruolo decisivo. “Le agenzie, soprattutto, sono indipendenti poiché esistono controlli molto stretti attorno a questa indipendenza. In questo modo possiamo limitare il monopolio delle industrie dei contenuti e forniamo così al sistema un arbitro indispensabile,” spiega Michel Vega, altro agente di William Morris che lavora a Miami. Mi trovo sull’immenso terrazzo della Williams Morris Agency, di fronte alle spiagge di Miami Beach. “Abbiamo aperto un ufficio ‘latino’ qui a Miami perché ovunque ci sia intrattenimento, ci sonocontratti.Ilnostro lavoro è trattarli.” Nel suo ufficio c’è una locandina gigante di Easy Rider in versione spagnola. Generalmente, un’agenzia tratta non solo il contratto di produzionedelfilm,ma anche i contratti relativi alla distribuzione in sala, quelli televisivi e internet, le commissioni sui dvd o il botteghino internazionale e numerose altre prestazioni. “Le trattative sui diritti televisivi sono le più complesse e le più redditizie,” spiega Michel Vega a Miami (per un’agenzia come William Morris il 40 per cento degli introiti proviene dai contratti televisivi e solo il 25 percentodaifilm).Per la pellicola Matrix, per esempio, il contratto discusso da William Morris a Los Angeles era composto di ben duecentosessantaquattro paginerelativeaidiritti del film, a quelli dei videogiochi, del fumetto, dello show televisivoedeiprodotti derivati e dei giochi su internet. “Non è un contratto, è un package,” mi conferma un responsabile dell’agenzia International Creative Management a Los Angeles. Una delle novità dei contratti, nella nuova Hollywood, rispetto all’epoca degli studios, è la percentuale che spetta agli attori più celebrisugliincassidel film. Si chiama “profit participation” ed è un sistema simile a quello delle stock option per i dirigenti delle aziende che ricevono utili dalla propria azienda. Si tratta peraltro di una pratica che risale al 1950quandounagente aveva contrattato una percentuale sugli incassi di due film con James Stewart poiché laUniversalnonvoleva pagare l’anticipo che l’attore chiedeva. Le star più celebri, oggi, non guadagnano solo tra i venti e i trenta milionididollariafilm, ma hanno anche una percentuale sugli introiti totali del film, dedottiicostireali,esi può arrivare a una quota del 20 per cento su tutti gli incassi, compresa la vendita di dvd e di prodotti derivati. Sul totale di queste cifre, l’agenzia di talenti prende il 10 percento. Siaccusanospessole agenzie di aver contribuito all’inflazione astronomica dei contratti degli attori e deiregistiaHollywood. Sicuramente è vero poiché l’agenzia ha interesse a questo rialzo delle tariffe dato che le sue commissioni aumentano in proporzione. Eppure, dal momento che la relazione con un cliente si costruisce sulla durata, l’agente non necessariamente ha interesse a rincorrere denaro facile. Soprattutto perché, a muoversi sullo stesso terreno, ci sono anche altri soggetti, non meno importanti. Anzitutto il manager dell’artista che, a sua volta, prende circa il 10 per cento del contratto per gestire la sua carriera, occuparsi dell’agenda del suo cliente, parteciparealleriprese o ai concerti e seguire la pubblicità. Poi bisogna aggiungere gli avvocati che, in generale,prendonoil5 per cento su tutti i contratti.Ancoraprima di prendere anche solo undollaro,unattoreha dunquegiàcedutoil25 per cento dei suoi diritti all’agente, al managereall’avvocato. Come mi è stato spiegato da diversi agenti a Hollywood, l’importante per un artista “non è sapere quanto gli frutterà un contratto, ma quanto tratterrà per sé dopo chetuttihannopresola loropercentuale”. “Shark-infested waters,” David Boxerbaum ripete la frase. “Hollywood è un sistema infestato da squali. Non le sembra una bella formula? Credodipotermeritare diesserecitatonelsuo libro per averla pronunciata.” Boxerbaum, con quel nome da eroe di film e uncompletoArmaniun po’troppolargo,lavora per un’altra nota agenzia di talenti, Apa Inc. L’agenzia ha sede sulla South Beverly Drive e non ha il prestigio delle grandi consorelle Caa e William Morris – ma cometuttiichallengers di Hollywood vuole ingrandirsi per mangiare i concorrenti più grossi. A essere uno squalo è proprio Boxerbaum. Sono seduto di fronte a lui e mi chiede cosa voglio bere. Chiedo una Perrier. “Un segno di distinzione molto francese,” mi dice. Fa venire un cameriere e ordina un succo di pomodoro. Boxerbaum lavora per i lungometraggi e la televisione, ma si occupa soprattutto del settore letterario poiché tutti i progetti cominciano da qui. “La divisione letteraria è quella che ci porta le storie.Èlaprimatappa del film. Con gli scrittori facciamo lo stesso lavoro che si fa con gli attori. Li incontriamo, li incitiamo, li facciamo lavorare, leggiamo i loro progetti, li rendiamofelici.”Anche Boxerbaum mi fa vedere una pila di sceneggiature e di script sulla sua scrivania. Ne prende uno, per farmi un esempio, e lo getta via con violenza: “Questa non è roba che fa per me”. Prosegue: “Tutto il nostro lavoro consiste nel trovare il buonautoreperilbuon attore, per il buon regista, per il buon film, per la buona major. Da una parte ci sono talent e content, dall’altra c’è la major con i soldi. Noi facciamodatramite”. Boxerbaum mi mostra una scheda. Mi spiega che si tratta di un “Breakdown Express”, una lista con una serie di nomi. Per undeterminatoscripto una storia, sono indicate le persone potenzialmente in grado di partecipare al progetto.Contattapoii produttori indipendenti o direttamente gli studios per piazzare lo script.Unavoltachelo “sviluppo” è accettato, lo script può essere rielaborato dallo scrittore e l’agente si metteallaricercadegli attori giusti contattando i loro manager.Sullascheda, vicino al nome Disney figuranolecinqueosei case di produzione indipendenti che potrebbero fare il film per Disney, lo stesso vale per Fox e Paramount. Come riesce a identificare le persone giuste e fare i buoni abbinamenti?“Sonosul campo tutti i giorni, esco tutte le sere,” mi dice David Boxerbaum. “Sono molto hand on.” Come si può tradurre? Ha le mani in pasta? Nella fossa degli squali? Nel succo di pomodoro? AncheMollyLopataè un’indipendente e lavora da casa. La incontro non lontano dalla sua abitazione, in un semplice bar, Pane Dolce, a Sherman Oaks, un “villaggio” in quella che a Los Angeles si chiama “la valley”. Siamo all’estremo Nord della città, a est dell’Interstate405,non lontano dalla celebre MulhollandDrive. Molly è direttrice di casting. Il suo compito è selezionare gli attori di un film a partire dallo script. È scelta e pagata da un produttore indipendentesullabase di un progetto, generalmenteunfilmo una serie. Di regola, il suo nome deve essere approvatodallamajoro dall’emittente televisiva. “Fornisco solo indicazioni,” spiega Molly Lopata. “In genere, per ogni ruolo,propongodiversi nomi, sono poi i produttori a fare la sceltafinale.Inpratica, posso dire di ‘no’ a un attore, ma non posso dirgli di ‘sì’. Spesso gli attori detestano i direttori del casting proprio per questo motivo.” Anche lei mi mostra un “Breakdown Express”, su due colonne:asinistrac’èil ruolo dei film in progetto e, a destra, i potenziali attori da contattare per interpretare il personaggio. Molly discute poi con gli agenti per verificare la disponibilità degli artisti,inbasealledate delle riprese e all’interesse per il progetto. Vicino al nome di una nota attrice ha scritto: “Tecnicamente disponibile, ma rischia di non essere interessata al progetto”; vicino a un altro attore c’è scritto “He is attached”. “Significa che è interessato,masicorre il rischio che non sia disponibile,” spiega Molly. Pane Dolce è un tipico bar californiano. È una “coffee house” per le persone del quartiere, vagamente ecologista e indipendente, in cui il proprietario tratta tutti i clienti come se fossero vecchi amici. C’èlaconnessionewi-fi gratis e i muffin sono fatti in casa. Molly ha tempo da dedicarmi e sembra intrigata dal fatto che un francese sia venuto fin lì per intervistarla. “Mi occupo anche dell’inizio della contrattazione finanziaria per identificare il possibile margine di manovra, ma sono i produttori a negoziare il vero contratto con gli agenti. Il nostro compito è aiutarli a trovare soluzioni. Qui ci chiamano middlemen, intermediari.” Le chiedo come identifichi i nuovi attori. “Seguo l’istinto. Homoltoaffettopergli attori, gli voglio veramente bene. È un mestiere molto creativo.Faccioprovini qui a Los Angeles agli studenti che escono dalle grandi scuole di recitazione come la Julliard School di New York,lescuolediteatro di Yale e Harvard. Partecipo anche agli showcase che queste scuole organizzano ogni anno, in aprile o maggio, a Los Angeles: ogni attore ha a disposizione due sessioni da due minuti ciascuna per mostrare il proprio talento ed è spesso in queste occasionichegliagenti li ‘scritturano’. Inoltre, vedo i film degli studenti nelle università, nei festival. Non ci vado con un obiettivo preciso, ma solo per conoscere gli attori, eventualmente per poi contattarli in seguito quando cerco qualcuno per un ruolo specifico.” Molly è pagataconunfee(una cifra accordata) e non prende percentuali sui film. Come per gli agenti, il suo nome figuraneititolidicoda. Molly è seducente e cerca di sedurre. Appartiene alla categoria dello squalo sorridente. Da giovane è stata attrice e si è riconvertita al casting per restare “vicina agli attori”. Le chiedo cosa pensa di un sistema così ingiusto che offre apochiattorilafamae condanna tutti gli altri a fare i camerieri nei bar di Los Angeles. Molly mi guarda con dolcezza. “Sa, anch’io hofattol’attrice.Come nei film di Wong Kar- Way, so che l’amore e l’affetto sono fondamentali per la vita delle persone. Lavoro duramente, ma cerco di essere gentile con gli attori. E le dirò che sono sempre stata affascinatadalmodoin cuigliattoririesconoa emergere all’interno di un sistema terribile. Non ci sono regole, moltoèdovutoalcaso. È tutto imprevedibile. Ma hanno grande inventiva e grande creatività. Non può immaginare quanto gli attorisianocreativi.” “To Break”. John Dewis utilizza questo verbo con deferenza. Negli Stati Uniti vuol dire “sfondare”, “essere riconosciuti”, “passare dall’anonimato alla popolarità”. È l’obiettivo principale perunattore. John Dewis è un attore professionista di teatro. L’avevo incontrato a Harvard quando era studente dell’American Repertory Theater, la prestigiosa scuola di teatro dell’ateneo, e recitava in spettacoli alternativi. Insegnava fotografia, è stato assistente della fotografa Nan Goldin ed è stato a sua volta fotografo di American Apparel, la marca di magliette semplici e colorate “made in California” (John non veste mai American Apparel). È stato segnalatoanchedauna giornalista di “Vanity Fair” che lo ha nominato “il ragazzo più sexy della sua generazione”. Oggi Dewis vive a Los Angeles per cercare di “sfondare” nel cinema edèquicheloincontro nuovamente. “Cisonodiversimodi per sfondare a Hollywood, ma se sapessi qual è quello giusto, smetterei di darecorsielezioniper pagarmi l’affitto,” mi spiega John una domenica sera nella casa che ha in affitto vicinoaLaurelCanyon. Siamo su una terrazza, in mezzo al verde di unodeiquartieripiùin vista di Hollywood. Ha invitato a casa sua una decina di amici per aiutarmi nelle mie ricerche, la maggior parte di loro sono, comelui,attori“wouldbe”, attori in divenire che cercano di sfondareaHollywood. Per quanto iscritto alla Sag, il sindacato degli attori, John non ha un’assicurazione sanitaria, né pensione. “Il problema è, nel contempo, entrare nel sistema e restarci. Quando si è attori sindacalizzati, si può beneficiare dell’assicurazione sanitaria del sindacato. Bisogna però avere dei contratti in corso. Non lavorare un numero sufficiente di ore significa non riuscire a sbarcare il lunario, si perdono le prestazioni della previdenza sociale. Io sono in questa situazione, ho perso la copertura e sonoormaiunodei‘più di cinquanta milioni’ di americani non assicurati.”Lacosache mi piace in questa formula, spesso usata negliStatiUniti,èquel “più”. John non è capace di vendersi e si rifiuta di recitare in serie televisive di seconda categoria. “Davvero non so. Ho recitato nel teatro d’avanguardia e lì ho incontrato gente di quella cricca di sinistra piena di soldi che irrideva la cultura trash di Hollywood; erano così presuntuosi che ho lasciato perdere. Talvolta mi chiedo se non sia megliorecitareinserie trash e programmi televisivi cheap. Peraltro, il paradosso di Hollywood è che spesso è più difficile recitareinunapessima serie televisiva che in un buon film. Comunquehodeclinato un’offerta per un ruolo all’interno di un reality dating show in cui dovevo passare il tempo a cercare di rimorchiare. Molti mi hanno detto che sono stato coraggioso a rifiutare questo ruolo, con il denaro e la riconoscenza che comportava. La verità, invece,èchenonavevo abbastanza coraggio perfarlo.” Johnsièaffidatoaun manager e un agente, ma quando la cosa ha assunto proporzioni che definisce “washout” (che va a monte), ha tolto loro l’incarico. “Si può sfondare facendo doppiaggio. Oppure attraverso il giornalismo. Oppure legando il proprio nome a uno script, come ha fatto Matt Damon, facendo quello che si chiama ‘scriptvehicle’: scrivere un buono script e porre come condizione di esserne l’attore, se lo script è accettato. Si può sperare di essere scritturati in occasione diuncasting.Nefaccio unoasettimana.Nonsi samai:JohnMalkovich lavoravainunalibreria eDavidMametguidava i taxi. Io resto invece fedele alla vecchia scuola,ilteatro.Recito in spettacoli per farmi vedere in scena, sperandocosìdiessere scritturato per il cinema.” John Dewis prosegue sorridendo: “Ma la maggior parte degli attori in divenire fa il cameriere nei ristoranti di Los Angeles sperando che un giorno un produttore venga a sedersi al loro tavolo e gli proponga di scritturarlo”. Qualchegiornodopo, incontro John al caffè Coast,sullaspiaggiadi SantaMonica,unluogo esclusivoall’internodel magnifico Hotel Shutters on the Beach. John Dewis mi dice: “Guarda questi camerieri, sono sicuro che vorrebbero fare tutti gli attori. Hanno tutti un project fantastico. Ma per il momento continuano tuttiafareicamerieri”. Allora mi viene in mente Mary Jane, la ragazzadiPeterParker inSpider-Man2:anche lei vuole fare l’attrice, ma continua a servire aitavoli. A Los Angeles, i camerieri sono il principale esercito di riserve degli attori di Hollywood. Tutti quelli che non sono riusciti a lavorarenellecentinaia di società di produzioneaudiovisiva, nelle agenzie di pubblicità, nelle decine di televisioni via satellite, nelle start-up che fanno prodotti derivati, nei videogiochi o nei software artistici, hanno un side job, un lavorettodacameriere. Quando il settore paraculturale resta inaccessibile, Los Angeles offre ancora migliaia di occasioni di lavoretti, spesso al salario minimo di otto dollari all’ora. Con le mance, i camerieri sono pagati meglio e sono più valorizzati, l’illusione del successo personaleèrinviata. È calato il buio e dalle vetrate dell’Hotel Shutters on the Beach, sulla spiaggia di Santa Monica, si vedono immense onde. Attorno a noi alcuni camerieri lavorano. “Piuttosto che lavorare nella ristorazione,” dice John, “si può scegliere di fare una scuola di cinema. Usc, Ucla, CalArts: molti sognano di entrare in una di queste università. È prestigioso. Ma anche molto costoso, spesso trentamila dollari l’anno.” JohnDewis,aspirante attore, fa una pausa, guarda la notte calare e, tranquillamente, ma ancherecitandounpo’, tra il deluso e l’ironico dice:“EaLosAngeles, il peggio è quasi sempre sicuro: il rischio è to loop the loop (girare in tondo)”. Glichiedocosaintende dire: “Non si è mai sicuri di nulla, dopo aver frequentato una costosissima scuola di cinema, non è detto che non ci si possa ritrovare ancora al punto di partenza, di nuovo a fare i camerieri”. 6. L’invenzionedellapop music Alnumero2648West Grand Boulevard, Detroit, c’è Hitsville Usa, storica sede della casa discografica Motown–la“cittàdelle hit”. Rimango immediatamente di stucco di fronte all’angustia del luogo. Si tratta di una modesta casa collegata con un sotterraneo a un’altra casa, ugualmentemodesta,il cui sottosuolo è stato trasformatoinstudio.È il celebre “Studio A”. Qui si dice sia stata inventata la musica pop. BlackDetroit.Ancora oggi, il centro di Detroitèunodeighetti più “sensibili” degli Stati Uniti. Qui è il contrario dell’exurb, è l’altra faccia delle periferie abitate da ricchiebianchi.Detroit è un’immensa inner city, una città in cui si concentrano grande povertà, violenza e segregazione sociale; è un luogo che i bianchi hannoabbandonatoper andare in periferia dopo le sommosse del 1967 (43 morti, 467 feriti, 7200 persone arrestatee2000edifici distrutti). Negli Stati Uniti questo fenomeno è chiamato “white flight”, la fuga, l’esodo deibianchi. Nel 1967, la popolazione della città era in maggioranza bianca, oggi è per l’83 per cento nera. Si ha l’impressione di un ghetto, un ghetto grande come una città intera. Attraversandola si incontrano strade dissestate, semafori difettosi,negoziabuon mercato in cui i venditori stanno al bancone protetti da una grata attraverso cui servono i clienti; si vedono insalubri motel che sopravvivono grazie alla prostituzione; parcheggi abbandonati trasformati in rivenditori di automobili in cui si possonocomprareauto d’occasione, di certo rubate, quando quella che si aveva è stata bruciata; ci sono tossicodipendenti che vagabondano da un posto all’altro; centinaia di case e di edifici interamente murati; si vedono volontari neri che offronosoupkitchenad altri neri senza fissa dimora; niente cinema, né multisala, pochi bar e ristoranti. Questo è ciòcherestadellacittà che è stata la capitale mondiale dell’automobile. Naturalmente c’è un’autostrada sotterranea, l’Interstate 75, attraversata a tutta velocità da bianchi sui loro suv, diretti verso laperiferianord,quella ricca e bianca, oltre la celebre 8 Mile Road, chesegnailconfinedal ghetto nero, dalla miseria,daDetroit. Motown si raggiunge prendendo l’uscita Grand Boulevard verso ovest, dall’autostrada 75.Aduepassisitrova la catena d’assemblaggio di General Motors, l’ospedale Henry Ford eigiardiniRosaParks. “Vedrà, il quartiere è semi-depressed,” mi aveva detto qualche ora prima, con un eufemismo, Karen Dumas, attivista nera impiegata nei servizi culturali della città di Detroit e incontrata al municipio. “Dopotutto c’è peggio di Grand Boulevard, guardi il mio ufficio,” mi dice Karen Dumas. “Anche lui è completamente depresso. Qui tutto è disorganizzato, abbiamoappenasaputo che i servizi culturali chiudono e sto preparando gli scatoloni. Non so dove andrò.” Nel 1959 Berry Gordy ha trent’anni. Non è andato a scuola, è senza soldi – si considera un loser, un perdente. Coltivava il sogno di diventare campione di boxe, ma ha fallito. Ha fatto il militare e la Guerra di Corea, ma soprattutto si è annoiato. Ha cercato di fare il protettorediprostitute, ma ha abbandonato perché, così dice, non sapeva “picchiare le ragazze”. Si è sposato e il suo matrimonio è sull’orlo del fallimento. Ma ha tre figli e dunque ha bisogno di un minimo di entrate. Gli piace fare hanging out, frequentare la scena jazz di Detroit degli anni cinquanta e decide di aprire un negozio di dischi specializzato nel jazz. Ha una passione particolare per Billie Holiday, comincia a sfogliare assiduamente “Billboard” (la rivista americana con le tendenze e i risultati della hit parade) e sostiene gli artisti che apprezza. Il negozio in pocotempofallisce.Ha fattounerroredibase: BerryGordyhacercato di vendere musica jazz in un quartiere in cui i giovani ascoltano solo rhythmandblues!Peri giovani neri di Detroit, negli anni cinquanta, il jazz era diventato un genere istituzionalizzato, troppo serio e presuntuoso. Preferiscono invece quello che chiamano “R&B”(dapronunciare “are and bi”). Per l’industria del disco questo genere è qualificato come “race music”, mentre “Billboard” lo inserisce nella sezione Race MusicChart. Il punto cruciale è la questione razziale. Berry Gordy è disgustatodalfattoche la musica nera sia prodotta da bianchi e che sia marginalizzata all’interno di una specifica hit parade. È consapevole che i bianchisonoriuscitiad apprezzareanchecerta cultura nera: Frank Sinatra era un italiano affascinato dalla musica nera ed Elvis Presley era un giovane camionista bianco proveniente dal Sud che cantava come un nero. Perché, allora, nonpossonoessercidei verinerinelR&B? Berry Gordy cerca dunque di ritagliarsi uno spazio all’interno diquestonuovogenere musicale e decide di favorire gli autori sugli interpreti: ha capito in fretta che i ricchi, nell’industria discografica, sono quelli che detengono i diritti sulla musica. Uno degli elementi centrali della storia della casa discografica Motown si costruisce, infatti, su un modello ormai tradizionale e nato alla fine dell’Ottocento: la netta separazione tra editore (publisher) da una parte, e marchio, manager e produttore dall’altra. Il primo gestisce canzoni, compositori e parolieri (si occupa del repertorio), il secondo gestiscegliinterpretie produce gli artisti. Gli standard del jazz, da Billie Holiday a Ella Fitzgerald, il rhythm and blues degli inizi, compresoElvisPresley, e la musica country si fondano su questo sistema. Per ogni canzone ci sono sempreduecontratti,e spesso sono coinvolte due major: una publishingcompany (le principali sono attualmente Emi, WarnerChappellMusic Publishing e Bmg) e unarecordcompany(le principali major sono oggi Universal, Emi, Warner e Sony). Questosistemasièpoi indebolito con figure come Bob Dylan, i Beatles, i Bee Gees, con il rock e il pop degli anni settanta. Da quel momento, infatti, le rockstar e i gruppi, mossi da uno spirito più individualista, hanno cominciato a fare sia i compositori siagliinterpreti. “All’inizio del 1957, la musica era letteralmente ovunque a Detroit,” ha raccontatoBerryGordy nelle sue memorie (nonostante i tentativi non sono riuscito a intervistarloperquesto libro). Motown ingaggia i compositori sulla base di un contrattodiesclusività, affinché producano continuamente canzoni. Nel contempo Gordyassoldamusicisti di strada: cantanti di gospel che non sono mai usciti dalla loro chiesa, talenti dell’anteguerra ormai dimenticati e perfino due musicisti del gruppo del jazzman Dizzy Gillespie. Infine, ha il dono di scoprire nuove voci, a cominciare da quella della sua più celebre amante, Diana Ross. BerryGordyfalavorare autori, musicisti e interpreti separatamente e ci costruisce attorno un vero prodotto commerciale. Nasce la Motown – abbreviazione di Motor Town, soprannome di Detroit. Perché tutto ciò è avvenuto a Detroit? “Eranosolomonelliche gironzolavano per le vie di Detroit,” dice Gordy dei suoi principali artisti. La realtà però è più complessa. Detroit è una delle destinazioni dei grandi esodi dei neri, che tra le due guerre emigrano dal Sud al Nord e si insediano, risalendo il Mississippi o seguendo la Highway 61, a Memphis, Kansas City, St. Louis, Chicago, Minneapolis, Detroit. La maggior parte dei cantanti di Motown, così come di altre case concorrenti (Otis Redding per Stax e Aretha Franklin per Atlantic), sono immigrati di seconda generazione che dall’età di cinque o sei anni cantano nel coro delle chiese battiste nere,esperienzacheha dato loro una ricca formazione musicale. I padri di Aretha Franklin e di Marvin Gaye erano minister whoopers, pastori neri che improvvisano con grandetrasporto;idue futuri cantanti, già dall’età di sei anni, cantano nel coro della chiesa. Otis Redding si forma in una parrocchia della Georgia,RayCharlesin una chiesa battista della Florida, Donna Summer in una chiesa del ghetto nero di Boston, Whitney Houston nel coro gospel della chiesa di Newark,IsaacHayes(il compositore della celebre canzone Shaft) inunachiesaruraledel Tennessee. Ho incontrato il reverendo Al Green nella sua chiesa di South Memphis, dove continua a fare il pastore nonostante sia una delle più grandi star viventi del soul. “ArethaFranklinènata qui,sullaLucyAvenue, cantavanelcorogospel di quella chiesa che si vede laggiù. Poi è andata a Detroit, è entrata alla Atlantic, la casa discografica concorrente di Motown,” mi spiega, nel Sud di Memphis, Nashid Madyun, direttore dello Stax Museum of American SoulMusic. Il successo di Motown nasce da un’originale strategia di marketing: Berry Gordyintendeprodurre una musica “crossover”, fatta e controllata dai neri e destinata ai bianchi. Gordy vuole sfondare nella cultura americana, non vuole restare defilato come è accaduto a molti musicisti neri che fino alla fine degli anni cinquantasuonavanoin salesegregatedoveera vietato l’ingresso al pubblico nero. “Crossing over” è una delle espressioni feticciodiGordypoiché per lui significa, nel contempo, una tecnica per superare le frontiere musicali, mischiare i generi e arrivare ai vertici delle hitparade. Gli artisti e i gruppi di Motown saranno quasi esclusivamente dei neri. L’obiettivo di Berry Gordy non è mischiare le etnie, né fare quella che dalla fine degli anni settanta negli Stati Uniti si chiama “diversità culturale”: lui vuole la difesa della comunità nera in stile Black Power, orgoglio nero. Peraltro, la casa discografica ha realizzato una poco nota produzione militante:itestipolitici dei neri, dei Black Panthers e i discorsi di Martin Luther King, pubblicati su disco da Motown (li ho scoperti nelle collezioni della MotownaDetroit). I suoi dipendenti sononeri,mentreilsuo obiettivoèraggiungere un pubblico di bianchi: i teenager americani degli anni sessanta, i giovanicheabitanonei suburbs e che cominciano a frequentare in massa i club, che non si chiamano ancora discoteche, i frequentatori di drivein e tutti quelli per cui la musica di Motown diventa hip. Berry Gordy fa incidere sulle copertine dei dischi “The Sound of Young America”, slogan che ricorda molto quello della campagna pubblicitaria di PepsiColanel1961. La cosa funziona. Gruppi come Miracles, Marvelettes, Supremes (con Diana Ross, e composto da sole donne), Temptations (con David Ruffin e composto da soli uomini), Commodores (con Lionel Richie) concretizzano l’idea di Berry Gordy: creare artisticrossover. Gordy non risparmia sulla promozione. Investe ampiamente su una rete di radio nere inpienosviluppo,suun network di club e sale da concerti in cui presenta la Motortown Revue, inaugurando così una strategia di marketing adottata anche da numerose altre case: per raggiungere i giovani bianchi è necessario cominciare a far sì che quella musica sia considerata hip dai giovanineri. Ripercorro la storia di Motown al FaboulousFoxTheater, un’immensa sala da cinquemila posti nel centro di Detroit. Greg Bellamy, direttore del teatro Fox, mi mostra lo spettacolare edificio in cosiddetto stile “cambogiano-gotico”, con all’ingresso un leone gigante i cui occhi si aprono e si chiudono. Mi conferma che su questa scena “i Miracles, le Marvelettes, le Supremesesoprattutto la Motortown Revue erano grandi eventi negli anni sessanta e radunavano migliaia di neri”. E prosegue: “I neri, che venivano ancora chiamati ‘negroes’, venivano da tutte le chiese di Detroit, gente di tutti i tipi, operai della Ford, barbieri. Sulla scena c’era musica dal vivo, non in playback, anche se spesso i musicisti erano invisibili, nel backstage. Gli spettatori cantavano e ballavano. Erano spettacoli coinvolgenti. Poi ci sono state le sommosse e la città ha cominciato il suo declino.Nel1968ilFox ha chiuso. Era già quasi la fine di Motown”. Il fatto che esistesse un vasto pubblico di bianchi per la musica deinerinonèstatauna scoperta di Motown: prima dell’impresa di BerryGordyloavevano già dimostrato i casi di Kind of Blue di Miles Davis e My Favorite Things di John Coltrane, due album mainstream dell’inizio degli anni sessanta. La novità di Motown sta nell’idea di una musica nera intenzionalmente creata e deliberatamente venduta per i bianchi, proposta come musica popolare americana. L’ideadifondoèchela musica nera cessi di esseredinicchia,come lo è tradizionalmente il jazz, oltrepassi la “color line” per diventare mainstream per tutti i bianchi. Berry Gordy non vuole essere in testa alle vendite del jazz, né ai vertici delle race records chats dove è relegata la musica nera: vuole essere in testa alla Top 100 e anche alla Top 10. È nero e non vuole diventareilleaderdella musica nera, ma, pur essendo nero, vuole diventare il leader di tutta la musica americana. Così è diventato uno degli inventori della musica pop. Per Gordy, diventare mainstream significa pensare a un pubblico di massa. Per questo è necessario privilegiare l’emozionerispettoallo stile, la struttura della canzone più che l’inventiva musicale. Occorre anche avere un suono Motown, costruito con caratteri di somiglianza tra i diversi gruppi e con melodie riconoscibili, come se si trattasse di canzoni già sentite (i neri hanno talvolta considerato questo stile un po’ troppo “bianco” eccessivamente “poppy” e non autenticamente “nero”). Berry Gordy decidedimetteretuttii suoi effetti sul groove (battente, ritmo) e sull’hook, l’accordo musicale, il leitmotiv catchy che “prende” all’orecchio. Raccomanda di utilizzare sempre il tempo presente all’interno di canzoni brevi e si orienta sul formato di singoli della durata di due minuti e quarantacinque secondi per raccontare una storia semplice, il grande amore o la ricerca della felicità in famiglia. Naturalmente mette sulla scena belle ragazzeobambinineri, figure meno minacciose per la classe media americana,quelladelle periferieinespansione, che è il suo target. Ogni settimana, alla riunione di produzione e marketing della casa discografica, si vota per decidere quale canzone meriti di essere commercializzata, in relazione alla sua possibilità di diventare una hit. In queste occasioni, Berry Gordy invita alle riunioni kids incontrati per strada affinché diano il loro parere – si tratta di focus group ante litteram. Motown è un’industria, una fabbrica di successi discografici,laversione musicale delle catene di montaggio Ford e General Motors del distretto di Detroit. In pratica, Berry Gordy non produce canzoni, producehit. Negliannisessantae settanta Motown produce alcuni dei più grandi artisti dell’epoca: Marvin Gaye, che Berry Gordy renderàsensualeperle donnedelmondointero (la canzone What’s Going On diventa numero 1 nelle classifiche R&B e numero2inquellepop nel 1971); il giovane “Little Stevie” (è il nome che vedo sui primi album Motown appesi ai muri di Hitsville Usa, prima di diventare Stevie Wonder) e naturalmente i Jackson Five,ilcuipiùgiovane, Michael, con i voluminosicapelliricci, hasolinoveanni. Trail1960eil1979, Motown compie un vero exploit, ineguagliato da una casa indipendente: oltre cento titoli nella Top 10 “Pop” di “Billboard” – l’hit parade di riferimento per il pubblico bianco, quella che conta in termini economici per l’industriadiscografica. Come aveva già previsto lo scrittore Norman Mailer con il jazz, l’artista nero è diventato ormai hip (Mailer parlava di “white negro”, il giovane bianco che vuole essere alla moda facendo il nero e che adora la musica nera perché è più hip di quellabianca). L’avventura di Motown dura solo vent’anni. Berry Gordy abbandona Detroit per andare a Los Angeles dopo le sommosse dei neri da cui è rimasto molto impressionato. Nel contempo, Stevie Wonder, Diana Ross e Marvin Gaye abbandonano l’etichetta che li ha lanciatiperandarealle major; i Jackson Five passano alla Epic Records (all’epoca un marchio Cbs e oggi Sony). Nel 1979 Michael Jackson pubblica da solo con Epic l’album Off the Wall,scrittoconStevie Wonder e Paul McCartney e prodotto da Quincy Jones. “Michael è riuscito a emanciparsi dalla disco-music per creare quella che si chiama pop music,” commenta Quincy Jones. Con i singoliel’interoalbum, JacksonentranellaTop 10 di tre categorie: R&B, pop e dancedisco. Dieci canzoni dell’album diventano hit mondiali. Tre anni dopo, con Thriller, i singoli Billie Jean e Beat It arrivano al primo posto di R&B, pop e dance. La strategia crossover di Berry Gordy ha avuto successo oltre ogni più roseaaspettativa. Oggi,lacasaHitsville Usa, al civico 2648 West Grand Boulevard di Detroit, è stata trasformata in museo. È un monumento storico tutelato dallo stato del Michigan. Intorno ci sono edifici murati, devastati e Grand Boulevard è ormai un quartiere in rovina. Gordy ha venduto a un fondo di investimento di Boston la sua etichetta discografica, poi passata a Polygram e successivamente a Universal Music. Oggi il marchio e il catalogo Motown appartengono alla società francese Vivendi. Qualche strada a nord di Grand Boulevard, in una zona ancorapiùdevastata,si trova l’Avenue 8 Mile. In questo quartiere è stata scritta un’altra pagina della storia della musica pop, quella del rap. In particolare con la casa discografica Rock Bottom Entertainment, Mc “Royce 5’9”, e ovviamente con il rapper Eminem – “white kid” in un mondodi“blackkids”– che ha fatto conoscere atuttoilmondo8Mile. Passaggioditestimone. “La generazione mp3 ha vinto, ma non è la miagenerazione” Forse la pop music è stata inventata su Grand Boulevard a Detroit, con Motown. Oppure a New York, con la casa discografica concorrente, Atlantic, quelladiRayCharlese Aretha Franklin. Oppure a Hollywood, qualche anno prima o qualche anno dopo, a Nashville e Miami. Oppure con Frank Sinatra, i Beatles e i Beach Boys. Oppure con altri artisti neri come James Brown, Stevie Wonder, Chic, Barry White, Donna SummereTinaTurner. Oppure è stata inventata negli anni ottanta con la nascita di Mtv. In realtà, la questione della primogenitura è irrilevante. La pop music,infatti,nonèun movimento, non è un genere musicale, è qualcosachesiinventa e si reinventa continuamente (l’espressione “pop music” è apparsa negli anni sessanta negli Stati Uniti ed è diventata rapidamente una formula confusa). È solo una scorciatoia per dire “popolare”, è una cultura, una musica rivolta a tutti e che si presenta fin da subito come mainstream. “In questo settore, l’obiettivo di tutti è il mainstream. Ma ci sono diversi modi per farlo,ilnostroèl’adult pop music, ovvero un poprivoltoagliadultie non solo ai ragazzini. Credo che Motown abbia fatto soprattutto pop per i giovani. Esistono due mondi molto diversi: Los Angeles da una parte, oggi con l’hip-hop, e New York dall’altra, soprattutto con il pop per adulti,” mi dice BruceLundvall. Lundvall oggi ha settantaquattroannied è un veterano dell’industria discografica.Hadiretto una delle più celebri etichette del jazz, Blue Note, è stato presidente di Elektra e ha vinto due Grammy Awards prima di diventare vicepresidente di Emi, unadellequattromajor della musica, acquisita da un fondo di investimentoinglese. Mi trovo a New York al numero 150 della Fifth Avenue, nella sedeamericanadiEmi. Nell’elegante ufficio di Bruce Lundvall, al sesto piano, ci sono un pianoforte Steinway e decine di foto di artisti che ha avuto sotto contratto, da Herbie Hancock a Stan Getz, passando per Quincy Jones, John Coltrane e Wynton Marsalis. C’è anche una televisione su cui scorrono videoclip prodotti da Emi, in quel momento stava passando il rapper Usher, che fa una molto adult pop music. Sui muri dell’ufficio di Lundvall cisonodecinedidischi d’oro (che corrispondono a una vendita di almeno cinquecentomila copie) ediplatino(almenoun milione), tra cui quelli di Norah Jones – l’artista di riferimento della divisione da lui presieduta. “Norah Jones è la tipica artista crossover che cerchiamo. Al pari di Usher, Al Green, DianneReevesriescea raggiungere tutti grazie all’originalità della sua voce. Ha venduto quaranta milioni di album in tuttoilmondo,”gioisce Bruce Rundvall. Blue Note è un’etichetta all’interno di una major, Emi. Tutta l’industria musicale, ma anche quella del cinema (con le sue unità specializzate) e quella editoriale (con i suoi marchi) oggi si struttura attorno a questo modello: una major possiede numerose etichette, che danno l’impressione di essere indipendenti. “Un marchio è anzitutto un’identità, che si perderebbe all’interno di una grande major,” spiega Lundvall. “La major ha come obiettivo di ricoprire tutto lo spettro dei gusti del pubblico, tutta la gamma; l’etichetta si occupa invece di un unicogenere.Lemajor possiedono diverse etichette, distinte per generiestilimusicalie con regimi di gestione molto diversi, spesso improntati dalle persone che le dirigono. Alla Blue Note, per esempio, c’è molta autonomia e possometterequalsiasi artista sotto contratto senza dover chiedere luce verde a nessuno, almenosenonsuperai cinquecentomiladollari di cachet. Oltre devo otteneregreenlightda partedellamajor.” Con una certa ironia chiedoaLundvallcome siapassatodalbebope la “fusion”, nell’epoca in cui Blue Note era una delle migliori etichette del jazz, a NorahJoneschefauna sorta di smooth jazz commerciale. Lundvall mi risponde gentilmente, senza rancore: “Quando sono diventato direttore, Blue Note aveva un eccellentecatalogo,ma l’etichettaeraassopita; non si produceva quasi più nulla di nuovo. Io l’ho completamente rivitalizzata e progressivamente Blue Note è diventata un’etichetta pop, in gran parte grazie a Norah Jones. Quando ho cominciato a lavorare con Norah, lei era un’artista jazz e voleva assolutamente restareconnoi,perché aveva passione per questo tipo di musica, mentre avrebbe potuto farsi mettere sotto contratto da etichette più mainstream come Manhattan o Emi. A pocoapocoèdiventata piùpop.Cosìnoisiamo diventatipopinsiemea lei. E più mainstream”. Bruce Lundvall fa una pausa e aggiunge: “E sa, poi ho distribuito negli Stati Uniti anche le hit dei Pet Shop Boys”. Sorride e poi aggiunge con una voce più dolce: “Mi piace la musica, adoro tutti i tipi di musica, sono fatto così. Sono forse l’unico oggi in questa industria?”. Bruce Lundvall sta all’industria discografica americana comeJackValentistaa quella del cinema, a partire dall’attività di lobbying. Alla guida della Record Industry Association of America (la lobby che rappresenta le major dell’industria discografica e certifica le vendite degli album) ha moltiplicato le pressionisulCongresso americano, anzitutto per lottare contro la pirateria delle audiocassette, poi dei cd e più recentemente, ma ancora invano, ha tentato di salvare l’industria musicale da internet.Difronteame ho un uomo distrutto dalle recenti mutazioni dell’industria discografica – “non la si può più nemmeno chiamare così perché ben presto non ci saranno più dischi”, dice rattristato Lundvall. Considera la pratica di scaricare musica illegalmente una “degenerazione” venuta a distruggere tutta la sua carriera, brillante e condotta scrupolosamente. Ma non c’è solo internet. Bruce Lundvallnonriescepiù a fare i conti con il mondo attuale dell’industria della musica. Quando gli si dice che una casa discografica deve ormai proporre in Giappone quattrocento versioni delle sue canzoni per adattarsi a vari apparecchi resta stupefatto: suonerie per cellulari, per videogiochi, copertine degli album trasformate in sfondo per il display dei telefoni cellulari. E i cambiamenti non finiscono qui. Dopo essere stata acquisita nel 2007, Emi deve sottostare alle logiche di un fondo di investimento inglese: “Oggi, i vincoli finanziari sono molto forti e si è maggiormente concentrati sul denaro. A livello ‘top management’ della major, i dirigenti e i loro staff cambiano costantemente; sul fronte delle etichette, invece, c’è maggiore stabilità, ma non sappiamo mai ciò che può accadere e facciamofaticaastarci dietro,” sospira Lundvall.Poiaggiunge, facendo riferimento alla complessa operazione finanziaria di acquisizione di una società per indebitamento, com’è stato recentemente il caso per Emi: “Ho l’impressione che i nostri padroni siano piùinteressatiaqueste specifiche tecniche di acquisizione delle società, i Lbo, che alla musica”. Solo quattro major controllano ormai il 70 per cento circa della musicavendutaintutto il mondo e una sola di queste major, contrariamente a quantospessosicrede, è americana. Universal Music, leader del mercato, è francese; Sony Music Entertainment è giapponese; Emi è inglese; Warner Music Group, infine, è l’unica a essere ancora americana (è comunque quotata in Borsa a Wall Street ed è indipendente dal gruppo Time Warner). Ma le nuove aziende del settore, a cominciare da Apple, stanno fagocitando le vendite (con la piattaforma per scaricare musica iTunes, Apple controlla unquartodellevendite di musica negli Stati Uniti, su tutti i supporti). In breve tempo il digitale sopravanzerà i cd, ormai destinati a scomparire. Bruce Lundvall mi guarda uscire dal suo ufficio, nella sede americana dell’Emi nellaFifthAvenue,alla fine della lunga intervista. Improvvisamente mi ferma, mi tiene il braccio e a mo’ di addio aggiunge delicatamente: “La generazione mp3 ha vinto, ma non è la mia generazione”. Prima della grande rivoluzione di internet, lo scenario musicale americano era profondamente cambiato sotto l’impulso di una serie di fenomeni concomitanti e di un certo rilievo: il consolidamento delle radio, la playlist, la syndicationelapayola. Il rafforzamento del settore radiofonico è un esito della deregolamentazione economica. La concentrazione delle radio nelle mani di un numero ristretto di soggetti è cominciata nel 1987, quando le amministrazioni Reagan, Bush padre e Clinton, insieme all’istanza federale di regolazione del settore audiovisivo, la Federal Communications Commission, hanno liberalizzato questo settore, fino ad allora fortemente vincolato. Inprecedenza,nessuno poteva controllare più di sette stazioni radiofoniche,inseguito il limite è stato spostato a dodici e poi a diciotto. Nel 1996 è avvenuta la completa liberalizzazione. Così, un gruppo, Clear Channel, è riuscito a passare in meno di cinque anni dal controllo di 43 stazioni a1200,diventandocosì il simbolo dell’uniformazione della programmazione radiofonica negli Stati Uniti. A San Antonio e Houston, in Texas, dove si trovano il quartier generale e la direzione delle pubbliche relazioni di Clear Channel, ho cercatodiintervistarei responsabili di questo gruppo.Sapevogiàche erano stati spesso criticati poiché si rifiutanodicomunicare e per i loro metodi decisamente poco trasparenti,cosachefa a pugni con il loro nome. Come previsto, l’operazione di aggancio si è rivelata difficoltosa. Per oltre un anno sono passato da un addetto stampa all’altro, da un’agenzia di comunicazione a un’agenzia di pubbliche relazioni, ho subìto anche alcune minacce e non sono mai riuscito a farmi fissare un appuntamento. Per vie traverse sono riuscito infine a intervistare due dirigenti di alcune divisioni del gruppo, a condizione dell’anonimato. Il successo senza eguali di Clear Channel, e ciò che gli ha procurato la critica di aver realizzato una sorta di “mcdonaldizzazione” dellaradio,èilfruttodi una complessa strategia che unisce nuove tecniche di programmazione e di marketing. Anzitutto l’uso di playlist e syndication, che non sono strumenti inventati da Clear Channel, ma esistono giàdatempo.Lanovità sta nel fatto che il gruppo texano ha diffuso queste procedure alle migliaia di radio che controlla. La playlist consiste nel determinare una lista di brani musicali limitata, spesso meno diunacinquantina,che vengono riproposti in continuazione in tutte le radio del gruppo e messi in rotazione ventiquattro ore su ventiquattro. La syndication, frequente anche in televisione, è un sistema tipicamente americanocheconsiste nel riutilizzare e trasmettere nuovamente un programma, creato per una specifica stazione, innumerosealtreradio che lo acquistano. Inizialmente un simile sistema era imposto dalle dimensioni geografiche degli Stati Uniti, divisi in una serie di fusi orari, e dalle regolamentazioni che proibivano a un gruppo di possedere stazioni radio in diversezonedelpaese, oppure su mercati identici. L’aspetto innovativo di Clear Channel è questo: per le proprie radio e le radio affiliate costruisceunabancadi programmiinregimedi syndication diffusi via satellite e rivenduti da unastazioneall’altra. Si tratta di un sistema sicuramente efficace sotto il profilo commerciale,maanche politico. Il gruppo Clear Channel è stato infatti criticato per i suoi programmi conservatori(quellodel commentatore ultrarepubblicanoRush Limbaugh è ancora oggidiffusoinseicento stazioni), che avrebbero contribuito alla doppia elezione di George W. Bush nel 2000 e nel 2004. Uno dei miei interlocutori, intervistato alla direzione di Clear Channel, nega categoricamente questopuntoeafferma che il gruppo diffonde, in syndication, altri talk-show,“comequelli del democratico Al Franken”. Resta comunque il fatto che questo sistema di “pilotaggioautomatico” delle radio in tutti gli Stati Uniti a partire da una control room situatainTexasèstato diffuso da Clear Channel negli anni novanta. Quando si ascolta una radio di Clear Channel su un’autostrada dell’Arizona o del Kentucky, l’ascoltatore non sa che la voce del conduttoreètrasmessa automaticamente a partire da una banca dati in Texas, anche quando fa riferimento al meteo locale, una prodezza tecnologica possibile grazie a un aggiornamento automatizzato e geolocalizzato delle informazioni. L’uso di questa pratica, tuttavia, è nulla rispetto alla diffusione generalizzata di un sistemacomelapayola. Si tratta di un sistema illegale, detto anche “pay-for play”, avviato dalle grandi case discografiche fin dagli anni cinquanta, che consiste nel pagare, di nascosto, le radio affinché diffondano i lorodischi.Sembrache Clear Channel abbia diffusoquestapraticaa tutte le sue radio negli anni novanta, istituzionalizzandola sul piano finanziario, contribuendo, anche in questo caso, a una crescente uniformazione della programmazione musicale (il mio interlocutore di Clear Channel contesta questo punto e nega qualsiasi coinvolgimento del gruppo in favore della payola). “È avvenuta una clearchannelizzazione degli Stati Uniti,” scherzaJohnVernilledi Columbia (benché anche Columbia-Sony, come le altre major, abbia adottato questo sistema). A Los Angeles faccio la conoscenza di Tom Callahan al MusExpo 2008, la riunione annuale mondiale dei direttori artistici delle case discografiche. Callahan è stato un manager influente alla Sony e poi alla Emi, dove era incaricato proprio della “programmazione radio”. Seduto a un tavolo del club House of Blues sul Sunset Boulevard accetta di concedermi un’intervista. Oggi dirige un’agenzia di talenti autonoma, ha cambiato settore ed egli stesso è diventato un indipendente, vittima del sistema al quale aveva partecipato in precedenza: “Le case discografiche non volevano sporcarsi le mani con la payola. Hanno dunque affidato questo lavoro sporco a società intermediarie. Si spendevano milioni perlaradiopromotion, cioè per pagare segretamente questi intermediari che giravanopoiisoldialle radio affinché i nostri brani fossero inseriti nella playlist e venissero così trasmessi a rotazione sucentinaiadiradio.Si diceva sobriamente a un artista: ‘I will get you air play’, ti farò passareallaradio,eciò significava che si sarebbero pagati dei soldi per metterlo in rotazione”. Dopo una pausa, in cui lo trovo inquieto per l’audacia del suo racconto, Callahan prosegue: “Per comprendere questo sistema, è necessario sapere che unpassaggioallaradio era, allora, l’unico modo, insieme al passaggio di un videoclip su Mtv, per vendere dischi. Per far decollare un artista e farlo conoscere, la radio rimane lo strumento più efficace. Tuttociòhacontribuito anche, indirettamente, a manipolare le classifiche che, con un effetto a catena, sono determinate dalla programmazione radiofonica. Le quattro major del disco hanno abusato di questo sistema e Clear Channelneèstatouno dei principali beneficiari”. Anche Stan Cornyn, ex vicepresidente di Warner Music Group e veterano dell’industria discografica americana, in un’intervista fattagli a Los Angeles riconosce queste pratiche. “È un sistema diffuso in tutte lemajorapartiredagli anni cinquanta. Si basava su liquidità di denaro, ma anche offrendo viaggi, carte di credito, ragazze, cocaina… Nell’industria discografica si può facilmente disporre di denaro contante grazie ai concerti. L’unico problema è che queste somme non erano, per definizione, dichiarate. Noncisipagavaalcuna tassa. Per questo motivo la giustizia ha cominciato a controllare il sistema dellapayola.” A dichiarare guerra alla payola, attorno al 2005, è stato Eliot Spitzer, iperattivo attorney general dello statodiNewYork(una sorta di ministro della Giustizia dello stato federale). A partire da una roboante inchiesta di polizia, ha portato alla luce un sistema diffuso di corruzione generalizzata – le canzoni di Jennifer Lopez erano al centro dell’inchiesta – e ha inflitto ammende di decine di milioni di dollari alle principali major. Nel 2006 il gruppo Clear Channel, sorvegliato dalla giustizia e minacciato di essere perseguito per comportamenti anticoncorrenziali, è stato costretto a vendere 280 delle sue radio e suddividere le proprie attività in tre società: Clear Channel Outdoor (che con 800.000 pannelli in 66 paesi è uno dei primi gruppi al mondo, insieme al francese J.Cl. Decaux, per l’affissione urbana), Clear Channel Communications (che controlla ancora oggi 900 radio negli Stati Uniti,mahavendutole sue televisioni) e Live Nation (agenzia di promozionediconcerti, spettacoli e sport che controlla 125 sale “live” in sette paesi e che firma ormai contratti come una normale casa discografica con artisti come Madonna, U2, Jay-Z o la cantante colombiana Shakira). Nonostante questa scissione, le tre nuove società di Clear Channel, tutte quotate in Borsa, restano sotto il controllo indiretto di un’unica famiglia texana. Qualche settimana dopo ho appuntamento a Encino, nella California del Sud, con Ken Ehrlich, il produttoredeiGrammy e degli Emmy Awards, gli Oscar della musica e della televisione. Nel suo ufficio ci sono scatole intere di dischi della Motown, un immenso poster di Ray Charlesedecinedifoto in cui è ritratto con Bob Dylan, Bruce Spingsteen, Prince e Bill Clinton. Ken Ehrlich proviene dal blues e dal jazz, ma mi parla di Motown, rock e rap con un senso dell’eclettismo molto americano. “Continuano a piacermi,” mi dice mostrandomi centinaia di trentatré giri ordinati meticolosamente. “Sono cresciuto in una famiglia ebrea dell’Ohio, della tipica classe media, ma la musica nera è stata fondamentale per la mia formazione. Come un ragazzino di quindici anni bianco dell’Ohio potesse identificarsi con i neri per me è ancora oggi un mistero. Forse si spiega perché, in realtà, la musica è semplicemente un flusso unico che va da Otis Redding a Usher passando per Michael Jackson e Tina Turner. L’unica cosa che non mipiaceèl’opera.Non riescoacapirla(‘Ican’t getit’).” I Grammy strutturano il mondo del pop e permettono lasuaunità,aldilàdei generiedelleetichette. Sono stati creati nel 1958 e sono diventati uneventoimportantea partire dalla loro diffusione sulla rete televisiva Abc (oggi su Cbs). Si svolgono ogni anno, a febbraio, in diretta da Staples Center, uno stadio sportivo nel centro di Los Angeles. Ken Ehrlich è il produttore della manifestazione e cerca ogni volta di creare un evento forte, che resti impresso nella memoria collettiva, per esempio mettendo insieme Eminem ed Elton John per annullare l’immagine omofoba del rapper, facendo suonare dal vivo Bruce Springsteen per puntare sulla sua natura di “animale da palcoscenico” (mi dice Ehrlich), oppure mettendo a cantare insieme Paul McCartney e Jay-Z, Madonna e i Gorillaz o James Brown e Usher per mescolare i diversi generimusicali.“Ilmio intento, ai Grammy, è mostrare agli americani che non esistono frontiere nella storiadellamusica.” Il giorno dopo incontro a Santa Monica Neil Portnow, chepresiedequellache nell’industria del disco si chiama The Recording Academy. Questa associazione ha il compito di organizzare la selezione dei Grammy in circa centodieci categorie. “Siamo un’organizzazione indipendente, al servizio dell’industria discografica,” spiega Neil Portnow. “I nostri uffici sono a Los Angeles perché qui si concentra questa industria, anche se parte del mercato pop e jazz è a New York, a Miami per la musica latina, a Nashville, nel Tennessee, per la musica country e christian.” I Grammy per la musica,comegliOscar per il cinema, i Tony per Broadway e gli Emmy per la televisione, attestano l’importanza delle selezioni e delle hit parade negli Stati Uniti. Per l’industria dell’intrattenimento, queste specie di serate “elettorali” rappresentano sia un momento di condivisionedituttoun settore, al di là dei diversi generi e dei singoli individui, sia uno strumento estremamente potente di promozione internazionale degli artisti americani. In tutto il mondo, questi concorsi sono la bussola del mainstream. “Ilcoolèunhipcheha in più il successo commerciale” I grandi nomi dell’industria dell’intrattenimento provengono spesso dalla finanza, dalle banche, di frequente dallatelevisioneodalle agenzie di talenti, talvoltadalcinema,ma quasimaidall’industria discografica. Per questo, David Geffen rappresenta un’eccezione. Se con Motown, Berry Gordy è riuscito avenderelapopmusic ai teenager bianchi, facendo diventare la musica nera hip, David Geffen riesce a fare ancora meglio, poiché riesce a trasformare il rock in genere soft e il pop in cool. Il passaggio dall’hip al cool è di capitale importanza per l’industria dell’intrattenimento. Se Berry Gordy è nato nero, David Geffen è nato povero. “In America, la maggior parte dei ricchiavevacominciato da povera.” Questa celebre frase di Tocqueville ben si addice a David Geffen che proviene da una famiglia ebrea europea immigrata da Tel Aviv (allora ancora in Palestina) ed è cresciuto negli anni quaranta nel quartiere ebraico di Brooklyn a New York. È stato autodidatta e non ha mai finito gli studi universitari, anche se dice di avere conseguito un diploma alla Ucla, l’università pubblica della California, e si è procurato il primo impiego a vent’anni presso William Morris, una delle agenzie di talenti di Hollywood. Comincia facendo il fattorino interno e, passando da un ufficio all’altro, osserva i dipendenti dell’agenzia nelleloroconversazioni telefoniche. “Li ascoltavo parlare e mi sono detto: sono in grado anch’io di fare quello che fanno loro, parlarealtelefono.” A motivare Geffen è lamusica,soprattuttoil rock,cheèancorapoco diffuso.Ottienedunque unapromozioneeviene impiegatocomeagente dalla William Morris. Ma un agente è semplicemente un intermediario: Geffen devetrattareicontratti degli artisti con i loro manager. A lui, invece, piaceilcontattodiretto con gli artisti. Così, dopo qualche anno abbandona la William MorrisAgencyegrazie a buoni contatti riesce a diventare il manager di alcuni artisti del mondo del rock e del soul. Nel 1970, dopo aver acquisito una certa sicurezza grazie ad alcuni primi successi, crea la propria etichetta indipendente, Asylum Records. Si lancia dunque nell’Artist & Repertory (abbreviato A&R), che nell’industria discografica significa individuare talenti, compositori o interpreti,scritturarlie poi “farli crescere”. In questi anni, i responsabili A&R delle case discografiche hanno ancora grande poteredecisionalesugli artisti e sui loro manager: scelgono i produttori, gli studi di registrazione, gli ingegneri del suono, talvolta i musicisti e hanno voce in capitolo sulle uscite dei dischi (poterechediminuiràa vantaggio dei manager e degli agenti, ma anche a vantaggio dei direttori marketing delle major durante gli anninovanta). David Geffen è fortunato con la propria casa discografica. Più che scoprire talenti, riesce a lanciare gli artisti verso il successo. Produce Jackson Browne, Joni Mitchell, Tom Waits e soprattutto gli Eagles che, con Hotel California, diventano l’emblemadiungenere country-soft-rock che farà furore in tutto il mondo. Il gruppo inventa un efficace suono californiano (anche se nessun membro del gruppo, tantomeno Geffen, è californiano) in cui si uniscono la tranquilla ballata in stile country, il soft rock e l’easy listening. Geffen riesce anche a produrre Bob Dylan nel 1974 che registra con lui lo splendido Placet Waves, che contiene il bel singolo Forever Young. LastrategiadiGeffen è rendere cool gruppi che, senza di lui, avrebbero un suono eccessivamente hardrock o risulterebbero troppoalternativiperil pubblico di massa. Come produttore, trasforma il rock acusticoequellochesi chiama Alt-Rock (rock alternativo), o ironicamenteRedState Rock(ilrockdeglistati repubblicani), spesso caratterizzato da tonalità troppo “grungy” e voci eccessivamente “raspy”,inunasortadi rock educato, meno duro, meno loud (rumoroso) e più elettrico,ungenerenel contempo più cool e più commerciale. Con Geffen, l’hard (rock) diventa soft. Il suo colpo di genio sta nell’aver reso possibile la commercializzazione senzauccidereilcool– al contrario, facendolo vendere. “Il cool è un hip che ha in più il successo commerciale,” scriverà un critico del “New Yorker”. Naturalmente, di fronte a questo appiattimento i puristi storcono il naso, ma Geffenconoscebenela storia della musica americana e non resta impermeabile alle polemiche, preludio di grandi successi commerciali. Da sempre la storia della musica popolare americana ruota attorno al solito ritornello della perdita di indipendenza e del suo diventare commerciale. Quando Elvis Presley parte per il servizio militare, per molti si tratta della mortedelrock.Quando Miles Davis sta a cavallo tra fusion e un ibrido jazz-rock e poi jazzfunk, per molti suona l’ora della fine del jazz (infatti è l’inizio della diversificazione del jazz, che è tutt’altra cosa). E naturalmente quando Bob Dylan lascia la chitarra acustica per imbracciarne una elettrica al Festival di Newport del 1965 (con Like a Rolling Stone, titolo emblematico), per molti si tratta del triste annuncio della finedelmondo! Il passaggio al mainstream è ciò che artisti in cerca di pubblico, e ancor più major in cerca di soldi, vogliono e, nel contempo, è oggetto della critica ricorrente che i puristi fanno quando si diventa commerciali e quando si fanno operazioni di sellingout,espressione che negli Stati Uniti rappresentailmassimo dell’insulto (to sell out significavendersi). David Geffen non si fa grandi scrupoli, dopotutto il suo obiettivo è vendere. Crede che non ci sia più grande differenza tra musica creata con un’idea artistica e musica creata per fare denaro – tutto ormai si mescola. Il suo successo nasce dall’aver compreso che la musica popolare americanastaentrando in una nuova fase: non sono più importanti le radici, il genere, la storia, ma l’immagine, l’atteggiamento, la sensibilità e lo stile (il cool). Geffen è letteralmente affascinato da quell’atteggiamento funky dei quindicenni che vede per strada, fatto di grande malleabilità culturale e completamente privi di scale di valori e di gerarchie culturali tipicamente europee. Geffen diventa un coolhunter, ovvero un cacciatoredicool. Soprattutto, Geffen noncredecheildenaro corrompa il rock. Questo è uno dei rimproveri che gli viene mosso: “Quando DavidGeffenèarrivato nelle acque della California per fare il manager, gli squali sono rientrati nella laguna”,haspiegatoun produttore. “Prima si diceva: facciamo musica, il denaro è un by-product (un derivato). Con Geffen questo motto è diventato: facciamo denaro, la musica è un by-product,” ha ironizzato un altro produttore. Per difendersi, a Geffen piace parlare di sé come un uomo onesto in un mondo di disonesti. Credo che anche lui faccia dell’ironia. Il suo modo di lavorare consiste nel coinvolgersitotalmente nella carriera dei suoi artisti, ma non fa “vita darock”comeaccadea moltiinquestosettore; non diventa hippy quando produce Dylan e non si mette ad assumere droghe insieme agli Eagles né intrattiene relazioni intimeconlestarcome facevaBerryGordycon Diana Ross (è apertamente gay e comunque si vocifera una relazione con Cher). È un uomo d’affari che adora sinceramentelamusica senza viverne la mitologia. Uno dei suoi biografi ha scritto più severamente: “Geffen intraprendeilcammino più breve verso il registratoredicassa”. David Geffen ha avuto diverse vite. Nel 1975 abbandona la propria casa discografica che vende alla major Warner e va inpensione.Losicrede finito. Conduce una vita laid-back (tranquilla),frequentai suoi amici, viaggia tra la costa est e quella ovest degli Stati Uniti, sempre educato, facilmente annoiato, insecure (sempre un po’ angosciato). Lo si potrebbe paragonare a unpersonaggiodeifilm di Woody Allen, l’uomo tormentato di Io e Annie, oppure al protagonista di Un uomo da marciapiede di John Schlesinger. In ogni caso lavora in continuazione,comeha sempre fatto, su nuovi progetti. Nel 1980 torna alla carica aprendo gli uffici della Geffen Records su SunsetBoulevardaLos Angeles e organizza il ritorno sulle scene a John Lennon e Yoko Ono con l’album DoubleFantasy,unflop nelle prime tre settimane, fino all’uccisione di Lennon quando diventa immediatamente un successo mondiale (soprattutto con la canzone Woman). Ecco dunque Geffen diventare un uomo d’affari: “Negli anni settantanoneropiùun uomo d’affari. Ero semplicemente un fan. Giravo a destra e a mancae,ohmygod,mi capitava di incontrare un tipo eccezionale come Tom Waits e facevoundiscoconlui. Neglianniottantasono invece diventato un vero businessman”. Con la sua nuova etichetta, Geffen produce Cher, Sonic Youth, Beck, Aerosmith, Peter Gabriel, Neil Young e soprattutto il gruppo underground di Kurt Cobain, i Nirvana. Siamo agli inizi degli anni novanta. Anche in questo caso fa bingo. Geffen riesce a far apprezzare da un pubblico di massa un gruppo grunge in stile DIY (Do It Yourself), che vorrebbe essere l’emblema del rock alternativo, facendo di Kurt Cobain, con i suoi jeans strappati, il portavoce di un’intera generazione. Sperava chel’albumNevermind vendesse duecentomila copie e riesce invece a venderne oltre dieci milioni. Esaltato dalla criticaedalsuccesso,il gruppo è adottato controvoglia da Mtv che trasforma immediatamente Kurt Cobain in una star mondiale. Geffen vince la scommessa: rendere i Nirvana popolari pur conservando la propria autenticità di base. I Nirvana, emblema dell’anti-cultura mainstream diventano mainstream (Kurt Cobain, noto eroinomane, si suicida dopoilterzoalbum). Il successo di Geffen nell’industria discografica è notevole alpuntodaportarload avventurarsi in altri ambiti: coproduce alcuni film con il marchio Geffen Pictures come Fuori orario di Martin Scorsese e Intervista col vampiro, che decretalacelebritàdel suo protagonista Tom Cruise, e investe con altrettanta intuizione e successo nelle commedie musicali di Broadway (Cats, Dreamgirls) introducendo il genere rock all’interno dei musical. Ancora una volta, Geffenvendelapropria etichetta, in questo caso alla Mca (oggi la francese Universal Music), diventa ulteriormente miliardario e va in pensione. All’inizio degli anni novanta tiene alcune conferenze a Yale, ospita a casa propria il nuovo presidente Bill Clinton, frequenta i club più cool di quegli anni. Poi si converte alla filantropia e diventa collezionista d’arte. Nella sua casa sulla spiaggia di Malibu ha una collezione di opere di Jackson Pollock, Mark Rothko e una bandiera americana di Jasper Johns dal valore inestimabile (che tiene in camera sua). Aiuta anche il suo amico Calvin Klein, sull’orlo del fallimento, lo finanzia e lo spinge a prendere il cantante Mark Wahlberg come modello per le sue pubblicità di indumenti intimi (le fotografie di Mark in boxer di Herb Ritts e Annie Leibovitz rilanciano Calvin Klein nelmondointeroconil noto successo). A Geffen piacciono, nel contempo, Jackson Pollock e Calvin Klein, Mark Rothko e gli Eagles,JasperJohnsei Nirvana; una buona sintesi della mescolanza di generi culturali negli Stati Uniti. “David è uno standupguy,”midiceJeffrey Katzenberg, quando gli chiedo di David Geffen (uno affidabile, sempre pronto quando c’è bisogno di lui). Geffen tiene alle proprie amicizie e sostiene l’amico Katzenberg nella causa contro Michael Eisner, l’amministratore delegato di Disney, e dopo avergli fatto incassare280milionidi dollari di indennizzo, fonda insieme a lui e Steven Spielberg una nuova casa cinematografica nel 1994. Come abbiamo già visto, si tratta di DreamWorks che produce American Beauty, Shrek, Dreamgirls (su Motown), Kung Fu Panda e diversi film di Spielberg (Salvate il soldato Ryan, Minority Report, in coproduzione). Naturalmente Geffen crea in parallelo l’etichettaDreamWorks Records. “David è probabilmente uno dei rari uomini della cultura americana moderna a essere riuscito colpo su colpo nelle tre industrie chiave dell’intrattenimento: la musica pop, le commedie musicali di Broadway e il cinema hollywoodiano. È un caso unico,” mi dice Jeffrey Katzenberg (si può estendere il complimento allo stesso Katzenberg che nella sua carriera alla Disney, a Broadway con Re Leone ed Elton John e poi alla DreamWorks ha fatto ancorameglio). Nel 2008 Geffen è andato in pensione per la terza volta e ha venduto le proprie quote di DreamWorks. Ma continua a frequentare i produttori, i banchieri e i mogul di oggi, i grandi patron di Hollywood – ieri figure come Harry Cohn, William Fox, Carl Laemmle,LouisMayer, Adolph Zucker, Jack e HarryWarner–dicuiè uno degli eredi. Peraltro, a simboleggiare questo stretto rapporto con Hollywood, vive nella casa di Jack Warner a Malibu, che ha compratoapesod’oro. Nashville, l’altra capitale musicale degli StatiUniti “Il blues è la musica delle classi popolari nere tanto quanto il country è la musica delle classi popolari bianche,” mi dice Shelley Ritter, direttrice del Delta Blues Museum, a Clarksdale, piccola città a nord-ovest del Mississippi. Della storia del blues oggi non resta più molto, a partequestomuseo.Mi trovo nel cuore del Delta, zona soggetta a inondazioni e dunque all’epoca ricca per via delle coltivazioni di cotone,tral’Arkansase il Mississippi e così chiamata perché forma una conca, le foci del fiume sono infatti a New Orleans, ben lontano da qui. A Clarksdale c’è ancora qualche juke joints, i tradizionalibarincuisi canta ancora il blues delDelta,masoloperi turisti. “Il blues ha sempre avuto uno spirito e un pubblico rurale, mentre il jazz è decisamente urbano,” aggiunge Shelley Ritter. CosteggiandoilDelta si riesce a immaginare gli elementi attorno a cui è nata la musica nera americana: il cotone, i piccoli villaggi, le chiese cristiane. Seguendo la strada che parte da New Orleans si passa perClarksdale,Oxford, Tupelo (città natale di Elvis Presley, dove la sua minuscola casa è oggi un museo) prima di arrivare a Nashville. Si capisce perché, con una storia simile a portata di chitarra, la principale città del Tennessee sia diventata, insieme a Los Angeles e Miami, una delle capitali dell’industria discografica americana. Le sale di registrazione, le sedi delle major e gli uffici delle televisioni musicali, a Nashville, hanno sede a Music Row. Music Row è un piccolo quartiere tra la Sedicesima Avenue, detta Music Square East, e la Diciassettesima Avenue, detta Music Square West, dove si incrociano le autostradeI60eI45a nord-ovest di Nashville nelTennessee. Sono venuto a Nashville per cercare di capire perché due settori importanti dell’industria discografica prodotti da queste parti, il country e la musica “christian”, non siano stati ancora esportati nel mondo. (Il soul e il R&Bsonostatiprodotti nel Tennessee negli anni cinquanta, ma dagli anni settanta le etichette sono a Los AngelesoNewYork.) Nella mia vita ho ascoltato poco country, se si escludono i dischi di Hank Williams e di Johnny Cash. Per me è vagamente una musica per americani con il “cappello da cowboy”. Non di questo avviso è John Grady, l’onnipotente amministratore delegatodelladivisione Country di Sony a Nashville: “La musica country è il genere americano delle classi popolari e degli agricoltori del Sud”. Luke Lewis, presidente di Universal Music a Nashville,conferma:“Il country è la musica tradizionaleamericana, quella dei villaggi del Sud, è una musica di paese, country appunto”. Lewis aggiunge: “Il country è una musica molto radicata nella vita locale.Lasiascoltaper radio, ma la si suona anche negli honky tonks, i piccoli bar tradizionalideibianchi, un po’ come accade con il blues nei juke joints, i piccoli bar rurali dei neri. Per questo è difficile da esportare. Si vende un po’ in Canada, in Australia, in Nuova Zelanda, in Irlanda, nelle città popolari del Nord del Regno Unito, ma è quasi tutto qui. Nonsiriesceavendere musica country a Londra, quello è un ambiente troppo urbano”. Passando da una casa discografica all’altra su Music Row, aNashville,scoproche all’internodellamusica country esistono numerosi generi: appalachianfolkmusic, country rock, cowboy songs, southern rock, mountain music, americana. Tutti questi stili raccolgono un’ampia gamma di tonalitàmusicalitraun “alt-country”, uno stile alternativo, e un country mainstream criticato perché troppo commerciale. “Nel primo caso si tratta di un country troppo roosty, nel secondo invece è un country eccessivamente pop e troppo rootless (troppo radicato o senza radici),” mi spiega Luke Lewis. “È tra questi due estremi che si colloca oggi tutta la musica country e, generalmente, non è quella che vorrebbe essere più alternativa, ma quella che da queste parti è meno popolare e meno mainstream, ad avere più successo nei festival popolari all’estero.” John Grady spiega questo paradosso: “Il country mainstream non è una musica internazionale. Abbiamo cercato di fareversionipiùdance, piùveloci,perrompere l’apparente monotonia del country e per coinvolgere un pubblicopiùampio,ma non ha funzionato granché. Bisogna arrendersiall’evidenza: oggi negli stati Uniti il countryèpoesia,itesti hanno un linguaggio e parolemoltoradicatiin questi luoghi. E la poesia non si può esportare”. Negli Stati Uniti il mercato del country è stimato attornoal10percento dellevenditedidischie deldigitale.Èilgenere musicale più diffuso alla radio in termini di stazioni,oltre1400. A Nashville si passa facilmente dal genere country alla musica christian (cristiana). Tutte le case discografiche hanno sede nel medesimo quartiere, attorno a Music Row; sono distanti meno di un chilometro. Eppure, queste due industrie discografiche sono due mondi separati. Quando visito gli uffici delle major che producono musica christian, resto sorpresodaunagrande differenza: non c’è alcuna sensualità, sulle copertine dei dischi non ci sono ragazze procaci, né l’immagine di uomini maturi tutta durezza e linguaggio gergale come vedevo invece poco distante negliufficidellamusica country. Sulle copertine dei cd, noto con sorpresa che spesso tra i ringraziamenti c’è scritto:Gesù. “In fondo, noi facciamo parte della musica gospel,” mi spiegaDwayneWalker, direttore A&R di Light Records, etichetta specializzata in musica cristiana. “Si pensa spessocheilgospelsia una musica nera, ma anzitutto è musica cristiana. Noi facciamo musica cristiana che è semplicemente bianca.” John Styll, presidente di Gospel Music Association, lobby ufficiale sia di gospel nero sia di christian bianca conferma: “Statisticamente, la musica gospel è per il 99 per cento nera, e la musica christian è per il 99 per cento bianca. Ma nelle strategie di marketingdellamusica cristiana si preferisce usareilterminegospel, invece di christian che è più connotato. Peraltro, per mettere tutti d’accordo, ultimamentesiparladi ‘southern gospel’ e di ‘blackgospel’”. Ancora una volta, a Nashville mi vengono regalati dischi di generi musicali differenti: christian gospel, southern gospel, Jesus-rock (più vecchio), God-rock, gospel-rock, christian rap e anche rock inspirational (che dovrebbe ispirarmi ed essere edificante). Ho l’impressione che esistano tanti generi musicali quante chiese cristiane – Nashville è la città americana in cui ci sono più chiese per chilometro quadrato. Mi trovo nel cuore di quella che chiamano “Bible Belt”, letteralmentelacintura dellaBibbia. Come accade per il country, e come abbiamo visto anche con Motown, anche la musica christian si basa sulla netta separazione tra compositori che scrivono le parole e interpreti. In questo senso, Nashville è un luogo singolare, da sempre è una città in cui si scrive musica ancor prima di suonarla. “L’editore è l’elemento centrale dell’industria di Nashville e le case discografiche possiedono anzitutto, e soprattutto, il repertorio. Spesso vendiamolecanzoniad altre case,” mi spiega Eddie de Garmo, amministratore delegato di EmiChristian Music Group. “Nashville è una città di compositori,” aggiunge Tony Brown, ex pianista di Elvis Presley, attualmente a capo di Universal South, la divisione di Universal con sede a Nashville che raccoglie alcune etichette di musica country, gospel echristianrock. ConstatocheaMusic Row, a Nashville, sono presentilesediditutte le major: più in piccolo è lo stesso scenario presenteaLosAngeles e New York. “Qui ci sono soprattutto le etichette, ciò significa che ci occupiamo soprattutto degli artisti, della loro crescita e della loro promozione. A occuparsi del backoffice,deiservizilegali, delle risorse umane, della distribuzione nazionale e internazionaleèlacasa madre,direttamenteda New York o da Los Angeles. Chi è indipendente è soggetto alle banche e agli investitori, io invece dipendo dal direttorediSonyMusic Entertainment per l’America del Nord, un tipo che conosce la musica e apprezza gli artisti. Contrariamente aquantosidicespesso, preferisco la mia situazione rispetto a essere un indipendente,” si giustifica John Grady, amministratore delegatodiSonyMusic aNashville. Dal Sud degli Stati Uniti, le etichette christian cercano di esportare la loro musica? “La christian music,comeilcountry, sono generi basati più sulle parole dei testi che sulla musica, diversamentedalpope dal rock. Questi tipi di musica sono legati a specifici valori e modi di vita, cose molto difficili da esportare,” spiega Ric Pepin, vicepresidente di Compendia Music, una mini-major che controlla diverse etichette country, gospel e christian. Poi precisa: “Secondo me la musica cristiana di Nashville si svilupperà molto in America latina, in Africa, quando diventerà più matura. È un genere ancora giovane, contrariamente al countrychequihauna storiamoltoantica”. Eddie de Garmo, amministratore delegato dell’etichetta christiandellaEmi,non condivide questo punto di vista: “La christian esiste da almeno venticinque anni a Nashville, anche se è diventata famosa solo durante la presidenza di George W. Bush. È una musica cristiana che somiglia alla religione degli americani, mi sembra troppo protestante e troppo lirica per poter piacere ai cattolici. Non credo si riuscirà a esportare facilmente, se non riducendo drasticamentel’aspetto della predica e camuffando la propria identità. Invece, il pubblico può crescere ancora negli Stati Uniti, dove siamo passatiinquindicianni da un mercato di nicchiaalmainstream”. Intervistando decine di produttori e di musicisti di musica christian non solo a Nashville, ma anche a Memphis, Denver e Colorado Springs, mi rendocontochetuttila considerano una controcultura pronta a fare il salto nel mainstream. “La cultura christian è a una svolta, a un momento di cesura, quello che nella Bibbia si chiama effetto Gedeone:Gedeoneèda solo? Sono migliaia? Siamo come Gedeone, esistiamo, ci sentiamo soli nella nostra comunità,masiamogià migliaia. Stiamo entrando nel mainstream, ma facciamo ancora parte di una controcultura. Siamo come Bob Dylan e Joan Baez negli anni sessanta, controcultura, antimainstream, una nicchiadelfolkchesta ingrandendosi, sempre di più, fino a quando tutti abbracceranno questa musica,” mi dice in tono un po’ acceso Ross Parsley, celebre pastore della New Life Church a Colorado Springs (la domenica in cui l’ho incontrato ho assistito alla cerimonia di questa “mega-church”: cinque gruppi di christian rock erano davanti all’altare, un coro con centinaia di partecipanti e venti pastori che officiavano, con microcravatte, le loro immagini erano riprodotte su decine di schermi giganti, attorno a Parsley, davanti a oltre settemilafedeli). La musica christian rappresenta oggi circa il 7 per cento delle venditedimusicanegli StatiUniti(gospelnero e bianco messi insieme), ha classifiche proprie, il suo barometro, Nielsen Christian Sound Scan, lasitrovanegliscaffali dei supermercati e spesso fa da colonna sonora in film hollywoodiani come Matrix e Le cronache di Narnia di Disney. È utilizzata anche in commedie musicali a Broadway come !Hero, the Rock Opera (il punto esclamativo iniziale fa riferimento al nome di Gesù nella Bibbia e il musical è ambientato a Bethlehem, vero nome di una città della Pennsylvania). Si è sviluppata una vera e propria industria cristiana nella musica, nelteatrocommerciale, nell’editoria, le librerie hanno nuovi scaffali di christian books, ma anche nel cinema, come ha dimostrato l’inatteso successo di PassiondiMelGibson. MusicTelevision Appeso al muro c’è unoskateboardbianco. Negli uffici dei dirigentidelleindustrie creative avevo visto copertine di album dischi di platino, talvoltaquadrioriginali di Warhol o di David Hockney, ma mai uno skateboard. Nell’ufficio di Brian Graden, presidente del network Mtv, su Colorado Avenue a Los Angeles,sullascrivania cisonoancheimmagini firmate da celebri rapper; ci sono una fotodiBarackObamae molti poster di show televisivi noti universalmente. Contemplo questa scenaalungo,mitrovo da solo. L’assistente di Brian Graden, un “Mtv kid” in sneaker, viene ad avvisarmi che Brian si è sentito poco bene nella notte e che è a letto nel suo condo di West Hollywood. Comunque non c’è da preoccuparsi, potrò discutere con lui attraverso un sistema efficace di audioconferenza; posso accomodarmi sulla sua poltrona e sentirmi a mio agio. Mentre va a telefonare per stabilire ilcollegamentotranoi, non posso evitare di pensare che, in un postocomeMtv,invece di un’audioconferenza ci si sarebbe aspettati unavideoconferenza. Brian Graden è presidente di Mtv, dirige la programmazione e inoltre coordina diverse emittenti tematiche del network. Stando alla sua biografia, che mi è stata fornita, è abbastanza giovane – sulla quarantina – ed è passato per il famoso Mba di Harvard. Attraverso il sistema audio posto sul tavolo della sua scrivania gli chiedo in cosa consista il suo lavoro. Dall’amplificatore esce forte e chiara la sua voce, in una sola parola, “entertainment”. “La mia professione,” continua Graden, “è l’intrattenimento, far contente le persone, fare in modo che ai giovani piaccia ciò che glisipropone.”Unodei capitoli della biografia di Graden si intitola: Presidente per l’intrattenimento di Mtv. Faccio una critica diretta sul fatto che Mtv trasmetta un tipo di musica formattato. “Caro Frederic,” mi risponde Graden, con voce dolce, “sono fiero del mio pubblico. Vado fiero dei gusti del mio pubblico. Adoro il mio pubblico. I giovani. È importanteamarli.” Mtv (Music Television) ha cominciato le trasmissioni il 1° agosto 1981. “Ladies and gentleman, rock and roll” è stata la prima frase pronunciata dall’emittente,lettadal presidente dell’epoca con lo sfondo di immaginidell’Apollo11 che si posava sulla Luna. Da allora, Mtv non ha più trasmesso rock and roll, ma soft rockepopmainstream, ed è tornata sulla Terra. Nell’epoca del digitale, l’emittente fatica a trovare una propria collocazione, subisce la concorrenza diretta di YouTube e quella, indiretta, di numerose emittenti musicali via satellite negli Stati Uniti e in tutto il mondo. In poco tempo l’audience si è abbassata, il giro d’affari si è assottigliato e l’azionista di riferimento,Viacom,ha fatto pulizia. Quando ho incontrato i dirigenti di Mtv negli StatiUniti,inEuropae in Asia o America latina, ho percepito sempre una certa inquietudine.PerMtvè tempo di crisi, di nuovi abbandoni. Ma non è semprestatocosì. Nella hall della sede di Mtv a Los Angeles c’è un camper. “È un vecchio modello degli anni cinquanta,” mi dice la persona che mi favisitareglistudi.Nel camper c’è una televisione rossa accesa, un tostapane, sedie verdi di plastica. Sembra il camper di Ozzie e Harriet, i personaggi di una famosa sitcom degli anni cinquanta, in partenza per le vacanze. Mi sembra uno scenario nostalgico, fatto forse per ricordarsi che un’emittente televisiva nonpuòessereeterna. Mtv, all’inizio, ha rischiato, ma poi l’emittente musicale con una programmazione ventiquattro ore su ventiquattro è rapidamente riuscita a imporre un nuovo genere, il videoclip, costringendo così l’industria discografica a ricalibrare se stessa nell’era del video. Come è sempre accaduto, prima con la radio,poiconillettoreregistratore di cd, oggi coninternet,l’industria discografica fatica ad accettare immediatamente le novità tecnologiche e, inizialmente, ha rifiutato anche i videoclip. Poi è stata costretta a ripensare aglisviluppidelproprio settoreindustrialeeha cominciato a utilizzare le immagini. Il primo videotrasmessodaMtv nel 1981 aveva qualcosa di profetico, era Video killed the radioStardeiBuggles. All’inizio, il formato pensato da Mtv era quello di diffondere a rotazione canzoni della Top 40 (sul modello della hit parade che dalla metà degli anni sessanta domina negli Stati Uniti). Si trattava dunque, soprattutto, di musica pop, per esempio Duran Duran, Eurythmics, Culture Club e, ben presto, Madonnachestavaper essere lanciata proprio da Mtv per diventarne l’artista emblema. A presentare lo show, generalmente c’erano i vj, video-jockey che Mtv ha reso popolari, sulmodellodeldj(discjockey). Fin dall’inizio Mtv è stata criticata per essere semplicemente un “rubinetto di videoclip”. In realtà, intervistando i dirigenti, si scopre che ilsistemasceltodaMtv era più precario di quanto il successo abbia fatto credere. All’inizio, Mtv ha avuto molte difficoltà a trovare un numero sufficiente di videoclip per alimentare ventiquattro ore di programmi quotidiani, e ciò spiega la frequente rotazione. Filmati di concerti, rudimentali video promozionali e diffusione continua: tutto era utile per compensare la mancanza di contenuti. Il successo dell’emittente ha fatto capire all’industria discografica i benefìci che poteva trarre dalla collaborazione: dopotutto i videoclip corrispondono a pubblicità gratuita per la musica. Inoltre, con Mtv un artista diventava commerciale più velocemente. I videoclipsonodiventati sempre più elaborati, audacieprofessionalie Mtv ha assunto un posto centrale all’interno delle strategie di marketing delle grandi case discografiche. Mtv ricopre un ruolo fondamentale nella storia della cultura pop. Come stava facendo nello stesso periodo anche David Geffen, Mtv crea l’anello mancante tra cultura e marketing, tra musica pop e musica “ad” (pubblicitaria), tra cultura di nicchia e cultura di massa, unisce due mondi che siritenevanoseparatie che invece scoprono di poter andare a braccetto: quello dell’arte e quello del commercio. Dopo la nascita di Mtv sarà sempre più difficile separare nettamente questiduemondi. In ogni caso, l’emittente ha avuto alcune difficoltà agli inizi a trovare la proprialineaedèstata salvata da quel che all’iniziosierarifiutata di promuovere: la musica nera. Per quantopossasembrare strano, vent’anni dopo la nascita di Motown, nel 1981, Mtv considerava la musica nera un ghetto, qualcosa non abbastanzacrossovere pocomainstream.Peri dirigenti bianchi dell’emittente, la musica nera era un genere, una nicchia. Anche Michael Jackson eramessoalbando.Un giornol’amministratore delegato di Cbs, che attraverso l’etichetta Epic aveva Jackson sotto contratto, è andatosututtelefurie minacciando di boicottare completamente l’emittente con tutto il suocatalogoseJackson avesse continuato a essere boicottato (poi Mtv è stata acquisita da Viacom-Cbs). Billie Jeanèmandatainonda nel 1983, seguita da Beat It. In un balletto in stile West Side Story, Michael Jackson figuracomepacieretra due bande rivali e cerca di convincere entrambe a cessare le rivalità. È vestito con una giacca di cuoio rosso e calzette bianche. Per il video sonostatireclutativeri membri delle gang. Un successo mondiale. Quando nel dicembre 1983 Mtv manda in onda il videoclip, della durata di quattordici minuti, di Thriller, remake del film di paura, con un ritmo di messa in onda di due volte all’ora, l’emittente cablata e ancoramarginaleentra nel mainstream. Abbandona il rock per il pop e il R&B. E si apre definitivamente ai neri. Dieci anni dopo, Mtv affronta lo stesso dibattito interno sul gangsta rap, considerato troppo violento e con allusioni sessuali troppo esplicite. L’amministrazione Clinton minaccia di censurare gli eccessi e Mtv esita. Dopo aver consultato avvocati specializzati, la direzione dell’emittentedecidedi rischiare mandando in onda a ripetizione i videodiunodeigruppi rap più estremi, più misogini, più intolleranti nei confronti dei gay e più tolleranti sull’uso della droga. Dal 1998 gangsta rap salva Mtv che ritrova così una solidità economica e unisce alla sua programmazione per un pubblico di massa una musica nera comunitaria radicale in forte espansione. In quell’anno, l’hip-hop fa segnare una vendita di ottantuno milioni di dischi negli Stati Uniti, acquistati da un pubblico bianco per il 70 per cento. Anche il rap, a sua volta, diventamainstream. Negli uffici e negli studi di Mtv a Los Angeles e a New York, nella sede del gruppo (simbolicamente situata all’angolo tra Broadway e la Quarantaquattresima Strada) e negli studios di Black Entertainment Television, che appartiene al gruppo, ho incontrato giovani neri, asiatici, latinos. Parlando con questi artisti e con altri giovani delle stesse etnie incontrati nei ghetti americani ho cominciatoadafferrare una cosa importante per comprendere l’intrattenimento e la cultura mainstream di oggi.Epiùfrequentavo gli uffici di Mtv, più parlavo con Brian Graden, o con il suo vice Jeff Olde, che ho rivistopiùvolteneibar di West Hollywood, più cominciavo a pensare che i confini che separano arte e intrattenimentosonoin gran parte il risultato di valutazioni soggettive. Il posto in cui si pone questa frontiera è spesso indice dell’anno in cui siete nati o del colore dellavostrapelle. BrianGradenèanche presidente di Logo, il canale“gayfriendly”di Mtv. Il suo obiettivo è ricostruire Mtv con i giovani gay, i giovani neri, latinos e asiatici. Attualmente internet, YouTube e Daily Motion fanno grande concorrenza ai canali musicali. La diffusione divideoclipgratuiti,ciò che ha decretato il successodiMtveilsuo modello economico, si è rivoltata contro l’emittente. Nell’epoca del digitale i videoclip sono, infatti, gratuiti anche per i potenziali concorrentiedesistono ormai numerose emittenti simili a Mtv in tutti i continenti. Così, Graden è stato incaricato, insieme ad altri,dellarifondazione di Mtv attraverso una strategia di grande impatto. Dunque, Mtv ha nel contempo riaffermato la propria vocazione generazionale concentrandosi sulla fascia quindicitrentaquattro anni, ha voltato le spalle ai videoclip, diffusi su internet, per preferire formati più interattivi, larealitytv,lastand-up comedy e il talk-show. “Abbiamo ripreso il controllodeicontenuti: non siamo più un rubinetto di videoclip,” spiega Graden. La priorità è data alla diffusione dei programmi esclusivi, il contrario di quanto faceva in precedenza Mtv, che continua comunque a chiamarsi Music Television. “Proporrepiùcontenuti su più supporti, con una maggiore esclusivitàeprodottiin premium, questa è la nuova Mtv,” commenta Graden,checontinuaa pensareanuoviformati su tutti i supporti immaginabili. “Testiamo migliaia di formati e di pilots, ma alla fine ne selezioniamo molto pochi.” Visitando “il motel”, l’edificio in cui sono testati questi progetti pilota, sull’altro lato di Colorado Avenue, sono sorpreso dalla capacità di innovare e abbandonare, senza preoccupazione, la maggior parte dei prototipi. Tutto il lavoro consiste nel continuare a immaginarecosenuove in ogni direzione per poi abbandonare l’idea e pensarne altre ancora: la creazionedistruzione è una dimensione fondamentale dell’innovazione delle industriecreative. Questo è stato solo l’inizio di una strategia diriconquistamondiale resa possibile grazie alla ricchezza della casa madre, il conglomerato mediatico Viacom, proprietario di Mtv. È stata inoltre fatta la scelta di entrare con forza nel settore del digitale e di seguire i nuovi usi dei giovani. Mtvcontinuaaoperare nel campo della sperimentazione tecnologica: attualmente sono attivi oltre trecentonovanta siti web, vengono creati migliaia di contenuti esclusivi per l’applicazione Mtv su iPhone e sono stati siglati accordi di collaborazione internazionale con siti come MySpace (che appartiene al gigante News Corp). Tutto ciò per cercare di avvicinare la generazione internet che vuole tutti i contenuti, in ogni momento e su tutti i supporti – è quella che a Mtv Brian Graden chiama la generazione “on-demand”. Tra gli elementi centrali di questa nuova strategia c’è il forte interesse di Mtv per il settore dei videogiochiesuquesto fronte l’emittente ha acquisito a man bassa start-up sperimentali e case di produzione più affermate come Harmonix e Atom Entertainment. Da queste sperimentazioni sono nati videogiochi popolari come Rock Band, che ha venduto oltre sette milioni di esemplari. La questioneèsapereseil grupposaràingradodi cambiare rapidamente, di essere abbastanza flessibile, per adeguarsi alle aspettativeeagliusidi internet che ogni giornosiaccelerano. Il gruppo Mtv si è allontanato dal mainstream unico attraverso una segmentazione del suo pubblico realizzata con una diversificazione di programmi, di siti e di canali televisivi. Mtv si è lanciata nel mainstream plurale. Oggi, l’emittente non hapiùununicocanale, ma centocinquanta canali tematici. In Europa, per esempio, Mtv Base è il canale hip-hop (ovvero il canalediriferimento,il più mainstream), Mtv Pulseèilcanalerocke Mtv Idol quello di musica internazionale. A seconda dei vari paesi, Mtv propone canali destinati a diversitipodipubblico, quelli appassionati di digitale (Mtv GameOne), i latinos (Mtv Latin), gli asiatici (Mtv Asia), i gay (Logo), i giovani appassionati di commedie (Comedy Central) e anche i bambini attraverso un’offerta specializzata per questa fascia d’età (Mtvn Kids & Family Group). Questi programmi, spesso ideati a Los Angeles, MiamieNewYork,non alimentano solo le televisioni del gruppo negli Stati Uniti, ma l’intero “pianeta Mtv”, che oggi ha uffici in centosessantadue paesi. “Mtv è una pipeline che viene approvvigionata di continuo,” conferma Thierry Cammas, amministratore delegato del gruppo MtvinFrancia. Infine, Mtv ha adottato, dopo diversi fallimenti in Europa e in America latina, una strategia su scala locale che propone un’efficace miscela di programmiamericanie diprogrammilocali.“Il DnadiMtvèlamusica mainstream americana,” prosegue Thierry Cammas. “Siamo un media di divertimento internazionale. Questa è la nostra identità, non possiamo negarla. Ma bisogna calare i nostri programmi nella realtà locale in cui trasmettiamo.Questoè il compito dei programmi di realitytv, dei talk-show e dell’intrattenimento i cui contenuti sono sempre realizzati dalle divisioni locali di Mtv. Per esempio, non si parla mai inglese su MtvFrancia.Dobbiamo comunicare con il nostro pubblico costantemente, in francese, e su tutti i supporti, poiché nel mondo del digitale è difficile avere un pubblico sempre fedele,mentreeravamo imbattibili nel mondo dell’analogico.” Mtv ormai trasmette in trentatrélingue. Mtv è dunque in piena rivoluzione. Judy McGrath, amministratore delegato del gruppo, a New York e Brian Graden a Los Angeles cercano di difendere la linea.Eperfarequesto bisogna restare hip. Come fanno questi amministratori delegati, che hanno il doppio dell’età del loro pubblico,arestarehip? “Noi dobbiamo essere taste-makers,” mi rispondeBrianGraden, sempre in audioconferenza. “La gentechelavoraaMtv è convinta che all’interno di questo gruppo sia come stare in La fuga di Logan (il film e la serie televisiva), dove tutti gli ‘over thirty’, quelli di oltre trent’anni, spariscono. Quelli che restano sono come PeterPan,nonvogliono diventare grandi. Lavorano dunque continuamenteaffinché Mtvdiventiunnetwork con una programmazione fatta per un kid hiphop di sedici anni, un giovane black in sneaker.” Thierry Cammas confermainaltromodo questa filosofia: “Non dico di conoscere i giovani. Corro semplicementedietroa lorotuttoilgiorno”. Come è potuto accadere che giovani kids neri, gay o latinos siano riusciti a diventarealoromodoi trendsetter e i tastemakers di Mtv, quelli che dettano la moda e definiscono il gusto? Quelli che frequentano l’hip e ratificanoilcool?Cos’è successo alla critica americana se oggi a stabilire i dettami sono giovani sedicenni in sneaker e skateboard fieri di amare la controcultura tanto quanto la cultura popcommerciale? Non ho cessato di pormi simili domande dopo questa intervista a Mtv. Ho capito in fretta che era successo qualcosa di importante nella cultura americana, tra arte e intrattenimento, traéliteemasse,anche traculturaeminoranza nera e questa trasformazione è stata decisiva come propulsore delle industrie creative americane ovunque nel mondo. Allora ho capito perché, all’interno di un’emittente così pop come Mtv, ci fosse uno skateboard appeso al muro nell’ufficio di Brian Graden. Era il simbolo della controcultura, dell’indipendenza e del cool, nel cuore della macchina del mainstream. 7. Pauline,Tina&Oprah Pauline Kael è morta il 3 settembre 2001 nella sua casa nel Massachusetts, il giorno stesso in cui mi sono trasferito negli Stati Uniti. Non sono dunque mai riuscito a intervistarla, eppure è una delle figure della cultura americana di cui ho sentito maggiormente parlare. Da Boston a San Francisco, da Chicago a Memphis, ho incontrato ovunque suoi fan che mi citavano a memoria frasi che aveva scritto. Spesso ho incontrato anche i suoi eredi spirituali, quelli che, negli Stati Uniti, si fanno chiamare “Paulettes”. La cosa piùstranaancoraèche Pauline Kael è famosissima negli Stati Uniti, ma quasi del tutto sconosciuta in Europa. Tuttavia, mi sono progressivamente reso conto che per capire la rivoluzione avvenuta negli Stati Uniti nel rapporto tra élite e cultura, tra arte e intrattenimento, era necessario conoscere Pauline Kael e diventare a mia volta un “Paulette”. Kael incarna forse, insieme a Tina Brown e Oprah Winfrey – le tre donne acuièdedicatoquesto capitolo – una sintesi delle evoluzioni che hanno fatto scivolare l’America verso la culturamainstream. Pauline Kael era semplicemente un criticocinematografico. Non si occupava di “film”, poiché a Kael non è mai piaciuto questo termine che, in inglese, suona presuntuoso, artistico ed elitario, ma di “movies”. Era nata nel 1919 in una fattoria della California da una famiglia di immigrati polacchi ebrei. Nella piccola città in cui è cresciuta negli anni venti–ilgrandeOvest, lo spirito dei pionieri, laculturamiddlebrown diunafamigliadelceto medio – l’arte era inesistente, ma il cinema onnipresente. In quegli anni, gran parte degli americani andava al cinema una volta alla settimana e anche la famiglia Kael vedevatuttiifilm.Non ha mai abbandonato quell’ottimismo della gente dell’Ovest americano, quel bisogno di aria, spazio e libertà, l’atteggiamento del “don’t-fenceme-in” (non volersi chiudere, limitare). La sua famiglia cade in rovina durante la Grande depressionedel1929e deve abbandonare la fattoria, specializzata in polli e uova, per trasferirsi a San Francisco. Si sposa e divorzia tre volte (quattrosecondoalcuni biografi), è sempre a caccia di lavoro per poter crescere la propria figlia, molto cagionevole di salute. Hafattolacamerierae la cuoca in piccoli ristoranti e anche la sarta; ha fatto marketing telefonico a domicilio per 75 cent l’ora; ha fatto da ghostwriterdimediocri romanzi polizieschi e ha partecipato alla scrittura di guide turistiche di paesi in cui non è mai andata. La sua passione sono peròifilme,neglianni quaranta, comincia a lavorare in un cinema d’essai di San Francisco, prima come cassiera poi come manager, e scrive già brevi recensioni dei film proiettati. Negli anni cinquanta, continua a fare recensionidifilm,sulla stampa popolare, alla radio, e in qualche rivista intellettuale, ma non ha ancora trovato unpropriostile. “Go West, young man,andgrowupwith thecountry”(Va’verso ovest, giovane uomo, e cresci con il paese): questa celebre parola d’ordine dell’editore del “New York Tribune” pronunciata alla fine del Diciannovesimo secolo, Pauline Kael la prende alla lettera e, in controtendenzastorica, la ribalta a proprio favore.Quandoèormai una donna di mezza età,parteperl’Est,per New York, diventa critico cinematografico e trova la propria strada. Pauline Kael lavora, pagata a cartella, per alcuni giornali popolari femminili,oltrecheper “Life” e “Vogue”, dove tratta seriamente film alla portata di tutti e incensa Jean-Luc Godard e la nouvelle vague francese. Critica severamente sulla stampa mainstream film di successo come Lucidellaribalta,West Side Story, Lawrence d’Arabia e Dottor Zivago, dà prova di grande indipendenza nelle sue considerazioni e dimostra un certo coraggio nei confronti di Hollywood. Si verifica così la prima incomprensione: viene infatti accusata di essere troppo severa con i film mainstream ed è licenziata dal giornale femminile per cuilavora. Nel 1968 viene assunta, come dipendente fissa, alla redazione del settimanale “New Yorker” e qui comincia acostruirerealmenteil propriopersonaggio.Si produce, tuttavia, la seconda incomprensione – sulla scia della precedente. Il settimanale per cui lavora è letto dall’élite americana, raffinata e cinefila. I critici sono solo uomini, eleganti, ossessionati dalla qualitàcinematografica europea, diffidenti rispetto al sesso e alla violenza, che invadono i film americani degli anni sessanta e settanta. L’unico dettamedaprenderein considerazione è l’arte – e di certo non i gusti dimassa. Rispetto a questo scenario, Pauline Kael decide di andare in controtendenza. Pur avendo a sua volta magnificato Godard in articoli per la stampa popolare, sul “New Yorker” comincia a considerareseriamente i film di intrattenimento e dà così uno scossone ai valori dell’élite. Il suo primo articolo è una recensione di Bonnie and Clyde: il film di Arthur Penn (con Warren Beatty) è stato irriso dalla stampa intellettuale, ma la sua critica è invece smaccatamente positiva. Pauline sostiene, infatti, che Bonnie and Clyde è arte. Mentre tutti i grandi critici cinematografici impiegano toni eruditi per ripudiare i film prodottidallamacchina hollywoodiana ed elogiano i film d’essai europei e del cinema straniero, Pauline Kael inverte il giudizio. Nei film, a lei piace il crescendodiviolenzae di scene di sesso. Non si vergogna di apprezzare film come Lo squalo, La febbre delsabatosera,iprimi dueIlpadrino(“Forsei migliori film mai prodotti negli Stati Uniti”), Batman, Indiana Jones, Shining e successivamente Magnolia e Matrix. Questifilmlepiacciono davvero. È molto affascinata da Fred Astaire, Barbara Streisand, John Travolta, Tom Waits e, prima di tutti, da Tom Cruise. Di quest’ultimo è addirittura innamorata – e lo scrive. È un’intellettuale anti-intellettuale, le piacciono i film messy (confusionari), i film cheap sovversivi, che danno un tocco di erotismo al cinema. Arriva perfino a frequentare un cinema alucirosse,circondata da persone che si masturbano, per poter parlare dei film erotici. Deduce che un film è realmente erotico quando provoca l’erezione. L’attrazione viscerale per il cinema si riassume per lei in quattro parole: “Kiss Kiss Bang Bang”. Bastano una ragazza e una pistola per fare un grandefilm.Peraltro,il titolo del suo primo e piùcelebrelibrounisce il cinema e la sua verginità con un’espressione considerata osé all’epoca:Ilostitatthe movies (“L’ho persa al cinema”).Ilcinemaèil proseguimento della vitainaltromodo. Kael fa registrare una rottura fondamentale nel giudizio sui film, e non solo, nell’apprezzamento della cultura popolare. Fa a pezzi l’educato linguaggio in stile “costaest”chevenerai film raffinati, “che con tutta quella raffinatezza vi fanno addormentare,” scrive. Esalta invece il cinema americano che racconta la vita dell’uomo comune e, con uno stile tutto suo, celebra l’energia, la velocità, la violenza presentinellepellicole. Le piace l’elemento popdiunfilm. Qual è, allora, il criterio per giudicare una pellicola? Secondo lei: l’emozione che si sente all’istante, il piacerechesiprova–e cheproveràilpubblico. PaulineKaelvedeifilm una sola volta, al cinema, come gli altri spettatori, non va a quelle proiezioni esclusive per critici privilegiati e da circolo chiuso. Per lei si tratta di un aspetto fondamentale: bisogna giudicare un film al primo impatto, non bisogna mai rivederne uno – anche se lo abbiamo adorato. La sua concezione della cultura non è né borghese, che presupporrebbe un’accumulazione delle opere, né accademica, con il bisogno di decriptare all’infinito una scena. In fondo rifiuta che il cinema diventi “cultura”: per lei un movie è intrattenimento nel senso più profondo del termine, un momento della nostra vita che passa e non torna più. Che piaccia o meno, a un film non bisogna mai dare una seconda possibilità. Kael è un critico profondamente americano. Le piace la natura democratica del cinema “made in Usa”, la sua grande capacità di far divertire le masse, la sua accessibilità. Soprattutto, detesta il paternalismo dei critici colti e l’accademismo degli universitari che costruiscono fantomaticheteorieper nasconderegustielitari diclasse.Perquantodi cultura ebraica, non apprezza Woody Allen; anche se ha una vita sentimentale molto avventurosa, considera Antonioni troppo lento. È tutta una questione di velocità: “Non c’è alcun dubbio sul fatto che molti di noi reagiscano a un film in funzione della propria sensibilità e della corrispondenza che vi trova, ciascuno ha la propria sensibilità”, scrive. Poi Pauline Kael irride la presunzione deifilm“indipendenti”, fatti di limitate ambizioniesteticheedi illimitati precetti morali. Non le piacciono per nulla Ingmar Bergman e Jim Jarmusch e apprezzerà tardivamente i fratelli Coen. Critica con forza il film di Claude Lanzmann, Shoah, sostenendo che il tema di un film non deve impedire la critica e il giudizio;bocciaPauline à la plage di Eric Rohmer: “Ascoltate i personaggi discutere, leggeteisottotitolievi sentitecivilizzati”. Soprattutto, è crudele con i film stranieri considerati profondie“disinistra”, ma che si limitano a parlare a un pubblico d’élite attraverso un linguaggio codificato e sono incapaci di interessare il popolo di cui pretendono di parlare.“C’èbisognodi qualcosa di più che buoni sentimenti di sinistra per fare un buon film.” Un buon film è anzitutto un film chealeipiace. A seconda dei suoi gusti, celebra o demolisce completamente le pellicole. Con i film ha un rapporto molto incestuoso e non utilizza il verbo “like”, ma il termine “love” (non ama i film, li adora). I suoi giudizi sono spicci, inattesi, eccessivi. L’unica cosa che conta è il lettore: gli racconta a lungo la tramadelfilm,descrive con precisione clinica i personaggi e la recitazionedegliattori, giudica la musica, evoca i dettagli che aiutanoacapire.Scrive per trasmettere, non per giudicare. “La critica di un film è un’arte d’equilibrio: cercare di suggerire chiavi di lettura e dare un senso alle emozioni che il pubblico prova.” Dà fiducia ai gusti del pubblico e li tiene seriamente in considerazione, un po’ come fa l’industria del cinema con i focus group.Neisuoiarticoli, infatti, descrive anche lereazionidelpubblico che ascolta e osserva all’interno dei cinema: leinteressanoimodiin cui si spaventa, è sessualmente eccitato, ride. “Spesso sono stata accusata di scrivere di tutto, tranne di film,” dice conironia. Ciò che la caratterizza è soprattutto il suo stile, inimitabile e sorprendente. È uno stile nel contempo ricercato, slangy e crudo (usa spesso il gergo e utilizza facilmente parolacce). Èunostilepiùvicinoal jazzcheallamusicada camera, nello stesso tempo controllato, spontaneo e improvvisato, con un ritmo e velocità singolari. Più di ogni altra cosa somiglia al linguaggio parlato. Scrivesempreinprima persona e si rivolge ai lettori dandogli del “voi” invece di usare il “si” impersonale, più tradizionale nella critica: “Molte persone mi hanno rimproverato questo uso senza rendersi conto che era semplicemente un modo di essere americana e di non essere inglese, che dice:‘Sipensache…’”. Il lettore ha l’impressione di dialogare con Kael. Diràspessochicivuole molto tempo e molto lavoro per scrivere con semplicità. “Ho lavorato tanto per perdereilmiostile,per abbandonare il tono pomposo dei docenti universitari.Volevoche le mie frasi respirassero, che avessero il suono della voceumana.”Nellesue critiche Kael parla anche di se stessa, delle proprie esperienze, talvolta dellapropriavita.Parla dei film che l’hanno “accompagnata” poiché,allafine,perlei il cinema è un “qualcuno”. “Qualcuno” e non “una cosa qualsiasi”, come i video, la televisione e poiimultisala,chenon apprezza. In questo è più cinefila di quanto credesse lei stessa. E non è neanche tanto americana. Pauline Kael è un’elitariapopulista.In un’intervista poco prima di morire ha affermato: “La grandezza del cinema sta nel fatto che può combinare l’energia di un’arte popolare e le possibilità dell’alta cultura”. Pauline Kael sa anche mostrarsi molto erudita: sono celebri le sue analisi delle tecniche filmiche di D.W. Griffith e Jean Renoir, le sue sottili critiche dei film di Godard, la sua analisi di Quarto potere di Orson Welles. Soprattuttoèstatauna delle prime persone a prendere sul serio il cinema commerciale e l’intrattenimento da un punto di vista critico. Rendendo il rispettabile accessibile a tutti e l’accessibile rispettabile per l’élite, avrebbe contribuito a modificare completamente lo status del cinema americano. Eppure, non le piace ciecamente il cinema commerciale e non si accontenta di criticare il cinema d’autore. Contrariamente a quantosièdettodilei, non è anti-intellettuale e, soprattutto, è indipendente. È stata una delle prime a riconoscereiltalentodi Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, BrianDePalma,Robert Altman e Bernardo Bertolucci. Le piace David Lynch (in particolare Velluto blu); le piace la recitazione di Robert De Niro in Taxi Driver o la sua inaudita trasformazione in Toro scatenato. Non esita a mettere severamente in luce il successo commerciale di film che giudica sospetti – quello che chiama “il richiamo del trash” –, oppureasgonfiarefilm che, immeritatamente, hanno fatto fortuna; insiste sul narcisismo del pubblico e sulle profonde tendenze negative della società americana in cui l’irrazionale sentimentalismo impedisce le facoltà di giudizio.Èuncriticodi sinistra e una newyorkeseelitariasuo malgrado – beve bourbon liscio all’infinito–,dileiresta famoso il commento dopo la vittoria di Richard Nixon nel 1968: “Non posso credere che Nixon abbia vinto perché non conosco nessuno che abbiavotatoperlui”. Conosceinvecemolte persone, a New York, che adorano Jean-Luc Godard,conilqualeha sempre avuto una relazione di amoreodio.DifendeilGodard degli anni sessanta e, come lui, pensa che i film fatti all’epoca d’oro degli studios, quandogliartistierano interamente sotto il controllo dell’industria e stipendiati senza alcun margine di manovra artistica, né final cut, potevano essere opere d’arte. Dopotutto, Godard aveva portato al successo Douglas Sirk! Durante gli anni sessanta Pauline Kael ha elogiato i film di Godard – Les Carabiniers Il maschio elafemmina,Lacinese – che considera fin da subito un grande cineasta. Comincia poi a malsopportare la tendenza del regista francese a mettersi ai margini e le sue crescenti sofisticazioni; è esasperata dalle sue digressioni e dalle autocitazioni. Critica i suoi film politici che considera ingenui e “politicamente inefficaci” e giudica il suo cinema “minority art”.Dopoil1967-1968 comincia ad attaccare severamenteilcineasta per la sua presunzione e il suo cinema mortifero. Comunica il proprio smarrimento versounregistacheha amato e in nome delle critiche positive degli anni di Fino all’ultimo respiro direttamente di fronteaGodardeinun dibattito pubblico lo chiama per nome replicandogli: “JeanLuc,piùisuoifilmsono diventati marxisti, più ilsuopubblicoèquello delleclassiagiate”. Attaccando Godard attacca anche la “teoria dell’autore” di stampo francese: è infastiditadalcultoche icriticicinematografici hanno per il regista e, senza arrivare ad affermare che devono cedere il final cut ai produttori e agli studios, è convinta che la politica “degli autori”,chesottovaluta la narrazione, ucciderà il cinema, e ha già ammazzato la creatività francese. Con abilità critica ancheilfeticismodegli intellettuali che “speculano oggi sulla vita dei registi, tanto quanto il popolo speculavaierisullavita delle star”. Per lei un film è una storia con degli attori – e solo dopoconunregista.In questo senso è molto lontana dai “film studies” americani che si sono fortemente sviluppati negli anni settantaeottanta.Ogni voltachecriticaunfilm “d’autore”, i docenti universitari specializzatireagiscono innervositi. “I film europei, in questo paese, hanno una rispettabilità non all’altezza dei loro meriti,”replicaKael. Simili opinioni hanno suscitato passione e odio. I lettori del “New Yorker” e i docenti universitari che fanno capo ai “cultural studies” chiedono le sue dimissioni con migliaia di lettere che arrivano in sacchi postali pieni zeppi. Le rimproverano di scrivere con “stivali da cowboy”elainvitanoa tornare nella sua fattoria dell’Ovest “insieme alle sue galline”, la pregano di darsi al giornalismo sportivoelasupplicano di prendere lezioni di inglese letterario. In tono provocatorio, lei risponde che il cinema deveancheessere,fino a un certo punto, una forma di entertainment: “Se l’arte non è intrattenimento, cosa dev’essere allora? Una punizione?”ironizza. Ma Kael, vista l’autonomia dei suoi giudizi, è inattaccabile. E le critiche, nell’America dei postsixties, non portano a nulla. È difficile accusarladinonessere colta: ha una memoria eccezionale e riesce a descrivere minuziosamente scene intere rendendo ridicolo anche il docente più colto di film studies e grazie alle sue conoscenze enciclopediche in un’epoca in cui non esistono né IMDb, né Wikipedia. È una lettrice vorace e appassionata di teatro ediopera,èinsaziabile poiché la sua cultura superaildualismodelle categorie high e low, che ancora oggi usano gli intellettuali americani.PaulineKael può parlare per ore di Duke Ellington, delle “big band” (da giovane facevapartediunajazz band composta unicamente da ragazze), di rock e di Aretha Franklin per la quale ha una vera e propria venerazione. “Adoro l’energia del pop, è ciò che spesso manca nella musica classica,” scrive. Negli ultimi anni della sua vita, superati i settantacinque anni, confessa la sua passioneperilrap. Negli anni ottanta, tuttavia, il suo sguardo cambia – poiché il cinema americano è cambiato. Se in precedenza apprezzava il cinema mainstream, ora si mostra più critica verso Hollywood, dispiaciuta del maggior potere assunto dagli studios e dal marketing. Aveva già criticato Guerre stellari, adesso critica Rambo,RockyIVeStar Trek III e tutti i film familisti di Disney rivolti “a tutti gli americani”. Come reazione, gli studios la minaccianoalorovolta e più i suoi giudizi su Hollywood si induriscono, più ritiranopubblicitàperi film dal “New Yorker”. George Lucas notifica la sua cattiveria dando il suo nome al cattivo del film Willow (il generale Kael). Anche Spielberg, che lei aveva apprezzato per Lo squalo, I predatori dell’arca perduta e soprattutto Et, cominciaanonpiacerle più. Denuncia “l’infantilizzazione del cinema”. Pauline Kael è stata al centro di profondi cambiamenti che si sono amplificati dopo di lei. Ha reso i film mainstream intellettualmente rispettabili e ha accompagnato la desacralizzazione del libro a vantaggio del film. Kael ha incarnato una mutazione del pubblico del cinema, unamutazionechenon solo lei stessa ha contribuito a provocare, ma di cui è stataportavoceproprio nel momento in cui le gerarchie culturali cominciavano a tentennare:ilmovieha rimpiazzato il libro come oggetto culturale di riferimento, e il cinema è diventato sempre di più la matrice delle altre arti negliStatiUniti. Poi, un giorno, sono state messe in discussione tutte le gerarchie e in seguito sonosaltate. Inorigine,negliStati Uniti la cultura si distingueva piuttosto semplicemente tra cultura d’élite (“high culture”) e cultura popolare (“low culture”). La maggior parte dei critici, segnati dall’approccio europeo all’arte, aveva il compito di difendere il confine tra i due tipi di cultura e di difendere l’arte dall’intrattenimento. Negliannicinquantain particolare, l’élite intellettuale, spesso composta di immigrati europei, comincia a spaventarsi di fronte all’ascesa della cultura di massa e denuncia, sulla scia della filosofa Hannah Arendt, la “crisi della cultura”. Il sociologo tedesco esiliato negli Stati Uniti, Theodor Adorno, va oltre e prende posizioni particolarmente critiche contro il jazz, che rifiuta di chiamare musica poiché lo considera “roba da radio”, dando prova di un certo disprezzo snob, che qualcuno ha qualificato come razzista. Da buoni marxisti, Adorno e la Scuola di Francoforte considerano l’industrializzazione della cultura una catastrofe artistica e insistono abilmente sul fatto che questa cultura di massa non è autentica cultura popolare, ma il prodotto di un capitalismo monopolistico. Adorno contribuisce allora a diffondere il concetto di “industrie culturali” e soprattutto la sua critica. Riviste come “Partisan Review”, emblematica per l’atteggiamento dell’epoca rispetto alla cultura di massa, nella metà degli anni cinquanta, di fronte allarapidaascesadella televisione (nel 1954 oltre il 50 per cento delle famiglie americane ne possiede una) sono colte da un’ondata di panico verso la cultura di massa.La“OldLeft”,la vecchia sinistra americana, nata nell’antitotalitarismo, antinazista e in quegli anni antistalinista, è spaventata da quanto vede profilarsi all’orizzonte della nuova cultura americana: gli articoli prefabbricati di “Reader’s Digest”, la mediocrità culturale e il conformismo delle periferie materialiste, Moby Dick in versione ridotta “che ci vuole metà del tempo per leggerlo”, la nuova edizione del dizionario Webster che cerca di semplificare l’americano, le antologie e le compilazionideigrandi testi, la musica di Copland e le sinfonie classiche diffuse sulla radiodiNbc,itascabili di Penguin e il Book of the Month Club (il grandelibrodelmese). Gli intellettuali newyorkesi continuano a scrivere articoli per criticare la pratica delle classi medie di appendere in sala riproduzioni dei quadri diVanGogheWhistler, occasione per queste mediocrifamigliediun selfaggrandizement (espressione usata dal grande critico della letteratura Dwight Macdonald, all’epoca con molto seguito). Attaccanosoprattuttoil cinema, che non considerano arte, e criticano in particolare i film hollywoodiani degli anni sessanta, anzitutto Charlton Heston, irriso per le sue interpretazioni in Ben Hur e Il pianeta delle scimmie. E naturalmente ironizzano su romanzieri come John Steinbeck,PearlBucke Hemingway (quello de Il vecchio e il mare) che sfruttano cliché sentimentaliecriticano i giornalisti che, su riviste come “Harper’s”, “The Atlantic” e “Saturday Review”, mischiano i generi e difendono il pop all’interno della stampad’élite. C’è qualcosa di piuttosto disperato in questo timor panico contro la cultura di massa (la grande mass panic degli anni cinquanta), che peraltro non offre altra alternativa se non il ritorno alla cultura aristocratica. Negli annitrentaequaranta, la critica della cultura di massa, quantomeno, analizzava, in chiave marxista,laproduzione delle industrie culturali; poi questa critica è degenerata in una sorta di satira dal gustopopolare. “Poi un giorno le cose hanno cominciato a cambiare, e tutto è vacillato,” racconta Bob Silvers, celebre direttore della “New YorkReviewofBooks”, che incontro nel suo ufficio di Manhattan. “La novità sta nel fatto che gli intellettuali della ‘Old Left’ si sono fatti superare da sinistra dalla ‘New Left’,” spiega Silvers. Nel giro di un decennio, gli intellettuali newyorkesi hanno abbandonato le gerarchie culturali che avevanotantovenerato e hanno abbracciato la culturadimassa. Questo nuovo tipo di discorso, in antitesi al precedente, meriterebbedasoloun libro. L’analisi si concentrerebbe sul difficile lavoro di ricollocazione delle riviste di sinistra, sul lento ribaltamento della classe intellettuale, sulle prudenze degli uni e le stravaganze degli altri. La cosa più interessante è che questo nuovo tipo di discorso non viene dalla stampa popolare, né dalle industrie culturali, né dalla destra conservatrice: viene dagli studenti di Harvard, dai neri di Harlem,dalmovimento chicano e dagli hippy della California. Per tappare i buchi della loro barca ideologica chefaacquadatuttele parti, non tutti gli intellettuali seguono la stessa via, non tutti hanno la stessa audacia. Alcuni fanno curiosamente riferimento a un astro morto come Trotskij, altri sono accecati dal pensierodelpresidente Mao, al punto da non vedere che il maoismo è uno stalinismo antisovietico, altri infine si appassionano a Fidel Castro e Che Guevara, il cui marxismo ha ancora il fascinodeiTropici. Nelfrattempocisono stati il 1968, Berkeley, Columbia,ilmovimento studentesco, Bob Dylan,lacontrocultura, la Guerra del Vietnam. Questavolta,lavecchia élite si rende conto di essere in ritardo rispetto ai tempi che corrono. Si è già persa il jazz e Jack Kerouac, non vuole allora sbagliarsi con il rock, Hollywood e la sessualità dei giovani. È tempo di cambiare chiavidilettura. Una giovane intellettualedell’epoca, Susan Sontag, abbraccia il rock e la fotografia come arti ed èvotataalcultodiJohn Wayne nei suoi articoli sulla “Partisan Review”. Si occupa soprattutto del “camp” e del “kitsch” per superare le gerarchie culturalihighelow.Gli intellettuali neri, gli attivisti ispanici, indiani, asiatici rivendicano, già allora, la fine del monopolio culturale considerato “eurocentrico”. Le femministeeimilitanti gay denunciano il dominio maschile. L’uomo bianco è il bersaglio di tutte le critiche, così come la cultura europea. L’esito di questa rivoluzione è un ulteriore distanziamento dalla cultura del Vecchio continente e la valorizzazione della cultura popolare americana. Riponendo le vecchie pretese artistiche e legittimando la cultura di massa negli Stati Uniti, gli intellettuali americani sacrificano l’Europa sull’altare della fine dell’aristocrazia. E da allora sussistono grandi difficoltà per tenere a bada l’onda d’urto di questi cambiamenti. In pochi anni, l’élite cede le armi e alza bandiera bianca, senza aver minimamente condotto la battaglia a favore dell’arte. La critica della cultura di massa, che era di sinistra negli anni cinquanta, negli Stati Uniti va verso destra e rafforzerà negli anni ottanta i sostenitori di Ronald Reagan. La “vecchia sinistra”, invece, rappezza il suo credoperproteggerele proprie illusioni, comincia a leggere Jack Kerouac, ad ascoltare Bob Dylan e assume come maître à penser il leader della controcultura hippy Abbie Hoffman. Sostituisce così il suo vecchio marxismo con un nuovo anarchismo antiautoritario. Gli intellettuali che, fino a ieri, difendevano la cultura d’élite wasp, maschile e bianca si scoprono improvvisamente caucasian: ora si vergognano di essere bianchi. Questa white guilt – vergogna dei bianchi – è fondamentale nella svolta. Ben presto, i cultural studies studieranno Guerre stellari e Matrix e parleranno della “nobiltà del mainstream”. Questocambiamento, sintetizzato per grandi linee, che mi è stato confermato dalla maggior parte degli intellettuali “Old” e “New Left” che ho intervistatoaNewYork e Boston – da Susan Sontag a Michael Walzer, da Paul Berman a Michael Sandel, da Nathan Glazer a Stanley Hoffmann –, ha avuto effetti importanti. Soprattutto sui critici della cultura della generazione di Pauline Kael. Tutti cominciano a prendere sul serio la cultura commerciale, non solo economicamente come un’industria potente, ma come arte. Contrariamente ad Adorno, i nuovi critici deljazzdimostranoche si tratta di un genere musicaleveroeproprio che sta diventando addirittura la musica classica del “secolo americano”.Icriticidel rock acquisiscono rispettabilità e influenza, a scapito dei critici letterari. Sul “New York Times” si affrontanoconlastessa serietà le commedie musicalidiBroadwaye ilteatrod’avanguardia. Al contrario dei loro predecessori, i nuovi critici della cultura americani non difendono più la linea di demarcazione tra arte e intrattenimento, cercano, invece, di mescolare le carte e di abolire questi confini considerati elitari, di stampo europeo, aristocratici e addirittura antidemocratici. Come lo scrittore Norman Mailer, l’intellettuale Susan Sontag, il critico letterario Dwight Macdonaldetantialtri, Pauline Kael è stata una delle figure simbolo di questa spaccatura. Da allora, la desacralizzazione dellacultura“alta”ela commistionedeigeneri è andata ben oltre: PaulineKaele,dopodi lei, Tina Brown e naturalmente Oprah Winfrey annunciano il futuro di una vita culturale priva della figuradell’intellettuale. Ebenprestoancheuna vita culturale senza la figuradelcritico. Tina Brown e il nuovo giornalismoculturale Junior’s è un ristorante emblematico dellacittàdiNewYork. Fino agli anni settanta era un locale tipicamente ebreo, poi questa sorta di “diner” ha cominciato ad accogliere un pubblico essenzialmente nero e daalloraènotointutta la regione per il suo World’s Most Fabulous Cheesecake. Ho appuntamento in questo locale, a Times Square, sulla Quarantacinquesima Strada di New York, conTinaBrown. Tina Brown è un’affascinante donna di cinquantasei anni dall’eleganza britannica (è di origini londinesi)euncarisma contenuto che la rende ancora più irresistibile. Mentre discuto con lei, sono rapito dal suo fascino e mi dico che dall’America ha mutuato l’ottimismo e dall’Europa l’umanità. La osservo e capisco subitocomesiariuscita a stregare alcuni dei più celebri attori, giornalisti e scrittori inglesi degli anni settanta – il che ha contribuito a farne una leggenda. È stata anche un’amica della principessa Diana, su cui di recente ha scritto una biografia, diventata un bestseller mondiale. Tina Brown chiede a un cameriere del Junior’s di portarci caffè americano (è imbevibile e spesso il refill è servito a volontà), ne approfitto anche per ordinare dei pancake, mentre lei cominciaaraccontarmi la sua vita. È arrivata negli Stati Uniti per seguire il marito, l’influente giornalista Harold Evans, che ha diretto il “Sunday Times” e il “Times” a Londra. Presto è stata assunta a “Vanity Fair”.Conilmarito,nel frattempo promosso a presidente della casa editrice Random House,formaunadelle coppiepiùinvistadella NewYorkmediatica. In breve tempo le cose cambiano radicalmente. Nel 1984, grazie alla rete di conoscenze, al talento e al fascino diventa caporedattore di “Vanity Fair”. Ristruttura il magazine americano cui riconferisce una dimensione hip proponendo di volta in volta temi popolari e intellettuali. Da una parte, azzarda proponendo copertine “people” – spesso con fotografie di Helmut Newton –, creando rubricheeaumentando le interviste alle star. Dall’altra, fa scrivere articoli seri di politica estera a noti intellettuali, invita un celebre scrittore a descrivere minuziosamente la sua depressione e fa scrivere rubriche ad autoridiqualità. Sottolasuadirezione “Vanity Fair”, il cui editore è Condé Nast, passa da duecentomila a un milione di copie vendute al mese. Nel 1992 l’amministratore delegatodiCondéNast le chiede di diventare direttore di un’altra rivista del gruppo, il “New Yorker”. Il suo arrivo nel tempio ovattato della cultura americana è uno schiaffopermolti.Tina Brown ha trentotto anni e anche in questa nuova veste resta fedele al proprio stile fatto di commistioni varie, per metà popolare e per metà intellettuale. “Al ‘New Yorker’ ho semplicemente voluto fare giornalismo in modo moderno: inchieste, intrattenimento,star.Il punto di vista del giornalista-editorialista lascia il posto all’informazione, alle idee, si spazzano via le vecchie gerarchie culturali, ma in modo intelligente, si fanno compromessi, ma in modo intelligente,” mi spiega Tina Brown da Junior’s, con un accento british molto discreto. Cultura e intrattenimento, che prima del suo arrivo erano separati, ora sono uniti. Gli argomenti alla moda, fino ad allora tenuti a distanza, indicano la nuova linea della rivista. La lentezza, valore colto, è sostituita dalla rapidità. Il sensazionale,finoaieri solo allusivo, diventa materia d’analisi. La pauradelcommerciale, una religione per il vecchio “New Yorker”, è dimenticata: Tina Brown chiede alla sua squadradidecodificare l’Americacorporate. “Ho avviato una rubrica intitolata ‘gli annali della comunicazione’ per seguire le evoluzioni più importanti degli studios, della televisione e in particolare delle industrie dell’intrattenimento,” mi spiega Tina Brown. Al posto dell’arte europea e della letteratura d’élite, ci sono servizi di una decina di pagine su Rupert Murdoch di News Corp, Michael Eisner di Disney, Bill Gates di Microsoft e Ted Turner di Cnn. Secondo la linea “arte, media e intrattenimento”, Tina Browninventaal“New Yorker” anche la biografiadelleaziende: fa raccontare la vita dell’operatore di telecomunicazioni Comcast, dello studio Paramount o del gruppo Viacom. I toni sono seri, le inchieste irreprensibili, ma i lettori abituati a un giornalismo raffinato sono leggermente contrariati nel trovarsi di fronte pagine intere sulla fusione tra Time Warner e Aol, sul gangsta rap o sugli accordi nel settore audiovisivo americano. Passi ancora che il “New Yorker” analizzi, come una volta, le poesie sulla droga scritte da Allen Ginsberg; ma l’analisi dei videoclip di Mtv sfiora l’intollerabile. “Eppure, le vendite del ‘New Yorker’ sono esplose,” mi dice con tranquillità Tina Brown. Va addirittura oltre. Non si accontenta di parlare di star, parla anche di star’s people, le persone che creano le star, e dei middlemen,figuretrail creatoreeledinamiche commerciali che, come gli agenti, i manager, i PR people, producono il buzz. “Il ‘New Yorker’ doveva parlare di quello di cui parlavano le persone,” aggiunge Tina, con il tono dell’ovvietà, un po’ come se avesse inventato il trampolino di lancio per far diventare famose le persone. “Ho cambiato anche lo stile del giornale. E siccome sono inglese, non mi si poteva accusare di attentare alla purezza della lingua,” spiega Tina Brown. Le parolacce, finoadalloramoderate all’interno di una rivista pudica e protestante (lo scrittore Norman Mailer non aveva voluto scrivere per il “New Yorker” poiché non aveva la libertà di usare il termine “shit” nei suoi testi), diventano un modo normale di scrivere. In poco tempo settantanovegiornalisti abbandonano la redazioneenearrivano altri cinquanta. Per la prima volta, nell’austero “New Yorker” entra la fotografia, e con un grande nome: viene infattiassuntoinpianta stabileRichardAvedon, chehagiàlavoratoper “Vogue” e “Life” ed è specializzato nella fotografia di moda e di rock. Opinionisti tra i più polemici e i più pacati sono reclutati per descrivere non più le opere di Hannah Arendt e Woody Allen, ma l’hip, il cool e la pop culture (il “New Yorker” pubblica regolarmente una rubrica chiamata “Department of popular culture”). Ormai il giornale prende molto sul serio l’ultimo film commerciale e il nuovo bestsellerletterario.La strategia di Tina Brown, ereditata da PaulineKael,ètrattare seriamente la cultura popolare e scrivere in modo divulgativo di “alta cultura”. “Ho imparato molto da Pauline Kael e sono stata molto influenzata dalla sua esperienza al ‘New Yorker’. Ho voluto che si scrivesse di Hollywood come se fosse una storia. La narrazione è diventata fondamentale,” conferma Tina Brown, che è generalmente accreditata per aver inventato negli Stati Uniti il celebrity journalism. IpredecessoridiTina Brown alla direzione del “New Yorker” avevano un compito: tenertestaai“barbari” emantenerelalinea,la frontiera che separa il gusto dalla mediocrità, l’élite dalla massa, la cultura dall’intrattenimento, high da low. Ora scopro che Tina Brown è lei stessa una “barbara”. In questo ristorante ebreo diventato di neri – il che è già sufficiente a colpire, in generale, l’élite e gli intellettuali diNewYork–miparla di Philippe de Montebello(ildirettore del Metropolitan Museum of New York, di origini francesi e molto elitario) e di Guerre stellari nei multisala, di Shakespeare e di Monthy Python, dello scrittore John Updike che ha mantenuto al suo posto al “New Yorker” e dei ritratti che ha ordinato di Madonna e Tom Cruise. Mi dice di trovare cool queste mescolanze. Un altro giorno, alla caffetteria del “New Yorker”, magnificamente disegnata dall’architetto Frank Gehry, quella in cui Meryl Streep ne Il diavolo veste Prada viene a pranzare, incontro l’elegante Henry Finder, caporedattore della rivista. Con i suoi cinquantadue piani, la sede del gruppo Condé Nast, al civico 4 di Times Square, domina Broadway. Qui sono editati “Vogue”, “Glamour”, “Gq”, “Architectural Design”, “Wired”, “Vanity Fair”, “New Yorker”, ma anche la rivista “Bon Appetit” – e quest’ultima mi rassicura sul pranzo. Nelcorsodeglianniho incontrato molte volte HenryFinderinquesta celebrecaffetteriaeho imparato a conoscerlo. Henry è sempre un po’ stupito e “insicuro”, ha una gentilezza e una discrezione elevate ad arte del vivere e prende come al solito un piatto vegetariano, senza antipasto né dessert e una Coca Light. Ci sediamo nella sala“retro”e“kitschy” del ristorante dell’azienda, che dà l’impressione di essere all’interno di un acquario. Henry è stato ingaggiato da Tina Brown nel 1994 anzitutto come caporedattore aggiunto, poi come responsabile delle critichedeilibri,infine, dal1997,comeunodei caporedattori – carica che ricopre ancora. “Tina Brown è nel contempounaspeciedi saccentona di Oxford per la sua sofisticazione intellettuale, e un vero e proprio impresario americano poco paziente di fronte alle smanie intellettuali. Come gli studenti più originali della sua generazione, usciti come lei da Oxford o Cambridge, Tina ha cominciato a sentirsi infastidita dallo spirito stretto della ‘piccola Inghilterra’, la sua raffinatezza, la sua distinzione, la sua lingua castigata, la sua paura della volgarità sono state a poco a poco conquistate dall’ambizione americana. Tina è sospettosa verso le gerarchie culturali europee,” dice Henry Finder. “Ambizione americana”, una bella espressione – davvero moltosignificativa. Henry Finder sottolinea anche che Tina Brown ha portato algiornalelacopertura dell’attualitàcheprima mancava. E ricorda, cercando di relativizzare in parte gli elementi di novità introdotti dalla giornalista, che l’unione di generi diversi era già una caratteristica del “New Yorker”, che per esempio pubblicava articoli su Marlon Brando e Truman Capote,enaturalmente ancheipezzidiPaulina Kael. Qualche settimana dopo incontro Tina Brownesuomaritoper una serata mondana, nella loro sontuosa casa della Cinquantasettesima Strada Est, a Manhattan. Improvvisamente, tra una coppa di champagne e l’altra, Tina mi dice, con quel tono di superiorità dellapersonanavigata: “A New York non si fanno amicizie, si stabiliscono contatti”. Durante la serata nell’Upper East Side, nel magnifico giardino privato vedo gli editori noti di New York, i direttori delle principali riviste, e ancheHenryKissinger, l’ex segretario di Stato diNixon,visibilmentea proprio agio in questo contesto. Di fronte a me ho un quadro vivente di ciò che è diventato il “New Yorker” durante il regnodiTinaBrown. Contrariamente a quanto si crede spesso in Europa, il “New Yorker” non è più il periodico dell’élite newyorkese senza vergognaperlapropria presunzione. È il giornale d’élite che se ne vergogna. I termini “Europa”,“snobismo”e “aristocrazia”, spesso sinonimi tra loro, vengono adoperati solo conironia. Ormai, la cosa importante non sono più le gerarchie culturali, ma il cool. Il “New Yorker” si propone come termometro del cool e come “trendsetter”, quello che stabilisce le mode. Tina Brown non è mai a corto di idee e ha inoltre lanciato i celebri numeri speciali del “New Yorker” chiamati “Next Issue”, una sorta di previsione delle mode che verranno e l’“oroscopo del cool” che pronostica ciò che diventerà hip in un prossimo futuro. Tina Brown ha un raro istinto per identificare the next big thing, ciò dicuituttiparleranno. In questo modo, il ruolo del critico culturaleècambiato,al “New Yorker” come ovunque negli Stati Uniti. I nuovi critici hanno il compito di valutare la cultura non solo in relazione alla qualità – valore soggettivo – ma anche alla popolarità – valore più quantificabile. Non giudica più, ma entra in conversation con il pubblico, come mi dice Tina Brown, senza rendersicontodicitare un’espressione di Pauline Kael. Arte, sesso, star, moda, prodotti, film, commercio, uomini politici (“Anche loro sono delle celebrità,” mi dice Tina), marketing, grande letteratura, nuove tecnologie, tutto è mischiato all’interno di un giornale in cui, fino a ieri, tutto era presentato secondo una gerarchia ed era distinto per compartimenti stagni. Se proprio deve esistere una gerarchia culturale, i pioli di questanuovascalanon risalgono dal popolare al qualitativo, ma dal molto “hot” al molto “squame” (scarso, contrario di cool). Tina Brown inventa la gerarchia della “hotness”. Prima degli altri e prima di internet, la direttrice del “New Yorker” ha capito le regole dell’intrattenimento in espansione: passaparola, velocità, hip, cool. Questi elementi sono la matrice del nuovo capitalismo culturale – e contribuiranno a diffondere la cultura americana ovunque nel mondo. Mi è tornata alla mente un’espressione di Tina Brown, pronunciata durante il nostro incontro al Junior’s e ripetuta a casa sua nell’Upper East Side: “New York fakery” (il lato falso e fittizio di New York). È l’impostura della vecchia élite della costa est, con valori snob, europei, fatta di artificiali distinzioni culturali. Contro questi atteggiamenti si sono scagliati una piccola donna dell’Ovest americano, Pauline Kael, e un’inglese diventata il primo impresario culturale degli Stati Uniti, Tina Brown. Ho recentemente appreso che l’inglese Tina Brown ha chiesto e ottenutolacittadinanza degliStatiUniti.Siamo sempre nel campo di quella “ambizione americana”. Tuttavia, i cambiamenti fatti registrare in questo periodo sono ben poca cosa rispetto a quelli successivi che si profilano quando a entrare in scena, dopo Pauline e Tina, c’è OprahWinfrey. IlmarchioOprah Lagrandeinvenzione della donna dei media più potente del mondo, Oprah Winfrey, è il “talk-show”. Questa donna è nata nel 1954 nelMississippiruralee in un contesto di grande povertà – in un appartamento senza acqua né elettricità – da una madre che faceva la donna delle pulizie e un padre minatore, diventato barbiere. Trascorre poi l’adolescenza nel ghetto nero di Milwaukee, nel Wisconsin. Recentemente ha rivelato di essere stata violentata da giovane, di aver assunto droghe “per amore di un uomo”ediesserestata incinta a quattordici anni(ilbambinoènato morto e non avrà altri figli). Grazie ai buoni risultati scolastici, riesce a entrare in un’università pubblica a maggioranza nera e comincia a condurre programmi radiofonici per una stazione locale di Nashville, nel Tennessee. La sua spigliatezza, il suo parlareconfranchezza, il modo diretto di intervistare gli ospiti sulla loro vita privata, la sua ironia rendono popolari i suoi primi talk-show. In seguito è assunta da una televisione locale di Nashville, poi di Baltimora, e nel 1983 arrivaaunatelevisione di Chicago con un grande seguito di pubblico. In poco tempo, The Oprah Winfrey Show da lei condotto diventa la trasmissione più guardata in città. La consacrazione del successo avviene grazie alla syndication, il sistema americano che permette a una radio o una televisione locali di vendere un programma a centinaia di altre emittenti del paese. Nel 1986, il suo talk-show pomeridiano, trasmesso “coast to coast” diventa un vero e proprio fenomeno, è guardato da milioni di americani in centinaia di città. Nasce il fenomeno“Oprah”. Certo, il talk-show, con vari formati, esisteva già. La novità di Oprah sta nell’aver datoaquestogenereil formato di “tabloid talk-show”,unasortadi versione televisiva mutuata delle interviste “terapeutiche” della stampatabloid.Intutto il mondo, Cina, India, Brasile,Camerunefino inEgitto,hoincontrato presentatrici televisive che imitavano Oprah. AnchenegliStatiUniti, nel giro di pochi anni, Oprah Winfrey è diventata una delle donne più note e più ricchedegliStatiUniti, è l’unica miliardaria neraamericana.Deveil suo eccezionale successoalformatodei talk-showcheleistessa ha inventato. Fa parlare le star, i rapper, gli ufficiali di polizia, i capi di stato stranieriothegirlnext door (la ragazza della porta accanto) dei loro problemi, ottenendo così confessioni pubbliche.Èunanuova forma di intrattenimentoincuiil pubblico diventa privato (Bill Clinton invitato a parlare della sua vita privata) e il privato diventa pubblico (un anonimo individuo è invitato a raccontare come ha picchiatolamoglie).La sua intervista a Michael Jackson nel 1983 è stata una delle trasmissioni più guardate nella storia della televisione americana, cento milioni di telespettatori. Oprah sostiene il selfimprovement: responsabilità personale, benessere, pensiero positivo, successo individuale, salute, buona armonia di coppia, decoro d’interni, ricette di cucina. “In pratica, il mio messaggio è questo: voi siete gli artefici della vostra vita,” spiega Oprah Winfrey. Ai suoi talkshow invita i parrucchieri delle star, Bill Gates, le escort e Nelson Mandela, medici specializzati in chirurgia estetica e un senatore repubblicano. Con finezza sa anche uscire dal semplice mainstream per affrontare temi sensibili: è femminista, molto favorevole ai gay, attenta alle questioni della droga e dell’abuso di farmaci, offre visibilità agli argomenti tabù. Lei stessa si fa scappare spesso qualche lacrima di fronte a situazioni descrittedaisuoiospiti – sinceramente commossa. Il suo show è una tribuna per l’autoaffermazione di sé: parla degli abusi sessuali di cui è stata vittima e lancia una campagna contro le violenze sessuali sui bambini (diventata legge al Congresso e soprannominata “Oprah Law”). Si occupa di diete e parla dell’ossessione della sua obesità (ha scritto un libro con il suo “coach” per spiegare come era dimagrita, come faceva sport e descriveva la sua passione per gli esercizi noti come pilates – un bestseller immediato). Quando tra i suoi ospiti ci sono uomini che si esprimono in toni misogini, omofobi o razzisti può anche diventare incredibilmente violenta in nome della sua storia personale di ex colored girl – espressione che usa per ricordare che una ragazza come lei era considerata una “persona di colore”. Di fronte a un uomo che, in studio, in una delle sue numerose trasmissionidedicateal matrimonio omosessuale dice di “essereesasperato”dai gay, dati i rischi che fanno correre ai ragazzi, Oprah replica: “Sa, io invece sono esasperata dagli uomini eterosessuali che violentano e sodomizzano le ragazze; questo mi esaspera”.Eilpubblico in studio si alza per decretarle una standingovation. Al 1058 West Washington Boulevard di Chicago si trovano gli studios Harpo (Oprah al contrario). Sono in quello che si chiama West Loop, un exquartiereindustriale ormaianonimo,aovest del centro della città, qui hanno sede numerose società di servizi. Il quartier generalediOprahèun largo edificio di mattoni beige e grigi su due piani, che occupa un intero blocco tra le vie Carpenter e Aberdeen. Sono colpito dall’apparente discrezione del luogo e da una lunga fila composta soprattutto da donne che attendono di poter entrare per assistere a una registrazione. Sopra l’ingresso principale si legge “OprahWinfreyShow”, una scritta semplice con lettere bianche, immagino in antitesi con l’ego smisurato di Oprah. Harpo Productions è un’attività ben rodata con 221 impiegati (di cui 70 donne), studios televisivieunapalestra in cui sembra si possa vedere la star fare il suo “work out” ogni mattina alle sette. Oprah passa diversi giorni della settimana nel suo quartiere generale e vive il resto del tempo in una lussuosa residenza a Santa Barbara in California. (Ho visitato gli studios di Chicago conildivietodicitarei miei interlocutori, mentreidiversiaddetti stampa di Oprah Winfrey non hanno risposto alle domande dellemieinterviste.) Harpo Productions è il vettore principale della macchina Oprah Winfrey, è una struttura che spiega i motivi della sua ricchezza ed è anche unabuonasintesidiciò che è diventato il settore audiovisivo americano. È una società privata, di cui Oprah è l’azionista principale e che più volte ha rifiutato, per mantenerne il pieno controllo, di rendere “pubblica”, ovvero quotatainBorsa. I programmi dei principali network televisivi americani sonoideati,sviluppatie creati da case di produzione indipendenti, come Harpo, che poi le “syndicano”vendendoi dirittiintuttoilpaesea emittenti che hanno l’esclusiva su un certo numerodi“mercati”(in generale una città o una precisa zona geografica). Il principale talk-show quotidiano di Oprah (ne conduce diversi) è diffuso principalmente dalle 215 antenne locali affiliate alla rete Cbs e alla rete Abc. È visto da circa sette milioniditelespettatori ogni giorno negli Stati Uniti (nel 1998 erano 14 milioni ma resta il talk-show più popolare della televisione americana) e dai 15 e ai20milionidipersone in 132 paesi. Su altri mercati, altre reti diffondono gli spettacoli di Oprah, talvolta nello stesso momento in “prime time”, talvolta in replica in “late time”, in relazione a contratti complessi, negoziati generalmente per più anni. Harpo Productionsmantieneil copyright e subappalta la distribuzione. A differenza di star della televisione che hanno spesso un contratto work for hire, per il quale il copyright è ceduto alla rete di distribuzione, Oprah Winfrey mantiene il controllo totale sulle sue trasmissioni. Peraltro ha da poco annunciato che dal 2011 cesserà il suo show principale per andare su un canale satellitare, chiamato Own (Oprah Winfrey Network). Dopo ventisei anni, Oprah prende atto dell’indebolimento dei principali network televisivi classici, abbandonaCbsecerca di raggiungere il suo pubblico via satellite e attraverso internet. Realizzando un altro canale con il proprio nome, riuscirà a rilanciarsi in un universo televisivo più frammentato? Riuscirà ad avere un nuovo pubblico mantenendo lozoccoloduro? Tra le sue diverse residenze e uffici, Oprah Winfrey dirige anche “O”, il suo magazine, e diversi altri giornali femminili (in joint-venture con il gruppo editoriale Hearst), gestisce un sito web di successo mondiale, oprah.com, produce commedie musicali per Broadway e film per Hollywood (harecitatoneIlcolore viola di Steven Spielberg e prodotto Beloved, dal romanzo di Toni Morrison – un fallimento). Fa filantropia, presiede una propria fondazione e si impegna, utilizzando denaro proprio e le trasmissioni, in battaglie contro l’Aids, la povertà, l’analfabetismo, per il sostegno ai rifugiati dell’uragano Katrina a New Orleans, finanzia una scuola per ragazze in Sudafrica – azioni generose di grande impatto, talvolta criticate per la loro ingenuità o la relativa inefficacia. Tutte queste attività di varia natura sono unite tra loro dal carisma e la natura self-centred di Oprah Winfrey che, intervistando gli altri, parla quasi sempre di sé. Oprah è diventata unmarchio. Oprah Winfrey è diventata anche un critico letterario. Alla fine del 1996 ha introdottonelsuoshow televisivo del pomeriggiounarubrica settimanale sui libri intitolata The Oprah’s Book Club. “Nel mio Mississippi natale, i libri mi hanno trasmesso l’idea che esisteva una vita oltre la povertà,” spiega Oprah. Questo “incontro” con i libri l’avrebbe salvata dalla miseria.Bastacheoggi nel suo talk-show parli di un classico, di un romanzo, di un libro di letteratura più raffinato che subito diventa un bestseller. Quasi sempre, il libro entra nella “New York Times Bestseller list” e vende un milione di copie (Oprah Winfrey non ha interessi economici sul successo deilibricheseleziona). Gli editori e i librai si rallegrano dell’“effetto Oprah”sullevendite,in un periodo in cui gli studi mostrano che la lettura di fiction è in declino negli Stati Uniti,malarubricache Oprah dedica ogni settimana ai libri è quella il cui ascolto è minore rispetto agli altri suoi talkshow quotidiani. John Steinbeck, Gabriel García Márquez, Tolstoj, Pearl Buck, Elie Wiesel, Cormac McCarthy (La strada), Jonathan Franzen (Le correzioni), Oprah Winfrey fa di tutta l’erba un fascio. Mette insieme romanzi d’appendice e grande letteratura, saggi sofisticati e manuali pratici. Cerca soprattutto gli hot books – quelli di cui tutti parleranno e che faranno il buzz mediatico. È anche fedele nelle sue scelte, seleziona in modo ossessivo la maggior parte dei romanzi dell’amica Toni Morrison, che avrà di certo venduto più libri grazieaOprahchenon con il Nobel per la letteratura. Durante l’estate 2005, Oprah Winfrey recensisce tre romanzi di Faulkner, tra cui L’urlo e il furore, invitando centinaia di migliaia di suoi fan – soprattutto donne tra i quaranta e i sessant’anni – a leggere questi romanzi generalmente considerati inaccessibili per un pubblico di massa. L’esito è molto inferiore rispetto ad altre sue selezioni, ma trecentomila persone avranno comunque letto grazie a lei, quell’estate, i romanzi di Faulkner. Oprah ha una missione, forse ingenua, ma non ipocrita: rendere accessibili le piccole e le grandi opere a un ampiopubblico. Se qualcuno ha contribuito a rimescolare i confini tra arte e intrattenimento, tra high culture e low culture in America, tra questi c’è proprio Oprah Winfrey con la sua trasmissione letteraria. “Ho voluto usare il mio talk-show siapereducarecheper divertire, per permettere alle persone di guardare la propria vita con occhi diversi,” dice Oprah in un’intervista.Inoltreha lanciato il Book Club, un vero e proprio fenomeno di società: ovunque in America, in città e villaggi, i suoi fedeli l’hanno imitata creandoilloroclubdel libropercondividerele loro esperienze di lettori (il suo sito web offre consigli per creare questi club e pubblica schede di approfondimento per facilitare la lettura). “Voglio che i libri faccianopartedeimodi divitadelmiopubblico e che la lettura diventi un’attività normale per loro, in modo che non sia più un big deal.” Ovunque, nei supermercati Wal-Mart del New Mexico, nelle librerie Borders del Wisconsin, nei Barnes &Nobledell’Alabamae negli Starbucks del Texas, e anche nelle biblioteche pubbliche del Mississippi, ho incontrato gruppi di donne che si incontravano a leggere e discutere insieme a partire dalla selezione letteraria del mese del Book Club di Oprah Winfrey. “Ogni mese c’èungruppodidonne che si dà appuntamento nello spazio bar della nostra libreriaperdiscuteredi unlibrodellaselezione diOprah.Discutonotra loro e contribuiscono a creare un’atmosfera di lettura che è molto importante per noi. Talvolta, quando è l’anniversario della nascitadiShakespeare, per esempio, portano una torta per festeggiare!” mi dice a Austin, nel Texas, Dan Nugent, responsabile della libreria indipendente Book People. È il genio di Oprah Winfrey di aver saputo dare a una trasmissione “didattica” e unilateralmente top down (dall’alto al basso) una funzione interattiva grazie a migliaia di Book Club creati spontaneamente dal suo pubblico in tutta l’America. Spesso considerato un piacere individuale, il libro ha ritrovato negli Stati Uniti una dimensione collettiva, se non una funzionesociale.Oprah è, letteralmente, un’animatrice culturale e una book crosser, unapassatricedilibri. Inuovicritici Pauline,TinaeOprah sonotredonnesimbolo accomunate tra loro dall’essere state protagoniste di una fase di profonde trasformazioni. Tra il 1968 e oggi la figura del critico culturale negli Stati Uniti ha modificato la propria natura in modo irreversibile. Con la fine delle gerarchie culturali e la mescolanza di generi tra arte e intrattenimento, il critico diventa un “passatore”, non è più un giudice. Prima era un gatekeeper, un guardiano del confine tra arte e intrattenimento e un tastemaker, colui che definisce il gusto. Oggi è invece diventato un gran “mediatore dell’intrattenimento”, un trendsetter, quello che fissa la moda e il buzz accompagnando i gusti del pubblico. I nuovi critici privilegiano il cool e, piùdiognialtracosa,il cool detesta le distinzioni culturali. E una volta abolite le classificazioni è difficile ristabilire qualsiasi gerarchia. Peraltro, chi la desidera? Per realizzare la mia inchiesta ho intervistato un centinaio di giornalisti culturali in trentacinque stati americani e mi è sembrato che il modo concuiconcepisconola loro professione oggi è moltodiversodaquello dei loro colleghi europei. Naturalmente ci sono ancora i guardianideltempioin riviste come “Film Comment” e “Chicago Reader”; ma nella grande maggioranza dei casi, il mestiere di giornalista culturale è profondamente cambiato.Nonsitratta più di critici, ma di professionisti che fanno interviste, raccontanolavitadegli attori, si occupano di rumors e di buzz. I nuovi critici devono mettersi al livello dei lettori, essere “easy” (“I’m easy”, sto col pubblico, mi dice un critico a Miami). Giudicano il piacere (“having fun”, mi dice un critico del “Boston Globe”). Parlano delle novità e delle neverbefore-seen images, le immagini che non si sono ancora viste, per esempio: il primo episodio di Guerre stellari, i corpi galleggianti nell’oceano in Titanic, la scena iniziale di Toy Story e Matrix, le immagini in 3D di Avatar. I critici pronosticano le impressioni che avrà una determinata comunità rispetto a un film che la coinvolge: i cristiani con Passion, i gay con I segreti di Brokeback Mountain, i latinos con l’ultimo albumdiShakira,ineri conl’ultimofilmdiWill Smith, gli ebrei con la pièce di Tony Kushner AngelsinAmerica.“C’è una specificità americanacheconsiste nell’andareavedereun film in base alla propria vita, un film in cui riconoscersi e che richiama la propria comunità,”constataJoe Hoberman,ilprincipale critico di cinema del “Village Voice” a New York. “Oggi il critico è un consumer critic: come il critico di automobili o gastronomico, dice al consumatore come spendere bene il proprio denaro nel divertimento, mentre ieri il critico del ‘repertorio’ era al servizio dell’arte,” mi conferma Robert Brustein, critico teatrale di “The New Republic” e influente uomo di teatro. “La realtà è che i critici, che erano sempre più corrotti, sparivano ed erano sostituiti dall’attività di promozione, che è sempre più manipolatrice. Ecco a chepuntosiamo!Tutto ciòhaun’unicacausa:i critici hanno cominciato a pensare che l’audience e il botteghino fossero buoni criteri di giudizio. Per dirla in modo più neutro, direi cheilcriticoamericano ha una scala di valori calcata su quella dello spettatore rispetto ai suoi colleghi europei,” mi confida, a Chicago, Jonathan Rosenbaum, uno degli ultimi veterani negli Stati Uniti della critica del cinema“all’europea”. Al “Boston Globe”, “San Francisco Chronicle”, “Chicago Tribune”, “Los Angeles Times”igiornalistiche ho incontrato scrivono sempremenocritichee fanno sempre più reportage, la cultura è dunque trattata come attualità da scoprire e non più come arte da giudicare. La maggior parte dei quotidiani ha un servizio Arts & Entertainment, che comprende generalmente televisione, cinema, musica pop (raramente la musica classica) e divertimenti. “Molte persone credono che il nostro supplemento ‘Art and Life’ sia guidato dalla pubblicità. Si sbagliano. Siamo guidati dai nostri lettori,” spiega Joanna Connors, giornalista culturale al “Plain Dealer” a Cleveland, nell’Ohio. Anche nei giornali della costa est, che si presume siano più elitari, i critici contemporanei hanno un’autentica passione perlaculturapopolare, molto visibile, per esempio, al “New York Times”. A Times Square John Rockwell, già critico di rock poi di musica classica del giornale e attualmente critico di danza – un percorso davvero emblematico in quanto a commistione di generi–,constata:“C’è una sorta di fede, di entusiasmo per la cultura popolare al ‘New York Times’. Si dà per esempio molto spazioallesitcomealla televisione. Ci si mette al livello della gente: il critico è un regular guy, un ragazzo normale, che parla di filmemusicaaregular people, a gente normale. E chi si occupava solo di high culture e aveva un po’ di disprezzo per la cultura popolare oggi verrebbe visto come una persona che tradisce lo spirito popolare democratico dell’America”. Il concetto di commistionedeigeneri non ha peraltro sintesi migliore della sala per concerti che ospita la Los Angeles Philarmonic: la Walt DisneyConcertHall. Nella sede del “New York Times” ho incontrato anche l’editorialista di terza paginaFrankRich,che èinvecedispiaciutoper questa situazione: “Sono diventato critico teatralenel1980.Sono riuscito a ottenere il lavoro che sognavo, proprio quando il sognostavafinendo”.È un critico considerato sofisticato, eppure fa ciò che fanno gli altri: commenta l’attualità basandosi sulla cultura americana popolare e rende settimanalmente conto di “cultura nelle news”. “Scrivere di Debussy e di hip-hop, questa è l’America. Un criticodevescriveresu tutto. Mettere insieme cultura e opere commerciali è una vecchiatradizionedegli Stati Uniti. Ciò che è nuovo è che il marketing, il denaro, il business interessano tanto i critici quanto le opere.” A Miami, incontro Mosi Reeves, un giovane nero caporedattore del settore“popmusic”del giornale alternativo “Miami New Times”. Secondo lui, la gerarchia high e low è ormaiprivadisenso,“è stataabolitadaPauline Kael”, mi dice. Poco dopo bevo qualcosa in un bar all’aperto, con un sottofondo di “tropical pop” (in particolare Gloria Estefan, artista cubano-americana crossover per eccellenza), nella notte calda di Miami Beach, con due giornalisti del “Miami Herald”, il quotidiano per un ampio pubblico della FloridadelSud.Evelyn McDonnel si definisce un critico pop culture mentre Jordan Levin segue la musica latina. “Un punto di vista troppo netto, troppo impegnato è sempre meno opportuno nella stampa mainstream,” mi dice Evelyn. “È meglio dare informazioni che formulare giudizi. Noi ci basiamo molto su sondaggi che chiedono ai lettori ciò che si aspettano da un giornalecomeilnostro. E noi diamo loro ciò che vogliono: interviste, anteprime che annunciano gli eventi, profili di star e sempre meno critiche. Le persone vogliono farsi un proprio giudizio, non vogliono conoscere il nostro.” Jordan Levin fa osservare invece che “molti abitanti di Miami non parlano inglese, dunque le recensioni di libri e film a loro non interessano. Ci si occupadipiùdimusica e cinema. È meno snob”. Evelyn mi informa che al “Miami Herald” c’è un giornalista che si occupa, nel contempo, sia di settore immobiliare sia di intrattenimento. “Segue i due ambiti,” aggiunge sorridendo. Trovo questa informazione sublime e gli prometto di darla nelmiolibro. La critica dei libri è dunque sempre più rara. Peraltro non si parla più di “letteratura” ma di “fiction”, non più di storia o di filosofia, ma di “non-fiction”. “Il termine letteratura evoca la scuola, dà un’immagine di serietà e non di fun, leggere fiction è più divertente,” mi spiega un giornalista del “Boston Globe” (quotidiano che in ogni caso continua ad avere un buon supplemento letterarioladomenica). Se ormai sui giornali americani non ci sono molti articoli di critica letteraria, tutti hanno invece professionisti di critica “digitale” all’interno delle pagine Art & Entertainment, che parlano di cultura digitale e dei relativi prodotti tecnologici – uno dei più letti è Walter Mossberg del “Wall Street Jornal”. Il web ha accentuato questeevoluzionie,sui siti internet dei media, l’unionedeigeneriela fine delle gerarchie culturali sono ormai la regola. Ciò che conta è l’argomento dei numeri. È la stessa cosa che accade come per le guide Zagat [il corrispettivo americano della guida Michelin in Europa, N.d.T.] per i ristoranti che devono il successo delle loro offerte culinarie non alle impressioni di critici gastronomici, ma alle migliaia di lettori che danno il loro parere attraverso questionari. Nelle pubblicità per film e libri all’interno dei giornali, i giudizi dei critici sono sostituiti dai blurbs: “The Best Family Film This Year”, “Holiday Classic”, “Wow!”, “Absolutely Brilliant!”, “Hilarious!”, “One of theBestMoviesEver!”, “Laugh-Out-LodFunny” o le famose quattro stelle. I due più celebri critici cinematografici negli Stati Uniti sono Robert Ebert e Gene Siskel della trasmissione At the MoviessuAbc(loshow èstatocreatonel1986 ed è di proprietà di Disney). Hanno inventatoilsistemadel “TwoThumbsUp”,due pollici in alto. Ebert e Siskel giudicano i film semplicemente con i loro pollici, ovvero con un totale possibile di solitrevoti:duepollici in alto se entrambi hanno apprezzato il film, due pollici in basso se non gli è piaciuto e un pollice in alto e uno in basso se sono discordi. Così lo spettatore può sapere seilfilmèunmust-seefilm(unfilmdavedere) oppure un turkey (una pizza). Dopo la morte di Siskel e il pensionamento di Ebert, lo show è stato ripresonel2009dadue giornalisti del pop, uno dei due è il caposervizio cinema del “New York Times”, A.O. Scott. Ora tocca a luialzareoabbassarei pollici. Al posto dei critici d’arte, i giornalisti che vanno per la maggiore oggi negli Stati Uniti sono quelli dell’intrattenimento. Alcuni giornali primeggianoneisettori cinema e televisione: “Premiere”, “Entertainment Weekly”, “The Hollywood Reporter” e “Variety”. I primi due sono riviste per un pubblico di massa, parlano di star, film di successo, buzz. La parte riservata alle critiche è molto limitata (bisogna arrivare a pagina 96 di “Entertainment Weekly” per leggerle e terminano a pagina 103). Gli ultimi due, soprattutto “Variety”, sono giornali per addetti ai lavori che pubblicano i risultati dettagliati del boxoffice e informazioni spesso “prive di fonte” a partire da fughe di notizie trasmesse da Hollywood. A Los Angeles vado negli uffici di “Variety” su Wilshire Boulevard. Ci si può abbonare sia all’edizione quotidiana, che leggono religiosamente tutti i responsabili del mondo del cinema e della televisione (su carta patinata e non di giornale: siamo a Hollywood), sia alla selezione settimanale diffusa soprattutto all’estero. Ciò che mi ha sempre colpito di “Variety” è lo stile rapido, il linguaggio specializzato, anche se poco artefatto, con molte abbreviazioni e per questo poco accessibile per lettori pocoespertiinmateria. “Si dice spesso che noi scriviamo in ‘Variety’s lingo’ una lingua nostra,” mi spiega nell’immensasaladella redazione in open space alla sede del giornale, Steve Chagollan,cheèsenior editor a “Variety”. Mi regala anche lo Slanguage Dictionary, un dizionario di slang utilizzato da “Variety”. In ogni caso, “Variety” è una necessità quotidiana non per il suo stile, né per le informazioni segrete, ma per le decine di tabelle dei risultati del botteghino hollywoodiano, nazionale e internazionale, per i Nielsen Tv Ratings sull’audience televisiva del giorno prima, per i pareri dei critici cinematografici della stampa nazionale (riassunti in sole tre categorie, “per”, “contro”, “moderato”) e per le molte brevi notizie sui progetti in corso e le riprese annunciate. È presente anche il teatro di Broadway (chiamato “Legit”) con una propria sezione che riporta, ancora una volta,gliincassidiogni commedia musicale, il numerodispettatoriei risultati di Broadway “on the road”, ovvero le repliche in tutto il paese. Questo culto per i dati non è una prerogativa solo di “Variety”; anche il magazine “Billboard” segue la stessa linea per la musica a partire dai dati compilati da Nielsen SoundScan e diffusi tutti i mercoledì verso le due del mattino. Tutte queste classifiche contribuiscono a legittimare il successo di un artista o di uno scrittore attraverso le vendite. Ripresi da televisione, radio e in tempo reale da numerosi siti web, questi numeri, negli Stati Uniti, sono considerati come una sorta di giudizio del pubblico,criterioincui si uniscono successo commerciale e legittimità democratica. Il mercato mainstream, spesso guardato con sospetto in Europa come nemico della creazione artistica, ha acquisito negli Stati Uniti uno status elevato poiché è considerato il risultato di scelte reali del pubblico. In un’epoca di valori relativi, e allorché tutti i giudizi critici sono considerati frutto di pregiudizi di classe,ilsuccessodelle vendite sembra un criterio neutro e più affidabile. Si può semprediscuterediciò cheèbelloobrutto,ma nonsipuòdirenulladi fronteaidatidiNielsen SoundScan,“Variety”o “Billboard”. Eppure, ci sarebbe moltodadiscutere.Per esempio, il botteghino detto del “premier weekend”perilcinema è pubblicato da “Billboard” il lunedì mattina, mentre i dati del fine settimana, ovviamente, non sono stati ancora tutti contabilizzati. Inoltre, questi dati provengono daglistudios,chefanno delle estrapolazioni a partire dai dati reali ricevuti dai distributori il sabato. In seguito, i dati pubblicati sono corretti con i dati aggiornati (detti “the actuals”), ma tutti ricorderanno che il secondo episodio di unasagaavràbattutoil primo, anche quando nonèvero. Sul fronte dell’editoriaamericana, è noto oggi, grazie a un’inchiestadettagliata pubblicata dal “New York Times”, che tutte le selezioni e le disposizioni dei libri all’internodellagrande distribuzione, tipo Barnes&Nobleosugli scaffali dei libri negli ipermercati Wal-Mart, ma anche nelle grosse librerie indipendenti, sono “programmate” con gli editori, che pagano i negozi per mettereinrilievoiloro libri. La stessa cosa accade con le famose “teste di gondola”, la selezione proposta verticalmente in testa ai reparti dei supermercati. Anche i tavoli e gli stepladders (espositori) all’entrata dei negozi, in cui si trovano le novità, i “migliori” libri e le “migliori”vendite,sono “sovvenzionati” a caro prezzo dalle multinazionali dell’editoria. Questi successi sono dunque fasulli, la selezione è fatta dal denaro, senza alcun legame con le sceltedeilibraioidati reali delle vendite. Sul piano finanziario, questosistemadelpayfor-display (pagare per essere mostrati) non si quantifica generalmente in pubblicità, in acquisto di spazi, ma in percentuale per le librerie sulle vendite realizzate (dal 3 al 5 per cento in più secondo gli accordi stipulati, spesso in segreto, a latere delle leggi anticoncorrenza). Il gigante americano Amazon, sul suo sito, ricorre ampiamente a questo sistema e tutti i libri proposti sulla home page gli permettono di raggranellare incassi superiori. Al posto degli articoli delle critiche letterarie, sempremenofrequenti negli Stati Uniti, i lettori si fidano ormai delle “selezioni”, che hanno la pretesa di essere indipendenti, ma che sono di fatto acquistate dalle multinazionalidellibro. In inglese è stato trovato un bell’eufemismo per definire questo marketingtravestitoda spirito critico realizzatotranegozied editori: cooperative advertising agreement. Nell’ambiente si parla semplicemente di accordi“co-Op”.Suona meglio. Sono al ristorante Odeon, nel quartiere Tribeca di New York. Ho appuntamento con Steven Erlanger che dirige le pagine culturalidel“NewYork Times” (poi ha assunto la direzione dell’ufficio diTelAviveinseguito di Parigi). Mi fa un breve quadro delle tappe della rivoluzione avvenuta. La fine delle gerarchie culturali, l’ascesa delle industrie dei contenuti, l’indebolimento degli indipendenti uniti ormai alle major, il dominio del cool, dell’hip e del buzz, la cultura trasformata in commodity (merce). Ma insiste anche sulla diversità culturale che haavutosecondoluiun ruolo importante nell’indebolimento del modello europeo: “Diventiamo sempre piùcolorful”,dice. Secondo Steven Erlanger siamo solo all’inizio di questo processo. “Assumere realmenteilruolodella diversità, l’ascesa di internet e l’affermazione della globalizzazione possono rafforzare questa dinamica.” Si riferisce al processo di deintermediazione prodotto dal web che elimina gli intermediari. Evoca i paesi emergenti che rovescerannoancoralo scenario. Tutto ciò contribuisce, secondo lui, a rafforzare l’americanizzazione della cultura in tutto il mondo. Gli Stati Uniti sono il paese per eccellenzadiinternete quello che accoglie le minoranze dei paesi emergenti. E l’Europa? “Non occupandosi abbastanza di culture popolari, intrattenimento, industrie creative, mercato e diversità etnica, l’Europa sta vivendo una grande stagnazione culturale,” conclude il capo dei servizi culturali del “New York Times”, al ristoranteOdeon. Attornoanoi,cisono i bus boys messicani, quelli che portano i piatti, ma non prendono ordinazioni. In cucina vedo i neri, i nostri camerieri sono bianchi: mi dico che probabilmente sono attori in “divenire”. In questa brasserie hip del quartiere cool di Tribeca a New York, sono tra Europa e America. Un critico gastronomicodel“New YorkTimes”hadefinito l’Odeon con una formula: “European sophistication, American Abondance”. Atmosfera raffinata, cibo abbondante; qualità e quantità; Europa e America. Sempre la famosa ambizioneamericana. Steven Erlanger mi dice che “in questa brasserie, Jay McInerney ha ambientato il celebre romanzo Le mille luci di New York”. È un libro tipicamente americano, orgoglioso e sofisticato, che PaulineKaeldetestava, Tina Brown adorava e di cui Oprah Winfrey nonhamaiparlato. 8. Usc,l’universitàdegli studios “Reality ends here.” Su un edificio all’ingresso della University of Southern California di Los Angeles si trova scritto l’ambizioso motto “La realtà finisce qui”. La scritta che sancisce il passaggio dalla vita veraallafinzionesegna l’ingresso del campus dell’Usc, la scuola di cinema più famosa degliStatiUniti. “George Lucas, Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg, David Geffen lavorano tutti qui da noi, fanno da consulenti, insegnanti, sono membri del nostro consiglio d’amministrazione. Fanno tutti parte della comunità dell’università,”midice conuntoccodifierezza Elizabeth Daley, che ricopre il prestigioso ruolo di dean di Usc (l’equivalente del rettore). All’incrocio tra la Santa Monica Freeway eHarborFreeway,due autostrade a sud del centro di Los Angeles, il campus di Usc si è allargato su diversi ettari. Ormai è un luogo amalgamato con la città, è attraversato dal traffico locale e ha perso il fascino del campus “chiuso” come quelli di Princeton, Yale, Duke, Harvard, Dartmouth, Stanford e della vicina, e principale concorrente, Università della California, Los Angeles (Ucla). Ma Usc ha una rinomanza che queste altre università le invidiano: gli stretti legami che intrattiene conHollywood. “Siamo una scuola che crea professionisti, qui hanno studiato Frank Capra, Francis Ford Coppola, George Lucas e molti altri e ogni anno almeno uno dei nostri ex allievi riceve una nomination agli Oscar. Ma la nostra filosofia non si basa su un lavoro strettamente individuale d’autore. Fare un film è un lavoro collettivo,” spiegaElizabethDaley. Nel suo spazioso ufficio, identificato come “Lucas 209”, situato nel vecchio edificioGeorgeLucase le cui finestre danno sul nuovo George Lucas Building, decine di fotografie la ritraggono con grandi nomi e con le star di Hollywood. Usc non è alla periferia di Hollywood, centro. ma al Per comprendere la potenza delle industrie creative negli Stati Uniti, nel cinema come nella musica, nell’editoria o in internet, è necessario studiare le università americane. Negli Stati Uniticisonooltre4000 istituti di studi superiori, tra cui 1400 università; a questo settore è destinato circa il 3 per cento del Pil, mentre in Europa l’insegnamento secondario è un terzo di quello americano e riceve, in media, l’1,5 per cento del Pil. Contrariamente a quantospessosicrede, il sistema universitario americano non ha un mercato legato al settore privato: il 77 per cento delle università statunitensi sono pubbliche e generalmente finanziate da uno dei cinquanta stati (è il caso della Ucla, di Berkeley e dell’Università del Texas di Austin). Gli altri atenei non sono aziende con fini commerciali, ma associazioni senza scopo di lucro (Harvard, Yale, Stanford, Usc). Tutte queste università, pubbliche o gestite senza scopo di lucro, sonoinognicasomolto onerose per gli studenti che devono accollarsi rette esorbitanti,trai20.000 e i 40.000 dollari l’anno, per esempio alla Usc (escluso l’alloggio, la cifra varia a seconda dei titoli e dei livelli di studi). Gli studenti hanno comunque accesso a borse di studio e impieghi remunerati (“work-studies”), questo spiega il paradosso delle università americane che sono, nel contempo, più costose e socialmente più diversificate delle equivalenti europee. L’82 per cento dei giovani accede agli studi superiori negli Stati Uniti (mentre la percentuale stagna al 59 per cento in Inghilterra, al 56 per centoinFranciaeal48 percentoinGermania). Al contrario, se l’accesso all’università èpiùapertonegliStati Uniti che altrove, il numerodistudentiche escono diplomati dopo tre anni è in declino, soprattutto nelle università pubbliche e nei corsi brevi dei community colleges (menodel50percento in media attualmente, uno dei tassi più negativi tra i paesi industrializzati, esclusa l’Italia che fa anche peggio). Le graduate schools, di secondo e terzo ciclo, mostrano risultatimigliori. È sempre difficile fare un confronto a partire da dati stastistici, ma un fatto è incontrovertibile: i campus americani hanno una vitalità culturale eccezionale. Allorointernoospitano complessivamente 2300 sale di teatro e musica, 700 musei d’arte e gallerie di professionisti, centinaia di festival di cinema, 3527 biblioteche (di cui 68 con oltre 2,5 milioni di libri, tra cui quella di Harvard che è la secondaalmondodopo la biblioteca del Congresso), 110 case editrici, circa 2000 librerie, 345 sale per concertirock,oltre300 radio universitarie e altrettante etichette di musica indipendente. Questo contesto generale crea un ambiente favorevole alla creazione e relazionicostanticonle industrie creative, comeaccadeallaUsc. “Tra i nostri docenti ci sono solo professionisti dell’industria del cinema e della televisione,” prosegue Elizabeth Daley, “e gli studenti sono continuamente spinti a lavorare all’interno di queste industrie. Chi viene alla Usc ama Hollywood. Non ha paura, non ha alcuna reticenza a lavorare in uno degli studios, al contrario è il suo obiettivo. Qui i professionisti vanno incontro agli studenti. Talvolta, uno studente ottiene improvvisamente, nel corso degli studi, poiché è stato individuato da un docente, uno stage o un impiego alla Disney o DreamWorks: allora lo lasciamo andare, e l’anno dopo torna da noi. Siamo molto flessibili.” La scuola di cinema Usc, che conta 1500 studenti, non è una scuola di attori. Le più prestigiose sono quelle di Harvard, Yale e Columbia. Le specializzazioni di Usc sono soprattutto l’economia, la regia, il digitale,ilmontaggio,il suono. Solo nel dipartimento “produzione di film” ci sono150docenti,dicui 50 a tempo pieno, per soli 600 studenti. Visitando il campus, si ha subito un’idea dei mezzi a disposizione deglistudenti:ciascuno ha un ufficio personale accessibile ventiquattr’ore su ventiquattro. L’università è organizzata come una vera e propria casa di produzione, teoria e pratica vanno sempre di pari passo, e vengono impiegate risorse interne per realizzare veri e propri film: lo studente addettoallaproduzione coordina un progetto realizzato dallo studentediregiaincui recitano attori professionisti e le riprese sono fatte da giovanichestudianoda cameraman ecc. Sotto il profilo tecnico, tutta lastrumentazionedegli studi, dalle sale di montaggio fino alle mix-rooms, passando per le editing rooms, è all’avanguardia ed è stataregalataaUscda Sony, Hewlett Packard eIbm. Sulla sinistra del campus si succedono gli edifici: Steven Spielberg Music Scoring Stage (sala di registrazione per colonne sonore), Carlson Television Center, Jeffrey Katzenberg Animation Building (studio riservato ai film d’animazione), Usc Entertainment Technology Center e, un po’ oltre, Stanley Kubrick Stage. Al centro, vicino agli edifici della direzione, c’è il “magazzino” in cuiglistudentipossono liberamenteprenderea prestito e senza autorizzazione una delle 80 cineprese Arriflex 16mm, una delle 50 cineprese Mitchell 16mm, o una delle 300 telecamere digitali. Nel cuore del campus, vanto degli studenti, c’è il nuovo edificio intitolato a George Lucas. Offrendo175milionidi dollari nel 2008 per la realizzazione di questo prestigioso edificio, Lucas, proprio come Luke Skywalker alla fine del primo episodio di Guerre stellari che compie il suo destino diventando uno jedi, è stato nominato padrino principale di Usc. Per spiegare questo dono filantropico di grande impatto, velocemente definito a Los Angeles un “blockbuster gift”, George Lucas ha risposto semplicemente: “Ho scoperto la mia passione per il cinema negli anni sessanta quando ero studente alla Usc, le mie esperienze al campus hanno forgiato tutta la mia carriera. Sono molto felice di poter aiutare oggi la Usc a continuare a formare i registididomani,come Usc ha fatto con me”. (Oltre a Lucas, anche gli studios Warner Brothers, Fox e Disney hanno finanziato questo edificio, con sale per corsi di montaggio, per cifre pari a 50 milioni di dollari.) Più lontano, all’interno del campus, visito la Doheny Memorial Library, la biblioteca della Usc, checontienegliarchivi di numerosi cineasti, produttori e, per esempio, tutti gli archivi di Warner Brothers. Molti edifici sono imponenti, hanno mantenuto parte della “grandeur” delle Olimpiadidel1984,che sono state disputate all’interno di questo campus. Al dipartimento di Scrittura delle sceneggiature, mi riceve il direttore, Jack Epps Jr., anche lui un professionista(èautore della sceneggiatura di Top Gun). “Qui si insegna agli studenti a essere scrittori prima di diventare sceneggiatori. Non ci sono regole per scrivere un buono script,nonaiutiamogli studentiasvilupparele tecniche, ma li lasciamo anche molto liberi.” Alla Usc, i percorsi di formazione hanno un’ottica spiccatamente interdisciplinare e i futuri sceneggiatori ricevono una formazione anche sulla produzione e la realizzazione affinché si rendano conto, mi spiega Jack Epps, di cosa significhi concretamentegirareil film che hanno scritto. Il loro compito principale è realizzare pitchtelevisiviepilotes cinematografici, come accade nel mondo reale.Conserietà,eun briciolo d’ironia, Jack Epps aggiunge: “Abbiamo anche un corso specializzato in re-writing, in cui gli studenti riscrivono le sceneggiature di altri studenti considerate insoddisfacenti. Può essere utile, poiché a Hollywood il re-writing è un mestiere vero e proprio”. Gli sceneggiatori di serie comeGrey’sAnatomye The Sopranos, insieme ad altri, sono ex allievi dell’università e intervengono regolarmente docentiall’Usc. come I film realizzati al campus sono numerosissimi e tutti gli esami e i diplomi consistono nella presentazione di un prodotto culturale professionale finito. Gli studenti ottengono un budget per girare questi film: in media, ciascuno riceve 80.000 dollariperfareunfilm, finanziato dal dipartimento Business di Usc in cui gli studenti-produttori raccolgono fondi per studenti-registi. La maggiorpartediquesti film è girata con attori professionisti e, grazie a un agente della WilliamMorrisAgency, sono proiettati in alcuni festival per addetti ai lavori, soprattutto al Sundance, l’alternativa “indipendente” di Hollywood.“Ognianno, ricevo centinaia di film provenienti da queste scuole di cinema, alcuni sono film collettivi, altri molto personali, raccontano storie sorprendenti e diverse, spesso scritte da latinos, neri, gay. Qui c’è nuova linfa per il cinema americano,” conferma Geoffrey Gilmore, ex direttore del Sundance Film Festival, intervistato a LosAngeles. Questi scambi tra università e mondo culturale reale sono continui sia nel cinema sia nella musica e nell’editoria.Quandosi visitalaUscolescuole concorrenti, come la Ucla e la Tisch School di Nyu, si resta colpiti dall’energia, dalla costante innovazione e dalla creatività degli studenti. Una delle chiavi del sistema culturale americano è la moltiplicazione dei contatti tra queste università e la cultura underground che le circonda: le piccole gallerie d’arte universitarie, le centinaia di radio e televisioni libere dei campus, le migliaia di festival di cortometraggi in tutti gli Stati Uniti, gli showcase di teatro sperimentale di off-off Broadway,lemiriadidi club e di cabaret più o meno loschi con gli “open mic session”, i laboratori di “creative writing” nel vicino incubatore d’arte. Ovunque, vicino ai campus, ci sono bar “arty” che propongono proiezioni di film e ristoranti vegetariani con un retrosala in cui si fanno concerti alternativi di rock ibrido o rap latino. Spesso ho trovato piccoli negozi che vendonodvdamatoriali o librerie che, per sopravvivere, si sono trasformate in caffetterie e propongono letture di sceneggiatureepoesie. Questa vita artistica è chiamata “street-level culture”, in essa si fatica a distinguere il professionista dall’amatore, il partecipante attivo dall’osservatore, omogeneitàediversità, arte e commercio. In tutti i campus ho visto questo dinamismo culturaleincredibile:la cultura è messy (incasinata), off hand (disinvolta), fuzzy (confusa) e sempre indie(indipendente). Il mercato invece sa sempre recuperare perfettamente a proprio vantaggio questenicchieculturali e comunitarie: a dispetto, forse, delle loro stesse intenzioni, moltidiquestistudenti “indipendenti” contribuiscono in fin dei conti a nutrire le industrie creative, saranno introdotti nel commercio e, a partire da un’arte autentica senza scopo di lucro, finiranno per produrre cultura mainstream. L’America ci prova che spessoèdifficileessere commerciali solo a metà. Ricercaesviluppo La questione principale tuttavia è un’altra. Negli Stati Uniti, le università non sonosoloiluoghiincui emerge la cultura alternativa, ma fanno ormai parte del settore Ricerca e Sviluppo (R&D) delle industrie dei contenuti. Nei campus gli studenti assumono rischi, innovano, fanno sperimentazioni che saranno poi riprese e sviluppatedaglistudios e dalle emittenti televisive. In un’efficace divisione dei compiti nel campo dell’R&D, gli studenti seguono l’ambito “R” e le major il “D”. Questi legami con le industrie non sono fortuiti, ma vengonoincoraggiati. Un Office of Student Industry Relations, nel campus di Usc, organizza questi rapporti con l’industria del cinema e della televisione per tutto l’anno, attraverso stage, lavori estivi, ma anche master classes, “guest lectures” e offerte di lavoro. La maggior parte degli studenti di Usc che ho incontrato sono già stati D-Man o D-Girl, espressione spesso usata per dire “Development-People” (una sorta di aiuto regista o assistente di produzione).Glistudios eletelevisionipossono così reclutare all’interno del campus studenti che corrispondono meglio alle loro attese e farli lavorare, durante la loro formazione, sulle sperimentazioni di cui hannobisogno. Le regole per la collaborazione con le industrie sono comunque molto precise.Ilcopyrightdei film e i brevetti innovativi realizzati nel campus dagli studenti restano di proprietà della Usc e non dello studio che li ha finanziati. Nonostante le apparenze, la Usc continua a essere un ambito senza scopo di lucro, non inserita nel mercato. Questo aspetto è decisivo ed emerge quando si discute a lungo con gli studenti di Usc e con quellidellealtrescuole di cinema (ce ne sono oltre 1500 negli Stati Uniti). Tra le più famose, c’è la Ucla nella zona ovest di Los Angeles, che si occupa più di cinema indipendente che di studios; la scuola CalArts (California Institute of Arts) nel Nord di Los Angeles che forma soprattutto artistidelcinema(John Lasseter di Pixar, ex allievodellaCal-Arts,è il creatore di riferimento); la Tisch School alla New York University, che si interessa di cinema indipendente ed europeo (e il cui cineasta di riferimento non è George Lucas, ma Spike Lee); o ancora l’Università del Texas a Austin, che cerca di specializzarsi nel cinema digitale. “Il nostroobiettivononèil mercato, ma l’esperienza dei nostri studenti, che peraltro da noi continuano a detenere il copyright deilorofilm,”conferma Tom Shartz, intervistato in Texas, dove dirige il dipartimento di Film, radio e televisione dell’Università del Texas a Austin (ma questa ha recentemente fatto accordiconunasocietà di produzione privata, Burnt Orange Productions, per mettereincommercioi lavorideglistudenti). Tutte le scuole di cinema hanno studi digitali professionali tanto quanto quelli delle major di Hollywood perché le attrezzature sono state finanziate dagli studios, per esempio quellidiUscdaGeorge Lucas, quelli di CalArts da Disney, quelli di Ucla da DreamWorks. Ma queste università hanno anche numerosi legami con le start-up dell’intrattenimento e del digitale: quelle della California sono vicine alla Silicon Valley;HarvardeilMit sono costantemente in contatto con le società del “corridoio” dell’innovazione tecnologicadellaRoute 128; Duke University è situata in prossimità dell’“hub” tecnologico di Raleigh in Carolina del Nord. Più spesso ancora, gli studenti, che sono persuasi che siamo vicini alla smaterializzazione del cinema, continuano a fare sperimentazioni all’interno dei laboratori It delle università e girano i loro film con piccole telecamere in Dv (Digital Video) il cui prezzoabbordabileela grande facilità d’uso contribuiscono all’aumento dei progetti e a una nuova creatività. Tutti conoscono il film The Blair Witch Project che metteva in scena alcuni studenti americani di cinema che si sono persi nella foresta proprio mentre giravano il loro film. Realizzato con una telecamera rudimentaleper35.000 dollari, il film è stato presentatoalSundance Film Festival e promosso soprattutto attraverso internet – il primo caso decisivo di marketing quasi interamente online. Ha fatto registrare 248 milioni al botteghino mondiale nel 1999. Quell’anno i dirigenti degli studios hanno finalmente capito, grazie a questo modesto progetto fatto da studenti, che la rivoluzione di internet avrebbe sconvolto Hollywood. “Con The Blair Witch Project l’incertezza e la paura ci hanno sconvolto, letteralmente – e da alloranoncihannopiù lasciato,” mi conferma un dirigente della Universal a Los Angeles. Nel cuore delle scuole di cinema americane si fa anche ricerca nell’ambito della creazione digitale. L’It-Arts, per esempio, è al centro dei programmi della Usc così come della Ucla. “Il nostro insegnamento è completamente flessibileeciadattiamo ogni anno alle evoluzioni dei media. Cambiamo i nomi dei nostri corsi in continuazione, in modo da essere sempre in anticipo sugli studios sul fronte delle nuove tecnologie,” dice Elizabeth Daley, la preside di Usc. Ancora una volta, anche nel campo del digitale, le università si configurano come il settore ricerca e sviluppodeglistudios. All’Interactive Media Division e al Robert Zemeckis Center for Digital Arts, un po’ all’esterno verso nord dal campus di Usc, Kathy Smith, responsabile del digitale, mi mostra le sale di montaggio digitale e le sale 3D. “Ogni studente, alla fine del Master of Fine Arts, deve fare una Digital Dissertation,” mispiegaKathySmith. “Per esempio, gli studenti realizzano il designdiunsitowebo contribuiscono allo sviluppo di un nuovo software per Pixar, DreamWorks o Sony. Gli studios li sponsorizzano e finanziano le loro ricerche.” All’ingresso dell’edificio del centro digitale di Usc c’è la lista dei donatori che l’hanno finanziato: George Lucas e Lucasfilm, come ovunque nel campus, ma anche Steven Spielberg, 20th CenturyFox,leagenzie William Morris e Caa, ElectronicArts,Warner Bros, Sony Pictures Entertainment, David GeffenFundation. All’interno dell’edificio principale visito la Trojan Vision, una vera e propria emittente televisiva attiva nel campus che raggiunge i 29.000 studenti e i 18.000 lavoratori dell’università (“Trojan”, dal nome di Troyens, è la mascotte dell’università). La cinemateca dell’Usc, un po’ più lontano, ha sei sale e raccoglie migliaia di film in 35 e 16mm e ospita un cineforum permanente gestitodastudenti,che programmano i film e organizzano diversi festival. Ho trascorso diversi giorni nel campus di Usc e ho impiegato intere settimane per visitare una cinquantina di campus negli Stati Uniti. Ciò che mi ha colpito di più,oltreallaricchezza di queste università, al loro livello professionale e ai legami permanenti con le industrie e il mondo professionale reale, è la diversità degli studenti che vi ho incontrato. Questa diversità etnica e culturale,chenascesia dall’interno degli Stati Uniti rendendo possibile l’accesso alle università delle minoranze di asiatici, latinos e neri, sia dal fronte internazionale attraversounacapacità eccezionale d’attrazionedistudenti del mondo intero, è sicuramente uno degli elementi centrali, e spesso sottovalutato, del modello culturale americano. Ladiversitàculturale La Whistling Woods International School, all’interno del complesso della Film City, si trova a un’ora di strada a nordest di Mumbai, in India. Per arrivarci, bisogna attraversare decine di mercati e di bidonville, chiedere diverse volte indicazioni sulla strada da percorrere prima di trovare la Film City Road, in effetti la segnaletica è davvero carente. Chi sbaglia strada si ritrova nella giungla, vicino ai laghi all’interno dell’immenso parco nazionale di Sanjay Gandhi, circondati da scimpanzé che saltano sul tetto del taxi, come èaccadutoancheame. Una volta arrivati al campus, all’interno dei ventiquattro edifici che lo compongono si scoprono strumentazioni moderne, studi e sale di montaggio di livello professionale. In questa scuola di cinema ci sono trecento studenti, soprattutto indiani. Indossano tutti la stessa maglietta nera con il nome della scuola, sul modello dei campus americani, molti di loro hanno sotto il braccio un computer portatile MacBook Pro con installatoilprogramma per eseguire montaggi Final Cut studio e un iPhone. Al ristorante (dove come tutti gli altri mangio con le mani), il mio interlocutore, Somnath Sen,docentedicinema in questa scuola, ha con sé “Wired” e, al tavolo di fianco, una studentessa legge “Variety”. “Quilamaggiorparte degli studenti ha un unico sogno: andare a studiare negli Stati Uniti,” mi spiega John J.Lee,ildirettoredella scuola. John è americano e si è trasferito da queste parti per dirigere questa scuola di cinema, tra le più importanti del continente asiatico. È un uomo di Hollywood, è stato produttore di una trentina di film di studiosehapubblicato un libro sul tema, The Producer’s Business Handbook(vendutonel campus). “Ci concentriamo sui mercati emergenti e globalizzati. Così, il 76 per cento dei nostri studenti trova lavoro appena uscito dalla scuola. Tuttavia, l’attrazione per gli Stati Uniti è irresistibile.” Qualche ora dopo incontro Ravi Gupta, presidente della scuola di cinema. È indiano ma è ugualmente affascinato dagli Stati Uniti. “Tutti i nostri corsisonoininglese.È l’unica lingua davvero comune agli indiani. E poivogliamopreparare i nostri studenti a essere competitivi sui mercati asiatici, a Singapore,HongKong, inGiapponeeinCinae il linguaggio comune è l’inglese, ma, soprattutto, restiamo molto sull’inglese poiché in tutte le tecniche del cinema, il linguaggio, i programmi, la strumentazione digitale, tutto è americano.” Proprio in India, in Cina, in Corea, a Taiwan si capisce perché l’attrazione per gli Stati Uniti è così forte nei settori delle industrie creative in generale e nel cinema in particolare. È sufficiente visitare il dipartimentodiCinema e televisione dell’Università di Pechino o quello delle “industrie culturali” [sic] dell’Accademia di scienze sociali di Shanghai per capire perché i migliori studenticinesivogliono –sepossono–studiare negli Stati Uniti. La povertà dei mezzi è nulla a confronto della gravosa cappa indotta dalla paura del cambiamento e dell’innovazione. Inoltre, i giovani professionisti sono sotto permanente controllo affinché non creino in piena libertà. Quando ho visitato questidipartimentinon sono minimamente riuscito a entrare in contatto e comunicare con gli studenti (il responsabile delle relazioni internazionali controllava per impedire ogni dialogo). I principali presentatori dei telegiornali delle emittenticinesiègente uscita dalla famosa Università della comunicazione della Cina, una scuola di stato centralizzata in cui si insegnano per quattro anni propaganda e politichese. “Si pensava che la cultura fosse uno strumento per contenere l’esodo rurale,” mi spiega Germain Djel, direttore del centro culturale Boulevard des arts, intervistato a Yaoundé, in Camerun. “Ma di fattotuttociòsiritorce controdinoipoiché,in realtà, la cultura e soprattutto l’intrattenimento contribuiscono all’esodo. Non appena sono un po’ brillanti e raggiungono un po’ di successo, i giovani africani vogliono partire verso nuovi mondi. Vogliono anzitutto andare nelle capitali, Douala e Yaoundé, poi verso Dakar, poi verso Parigi e Londra. E naturalmente tutti vorrebbero andare negliStatiUniti.” Altrove, nel Sud-est asiatico, in America latina e in Europa centrale, la pressione politica oggi è meno forte, ma l’attrazione resta viva. Gli Stati Uniti approfittano di questa richiesta per rinnovare i loro creatori e trarre profitto dalle innovazioni pensate dagli studenti più brillantiprovenientidai paesi emergenti. Nel cuore della macchina americana ci sono, ancora una volta, le università e la loro diversitàculturale. Negli Stati Uniti vivono 45 milioni di ispanici legali (di cui 26 milioni di messicani), 37 milioni di neri e 12 milioni di asiatici(dicui3milioni di cinesi, 2,6 milioni di indiani, 2,4 milioni di filippini, 1,5 milioni di vietnamiti, 1,3 milioni di coreani e 800.000 giapponesi). Nei campus delle scuole di cinema, a Usc come Ucla o Nyu, i rappresentanti di queste etnie sono visibili e numerosi, sono stranieri venuti a studiare negli Stati Uniti, oppure americani figli dell’immigrazione. Negli Stati Uniti si stimalapresenzadi3,3 milioni gli studenti ispaniciedi1,3milioni distudentiasiatici. “Hollywood è un’industria globalizzata, dobbiamo dunque essere una scuola globalizzata,” conferma Elizabeth Daley, rettore di Usc. “Siamo molto attivi nel cercare di reclutare studenti americani molto diversi tra loro, provenienti da tutte le minoranze, inoltre cerchiamo, ovunque nel mondo, i migliori studenti o professionisti stranieri.” Tra gli studenti accolti dalla Usccisonoquellidella Whistling Woods International School che ho visitato a Mumbai. Gli Stati Uniti riescono a rinnovarsi grazie alla diversità culturale interna ed esterna. Dal momento in cui sono stati selezionati da un’università, gli studenti stranieri beneficiano di procedure accelerate per la concessione del permesso di soggiorno. Così si spiega la percentuale elevata di studenti internazionali sul suolo americano, nell’ordine del 3,4 per cento di tutti gli studenti (ovvero 573.000 studenti di cui 356.000 provenienti dall’Asia). Questa percentuale aumenta fortemente se si contano gli studenti americani nati all’estero(10percento nei due primi cicli, 18 per cento nel terzo ciclo). La quota aumenta ancora se si considerano gli studenti nati all’estero o i cui genitori sono nati all’estero (22 per cento nei primi due cicli, 27 per cento nel terzo ciclo). Sono cifre senza uguali nel mondo. Ma non si tratta solo di statistiche. La diversità culturale americana è visibile anche nei film di Hollywood,dovenonsi conta più il numero di registi e attori neri, latinos e asiatici. È lontano il tempo della commedia Indovina chi viene a cena in cui un’americana porta il suo nuovo fidanzato nero (Sidney Poitier) a casa dei genitori ricchi e bianchi (Spencer Tracy e Katherine Hepburn) suscitando il loro risentimento (quandoèuscitoilfilm, nel 1967, i matrimoni interrazziali erano ancora proibiti in diciassette stati americani). Oggi ci sono spesso attori di colore, anche nei film commerciali e nelle serietelevisive.Anchei registi di Hollywood provengono dal mondo intero, dal canadese James Cameron al taiwanese Ang Lee. Ovunque, questa diversità è un formidabile motore di promozione e di identificazione con il cinemaamericano. Ciò che vale per Hollywood, vale anche per l’industria della musica, l’editoria e il teatro commerciale. In questi ultimi anni, gli attori più premiati a Broadway sono stati il drammaturgo nero August Wilson (due Pulitzer), l’ebreo-gayamericano Tony Kushner (diciannove Tony Awards per Angels in America e CarolineorChangeeil premio Pulitzer), il cinoamericano David Henry Hwang (Tony Award per M. Butterfly) e il cubanoamericano Nilo Cruz (Pulitzer per Anna in the Tropics). Inoltre, a Broadway, recentemente Denzel Washington ha interpretato Bruto in GiulioCesare. Gli artisti stranieri accoltinegliStatiUniti sono numerosi, talvolta sono arrivati illegalmente, spesso sono regolarmente accolti grazie a procedureacceleratedi assegnazione di visti, permessi di soggiorno. Per i professionisti della cultura e dell’intrattenimento, l’amministrazione americana concede, infatti, ogni anno 44.000 visti speciali detti “O-1” (visto non valido per l’immigrazione e limitatoatreanni),che sonoassegnatitenendo conto, per ciascun candidato, della rassegna stampa, dei premi internazionali, dei contatti e dei contratti nel settore delleindustriecreative. I tecnici di queste industrie possono beneficiare di un visto “H-B1”,egliinvestitori in questi settori di un visto “E-1” o “E-2”. Questa reale apertura agli artisti stranieri avviene in ogni caso all’interno di un sistema di forte protezionismo del mercato del lavoro che rendeilsuccessoraroe ancora più aleatorio per i professionisti stranieri. Tutto il sistema culturale degli Stati Uniti è, in effetti, costruito sulla protezione dei posti di lavoro americani, in particolare attraverso l’adesione ai sindacati degli autori e alle società di registi e sceneggiatori. È dunque necessario avere molta perseveranza e grande talento per poter sfondare in terra americana. Sitrattadifilantropia americana? Questa capacità di accogliere talentistranierioffredi fatto a Hollywood un vantaggio eccezionale sulla concorrenza. “Tutti i nostri attori, registi sono scritturati negli Stati Uniti. È un’opportunità per loro, ma questo annienta completamente la creativitàlocale.Così,i film di cassetta americani funzionano beneinAmericalatina, ma le cinematografie nazionali, private dei loro migliori attori e cineasti, sono state in poco tempo indebolite, quando non sono interamente scomparse,” dice dispiaciuto Alejandro Ramírez Magaña, direttoregeneraledella principale rete di sale messicane, Cinépolis, intervistato a Città del Messico. “Gli eroi di Il ribelle dell’Anatolia, il film di Elia Kazan, oggi sarebbero asiatici, latinos e non più eureopei; arriverebbero a Los Angeles e non più a New York,” mi dice Mark Valdez, animatore culturale dello spazio comunitario Cornerstone di Los Angeles. Lo incontro nella sede dell’associazione, a downtown LA, nel centrodellacittàchein realtà non ha un centro. È anche una città chiamata “minority-majority- city”, cioè dove le minoranze sono la maggioranza della popolazione. A ovest si trovano i negozi di dischi J-Pop del quartiere giapponese di Little Tokyo; a est il quartiere della musica reggae di Boyle Heights attorno all’avenue César Chávez (ieri quartiere ebraico, oggi per il 95 percentoispanico);più lontano ancora a est, East Los Angeles, il quartiere messicano in cui è possibile trovare tuttiidvdditelenovele di Televisa, e Diamond Bar, il quartiere indianodovesipossono trovare tutti i film di Bollywood per due dollari; a nord, le decine di gallerie d’arte e opere popolari in mandarino e cantonese di Chung King Road, il quartiere cinesehipdidowntown LA; a sud-ovest, Korea Towneinegozidicde dvdchevendonoK-pop e “drammi” coreani; a sud comincia South Central Avenue che porta verso gli studios hip-hop del quartiere nerodiSouthCentrale le centinaia di associazioni comunitarie di Watt, ieri a maggioranza nera,oggiispanica. Se Los Angeles ha soppiantato New York come primo luogo d’ingresso degli immigrati negli Stati Unitieselacittàèuna dimostrazione vivente delladiversitàartistica, questo è solo un esempio fra tanti di una viva diversità culturale che ho riscontrato ovunque nei quartieri di Houston, di Des Moines, a Jackson o Denver, ad Albuquerque o Fort Apache. Oggi Los Angelesèlapiùgrossa città coreana dopo Seul, la più grande città iraniana dopo Teheran, la più grande città polacca dopo Varsavia, una delle più grandi città thailandesi e vietnamite al mondo. Altre capitali regionali americane hanno primati equivalenti. Chicagoèunadellepiù grandi città greche al mondo e Newark una delle più grandi città portoghesi; Miami è una capitale di Haiti, Minneapolis è un’importante città somala e Colorado è la regionealmondoincui vivono più mongoli dopo la Mongolia. Invece, gli arabi sono poco numerosi negli Stati Uniti e i musulmani rappresentano solo lo 0,55 per cento della popolazione americana e sono originari soprattutto dell’Asia delSudedell’Iran. Gli Stati Uniti non sonosemplicementeun paese, e neanche un continente: sono il mondo, quantomeno il mondo in miniatura. Nessun paese ha una simile diversità e nessuno, neanche l’Europa dei 27, potrebbe rappresentare meglio unanazioneuniversale. Questo elemento è un fattore che spiega in modo determinante il dominiocrescentedelle industrie creative americane, dell’arte e dell’intrattenimento, del mainstream e dei settori di nicchia, in tuttoilmondo. L’americanizzazione culturale del mondo si è trasformata nella seconda parte del Ventesimo secolo in un monopolio sempre crescente sulle immagini e sui sogni. Oggi, questa americanizzazione è oggetto di concorrenza e di contrasti da parte dei nuovi paesi emergenti, Cina, India, Brasile e paesi arabi, ma anche dei paesi come il Giappone o la vecchia Europa: tutti cercano di difendere la propria cultura e forse intendono lottare ad armi pari con gli Stati Uniti. Sotto i nostri occhi si sta profilando una nuova geopolitica dei contenuti. Si annuncia l’inizio di guerreculturali. Secondaparte LAGUERRA CULTURALE MONDIALE 9. KungFuPanda:Cina, lanuovafrontieradi Hollywood Mi trovo nella valley, vicino a Hollywood, nell’ufficio del vicepresidente di uno deiprincipalistudios.Il miointerlocutorecerca di parlare un po’ in francese,manonvuole che sia rivelata la sua identità. L’intervista si svolge in modo informale, ma le argomentazioni che emergono sono banali. Su temi come mercato internazionale dei film, nuovastrategiaglobale degli studios e globalizzazione del cinema americano non apprendonullachenon abbia già letto decine di volte sulla stampa specializzata. Nell’ufficio di questo patron di Hollywood, tuttavia, c’è qualcosa che mi intriga, tre orologi che segnano ore diverse: “Japan Time”, “China Time” e “India Time”. Gli studios americani hanno gli occhi puntati sull’Asia. È la nuova frontieradiHollywood? Li Chow è direttrice di Sony e di Columbia in Cina. Ho appuntamento con lei al BookWorm, una libreria-caffetteria americana nel quartierediChaoYang di Pechino. Li Chow è originaria di Taiwan, è figlia di un diplomatico e parla un inglese perfetto – cosa piuttosto rara in Cina. Sony Pictures ha aperto un ufficio a Pechino nel 1996 con l’obiettivodifavorirela distribuzione dei film della major nippoamericana nel paese. Poi le ambizioni sono cresciute e la major si è lanciata anche nella produzione. Sulla carta, la strategia cinese di Sony è perfetta. “Fare tutto nello stesso tempo, tutto ciò che è possibile,” precisa Li Chow. La realtà, tuttavia, si è rivelata benpiùcomplicata. Il potenziale dell’industria cinematograficacinese, mercato emergente all’interno di un paese emergente, sembra di primoacchitounpozzo inesauribile data la popolazione di 1,3 miliardi di abitanti. Da una decina d’anni in modo particolare, insieme a una eccezionale crescita economica (8-9 per centoall’annonel2008 e 2009), anche il boxoffice è in costante aumentoogniannocon dati a doppia cifra. Inoltre, in questo periodo, si costruisce, in media ogni giorno, un nuovo schermo di multisala. Di contro, la reale produzione della cinematografia nazionale si attesta su livellimoltobassi,circa 50 film l’anno, un dato ben lontano da quello fornito dalla propaganda ufficiale cinese (circa 400). Gli americani hanno dunque intravisto subito grandi opportunità e hanno cominciato a sognare scenari mirabolanti: 1,3 miliardi di cinesi, con carte di credito Bank of America, auto General Motors, iPod e iPhone, programmi Windows e naturalmente 2,6 miliardi di mani pronte ad applaudire i film di Hollywood. Questa volta l’America ha puntato verso l’Oceano Pacifico. Tuttavia, per le major, introdursi in questo mercato si è rivelato un’operazione moltoardua. Ilprimoostacolo,non di poco conto, è la censura. Gli americani hannoinfatticercatodi conquistareunmercato all’interno di un paese in cui il Partito comunista cinese, dal momento del suo insediamentonel1949, esercitauncontrollodi ferro su tutti i mass media. La Rivoluzione culturale ha ulteriormente accentuato questa censura e il cinema è diventato semplicemente oggetto di propaganda. Ogni parola pubblicata, ogni informazione trasmessa via stampa, radio o televisione, ogni libro stampato, ogni testo recitato a teatro, ogni parola della canzone di un disco sono sottoposti a rigidocontrollo.Questa sorveglianzapreventiva si basa su un’incredibile rete di decine di migliaia di funzionari addetti alla censura e di poliziotti alledipendenzenondel potere esecutivo, come gli altri ministeri, ma stranamentedelPartito comunista cinese. Il cinema è considerato un settore strategico e dunque non fa eccezione, anzi al contrario. Così, ciò che è già difficile per un produttore cinese è ancora più complicato perchièstraniero. Per distribuire un film in Cina, una major internazionale deve ottenere diversi via libera da parte delle autorità cinesi, in particolare dai diversi servizi dell’ufficio della censura, altra emanazione del ministero della Propaganda. Per poter ottenere l’autorizzazione alla distribuzione, il film deve essere sottoposto a censura già sottotitolato. La censura è un complesso apparato fatto di controllo politico, controllo piccoloborgheseinstile vittoriano e protezionismo. Sessualità, violenza, politica, islam, “distorsioni” sulla storia cinese e, ovviamente, ogni allusione agli eventi di piazza Tienanmen, al Dalai Lama, al Tibet, all’indipendenza di Taiwan, alla setta Falun Gong, all’omosessualità e più ampiamente ai diritti umani sono argomenti tabù e possono portare a un divieto immediato di distribuzione del film. Disney si è pesantemente scontrata con questo sistema quando ha prodotto Kundum di Martin Scorsese, film che rendeva omaggio alla battaglia non violenta del Dalai Lama, la major ha infatti rischiato di vedersi proibire la distribuzioneinCinadi tutto il catalogo; inoltre, il progetto di realizzare un parco tematico a Shanghai è stato respinto per diversi anni. La censura colpisce anche atteggiamenti critici nei confronti degli alleati della Cina (Russia, Venezuela, Cuba e alcuni dittatori africani) e l’elogio di potenze poco amate comeGiapponeeIndia. In fin dei conti, dato l’ampio spettro di divieti,sonomoltiifilm che possono contenere scene su uno di questi temi sensibili. “In realtà, non esistono vereeproprieregoledi censura,” spiega Li Chow. “Un film è stato rifiutato perché mostravadeitatuaggie un attore aveva un piercing, un altro perché conteneva scene di grande povertà, un altro ancora perché di stampo ‘nichilista’, un altro perché aveva troppe scene di suspense. Spesso, peraltro, la censura non fornisce alcuna spiegazione sulle proprie scelte.” Si è verificato anche il caso di film vietati dalla censura e autorizzati dopo essere stati nuovamente presentati con un altro titolo. Isabelle Glachant, produttrice indipendente incontrata a Pechino, è ancora più severa: “La censura è paranoica e chi fa film è sempre in posizione di autocensura. Per le autorità cinesi, le questionipolitichesono in realtà secondarie: l’unica cosa che conta è il patriottismo. Il governo cinese è semplicemente impegnato a tenere il botteghino dei film cinesi superiore a quello americano. Per raggiungere questo scopo è pronto a tutto: censurare film che non dovrebbero essere censurati, introdurre periodi di blackout totale o, più spesso ancora,daredatifalsi”. Altre persone intervistate in Cina forniscono interpretazioni più sfumate sulla censura. A Shanghai, per esempio, Chen Sheng Lai,expresidentedella radio (ufficiale) della città, difende l’idea secondo cui la Cina deve avere il diritto a una quota percentuale sugli incassi, come accade in tutti gli altri paesi.Ritieneovvioche la Cina debba proteggere la propria cultura nazionale. Anche altre persone intervistateaPechinoe Shanghai condividono questo punto di vista. Ciò che gli occidentali chiamano “censura” è semplicemente un sistema di regole per proteggere i valori cinesi, diversi da quelli occidentali, ma ugualmente validi. “I valori dell’Occidente sono forse buoni, ma non sono universali,” mi dice Hua Jian, docente universitario, direttore del Cultural Industry Research Center all’interno di un’istituzione molto ufficiale come l’Academy of Social Science di Shanghai. “La libertà d’associazione, la libertà di stampa, la libertà d’opinione e di religione non sono necessariamente valori universali,” prosegue Hua Jian, poi termina abilmente il discorso dicendo: “La qualità artistica dei film si sviluppa spesso a partire da questo scontroconlacensura. Il contrasto tra repressione e libertà produce anche in Cina, come accadeva nel sistema degli studios americani degli anni venti,grandecreatività e fa nascere un certo glamour”. Lacensuraufficialeè solo uno dei tanti ostacoli istituiti dai cinesi per proteggersi dal cinema straniero. Dopo avere ottenuto l’autorizzazione, un film deve superare lo scoglio della distribuzionenellesale. Tutti i cinema appartengono allo stato, il monopolio della distribuzione è detenuto da China Film, ufficio cinematografico anch’esso direttamente legato al ministero della Propaganda. China Film, attraverso un complesso sistema di quote di riserva a favore della propria cinematografia, autorizza solo la distribuzione di una ventinadifilmall’anno. Di fatto, i film di successo hollywoodiani costituiscono sempre il 50 per cento dei film distribuiti, il sistema di diritti percentuali produce un paradosso: favorisce i film mainstream per un ampio pubblico di massa. È questa una buona sintesi del capitalismo di stato cinese, un capitalismo autoritario, definito con una celebre espressione in voganegliannidiDeng Xiaoping come “economia socialista di mercato”. Si tratta di un sistema che mette insieme in modo originale un’economia di mercato vera e propria, dinamica e anche selvaggia, piccole aziende piuttosto autonome e rivolte al consumo internoe,alvertice,un sistema di comando ancoraleninistaconun controllo politico totale. Tutto ciò contribuisce a creare quello che viene chiamato miracolo economicocinese. A condizione di restare anonimo, il responsabile di una major americana in Cina mi ha spiegato che gli studios hollywoodiani si ripartiscono tra loro preventivamente la distribuzionedeifilmdi successo ancor prima diesseresottopostialla censura, contro ogni elementareregoladella concorrenza – regole che invece cercano di imporre alla Cina attraverso il Wto. Questi accordi illegali si fanno a Washington con gli auspici della Mpaa, la lobby di Hollywood: ogni major sceglie due film all’anno, poi, generalmente, le autorità cinesi approvano queste scelte. Viene spontaneo chiedere perché i cinesi, che ben conosconoleintenzioni e i metodi anticoncorrenza degli americani,continuinoa stare al gioco. “Perché questifilmdisuccesso, i blockbuster americani, fruttano loro molto denaro e perché riempiono i cinema,” mi dice un responsabile di Disney in Cina, sempre a condizione di restare anonimo. Resta il fatto cheèmoltodifficileper un film americano non prodotto dalle grandi case, o per un film europeo, introdursi in questo mercato. Quando le autorità cinesi sono vittime delle operazioni capitalistiche fatte con gli studios, soprattutto quando il botteghino dei film americani rischia di superare quello cinese, vengono decretati periodi di “black-out”totaleincui tutti i film stranieri scompaiono dalle sale. Durante le vacanze di Natale, in occasione del nuovo anno cinese e durante le vacanze del primo maggio, si proiettano solo “grandi kolossal” cinesi in costume. Nonostante tutto, i blockbuster americani, semplicementeconuna ventina di film autorizzati all’anno, da Iron Man a Pirati dei Caraibi,passandoperil successo della saga di Harry Potter o recentemente di Transformers2,2012e Avatar (ma Batman. Il cavaliereoscuroèstato vietato), raggiungono quasi il 50 per cento del botteghino cinese ogni anno. Si tratta di cifre astronomiche, tenuto conto delle quotediriservaedella censura. Il sistema cinese si completa con la censurafinanziariaela pirateria. Quando un film è autorizzato e distribuito – e generalmente questo accade solo per i film di successo rivolti alla famiglia e inoffensivi –, il produttore straniero prende royalty sul 13 per cento del botteghino, una quota ridicolmente bassa. Lo studio DreamWorks Animation ne ha fatto le spese con Kung Fu Panda. Il film è stato inizialmente accolto freddamente in Cina dalle autorità e dalla critica, che hanno accusato la major di aver indebitamente usato il tesoro nazionale cinese, il panda, e uno sport particolarmente adorato come il kung fu. Nonostante le controversie, il pubblico ha favorevolmente accolto la storia di questo panda in sovrappeso che vuole diventare maestrodikungfuedè arrivato anche il successo. Eppure, la major americana di Jeffrey Katzenberg non ha potuto raccogliere i proventi del botteghino,limitatialla percentuale del 13 per cento versato ai produttori stranieri. Per quanto ridotta in termini di dollari, la quota di mercato degli americani in Cina è in forte crescita, tenuto conto della progressione del botteghino cinese, che raddoppia ogni tre anni. La pirateria è talmente diffusa e così visibile che davvero non si riesce a capire perché le autorità cinesi non riescano a sanzionarla, eppure si sono impegnate in tal senso con l’Organizzazione mondiale del commercio. Ieri le videocassette, oggi i dvd pirata e la diffusa pratica di scaricare da internet (nonostante velocità di connessione ancora mediocri in Cina): ogni mezzo è buono per rendere il cinema e la musica gratuiti e alla portata di tutti. Questa contraffazione generalizzata è ancora più grave perché l’offerta cinematografica è ancora molto insufficiente(intermini di film distribuiti e in numero di schermi) e perché la censura contribuisce naturalmente ad aumentare a dismisura la richiesta di dvd piratati. “Quando è uscito Casino Royale,” mi dice Li Chow, “alla sede Sony di Pechino, siamo stati sbalorditi dal fatto che i cinesi conoscessero il personaggio e la musica del film, era infatti il primo film di JamesBondautorizzato in Cina. Avevano visto tuttiglialtrifilmindvd piratati. Questo ha facilitato molto il nostro marketing. Per la prima volta ho apprezzato la pirateria.” Per avere un’idea di questo mercato nero alla luce del sole, ho chiesto ai miei interlocutori cinesi di indicarmi l’indirizzo di un’industria illegale in cui vengono fabbricati cd e dvd pirata per poter andare a visitarla. Mi hanno detto, anzitutto, che si trovavanonellaregione di Canton, nel Sud della Cina, ma andarci è complicato e addirittura rischioso. Le persone incontrate negli studios americani mi hanno detto di aver cercato a lungo di capire i segreti di questo mercato nero che ostacola fortemente i loro interessi nel cinema e nella musica. In mancanza di indirizzi precisi, sono entrato in alcuni delle migliaia di negozi di cd e dvd diffusissimi nelle vie di Pechino, Shanghai e Hong Kong. Alla fine, discutendo con un venditoredicdedvda Shanghai, ho capito perché i dvd piratati somigliassero così tanto a quelli originali: “Non sia ingenuo”, mi dice il venditore (che vuole restare anonimo e tradotto dal mio interprete). “I dvd originaliequelliillegali sono prodotti dalla stessa fabbrica. È esattamente come accade per le penne Montblancegliorologi Rolex.” Poi mi ha fatto vedere nel suo negozio dvd “veri” mischiati con quelli “falsi” – e viceversa. Anche gli americanihannocapito l’inganno e lo hanno trovato molto meno divertente di me. Con alcune operazioni di controllo, modificando alcune immagini di un film preso a campione, hanno addirittura constatato che sul mercato nero si trovavano film sottoposti alla censura cinese e rifiutati – situazione incredibile che dice molto sullo stato di corruzione nella Cina comunista. Così, hanno attaccato laCinadifrontealWto per mancato rispetto delle leggi internazionali sul copyright e per denunciare il lassismo sulla pirateria. “Non si può fermare la pirateria,” minimizza Gary Chan Chi Kwong, patron di East Asia Media incontrato a Hong Kong. “I cd originalieglialtrisono prodotti all’interno delle stesse fabbriche. Chiudiamo un occhio: daunapartecerchiamo dilottarecontroqueste pratiche, dall’altra lasciamo correre. Infatti,èassolutamente impossibile fermare la pirateria.” Vicino a piazza Tienanmen, nel cuore dellacensuracinese “Questo è il Wild Wild East.” Con questa espressione, che ricalca l’appellativo Wild Wild West per la California, Barbara Robinson definisce in quali termini per gli americani fare cinema inCinarappresentiuna sfida. Dal trentaduesimo piano della celebre torre di Bank of China progettata dall’architetto I.M Pei, Barbara contempla le colline di Hong Kong che le ricordano quelle di Hollywood. La mia interlocutrice americana dirige ColumbiaPicturesFilm Production Asia, di proprietà di Sony. La distribuzione dei film è gestita da Pechino, città della censura e del potere politico, ma Sony ha collocato a HongKongilsettoredi produzione del cinema e le reti audiovisive. Lontano dal potere cinese, lontano dalla censura. “‘Location, location, location’ e ‘Cheap, cheap, cheap’ sono il nostro motto per produrrefilmdaqueste parti,” spiega Barbara Robinson, “i posti migliori ai costi migliori.” E funziona. Sony produce circa quattro film all’anno in lingua cinese (soprattutto il mandarino), per un pubblico soprattutto cinese. Nel suo ufficio c’èappesalalocandina diLatigreeildragone di Ang Lee, il successo internazionale di questofilmnel2000ha confortato la strategia di Sony che ha cominciatoasognareil potenziale mercato di film cinesi. “Per la gentediSonychestaa Hollywood, la principaleragionedella nostra presenza qui è favorire la distribuzionedeifilmdi SonyinCina.Ma,peril momento ciò non è assolutamente possibile. Allora aspettiamo.Tuttisanno che la Cina si aprirà: ‘Open Up’ è l’espressione che abbiamo tutti in testa. Maperilmomentonon è aperta. Dunque siamo qui ad aspettare.” Ancheinquestocaso, ilmercatocinesenonè particolarmente accogliente, persino con i film realizzati a livello locale. Anche se produceiproprifilmin Cina, in lingua cinese, anche se fa commedie cinesi, il semplice fatto che Sony, una major straniera, abbia sede a Hong Kong impedisce una normale distribuzionenelpaese. Ancora una volta, il film è soggetto a una percentuale sui diritti impostadallostato.Per aggirarequestoscoglio (e ottenere una percentuale di introiti dell’ordine del 40 per cento, quota molto superiore rispetto a quella consentita ai film stranieri), Sony ha creato partenariati con societàprivatecinesidi Pechino abilitate a coprodurre film. Lo scopo di queste coproduzioni non è cercare finanziamenti per rimpinguare il budget dei film (Sony nonhasimiliproblemi), maaggirarelacensura e i diritti di percentuale. Anche in questocasolastradaè irta di ostacoli. Ci si imbatte infatti nella China Film Coproduction Corporation, che è il passaggio obbligato per ogni forma di coproduzione in Cina. Perquestohodecisodi andare a trovare gli uffici di istituzione. questa All’interno di un bunker protetto dall’“esercito del popolo” a Pechino, leggermente a ovest di piazza Tienanmen, ho appuntamento con Zhang Xun, presidente di China Film Coproduction Corporation. Fa un freddo glaciale, un freddo accentuato da un terribile vento mentre entro nel compound ufficiale della censura cinematograficacinese. Mi viene fornito un permesso e sono accompagnato da una guardia impassibile. Passiamo davanti ad auto ufficiali, dai vetri oscurati, alcune con il lampeggiante – fatto strano per un ufficio che si occupa di questioni cinematografiche. Ci sono decine di edifici che ospitano numerosi network televisivi, tra cui la famosa Central China Television (Cctv), televisione ufficialeinunmondodi televisioni ufficiali. Per arrivare a destinazione bisogna camminare alcuni minuti. Gli uffici sono un mortorio popolato da un personale pletorico completamente inattivo; alcuni guardiani sono letteralmente addormentati, altri mi guardano come se venissi da un altro pianeta. Vengo portato nell’immensa sala riunioni insieme alla miainterprete,afianco di un bouquet di fiori finti è stata issata una bandiera cinese di fronte a una francese. Istintivamentemisiedo sul lato francese, forse ZhangXunsiaspettadi incontrare il console francese. Poco dopo arriva la presidente dell’istituzione internazionale che gestisce tutte le coproduzioni in Cina e negozia con gli studios di tutto il mondo. Non saunaparoladiinglese (e tantomeno di francese). Parla a lungo. Mi dice quanto la Cina sia favorevole alle coproduzioni, quanto il sistema cinematografico cinese siaproduttivoconoltre 400 film all’anno (mentre, come si è detto, il dato reale è inferiore a 50), quanto sia una industria ancora più influente di Bolly wood (altra cosa non vera, né per la produzione, né per la diffusionenazionale,né per le esportazioni), come gli incassi al botteghino siano raddoppiati nel 2008 (però non dice che è solo il 50 per cento di quello della Corea del Sud, paese infinitamente meno popolato), quanto il presidente della Repubblica popolare cinese, Hu Jintao, creda nel cinema. Poi mi aspetto di sentire qualcosa sulla “reciproca collaborazione, sull’amicizia e sul rispetto tra Francia e Cina”. Infatti, anche queste parole arrivano puntualmente. ZhangXunèdavvero convinta di quanto mi dice? Tutte le sue frasi sono vuote, i dati che fornisce sono falsi, ma lei lo sa? Ha il volto dolce, quasi sincero, della censura. Parla con sicumera e finezza ed è brillantemente assecondata da un efficace interprete (dopo l’incontro la mia traduttrice mi dice che infiorettava il discorso in politichese della burocrate). Quando parla di “coproduzioni” è subito chiaro come quel prefisso “co” sia completamente inappropriato: si tratta di produzioni autorizzate dal regime e che dunque diventano cinesi, mentre per definizione le “coproduzioni” coinvolgono due paesi. Chiedo poi la procedura usata per stabilire la nazionalità di un film, dato che esistono spesso investimenti fatti da più produttori internazionali. La sua risposta mi lascia perplesso: si basa su Imdb, la banca dati cinematografica americana! Capisco allora che tutto questo sistema non ha come obiettivo la difesa di valori specifici o la tutela delle famiglie cinesi, ma è anzitutto una potente macchina di protezionismo. Pongopoiunatimidae banale domanda sulla censura nel cuore dell’edificio per eccellenza della censura cinese: “Ciascun paese ha un sistema di censura”, risponde molto delicatamente senza scomporsi Zhang Xun. “Negli Stati Uniti è ancora più rigido rispetto alla Cina. Abbiamo il diritto di proteggere i nostri giovanidallaviolenzae dallapornografia.” La sera stessa mi trovo all’Hotel Konlun di Pechino. Vale la penaandarcisoloperil bar del ventinovesimo piano, circolare, che offre una vista incredibile sulla capitale cinese. Ad aspettarmi c’è Peter Loher, direttore della Caa per la Cina. La CreativeArtistsAgency è una delle principali agenzie di talenti americane, il cui compito è scritturare gli attori del cinema, ma anche i registi, gli sceneggiatori, i cantanti, gli scrittori, tutticinesi.PeterLoher è sinologo, vive in Asia da vent’anni ed è a Pechino da tredici. È un americano davvero appassionato della Cina, e tra l’altro ha sposatounacinese. La strategia della Caaèdiversadaquella degli studios, per i quali comunque l’agenzialavora,poiché si concentra sugli uomini e non sui mercati. Il compito di Peter Loher è siglare contratti con il top dei talenti cinesi e su questo fronte l’operazione è perfettamente riuscita, così come è riuscita ai suoicolleghidiWilliam Morris, l’altra agenzia americana insediata a Shanghai. Contrariamente agli studios, che hanno affrontato il sistema dellaproduzionecinese e poi della distribuzione trovandosi di fronte un muro, le agenzie stringono accordi con i talenti locali. Non si occupano di censura e di quote di riserva, si concentrano sulle persone che accettano di legarsi a loro in esclusiva con la speranza di una carriera più internazionale e la promessa di contratti più remunerativi (il celebre metodo del “packaging” di Caa permetteaunattoredi avere percentuali su tutti i prodotti derivati da un film). Dal canto suo, l’agenzia intasca inmediail10percento di tutti i contratti dell’artista. All’interno di un mercato in cui europei, indiani e giapponesi sono assenti, gli americani hanno progressivamente scritturato la maggior parte degli artisti cinesi che contano. “Onestamente, non è molto complicato lavorare qui,” commenta con aria gioviale Peter Loher (nondirànulladipiùa registratore acceso, on the record, non vuole essere menzionato). In Cina, le poche agenzie di management degli artisti sono spesso legate agli studios e allecasediscografiche, e ciò produce notevoli conflitti d’interessi di cui le prime vittime sono gli artisti stessi. Questa è una delle ragioni per le quali i talenticinesitendonoa legarsi a un’agenzia americana. Il lavoro certosino di CaaeWilliamMorrisè davveroefficacepoiché gli agenti continuano a lavorare sul campo per preparare il mercato perilmomentoincuila Cina si aprirà. E gli europei dove sono? Nonnehomaivisti. Resta dunque la produzione locale. Felice Bee è una bellissima taiwanese cresciuta in Indonesia, indossa un lungo abito nero che la protegge dal freddo glaciale che attanaglia Pechino, sorbisceuntèraffinato all’interno del coffeeshop in cui mi ha dato appuntamento. Le chiedosubitocomemai siavenutainCinadopo aver lasciato Taiwan. “Perché qui c’è mercato,” risponde senza esitazioni. “La Cina è un sistema culturale nuovo, non c’ènulladifossilizzato, tutto si muove, tutto è possibile. Qui si scrive il futuro.” Parliamo della strategia di Disney in Cina, poiché halavoratoalungoper Buena Vista International, il settore di distribuzione di Disney, ma voglio sentirla raccontare soprattutto della produzione locale, poiché ha lavorato per uno dei principali produttori privati, il gruppo Huayi Brothers Pictures. In teoria, giacché si tratta di un gruppocineseconsede a Pechino, non è sottoposto ai vincoli riservati agli stranieri. “No,” corregge Felice Bee, “il controllo politicorestaintuttele tappedelfilm,anchese è prodotto da una società cinese: è necessario ottenere il permesso sullo script, ottenerne di nuovi per ogni modifica e naturalmente sono necessari permessi per fare le riprese nelle città in cui il film è girato.” Fino a questo momento, i miei interlocutori americani avevano lasciato intendere che i produttori cinesi, anche con buoni contatticongliufficiali del governo, avevano cartabiancaall’interno del sistema neocapitalista cinese. Ora, invece, mi rendo conto che l’intera industria cinematograficaèsotto controllo poiché è considerata un settore strategico dall’ufficio della propaganda. Il controllo, per definizione, si esercita sulla trama. “In uno script,” prosegue Felice Bee, “bisogna far emergere il fatto che un poliziotto è sempre buono e un delinquente è sempre cattivo. Il primo non può mai essere un pessimo padre di famiglia ed è fuori discussione che il secondo possa essere un padre accorto. Inoltre, dal momento che non esiste un rating system, come negli Stati Uniti, tutti i filmdevonorivolgersia un pubblico di massa. Questo facilita la censura cinese e le permette di proibire qualsiasiscenadisesso odiviolenza.” Si possono prendere dei rischi controllati nel campo della produzione locale? Universal e i fratelli Weinsteinsisonomossi su questa strada. Questi ultimi, dopo i gloriosi anni di Miramax, hanno investitoinunufficioa Hong Kong per coprodurre film a livello locale e soprattutto acquisire i diritti di film promettenti. L’ufficio asiatico di Weinstein Company è diretto da Bey Logan, un tipo strano, un po’ sbruffone, una caricatura dell’americano, ma parla cantonese. Lo incontrosottocasasua, al bar Lavande, nel bel quartiere Prince Terrace di Hong Kong. “Harvey Weinstein ha sempre avuto un love affair con l’Asia,” mi dice Bey Logan. A partire da successi negli Stati Uniti di film come La tigre e il dragone di Ang Lee, Infernal Affairs di AndreiLaueAlanMak, Hero e Il segreto dei pugnali volanti di Zhang Yimou, la strategia dei fratelli Weinstein ha portato ad acquisire i diritti internazionali di numerosi film cinesi e, per finanziare l’acquisizione, hanno creatounfondo“Asia”, gestito dalla banca Goldman Sachs. A partire da questo catalogo scelgono, a seconda del pubblico cuisiindirizzano,difar uscireilfilmnegliStati Uniti oppure di limitarsi al mercato regionalepoichéhanno una buona rete di distribuzione in tutta l’Asia. Sul fronte della produzione locale, i fratelli Weinstein hanno avuto meno fortuna. “Il denaro non è un problema in Cina e a Hong Kong. Il problema è trovare le sceneggiature di qualità capaci di conquistare un ampio pubblico, scritturare le star con forti potenzialità,trovareun buon coproduttore locale e poi riuscire a lavorareconlacensura a Pechino.” Bey Logan sospira. Per il momento, i fratelli Weinstein si sono limitati a produrre Shanghai: film con un budget di 45 milioni di dollari, distribuzione interamente cinese, regista cinese, le cui riprese avrebbero dovuto aver luogo a Shanghai. In questi piani, tuttavia, non era stata contata la censura che all’ultimo momentoharifiutatodi rilasciare il certificato di coproduzione costringendo così la troupe, già sui luoghi delle riprese, ad abbandonarelaCina.Il film dunque è stato spostato a Bangkok, dove è stata ricreata un’ambientazione che dovrebbe richiamare la Shanghai degli anni quaranta. “Harvey è rimasto sconvolto dalle procedure cinesi, era furioso,” conferma Bey Logan. “In questo affare abbiamo perso 3,4 milioni di dollari.” L’uomo dei fratelli Wenstein non sembra dispiaciuto. È pronto a lanciarsi in un nuovo progetto. “Tutti gli studios americani, grandi e piccoli, vengono in Cina per prendere una fetta dell’immenso mercato cinese e con strategie che hanno senso sulla carta, come la guerra in Vietnam o in Iraq, mainrealtàsirivelano molto più complicate quando ci si trova sul campo.Peròilmercato è così ampio e ha un valore così strategico che continuiamo a provare, provare e ancoraprovare.” Un altro pretendente al mercato cinese, Universal, ha avuto ancora meno fortuna. La major si è lanciata nella produzione del film Lust, Caution del regista taiwanese Ang Lee, attraverso la sua divisione “indipendente” Focus Features. Inizialmente, gli ufficiali cinesi hanno visto di buon occhioilritornoinAsia di un cineasta importante di Hollywood, che ha vinto l’Orso d’oro e l’Oscar con Il banchetto di nozze, La trigre e il dragone e piùrecentementeconI segreti di Brokeback Mountain. Le autorizzazioni per le riprese erano state rilasciate dall’ufficio della censura, che era stato meno rigido sullo script poiché i cinesi eranofieridelsuccesso mondiale de La tigre e il dragone. Peraltro, Universal correva rischi limitati poiché il produttore locale era noto ed era stato suggerito dallo stesso Ang Lee in quanto sapeva gestire gli “ufficiali”. Ma nelle alte sfere, le cose non sono andate così lisce. Dopo essere stato autorizzato, il film è stato ferocemente condannato per le scene di sesso troppo esplicito e le allusioni considerate “sensibili” sui giapponesi. Alla protagonistasonostate vietateleintervisteeil film è stato censurato. Quella che avrebbe dovuto essere la consacrazione di un figliodiTaiwantornato inCinaèpoidiventata, nonostante il clamore della comunità internazionale, una dimostrazione della peggior censura. Inoltre ha suscitato un inasprimento delle autorità di cui pagano ancora oggi il prezzo i cineasti indipendenti. “È stata una vera e propria Tienanmen per l’industriadelcinema,” conclude in tono fatalistaFeliceBee. Ancora peggiore delle disavventure in CinadiColumbia,Sony e Universal è stato il caso degli studios Warner. Il furto dei multisala Warner Mentre discuto con Ellen Eliasoph, penso che Warner abbia mandato in Cina la migliore “sino-giurista” in circolazione. Ellen Eliasoph vive in Cina da vent’anni ed è sinologa, parla mandarino e cantonese, ed è una navigata avvocatessa specializzata in diritto d’autore. Dirige gli uffici di Warner Bros nellaCinacontinentale, mentresuomaritoèun importante diplomatico americano. Siamo al ventitreesimo piano di una torre, nel complesso ultramoderno che ospita anche il celebre Grand Hotel Hyatt di Pechino la cui piscina zen permette di rigenerarsi sotto un “cielo virtuale” che somiglia alla Via lattea e con un sottofondo di musica sottomarina detta “neotropicale” (come spesso accade negli alberghi di lusso asiatici, è un brano del dj Stephane Pompougnac tratto dall’album Hotel Costes). “Inizialmente, Time Warner era molto ottimista rispetto al mercato cinese,” spiega Ellen Eliasoph. “La nostra strategia erainvestirenellesale, distribuireinostrifilm, organizzare un’imponente vendita dei nostri dvd e reinvestire gli utili in nuovi film coprodotti localmente. In teoria si trattava di una strategia inamovibile.” Il passo successivo sarebbe stato l’insediamento delle emittenti televisive del gruppo (Cnn, Hbo, i canalicablatiTurner)e ovviamente la diffusione delle più importanti hit della casa discografica Warner, all’epoca ancora di proprietà di TimeWarner. Il settore della produzione locale di WarnerhasedeaHong Kong e fa circa un film all’anno da una decina dianni,ingranpartein lingua mandarina. “Il paradosso sta nel fatto che in Cina non si può produrre un film cinese, allora viene prodotto a Hong Kong,” spiega Hsia Mia, una giovane di Hong Kong che ha studiato alla Cornell University negli Stati Uniti e attualmente è direttrice di Warner a Hong Kong. Astutamente, Warner gioca su diversi mercati: il mercato di Hong Kong, moderno, occidentale,sesitratta di un film a basso budget; il mercato che parte da Taiwan, se il film è più internazionale e punta a un pubblico più ampio su tutto il continente; infine, il mercato della Cina continentale, quando Warner punta su film ad alto budget, con un registafamosoealcune star. “Si tratta di tre settori di mercato molto diversi tra loro. Oggi tendono ad avvicinarsi e, ovviamente, l’obiettivo di Warner è giocare su tutti e tre contemporaneamente,” conferma Hsia Mia, durante una prima colazione in un ristorante alla moda al pianoterra della torre HsbcdiHongKong. La cosa più interessante, e la più pericolosa, è stata in ogni caso la strategia di Warner per la distribuzionenellaCina continentale. Invece di rimanereostaggiodelle catene ufficiali che gestiscono le sale pubbliche, Time Warner ha avuto la brillanteideanel1994, nel momento in cui la Cina si impegnava nel processo di adesione all’Organizzazione mondiale del commercio e sembrava aprirsi definitivamente, di investire direttamente nei multisala.Percostruire questesaleèraggiunto un accordo con l’organismo ufficiale China Film. Viene creata una jointventure, con una ripartizione del capitale e degli investimentinell’ordine del70percentopergli americani e del 30 per cento per i cinesi. Nell’affare, tuttavia, erano stati sottovalutatiicinesi. Anzitutto,ifunzionari di Pechino hanno comunicato a Warner che aveva il permesso di costruire multisala in Cina, ma non era automatico che vi potesse proiettare i suoi film poiché vincolati dalla censura edallequotediriserva. Primadocciafredda. Qualche mese dopo arriva la ripartizione del capitale delle sale costruite:il70e30per cento pattuito tra americani e cinesi viene modificato al ribasso: 51 e 49 per cento a beneficio degli americani. A Los Angeles, i dirigenti di Warner lo trovano strano. Tuttavia, accecati dalle loro stesse illusioni, hanno pensato che fosse una questione “culturale”, poichéicontratticinesi erano molto “vaghi” e quelli americani molto “specifici”. Così hanno continuato a costruire cinema, che sono dunque diventati otto. Improvvisamente, le autorità cinesi hanno deciso di cambiare di nuovolaleggeehanno decretato che una società straniera non può avere sale cinematografiche proprie e la percentuale del capitale è stata nuovamente cambiata: 49 e 51 per cento, questa volta a vantaggiodeicinesi. “L’amministratore delegato di Warner Brothers, a Los Angeles, è rimasto letteralmente crushed (annichilito),” confessa Ellen Eliasoph. Nell’ufficio di questa torre di Pechino in cui parliamo da oltre due ore cala un pesante silenzio. Questa donna forte, calma, bella, che immagino particolarmente accanita nelle trattativefinanziarieha le lacrime agli occhi. “Abbiamo fatto tutto: ideato multisala, progettato il design, abbiamo speso milioni di dollari, abbiamo formato dei cinesi per dirigerlie…lorohanno cambiato la legge! Tutto ciò per nulla. È solo un brutto sogno. Gli studios di Hollywood sono stati troppo ingenui con i cinesi. Loro sono stati più furbi, ci hanno spinto ad aprirci, a dargli il massimo e poi si sono presi tutto per sé. Sono stati molto smart. Oggi non c’è alcuna possibilità di penetrare in questo mercato.” Ritrovata la calma aggiunge: “Non bisogna scrivere un libro sul cinema in Cina, ma un libro sulla corruzione del Partito comunistacinese”. Non ci sarà un nono multisala Warner in Cina. A Hollywood è stato deciso di ritirarsi completamente. Le altre major americane hannoseguitodavicino l’avventura e sono rimaste costernate. L’esempio serva loro dalezione.LaMpaa,la lobby delle major a Washington, comunica quanto è avvenuto al Congressoenelgirodi breve tempo gli Stati Uniti attaccano la Cina di fronte all’Organizzazione mondiale del commercio per aver ostacolato il mercato internazionale. Alla fine dell’intervista Ellen Eliasoph è distrutta: “Non ho nulla contro i cinesi, sono un popolo formidabile. Ho dedicato loro la mia vita. Provo solo molta amarezza contro il potere”. Quantomeno può avere una soddisfazione: essendo stata la prima a costruire dei multisala in Cina, Warner ha lanciato una moda che ha cambiato per sempre lo scenario cinematograficocinese. Ormai, ogni giorno in Cina si inaugura un nuovo multisala. È una consolazione per Warner? Hong Kong, Hollywoodasiatica la “Abbiamo 1,3 miliardi di cinesi; abbiamo denaro; abbiamol’economiapiù dinamica del mondo; abbiamo esperienza: riusciremo a conquistare i mercati internazionali e faremo concorrenza a Hollywood. Diventeremo la Disney della Cina.” Al diciannovesimo piano dellatorredivetroAig, al civico 1 di Connaught Road a HongKong,mitrovoin unsaloneconmobilidi lusso e tele d’autore appese sui muri di fronte a un’enorme vetrata con vista su Hong Kong e sul delta del Fiume delle Perle. Peter Lam, uno degli uomini più potenti di Hong Kong, mi riceve con cortesia e professionalità. Parla chiaramente, articolando ogni sillaba, quasi come se avesse imparato l’inglese con uno di quei corsi con audiocassette, tipo Berlitz. Lam proviene da una delle grandi famiglie della città ed è presidentedieSun,una grande società molto attiva sul fronte cinematografico e musicale. Per quanto siadiHongKong,parla a nome della Cina, poi ho saputo che è membrodelCppcc,una delle componenti politichepiùimportanti della Cina comunista a Pechino (una sorta di Senatocinese). È pronto a partire all’assalto dei mercati culturali occidentali. Il suoobiettivoprincipale è difendere “contenuti cinesi”, secondo le sue parole.“HongKongèil porto dal quale la cultura cinese può partire alla conquista del mondo,” conferma. PeterLamènotoperle sue buone relazioni politiche a Pechino e ha grandi ambizioni perilsuogruppoeper il suo paese. Mi conduce in una sala cinematografica interna nella quale mi mostra un breve film aziendale per darmi un’idea della potenza economica del suo gruppo (il film è ridicolo, di pura propaganda, ma efficace). “Gli americani non possono più continuare a svilupparsi. Dove possono raggiungere una crescita a doppia cifra?Danessunaparte se non in Cina, ma in Cina hanno fallito. Noi invece riusciremo.” PeterLamdimenticadi dire che per il momento il cinema cinese e di Hong Kong fa fatica a raggiungere un pubblico non asiatico e a superare i cosiddetti mercati cinesi “tradizionali”, come Taiwan, Macao, Singapore e i paesi del Sud-est asiatico. Gli faccio questa osservazione e mi risponde citando Infernal Affairs, la trilogia prodotta dal suo gruppo, che ha ottenuto un discreto successointernazionale nel 2002 e 2003 (ma dimentica ancora di direcheilremakefatto da Martin Scorsese, The Departed con Leonardo Di Caprio e Matt Damon, ha avuto un successo molto più ampio quattro anni dopo). Gli chiedo se sia preoccupato dalla censura cinese che rischiadicolpireanche Hong Kong, ormai ritornata alla Cina. “In tutto il mondo c’è la censura. Chi vuole lavorare in Cina deve accettarne le regole,” spiega semplicemente senza la minima esitazione né il minimo sorriso. Gli faccio notare che la Cina si è riappropriata di Hong Kongnel1997,mache la sua produzione continua a essere considerata “straniera”, come se il territorio fosse rimasto indipendentesoloperil cinema. Invece della formula“unpaese,due sistemi”, si tratta di una politica del “due pesi, due misure”. Peter Lam annuisce leggermente senza tornare più sull’argomento. Il gruppo eSun, grazie a importanti studi che producono una decina di lungometraggi all’anno, un settore di distribuzione e centri commerciali, decine di negozi che vendono dvd, è uno dei soggetti chiave dell’industria cinematografica in Asia. È presente anche nelsettorediscografico con quattro etichette, un’agenzia di management di artisti e un settore di produzione di commedie musicali. “Hong Kong è la capitale dell’intrattenimento in Asia,” spiega Gary Chan Chi Kwong, che dirige la divisione musicale e le quattro etichette del gruppo eSun. “Il nostro obiettivo è fare sfondare i nostri artisti qui a Hong Kong perchéapartiredaqui possano raggiungere tuttoilSud-estasiatico. Gliobiettivisonoanche il mercato di Taiwan, della Malesia, di Singaporeesoprattutto dellaCinacontinentale. La cosa più difficile è raggiungere il Giappone ed è quasi impossibile arrivare in India.” Gary Chan Chi Kwong prosegue: “HongKongèunluogo in cui si creano le mode, un trendsetter dell’Asia: chi vuole avere successo, sia esso della Cina, di Taiwan o di Singapore, devevenirequiaHong Kong, questa è la Hollywoodasiatica”. È vero che Hong Kong è riuscita a mantenere una cinematografia influente che produce, con una popolazione di 7 milioni di abitanti, tanti film quanti quelli della Cina, che di abitanti ne ha invece 1,3 miliardi. È una città-regione con una grande eterogeneità di popolazione e di lingue parlate; vi sono tantissimi asiatici di ogni nazionalità che ci vivono senza permesso di soggiorno (a cominciaredaicittadini di Taiwan che devono transitarci per entrare in Cina). A Hong Kong c’è davvero la sicurezza bancaria, la Borsa è più debole rispetto a quella di Shanghai o Shenzhen, le regole giuridiche sono conformi alle norme internazionali, i diritti doganali e le regolazioni sono limitate, è quasi una zonafranca.Atuttociò si aggiunge una rete mediatica capace di generare un passaparola in tutto il continente asiatico e leggi sul copyright piuttosto rigide, mentreidirittid’autore sono costantemente ignoratiinCina.Infine, Hong Kong, secondo i numerosi professionisti che ho intervistato, sembra non avere conosciuto un aumento significativo della censura dopo essere tornatacinesenel1997 (invece l’autocensura è più forte soprattutto poiché l’obiettivo è quello di conquistare il pubblico della Cina continentale, da qui la particolarità dei film prodottialivellolocale: ne esistono due versioni: la versione Hong Kong e la versione “continentale”). Tutto ciò contribuisce a fare di questa singolare città una capitale dell’intrattenimento. HongKongèunasorta di Asia in miniatura – così come Miami è l’America latina in miniatura e Il Cairo il mondo arabo concentrato. È chiaro che le ambizioni della Cina e di Hong Kong sul frontedellaproduzione dei “contenuti” sono enormi. Ascoltando i miei interlocutori all’interno del gruppo eSun a Hong Kong ho avutolasensazioneche per loro fosse una questione di orgoglio, di nazionalismo culturale tanto quanto una questione economica. La guerra culturale è dichiarata, ma in Cina nessuno sa bene quali siano gli obiettivi. La testata culturalecineseèstata lanciata, ma il regime autoritario non ne ha ancora fissato la traiettoria. Per ora si spinge a testa bassa, per gli obiettivi si vedràinseguito. Di tutt’altra natura è la strategia della concorrenza, ugualmente bellica e sostenuta da un altro grande signore del capitalismo, Rupert Murdoch. Come Murdoch ha perso milioni in Cina e trovatomoglie “Just imagine.” Sembra lo slogan di Nike, “Just do it”. È la scritta incisa a lettere dorate, all’americana, su una parete di vetro nel grande e lussuoso salone d’ingresso della sede asiatica del gruppoStar,alcivico1 di Harbourfront, a Kowloonb (Hong Kong). Con tutte queste luci, le stelle di “Star”chebrillanoele scale in vetro, sembra quasi di essere in uno studio di Mtv. Dall’ottavo piano dell’edificio, c’è una vista incredibile su Victoria Harbor e sul Mar Cinese. Sono invitato a prendere posto all’interno di un’immensa sala riunioni. Davanti a me ci sono sette schermi giganti e un grande mappamondo. Penso che Rupert Murdoch abbia sempre voluto dominare il mondo. “Justimagine.” PaulAielloèilnuovo uomo di Murdoch in Asia, è un banchiere di New York che vive a Hong Kong da quindici anni ed è vicepresidente della banca First Boston, ha lavorato per Morgan Stanley, è stato consulente per la Banca mondiale. Mi accoglie nel quartier generale di Star Tv, di cui è amministratore delegato dal 2006. Ha un’aria un po’ sospettosa di fronte a me che vengo a fare un’inchiesta sulla sua azienda, ogni tanto traffica con il suo Blackberry all’ultimo gridoedèaffiancatoda Laureen Ong. Di primo acchito, questa signora mipareantipatica,una diqueiPRcerbero.Poi, invece, nel corso dell’intervista si rivela gentile e collaborativa, proviene da “National Geographic” e ha fatto il resto della sua carriera nel settore della televisione sportiva negli Stati Uniti ed è ormai numeroduedelgruppo Star. Star riunisce sessanta emittenti televisive in sette lingue che a partire da Hong Kong trasmettono in tutta l’Asia. “Potenzialmente possiamo raggiungere 3miliardidipersonein 53 paesi dell’Asia, quasi metà della popolazione mondiale,” spiega Paul Aiello, riprendendo una famosa formula di Murdoch (in realtà il gruppo Star può raggiungere solo, e potenzialmente, 300 milioni di persone). Star, che ha sede a Hong Kong, rappresenta per Murdoch, patron globalizzato della multinazionale News Corp, il corrispondente asiaticodelgruppoSky in Inghilterra e di Fox negli Stati Uniti. È una delle scommesse nel settore audiovisivo più audaci degli ultimi vent’anni. L’avventuracinesedi Rupert Murdoch cominciaall’iniziodegli anni novanta con un semplice obiettivo: possedere una rete televisiva in Cina. Il miliardarioaustralianoamericano in questo progetto ha investito molto denaro, il suo senso del pragmatismo in affari e tutta la sua guanxi (termine cruciale in Cina per definire buoni legami politici con il Partito comunista cinese). Strada facendo ha persomilionididollari, hafallitoe,tuttavia,ha trovatomoglie,Wendi. “Dopotutto, il Partito comunistacinesenonè forse la più grande camera di commercio del mondo?” Siamo nel 1997. Rupert Murdoch è fiero del suo “joke” chefailsuobell’effetto inunpranzoaPechino. È sicuro di sé e ha investitoinCinaconun piano ben preciso. Conquistare a suon di denaroicomunistiche, dall’epoca di Deng Xiaoping, vogliono arricchirsi.Edidenaro Murdochneha. Murdoch punta su Star, le cui iniziali significano Satellite Television for the Asia Region. Il gruppo è stato creato a Hong Kong nel 1991 e ha cinquecanaliininglese (tra cui Mtv Asia e il segnale di Bbc World Service). Star lo ha velocemente portato alla notorietà ma è stato un fallimento in termini finanziari. Murdoch versa a partire dal 1993 quasi 525 milioni di dollari peracquisireilgruppo. Asseconda le inquietudini delle autorità cinesi dando loro garanzie e accettando dal 1994 di ritirare Bbc World Service dall’offerta dei suoi programmi satellitari, poiché il governo cinese trova che, dagli eventi di piazza Tienanmen, l’emittente inglese non sia abbastanza “giusta, equilibrata e positiva” quando tratta le questioni politiche della Cina. Poco dopo Murdochimponeanche al suo gruppo inglese Sky maggior “equilibrio” sulla Cina: chiededidarelaparola al governo cinese quando è attaccato per farsentireilsuo“punto di vista”. Non è più il caso di far vedere in Inghilterra le immagini del“TankMan”,l’uomo che si è opposto ai carri armati sulla piazza Tienanmen e di cui Sky, giustamente, chiede notizie. Oppure bisogna essere equilibrati e lasciare che il governo cinese possafornirelapropria versione dei fatti. In seguito, per compiacere il Partito comunista Murdoch critica il Dalai Lama con una celebre frase, “Un vecchio monaco chefailpoliticoevain giroconscarpeGucci”, e definisce la società tibetana “autoritaria e medievale”. In questo modo,Murdochmostra un tratto fondamentale del suo personaggio: pragmatismo assoluto quandocisonoingioco gli affari, anche a scapito delle sue idee politiche. In fondo, è disposto ad accettare i vincolicinesi,persinoil controllo politico sui suoi giornali e sui suoi programmi, a condizione di poter guadagnare denaro. È più attento ai dollari che alle idee e più interessato ai profitti che ai conflitti. Questa filosofia, le sue affermazioni e le sue decisioni suscitano levate di scudi in Inghilterra. Per quanto possa essere prudente, Murdoch rischia, tuttavia, di mettere in pericolo tutto il suo impero con una sola frase. In occasione di una festa a Londra per lanciare una nuova offerta del suo gruppo Sky, nel 1993, in un breve passaggio del suo discorso, quasi inavvertitamente, si mette a fare l’apologia delle televisioni satellitari contro i regimi totalitari: “I fax hanno permesso ai dissidentidiaggirareil controllodapartedegli stati sui media scritti; le televisioni satellitari permetteranno alle popolazioni dei paesi chiusi, avidi di informazione, di aggirare le televisioni pubblicheufficiali”. Questo messaggio, rivolto alla piccola cerchia di élite dei media inglesi, fa ovviamente il giro del mondo in qualche ora, e arriva anche a ottomila chilometri di distanza a Li Peng, primo ministro cinese. Quest’ultimo sa meglio di chiunque altro che i fax sono stati utilizzati daglistudentidipiazza Tienanmen per fissare segretamenteipuntidi ritrovo da cui far partire le manifestazioni e da questo momento cerca di prevedere gli obiettivi in Cina del miliardario occupandosi personalmentedelcaso Murdoch. Di fronte ai colossali mezzi finanziari del magnate, icinesireplicanoaloro modoconarmipesanti. Anzitutto, il primo ministro firma direttamente un decreto, solo un mese dopoildiscorsosu“fax e satelliti” di Murdoch, e proibisce le parabole per captare televisioni satellitari su tutto il territoriocinese.Perla diffusione delle emittenti televisive in Cina, da questo momento viene privilegiatoilviacavoe non il satellitare. Poi incarica il capo dell’ufficio della propagandadiPechino, direttamente legato al Partito comunista cinese, di aprire un fascicolo “Murdoch” e di seguire i movimenti e i progetti di questo uomo d’affari a Hong Kong e in Cina. L’obiettivo è impedire la spiritual pollution (nel linguaggio di partito sono i valori antisocialisti che possono minacciare la cultura cinese). Quel giorno, Murdoch, come dirà egli stesso, passa dalla “watch list” alla “blacklist”. Il fascicolo su Murdoch si riempie poiché è un uomo i cui mezzi sono all’altezza delle ambizioni. Ha già finanziato con grandi investimenti un “new media center” a Pechino e, per impressionarli, ha mandato decine di persone dell’establishment cinese a visitare le infrastrutture di Fox a New York e di Sky a Londra. Acquisisce poi un importante quotidiano in lingua inglese a Hong Kong, finanzia case cinematografiche nella città di Tanjin e per compiacere la famiglia presidenziale fa pubblicare negli Stati Uniti le memorie di Maomao, primogenita di Deng Xiaoping (attraverso HarperCollins, il settore editoriale del gruppo News Corp, invitato a pubblicare il libro senza badare a spese – si dice che Maomao avesse ricevuto un anticipo di un milione di dollari). La tournée promozionale che Murdoch fa organizzare per Maomao negli Stati Uniti ricorda quella organizzatadall’Unione Sovietica per André Gide. La stampa americananonsilascia tuttavia impressionare: il “New York Times” ridicolizza l’autobiografia non appena viene pubblicata considerandola “un testo di propaganda indigesta,conunostile letterarioscadente”. Murdoch persegue metodicamente i suoi obiettivi. Si prende affettuosamente cura del figlio più piccolo di Deng Xiaoping – una persona con disabilità. Finanzia la sua associazione, la Federazione cinese per le persone disabili e lo accogliecontuttiisuoi collaboratori per una crociera sul suo yacht, con trasporto gratuito in aereo privato. Murdoch prosegue poi nel suo slancio: nel 1993 decide di trasferirsi con la moglie e i figli in uno dei palazzi più belli di Hong Kong (ma sei mesidopotornerannoa LosAngeles).Nel1997 mette il veto alla pubblicazione,daparte di HarperCollins, delle memorie critiche di Chris Patten, ex governatore di Hong Kong, per non contrariare le autorità cinesi dopo la fine del mandato inglese sull’isola e il ritorno sotto il controllo cinese. Questa campagna di compiacimento a trecentosessanta gradi per un certo periodo funziona, ma quando Deng Xiaoping viene allontanato dal potere e gli succede Jiang Zemin, Murdoch si ritrova senza guanxi. Nel frattempo, i cinesi hanno cominciato a confiscare oltre mezzo milione di parabole, cercando di limitare l’influenza delle televisioni straniere in generaleediStarTvin particolare. La controffensiva di Murdoch si sviluppa conunastrategiaintre fasi.Anzituttodecidedi dare a Star una veste internazionale. Non riuscendo a raggiungereicinesisul continente, si rivolge agli asiatici di tutto il mondo. Apre dunque uffici in diverse zone dell’Asia e oltre. Per esempio, a Dubai ho scoperto con sorpresa all’interno della Dubai Knowledge City un ufficio di Star. “Star si è insediata nel Golfo per raggiungere gli immigrati cinesi, indiani e pakistani che qui sono numerosi. I nostri canali trasmettono in lingua hindi, mandarino e inglese e tenuto conto del numero di asiatici emigrati hanno un buon seguito. Ma qui a Dubai non facciamo nessun programma, abbiamo solo un sale office per l’acquisto di spazi pubblicitari. Questa è stata una scommessa di Murdoch. È stato lui a voleraprireunufficioa Dubai per seguire la zona del Golfo,” mi spiega Alis Terb, consulente del direttore di Star Tv a Dubai. Il secondo punto della sua strategia riguarda la musica, un settore meno sensibile rispetto all’informazione. Lanciando Channel V all’interno dell’offerta di Star, Murdoch ha voluto creare in Asia l’equivalente di Mtv. Il piano è efficace ed è giocato sulla promozione di contenuti locali per conquistare un gruppo eterogeneo. Esiste anche una versione di Channel V destinata alla Cina continentale, prodotta in mandarino a Taiwan, e con una programmazione molto locale, sotto stretto controllopolitico.Peril resto del mondo, Channel V ha creato una versione internazionale fatta in inglese da Hong Kong, a base di canto pop, e più libera nei suoi programmi. Le diverse versioni hanno un notevolesuccesso. Il terzo punto della strategiadiMurdoch,il più ambizioso, è avviato nel 1996 e ha un nome significativo, Phoenix. Con Phoenix Murdoch spera di rinascere dalle sue ceneri. Dall’ottavo piano degli uffici di Star a Hong Kong si può salire con una bella scala di vetro al nono piano dove ci sono gli uffici di Phoenix. Le due emittenti, simbolicamente separate da questa scala, si scambiano contenuti, condividono gli studi e testano strategie differenti. Il gruppo Phoenix trasmette oggi via satellite da Hong Kong trecanaliinmandarino verso la Cina, frutto di una joint-venture tra Murdoch e l’uomo d’affari cinese Liu Changle. I suoi detrattoriironizzanosu questajoint-venture. Nel 1996, la nuova trovata di Murdoch è pronta. Per Phoenix deve però trovare un partner con buoni legami con il governo cinese per poter ottenere le necessarie autorizzazioni in cambio di infrastrutture satellitariedenaro.Liu Changlesembraessere l’uomo giusto. È figlio di un influente dirigente comunista ed è stato nell’esercito cinese, il famoso People’s Liberation Army, dove è riservista con il grado di colonnello.Inoltre,èun autentico uomo d’affari, appassionato di media (è stato un giornalistamilitarealla Radio centrale del popolodiPechino)edè un temibile mediatore finanziariochehafatto fortuna piuttosto misteriosamente con raffinerie di petrolio a Singapore poi nel settore immobiliare, con autostrade, porti e alberghi nella Cina continentale. Liu Changle è la prova persino caricaturale del fatto che, all’interno dell’“economia socialista di mercato” cinese, è possibile avere ampie possibilità commerciali quando si hanno buoni legami politici. Deciso ad affrontare questo “Far East”, Murdoch conoscel’importanzadi avere una buona rete dicontattiesapuntare sugli uomini giusti. Vede in Liu Changle l’espressione delle tendenze della nuova élite cinese: è un ferventebuddhistaeun imprenditore multimilionario, è un uomo frustrato dal partito e nel contempo è legato al sistema comunista, è un uomo d’affari senza scrupoli e ha fatto studiare le figlie in un’università americana, è un uomo di partito che esiste graziealregimeenello stessotempovuolefare un giornalismo che mina questo sistema dall’interno: queste sono le condizioni del suo successo personale. Murdoch si impegna affinché Phoenix resti “politicamente neutra”. Liu Changle è pronto a collaborare per creare la rete privata Phoenix Satellite Television. L’affare è fatto: MurdocheLiuChangle hanno ciascuno il 45 per cento del nuovo gruppo con sede a HongKongequotatoin quella Borsa, il rimanente10percento è regalato come omaggio alla buona volontà del governo a Cctv, la televisione ufficialecomunista. Dal 1996, Phoenix ottiene le autorizzazioni necessarie per una diffusione nella Cina continentale, per ragioni non ancora abbastanza chiare, ma probabilmente relative alritornoanticipatonel 1997 della regione autonoma di Hong Kong sotto il controllo comunista cinese. Nel giro di qualche mese, con diversi canali in mandarino, Phoenix fa registrare un grande successoinAsia.Èuna televisione che con talk-show, news live e presentatori che fanno veredomandeainvitati “onair”sicontrappone ai polverosi format delle televisioni pubbliche cinesi. Good Morning China, Phoenix Afternoon Express, Newsline, sono alcune delle trasmissioni di successo della nuova emittente, che prende esempio dalla stazione televisiva Fox negli Stati Uniti, sempre di Murdoch. Il governo, ancora unavolta,sipreoccupa di limitare i rischi. Il segnale di Phoenix è autorizzato nella Cina continentale solo negli albergi dalle tre stelle in su, nelle ambasciate e in alcuni edifici governativi. Soprattutto, Liu Changle controlla che Murdoch non diriga i programmi nella redazione dell’emittente. Per la prima volta nella sua vita, Murdoch è messo in secondo piano e accetta di disattendere la regola che l’ha guidatopertuttalasua carriera:maigestireun business che non si controllainteramente. Con l’11 settembre 2001, Phoenix diventa indispensabile come era accaduto con le due Guerre del Golfo che hanno reso indispensabili Cnn e Al Jazeera. Mentre le televisioni ufficiali cinesi si limitano a un breve annuncio sugli attentati terroristici di New York in attesa delle posizioni ufficiali del partito e della sua autorizzazione a diffondere le immagini – ci vorranno ventiquattr’ore prima di essere mandate in onda – Phoenix trasmette continuamente le immagini e rivoluziona il palinsesto per essere in diretta per cinque giorni da New York. Migliaia di cinesi si precipitano negli alberghiperseguiregli avvenimenti. Nonostante il divieto, l’acquisto di parabole illegali aumenta, cominciano a spuntare dappertutto in Cina, e piùcisiallontanadalla capitale politica Pechino, più sono numerose. Nel corso delle mie inchieste in Cina, ho potuto constatare che era possibile acquistare una buona parabola per circa 3000 yuan Rmb (intorno ai 300 euro). Secondo i miei diversi interlocutori, milioni di cinesi hanno accesso alle televisioni straniere via satellite. Talvolta, viene messa sopra un edificio una parabola più grande che fornisce tutti gli appartamenti del quartiere – un fenomeno completamente illegale e visibilmente generalizzato. Spesso, in modo del tutto legale, le reti locali cablate, che sono pubbliche, intercettano il segnale di Phoenix via satellite e lo ritrasmettono all’interno della loro offerta per avere un’audience maggiore. Per il momento le autorità di Pechino lasciano fare e anche Phoenix tollera questa pirateria senza chiedere contropartite per aumentare il suo pubblico e la sua influenza. Con Phoenix, con la strategia della decentralizzazione, con il commercio di parabole illegali, con accordi obsoleti e con la fame di denaro del “capitalismo di stato” cinese, Murdoch ha fatto grandi passi in avanti, ma non ha ancoravintolaguerra. “In Cina, ogni giorno abbiamo 180 milioni di telespettatori.” Il vicepresidente di Phoenix, Roger Uren, un affabile australiano che mi fa visitare gli studi dell’emittente nella sede di Hong Kong, mi rivela con calcolata noncuranza un dato prezioso: “180 milioni”. È la prima volta che sento pronunciare un dato così preciso. Nessuno sasesiavero,neanche Roger Uren. Di sicuro, la direzione di Phoenix ha interesse a fornire dati elevati del proprio pubblico per alimentare il mercato pubblicitario, ma può anche volerlo diminuire, per evitare misure di ritorsione da parte della censura. Traquestidueestremi, il dato è comunque plausibile. Ufficialmente, naturalmente, Phoenix Television raggiunge solo centinaia di migliaia di turisti, diplomatici e ufficiali, poiché si limiterebbe a una diffusione negli alberghi e nelle ambasciate. Tutti sembrano stare al gioco di questa illusione. Incontrando i giornalisti, i presentatori e il personale di Phoenix, tutti indaffarati all’interno di locali sovrappopolati, capisco il successo dell’emittente. Phoenix è una televisione moderna e giovane, innovativa e audace, nonostante i rischi politici che corre e i pochi mezzi finanziari. Wang Ruolin, per esempio, si appresta a presentare una trasmissione quando la incontro nella sala truccocheèdifrontea uno dei tre studi di Phoenix. Ha soli venticinque anni, indossa una maglietta bianca aderente e ha un taglio di capelli che ricorda quello dei presentatori hip hop di Mtv,emidicediessere specializzata nel “infotainment”; Sally Wu, invece, reclutata a Taiwan, è un’annunciatrice del telegiornale particolarmente telegenica,impeccabile e magra, ha una voce soave che la rende incredibilmente affascinante, mi dicono che milioni di studenti cinesi sono innamorati di lei; infine Dou, che vedo in un ufficio open space,midicediessere assistente del primo talk-showtelevisivogay mai prodotto in Cina. Siamo ben lontani da “presentatori dinosauri” e da un politichese monotono e austero di emittenti ufficiali fatto di “no sex, no violence, no news”, la regola d’oro. Ma la gioventù e la libertà hanno alcuni limiti. “Si fanno molte concessioni per non urtare troppo direttamente la censura,” confessa Roger Uren. “Ci si concentrasuifatti,non si provoca il regime, siamo un’emittente cinese.AncheseStarè un canale molto occidentale, siamo attestatisoprattuttosul locale.” Queste concessioni hanno un costo: talvolta su Phoenix si vedono programmi che fanno l’apologia delle misure economiche prese da alcune province (anche se unanimemente screditate); si racconta la meravigliosa vita di Deng Xiaoping; si intervista il ministro della Sanità qualche ora prima di essere dimesso per aver nascosto l’epidemia di Sars; si accusa il Dalai Lama e non viene fatta alcuna menzione di piazza Tienanmen. I detrattori di Murdoch considerano Phoenix un’emittente la cui propaganda è semplicemente più sottile di quella delle trasmissioni ufficiali cinesi. Anche se articolata, lastrategiadiMurdoch comincia a risultare chiara: con Star, il magnate dei media ha giocato sul terreno dell’intero continente asiatico tentando di aprire, dall’esterno, il paese alle influenze internazionali e prendendo in parola la Cinasulsuobisognodi modernizzarsi; con Phoenix, ha giocato sul terreno interno, cercando di compiacere le autorità cinesi, ed è riuscito a penetrare nel mercato giocandosullesuezone d’ombra e aumentando il suo pubblico nelle “chinatown”delmondo intero che preferiscono Phoenix alle emittenti ufficialidellaCctv. Negli uffici di Star, l’amministratore delegato Paul Aiello naturalmente non confessa ciò che il vicepresidente di Phoenix mi ha detto al piano di sopra. Il mio interlocutore parla con prudenza, senza dire né troppo, né troppo poco. “Dato ciò che siamo e ciò che rappresentiamo, possiamo agire in Cina solo in modo legale (through the front door). Non possiamo lavorare nella zona grigia (the grey area)”. In Cina, la zona grigia è il territorio opaco tra legale e illegale, tutto ciòcheètolleratodalle autorità cinesi senza essere formalmente messo al bando. Phoenix gioca su questo terreno tentando di spostare più in là i confini della zonagrigia.AncheStar fa lo stesso gioco, ma senza riconoscerlo ufficialmente (come se le parabole potessero permettere di captare Phoenix e non Star). Nessuna delle due strategie è realmente sufficiente,macercadi prendere la Cina dai due lati, in e out, e in questo modo Murdoch ha ottenuto dei risultati, che generalmente i suoi detrattori non gli riconoscono. Ma, soprattutto, strada facendo ha trovato una nuovamoglie. Wendi Deng, cinese, alta, attraente ed entusiasta,nel1997ha ventinove anni, ha conseguito un Mba (Master in Business Administration) a Yale e da qualche mese sta facendounostagenella sede di Star a Hong Kong. Parla un inglese fluente e la sua lingua madre è il mandarino (mentre la maggior parte dei dipendenti di Star parla cantonese, la lingua di Hong Kong).Perunaseriedi circostanze diventa l’interprete di Rupert Murdoch. In questo periodo il magnate sta vivendo una crisi nel suo secondo matrimonio. Trova questa giovane cinese affascinante e confida al suo principale assistente: “Quando si comincia ad avere una certa età, è importante circondarsi di persone giovani, gente con nuove idee, piene di energia e di entusiasmo. Fa bene, rivitalizza”. Poco dopo comincia una relazione con Wendi che diventerà presto la sua terzamoglie. Wendi Deng Murdoch ha un’influenza decisiva su Murdoch e lo sostiene nella sua nuova – e ultima – avventurainCinadallo strano nome di ChinaByte. Il magnate dei media spera di vincerelasuabattaglia in Cina attraverso internet e, ancora una volta, prende tutti in contropiede, a cominciare dai cinesi. Ancor più delle televisioni satellitari, internet ha subito costituito un grande problema per le autorità comuniste per la sua capacità di mettere in pericolo il controllo assoluto del partito. Inizialmente, il governo ha pensato di “vietare il web”, ma si è poi reso conto che le misure tecniche e repressive erano poco efficaci sul controllo dei contenuti. Soprattutto le autorità hanno dovuto affrontare un dilemma impossibile da risolvere: frenare internet significava frenare l’economia e significava dunque perderelapossibilitàdi giocare ad armi pari conStatiUniti,Europa, Giappone e India. Per la prima volta, controllo politico e sviluppo economico sembrano avere strade opposte. Nel corso di un decennio, internet in Cina ha raggiunto 200 milioni di utenti e 50milionidiblog. Murdoch sfrutta queste contraddizioni con incredibile abilità. Dal 1995 decide di investire sul web in Cina e lo fa alla sua maniera, bluffando. Ormai sa come compiacere gli uomini del sistema e prende accordi con i responsabili del quotidiano ufficiale del Partito comunista per creareunajointventure per avviare un sito comune per il quale assicuraleautoritàche sarà tecnologicamente all’avanguardia e affidabile sul piano politico. A queste condizioni il governo cinese accetta, ma impone che il sito di Murdoch passi per un fornitore d’accesso ufficiale cinese, Chinanet. All’epoca il numero dei frequentatori di internet in Cina era meno di duecentocinquantamila. Murdoch coglie l’opportunità, ma non riesce a ottenere la connessionepoiché,nel frattempo, nel gennaio 1996, il primo ministro cinese annuncia la proibizione assoluta di internet con il motivo ufficiale di “lottare contro la pornografia” (sembra che un “compagno” dell’ufficio della propaganda che aveva installato Windows95acasasua fosse capitato su un sito pornografico). I controlli aumentano e le società di internet devono ottenere nuove autorizzazioni speciali. Dopo alcuni mesi di trattative, Murdoch ottiene la licenza per avviare il sito chinabyte.com, tuttavia siponesubitounnuovo problema: il progetto economico del sito si basa sulla pubblicità e la sua società non è autorizzata a commercializzare spazi pubblicitari poiché non ci sono soci cinesi al suointerno. A un anno dalla nascita, il sito ha finalmente tutte le autorizzazioni formali per essere avviato, ma continua a non ottenerelaconnessione di accesso a internet. Doponuovetrattativee sette mesi più tardi, Murdoch ottiene una connessione di 28 K pagando un abbonamento mensile di ventiduemila dollari. IdetrattoridiMurdoch sogghignano di questa disavventura e sostengono che, a questi costi, stava sovvenzionando lo sviluppo di internet in tuttalaCina. Nel gennaio 1997, chinabyte.com è ufficialmente avviato con le felicitazioni del governo cinese e una straordinariacopertura mediatica internazionale.Nelgiro di qualche mese diventa il primo sito cinese. Ormai sostenuto dalla nuova moglie, ufficialmente responsabile di internet all’interno del gruppo Star, Murdoch cominciaamoltiplicare le partecipazioni – e ancheirischi. Crede più che mai alle sinergie all’interno del suo gruppo interamente costruito sul modello della concentrazione verticale: di un film, tratto da un libro edito da HarperCollins, prodotto dalla 20th CenturyFox,trasmesso dalla televisione Fox negli Stati Uniti, da Sky in Inghilterra e Star in Asia, riesce ad avere una copertura importante con il “Time” e il “Sun” a Londra e il “New York Post”negliStatiUnitie nelladecinadimediae di compagnie raccolte sottoNewsGroup.Con Titanic nel 1997, a Murdoch riesce un’impresa da maestro –inCina,èuncolpodi genio. Con l’aiuto di Wendi, Murdoch riesce infatti a convincere il presidentecineseJiang Zemin ad assistere a una proiezione privata di Titanic, prodotto dalla sua 20th Century Fox. Il leader comunistaèaffascinato dalle avventure di questo adolescente poverochesiinnamora di una ragazza ricca e muore per salvarla; apprezza gli effetti speciali del film e ancora di più il suo successo commerciale planetario. Qualche giornodopo,fattoraro, firma lui stesso una critica del film sul quotidiano comunista ufficiale: “Invito i miei compagni dell’ufficio politicoavedereilfilm, non per promuovere il capitalismo, ma per aiutarci ad avere successo. Non dobbiamo credere di essere gli unici a sapere come si fa propaganda”. Murdoch considera l’articolo un complimento, ma si tratta di fatto del programmastabilitoda Jiang Zemin per i quadri “culturali” del partito: la Cina deve mettersi al lavoro, ricostruire le sue obsolete industrie culturali e battere Hollywood sul suo stesso terreno. La critica al film ha il valorediundecretoeil presidentecinesedàgli ordiniperaccoglierela sfida e costruire una potente industria cinematografica. Cogliendo l’invito del presidente cinese, Murdochorganizzauna serie di proiezioni per l’intero ufficio politico del Partito comunista cinese e invita anche i responsabili della censura.Tremesidopo ottiene il permesso di far uscire Titanic in Cina con un numero elevato di copie, cosa che sarebbe stata impossibile senza l’articolo di Jiang Zemin. Titanic diventa così il più grande successo cinematografico straniero di tutta la storiadellaCina. Murdoch crede di essersi riconquistato le grazie in Cina. Spera così di ottenere in cambio l’abrogazione del divieto sulle parabole e più libertà per internet. Ormai, Murdoch dice pubblicamente che Star, fino a ieri un networkditelevisionia pagamento, diventerà la prima piattaforma multimediale asiatica. Chiede a Wendi e al figlio James Murdoch, diventato responsabile diStaraHongKong,di acquistare una ventina di siti internet cinesi e indiani, acquisiti per circa 150 milioni di dollari. Ancora una volta hanno fatto i conti senza l’oste. Le autorità comuniste autorizzano la trasmissionenellaCina continentale della versione in mandarino di Star, ma il canale è accessibile solo sulla rete cablata di una lontana provincia cinese in cui gli abitanti parlano soprattutto cantonese. In cambio, Murdoch deve concedere l’accesso di tutto il pacchetto di reti cablate americane, aprire alla nuova emittente ufficiale dell’informazione continua in inglese, una sorta di Voice of China. L’offerta non è negoziabile. C’è di peggio. Murdoch si rende conto che la maggior parte dei programmi televisivi di successo trasmessi da Star e da Phoenix è clonata e ritrasmessa, talvolta semplicemente tradotti in mandarino e a dispetto delle leggi contro la pirateria, dalle televisioni nazionali che li rivendono facendo concorrenza a Star. In caso di controversie legali, i tribunali cinesi danno sempre ragione alle televisioni governative. Un problema simile si propone anche con il sito internet di Murdoch. I siti pirata sono addirittura realizzati da persone assunte dal proprietario di News Corp e nei suoi stessi uffici. Così, il sito originale ha qualche centinaia di migliaia di visite, mentre il sito clonato, pubblicizzato da televisioni e stampa ufficiali, supera i diversi milioni. Con l’esplosione di internet e le tensioni con i partner ufficiali cinesi di altri siti web, Murdoch decide di ritirarsi da questo mercato. E ben presto anchedallaCina. “Murdoch ci chiama ancora spesso,” mi spiega Paul Aiello. “Talvolta alle quattro del mattino perché dagli Stati Uniti si è sbagliato sul fuso orario. La cosa formidabilediMurdoch è il suo entusiasmo. Non guarda mai al passato e agli errori. Mi dice ‘what’s next?’. Ormaiinternetèlasua ossessione. Pensa sempre al futuro. Non accettamaichelecose stianoferme.” Eppure è proprio in una situazione di stallo con Star in Cina. Rupert Murdoch, che PaulAiellomidefinisce “hands on”, direttamente coinvolto negli affari, sembra aver abbandonato il suogiochinocineseper preferirglialtresfide:il “Wall Street Journal” o MySpace, recentemente acquisiti negli Stati Uniti, e soprattutto l’India che sembra preferire alla Cina. Oggi, se il gruppo Star ha una reale influenzainIndia,dove realizza il 70 per cento delsuogirod’affariea Taiwan, in cui le sue emittenti sono dominanti,deveancora sfondare sul mercato. ConStar,Murdochnon è riuscito ad avere l’emittente televisiva che sognava; di Phoenix non ha né il controllo finanziario, né quello editoriale (per questo di recente ha venduto metà delle sue quote all’operatore telefonico pubblico cinese).“Sevuolefarmi dire che il nostro ingresso sul mercato cinese è stato un fallimento, dico che è stato un fallimento,” afferma Aiello. Anche Murdoch, in occasione di una conferenza, non nasconde le sue perplessità di fronte all’avventura cinese: “Non è andata molto bene in Cina. Dobbiamoesseremolto umili. Tutto ciò che posso dire è che nessuno, dico nessuno, dei gruppi di media americani o inglesi è riuscitoaconquistareil mercato cinese. È un mercato molto vasto, maèunmercatomolto sensibile, davvero molto sensibile. È un mercato molto difficile perglioutsider”. Nell’agosto2009,con una decisione molto attesa, l’Organizzazione mondiale del commercio, spinta dagli Stati Uniti nel 2007, ha decretato a Ginevra la violazione da parte della Cina delle regole del commercio internazionale limitando l’importazione di libri, materiale multimediale, dischi e film. Il lassismo cinese sulla pirateria e il mancato rispetto delle leggi internazionali sul copyright sono stati sanzionati. Ma indipendentemente dalle conseguenze della decisione – Pechino ha fatto ricorso –, sembra che gli americani abbiano per il momento dimenticatolaCina. In questi ultimi mesi gliufficidellaWarnera Pechino e di Columbia a Hong Kong hanno chiuso.Disneycontinua ad aspettare il via libera per costruire il suo parco tematico a Shanghai. Google minaccia di ritirarsi dalla Cina. L’ex patron di Warner di quella area,EllenEliasoph,fa l’avvocato per una società americana e vive sempre a Pechino. Barbara Robinson ha abbandonato Columbia e continua a vivere a Hong Kong. Peter Loher continua a scritturare artisti locali in attesa che la Cina si apra. Paul Aiello, amministratore delegato di Star, ha annunciato le sue dimissioni da presidenteeunripiego strategico del gruppo da Hong Kong verso Mumbai. Scossi dai ripetuti fallimentiinCina,dalla censura, dalle quote di riserva, dai diritti di percentuale e dal capitalismo autoritario del “due pesi e due misure”, gli americani hanno un nuovo piano: dirottare gli investimenti nell’Asia dell’Est e nell’Asia del Sud. In pratica, abbandonano la Cina per dirigersi su un suo concorrente, l’India. Invecediunmercatodi 1,3 miliardi di cinesi, gli americani sono prontiadaccontentarsi di un mercato di 1,2 miliardi di indiani. Dopo tutto, è sempre unpaese,comedicono, la cui popolazione è nella categoria “Billion +”(oltreunmiliardo). Nel marzo 2009, la Motion Pictures Association ha aperto un ufficio in India. Gli studios Disney, Warner Bros,20thCenturyFox e Paramount hanno aperto uffici a Mumbai e cominciano a produrre film localmente. Mtv decolla in India. Le serie prodotte da Colors, emittente di Viacom, hanno un grande successo. Perchéallora,invecedi Kung Fu Panda non fare The Millionnaire? Gli americani sono sempre alla ricerca di una nuova frontiera e di un nuovo mondo, la nuova Cina ormai si chiamaIndia. 10. ComeBollywoodvaalla conquistadelmondo “Se per una settimana non mi faccio vedere all’Hotel Marriott, la gente pensa che io abbia smesso di lavorare,” dice con ironia Uday Singh,ilpatrondiSony India. “Quando sono al Bbc, uno dei bar del Marriott, tutti sanno che sto preparando un film, sanno con quali attori e con quale regista girerò,” spiega dal canto suo il produttore indiano BobbyBedi. A Bollywood, ogni generazione del mondo del cinema ha il proprio hotel di riferimento. Prima c’era il Juhu Hotel, ormai scalcinato, sulla spiaggia di Juhu, a Mumbai, capitale del cinemaindianoenuovo nome di Bombay; in seguito la “scena” si è spostataalSun-n-Sand, unlussuosohotelpiùa nord.Lemodesonopoi cambiateancoraeoggi la passione dei professionisti del cinema per i meeting, delle star di Bollywood per le feste e le esigenze dei giornalisti di intervistare le star, hanno portato tutti all’Hotel Marriott, un palazzoacinquestelle, ultrachic, anonimo, collocato a Juhu tra il quartiere alla moda di Santa Cruz, a sud, e FilmCity,glistudiosdi Bollywood, a nord di Mumbai. Nei sette bar e ristoranti del Marriottc’èunafolladi produttori, distributori, agenti e attori che si agitano per dar vita ai prossimi film commerciali di Bollywood. Tutti parlano in inglese su un sottofondo di musicaloungeBuddha- Bar. Amit Khanna mi ha invece dato appuntamento a MumbaialSun-n-Sand, a cui resta legato, e lontano dal mondo delle feste. Questo hotelcheraccoglievail mondo di Bollywood offre una vista sulla spiaggia di Juhu decisamente più bella di quella offerta dal Marriott,epuressendo un edificio desueto e un po’ vecchiotto continua a essere frequentato dalle storiche famiglie della città.Mentreattendoal bar dell’hotel, le casse diffondono di continuo l’ultimo album dei Coldplay. Improvvisamente arriva Khanna, in ritardo, con due telefoni cellulari a cui risponde sempre in quindici secondi a ogni telefonata che riceve. Amit Khanna indossa un abito all’antica, è calvo, è serio e risponde velocemente alle domande, con autorità, senza alcuna giovialità e senza fornire dettagli. Le sue parole sono centellinate. “Qui ci sono 1,2 miliardi di abitanti.Abbiamosoldi. Abbiamo conoscenze. Con il Sud-est asiatico rappresentiamo un quarto della popolazione mondiale, con la Cina un terzo. Vogliamo avere un ruolo da protagonisti, sul piano politico, economico, ma anche culturale.Crediamonel mercato globale e abbiamo valori da promuovere, quelli dell’India, vogliamo affrontare Hollywood sul suo terreno. Non solo per guadagnare soldi,maperaffermare i nostri valori. E sono profondamente convintochesaremoin grado di riuscirci. Dobbiamo contare anzituttosunoistessi.” Da quando sono arrivato in India, nessuno mi aveva mai parlato in questi termini. Finora i miei interlocutori avevano mostrato grande cortesia nei miei confronti e spesso, per via del fatto che fossi un occidentale, forme di rispetto e di umiltà per me sempre imbarazzanti. Amit Khanna, invece, non si fa alcuno scrupolo. Ha uno sguardo sicuro, di chiosservaunfrancese come me come se fossi ilmembrodiunpiccolo popolo in via di estinzione, ha lo sguardo del dominante sul dominato, l’esatto contrario di quello che hanno i guidatori dei risciò, i barbieri, i lustrascarpe, i chai wallahs(servitoriditè) che si incontrano in India, gente sempre intimidita che continua adirti“Yes,sir”. Amit Khanna è l’amministratore delegato di Reliance Entertainment, una delle multinazionali indiane più potenti nel settore delle industrie creative e dei media. Il gruppo appartiene al multimiliardario Anil Ambani, cinquant’anni, sestouomopiùriccoal mondo, imprenditore nella distribuzione di gas ed elettricità e nel settore delle telecomunicazioni, mentre suo fratello Mukesh Ambani – con il quale è in guerra – mantiene il controllo delle aziende di famiglia centrate sull’industria pesante: settore petrolchimico, raffinerie di petrolio e grande distribuzione. Dei due fratelli, Anil è quello più “culturale”, è amico della star AmitabhBachchaneha sposato un’attrice di Bollywood, facendo vacillare i codici della castaacuiappartiene– quella dei mercanti, i banias. “La nostra strategia si basa sulla costituzione di un gruppo interamente indiano, integrato, di nuova generazione,” spiega Amit Khanna. “Ciò significa che intendiamo essere presenti,nelcontempo, sututtiglischermiein tutti i settori. Grazie al controllo di Reliance Telecommunications,la prima in India nella telefonia mobile con sessanta milioni di abbonati, controlliamo gli schermi più piccoli, mentre con la nostra catena di multisala, una delle più sviluppate in India, disponiamo degli schermi più grandi. Possiamo dunque produrre contenuti per tutti questi tipi di schermi. Inoltre, forniamo l’accesso a internet a ventimila città e quarantacinquemila villaggi indiani dove possiamo far arrivare musica e cinema. Hollywood è l’industria cinematografica del Ventesimo secolo, noi stiamo invece costruendo quella del Ventunesimo.” Il gruppo Reliance è già uno dei colossi dell’industria dei contenuti e dei media. Controlla, infatti, una delle principali case cinematografiche di Hollywood, una rete di venti canali televisivi e quarantacinque stazioni radio (Big Tv, Big Fm), una delle principali reti di multisala in India (Big Cinemas), una casa discografica specializzata nelle canzoni di Bollywood e siti web in posizione monopolistica. In India è un gruppo “Big”, del resto in questo paese tutto ha proporzioni “giganti”. Anzitutto il Pil.L’Indiahaunadelle economie più dinamiche al mondo, con un incremento annuo tra il 6 e l’8 per cento. La crescita è ancora maggiore nel settore delle industrie creative e del cinema, in cui raggiunge un risultato ancora più ragguardevole, oltre il 18percentol’anno.“Il futuro è nostro e inoltresiamoilsecondo paese più popolato al mondo,” insiste Amit Khanna che vuole voltar pagina con il cinema indiano degli anni sessanta e settanta, amato dalla critica e nei festival internazionali,mapoco considerato come settore economico e in terminidimercato. La strategia di Reliance dunque è pensare in grande: controllando già 240 sale cinematografiche negli Stati Uniti, il gruppo ha deciso, nel 2008, di sbarcare a Hollywood acquistando quote degli studios DreamWorks Skg di Steven Spielberg per unvaloredi600milioni di dollari. Inoltre, ha promesso altri 600 milioni per produrre una decina di film a budgetelevatoconotto case di produzione, tra cui quelle di Brad Pitt, Jim Carrey, Nicolas Cage, Tom Hanks e GeorgeClooney(questi accordi sono stati siglati dall’ufficio di Pechino dell’agenzia americana Creative Artists Agency). È la prima volta che un paeseemergentearriva concosìtantodenaroa Hollywood. L’investimento è stato favorevolmente salutato dalla stampa americana e Bollywood ha trionfalmente accolto la notizia. “Gli indiani mettono sul piatto milioni di dollari per un contratto che darà loro solo l’occasione di sedersi alla prima del film vicino a Steven Spielberg,” un importante produttore intervistato a Los Angeles ha detto per sminuire. Riporto questa provocazione al mio interlocutore indiano. Amit Khanna sorride. “Non siamo mai stati ad alcuna prima. A noi non interessa il glamour,ciinteressano le opportunità economiche. Siamo i partner di un progetto in termini finanziari, ma anche sotto il profilo artistico. Gli studios americani sono invecchiati, hanno bisogno di nuova linfa. Noi abbiamo questa nuova linfa e siamo in grado di fornire una ‘nuova sensibilità’ investendo direttamente sugli uominiesuitalentiper creare grandi film. I nostri punti di forza sono i numeri della nostra popolazione, i nostrigiovani,lanostra tradizione cinematografica e i nostri modi di narrare storie.” L’obiettivo è dunque fare film indiani a Hollywood? “Alla Reliance siamo convinti che l’intrattenimento sia molto etnocentrico. Se volessimo esportare i valori indiani andremmo certamente incontro a un fallimento. Qui a Bollywooddifendiamoi nostri valori, mentre a Hollywood intendiamo fareuncinemadiverso, mainstream: film hollywoodiani per un pubblico di massa. Vogliamo fare concorrenza a Hollywood con diversi tipi di contenuti e su diverse piattaforme.” Dopo una pausa riprende: “Nel contempo, siamo il primo paese anglofono al mondo e abbiamo la massa critica necessaria per diventare uno dei giganti mondiali del futuro. Dobbiamo conquistare attraverso la nostra creatività e solo dopo con il nostro modello economico”. A questo punto, Khanna depone i suoi cellulari, ovviamente Reliance, e sembra più tranquillo. Accetta di parlare un po’ di sé e del proprio percorso di vita. Mi dice di abitare in una piccola casa vicino alla spiaggia di Juhu a Mumbai e di non essere sposato. Le sue grandi passioni sono comporre musica, leggere e scrivere. Molti degli indiani incontrati a Mumbai e a New Delhi lo descrivono come una “libreria vivente”, completamente dedito al suo lavoro e alla lettura. “Cerco di conoscere il più possibile e forse un giorno scriverò le mie memorie,” mi dice. Ha scritto articoli sui media per un grande giornale indiano, decine di sceneggiature per film, ha prodotto numerosi lungometraggi e diretto diverse emittenti televisive prima di fondare la divisione “Entertainment” del gruppo Reliance. È anche presidente dell’Associazione dei produttori indiani di cinema. “Di solito mi considerano quello che ha inventato il termine Bollywood,” mi dice Amit Khanna. Bollywood è il cinema prodotto in hindi a Mumbaieogniannofa uscire circa 250 film, cioè solo un quarto della produzione indianastimatainoltre mille film all’anno. “È però il cinema che conta al boxoffice indiano e internazionale. È il cinema mainstream indiano.” Quando Khanna mi parla di Bollywood sento che il suo orgoglio nazionale si gonfia. Sorride, per la seconda volta. Ora è un fiume in piena, mentre all’inizio la sua assistente mi aveva avvertito che avrebbe avuto poco tempo da dedicarmi per l’intervista. Mi racconta la storia di Bollywood e delle sue star, personaggi che non appena compaiono inunaviadiMumbaio nelpiùpiccolovillaggio indiano provocano fenomeni di identificazione, isterie collettive, parapiglia. Sono gli attori: Amitabh Bachchan, Abhishek Bachchan, Shah Rukh Khan, Aamir Khan, Salman Khan, Saif Ali Khan, Akshay Kumar e Hrithik Roshan (per quest’ultimo gli indiani sarebbero pronti a tutto per vedere se davvero ha sei dita a una mano). Le attrici sono invece Aishwarya Rai Bachchan, Kajol Devgan, Rani Mujerij, KareenaKapoor,Preity Zinta e tante altre. “Molti di questi attori sono musulmani,” aggiunge Khanna per fare notare nuovamente l’eterogeneità del cinema indiano. È un sostenitore di quello chedefinisceunasorta di “Bollywood masala”, che è il contrario di Hollywood. Negli Stati Uniti si diventa mainstream puntando su un denominatore comune capace di conquistare tutti, mentre a Bollywood si fa il contrario, si mescolano i diversi generi – drammatico, commedia, azione, musical, thriller, danza tradizionale, danza contemporanea – per conquistare sensibilità e gusti diversi uniti dall’interesse per queste mescolanze. Si tratta di una sorta di “mainstream tutti frutti”. Khannasposaapieno la mitologia di Bollywood: i bambini povericheconosconoa memorialecanzoniele cantano all’interno di cinema a un solo schermo nelle bidonville di Dharavi; donne delle pulizie al cinemachesialzanoin piedi e cominciano a ballare;ilcinemacome strumento di unificazione degli indiani, con lo straordinario potere di trascendere le classi sociali e le caste. “Bollywood ha la straordinaria funzione di costruire integrazione nazionale, di unire la scala regionale alla scala nazionale, di unire culturapopolareearte, è la lingua comune di un paese che di lingue ufficiali ne ha ventidue.” Con queste sueargomentazioni–in realtà molto hollywoodiane –, Khanna tace sulle zone d’ombra di questo settore: i noti legami tramondodelcinemae mafia (legami che il viceministro alla Cultura con delega al cinema incontrato a New Delhi mi ha confermato personalmente); Bollywood come industriadelriciclaggio del denaro sporco durante il periodo del governo di simpatie socialiste tra gli anni cinquanta e gli anni novanta. Amit Khanna respinge completamente queste accusedicendochedal 1991 l’India non è più socialista e che dal 1998 il governo ha riconosciuto Bollywood comeunveroeproprio settore economico al quale ha consentito accessi legali a finanziamenti, prestiti bancari, assicurazioni, dunque a un sistema legaledifinanziamento che rende ormai obsoletiilegamiconla mafia. Più che parlare di riciclaggio di denaro, Khanna preferisce soffermarsi sulle canzoni. Lui stesso deve infatti la sua notorietà alle quattrocento canzoni per Bollywood di cui è autore. Oggi, il suo obiettivo è costruire sinergie tra cinema e musica all’interno di Reliance. “La chiave del nostro successo sta nel fatto che a Bollywood ci sono figure polivalenti che, nel contempo, sanno fare gli attori, i ballerini e i cantanti. Per avere successo, è necessario possedere queste tre caratteristicheinsieme, quantomeno le prime due…”dicesenzafinire la frase e lasciando intendere che a Bollywood spesso gli attori sono doppiati e cantano in playback. Con fierezza per Bollywood e per il proprio paese, Amit Khanna mi dice che in India si usano le canzoni di Bollywood nei matrimoni, alle feste e ai funerali. Le citazioni dai film fanno partedellaquotidianità e tutti, anche nella più remota e povera bidonville del paese, conoscono a memoria lecanzonipiùfamose. Gli chiedo, allora, se teme la concorrenza degli altri paesi emergenti nel settore, per esempio quelli del Golfo. “Loro hanno denaro ma non hanno talenti. Noi invece abbiamo entrambi. Per questo avremo successo.” Dopo una mia domanda sulla Cina si concede una pausa, esita, poi mi dice: “Seguiamo ciò cheaccadeinCinacon moltaattenzione”. Nel corso della nostra discussione all’Hotel Sun-n-Sand, capisco allora che il vero concorrente dell’India non sono gli Stati Uniti, con i quali Reliance sta costruendo partnership e collaborazioni a lunga scadenza, come lasciava intendere all’inizio della discussione, ma proprio la Cina. Di fatto, gli indiani hanno bisogno degli americani per fare da contrappeso alla Cina, mentre gli Stati Uniti hanno bisogno dell’India per sfondare in Asia poiché hanno fallito in Cina. Amit Khanna non mi descrive chiaramente questa nuova geopolitica dell’intrattenimento, ma mi dice quanto apprezzi il cinema americano e quanto preferisca il caos indiano di Bollywood all’ordine cinese e alla rigidità di China Film. “L’India è una democrazia, la Cina invece no. L’India è un mercato in cui gli stranieri possono venire a investire liberamente, la Cina no. Qui non abbiamo paura di nessuno. Se vogliono venire a investire dalle nostre parti, gli americani sono i benvenuti.” Più chiaro di così! Sulla spiaggia di Mumbai ho dunque capito che l’India si sta alleando con gli Stati Uniti contro la Cina, in termini diplomatici si direbbe che sta avvenendo un rovesciamento di alleanze. LanuovaBollywood Lascio la spiaggia di Juhu in risciò, i motocarri neri e gialli che permettono di circolare più rapidamente a Mumbai. Ho fatto capireagestidiessere in ritardo e Saga, il conducente, si lancia a tutta velocità nel traffico pazzesco, intanto ascolta a tutto volume un magnifico successo di Bollywood. Nel subcontinente indiano, il cinema non è arte elitaria, ma cultura popolare di massa. Sono diretto a Santa Cruz, quartiere del centro di Mumbai. Al settimo piano di un edificio piuttosto spoglio ho appuntamento con Ritesh Sidhawani, nuovo beniamino di Bollywood. Ha appena prodotto il film Rock On!!(insistesuldoppio punto esclamativo), una sorta di commedia musicale rivolta ai giovani e molto simile aglispettacolidirivista di Broadway tipo Rent oMovin’Out. “In India, i giovani stanno cambiando. Devono cambiare anche i classici film di Bollywood fatti di songs & dance, musiche e danze. I giovani sono sempre più istruiti, hanno accesso a internet, hannotelefonicellulari, guardano Mtv. Anche noidobbiamocambiare insieme a loro.” Ritesh Sidhawani ha solo trentacinque anni, è di origini pakistane ed è un importante produttore della scena cinematografica locale che aspira al successo mondiale. È proprio l’incarnazione della “nuovaBollywood”,più sperimentale, più rock, disposta ad assumersi più rischi e più attenta a un pubblico più “civilizzato”. Il budget di Rock On!! ammonta a 6,5 milioni di dollari, cifra enorme rispetto alla media dei film di Bollywood. Unsimileincremento di budget è possibile grazie allo sviluppo dei multisala in tutte le grandi città, con il conseguente notevole aumento dei prezzi dei biglietti di ingresso (vedere un film in un multisala costa 200 rupie, circa 3 euro, mentre in un normale cinema costa tra le 10 e le 40 rupie, cioè meno di 50 centesimi di euro). I film proiettati nelle città portano dunque maggiori incassi; la nuova Bollywood cerca di rivolgersi a questi nuovi giovani con più disponibilità economiche attraverso film d’azione e storie più moderne. Dopo oltre quindici anni di televisionisatellitari,la liberalizzazione dell’economia, lo sviluppo dell’immigrazione verso l’Occidente e il forte aumento di ragazzi indiani che studiano nelle università americane e ladiffusionediinternet in India, sono soprattutto i giovani delle città e istruiti a essere cambiati – e anche Bollywood deve cambiare. “Non mi piace tanto il termine Bollywood. Preferisco dire semplicemente ‘industriadelcinemadi Mumbai’. Del resto, questo è un vero e proprio settore produttivo. Peraltro, qui in India, non abbiamo più nessun problema di finanziamento, è molto facile trovare denaro,” constata Ritesh Sidhawani. Il cambiamento economico in corso a Bollywood è inaudito: ieri, questo settore era isolato, poco valorizzato, lasciato alla mafia e si basava su un capitalismo familiare fatto “con i soldi di papà” all’internodiunregime di stampo socialista; i contratti si facevano a voce, gli script erano continuamente improvvisati e il marketing era confinato alle sale cinematografiche. Oggi, mi conferma Sidhawani,Bollywoodè diventata un’industria di stampo americano. I produttori e i direttori del marketing hanno studiatoaLosAngeles, l’intero settore è gestito in modo professionale, i budget per il marketing sono decuplicati, gli investitori esterni sono diventati indispensabili e le agenzie di talenti, gliavvocatieidirettori finanziari hanno messo ordine nei conti. Come negli Stati Uniti, anche a Bollywood cominciano a circolare ampiamente espressioni come accountability, pilot, green light, pitch e balancesheet. Rock On!! vuole conquistare il mercato mondiale, anzitutto quello indiano, poi inglese, australiano, sudafricano, dei paesi del Golfo, del Pakistan e ovviamente degli Stati Uniti. “All’estero, il nostro pubblico è formato soprattutto da indiani emigrati. Per loro il cinema è immaginazione, ricerca disogni,èunmodoper restare legati al loro paese.” Le argomentazioni di Ritesh Sidhawani sono un po’ confuse, quasi come il piccolo ufficio disordinato dove mi riceve, in cui vedo una pila di giornali, tra le quali diverse edizione indiane di “RollingStone” (con la copertina proprio su RockOn!!). Gli chiedo se è convinto di poter sfondare sul mercato Usa. Questa è la sua risposta: “Sì, noi non abbiamo bisogno degli americani per raggiungere gli indiani che vivono negli Stati Uniti.Facciamodasoli. Loro, invece, hanno bisogno di noi per raggiungeregliindiani, poiché i loro film non funzionano tanto bene da queste parti. Sanno che il cinema indiano sta diventando globale e vogliono anche loro una fetta della torta, maperilmomentonon ci riescono. Né attraverso la distribuzione, né facendo coproduzioni a livellolocale”. Cosa vuol dire quell’espressione “una fetta della torta”? Ancheseprivodiquote diriserva,dicensurae di misure protezionistiche, in effetti il cinema indiano, sul fronte interno, scoppia di salute.Raggiungeoltre il 90-95 per cento del botteghino, mentre gli americani si devono accontentare di una “fetta della torta” molto piccola, attorno al 5 per cento (alcuni miei interlocutori tra i dirigenti di Hollywood mi dicono invece il 10 percento,maèdifficile poter disporre di statisticheattendibiliin India). In ogni caso, questa capacità del cinema indiano (di Bollywood in particolare)diresistere di fronte a quello americano è davvero sorprendente.Idatidel pubblico sono addirittura sbalorditivi: 3,6 miliardi di biglietti venduti in tutto il mondo per i film indiani contro i 2,6 miliardi dei film di Hollywood. Tuttavia, il confronto si ferma qui, poichéiltotaledelboxofficeindianoindollari è di appena 2 miliardi, undatodavveroesiguo rispetto ai circa 38 miliardi raggranellati dal cinema americano (datidel2008).Soloun film come Pirati dei Caraibi, nel 2006, ha fattoregistrarelametà del box-office mondiale di tutti i film di Bollywood. Perinvertirelarotta, gli americani cercano dunquediadottareuna nuova strategia basata sullaproduzionedifilm indiani in India. È quanto stanno facendo Warner, Disney, 20th Century Fox e Columbia. Per capire gli obiettivi di queste major sono andato a intervistare i dirigenti chelavoranoinIndia. “Il mio job è fare sei filmindianiall’anno.La strategia degli studios americani è ormai mondiale. Per noi non si tratta più soltanto di distribuire i nostri film in India, ma di produrretuttiifilmdel mondo,” spiega Uday Singh, vicepresidente di Sony Pictures in India, che dirige la divisione Produzione di film di Columbia. Mi trovo all’estremo Nord diMumbai,inunazona urbanaincuigliedifici moderni hanno sostituito le vecchie paludi. L’ambiente naturale è completamentesparito, nella hall dell’azienda c’è una foresta di bambùinplastica. Negli uffici lavorano circa 400 persone, tra cui molti giovani, tutti nei loro cubicles, con computer Sony di ultima generazione e un telefono Blackberry – tutte cose in aperto contrasto con l’immensa povertà delle bidonville che si attraversano per arrivare in questa sperduta zona degli uffici e del commercio. “L’unica cosa che funziona qui sono i contenuti locali,” insisteUdaySingh.“La distribuzione di film americani in India è fallita; dobbiamo produrre film locali, se possibile con un potenziale di livello mondiale. Questo è l’unico nostro valore aggiunto: gli indiani non sanno fare film globali. Noi, invece, abbiamo il marketing e la rete di distribuzione internazionale capaci di trasformare un film di successo nazionale in un successo mondiale.” Per raggiungere un mercato unico al mondo,incuiunfilmdi successo indiano raggiunge i 33 milioni di dollari di incasso settimanale, Sony, mi spiega Uday Singh, le ha tentate tutte con i suoi film di successo americani.Hadoppiato i film in venti lingue per cercare di raggiungere più pubblico possibile all’interno di un paese con ventidue lingue ufficiali e centinaia di lingue regionali e dialetti (anche Warner ha doppiato Batman. Il cavaliere oscuro in quattordici lingue). Sono state aggiunte canzonihindiinCasino Royale,sonostatigirati video con cinque gruppi locali per lanciare Spider-Man e sono state condotte cinque diverse campagnemarketingin cinque lingue, tra cui hindi, tamil e telugu. Matuttociòèservitoa poco. Infatti, SpiderMan ha ottenuto un successo significativo (17 milioni di dollari di incassi, un risultato storico per Hollywood al botteghino indiano), ma siamo ben lontani dai risultati raggiunti nel resto del mondo. “I film di Bollywood sono molto diversi dai film americani, nella loro ideazione e nella loro struttura. Il pubblico indiano si aspetta che nei film ci siano songs &dance,uninsiemedi tradizione e modernità difficile da capire per gli occidentali,” concludeUdaySingh. Nello stesso quartiere, a qualche edificio di distanza, incontro Kunal Dasgupta, che dirige Sony Entertainment Network, il settore audiovisivo del gruppo in India. “La cosa affascinante degli indianiècheassorbono ogni tipo di cultura diversa dalla loro, ma alla fine restano se stessi. Apprezzano le serie americane, ma quando si tratta di sposarsi accettano i matrimoni combinati dallafamiglia.”Sonyha dunque l’obiettivo di aumentare la produzione locale, benché la serie Indian Idol sia semplicemente un riadattamento di AmericanIdol.“Inostri contenuti saranno sempre più improntati alla realtà locale e sempre meno americani,” conferma Kunal Dasgupta, che lavora da quindici anni perSony. L’investimento di Sony in India persegue anche altre finalità. Cinema e televisione sono, infatti, un altro modo per promuovere ilmarchioe,attraverso un’immagine glamour, è possibile vendere schermi piatti, computer, telefoni, telecamere digitali. “In India, la gente crede chesiamoun’emittente televisiva che produce strumentazioni elettroniche!” dice divertita Kunal Dasgupta che dipende da Sony a Los Angeles e non dalla sede centrale di Sony in Giappone.Ilproduttore Aditya Bhattacharya fa dell’ironiasullavolontà americana di conquistare il mercato indiano: “Agli occhi di molti di loro, rappresentiamo il più grosso mercato al mondo”, dice puntandosi due dita davantiagliocchi.“Per questo gli americani sono tutti eccitati, soprattutto da quando hanno fallito in Cina. Tuttavia, non saranno in grado di penetrare nel mercato indiano, perché non hanno saputo farlo con quello cinese.” Di questo stesso avviso è Navin Shah, giovane amministratore delegato del gruppo multimedia Percept, che incontro a Lower Parel,nell’estremoSud di Mumbai. Per raggiungere quegli uffici sono rimasto due ore imbottigliato nel traffico: Mumbai è una città immensa con uno sviluppo urbano poco pianificato. Spostandomi da una parte all’altra ho visto un caos indescrivibile, numerose bidonville, montagne di rifiuti abbandonati, marciapiedi che sostituiscono le strade quando queste sono sature di veicoli, una situazione sanitaria e alimentare difficile, acqua stagnante, peraltro non potabile. Nell’ambito della concorrenzatraIndiae Cina, la prima è ben più povera della secondaedèmoltopiù caotica. Tuttavia, l’Indiahaunvantaggio: è un paese giovane, è una democrazia e desidera il cambiamento. “Vogliamo costruire la nuova Bollywood,” mi dice Navin Shah che,asolitrentacinque anni, ha già prodotto quarantacinque film per Bollywood. Mi trovo dunque di fronte a un giovane amministratore delegato di una giovane azienda, all’interno di un paese giovane – e ciò è in apertocontrastoconla “vecchiaEuropa”incui l’amministratore di un’azienda di questo calibro (Percept ha duemila dipendenti) avrebbe oltre cinquant’anni. In Cina, invece, sarebbe un vecchio esponente del Partitocomunista. “La nuova Bollywood ha bisogno di nuove storie, di script migliori, di veri storytelling e di attori più giovani. Non dobbiamo abbandonareilsongs& dances che ci contraddistingue, ma bisogna ringiovanire i film perché il pubblico sta cambiando. I film devono essere un po’ meno prevedibili, però l’happy end deve necessariamente restare.” Navin Shah crede soprattutto alle nuove tecnologie, settoreincuil’Indiaha sopravanzato gli altri paesi emergenti e attraversocuiilcinema indiano intende svilupparsi ulteriormente. “L’India è un paese talmente fiero dei propri progressi tecnologici chequisipensacheIt, anziché Industrial Technology, significhi IndianTecnologies,”mi diceconironia. Navin Shah mi mostra un documento che riporta l’attuale box-office in India: “In generale, ormai, il denaro viene dai multisalaedalmercato internazionale, e non dai cinema one screen che esistono nei nostri seicentomila villaggi. Questi cinema sono moltopiùnumerosi,ma non fruttano più nulla. L’unico tipo di consumatore a cui aspiriamo è l’indiano cheviveincittàevain un multisala”. Navin Shah si esprime in un inglese perfetto e mi complimento con lui per il suo accento. Ne va fiero. In India, la lingua ufficiale negli ambienti del cinema è l’inglese e anche tra loro gli indiani parlano in inglese – quantomeno una sorta di “hinglish”, una lingua a metà tra l’inglese e l’hindi. Gli faccio notare che in GiapponeeCina,anche nel settore dell’intrattenimento, sono pochi i dirigenti che parlano inglese. Il suo orgoglio ne è ulteriormente ravvivato. Poi Navin Shah mi dice una frase un po’ enigmatica: “Bollywood è ormai un’industria diretta da persone che tra loro parlanoinglese,mache fanno film in hindi. Questa è la nuova Bollywood – ed è questoilproblema”. Presso Star India, a New Delhi, le argomentazioni sono leggermente diverse. E non è un caso. Star India appartiene, infatti, al gruppo panasiatico Star, la cui sede è a Hong Kong, ma la casa madre è negli Stati Uniti, si trattadiNewsCorp,di Rupert Murdoch. Nella sede di Star India, a New Delhi, incontro Parul Sharma. “Di fatto, gli americani sono sempre più presenti in India e riescono a fare sempre meglio poiché hanno una buona strategia.” Di quale strategia si tratta? “Localized contents,” risponde prontamente Parul Sharma. “I nostri contenuti devono essere calibrati sulla realtàlocaleal100per cento, oppure si tratta di formati americani che vengono ‘indianizzati’, altrimenti creiamo programmi interamente costruiti per l’India.” Le chiedo allora in cosa consista questa “indianizzazione”. “Dobbiamo sostenere valoriindianipertuttii contenuti: obblighi nei confronti della propria famiglia, matrimonio come questione sensibile e potenzialmente combinato, specifica condizionedelladonna, mai parlare di sesso, mai dire parolacce davanti a propri genitori,nonsipossono mostrare persone che si baciano né fare allusioni sessuali, mantenere precisi codici dell’abbigliamento non occidentali in famiglia, rispetto degli animali sacri, non ci si ciba di carne bovina.” Tutto qui è fortemente family-oriented. In India, molti dei miei interlocutori mi hanno parlato di lento processo di trasformazione di questivalori,michiedo come ciò possa avvenire all’interno dei contenuti. Parul Sharma mi risponde: “Certo, l’India sta cambiando, ma non come vorrebbero gli occidentali. Sono i giovani indiani a portare avanti il cambiamento. Nelle serietelevisive,oggi,si possono vedere matrimoni d’amore e non solo matrimoni combinati, ci sono divorzi, persone con vite parallele, ci si veste all’occidentale, capita di vedere anche persone omosessuali. Maperilcambiamento civuoletempo”. Senza giri di parole chiedo a Parul Sharma se l’interesse di Star per l’India abbia qualche legame con i fallimenti delle major americane, e Star in particolare,inCina.Ma Parul Sharma non rispondealladomanda, mi dice semplicemente che non posso fare il suo nome e che non vuole dire nulla su questo tema on the record. Avrei voglia di chiederle, come alla fine del film The Millionnaire: “È la sua rispostadefinitiva?”. Poco dopo, peraltro, mi fornisce l’esempio del gioco televisivo Chi vuole essere milionario?. Il format del quiz appartiene a Sony ed è stato riadattato in India da Star Tv con il titolo Kaun Banega Crorepati, presentato dal celeberrimo attore cinematografico Amitabh Bachchan (nell’ultima stagione è stato sostituito da un’altra star, Shah Rukh Khan). Grazie a questa trasmissione, Star è diventata uno dei canali più visti del subcontinenteindiano. Attorno alla versione indiana di Chi vuole essere milionario? è costruito il film vincitore di otto Oscar The Millionnaire, di Danny Boyle. Peraltro, il suo grande successo èdirettamentelegatoa questa ambientazione televisiva. Il giovane JamalMalik(DevPatel, un inglese di diciannove anni di origini indiane) proveniente da una bidonville di Juhu a Mumbai diventa milionario grazie al gioco,maèaccusatodi averimbrogliato.Ilfilm ètrattodaunromanzo indiano di Vikas Swarup ed è stato girato in India, a Mumbai. Non si tratta, tuttavia, di un film indiano. Il regista è inglese e il film è stato prodotto da diversi studi americani e inglesi, in particolare Pathé Uk (la divisione britannica del gruppo francese Pathé), Fox Searchlight Pictures (del gruppo di Murdoch) e Warner Bros. È stato distribuito da Pathé in tutto il mondo e da Warner Independent Pictures nell’America del Nord (in India è statodistribuitodaFox Star Studios, di Murdoch). Come era già accaduto con Kung Fu Panda prodotto da americani e non da cinesi e con Bombay Dreams, commedia musicale di Broadway prodotta da inglesi, anche il caso di The Millionnaire dimostra chegliindianinonsono logicamente nella miglior posizione per distribuire su scala mondiale una cultura fondata sulle loro specifiche storie. Accade, ancora una volta, come in The Millionnaire, quando, prima di capire che il boss che ha di fronte vuole renderlo cieco per mandarlo a elemosinare, un bambino dice: “Si prende cura di noi, dev’essere una brava persona”. Qualchegiornodopo, nel Sud di Mumbai, vicino alla Porta dell’India, incontro il patron di Warner Bros India, Blaise Fernandez. Contrariamente alla maggior parte dei miei interlocutori in questo paese ha fiducia sulle capacità di penetrazione del cinema americano nel subcontinente indiano. Prevede addirittura un aumento del box-office per i film Usa del 50 per cento del mercato nel giro di qualche anno “come nella maggior parte degli altripaesi”(oggièal5 per cento). L’unica condizione per raggiungere questo risultato è, però, produrre film in linea con “lo spirito di Bollywood”. Blaise Fernandez lavora per Warner da vent’anni, ma la major ha cominciato a produrre film per l’India solo dal 2005, aumentando i propri interessi da queste parti mentre riduceva gliinvestimentiinCina. “Il nostro obiettivo è conquistare un pubblico mainstream. Però, a Bollywood non ci sono formule magiche. So solo che dobbiamo produrre filmdiimprontalocale. Ilmercatoègigantesco ed è molto aperto. Gli indianivoglionorestare indiani: vogliono vedereilorofilmhindi, con songs & dances, con melodrammi flashy, stravaganze e risse eccessive. Vogliono film lunghi, anche di tre ore, pieni didialoghi,anchedopo scene di suspense. Vogliono che il bene vinca sempre sul male echeilcattivocontinui a restare tale. Povertà, bidonville, analfabetismo: gli indianivoglionofuggire dalla realtà e lasciare spazio alla fantasia. Tuttavia, all’interno di un film tutto deve essere prevedibile, non c’è spazio per la sorpresa.Ècosì.Enon cambierà. Tocca a noi adattarci. Una major come la nostra, anche se americana, qui deve produrre film indiani, nonamericani.Edèciò chefaremo.” InIndia,Cina,Egitto, Turchia, Brasile, le persone che mi hanno spiegato meglio la globalizzazione all’interno di questi paesi sono, paradossalmente, i rappresentanti degli studios e delle major americani. Tutti i miei interlocutori hanno contestato l’idea di uniformazione della cultura. Non tanto in difesa dei propri interessi, ma per pragmatismo, perché hanno fallito quando hanno privilegiato i contenuti americani. I patrondiWarnerIndia, Disney India, Condé Nast in India, Cnn Türk, Mtv Francia, Warner China, Fox in Egitto, Universal in Brasile sanno per esperienza che devono assestarsi sul “local” perstareall’internodei mercati emergenti. “Localize or die (stai sul locale o muori) è una formula famosa in India,” mi dirà uno di questi patron. “Facciamo del ‘bollyvogue’ e ci assestiamo sempre di più sulla realtà locale per i nostri contenuti,” conferma Bandana Tewari, caporedattore di “Vogue India”. “Qui si parla delle star di Bollywood e non di quelle di Hollywood. C’è una vera e propria ‘bollywoodizzazione’ di tuttalaculturaindiana, e noi dobbiamo renderne conto. Qui, a ‘Vogue India’, ci interessiamo dunque poco di quanto accade nel resto dell’Asia, poiché l’India è un continente vero e proprio.” Del resto, i magazine della stampa occidentale sono tutti assestati su questa linea: “Gq”, “RollingStone”, “People”, “Marie Claire”, “Cosmopolitan”, “Elle” e numerosissime altre testate americane ed europee pubblicate in India parlano solo di questo paese. Sono magazine che non si trovano solo ai chioschi, ma sono venduti anche da giovani indiani poveri di dodici o tredici anni che ripetono disperatamente “‘Vogue’, madam?, ‘Gq’, sir?” ai finestrini delle auto ferme al semaforo rosso. Sono ragazzini sfruttati da intermediari che prendono tutto l’incasso lasciando loro meno di un dollaro al giorno. Per il momento, i risultati delle major americane in India non sono particolarmente positivi. Sul fronte della produzione locale si può già parlare di fallimento. Il primo tentativo di Columbia nel 2007, con il film Saawariya (Beloved), è stato battuto nelle sale dall’uscita contemporanea di Om Shanti Om di Farah Kahan, interpretato dalla star Shah Rukh Khan. Anche la coproduzionediDisney conglistudiosYashRaj perilfilmd’animazione Roadside Romeo nel 2009 non ha ottenuto risultati migliori, così come è stata un fallimento l’esperienza di Warner con Chandai Chowk to China. Gli investimenti di DreamWorks per creare uno studio d’animazione a Bangalore, in partenariato con lo studio indiano Paprikass Perspective, non hanno ancora portato frutti. Eppure gli americani hanno idee e non demordono: Warner ha in programma dodici film inIndia,Disneyquattro film di animazione, Sony-Columbia ha in progetto sei film l’anno, mentre 20th Century Fox, lo studio diMurdoch,haquattro progetti di produzione, di cui due già sotto contratto. Gli indiani osservano questo grande spiegamento di forze senza inquietudine e imparano. Bollywood,tuttavia,è solo una parte del cinemaindiano.Ilresto èprodottoaldifuoridi Mumbai, in oltre venti lingue e in diverse regioni. “I film non bollywoodiani raramente hanno spettatori su scala nazionale e difficilmente hanno un successo di pubblico,” spiegaNinaGupta,che dirige a Mumbai la National Film & Development Corporation, l’istituto pubblicodipromozione e sviluppo del cinema. Lealtrecinematografie indiane,comeilcinema tamilaChennai(nuovo nome di Madras), il cinema di “Tollywood” a Kolkata (nuovo nome di Calcutta) e le cinematografie di New Delhi, Bangalore (in lingua kannada), Andhra Pradesh (in telugo) hanno una “incidenza sui critici, nei cineclub e nei festival di tutto il mondo,mahannopoco pubblico, anche in India”, prosegue Nina Gupta. Così come Bollywood rappresenta una parte fondamentale del boxofficeinIndia,lostesso accade anche per le esportazioni in tutto il mondo. Molti dei miei interlocutori hanno indicato un dato di penetrazione sul mercato internazionale del 2,5 per cento, un risultato migliore dei film europei, ma decisamente debole rispetto agli americani che controllano il 50 per cento del mercato mondiale. La geografia della diffusione del cinema di Bollywood è comunquesignificativa, i risultati sono in crescita, soprattutto grazie agli indiani che vivono all’estero, i “Non Resident Indian” (Nri). Anzitutto ci sono imercatitradizionalidi Bollywood: Bangladesh, Pakistan, Nepal, Sri Lanka, Afghanistan, parte del Sud-est asiatico (soprattutto Indonesia, Malesia e Singapore), ma mai Cina, Corea e Giappone, dove il cinema indiano semplicemente non esiste. Ci sono poi altri mercati importanti, come Cuba, Russia, le repubbliche dell’Asia centrale come Turkmenistan e Kazakistan (ai tempi dell’Ursssiprivilegiava infatti il cinema di Bollywood rispetto a quello di Hollywood, vietato per ragioni politiche). Il vettore principale delle esportazioni di Bollywood rispetto ai film hollywoodiani è il prezzo. Si spiega così, in parte, la loro influenza in Maghreb, soprattuttoinMarocco, e in diversi paesi dell’Africa anglofona dove il cinema indiano è popolare (Nigeria, Kenya, Sudafrica). Ho sentito parlare di Bollywood anche nell’Africa francofona: “I camerunesi vogliono film indiani perché sono stati allevati a film di Bollywood, inoltre, metterli in programmazione costa molto meno dei film americani”, mi spiega Sally Messio, direttrice dei programmi e presentatrice di punta della Televisione nazionale del Camerun (Crtv), quando visito a Yaoundé i locali di questa emittente di stato.“Inoltreilcinema di Bollywood è vicino alla cultura africana basata sul rispetto degli anziani e dei valori della famiglia; è un cinema con meno sensualità e meno violento rispetto alle serie o ai film americani, qui siamo più attestati su cose come sogni, favole, principi azzurri, buoni e cattivi. Gli africani vogliono questo,” aggiungeSallyMessio. In ogni caso questi mercati sono in evoluzione. L’India stessa, ormai consapevole del peso della nuova Bollywood nell’economia emergente, ha aumentato i costi dei diritti di diffusione e intende farli pagare anche ai russi e agli africani, mentre in precedenza chiudeva un occhio sulle trasmissioni non autorizzate e sul mercato dei video pirata. Inoltre, Bollywood è vittima della concorrenza di Hollywood: quando il cinema americano era proibito, per esempio inUrss,ilconfrontotra le due cinematografie nazionali era impossibile, mentre oggi avviene a scapito degli indiani. I giovani russi e marocchini preferiscono spesso i film d’azione hollywoodiani di meno didueoreallemelense pellicole bollywoodiane, prevedibilieditreore. Il declino di Bollywood nei paesi emergenti, in Africa e nei paesi del Sud del mondo, è annunciato. Loscenarioèdiverso neipaesidelGolfoein Medio Oriente, un mercato nel contempo vecchio ed emergente. Gli indiani chiamano stranamente questa regione“WestAsia”eil cinema di Bollywood vi sta conoscendo importanti sviluppi sia perché ci sono numerosi lavoratori indiani immigrati (superano il 20 per centodellapopolazione in Qatar e hanno percentuali elevate anche a Dubai e nello Yemen), sia perché i valori indiani sulla famiglia, le donne e il sesso sono compatibili con l’islam sunnita o sciita. “Qui il cinema indiano rappresenta oggiil10percentodel box-office, ma rappresentavail30per cento negli anni cinquanta,”mispiegaa Damasco Mohammed alAhmad,direttoredel dipartimentodiCinema all’interno del governo siriano. “I settori medi della popolazione apprezzano questi film con musiche e danze. Piace il fascino ‘orientale’. E poi sul fronte della famiglia e dei valori, il cinema indiano condivide gli stessi ideali della popolazione araba. Le classialteeglistudenti preferiscono invece il cinema occidentale, soprattutto quello americano.” Sul fronte dei mercati occidentali, negli Stati Uniti, in Canada, in Inghilterra e in Germania agli emigrati indiani piace vedere i film di Bollywood poiché li riportaacasa.Sistima che questi emigrati sianoalmeno20milioni suddivisi in 120 paesi del mondo intero e di cui solo 3 milioni negli Stati Uniti. Peraltro, il governo indiano di recente ha creato un Ministry of Overseas Indian Affairs per occuparsi meglio di questapopolazione. In definitiva, il punto di forza del cinema indiano all’interno dei confini nazionali – il carattere identitario, songs & dances, colori caldi, emozioni vive – può rappresentare un puntodebolesulfronte internazionale. “Sono in corso dibattiti su diversi temi: fra tradizioneemodernità, tra sensualità e sesso, tra attrici overkitsch che riproducono i pregiudizi sulle loro caste e liberazione della donna, tra film bollywoodiani che raccontano sei volte la stessa storia e film d’azione che tengono alta la tensione del pubblico con ritmo e velocità,” afferma il produttore Pinaki Chatterjee a Mumbai. “Se Bollywood vuole diventare globale, non potrà continuare a raccontarelestorieche racconta oggi,” sostiene il critico cinematografico Saibal Chatterjee intervistata aNewDelhi. Ci sono voci ancora più critiche, per esempio quella del produttore e regista Aditya Bhattacharya: “Il problema di Bollywood oggi è che gli emigrati sono diventati ancora più conservatori degli abitanti del subcontinente indiano. Vogliono ritrovare al cinema il paese che hanno lasciato. Non si sono evoluti con il tempo, contrariamente alle nuove generazioni di indiani. Sul fronte dei valori, della famiglia, delle caste sonomoltoreazionarie molto arcaici. Vogliono vedere ragazze sullo schermo per capire come sono oggi in India, vogliono vedere matrimoni indiani combinati, vogliono vedere vestiti molto colorati. Siccome sono loro a costituire una parte importante del box-office, non tanto in termininumerici,main termini di dollari, questo pubblico contribuisce alla stagnazione di Bollywood”. Se si osservano da vicinoirecentisuccessi diBollywoodnegliStati Uniti, si scopre che granpartedegliincassi al botteghino si concentra su un numero ridotto di sale cinematografiche, una sessantina di schermi. Tutti questi cinema si trovano nei quartieri chiamati “Little India” nelle città e negli stati in cui vivono molti indiani: New York, Chicago, Atlanta, Washington,California, Texas e New Jersey. Peraltro, nel film bollywoodiano Kal Ho Na Ho si dice che a New York una persona suquattroèindiana(in realtà è una su trentadue, che è comunque un dato considerevole). Per l’uscita di un grande film di Bollywood, le sale di queste “Little India”arrivanoanchea riempirsi, ma si tratta esclusivamente di Non Resident Indians. Sessantasale,anchese piene, è poca cosa rispetto all’uscita negli StatiUnitidiunfilmdi successo come Batman proiettato su 4366 schermi. Bollywood è a metà fra tradizione e modernità. Il successo, nel1995,eduratooltre tredici anni sugli schermiindianidelfilm The Brave Heart Will Take the Bride (con le starShahRukhKhane Kajol Devgan), che racconta la storia d’amoretradueindiani disecondagenerazione che vivono in Inghilterra, ma attesi in India da un matrimonio combinato –illietofineèafavore del matrimonio d’amore – ha mostrato la posta in gioco di questa modernizzazione in stile indiano. In definitiva, il futuro si gioca sulle attese del pubblico, soprattutto quello degli emigrati che non costituiscono affatto un fronte unico. “La prima generazione di Nri vuole ritrovare nei film di Bollywood il sound of home (il sapore di casa),” mi dice il critico Jerry Pinto, al Bbc, uno dei bardell’HotelMarriott. “Ma per la seconda generazione,Bollywood è il sound of their parents, la cultura dei genitori,nonlaloro.La terza generazione se ne frega completamente. Per loro è sound of nothing.” Se questa ipotesi fosse vera, l’industria del cinema indiano dovrà attendereancoramolto per realizzare prospettive di sviluppo neimercatioccidentali. Riuscirà a imporsi l’India nel mondo, attraverso il suo cinemaelesuecanzoni bollywoodiani, riuscirà a creare contenuti globali? La maggior parte dei produttori incontrati al Marriott della spiaggia di Juhu, tutti i patron degli studios visti al Film City di Mumbai, tutti i dirigenti intervistati a New Delhi ne sono convinti. Ma ciascuno ha le proprie strategie per realizzare film mainstream, tra cinema più identitario ed etnocentrico (storytelling indiano per conquistareilmondo)e un cinema più globalizzato la cui indianità sarebbe un po’ cancellata (per conquistare il pianeta, Bollywood deve imparare a fare film come gli americani) – ma queste due concezioni sono probabilmente incompatibili tra loro. Dal canto loro, gli americaniriuscirannoa imporsi in India con i loro film di successo o grazie alla produzione di contenuti locali? Tutti i patron degli studios americani intervistati in India o a LosAngelescicredono, tanto più ciecamente dato che hanno di fronte a loro un mercato né saturo né maturo, di 1,2 miliardi di abitanti. Si tratta di un mercato talmente grande e di un paese talmente decentralizzato che si dovrebbe parlare di “StatiUnitidell’India”. Chiharagione?Peril momento i primi, poiché l’India ha saputo proteggere il proprio settore cinematografico e ha continuato a mantenere il 95 per cento del botteghino all’interno del paese con i propri film. Ma i secondi sanno che l’americanizzazione dell’India è ineluttabile e si chiama “indianizzazione”. Adattando, all’indiana, le serie e i film americani, gli indiani hanno siglato alcuni dei loro più grandi successi. Ma questi sono contenuti americani che penetrano lentamente nel subcontinente indiano. Ormai, con la fine della loro economia di stampo socialista, gli indiani partono alla conquista di Hollywood e acquisiscono case di produzione negli Stati Uniti, in cui producono i loro film di cassetta. Emergono. Senza garanzie di successo. Per il momento Bollywood continua a guardare Hollywood con invidia e amarezza poiché non ha ancora saputolanciareunsolo blockbuster mondiale, né global hit, come dicono gli americani. I duepaesisiscrutanoe questofacciaafacciaè sintetizzato dal nome “Bollywood”. Raramente c’è stata un’espressione così imprecisa, ma raramente un termine èstatocosìefficace. 11. LostinTranslation La mia inchiesta sui flussimusicaliinAsiaè cominciata con una serata al cinquantaduesimo piano del Park Hyatt Hotel nel quartiere di Shinjuju a Tokyo ad aspettare un produttore di “J-Pop” che non è mai arrivato all’appuntamento. Per fortunaeroinunluogo spettacolare con un’eccellente vista sulla città. Sembra, in realtà, che la persona che dovevo incontrare mi aspettasse a sua volta a un bar del trentottesimo piano. L’altra consolazione della faccenda è che, su quella torre, ero seduto al New York Bar, quello in cui si incontrano Bill Murray e Scarlett Johansson nel film Lost in Translation. La musica giapponese di oggi si chiama“J-Pop”(chesta per Japan pop). In questa regione dell’Asia esistono anche la “K-Pop” coreana, il “canto-pop” che è il pop cinese in lingua cantonese prodotto a Hong Kong e il “mandarin pop” (o pop continentale), che è il pop cantato in lingua mandarina e prodotto soprattutto a Taiwan. Questi flussi culturali pop asiatici sono complessi e disegnano una nuova geografia delle industrie creative i cui principali centri sono Tokyo, Pechino, Shanghai, Seul, Bangkok e Giacarta. Per cercare di capire meglio questo mondo mi sono occupato di JPop,K-Popecanto-pop facendo inchieste in unadecinadipaesiper capire se, su questo fronte, esiste una cultura asiatica comune. Anzitutto, la musica non funziona come il cinema e, anche nel medesimo continente, esistono scambi culturali molto diversi. “Per il J-Pop esistono due tipi di mercato internazionale,” mi spiega Ichiro Asatsuma, presidente della Music Publisher Association of Japan, che incontro a Tokyo nella sede di questa importante lobby della musica. “C’è un mercato asiatico in cui ilJ-Popsiesportacome generemusicaleveroe proprio e c’è un mercato europeo e americano in cui il JPop è trattato come ‘colonna sonora’ di cartoni animati, film d’animazione, videogiochi e serie televisive. Sono due mercatidistinti.” In Asia, il J-Pop è forte in Corea del Sud e nei paesi raccolti sotto la sigla Sea (South-East Asia, Sudest asiatico), ma è completamente inesistente in India – paese ermeticamente chiuso agli scambi di contenuti culturali con l’Asia orientale. In Cina, invece, “il J-Pop esiste,maseguestrane vie traverse”, spiega Masuro Komai, presidente di Fuji Pacific Music intervistatoaTokyo. “Strane vie traverse” è un’espressione enigmatica poco chiara che ho cercato di capire nel corso delle mie ricerche. Significa anzitutto illegalità, poiché la pirateria è molto diffusa in Asia, e in Cina sembra raggiunga il 95 per centoperlamusicaeil cinema (un dato impossibile da verificare, ma indicatomi dalla maggior parte dei miei interlocutori in Giappone, Corea, nel Sud-est asiatico e nella Cina stessa). Ma significa anche adeguamento attraverso il sistema delle“cover”che,come vedremo, è davvero centrale in questo settore. Il J-Pop è più interessante di quanto possa sembrare. Peraltro, come spesso accade nel settore dell’intrattenimento, le strategie, il marketing e la diffusione dei prodotti culturali sono semprepiùinteressanti deicontenutistessi. CoolJapan “La cosa importante è che il Giappone, da una decina d’anni circa, sia tornato cool inAsiaeciòèaccaduto soprattutto grazie al JPop,” mi dice Tatsumi Yoda, amministratore delegato di DreamMusic a Tokyo (le stesse argomentazioni sono state usate dai coreani parlando dei loro “drama”). “A lungo,” prosegue Tatsumi Yoda, “il Giappone è sembrato occuparsi solo del proprio mercato interno senza ambizioni su scala regionale o a livello globale. Avevamo un atteggiamento indeciso, come se avessimo paura di apparire imperialisti. Oggiquestitimorisono scomparsi e vogliamo diffondere i nostri contenuti culturali sia sul fronte regionale sia su quello internazionale, con tuttiimezzipossibili.” Il Giappone ha la doppia caratteristica di essere un paese sviluppato e di non appartenere “all’Occidente”. È un paese “non occidentale” che è stato a lungo un modello. Nello stesso tempo, il Giappone è un paese che, dopo la Seconda guerra mondiale,hafrenatole proprie velleità culturali al punto da restare completamente introverso, dando l’impressione di essere chiuso all’interno della propria cultura. Fiero della propria omogeneità e poco favorevole all’immigrazione, è passato da un “grande imperialismo” a una sorta di “piccolo nazionalismo”. Il Giappone è uno dei paesi più ermetici alle altre culture ed è anche uno dei paesi che meglio resiste alla cultura americana, anche senza quote di riserva e senza censura. Come accade anche in India, quando nel paese viene introdotto un prodotto culturale americano questo viene subito “giapponesizzato”. A fronte di tutto ciò, il Giappone è un paese che ha poco esportato la propria cultura. Ha venduto walkman, telefoni cellulari, computer, televisori a schermo piatto, Playstation 1, 2, 3 di propriaproduzione,ma fino agli anni novanta ha poco esportato le proprie produzioni cinematografiche, letterarie e musicali. Le statistiche fornite dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e dalla Banca mondiale lo collocano ancora al dodicesimo posto fra i paesi esportatori di film, programmi televisivi, musica, dopo la Corea, la Russia e anche dopo la Cina. Si vendono bene i prodotti industriali dell’elettronica, indifferenziati e senza una specifica identità culturale, ma non i contenuti giapponesi che invece hanno una propria e specifica identità. Si riesce a vendere l’hardware, ma non il software. Naturalmente ci sono state alcune importanti eccezioni: i cartoni animati negli anni settanta (Goldrake e CandyCandy),imanga negli anni ottanta, qualche film d’animazione (Akira, che è tratto da un manga) e i videogiochi (Nintendo,Sega,Sony). In questi settori fortemente legati alle immagini, il Giappone ha da tempo più esportazioni che importazioni. Tuttavia, atortooaragione,per lungo tempo i giapponesi hanno provato un senso di inferiorità e si sono sentiti culturalmente dominati dall’Occidente. Ciò non significa, ovviamente, che la cultura giapponese fosse debole o fragile – tutt’altro. Sul fronte interno, e pur con poche esportazioni, la cultura giapponese è fiorente, grazie a una grande richiesta interna e grazie a industrie creative autonome (con una moneta forte come lo yen, il mercato interno giapponese è il secondo mercato televisivo al mondo e il secondo mercato discografico dopo gli StatiUniti). La globalizzazione culturale ha trasformato questa situazione. Il Giappone è riuscito infatti ad aprirsi alla globalizzazione poiché lo sviluppo tecnologico e l’accelerazione della velocitàdegliscambidi flussi culturali hanno permesso che si riducesse il divario tra mercato interno e mercato esterno. In pochi anni è riuscito a recuperare il proprio ritardo, anche se le esportazioni dei contenuti culturali continuano a essere ampiamente al di sotto delle importazioni, nel cinema, nell’editoria e nella musica – a eccezione dei videogiochi e dei manga. Dagli anni novanta, con la globalizzazione, è cambiata anche la geografia degli scambi culturali: i paesi emergenti (Cina e Indonesia), quelli non ancora o già capitalisti (Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan) hanno aperto ampie prospettive di mercato al Giappone. LaCina,chesecondole stime dovrebbe scalzare il Giappone al secondo posto nella classifica delle potenze economichemondiali,è diventata il primo partner economico del Giapponealpostodegli StatiUniti.Ovunque,la diffusione del settore audiovisivo ha decuplicato la richiesta di contenuti. Così i giapponesi hanno capito che non dovevanorestarechiusi e isolati (e alla stessa conclusione sono arrivati gli abitanti della Corea del Sud che, tenuto conto della frontiera ermetica che li separa dalla Corea del Nord, vivono ugualmente la sensazione di essere relegatisuun’isola). C’è stata una tentazionediripiegosu se stessi, è una strategia che avrebbe potuto essere intrapresa. Tuttavia, il Giappone era ormai consapevole della saturazionedelproprio mercato interno, della necessità di innovare per svilupparsi: l’economia stagnava, il debito pubblico aumentava e la popolazione invecchiava (il 21 per centodellapopolazione giapponese ha oltre sessantacinque anni, per questo è il paese con più anziani al mondo). All’inizio degli anni novanta è stata invece tentata un’altra strada, una nuova strategia battezzata “Ritorno in Asia” e fondatasull’obiettivodi riaffermare la propria identitàasiatica. Anzitutto sul fronte politico. Il Meti, ministero dell’Economia, del commercio e dell’industria giapponese ha riconosciuto per la prima volta l’importanza delle industrie creative per l’economia del paese, soprattutto dopo il successo del videogioco Pokémon di Nintendo e dei film Principessa Mononoke eLacittàincantatadel geniale Hayao Miyazaki. Da questo momento sono state fatte sovvenzioni a questi settori. “Il nostro primo obiettivo è l’Asia,” mi spiega KeisukeMurakami,uno dei direttori del Meti a Tokyo, “e il nostro obiettivo finale è la Cina. Queste sono le nostre priorità.” Un messaggio privo di ambiguità e davvero significativo, considerato che provienedaunufficiale di alto rango del governogiapponese. Grazie agli sbocchi commerciali favoriti dalla globalizzazione, il Giappone ha cominciato ad avvicinarsiaipaesiche avevano un atteggiamento critico rispetto all’imperialismo americano, adottando argomentazioni già sostenute in precedenza dai capi di governo Lee Kuan-Yew aSingaporeeMahathir Mohamad in Malesia. Insieme a questi paesi e alla Cina, in quest’ultimo caso non solo per ragioni economiche, il Giappone intendeva difendere i “valori asiatici” contro la decadente morale occidentale. Progressivamente ha avuto consapevolezza, o quantomeno ha assunto, la propria “asiaticità”, come attesta uno dei più celebri slogan dell’inizio degli anni novanta: “Datsuönyua” (“Fuggire dall’Occidente, entrare inAsia”). In questo modo, i giapponesi si sono resi conto di uno scenario che non sospettavano, cioè che i paesi vicini erano moderni. Seul, Taiwan, Singapore, Shanghai avevano economie sviluppate quanto quella giapponese, un ceto medio istruito e tecnologie all’avanguardia. Il Giappone ha dunque dovuto fare dietrofront sulla “missione civilizzatrice” dell’Asia perchénonerapoicosì avanticomecredeva. Il“ritornoinAsia”ha caratterizzato anche la diplomazia nipponica sul fronte degli scambi culturali con gli altri paesi asiatici, ormai considerati dei partner (secondo la cosiddetta “dottrina Fukuda”). Questa strategia diplomatica, accompagnata da una dissimulata politica commerciale, è stata avviata prima con la Corea del Sud, poi con i paesi del Sud-est asiatico e infine con quellidelSuddell’Asia. Naturalmente anche la Cina è rientrata in queste strategie e con questo paese il Giapponehaavviatoun processo di reciproco riconoscimento della rispettiva potenza economica. Anche l’Australia si colloca all’interno di questa strategianipponica. Inoltre, il Giappone ha capito che avrebbe ulteriormente rafforzato la propria potenza puntando sui contenuti culturali e sui media e non solo sull’elettronica. Era dunque necessario, nel contempo, ispirarsi al modello americano e fargli concorrenza. Infatti, proprio in questafaseattornoagli anni novanta, Sony e Matsushita hanno acquisito gli studios americani Columbia e Universal, confermando così la strategia dell’epoca, quella chiamata delle “sinergie” tra hardware e software nel settore audiovisivo, ovvero tra dispositivi tecnologiciecontenuti. Igiapponesisirendono dunque conto che il potereèfattodiharde disoftelodetienechi, nel contempo, è in grado di creare e distribuire prodotti culturali,chicostruisce immaginiesogni.Parte da qui la concorrenza al monopolio americano delle industriedeicontenuti, sullorostessoterreno. Questa nuova strategiaeladifesadel soft power in stile asiatico – senza più guerre e senza più far paura, ma diffondendo immagini e diventando cool–hannopuntatosu un settore particolarmente florido, quello dei manga,dacuièpartita la riconquista giapponese dell’Asia e poi del resto del mondo. Imanga,mediaglobali Mi trovo nel quartiere Iidabashi di Tokyo, nella sede del gruppo Kadokawa, uno dei principali editori di manga in Giappone. Shin’ichiro Inouye, presidente di Kadokawa, comincia il nostro incontro entrando nel vivo della questione: “Deve tenere presente che la cultura giapponese è aperta al mondo, che cerca di svilupparsi sui mercati internazionali e che comunque resterà profondamente giapponese. Ciò significa che diffonderemo i nostri prodotticosìcomesono in campo internazionale. Non cercheremodiadattarli ai gusti del pubblico di tutto il mondo, come fanno invece gli americani. Questo è il nostropuntodiforza:il Giappone è cool rimanendo se stesso, ovvero fortemente giapponese”. Il gruppo Kadokawa, dall’alto della sua “nipponicità”, ha avviato un’offensiva internazionale che riutilizza i manga su tutti i formati all’internodellapropria strategia di diffusione dei contenuti. Nella sede del gruppo, a Tokyo, constato peraltro che Keroro, uno dei personaggi manga di punta del gruppo, e di colore interamente verde, è presente ovunque, in ascensore, nella hall dell’edificio, nei videogiochi e, ovviamente, in formato peluche “kawai” sulle scrivanie dei trecento disegnatori e autori che lavorano per l’azienda.“Unmangaè sempre il risultato di due lavori: disegno e scrittura,” conferma Shin’ichiroInouye. Ilmercatodeimanga è di certo internazionale, ma si confronta con uno scenario complesso: il Regno Unito è un mercato poco ricettivo nei confronti dei manga, mentre su quello francese sono già ben consolidati; Germania e Stati Uniti sono in ritardo, ma in crescita, mentre l’America latina, dopo una lunga fase di reticenza per questi prodotti, ha cominciato da qualche anno ad aprirsi. Il successo della strategia di questo grupposispiegaconla diffusione dei manga ad ampio raggio su tutti i tipi di supporto, ulteriormente possibile con il digitale, la telefonia mobile e le serie televisive. Shin’ichiro Inouye definisce questa procedura “media mix” (che in Occidente si chiama “versioning” o “mediaglobal”). La convergenza di contenuti e tecnologie, così efficace nel caso dei manga, è una delle chiavi del successo del Giappone. Shubebey Yosida, amministratore delegato di Sony Computer Entertainment Worldwide Studios, intervistatoinunadelle torri in cui ha sede Sony a Tokyo, conferma il valore di questastrategia:“Coni cartoni animati, i film d’animazione, o videogiochi, i manga, i comic-book e spesso con le serie televisive, abbiamo costruito un nuovo sistema economico giapponese in cui si uniscono diversi settori. Playstation è un buon esempio di questa strategia, poiché adattiamo i nostri contenuti a numerosi giochi” (tuttavia, Yoshida non mi dice che i contenuti di Playstation 3 sono spesso sviluppati da case europee o americane e sono prodottiinCina). Le esportazioni non sempre sono facili e la concorrenza è spesso agguerrita.Acausadei brutti ricordi lasciati dall’“Impero del Sol levante” nell’anteguerra, la cultura “made in Japan” è stata a lungo vietata a Taipei e Seul (fino al 1993 i prodotti televisivi a Taiwan e fino al 1998 i prodotti culturali in Corea). Inoltre,ilgovernodella Corea del Sud ha la tendenza a preferire la cultura americana a quella giapponese, considerata più imperialista e più pericolosaperilpopolo coreano. Il “ritorno in Asia” del Giappone ha seguito una strategia precisa. La guerra dei contenuti è stata lanciata con lo stratagemmadiavviare nuovamente una cultura panasiatica, sottinteso con forti tinte giapponesi. Oggi si gioca nel settore dei format televisivi, e degli “idol”, le star della musica, in concorrenza tra GiapponeeCorea. LaguerratraJ-PopeKPop Yoyo è la manager del grande rocker cinese Cui Jian. La incontroperuntèinun albergodiPechino.Jian ha venduto 50 milioni di dischi in tutto il mondo (è sotto contratto con l’inglese Emi). Yoyo mi spiega come Cui Jian sia riuscito a diventare così celebre in Cina nonostante la censura. “Primadilui,icantanti cinesi facevano musica di propaganda. Il loro canoneerailfolkloree cantavano in playback. Cui Jian invece fa musica rock, affronta i problemi della società cinese e canta dal vivo.” Per qualche tempo Cui Jian è stato censurato, per aver tenuto un concerto in piazza Tienanmen “su richiesta degli studenti” (ci tiene a precisare), ma poi è stato nuovamente approvato. Le autorità lo tollerano perché restasempreneilimiti: è peraltro protetto da un immenso successo popolare,mentreisuoi attacchi contro il sistema musicale cinese (soprattutto la sua battaglia contro il playback) sono piuttosto contenuti. I testi delle sue canzoni, sottoposti come per tutti gli artisti cinesi al vaglio della censura, non pongono più alcun problema. Peraltro non gli verrebbe mai in mente di fare operazioni contro la Cina,comehannofatto il gruppo inglese Radiohead, che a un concertohatiratofuori labandieradelTibet,e la cantante islandese Bjork che alla fine di unconcertoaShanghai hacominciatoagridare “Tibet, Tibet”. Cui Jian èaccorto,eperquesto ha potuto aprire il concerto dei Rolling Stones in Cina, mentre leesibizionidiRem,U2 e Oasis sono state vietate nel paese a causa delle loro dichiarazioni a favore del Dalai Lama. “Diversamente dal cinema,lamusicaperil governo cinese non è un settore strategico, dunque è molto meno controllata,” spiega Yoyo. “Se è vero che talvolta il rock, specie quello alternativo, è soggetto a censura, il pop in lingua mandarina è poco controllato tanto è edulcorato e inoffensivo. Si lasciano vivere le boy band di adolescenti innocenti e un po’ sbigottiti poiché questopopmainstream non rappresenta un pericolo per il governo e ciò ne spiega la diffusione e il successo.” La musica pop ascoltata in Cina, anche se cantata in cantonese o mandarino, non necessariamente è cinese. Spesso è importata, anche se i cinesinonlosanno.Per rendersi conto dell’influenza del pop transasiatico in Cina è sufficiente fare un giro nellemigliaiadinegozi di cd e dvd diffusissimi a Pechino, Shanghai e Hong Kong. Gli album sono venduti in milioni di copie, e il dato è certamente più elevato tenuto conto della diffusione della pirateria che rende impossibile distinguere un album originale da uno contraffatto. Spesso i cinesi non sanno che questi dischi, anche quelli pirata, sono stati prodotti in fabbriche del Sud della Cina a partire da canzoni registrate al di fuori delpaese. Lamusicapiùdiffusa traigiovanicinesisono il cantopop di Hong Kong(incantonese)eil pop in mandarino. In entrambiicasisitratta dimusicapopdiorigini straniere e poi formattata per il pubblicocineseaHong Kong e Taiwan, veri e propri trampolini di lancio per la diffusione della musica popolare cinese.Daquesteparti, gli artisti sono più liberi, la diversità etnica è maggiore, le casediscografichesono più affidabili (spesso sono sostenute da bancheinternazionalie da agenzie di talenti americane) e il copyright è un po’ meno protetto. “La musica asiatica entra in Cina attraverso HongKongeTaiwan.Il pop giapponese ha un grande mercato e prima di essere distribuito nella Cina continentale è ‘rielaborato’, cioè tradottoinmandarinoe presentato con un packaging più conforme al mercato. Sono delle cover,” mi spiegaYoyo. Il J-Pop e il K-Pop si diffondono dunque in Cina e in Asia attraverso il sistema delle cover. Uno degli esempi migliori è Jolin, che riprende i grandi successi americani, li rielabora e li ricanta con un accento “continental” mandarino nelle sale degli studi di Taiwan perilpubblicocinese. Ilsistemadellecover è alla base anche del successo della grande star coreana BoA, che canta in coreano per il pubblico coreano, in giapponese per i giovani di Tokyo (è bilingue),iningleseper igiovanidiSingaporee Hong Kong e ha imparato a cantare anche in mandarino per piacere al pubblico cinese. A partire da Taiwan i suoi dischi sono diffusi in Cina, doveèunastarnotada Shanghai a Shenzhen. BoA è una sorta di JanetJacksonasiaticae dal 2008 ha grande successo anche negli Stati Uniti, soprattutto all’interno delle comunitàasiatiche(che compongono una popolazione complessiva di 13 milionidipersone).Per conquistarli ha trasformato la propria immagine di giovane, sexyekavaï(carina)in personaggio più maturo e più femminista. Per la versione internazionale dei suoi album, BoA registra in inglese e mandarino (come il successo Girls on Top nelsuoquintoalbumin coreano). BoA è oggi una delle più grandi cantanti di tutto il continente asiatico e non sembra sorprendere nessuno che una coreana che parlaanchegiapponese canti in mandarino. Al contrario,pericinesiè cool. Fa ancora meglio il gruppo Super Junior, composto da tredici ragazzi coreani selezionati dalla casa discografica per conquistare tutti i mercati asiatici. Questi ragazzi, giovani e belli, con capelli lunghi alla coreana, cantano in diverse lingue. Il gruppoèdunquediviso in “unità” più piccole per adattarsi al paese in cui viene prodotto: in Cina, l’unità cinese “SuperJuniorM”canta in mandarino, in Giappone“SuperJunior J” fa concerti in giapponese, mentre in Corea è di scena “Super Junior K”. Attraverso diverse combinazioni, questo gruppo può esibirsi ovunque in Asia cantando una lingua nazionale conosciuta dalpubblico. Esistono poi altri casi:laboybandSmap (composta da cinque ragazzi giapponesi diventati celebri su Channel V, emittente che trasmette in tutta l’Asia), U2K (due giapponesi e un sudcoreano), Tvxq! (cinqueragazzicoreani che cantano in mandarino e diventati dellestarinGiappone), Dreams Come True (trio di Taiwan prodotto da Sony) e Hot (gruppo coreano che canta in giapponese e cinese). Esistono anche band composte da ragazze: Girls’ Generation (Corea), Ses (trio coreano composto da una coreana, una giapponese e un’americana). Anche alcuni solisti sono prodotti con questi formati variabili: Rain, un giovane coreano, è diventato una sorta di Michael Jackson asiatico con i suoi album fatti soprattutto per i giapponesi; Dick Lee è una star di Singaporechecantada tempo in inglese e mandarino; Stefanie Sun è una cantante di Singapore che canta in mandarino e in diversi dialetti cinesi, così ha potuto aprirsi al mercato cinese, di Taiwan e della Cina continentale; infine c’è Jay Chou, il celebre taiwanese scritturato dalla Sony, anche attore in La città proibita di Zhang Yimou, che canta in mandarinoesivesteda cowboy per piacere in tuttal’Asia. Spesso, questi cantantirifannocelebri canzoni di successo anglosassoni, come Ymca dei Village People cantata in mandarino o cantonese, e ottengono un immenso successo locale. Il pubblico cinese si entusiasma per queste hit che, cantate in mandarino, sembrano canzoni nazionali; nessuno sa realmente che sono prodottedagiapponesi, coreani e taiwanesi (talvolta da giapponesi a Taiwan con il marchio Sony Music Taiwan). Attraverso questi giochi linguistici emerge come la globalizzazione culturale sia fatta di riadattamenti vari: la musica americana è ripresadagiapponesie coreaniepoiregistrata da una boy band o una idolinmandarino. BoA, Super Junior, Hot, Ses, Tvxq! sono prodotti in Corea da Sm Entertainment. Negli uffici di Seul incontro Lee SooMan, amministratore delegato di Sm: “La strategia del nostro gruppo è costruita attorno alla lingua. Costruiamo boy band a partire da casting fatti a ragazzi che parlano diverse lingue come i membri di Super Junior,chesonotuttidi diverse nazionalità. In alcuni casi facciamo fareaicantanticorsidi lingua, come è accadutoperBoAcheè sotto contratto con noi da quando ha undici anni e a cui abbiamo fatto imparare il giapponese, l’inglese e il mandarino. Generalmente, le nostre boy band possono cantare in quattro lingue: coreano, inglese, giapponese e mandarino – talvolta anche più di quattro lingue. Poi organizziamo grandi campagnedimarketing completamente attestate sulla realtà locale a cui ci rivolgiamo: promozione, prodotti, trasmissioni televisive. Infine, i nostri artisti sono ‘multi-purpose stars’, ovvero sanno cantare, ballare, recitare nelle serie televisive, fare i fotomodelli.Sonomolto polivalentieconquesto sistemaabbiamocreato lamodadelleboyband coreane”. Come spesso accade nel K-Pop e nel J-Pop, la maggior parte delle star di Sm Entertainment sono degli idol (in giapponese aidoru): sono scritturati molto giovani,tragliundicie i quindici anni, per il loro fisico e per la loro voce. “La bellezza è uno dei canoni che riesce meglio a essere esportato da un media all’altro e da un paese all’altrointuttal’Asia,” conferma seriamente Lee-SooMan. Anche altre aziende seguono simili logiche di “cross-media” in cui i diversi ambiti della comunicazione sono messi in connessione tra loro, per esempio Sony dal suo quartier generale per l’Asia a Hong Kong (sede che controlla tutto il mercato asiatico e che dipende direttamente da Sony negli Stati Uniti, escludendo il Giappone seguito direttamente da Tokyo). Così, in Asia, continente della fusion in campo gastronomico, scopro anche la fusion dei media e delle lingue. Per conquistare il pubblico asiatico, la complicata strategia delle case discografiche giapponesi si basa su due elementi: “localization” e “media fusion”. Ho poi capito che anche le serie televisive seguono la stessastrategia. “Glocalization” è dagli anni novanta un’espressione alla moda (che sta per “globallocalization”).A dirla tutta, sono sempre stato un po’ diffidente verso questo concetto di stampo vagamente commerciale e i cui simboli sono McFalafels di McDonald’s in Egitto, McLuks al salmone in Finlandia e McHuevos, con un uovo, in Uruguay.Maadesso,in Asia, con BoA e Super Junior comincio a conoscere la dimensione locale e regionale della musica pop. Diversamente dal cinema, in cui gli scambi internazionali anche nello stesso continente sono rari, nella musica sono piuttostosviluppati. Giapponesi e coreani hanno pragmaticamente capito che per esportare la loro musica e le serie televisive in Cina e ovunque in Asia non bisogna imporre prodotti standard né difendere la propria lingua. Una strategia ancora più fine di quella usata dagli americani. Hanno così inventato la “cultura sushi”, più “glocale” della cultura di McDonald: un prodotto complesso, variegato e mai identico, ma che ovunque evoca il Giappone, indipendentemente dalla lingua che si parla.Questatecnicadi “relocalizzazione” avviene attraverso l’efficace tecnica delle cover, un fenomeno molto più diffuso di quantoimmaginassi.La stessa soluzione con il successo della differenziazione si ritrova a Channel V (l’emittente del gruppo Star Tv con sede a Hong Kong) rispetto all’emittente americanizzata Mtv Asia (con sede a Singapore).Glistudidi Channel V sono a Taiwan, l’emittente trasmettemoltaJ-Pope K-Pop e la musica mandarina formattata, i conduttori parlano mandarino e i contenuti sono panasiatici, locali e menoamericani.Grazie a questa “asiaticità”, l’emittente di Murdoch ha sopravanzato la concorrenza del gruppo Viacom. Mtv Asia ha poi corretto il tiro, soprattutto con la trasmissione in prima serata Jk Hits, che mandainondalehitdi J-Pop e K-Pop. Anche Axn, l’emittente musicale di Sony con sede a Singapore, segue queste dinamiche. All’interno di questa concorrenza, i coreani hanno promosso i propri artisti K-Pop in giapponese in Giappone e hanno preso vantaggio sui nipponici che, inizialmente, non volevano cedere sulla questionelinguistica.A farnelespeseèstatala J-Pop. Ma i giapponesi hanno poi saputo rispondere con armi proprie: concorsi di idol, serie televisive, telefonia mobile, videogiochi e, ancora unavolta,imanga. AsiaBagus! (L’Asia è formidabile), questa è stata la prima reazione giapponese: un concorso di idol pensato dalla televisione giapponese Fuji Tv, registrato a Singapore (per dargli un tocco transasiatico) e trasmesso in contemporanea in CoreadelSudeinuna decinadialtripaesidel Sud-est asiatico per conquistare altri mercati. Sony Music Japanharealizzatouna trasmissione simile, La voce d’Asia, per identificare la nuova popstar asiatica e che gli ha permesso per esempio di lanciare la cantante filippina Maribeth diventata poi una star in Indonesia, grazie al marketing giapponese. Anche le agenzie di talenti giapponesi Amuse e HoriPro Entertainment Group hanno moltiplicato i concorsi inCinaperindividuare, traledecinedimigliaia di candidati, la futura star in mandarino. A modoloro,igiapponesi funzionano in Asia come gli americani nel restodelmondo.Ancor meglio, hanno una sorta di filtro che traduce la cultura “occidentale” per l’Asia. Il loro maggior successo rispetto agli Stati Uniti, soprattutto in Cina, viene dal fatto che si sono concentrati sul settore dei videogiochi e della musica, molto meno sensibilidaunpuntodi vistapoliticorispettoal cinema. In questo modo, la cultura giapponese perde molta della sua nipponicità. Un’altra strategia della J-Pop è la diffusione dei “drama”. La musica giapponese è stata associata ai contenuti di serie televisive di successo: come accade in India con le songs & dances dei film di Bollywood, l’onnipresenza delle boy band nei drama giapponesi ha permesso di rendere le canzoni celebri nei paesi asiatici in relazione alla diffusione delle serie televisive. Infine, i giapponesi hanno fatto ancora meglio con le tecnologie. La J-Pop ha invaso la telefonia cellulare soprattutto grazie alle Ring Back Tones, suonerie che scattano mentre si attende la risposta dell’interlocutore (e da non confondere con le suonerie che sostituiscono il trillo). C’è poi il Color Call Tone,unbranodiJ-Pop che fa da sottofondo alle conversazioni. Le copertine degli album sono ovviamente trasformate in sfondi per i cellulari. Queste invenzioni giapponesi, eanchecoreane,fanno furore in Corea, in Indonesia, a Taiwan e ovunque in un’Asia tornata “giapponesizzante”. In ogni caso, è sorprendente constatare che la musica ascoltata in Asia è quella nazionale oppure quella “per tuttal’Asia”esiascolta poco quella americana: in Giappone si stima che la musica giapponese faccia l’80 per cento delle vendite contro il 20 per cento della musica anglosassone; anche in Corea,laK-Popsembra occuparel’80percento del mercato nazionale; a Hong Kong la cantopopraggiungeil70per centodellevenditeela musica asiatica è dominante anche in Indonesia. Forse la musica “ascoltata”, rispetto a quella “comprata”, è più favorevole agli americani per via della pirateria, dello scaricare musica da internet e della televisione, ma in proporzioni molto diverse. Infatti, la pirateria coinvolge anche J-Pop e K-Pop e non solo i prodotti americani. In Cina e in Indonesia, e nei paesi poveri del Sud-est asiatico come il Vietnam, i cd e i dvd piratati offrono alle serie coreane, alla J- Popeaifilmamericani ampiadiffusioneesono tollerati dal mercato ufficiale. C’è tuttavia un’eccezione: Singapore. All’interno dellacittàstatodomina lamusicaanglosassone conl’80percentodelle vendite. Eppure, quandosiintervistanoi dirigentidelleindustrie creative locali, si constatacheildibattito sulla minaccia all’identità culturale non esiste, mentre sembra fondamentale in Cina, Giappone e Corea del Sud. A Singapore, paese multiculturale e comunitarista, si importano senza problemi tutti i contenuti che provengono dall’esterno e non si cerca neanche di adattarli. Non c’è filtro come in Giappone, né censura antioccidentalecomein Cina,néfusioncomein Thailandia: a Singapore, gli abitanti parlano spesso tra loro in mandarino e in inglese, accolgono i prodotti culturali americani, talvolta a scapito dei prodotti asiatici (alla gente del Sud-est asiatico piace andare a Singapore a fare turismo per avere l’impressione di stare “in Occidente”). È un paese molto diversificato, è un’Asia in miniatura al punto che, arrivando a Singapore, mi sono detto che in qualche modo è “l’Asia per principianti”. Eppure, la città stato è la quintessenza di una formadimodernitàche non è né l’occidentalizzazionené l’americanizzazione, ma una sorta di singaporizzazione in cui la cultura di ogni minoranza è valorizzata. Dopo aver inventato, come dicono da quelle parti, “il capitalismo in stile asiatico” e oggi convinti che i valori dell’Asia siano superiori a quelli occidentali, gli abitanti di Singapore stanno pensando una nuova cultura transasiatica. Se questa ipotesi fosse valida, è probabile che coinvolgerà non tanto i prodotti e i contenuti ma i servizi e, come a Hong Kong e Taiwan, cercherà tutti gli avvicinamenti possibili conlaCina.Gliabitanti di Singapore sono infattianchecinesi. Nel cinema, come nella musica, agli americaninonriescono tutti i colpi in Asia. È ormai lontano il tempo –gliannicinquanta–in cui erano acclamati dagli asiatici per aver inventato la macchina elettrica che cuoce il riso, simbolo dell’“american way of life” che arrivava in Asia. I dirigenti americani,chevogliono diffondere in tutto il mondo contenuti mainstream identici, in inglese, non hanno la stessa finezza dei loro colleghi della Corea, di Taiwan, di Singapore e Hong Kong che per rendere i loro prodotti culturali mainstream accettano di cancellare le singolarità nazionali e la lingua. E in questi flussiinterasiatici,sela cavano anche se perdono – lost in translation – la loro identità. Restano i drama, le serie televisive asiatiche. Comincia un’altra battaglia culturale, ulteriormente diversa da cinema e musica. Il mainstream ha regole che cambiano a seconda dei continenti e dei settori. E questa voltalaguerranonèsu scala regionale, è planetaria. 12. Geopoliticadeidrama, delletelenoveledel Ramadanedialtre telenovele In tutta l’Asia sono chiamati “F4”. Sono i quattro protagonisti della serie televisiva Boys Over Flowers, la “F”significa“fiori”,ma anche “belli” nel linguaggio usato dagli adolescenti. Una ragazzaprovenienteda una famiglia povera, i cui genitori gestiscono una lavanderia automatica, riesce a entrare in un liceo d’élite in Corea in cui deve subire la prepotenza di quattro giovani ricchi, belli e arroganti che intimoriscono gli studenti più fragili. La ragazza comincia a proteggere le vittime delle ingiuste angherie degli “F4”, ma si innamora di uno di loro. La serie, una sorta di Sex and the City in versione maschile, è composta daventiquattroepisodi, contiene vicende intrecciate e ramificate, la sceneggiatura è rapida e piena di colpi di scena, ma dietro una trama apparentemente semplicistaemergeuno spaccato sociale ben più profondo. All’interno della serie la musica è onnipresente ed efficace: ha contribuito sia a pubblicizzare e rendere noto il programma, sia alla venditarecord,intutta l’Asia, della colonna sonora. La storia è tratta da un celeberrimo manga degli anni novanta, di quelli che si chiamano “shojo manga” poiché rivoltoaunpubblicodi ragazze tra i dieci e i diciotto anni. Inizialmente, nel 2001, Boys Over Flowers era una serie televisiva di Taiwan, poi nel 2005 è stata realizzata la versione per il Giappone, nel 2008 quella per la Corea e sono già stati annunciati i remake perleFilippine,mentre per la Cina si parla anche di un film e di una commedia musicale. Tutti questi adattamenti a partire da un format creato a Taiwan hanno contribuito al successo in tutto il continente asiatico, anche nei paesi dove aveva già trionfato la versione originale.Ifan–milioni di adolescenti, soprattutto ragazze – commentano le diverse versioni,confrontanole duefamiglieingioco(è una sorta di West Side Story all’asiatica) e discutono all’infinito della bellezza di ciascuno dei quattro ragazzi(ilmiopreferito è Kim HyunJoong, ma leragazzepreferiscono ingenereLeeMinHoo Kim Sang Bum). La versionecoreana,cheè il terzo remake, ha ottenuto un grande successo in prima serata su Kbs, la televisione pubblica coreana, e poi in Giappone, Indonesia, Vietnam, Thailandia, a Taiwan, e grazie al mercato nero di dvd in Cina – così è diventata ilfenomenoasiaticodel 2009. In Corea, peraltro, data l’importanza di questi programmi, non si parla di serie televisive, ma semplicemente di “drama”. Labattagliadeiformat “Boys Over Flowers in Asia è un vero e proprio fenomeno sociale,” spiega BJ Song, personaggio di culto in Corea del Sud, celebre produttore musicale e presidente di Group8, importante società nel settore audiovisivo che produce musica K-Pop, commedie musicali e soprattutto celebri drama coreani – tra cui, ovviamente, Boys Over Flowers. Dal suo ufficio si accede a un immenso terrazzo con vista sul quartiere hip di Itaewon, a Seul. Ha grossi occhiali, un pizzetto bianco e parla bene inglese. “Nella versione coreana di Boys Over Flowers abbiamo voluto mantenere la velocità originale del manga, i cliffhangers che sono l’elemento che crea suspense. Inoltre, l’esperienza del liceo è stata rielaborata affinché anche le persone anziane, nel ripensare alla loro adolescenza, potessero identificarsi con gli F4.” Gli chiedo poi di indicarmi le caratteristiche delle soap opera coreane. BJ Song quasi sobbalza: “Non sono delle soap! Sono dei drama! Sono veri e propri teleromanzi con storie e una vera e propria sceneggiatura. Alle soap manca la struttura, servono solo a far passare il tempo. Noi invece abbiamo creato la “Hal-lyu”. In Europa, Hal-lyu (letteralmente “nouvelle vague coreana”)siriferisceai film d’autore coreani, mentre localmente l’espressione è utilizzata soprattutto per richiamare il successodeidrama.La “nouvelle vague coreana” non è stata un fenomeno per festival e cineforum, ma un fenomeno di intrattenimento del pubblico di massa. È statomainstream. BJ Song tamburella su uno dei suoi computer Samsung (siamo in Corea). Il nome così simile a quello di un dj ben si addice al personaggio, un musicista che ha composto la colonna sonora di decine di serietelevisiveedifilm celebri in tutta l’Asia. Non oso chiedergli se sia il suo vero nome oppure, dato il contesto, se è un “cover name”. Dopo una lunga pausa, BJ Song prosegue il discorso: “Le nostre serie devono essere conformi ai valori asiatici. In Corea il confucianesimoèmolto forte, non tanto come religione, ma come cultura. Ciò significa chebisognarispettarei propri antenati, che la famigliaèilfulcrodella società e che i legami di sangue prevalgono sulle altre leggi; in Corea le figure del fratello e della sorella sonofondamentaliedè impensabile poter discutere un ordine imposto dal padre o da un fratello maggiore. Poi c’è tutto ciò che riguardailmatrimonio: l’amore è una responsabilità che impegna, quindi non si può sposare qualcuno se rifiutato dalla famiglia e si deve sottostare al codice coreano del seon, una sorta di matrimonio combinato dai genitori, soprattutto se non si è ancora sposati a trent’anni. I nostri dramadevonoriflettere questa mentalità, un codice etico molto rigido. Nel contempo, una volta rispettato questo codice come sfondo, sullo schermo abbiamo la libertà di mostrare molte cose. Per esempio, si può ridere. Un drama deve essere fun, divertente. Poi bisogna parlare della realtà, poiché un drama coreano è molto reale, gli attori recitano normalmente, senza quelle interpretazioni eccessivechesivedono nelle serie giapponesi, ed è qui che la cosa diventa interessante. Nelle nostre serie non c’è sessualità, ma si vedono persone che si baciano: qui non siamo a Bollywood! E poi nellavitaquotidiana,ci sono tradimenti, prostituzione e omosessualità. Certo, possiamoparlarne.Elo facciamo”. Una cosa che sorprende nei drama coreani è la presenza costante di attori giovani e belli. “La bellezza fisica è il principio fondamentale di un drama coreano, in particolare quella maschile, poiché il pubblico delle serie televisive è composto soprattutto da casalinghe e ragazze. Per esempio, per ognuno dei quattro personaggi di Boys Over Flowers, abbiamo fatto provini a quattrocento attori. Inoltre, dal momento chelenostreseriesono destinate all’esportazione e sono dunque doppiate, gli attori sono importanti soprattutto per il loro lookenonperlavocee la dizione. Spesso in Asia si pensa che i giovanicoreanisianola quintessenza della bellezzaasiatica,iltopmodel tipo. Esportiamo anchequesto.” L’esportazione dei drama coreani è un settoreeconomicovero e proprio. Alla direzione del network Mbc a Seul, JungSook Huh conferma l’importanza di questo mercato. “Siamo il primo produttore di drama coreani. Li vendiamo in tutto il continente asiatico, ma vendiamo anche il format, mercato altrettanto importante. Il format, che è sotto copyright, è qualcosa di più di un’idea e qualcosa meno di un drama: acquistando i diritti, un produttore può rifare la serie, riproporne la trama e i personaggi, ma ha la libertà, regolamentata dal contratto, di adattarla alla realtà locale affinché sia compatibile con specifici valori locali. Inoltre è interpretata da attori di quel paese che parlano la lingua notaatutti.” Laguerradelsettore audiovisivo in Asia orientale, tra Giappone e Corea, tra Corea e Taiwan, tra Taiwan e Cina è in realtà una guerra sui format più che sui programmi. Si parla peraltro di “format trade”, mercatodeiformat. Dopo i giapponesi, i coreani sono diventati potenti esportatori di formatdidrama.Èuna questione importante poiché la loro lingua è poco parlata in Asia e dunque hanno maggiore interesse a mettere sul mercato contenuti più che prodotti finiti. Di fatto, la Corea vende il doppio di format rispetto a serie fatte e finite. L’aspetto affascinante è la globalizzazione di questi format e il loro mercato. Lavenditadelleserie e dei format coreani è in forte crescita in Asia: anzitutto verso il Giappone che per ragioni finanziarie costituisce il primo mercato. Poi ci sono Taiwan, Hong Kong, Singapore, ovvero i mercati “cinesi”, con tutti i relativi problemi dell’aspirazione e delle difficoltà di introdursi nellaCinacontinentale. “La Cina è un mercato che fatichiamo a raggiungere direttamente. Ci arriviamo soprattutto con la vendita dei format, oppure ci arriviamo con coproduzioni realizzate con Shanghai Media Group e altre aziende pubbliche cinesi che fanno da intermediari. Quando queste strade non funzionano, dirottiamosullavendita dei format a Taiwan o Singapore, poi sono loro a introdurli in Cina,” commenta JungSook Huh. In altri termini, i coreani hanno gli occhi puntati sulla Cina e, constatando la diminuzione della produzione di serie televisive continentali dapartediHongKong, hanno deciso di infilarsi nella breccia. La censura cinese tollera queste serie inoffensive per adolescenti poiché non minacciano la sua sovranità. Se però il loro successo dovesse ulteriormente aumentare, è possibile un intervento della censura per ragioni di protezionismo economico. La strategia della Corea del Sud consiste inoltre nel cercare mercati di “serie B”, quelli che interessano meno americani e giapponesi. La Thailandia, per esempio, è un mercato fondamentale per la Corea, come l’Indonesia per via dei suoi quasi 250 milioni di abitanti. A questo mercato appartengono anche il Sud-est asiatico,leFilippine,la Malesia e il Vietnam, nonostante il basso potere d’acquisto. La strategia dei coreani è invadere questi spazi economici con serie televisive a buon mercato,ancheacosto di perdere denaro, come accade in Vietnam, ma per abituare gli spettatori alla cultura coreana e poter trarre poi benefìci politici e finanziari. I drama e la K-Pop sono per la Corea uno strumento per esercitare soft power. Unaltromercatoche suscita particolare attenzione è quello dei coreanichevivonoaldi fuori del paese, soprattutto negli Stati Uniti, dove risiedono 1,3 milioni di coreani. “I coreani-americani sono la chiave del nostro successo in Nord America, soprattutto grazie ai network specializzati via cavo,” spiega JungSook Huh. C’è tuttavia un altro mercato ugualmente sensibile, quello dei nordcoreani. Nella Corea del Sud ci si pensa continuamente,manon se ne parla. Non è tanto una questione di denaro, poiché l’obiettivo è politico. In Corea del Sud tutti hanno lasciato intendere che la diffusione dei drama oltre il confine militarizzato rappresenta una nuova frontiera da abbattere, è una priorità non dichiarata.Seilconfine politico è insuperabile, i sudcoreani hanno pensatoaunastrategia di aggiramento tramite la diffusione delle loro serie televisive attraverso il mercato nero e la Cina continentale. Nelle cittàalconfinetraCina e Corea del Nord, i drama coreani e la musica K-Pop sono più facilmente accessibili poiché queste province sono popolate da numerosi cinesi di origine coreana e le relazioni commerciali tra Cina e Corea del Nord sono attualmente in forte espansione. I cinesi rivendono ai nordcoreani i vecchi modelli di lettori di cd e videoregistratori ormai obsoleti con un traffico commerciale molto intenso, inarrestabileancheper la polizia nordcoreana, particolarmente ossessionata dal controllo dei prodotti culturali americani o sudcoreani. Sotto la dittatura comunista di KimJong-ilsinasconde in realtà un mercato nero molto diffuso, che èinrealtàunaformadi capitalismo esasperato e sotterraneo (l’economiasudcoreana è circa cinquanta volte più ricca di quella del Nord, con una popolazione che è solamente il doppio). “Fino a qualche anno fa,sesivenivasorpresi con un disco sudcoreano si finiva direttamente in galera. Oggi tutt’al più accade che venga sequestrato dai poliziotti nordcoreani che lo tengono per sé,” mi spiega a Seul un importante professionista del commercio con la Cina (che rifiuta di essere menzionato per non mettere in pericolo la suaazienda). Sul fronte delle esportazioni dei drama coreani c’è poi il mondo musulmano. “Vendiamomoltidrama in Medio Oriente poiché le donne musulmane si identificano totalmente con i personaggi femminili coreani,” conferma, alla direzione dell’emittente Mbc a Seul, Jung-Sook Huh. “Le nostre idee sulla famiglia,sulruolodella donna sono piuttosto compatibili. Per esempio, la nostra serie Jewel in the Palace, in cinquantaquattro episodi, ha avuto un successo immenso in Iran e in Afghanistan. Anche i paesi del Golfo costituiscono un mercato in forte crescita.Nelcontempo, dobbiamorisolvereuna questione molto difficile tra aspettative differenti:daunaparte ci sono quelle molto conservatrici, per esempio, dei paesi musulmani; dall’altra c’è la censura cinese che vuole storie romantiche,difantasia, con personaggi ben identificabili come buoni e cattivi, poi ci sono quelle più postmoderne, se mi si passa il termine, del pubblico giapponese e dei coreani-americani, che vogliono storie più attuali, più imprevedibili e meno rispettose dei codici. Dobbiamo dunque giostrarci tra questi mercatiesispiegacosì perché produciamo diversi format. Per esempio, in Jewel in the Palace con la star mondiale Lee YoungAe, che interpreta una ragazza povera che diventa una grande cuoca e va a fare lo ‘chef’ alla corte di un re, la storia si svolge cinquecento anni fa; oppure, Coffee Prince, una miniserie in stile ‘gay-friendly’ in cui il protagonista non vuole stare ai dettami familiari, apre un bar in un quartiere alla moda di Seul dove assumecomecamerieri solo ragazzi sexy e alla fine si innamora di un travestito che si rivelerà poi essere una donna…”Ineffetti,una cosapost-moderna. In una periferia di lusso di Seul, incontro ilgiornodopoKimJong Sik, amministratore delegato di Pan Entertainment, una importante casa di produzionedidrama.È accompagnato da una produttrice televisiva e siccome nessuno dei due parla inglese, e io quel giorno sono senza interprete, fa venire immediatamente uno dei giovani attori più promettenti della casa, Yoo Dong-hyuk, che è bilingue. “I drama coreani sono molto atipici.Èunaquestione di desiderio, passione, amorepuroegrande.È questo che ha fatto il successo in tutta l’Asia della nostra serie Winter Sonate.” Kim Jong Sik insiste sull’importanza della musica nei drama, anche perché contribuisce a far conoscere in Asia i cantanti di K-Pop. Come accade anche a Bollywood,iduesettori si sostengono a vicenda. A un certo punto dell’intervista, Kim Jong Sik smette di parlare.Iononriescoa capire cosa voglia dire e neanche Yoo Donghyuk riesce a tradurre. Con l’aiuto di un traduttore automatico Samsung,KimJongSik riesce a comunicarmi la parola che voleva dire, “confucianesimo”. È la seconda volta che usa questo termine durante il nostro incontro. Poi riprende il discorso: “La Cina comunista ha rigettato il confucianesimo, il Giapponenonlohamai accolto, solo i drama hanno mantenuto lo spiritodiConfucioeciò spiegailsuccessodelle nostre serie in Asia. È uno spirito a cui i cinesi aspirano consapevolmente, mentre i giapponesi lo cercano inconsciamente. I coreani, invece, pur essendo in maggioranza cristiani, hanno lo spirito plasmato sul confucianesimo”. Personalmente, questa analisi pseudoreligiosa nonmiconvincemolto, l’ho riportata come mi èstatadetta. Poco dopo, al caffè Starbucks dell’angolo, proseguoildialogocon Yoo Dong-hyuk, che è stato il mio traduttore improvvisato. È un fotomodello di ventisei anni, indossa una camicia bianca e una lunga giacca nera, jeans di marca e ha i capelli spettinati come gli attori di Boys Over Flowers. Gli chiedo come si chiama questo taglio di capelli così diffuso tra i giovani idol:“Allacoreana”,mi risponde semplicemente Yoo Dong-hyuk. E poi aggiunge: “Spesso è questo taglio di capelli arendercisweet–edè quello che adorano le ragazze”. Il patron del gruppo Pan Entertainment, che ha sotto contratto il ragazzo, di lui mi ha dettocheharecitatoin sei drama e che negli Stati Uniti, per i coreani-americani, è una star. Gli chiedo come mai parli così bene l’inglese. “Ho lavoratocomeattorein America,” mi risponde. “Sono affascinato dalla cultura televisiva americana,dalmododi recitare degli attori di Friendsenaturalmente daWentworthMillerin Prison Break.” Poi aggiunge: “Mi piacerebbe essere una specie di Yunjin Kim in versione maschile (l’attricediSeulcheha recitato nel celebre film coreano Shiri prima di essere scritturata per la serie televisiva americana Lost)”. Alla domanda su come si diventa una star in Corea risponde: “È una questione di fortuna, di cogliere l’attimo facendosi trovare pronti al momento giusto e bisogna essere belli, è questo ciò che conta”. Gli chiedo poi in che forma sia legato alla suacasadiproduzione, se è dipendente o a contratto. “Non posso rispondere, deve chiederlo al mio agente, è lui a occuparsi di queste cose.” In Corea e Giappone resto sorpreso dalla giovane età degli attori. A Bollywood e HongKonglestarsono attori maturi diventati celebri nel corso del tempo – Ambitabh Bachchan, Shah Rukk Khan, Jackie Chan, Andy Lau. In Corea la maggior parte degli attori è giovanissima, attorno ai vent’anni. Esiste una cultura esasperata del “teenpop”: i desideri degli adolescenti determinano i consumi dell’insieme della popolazione. Si tratta, a mio avviso, di un fenomeno contrario a quanto è avvenuto per secoli nella cultura europea ma anche asiaticaconRamayana, Mahabharata, Akira Kurosawa, Kenzaburo Oe e Yukio Mishima. Oggi, al loro posto, sono le boy band giapponesi, i giovani attori di drama con i capelli alla coreana, le star del rap thai e le giovani cantanti di Taiwan a modulare la cultura asiatica globalizzata. In Corea c’è una grossa polemica sulle pressioni esercitate dagli americani per liberalizzare il settore audiovisivo e il cinema affinché il mercato dei contenuti si apra agli studios di Hollywood. Attraverso un accordo bilaterale di libero scambio firmato il 30 giugno 2007 a Washington, i coreani hanno accettato di ridurre le loro quote di riserva. Le organizzazioni ufficiali a sostegno del cinema coreanoegliattivistidi Coalition for Cultural Diversity in Moving Images a Seul mi hanno lasciato intendere che gli Stati Uniti avrebbero minacciatodiritirarele lorotruppedallaCorea se fossero rimaste le quotediriservasuifilm americani. Di sicuro una simile interpretazione è esagerata e probabilmente gli americani non sono mai arrivati a questo punto: non potrebbero mai abbandonare un hard power in cambio di un soft power. Sembra tuttavia evidente che abbiano fatto pressione per ottenereunasituazione aloropiùfavorevole. All’ambasciata degli Stati Uniti di Seul, superprotetta dai marines, sono ricevuto dal ministroconsigliere, un diplomatico navigato che opera come consulente commerciale (non ho il permesso di farne il nome). Nega fermamente qualsiasi pressione. “La Corea, insieme al Giappone, è un mercato chiave per le industrie dei contenuti per gli americani.Questoèun fatto. Tuttavia, ad abbassare le quote di riserva sono stati i coreani stessi poiché avevano altri interessi economici da mettere sulla bilancia, per loro più importanti. Non è mai stato un prerequisito, come invece è stato detto. È una cosa che posso assicurare perché sono stato io a condurre le trattative per questo accordo e posso garantire che i nostri eventuali prerequisiti non avrebbero riguardato il cinema. Anche i coreani avevano molte esigenze, soprattutto nel settore agricolo, e così è stata condotta una trattativa. Una trattativa difficile, come quelle fatte con moltipaesiperarrivare adaccordicommerciali bilaterali. I coreani avevano il massino interesse nel firmare questo accordo fondamentale per la loro elettronica e la loro agricoltura, per questohannoaccettato disacrificareilcinema. Hanno scelto Samsung alpostodeifilm.Èuna sceltacoreana.” Il sistema coreano dellequotediriservaè originale. Per un certo numero di giorni all’anno, il cinema nazionale deve essere l’unico proiettato, ogni cinema è libero di scegliereigiorniincui i film stranieri sono vietati. Fino al 2007, 146 giorni all’anno erano riservati al cinemacoreano,ovvero il 40 per cento; questa percentuale è stata poi abbassata a 73 giorni dopo l’accordo del 2007, ovvero al 20 per cento. I risultati non si sono fatti attendere. Prima di questo accordo, il cinema americano rappresentavail40per cento del botteghino coreano (e al 60 per cento per il cinema coreano),poièsalitoal 50 per cento (e il cinema coreano è crollato al 49 per cento). “L’abbassamento delle quote di riserva non è l’unica cosa che spiega il crollo del cinema coreano,ancheseviha contribuito,”diceMark Siegmund della Seul Film Commission. “Il problema è che produciamo meno film e sempre meno per un pubblicomainstream.Il nostrocinemacontinua ad andare bene nei festival dei film d’autore in Europa, ma non attira i giovani coreani. Questo è il nostroproblema,nonè solo una questione di quote di riserva.” Al Korean Film Council, il settoregovernativoche proteggel’industriadel cinema, si difende fermamente il sistema delle quote di riserva, mentre la maggior parte dei miei interlocutori dell’industria del cinema incontrati a Seul, soprattutto tra i gestori dei cinema, è più scettica. Alcuni lo consideravano controproduttivo e ne volevano l’abolizione: “Le quote di riserva hannoindebolitolesale cinematografiche poiché non rispondevano alle esigenze di moltissimi giovani coreani che vogliono vedere i film americani. Sono stati allontanati dai cinema e spinti ad acquistare questi film in dvd o a scaricarli da internet. Inoltre è un sistema indifferenziato che colpisce il cinema giapponese, taiwanese, francese tanto quanto quelloamericano.Epoi bisogna sapere che già da molto tempo il sistema delle quote di riserva non era rispettato dai gestori stessidellesale.Invece di questo sistema arcaico avremmo bisogno di una produzione nazionale forte, di qualità e destinataaunpubblico di massa. È l’unica soluzione”, spiega il responsabile di una catena di multisala (chenonvuolesiafatto il suo nome per timore di reazioni degli operatori del settore). “In realtà bisogna dire che, come è accaduto anche in Messico, la Mpa ha ferocemente combattuto il sistema delle quote di riserva coreane concentrando la sua attività di pressione sui gestori dellesale.Convintiche i film di successo hollywoodiani fossero desideratidalpubblico, soprattutto dai giovani coreani, sono stati soprattutto i gestori i migliori alleati degli americani nella richiesta di abolire le quote di riserva, sperandocosìdivedere aumentare i loro introiti,” commenta Alejandro Ramirez Magaña, il celebre patron della catena di cinema messicani Cinepolis, che ha fortemente investito in Asia (e che io ho intervistato in Messico). Per i gestori, tuttavia, il risultato sembralimitato. In ogni caso, con o senza quote di riserva, a partire dalla Guerra di Corea la Corea del Sud è quasi il cinquantunesimo stato degli Usa poiché, in ragione della presenza della Corea del Nord, questa isola somiglia a una vera e propria portaerei americana. Nelle vie di Itaewon, non lontano da una base americana, si vedono le pattuglie di militari americani e, di sera, i bar più malfamatisonopienidi soldati. Gli Stati Uniti sono il paese in cui vivonopiùcoreanialdi fuoridellaCorea.Tutto ciò comporta numerosi scambi culturali tra i duepaesi. In questo specifico rapporto con gli Stati Uniti per i coreani si gioca anche un problema più complicato, relativo al bisogno di riconoscimento e alla ricerca di una propria identità. Contrariamente al Giappone, che cerca di preservare la propria specificità, e a Singapore, che non ha questa ambizione, la Corea cerca invece di recuperareunapropria specifica identità. Si tratta di un’identità complessapersaconla Guerra di Corea e con la separazione dal Nord, paese per cui si prova odio ma dal quale si è anche gelosamenteaffascinati per la sua purezza nazionalista “coreana”, mentre la Corea del Sud è un paese globalizzato. C’è un rapporto complesso con gli americani che hanno accettato di morire per una Corea libera, ma invadenti e onnipresenti da un puntodivista,militare. Infine,siprovaunforte sentimento di inferioritàneiconfronti del Giappone, dominatore nel passato, e della Cina, ormai minaccia economica e forse militare. Oggi, non è facile essere sudcoreani. I teleromanzi del Ramadan A un’ora di strada a ovest del Cairo ci sono gli studi cinematografici e televisivi della televisione egiziana, unaveraepropriacittà nota come Media City. In realtà questa nuova città interamente costruita nel deserto si chiama6thOctoberCity (in riferimento alla Guerra dello Yom Kippurtralacoalizione Egitto-Siria e Israele, che gli egiziani sostengono di aver vinto). Qui si producono i musalsalat: i teleromanzi del Ramadan. Queste soap opera sono state inventatedagliegiziani esonopopolariintutto il mondo arabo. Ogni puntata dura in media cinquanta minuti (un’ora con la pubblicità) e ogni serie è composta da trenta episodi, trasmessi ogni giorno durante il Ramadan e poi ritrasmessi continuamente per tutto l’anno. A Media City si fanno le riprese di una ventina di serie completeall’anno. “Il successo dei musalsalat è strettamente legato al Ramadan,” spiega Youssef Cherif Rizkallah, che dirige la divisione internazionalediMedia City. “Le famiglie restano rinchiuse in casa per tutto il giorno per un mese intero e quindi guardano continuamente la televisione. Anche i giovani non possono andare al cinema, tranne la sera.” Il formato del programmaèsemplice: è un divertimento per un pubblico di massa, leggero e comprensibilepertutti. Si affrontano le questioni della vita quotidiana, i problemi coniugaliesociali,sono anzitutto teleromanzi a scopo morale. “È una forma di divertimento con dei valori e dei principi,” sottolinea Youssef Osman, direttore della produzione dei teleromanzi a Media City. Poi aggiunge lucidamente: “Questi valori, completamente conformi alla religione musulmana, fanno il successo dei teleromanzi del Ramadan nel mondo arabo, ma sono fallimentarialtrove”. Anche nelle case produttrici questa forma di intrattenimento popolare egiziana è criticata. “I giovani vogliano più azione e meno melodrammi,” prosegue Youssef Osman. “Allora abbiamo cominciato a fare serie da quindici episodi anziché trenta per accelerare la trama. Poi, i giovani vogliono vedere ragazze più belle, non velate e un po’ scoperte.” Vogliono dunque più sesso? “Nondireichevogliono vedere sesso, ma almeno che un ragazzo possa baciare la ragazza. E così facciamo scene in cui i ragazzi baciano le ragazze.” Questi prodotti oggi hanno buoni ascolti in Egitto, Marocco, Tunisia, Libano, Siria e Palestina, ma tutte le scene di baci o “leggermente osé” sono tagliate nei paesi del Golfo e in Arabia saudita. “Credo che il successo del cinema egiziano in tutto il mondo arabo, e in particolare dei musalsalat, venga dal fatto che siamo più liberi e più emancipati rispetto agli altri paesi musulmani,” precisa Youssef Osman. “I nostrifilmapronospazi di libertà, costruiscono un immaginario per giovani arabi che adorano la bellezza delle nostre donne e l’attrattiva dei nostri uomini.” Gli chiedo poi se l’islamismo che sta tornando con forza possa modificare questo scenario. YoussefOsmansiritrae sullasuapoltronasotto il ritratto del presidente Hosni Mubarak: “Vedremo. La televisione e il cinema egiziani sono sempre più controllati dal denaro dei paesi del Golfo. Questo avrà delle ripercussioni. Per esempio,cisonoattrici senza velo che decidono di indossarlo per rispondere al mercato e conquistare maggior pubblico, soprattutto nei paesi del Golfo. Di sicuro oggi ci sono molte più donne velate rispetto a vent’anni fa. Sono in aumento evidenti formediislamizzazione anche nel settore audiovisivo in Egitto. Anche questo avrà delle ripercussioni. Globalizzazione contro islamizzazione: sono i terminideldibattitoda questeparti”. Media City è una sorta di Cinecittà del Medio Oriente, è una specie di Hollywood orientale ed è uno dei complessi cinematografici più moderni della zona araba. Gli studi sono costruiti nel deserto e non hanno concorrenti, a parte forse Media City di Dubai. È una sorta di “zona franca” poiché offre condizioni vantaggiose per le riprese ed è stata creata dal ministero dell’Informazione egiziano nel 1998 con metà fondi pubblici e metà capitali privati. È stata inaugurata nel 2002, offre infrastrutture, équipe di tecnici e personale particolarmente competenti, rilascia autorizzazioni per fare riprese nel deserto o davanti alle Piramidi. “Se un produttore ha bisogno di mille comparse, posso trovargliene nel giro di qualche ora,” dice Youssef Cherif Rizkallah. “Ci sono 2 immense sale di posa, 75 scenografie differenti, 50 studi televisivie15zoneper le riprese esterne con scenografie naturali.” Visito a lungo questo luogo molto affascinante, ci sono scenografiepertuttele esigenze: piramidi (una, in cemento, solo la facciata), una stazione ferroviaria, una vecchia strada del Cairo, un accampamento beduino, un fiume, una foresta tropicale e anche un campo minato con manichini disoldatiisraeliani. Media City è dunque un luogo per venire a fareripresepertuttala zona araba: i paesi del Golfo,ilLibano,laSiria e anche l’Iraq, vi si girano infatti anche musalsalat iracheni. I dirigenti di Media City sperano anche di attirare le troupe occidentali, ma nel farmi la promozione delle attrezzature presentinonsirendono conto che la questione del velo e del divieto assoluto di alcol possono rappresentare un freno per i produttori occidentali. Ancora una volta, i punti di forza dell’Egitto verso il mondo arabo sono punti deboli rispetto al restodelmondo. Alla fine della visita ho una strana impressione che mi evoca manie di grandezza d’altri tempi: non l’Egitto dei faraoni,malaRomania di Ceausescu – in versione Hosni Mubarak.Vedofontane immense dalle quali non zampilla un goccio d’acqua,stradedeserte che non portano da nessuna parte, montagne artificiali costruite con macerie, scialbe copie di sculture egiziane e arrivo poi alla Master Control Room, dove ci sono persone appisolate. L’edificio centrale – chiamato “complesso Mubarak A” – ha la forma di H. Chiedo il perché. “H sta per Hosni, il nome del presidente,” mi risponde Youssef CherifRizkallah. “I teleromanzi del Ramadanprodottidagli egiziani oggi non sono più all’avanguardia. Sono ormai musalsalat datati,giratiinstudioe con sceneggiature vecchie di quarant’anni. Il pubblico arabo non li apprezzerà ancora a lungoeigiovanihanno già smesso di guardarli.” Si esprime in questi termini a Damasco, qualche mese dopo, Firas Dehni, celebre regista di teleromanzi ed ex direttore del dipartimento di Produzione della televisione nazionale siriana. In Siria, le serie televisive hanno il vento in poppa: la cinematografia nazionale è in rovina, maiteleromanzihanno successo. “Incarnano l’infitah, l’attuale apertura del paese,” spiega Firas Dehni che ho incontrato in un ristorante della città vecchia in una pausa delle riprese. “Qui facciamo riprese all’esterno, in strada, affrontiamo tutti i temi tabù come corruzione, sessualità, aborto, droga, relazioni sessuali fuori dal matrimonio e anche la transessualità. Naturalmente c’è una linea che non si può oltrepassare” (Firas Dehni, dal momento che lavora per la televisione ufficiale di stato, non dice quale sia questa linea, ma so che qualsiasi critica politica o religiosa, qualsiasideviazionedai princìpi musulmani, qualsiasi difesa dei dirittidell’uomoodella libertà d’associazione, apologia di Israele, critica al presidente BacharalAsadportano in prigione, come mi è stato confermato dal responsabile di una Ong intervistato a Damasco, che ha appena trascorso due anni in carcere per aver difeso i diritti dell’uomo). I teleromanzi siriani sono costruiti sul modello delle serie americane: ogni episodio contiene una storia completa che si chiude, dunque non è necessario vedere ogni episodio per capire la trama. Questo è il vantaggio rispetto ai musalsalat egiziani, in cui le puntate si susseguono per una stagione intera, in particolare durante il Ramadan. Sedutoauntavolodi un albergo del centro storico di Damasco, Makram Hannoush, un libanese che produce numerose serie televisive, si interroga sull’attuale successo del settore audiovisivo siriano: “Bisogna però minimizzare le cose. È vero che usiamo la lingua parlata, che facciamo riprese all’esterno, che siamo un po’ più liberi. Se le nostre serie sono innovative, quando arriva il Ramadan torniamo però un po’ meno liberi. Per quella stagione dobbiamo tornare a format molto rigidi, come quelli egiziani: 30 episodi da 45 minuti ciascuno, 22 ore e 50 minuti in tutto.Nonunminutodi più! Questo è il Ramadan”. Il celebre attore siriano Jihad Saad, che recita in numerosi teleromanzi del Ramadan, difende invece il sistema e mostra qualche perplessità sulle mutazioni in corso: “L’apertura della Siria... ma cosa significa? Vuol dire aprirsi agli americani, farecomeloro?”. Rispetto all’Egitto, che produce annualmente una cinquantina di serie televisive, la Siria è un paese emergente del mondo arabo nella produzione del settore audiovisivo. Cerca di essere audace, poiché, nonostanteledrastiche regole della dittatura, sa che può affermarsi solo con soggetti di attualità, riprese esterne e assumendo dei rischi. Il regime lascia fare. Il successo economico per le esportazioni di questa industriacreativanonè probabilmente estraneo a questa libertà ben integrata, ma non fa presagire nulla per il futuro. Per ilmomento,nonostante la mancanza di democrazia politica e di libertà dei media, la modernizzazione della Siria passa per le serie televisive. Fino a quando? Le telenovele alla conquista dell’intero continenteamericano Mi trovo in un ristorante indiano con dolci finti, un’attrice avvolta in un sari, una cameriera che deve ripetere più volte la sua parte su richiesta di un regista un po’ spazientito. La scena è decisiva: l’attrice si è innamorata di un intoccabile mentre la sua famiglia ha già organizzato un matrimonio combinato. All’esterno è stata allestita una via di Jaipur, città del Rajasthan, con i lavatoi, un tempio indiano e un cinema in cui si proietta, stando alla locandina, Jodhaa Akbar, un recente film di Bollywood con la star Aiswarya Rai Bachchan. Per le necessità della serie televisiva Camhino das Indias, il regista ha chiesto che venisse ricreato anche un pezzodelfiumeGange: allora centinaia di operai si sono adoperati per accontentarlo ed ecco pronto il fiume nelle scenografie.Comesea Jaipur scorresse il Gange. Sul set si parla portoghese poiché, come si sarà capito, non mi trovo in India, ma negli studi di Tv Globo. Camhino das Indiasèunatelenovela seguita con passione tutte le sere della settimana da milioni di brasiliani. Davanti ai miei occhi si sta realizzando un nuovo episodio, poiché la telenovela è in continua lavorazione, tra scrittura e realizzazione delle riprese. Gli studi di Projac (il nome ufficiale è Central Globo de Produção) sono a un’ora di strada a sudovest di Rio, sono stati inaugurati nel 1995, hanno un’estensione di 130 ettari e hanno dieci studi per le riprese, di cui quattro interamente destinati alle telenovele brasiliane. Ogni anno inquestistudivengono girate 2500 ore di riprese per programmi televisivi; essi sono di proprietà di Tv Globo, uno dei quattro network più potenti al mondo. Questo è il cuore dell’industria dell’intrattenimento brasiliana. “Se vuole sapere cos’erano gli studios americani nell’epoca d’oro di Hollywood deve vedere cosa facciamo da queste parti,” mi dice un po’ ironicamente Guel Arraes, regista di telenovele, sceneggiatore di successo, e attualmente direttore della divisione Fiction deglistudidiTvGlobo. Come la maggior parte degli attori e dei tecnici, anche lui è un lavoratore dipendente. Per Globo si lavora tutto l’anno, come accadeva a Hollywood negli anni trenta, non con singoli contratti per una specifica telenovela. Per una giornata intera attraverso gli studi di Tv Globo a bordo di un “carro elettrico” (la golf-kart in brasiliano), guidato da Edson Pimentel, direttore esecutivo di Projac.Neiluoghidelle riprese vedo una finta favela, una pista per elicotteri, una chiesa i cui lati sono ciascuno di uno stile diverso (gotico, barocco, romanico), una caserma dei pompieri (vera), una scenografia di Fez, un’altra di Miami e naturalmente la via di Jaipur sulle rive del Gange. La maggior parte delle scenografie è montata su ruote per poter essere facilmente spostata, riposizionata e sistemata. Sono in una vera e propria fabbrica dei sogni montatasuruote.Poco dopo visito l’atelier di cucitura in cui ci sono 65.000 costumi, ciascunoconuncodice a barre, disposti per chilometri. Tv Globo trasmette sei episodi alla settimana per ogni telenovela e fino a cinque telenovele al giorno, di cui tre inedite trasmesse alle ore 18, 19 e 21 e alcune miniserie trasmesse alle ore 22. Ogni giorno, verso le ore 14, sono ritrasmesse telenovele della stagione precedente. “Dunque dobbiamoprodurreuna ventina di episodi alla settimana. È matematico,” mi dice Edson Pimentel, che poi prosegue: “Le trasmettiamo una settimana dopo averle girate. Le telenovele sono un prodotto fresco”. A questi ritmi, si tratta sicuramente di un prodotto fresco, ma sonoancheunprodotto continuamente riadattato poiché appartieneaungenere ampiamenteconsumato e con necessità di cambiamento. Guel Arreas traccia lo scenario: “La telenovela in Brasile è un’istituzione. Nelle campagne e nelle favelas, tutti guardano latelenoveladellasera, lapiùpopolareèquella delle ore 21, dopo il Jornal Nacional delle 20, che è ancora seguito dalla maggioranza dei brasiliani. Per farla breveèlastoriadiuna coppia che vuole baciarsieabbracciarsi, ma che lo sceneggiatore, per duecento episodi, ha deciso di non volerli lasciar fare. Da qui l’impazienza della coppia e dei telespettatori. Nel frattempo ci sono infiniti intrecci secondari che generano suspense – elementodecisivodella telenovela”. Il modello era questo, ma oggi è in piena trasformazione. Guel Arreas riprende il discorso: “I tempi cambiano e per le esportazioni facciamo 50-60episoditagliando le vicende secondarie, manteniamo solo la main story line” (si esprime in inglese per dire la storia principale). Osservo che 60 episodi per riuscireadabbracciarsi e baciarsi è ancora tanto. A seconda dei vari paesi, le telenovele cambiano molto stile e filosofia.“Latelenovela brasiliana è meno melodrammatica di quella di altri paesi dell’America latina,” prosegue Guel Arreas. “L’intento è più realistico, gli attori recitano in modo meno eccessivo, meno marcato. Non necessariamente compare all’improvviso una donna forte con le braccia alzate sull’ampia scala d’ingresso della casa, segno di opulenza e della differenza di classe sociale, che grida:‘Díosmio!’.” Il Brasile è stato il primo paese a trasmettere telenovele inprimaserata,mentre negli altri paesi erano relegate al pomeriggio per un pubblico di casalinghe. Il risultato è stato eclatante e ha fattoregistrareancheil seguito di un ampio pubblico maschile. “In Messico le telenovele sono più tradizionali, piùmelodrammatichee dunque conservatrici: la protagonista è pura, bianca,èsemprebuona esoffre,èunasanta.In Venezuela, le telenovele sono puro intrattenimento e, paradossalmente trattandosidelpaesedi Chávez, sono più liberali. In Colombia ci sibasasufattirealiper fare telenovele poliziescheofiabesche. Anche in Argentina la protagonista soffre, ma può rivelarsi perfida, condurre un doppio gioco e alla fine risultare cattiva. Si osano affrontare soggetti scomodi. Si rompono i soliti schemi,” sintetizza Victor Tevah, direttore aggiunto di una importante società di produzione di telenovele argentine, Pol-Ka, con sede nel quartiere Palermo di BuenosAires. In Brasile si gira molto in esterna, almeno il 40 per cento della serie, spesso all’estero, mentre per esempio in Messico le telenovele sono girate soprattutto in studio. I costi sono più elevati, ma si offrono immagini più colorate e più credibili.“Laspecificità delle nostre telenovele è che sono girate in corso d’opera, così possiamo modificare la trama in base alle reazioni del pubblico e agli ascolti. Soprattutto, è una storia che continua, non è come le serie televisive americane in cui ogni episodio racconta una storia a sé: in Brasile bisogna vedere180puntateper conoscere tutta la storia,ilpubblicoèpiù fedele e più leale,” spiegaEdsonPimentel. Dunque le telenovele brasiliane sono lunghe, generalmente quelle di Tv Globo durano 170180 episodi, mentre quelle di Record Tv 250; se il successo continua possono essere prolungate per un tempo indefinito (fino a oggi il massimo è 596 episodi). Sono di generi diversi (commedie, drammi, melodrammi) e affrontano vari temi, spesso legati a problemi personali e sociali: questioni familiari, crisi di coppia, rivelazione di figli illegittimi. Affrontano anche la vita nelle favelas, la droga, l’alcolismo, la corruzione. Il mercato pubblicitario è concentrato nelle città di San Paolo e Rio, e ciò influisce sui contenuti: “Dato che il pubblico delle grandi città è più aperto sulle questioni sociali, sulla sessualità e l’omosessualità, è chiarocheletelenovele brasiliane siano più edgy”, conferma Luigi Baricelli, una star che sono riuscito a intervistare al ristorante dell’emittente e impegnata ogni giorno a presentare in diretta la trasmissione Video ShowsuTvGlobo. Per quanto sia predominante sul mercato, il network privato Tv Globo non è l’unico a trasmettere telenovele in Brasile. C’è anche Record Tv, vicinaaglievangelistie finanziata da Televisa, grande gruppo messicano. Di questa emittente incontro TiagoSantiago,celebre sceneggiatore che dirigeletelenoveleper questo canale: “Come tutti vengo da Tv Globo. Tra le due emittenti c’è una sana concorrenza. A settembre trasmetteremo tre telenovele al giorno”. Tiago Santiago dirige una squadra di otto autori per le sceneggiature: “Scriviamo insieme secondo un planning quotidiano molto ben rodato: al mattino presto, scrivo la sintesi della scena che dobbiamo stendere nel corsodellagiornata,mi ispiro soprattutto ai fatti letti sui giornali; poilamandoviamailai miei collaboratori che ci lavorano da casa. Ci dividiamo la scrittura, ciascuno fa la sua parte. A metà della giornata,tuttigliautori mi inviano ciò che hanno scritto. Poi rendiamo coerente la trama, correggiamo, alla fine della giornata abbiamo una cinquantina di pagine pronte, piene di grandi emozioni e di ragazze inminigonna.Lascena che scriviamo questa settimanasaràgiratala settimana prossima e trasmessa la settimana dopo. Questo ci permette di assecondare le attese del pubblico e di restare legati all’attualità”. Tiago Santiago mi spiega peraltro che i suoi guadagni dipendono dal seguito della telenovela, lo stipendio di base aumenta se la serie ha ascolti. “Alla fine della giornata il successo si misura molto semplicemente: siete stati capaci di creare storie che la gente ha voglia di guardare?” All’ingresso c’è un immenso mappamondo con all’interno una televisione, è il logo di Tv Globo. Sono nella sede storica del gruppo, molto lontano dagli studi, vicino al giardino botanico di Rio. Luiz Claudio Latgé,unodeidirettori di Tv Globo e oggi alla testa del canale di informazioni non stop, è entusiasta: “Le telenovele di Tv Globo contribuiscono a unire il paese sul piano linguistico e sociale. Tutta la famiglia, tutte le classi sociali si ritrovano attorno alla telenoveladellasera.Il Brasile ha quasi duecento milioni di abitanti, è immenso, l’unico in America insiemeagliStatiUniti. Il nostro segnale è diffuso da centoventi stazioni in tutto il paese e le nostre telenovele sono venduteinuncentinaio dipaesi.Èunsuccesso eclatante se si pensa che parliamo portoghese, una lingua poco diffusa nel mondo”. In realtà, il Brasile è un soggetto nuovo nel mercato degli scambi culturali internazionali. È ancora un paese emergente per il settore audiovisivo: se è vero infatti che le telenovele brasiliane si vendono da tempo, sonodavveroredditizie solo da qualche anno. “Siamo ancora un mercato giovane nell’intrattenimento,” conferma Luiz Claudio Latgé. Il pubblico con un potere d’acquisto rilevante, quello a cui si rivolgono i pubblicitari, in Brasile è nell’ordine dei sei milioni di persone. Quindi, non si tratta di unmercatomaturo.Ma se si prende l’esempio dei telefoni cellulari – ne possiedono ormai novanta milioni di brasiliani, ovvero la metà della popolazione – le prospettive di crescita sono chiare. “Le persone con un buon potere d’acquisto dovrebbero passare prossimamentedaseia cento milioni. Diventeremo una formidabile potenza economica e le risorse dell’intrattenimento e dei media aumenteranno ampiamente. Il Brasile presto non sarà più un paese emergente, saremo emersi,” conclude con un sorriso Luiz Claudio Latgé. I mercati delle telenovele brasiliane sono numerosi. C’è anzitutto quello dei paesi di lingua spagnola e le serie sono girate fin dall’inizio in due versioni: portoghese per il Brasile, spagnolo per l’esportazione in America latina (poco versolaSpagnadovele telenovele brasiliane in sostanza non si vendono). Il mercato ispanico principale, in questazona,continuaa essere il Messico, date le sue dimensioni geografiche. L’Argentina costituisce un mercato più limitato, ma è un buon promotore e rappresentauntestper gli altri paesi. Il mercato lusitano si limita al Portogallo, cliente fedele e simbolicamente importante per Tv Globo, ma economicamente poco rilevante.Oltreaipaesi dell’Americalatina,che sono consumatori discontinui delle telenovele brasiliane in funzione delle loro specifiche produzioni, c’è il mercato latino negli Stati Uniti. Su questo scenario c’è la concorrenza del Messico, ma Tv Globo ha siglato accordi con l’emittente americana Telemundo per diffondere le sue produzioni doppiate in spagnolo. Poi ci sono i paesi dell’Europa centrale e orientale, grandi consumatori di telenovele.InRomania, per esempio, esiste un network, Acasa Tv, ampiamente destinato alle telenovele sudamericane. A Bucarest vanno particolarmente bene i prodotti brasiliani, colombiani e venezuelani. “In Romania le telenovele sono spuntate subito dopo il 1989, sono state una sorta di liberazione da quel primo ‘reality show’ rappresentato dalla rivoluzione,” spiega il critico cinematografico AlexLéo Serban. “Queste telenovele hanno un pubblico soprattutto femminile, non molto istruito. Alcune di queste mamme ‘telenovelofile’ hanno chiamato i loro figlicomeiprotagonisti delle serie.” Di sicuro, il fatto che la Romania siaunpaeselatino,con una lingua simile all’italiano, facilita forme di identificazione. Le telenovele brasiliane funzionano anche in Russia, Polonia, Serbia, in Repubblica Ceca, a confermadell’ampiezza del fenomeno. “I Paesi dell’Est e la Russia rappresentano ormai il 70 per cento delle nostre vendite,” conferma a Buenos Aires Michelle Wasserman, che vende le telenovele argentine della rete Telefe. “I russi preferiscono le nostre telenovele per scelta ideologica, perché non sono americane, e perché i nostri attori sono più ‘bianchi’ e hanno uno spirito più europeo rispetto a quelli delle serie messicane e brasiliane,perirussiè più facile identificarsi conloro.Peraltro,èciò che costituisce la nostra forza in Europa, e talvolta anche in America latina, poiché gli ispanici adorano le attrici bionde con gli occhiazzurri.” Il successo delle telenovele brasiliane è diffuso anche in Medio OrienteenelMaghreb, come accade per i drama coreani. Alcune telenovele sono state girate in Marocco, e questo certamente è stato utile come richiamo per il pubblico arabo. In questiultimianni,nelle telenovele brasiliane sono stati introdotti molti ingredienti stranieri, soprattutto arabi, e questo ne ha facilitato la diffusione. Ma la chiave del successo commerciale delle telenovele sul fronte delle esportazioni è il costo. Tv Globo diffonde le telenovelealribasso:in termini di costi, rispetto alle serie americane si tratta di prodotti da discount. “Preferiamo acquistare telenovele brasiliane invece delle serie americane per via dei prezzi,”mispiegaSally Messio, direttrice dei programmi e presentatrice di punta della televisione nazionale del Camerun (Crtv), quando visito i locali di questa emittente di stato. “Noncompriamoquesti programmi direttamente dal Brasile, ma attraverso casedidistribuzionedi Abijan e Dakar,” aggiunge. Il Discop di Dakar è una fiera del settore audiovisivo in cui i paesi africani acquistano le serie televisive,comeaccade con il Discop di Budapest per l’Europa centrale e orientale, oppure il Bcww in Corea del Sud, l’Atf a Singapore e naturalmente il Mip-Tv a Cannes per i mercati europei classici. “Ci sono numerosi luoghi esotici,spessofiereper addetti ai lavori in cui si svolge questo mercato delle serie televisive.Èdavveroun mercatointernazionale. Ma gran parte degli acquisti viene fatta ogni anno negli Stati Uniti,alLAScreenings di Los Angeles e al Natpe di Las Vegas,” spiega Michelle Wasserman, direttrice delle vendite internazionali di Telefe a Buenos Aires. Secondo Tv Globo, sono centoquattro i paesicheacquistanole telenovele prodotte da loro. È il primo prodotto culturale esportatodalBrasile. Lasciando Rio, resto sorpresonelconstatare che il conducente del taxi, mentre guida, guarda uno schermo digitale posto a destra delquadrodibordodel veicolo. Non è di certo un procedimento molto sicuro, ma gli autisti brasiliani non hanno paura di nulla. L’uomo si gira verso di me per parlare, intanto guida, e mi dice che gli piace moltolatelenovelache stanno trasmettendo, CamhinodasIndias. Qualche mese dopo mi trovo a Città del Messico, nella sede di Televisa.Perentrarein questo impero dell’intrattenimento, bisogna passare per una piccola porta non lontanadall’autostrada. All’esterno, sull’edificio, c’è il logo riconoscibile di Televisa, un immenso sole giallo. All’interno c’è un’attività così frenetica che sembra quasi di essere in una fabbrica. Tutto è talmente immenso e rapido che, mi dice Rodrigo Artega, il direttore aggiunto di Televisa,“gliattorinon hanno il tempo di imparare il copione né di studiare il personaggio, usano degli auricolari attraverso cui gli vengono suggerite le battute”. Assisto alle ripresedellatelenovela Atrévete a soñar: l’attore principale è una star messicana adoratadallefolle,èin pigiama nel suo letto. Mi viene fornito un auricolare e ascolto il suggeritore. “Ma è dopo questa scena che morirò?” chiede a un certo punto l’attore al regista. Infatti, non si ricorda più la trama della telenovela in cui sta recitando, poiché gira scene di diverse telenovele senza seguire un ordine cronologico. Poco dopo vado a visitare il Centro di Educación Artistica de Televisa: è la scuola per diventare attori all’interno degli studi e assisto al corso per gli allievi. Per tre anni, nove ore al giorno, imparano a danzare, cantare, recitare. Si tratta di una scuola in cui l’esercizio fisico è una delle principali attività e c’è una severa selezione: su settemila candidati, se ne diplomano solo venticinque. Sono affascinato dal fatto che Televisa riservi tanta cura alla formazione dei suoi attori. La sera, guardando un episodio della telenovela di cui ho visto le riprese, constato che è continuamente interrotto da spot pubblicitari. Mi rendo contocheTelevisaèun network mainstream di pubblicità intervallata dateleromanzi. Il mercato internazionale delle telenovele rappresenta oggi una guerra culturale tra la maggiorpartedeipaesi dell’Americalatinaedè condotta da potenti gruppi di media. La concorrenza è ancora più agguerrita poiché i paesi dell’America latina non hanno un network comune, come Star Tv in Asia o Al Jazeera nel mondo arabo. Il colosso brasiliano Tv Globo affronta il colosso messicano dell’intrattenimento Televisa, ma anche Telefe in Argentina, Rcn in Colombia e Venevisión in Venezuela (che produce le proprie telenovele a Miami in collaborazione con Univision). Tutti questi gruppi sono in concorrenza tra loro anche sul mercato più redditizio: quello dei latinoschevivononegli Stati Uniti, già tenuto d’occhiodalleemittenti americane in spagnolo con sede a Miami, TelemundoeUnivision. Con 45 milioni di ispanici sul suolo americano, più un numero tra i 10 e i 15 milioni di immigrati illegali, soprattutto messicani, gli Stati Uniti sono oggi il secondo paese di lingua ispanica al mondo, dopo il Messico, ma prima della Spagna. Questo mercato “latino” degli Stati Uniti è fondamentalepertuttii produttori di telenovele. È una potenziale audience molto superiore a quella della maggior parte degli altri paesi dell’America latina, esclusi il Messico e il Brasile. È soprattutto un bersaglio ideale per la pubblicità, un pubblico con un forte potered’acquisto.Tutti i soggetti di questa industria hanno dunque gli occhi puntati su Miami e Los Angeles, capitali esterne dell’America latina. Per il momento, il leaderdelmercatoèdi sicuro Univision, la cui sede sociale è a New York, ma gli studi sono a Miami. Il network raccoglie il 90 per cento dell’audience latino-americana, soprattutto sulla costa ovest e nel Sud degli Stati Uniti, grazie alle telenovele acquistate da Televisa, suo partnerprivilegiatoper gli Stati Uniti. Tre quarti della programmazione di Univision sono telenovele rivolte soprattutto ai messicaniamericani, valutati in oltre 29 milioni sul suolo americano (illegali non inclusi, stimati in almeno 11 milioni, ovvero 40 milioni di potenziale pubblico). Il network cerca di rivolgersi soprattutto agli immigrati più recenti, quelli che conservano la cultura del loro paese d’origine,eailorofigli, laprimagenerazionedi messicani-americani, ovvero la comunità più rilevante numericamente. Negli studi di Univision di Miami vengono registrati ogni settimanaicelebritalkshow della cubanoamericana Cristina Saralegui–unasortadi Oprah Winfrey latina – e la trasmissione Sabado gigante, programmi poi ritrasmessi da numerose reti televisive latine negli StatiUnitieinAmerica latina in regime di syndication. La concorrenza, tuttavia, è agguerrita: Telemundo, che appartiene a NbcUniversaldal2002,che ha solo il 10 per cento dell’audience, è in crescitasullacostaest. Contrariamente alla concorrenza, Telemundo ha come obiettivo il pubblico ispanico nella sua diversità,inparticolare i giovani latinos bilingue di seconda e terza generazione. Nel tentativo di sottrarre fette di mercato al leader Univision, Telemundo ha tentato in questi ultimi dieci anni diverse soluzioni: anzitutto ha prodotto remake di celebri serie americane come Starsky e Hutch e Charlie’s Angels in lingua spagnola a partire dall’idea che il pubblico di latinos fosse sufficientemente americanizzato da voler vedere serie americane e sufficientemente ispanico da volerle vedere in spagnolo. Sbagliato. I latinos volevano Friends in inglese e telenovele in spagnolo e dunque l’audience è crollata. Il secondo tentativo di Telemundo è stato acquistare telenovele originali da network brasiliani come Tv Globo, argentini come Telefe, o colombiani come Rcn e naturalmenteanchedal concorrente di Televisa-Univision in Messico, Tv Azteca. Questa volta si riescono a fare ascolti importanti tra cubani, portoricani e colombiani, ma non tra i messicani-americani (l’unico mercato che conta) che continuano a preferire soprattutto l’altro network. Secondo fallimento. Di recente, Telemundo ha adottato una nuova strategia ampiamente finanziata da Nbc: produrre telenovele originali nei propri studi di Miami con l’obiettivo di privilegiare le tematiche preferite dai messicano-americani, ma aggiungendo la specifica dimensione della loro vita negli Stati Uniti (cosa che le telenovelemessicanedi Televisa trasmesse da Univision non riescono a fare). Le musiche sono state affidate a gruppi messicanoamericani, l’accento latino degli attori è stato reso più neutro e nella trama sono stati introdotti temi specifici, come il razzismo anti-ispanico e l’immigrazione illegale. Il successo di questo nuovo format è relativo, ma l’audience è in crescita in proporzioni incoraggianti. Più recentemente ancora, Telemundoelapotente Nbc, che la controlla, hanno assestato un colpo spettacolare degno di una vera telenovela, sono infatti riusciti a rompere in parte l’accordo di esclusiva tra Univision e Televisa, così Telemundo potrà acquistare le serie messicane da Televisa per il pubblico latino negli Stati Uniti, ma anche vendere sul mercato messicano telenovele girate a Miami. Sicuramente, per i due network americani, le prospettive sono buone, dato che la popolazione latinoamericana continua ad aumentare negli Stati Uniti e dato cheilmercatoispanico si consoliderà giocoforza. Questa potenzialità non è sfuggita a nessuno e la concorrenza non si limita a questi due soggetti, in guerra ormai da dieci anni. Di fronteaquestinetwork americani, anche TV Globo e Telefe sono sbarcati negli Stati Unitipervendereiloro format. Anche major come Disney, Cbs, Fox e Time Warner di recente hanno cominciato a produrre telenovele a Miami per il pubblico latinoamericano. “A grandilinee,ilmercato della televisione in America latina è composto in questo modo: audience messicana e brasiliana, format ideati a Rio e Buenos Aires, denaro messicano, patron di Miami e con mercato che porta negli Stati Uniti,” sintetizza Mariano Kon, direttore generale della casa di produzione Cuatro CabezasinArgentina. Sempre a Buenos Aires, la casa di produzione Pol-Ka si occupa della versione latinoamericana di Desperate Housewives, la serie americana di successo di Disney e Abc. “Non ne facciamo un solo adattamento, ma cinque versioni diverse: una per il Brasile in portoghese, tre per la Colombia, l’Argentina e l’Ecuador e una versione telemundo per il network omonimo rivolto a messicani e ispanici che vivono negli Stati Uniti,” spiega Victor Tevah, direttore aggiunto di Pol-Ka a Buenos Aires. Sonosorpresodalfatto che non venga realizzata alcuna versioneperlaSpagna. “È normale, prendiamo direttamente la serie americanaefacciamoil doppiaggio nei nostri studi per il network Cuatro e non utilizzando una versione sudamericana,” spiega Pablo Romero Sulla, direttore dei contenuti di Sogecable, divisione del settore audiovisivo del gruppo Prisa, intervistato a Madrid. “Tra una serie e l’altra non ci sono differenze sostanziali, ciò che cambia è la forma,” aggiunge Tevah. “Per ogni versione latinoamericanarestail medesimo contesto, lo stesso scenario, girato in una periferia a nord di Buenos Aires; a cambiare sono gli interni delle case. Modifichiamo piccoli dettagli, l’abbigliamento dei personaggi, le pietanze che consumano a tavola. Cambiamo le professioni di alcune figure, per esempio nella serie argentina, l’idraulico diventa il titolare di un’impresa di idraulica, poiché, contrariamente agli Stati Uniti, qui è impensabile che un idraulico viva in una periferiadilusso.Nella serie per Telemundo, l’immigrato messicano diventa invece un immigrato venezuelano.”Infindei conti, anche inserendo molte donne sull’orlo della crisi di nervi come nella serie originale, le case di produzione trasformano a modo loro la versione americana in una vera epropriatelenovela.La versione spagnola ha un titolo in stile Almódovar, Esposas Desperadas. In America latina, la questione dell’adattamento locale e dell’accento è importante. Contrariamente a quanto si possa immaginare, non sempre tutti i latinoamericani di lingua spagnola si capiscono facilmente tra loro. “Generalmente si pensa che l’accento messicano sia il più tipico,”spiegaMariano César, direttore dei programmidelnetwork argentino Isat, intervistato a Buenos Aires. “Anche l’accento colombiano è tipico. Tuttavia la parlata cubana, argentina, uruguaiana e venezuelana sono molto diverse. Per diventare un network comune a tutti gli ispanici, cerchiamo di utilizzare lo spagnolo ‘neutro’, uno spagnolo indifferenziato e leggermente semplificato, oppure di sottotitolare le nostre telenovele e i nostri contenuti il più possibile. Però la sottotitolatura deve essere fatta in diverse lingue, per esempio in Spagna e in Argentina non si scrive nello stesso modo. Il rischio, altrimenti, è che non tutti possano seguire i nostriprogrammi.” Mariano Kon, della casa di produzione Cuatro Cabezas di Buenos Aires, non è per nulla convinto: “In un certo periodo abbiamopensatochelo spagnolo ‘neutro’ fosse la soluzione: è lo spagnolo inventato per il doppiaggio, uno spagnolo da televisione.Maèmolto artificiale. È lo spagnolo che sognavano gli studios di Hollywood. Era un’illusione”.Dalcanto suo, Michelle Wasserman, direttrice delle vendite di Telefe, il primo network argentino, conferma a Buenos Aires: “Il mercato delle telenovele ci impone il doppiaggio. Anche quando vendiamo le nostre telenovele a paesi ispanici, dobbiamo doppiarle. Così come per lei sarebbe assurda una serie francese con un accento del Québec, lo stesso accade per l’Americalatina”. Alla sede di un altro grande network argentino, Canal 9 a Buenos Aires, l’amministratore delegato Carlos Gaustein, in aperta concorrenza con Telefe, fa un’analisi simile. Tuttavia pone l’accento sullo stretto legame che esiste tra paesi produttori di telenovele e la loro economia, compresa l’ascesa dei paesi emergenti anche nel settoreaudiovisivo.“La produzione di telenovele e la loro diffusione sui mercati esteri sono strettamente legate al potere economico dei singoli paesi. Ormai il Messicoèincrescita,il Brasile esplode, noi siamo in fase di stagnazione e il Venezuela in crollo. Il successodipendemolto dal mercato interno: i paesi emergenti prima vannomegliodeglialtri nella produzione e poi arrivano anche le esportazioni. Il Venezuela, per esempio,eraungrosso esportatore di telenovele, ma il presidente Hugo Chávez ha indebolito il sistema di produzione privato e i contenuti sono crollati. Oggi il network venezuelano Venevisión è costretto a produrre le sue telenoveleaMiamicon il network americano Univision.”Leindustrie creative sono settori industriali veri e propri. A Caracas, Marcel Granier, amministratore delegato di Rctv, un network tradizionale proibito da Chávez, ma che continua a trasmettere i suoi programmi via cavo e via satellite, conferma: “L’economia è rovinata e la censura dei media è totale. Prima di Chávez, il Venezuela era il secondo produttore di telenovele dopo il Messico. Oggi è già un ottimo risultato se siamo i quinti e dobbiamo comprare le serie dai messicani di Televisa e dai colombiani di Rcn”. Il concorrente principale, Venevisión, ieri antiChávez e oggi più moderatopertimoredi perdere le autorizzazioni a trasmettere, ha realizzato una seconda linea di produzione di telenovele a Miami “per avere più libertà, raccogliere le forze e preparare il futuro in caso di difficoltà a Caracas” (afferma uno dei responsabili che preferisce restare anonimo).Sulleragioni di questo crollo, German Pérez Nahim, direttore generale di Televen, un importante network privato venezuelano, mostra prudenza poiché non può permettersi, afferma egli stesso, di avere un rapporto polemicoconilgoverno di Chávez: “Le regole giuridiche cambiano spesso. Il mercato pubblicitarioècrollato. La recente realizzazione di un doppio tasso di cambio è arbitraria. L’inflazione è galoppante, c’è una continua svalutazione, aumenta la disoccupazione. Le tecnologie sono in ritardo. L’insicurezza economicaèesplosa.È il crollo dell’economia auccidereilmercatodi telenovele. Inoltre, non bisogna dimenticare cheoggiilVenezuelaè il paese con il tasso di criminalità più elevato dell’America latina e questoindeboliscetutti i progetti”. La sua famigliaviveaMiamie lui stesso gira con la scorta. Il presidente di Rctv, Inés Bacalao de la Peña, incontrata a Caracas, aggiunge un altro elemento, quello della cultura e della lingua: “Le telenovele venezuelane non riescono a imporsi perché stanno a metà tra due grandi tendenze di questo genere. Le nostre storie non sono né classiche e tradizionali come accade in Messico – dove la ragazza povera trova amore e denaro e recita in costume –, né contemporanee e direttamente legate alla vita delle persone, comeaccadeinBrasile, in cui le serie parlano di favelas, droga, gay. Siamo meno liberi del Brasileneicostumi,ma piùdelMessico.C’èpoi il problema dell’accentolinguistico: quello spagnolo di messicani e colombiani è ben accettato in America latina, quello degli argentini e il nostro è meno ben accolto. Se vogliamo trasmettere le nostre telenovele in America latina dobbiamo doppiarle”. Nella geopolitica delleserietelevisive,la cosa più affascinante è forse quella del doppiaggioinrelazione all’uso dei sottotitoli. È un aspetto fondamentale che mette in luce il ruolo della cultura locale all’interno della globalizzazione. Su questo fronte è possibile dividere i paesi in tre categorie. Anzitutto ci sono i paesi, generalmente di dimensioni geografiche ridotte, in cui le telenovele straniere sono trasmesse in lingua originale e sono sottotitolate per renderle comprensibili alpubblicolocale.Trai paesi che sottotitolano senzadoppiarecisono: Olanda, Danimarca, Finlandia, Belgio fiammingo, Portogallo, Israele, Islanda, Romania, Malesia e i paesiarabi.Poicisono i paesi che, per nazionalismo, per ragioni sindacali, o perché la popolazione ha ancora sacche di analfabetismo, doppianoleseriesenza sottotitoli: Ungheria, Repubblica Ceca, Vietnam, Canada (soprattuttoilQuébec), Francia, Belgio francofono, Italia (dove isindacatiimpediscono di sottotitolare per difendere i posti di lavorodeidoppiatori)e anche la Spagna che doppia con l’accento castigliano le telenovele ispaniche. Infine, c’è un sistema misto e piuttosto raro, usato in Russia e Polonia, chiamato “voice-over” in cui uno o due attori descrivono lascenaincuigliattori recitano in lingua originale, una forma di narrazione ereditata dallacensurasovietica. Negli Stati Uniti, invece, non vige nessuno di questi sistemi. Come diceva Jean Baudrillard: “L’America è la versioneoriginaledella modernità e l’Europa è la versione doppiata o sottotitolata”. Dunque negli Stati Uniti si prediligono le serie e i filminlinguaoriginale, in inglese, e si importanopocoleserie straniere. “È più riposante,” spiega con ironia Chris Clark, direttore del Saint Louis Film Festival intervistato nel Missouri. “Con i sottotitoli è meno entertaining. Si abbandona la cultura mainstream per rientrare in una di nicchia.” La guerra mondiale delleserieedeiformat televisivi è appena cominciata. Come all’interno di una telenovela ben fatta, questo mercato provoca bramosie, resistenze, cambi di alleanze e, spesso, gelosie. La Corea del Nord veglia perché i drama sudcoreani non oltrepassino i confini; i cinesi diffidano del successo dei drama taiwanesi, i giapponesi intensificano gli sforzi per battere i sudcoreani, che aumentano gli sforzi per battere i giapponesi; i siriani e i libanesi vogliono recuperaremercatosul fronte dei teleromanzi del Ramadan, controllato dall’Egitto, tallonati dai paesi del Golfo; il colosso brasilianoTvGloboèin concorrenza con quello messicano Televisa, a costodiallearsicongli imperialisti americani di Telemundo; e Hugo Chávez vorrebbe che Venevisión, il network venezuelano, producesse telenovele a livello locale (è esasperato dal fatto chevenganoprodottea Miami). È una vera e propria guerra culturale che si dipana sotto i nostri occhi, sui nostrischermi. Eppure, contrariamente al cinema, alla musica, ai cartoni animati e ai videogiochi, le serie televisive “viaggiano poco” – e spesso su cortedistanze,suscala continentale, raramente a livello globale. Il mercato televisivo è soprattutto un mercato locale, anche se i format possono diventare mondiali. Solo gli americani hanno un grande successo, aumentano i programmi per un pubblico di massa e talvolta riescono meglio degli altri a conquistare tutti. Per comprendereleragioni di questo successo, è necessarioandarenella capitale del mainstream dell’America latina, Miami. 13. Miami,capitalepop dell’Americalatina Lincoln Road, a Miami Beach, è una piccola arteria che attraversa da ovest a est questa lingua di terra che somiglia a un’isola. All’estremità, sulla costa atlantica, c’è una celebre spiaggia su cui svetta l’Hotel Ritz-Carlton, la quintessenzadiciòche rappresenta nell’immaginario americano South Beach, il Sud di Miami Beach. Qui si trovano: sole tutto l’anno, architettura art déco, Shakira, sigari La Gloria Cubana, lo spagnolo come lingua ufficiosa, la seconda residenza di Madonna, MiamiVice,ladiversità etnica e soprattutto la musica“latina”. “In America latina non ci sono i latinos. I latinos sono qui,” dice intonodiprovocazione José Tillan, vicepresidente di Mtv Latin America, che incontro al civico 111 di Lincoln Road a Miami Beach. Tutte le majordelladiscografia, le agenzie di talenti, i network televisivi musicali e i loro show specializzati, le radio latine, le società di diritti d’autore, le riviste musicali come “Billboard” o quelle dell’intrattenimento come “Variety” hanno un ufficio su Lincoln Road o nelle vie adiacenti. Al punto che questo complesso di uffici è chiamato “Silicon Beach” o “Hollywood Latin America”. José Tillan è cubano, come molti professionisti dell’industria discografica incontrata a Miami, ma i suoi colleghi di Mtv Latin America (chiamata talvolta Mtv Latin o semplicemente Mtv Latino) sono spagnoli, argentini, venezuelani, colombiani e soprattutto messicani. “Questo è il quartier generale per tutta l’America latina. Abbiamo dipendenti di tutte le origini ispaniche. Storicamente, Miami era una città con molti cubani, poi è diventata una città più eterogenea con l’arrivo dimoltiispanicidiogni nazionalità e di ogni etnia.Èancheunacittà molto mista in cui le minoranzevivonomeno ghettizzate rispetto ad altre città degli Stati Uniti.Èunconcentrato dell’America latina, ma il nostro mercato principale ormai è il Messico,” sintetizza Tillan. Gli uffici di Mtv a Miami sono specializzati nella musica latina, così come a Nashville ci si concentra la musica country. “Ci si occupa anche del mercato ‘latino’ per gli Stati Uniti, in forte espansione,” precisa Tillan. Dalla fine degli anni novanta, Mtv si è diversificata:ilnetwork si adatta a ogni paese, adottandonelalinguae producendoprogrammi a livello locale. “Seguiamo il nostro slogan: ‘I want my Mtv’. In America latina abbiamo emittenti diverse:uncanaleperi latinoschevivononegli Stati Uniti, uno per il Messico, uno per l’Argentina e Mtv in portoghese.” Mentre ascolto parlare José Tillan mi viene in mente che nella metropolitanadiMiami i cartelli e gli annunci sono in tre lingue: inglese, spagnolo portoghese. e Il giorno dopo ho appuntamento con Gabriela Martinez, vicepresidente di Warner Music Latin America,nellasededel gruppo su Washington Street, una via perpendicolare a Lincoln Road, a Miami Beach. Come Mtv, anche Warner ha il proprio quartier generale “latino” a Miami. Da questa sede viene diretta una decina di altri uffici negli Stati Uniti e in America latina. Quasi duecentocinquanta dipendentidiWarnersi occupano di “musica latina”, un’ulteriore controprovachequesto genere è un aspetto fondamentale per la major di New York. Gabriela Martinez è messicana e come tutti a Miami si sposta continuamente tra Miami, il Messico e l’America latina. “Fino al 2001 i nostri uffici erano a New York, poi abbiamo trasferito il nostro quartier generale ‘latino’ qui a Miami, capitale dell’America latina negli Stati Uniti,” precisa Martinez. “La Florida non è il mercato più importante, ma Miami è il simbolo di questo mercato, è anche la città più eterogenea e quella che, geograficamente, permetteconmaggiore agio di spostarsi ovunque,” aggiunge. Da Miami, tutta l’America latina è facilmente raggiungibileinaereo. Jorge Fonseca è il direttore artistico di Sony Norte, l’etichetta “latin” di Sony a Miami: “Sono sempre sulcampo.VadoaCittà del Messico per ascoltare i gruppi in studio, a Portorico per ascoltare i concerti, a Miami per partecipare alle serate open mic (microfoni a disposizione di chi vuole salire sul palco) dell’Università di Miami. Scopro nel contempo autori e cantanti, compositori e musicisti. Qui a Miami è possibile avere la migliore visione d’insieme di questo settoredimercato”. “Viva L’Avana, viva Cuba, viva gli Stati Uniti, viva Miami, viva New York, viva Washington.” Così ha chiuso il suo concerto, tenutosi sulla piazza della Repubblica dell’Avana nel settembre 2009 il cantante Juanes, venuto da Miami, e davanti a un milione di persone – un pubblico enorme. Miami è anche la capitale straniera di Cuba. La musica cubana venduta in tuttoilmondoèspesso prodotta e diffusa da cubani di Miami, come mi dice Rafael Artero, vicepresidente di Bmg Music Publishing a Miami (Bmg è la divisione musicale “publishing” del colosso tedesco Bertelsmann, ormai autonomo da Sony). “Gli europei, ghiotti di musica cubana, non lo sanno, ma la musica cubana che ascoltano spessoèprodottanegli Stati Uniti. È una musica fatta da cubani di Miami. La vera musica cubana fatica a essereesportata,nonè abbastanzaconformeai nostri stili per poter avere successo commerciale in tutto il mondo. E non è mainstream. Ma nello stesso tempo è più pura.” Altri manager incontrati a Miami spiegano invece di lavorare per Cuba, “sotto il mantello”, secondo l’espressione di Ivan Alvarez, vicepresidente di Universal Music PublishingaMiami.Poi prosegue: “Abbiamo relazioni con Cuba, fa parte della nostra professione. Nel nostro catalogo c’è molta musica cubana, anche se è vero che si tratta di un genere musicale ancora in evoluzione, datato e un po’ al di fuori delle tendenze attuali. Ma anche questo côté vintage fa partedelsuosuccesso. Inoltre, e soprattutto, ci stiamo preparando per quando Cuba diventerà libera”. Nel frattempo,IvanAlvarez guarda più verso Portorico che verso Cuba, perché da lì proviene il nuovo genere di cui tutti parlano a Miami, il reggaeton. “Il reggaeton mette insieme le masse di latinos” “Il reggaeton è l’hiphop dei latinos,” sintetizza con una sola frase Rafael Artero. “È una musica urbana, un altro nome del rap latino,” prosegue. Su Latino 96.3 a Los Angeles, Mega 97.9 a New York, Klol a Houston e su diverse stazioni radio di Univision e Clear Channel a Miami, il reggaeton è diventato la musica dominante nel 2005-2006. In origine, questo genere musicale – un rap in spagnolo con ritmi sincopati derivati dalla musica caraibica – nasce a Portorico, territorio non incorporato sotto la sovranità degli Stati Uniti. A importare e diffondere negli Usa questo genere è stata la comunità portoricana di New York e Orlando, in Florida, seguita poi dai giamaicani.Ilgeneresi è poi diffuso da una regione all’altra grazie aimilionidilatinosche vivono negli Stati Uniti e ha modificato la geografia tradizionale dellamusicalatinafino ad allora frammentata in “nicchie”: musiche ispirateaiCaraibisulla costa est (tropicalismo, salsa, merengue, bachata); musiche influenzate o derivate dai generi messicani in California e negli stati del Sud (in particolare laregionalemessicana, una sorta di country messicano, soprattutto banda, ranchera, mariachi, norteña); e una musica molto cubana in Florida. Il reggaeton, inizialmente, era cantato in spagnolo, poi è diventato un miscuglio linguistico di espressioni “spanglish”, metà spagnolo,metàinglese, e in questo modo è diventato più mainstream. Il successo del reggaetonsispiegacon il fatto che questo genere è stato capace ditesserelegamitrala seconda e la terza generazione di ispanici che vivono negli Stati Uniti e le loro origini, quelledeilorogenitori: lo stile urbano dell’hiphop rappresenta il paese in cui vivono, mentre il ritmo caraibico rappresenta le loro radici. Il giovane latino non ha più bisogno di scegliere tra la sua famiglia e la cultura popolare americana, fra tradizione e cool. Daddy Yankee, un portoricano di ventotto annidiventatounastar di questo genere musicale, ha sintetizzato efficacemente il concetto dicendo: “Questa musica permette alla seconda generazione di sentirsi latina. Il reggaeton unifica le masse di latinos”. A partire dal momento in cui il reggaetondecollanegli StatiUniti,lemajordel disco,chefinoadallora avevano ignorato questo genere poiché lo consideravano “hiphop con venticinque anni di ritardo” (secondolaformuladel patron di una major citato dal “New Yorker”), se ne impadroniscono. È necessario sapere che, all’inizio del nuovo millennio, la comunità ispanica diventa la prima minoranza americana, davanti ai neri. L’incremento degli ispanici è tre voltesuperioreaquello degli altri americani (oggi sono 45 milioni, ovvero il 15 per cento della popolazione degli StatiUniti,metàdiloro ha meno di ventinove anni), così le case discografiche si concentrano su questo mercato latino potenzialmenteinfinito. Ai patron delle major sembra di aver trovato l’oro “brown”: eccoli dunque attentissimi ai dati di Nielsen del mercoledìmattina(agli abbonatisonofornitele vendite dettagliate della settimana precedente divise per genere e città negli Stati Uniti e in Canada), appassionarsi alla hurban music, un insieme di hispanic e urban e attenti all’hiphop latino e al reggaeton. Il primo disco d’oro arriva con Daddy Yankee che vende un milione di copie con Barrio Fino del 2004 (uscito per Universal), grazie alla sua hit Gasolina. Il videoclip mostra una ragazza a cui piace andare a caccia di ragazzi in auto e dunque ha bisogno di “gasolina”, che è stata interpretata,divoltain volta, come alcol di contrabbando, sperma e benzina. “Titts & ass (tette e culi) sono la chiave del successo,” mi dice in tono serio il veterano della musica latina Henry Stone, ottantanove anni, intervistato nella sua residenza di Coconut Grove nel Sud di Miami. Il reggaeton è un genere con forti riferimenti sessuali, soprattutto quando si balla corpo a corpo nelle discoteche, è un gangsta rap latino dichiarato – secondo i suoi sostenitori, la lingua spagnola permette negli Stati Uniti più audacia dell’inglese. Il contesto specifico di Miami spiega in larga parte il fatto che Miami Beach sia diventata la capitale del reggaeton e più in generale della musica latina. A Downtown Miami, sull’altro lato della baia, a cinque chilometri da Miami Beach, ci sono le banche più ricche di tutta l’America latina. Qui star del Messico, fuoriusciti cubani, venezuelani antiChávez, mafiosi brasiliani e uruguaiani depositano il denaro, con una discreta dose disicurezza. A Miami ci sono inoltre studi di registrazione di alta qualità, ereditati dall’epoca del Miami Sound, il soul e il rock degliannisettanta,che attirano musicisti ben oltre il genere della musica “latina”. Numerosi gruppi americani di R&B e rap, spesso inglesi che vogliono registrare in un ambiente calmo lontano da Londra, si danno appuntamento neglistudidiMiami.Ci sono anche settori delle major specializzati nella distribuzione di cd e dvd, oggi in grande difficoltà, ma sempre strutturatiaMiami. “Inoltre, a Miami c’è un’attività legale che segue le regole americane, mentre è poco affidabile in Americalatina,”spiega Rafael Artero. “Per esempio, le trattative sui diritti, la gestione del copyright, la scrittura di contratti internazionali estremamente complessi. Questa è la forza degli Stati Uniti ed è ciò che spiega l’importanza di Miami per tutta l’America latina.” Anche se è meno noto, a Miami esistono forme di sostegno pubblico per le industrie dell’intrattenimento, soprattutto attraverso crediti sulle imposte e un sistema di zoning che facilita l’insediamentoaMiami Beach di aziende americane e straniere. Alla Universal di Miami, Ivan Alvarez conferma questa ipotesi: “In Venezuela non c’è stabilità politica o economica e c’è una forte criminalità; in Colombia non si può essere sicuri delle banche; in Messico il copyright non è protetto e i cd inviati con Amazon non arrivano mai a destinazione; in Argentina i tassi di cambio sono artificiosi; in Brasile c’è tensione sociale e molta corruzione; ovunque mancano reti televisive, agenzie di talenti, stampa specializzata nel settore musicale e siti internet capaci di generare un passaparola internazionale.C’èsolo Miami che può rispondere a tutti i bisognidelmondodella musica. Miami è l’America latina senza criminalità e senza corruzione”. (Forse, mi viene però in mente l’assassinio dello stilista Gianni Versace, che viveva su Ocean Drive a Miami, per mano di un gigolò serial killer che lo uccisesullaspiaggiadi SouthBeach.Nonsono certo che Miami abbia tuttelemiglioriqualità mentre i paesi dell’America latina siano pieni di difetti. Mi pare un’immagine frutto di pregiudizi e figlia del passato dell’America latina e molto meno del presente – Venezuela escluso –, per esempio, il Messico e il Brasile sono paesi emergenti potentielaColombiaè perfettamente in grado difarfunzionarelesue banche). Jorge Fonseca, rappresentantediSony a Miami, aggiunge all’analisi un elemento a suo avviso determinante: la diversità etnica. “Miami è l’America latina in miniatura. Solo a Miami c’è un simile mélange etnico. In nessun’altra capitale, Buenos Aires, Città del Messico, Rio, San Paolo, c’è questa diversità. Anche i neri qui sono molto ben integrati.EpoiMiamiè deliberatamente una capitaledelmondogay, è aperta, fattore fondamentale affinché gli artisti si trovino bene. Miami è diventata la capitale dell’America latina per la musica, poiché è la città della diversità latinaglobalizzata.” In questo contesto ci sono inoltre aziende legate alla pubblicità e al marketing – tutte le grandi agenzie hanno unufficioaMiami–,un numeroimpressionante di club, discoteche e soprattutto piccole locationincuiqualsiasi gruppo può fare uno show-casenelretrosala di un ristorante su Washington Avenue a SouthBeach.Èdunque evidentel’interesseper un artista a venire a Miami. Poi ci sono le radio. “Sono state le radio ad aver fatto di Miami un luogo imprescindibile per la musica latina, comprese le numerose radio illegali a bassa frequenza,” spiega Bo Crane, presidente di Pandisc, etichetta indipendente di musica latina. Miami ha la massa critica di un intero continente concentratainunasola città. L.A.,LatinAmerica Vista dall’America latina, la posizione dominante di Miami suscita incredulità, amarezza e gelosie. Molti dirigenti dell’industria musicale intervistati a Buenos Aires, Città del Messico, Caracas, Porto Alegre e Rio criticano la pretesa dei gringos di Miami di considerarsi la capitale estera dell’America latina. Tutti riconoscono,tuttavia,il potere di Lincoln Road e, attraverso questa famosastradadiMiami Beach, degli “EE.UU.”, ovvero “los Estados Unidos”, come sono chiamati gli Stati Uniti inAmericalatina. InArgentina,ipatron dell’industria musicale pongono l’accento, giustamente, sulla buona tenuta nelle vendite dei generi locali, come salsa e tango (in Brasile parlano di samba e bossanova, una musica più nera). Tutti sono costretti a riconoscere, nonostante tutto, che quando si tratta di pop trans nazionale, comuneaidiversipaesi dell’America latina, vengono alla mente solo i nomi di artisti latinoamericani “miamizzati”. Per molti giovani sudamericani, la musica pop latina ha il nome di Juanes, Shakira e Gloria Estefan e talvolta di Jennifer Lopez e Ricky Martin. Queste sono le stardell’Americalatina globalizzataetuttioggi sono americani o americanizzati. Juanes è colombiano econtinuaacantarein spagnolo(talvoltaporta anche negli Stati Uniti, per militanza, una celebre maglietta con scritto “se habla español”) ed è sotto contrattoconUniversal a Miami dove ha una casa. È fiero delle sue origini colombiane e dissimula la sua americanizzazione. Shakira, star libanocolombiana, è l’esatto contrario: cantava in spagnolo e ha deliberatamentescelto, imparando l’inglese con determinazione, di cantare in americano; era già nota in Colombia, ma è stato l’inglese a farla diventare famosa a livello internazionale ed è prodotta a Miami (edèdiventatabionda). Oggi fa uscire i suoi album in versione “Us” e in versione “latina”. Juanes e Shakira sono autori, compositori e interpreti e questo ha permesso loro una lungacarriera. Gloria Estefan è la piùgrandestarcubana dell’intrattenimento latino contemporaneo, ha conseguito sette Grammy Awards e venduto novanta milioni di album in tutto il mondo, di cui un quarto negli Stati Uniti.Lasuafamigliaè fuggita a Miami durante la Rivoluzione cubana poiché il padre era una delle guardie del corpo di Batista. A venticinque anni ha cominciato la carriera musicaleall’internodel gruppo Miami Sound Machine. Al contrario di Shakira, e guidata dal marito, il produttore cubanoamericano di origini libanesi Emilio Estefan (che dirige la carriera dell’una e dell’altra), ha cominciato a cantare in inglese prima di ritrovare le sue radici e di incidere in spagnolo. Vive a MiamiBeach. La carriera di Jennifer Lopez e di Ricky Martin – entrambi sotto contratto con Sony Music Entertainment – è più americana ancora.Laprimaèuna “nuyorican” (neologismo che indica i newyorkesi di origine portoricana):ènatanel Bronx all’interno della comunità portoricana, anche se le si rimprovera di non riuscire a parlare correttamente in spagnolo (e ha dunque cercato di cimentarsi, senza troppo convincere, con Una noche más, versione latina del celebre Waiting for Tonight). Il secondo è nato a Portorico. Entrambi hanno inserito il reaggaeton nelle loro canzoni per avere uno stilepiù“latino”.Mase JenniferLopezcantain inglese, Ricky Martin ha seguito lo stesso percorsodiShakira:ha cominciato la carriera in una boy band latina, poi ha intrapreso la carriera solista cantando in spagnolo e poi è passato all’inglese (la celebre Livin’laVidaLoca,con titolo inglese e parole in inglese e spagnolo segnano il passaggio). La strategia di Ricky Martin è stata: uscire dalla “nicchia” della musica latina, entrare nelle diverse hit parade, conquistare pubblico negli Stati Uniti e diventare mainstream. Sia per Ricky Martin sia per Jennifer Lopez l’operazione ha funzionato e, accentuando la loro americanizzazione, i due artisti sono diventati star globali. Di contro, in America latina sono stati criticati per aver abbandonato le loro radici, ma anche in quella parte del continente americano continuano a vendere molti dischi. Le hit di tutti questi cantanti, eccetto quelle di Juanes,sonoall’interno delle chart pop e non più latin, poiché cantano in inglese. Forse sono diventati mainstream, ma hanno abbandonato la musica ispanica. A trenta minuti di strada da Rio de Janeiro, all’interno di un parco tropicale di alberi centenari vicino al Lago Tijuaca, tra colline e oceano, c’è la sede di Universal Music Brasile. José Antonio Eboli, amministratore delegatodiUniversal,è una persona affabile e sorridente,miricevein jeans e maglietta al secondo piano di un immenso edificio in stile neolecorbusier in questo contesto paradisiaco. Sul suo coffeetable c’è una collezione di “Billboard”chesembra conoscere a memoria. Ai muri sono appesi poster di Mariah Carey, Eminem e Caetano Veloso – il grande artista di Universal Brasile. “Qui dirigiamoleattivitàper tutto il Brasile, dipendiamo dall’amministratore delegato di Universal Latin America che ha sede a Miami,” spiega subito José Eboli. La strategia di marketing per la creazione di una star latina alla Universal è evidente. Eboli la descrive chiaramente: “Per iniziare è necessario breakyourownmarket first, avere successo a livello locale. Avere questa base locale è la chiave fondamentale: inColombiaperJuanes e Shakira, Portorico per Daddy Yankee e Ricky Martin. È necessario aver avuto successo nella propria comunità e avere una popolarità da trasmettere, una storia di successo da raccontare. Poi, you have to get Us latino market. José Eboli insiste su questa espressione inglese. Ma come si fa a conquistare il mercato dei latinos negli Stati Uniti?“Sipuòfaresolo a Los Angeles o Miami,” prosegue Eboli. “È lì che si diventa ‘latinos’. La colombiana Shakira è diventata una cantante conosciuta in tutto il mondo, anche in Giappone, a Miami; la stessa cosa è accaduta a Juanes. Non sarebbero mai arrivati in Giappone senza passare per Miami. A partire da Miami, con un po’ di fortuna, si conquista prima il mercato latino degli Stati Uniti, un mercato complesso e suddiviso in molti settori di nicchia. I latinos, da quelle parti, si considerano ispanici, maancheamericani;la loro ascesa sociale passa in larga parte attraversolanegazione della loro cultura d’origine, soprattutto a partire dalla seconda generazione. È dunque un pubblico complicato che spesso preferisce Madonna a Ivete Sangalo.Poisiaffronta ilmercatomessicano,il più importante in terminiquantitativi,eil più difficile da conquistare;seilpiano funziona si riesce a conquistare anche il resto dell’America latina. Le cose avvengono più o meno sempre in questa sequenza. Solo a partire da Miami un artista è in grado di superare i confini, diventare hot in Americalatinaepoinel restodelmondo.Miami èilpassaggioobbligato diquestastrategia.” Sul mercato brasiliano José Eboli esita prima di rispondere: “Spesso il Brasile è un mercato a parte, come se non fossimo in America latina. A causa del portoghese,ilBrasileè un’isola e i successi spagnoli penetrano più difficilmente da queste parti. Juanes, per esempio, che è un artista Universal ed è una grande star per tutti i latinos, non è mai stato famoso in Brasile. Cerchiamo di promuoverlo facendolo suonare con musicisti brasiliani. Abbiamo anche pensato di farlo cantare in portoghese, ma i brasiliani non amano le star che cantano in portoghese in modo artificiale, preferiscono chi canta in inglese. Qui il modo migliore per diventare big è recitare in una telenovela di Tv Globo”.Personalmente, apprezzo gli album di Juanes e, fra tutti questi artisti, mi sembrailpiùautentico, è rimasto spiccatamente colombiano.Chiedopoi come questi artisti riescano ad arrivare in Europa. José Eboli: “Il passaggio obbligato è Madrid,eIbizal’estate. Lisbona ha la stessa funzioneperilmercato dellamusicabrasiliana, ma è più marginale. In tutti i casi, la circolazione della musica è generalmente a senso unico, va dall’America latina verso l’Europa e non piùilcontrario.Alungo le capitali dell’America latina sono state Madrid e Lisbona, ma Miami oggi le ha soppiantate tutte. L’influenza del Portogallo in Brasile e della Spagna nei paesi ispanici ormai è del tutto marginale: ciò si spiega con le dimensioni geografiche di questi paesi, con le differenze economiche e soprattutto con la quantità della popolazione”. Il Brasile, per esempio, oggi è venti volte più popolato del Portogallo; è membro del G20 e ha un Pil quasi cinque volte superiore a quello del Portogallo.“IlBrasileè diventatoungigante,il Portogallo un nano,” concludeJoséEboli. Chiedo allora come possa diventare “global” un artista brasiliano. Né José Eboli né il produttore brasiliano Leninha Brandao che ho incontrato hanno cercatodinascondermi ilfattocheesseresotto contratto con una grande major a livello locale non porta quasi mai a un successo mondiale. L’ufficio di Universal a Rio, per esempio,nonpotràmai permettereaunartista brasiliano di diventare “global”. È solo un mercato nazionale con scarsa influenza sugli altri paesi e sul mercatointernazionale. Peraltro,neiraricasiin cui alcuni artisti locali diventano sufficientemente mainstream per essere esportati, generalmente passano sotto l’ala della direzione della major a MiamioLosAngeles. In tutta l’America latina ho sentito una giustificata amarezza di fronte all’hold up musicale fatto dagli Stati Uniti producendo musicalatina.Tuttavia, i più lucidi dei miei interlocutori hanno capito che il problema è più complesso: non esistono generi musicali nazionali ricchi e potenti, e generi tipicamente americani che attraversano i confini senza avere bisogno di Miami–dallasalsaalla bossanova, passando per il tango o la cumbia, tra decine di altri –, non esiste più una cultura pop comune ai paesi dell’America latina, tranne la cultura mainstream nordamericana. “Gli Stati Uniti si impongono culturalmente in America latina a causa della divisione dei paesi latinoamericani,” spiega José Zimerman, uno dei direttori di Tv Brasil, la televisione pubblica brasiliana. E ciò che vale per la musica vale anche per il cinema come conferma, soggettivamente, Steve Solot, un americano intervistato a Rio che lavoraperglistudiosdi Hollywood: “L’America latina è un insieme di paesi molto nazionalisti, ciascuno dei quali rifiuta il proprio vicino. Detenendo il potere economico di tutta l’America latina, i brasiliani guardano verso l’Asia e verso l’Africa in una logica tra paesi del Sud, piuttosto che verso l’America latina; gli argentini si rivolgono all’Europaeguardanoi brasiliani dall’alto, il Messico, la Colombia e il Cile guardano più versogliStatiUnitiche verso gli altri paesi latinoamericani; il Venezuela si isola e critica tutti. È questa guerra fratricida a spiegare il fatto che non esiste una cultura comune, né esiste una cinematografia ‘latina’: i film brasiliani non funzionano in Messico, i film argentini falliscono in Brasile. L’unico posto in cui sonoapprezzati,edove sono proiettate quasi tutte le cinematografie latino-americane, sono paradossalmente gli Stati Uniti. Così in America latina, noi americani abbiamo un terreno davvero molto favorevole per esportare film di successo. I film statunitensi sono l’unico cinema comune a tutti i latinoamericani”. Steve Solot dimentica pellicole come I diari della motocicletta (su Che Guevara) del brasiliano Walter Salles, con attori messicani e una sceneggiatura scritta con un argentino, o il film messicano Y tu mamá también, ma è vero che sono delle eccezioni (e quest’ultimo film è stato lanciato negli Stati Uniti, in tre sale di cinema d’autore di New York e in cinquantasalelatinosa LosAngeles,attraverso un abile marketing che mette insieme l’élite artistica e il pubblico latino, prima di arrivare in Sud America). Gli americani sanno riconquistare e sfruttare la sensibilità “latina” quando è possibile:“Èlaforzadi Juanes, Shakira, Ricky Martin e Jennifer Lopez, ovvero artisti americani con uno spanish flavor”, spiega il critico Diego Lerer, del grande quotidiano “Clarín” a Buenos Aires. “Questo pop latinizzato e americanizzato ha ridotto lo spazio ‘latino,’dicedesolatoil produttore Daniel Grinbank, quando lo incontro nella sede della società nel quartiere Palermo di BuenosAires.Grinbank è oggi uno dei principalipromoterper l’America latina, ha organizzato il concerto gratuito dei Rolling StonesaCopacabanaa Rioeleundicidatedel tour di Madonna in America latina. Prosegue: “Gli artisti sono colombiani, cubaniomessicani,ma vivononegliStatiUniti. Il segnale ‘latino’ è irradiato da Miami e il pubblico lo riceve in Messico o in Brasile. Questa è la musica latina di oggi ed è americana”. La nostalgia per un’epoca in cui i paesi latinoamericani dialogavano tra loro è ancora più forte per André Modani, settantotto anni, veterano della bossanova che mi riceve con spirito vivace nella sua casa tutta di legno e vetro, gioiello di architettura, sulle colline di Rio de Janeiro. “Ogni paese dell’America latina conduce la propria guerra di indipendenza culturale e musicale. Ciascuno si batte contro tutti gli altri, come piccoli re feudali,” sospira Modani. “Così, la musica latina non funzionapiùtraipaesi dell’America latina e il Mercosur (Modani si riferisce al fallimento del Mercosur, il mercato interno fondato nel 1991 tra Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay).” Ilcelebreproduttoredi bossanova poi prosegue: “Gli unici a comunicareatuttisono gli americani, in particolare cantanti come Ricky Martin e Jennifer Lopez, perché accettano le loro origini”. Mi fa osservare che ci sono toreri e ballerine di flamenco, in stile Carmen, nei videoclip in inglese di Jennifer Lopez (per esempio nella sua hit Ain’t Funny).“Forsesitratta diclichélatinos,maciò produce un mercato di cinquanta milioni di persone negli Stati Uniti,” prosegue André Modani. “Per il Brasile il problema è ancora maggiore, poiché non esiste una vera e propria comunità brasiliana negli Stati Uniti. Così gli americani non ci conoscono perché non ci vedono. Inoltre, la nostra musica non si vendenegliUsa,senon in settori di nicchia. Perché un cubano di Miami,unmessicanodi Albuquerque, un portoricano di New York dovrebbero ascoltareunartistache non parla neanche spagnolo? Miami forse è la capitale esterna di CubaedelMessico,ma non del Brasile” (negli Stati Uniti vivono 346.000 brasiliani, ovverolo0,1percento della popolazione americana, un dato basso rispetto ai 29 milioni di messicaniamericani, anche se esiste una comunità brasiliana attivaaMiami). Qualche mese prima, dopo un concerto a Juan-les-Pins(Suddella Francia) in cui si è esibito a sessantasette annipienodienergiae di spirito, ho intervistato Gilberto Gil, celebre cantante della bossanova, poi del tropicalismo e in quel momento ministro dellaCulturainBrasile duranteilgovernoLula (ha ricoperto questa carica dal 2003 al 2008). “La politica del presidente Lula tenta distringerelegamicon la maggior parte dei paesi dell’America latina, un po’ come ha fatto il Giappone con il suo‘ritornoinAsia”,mi dice con calma seduto nel suo camerino e in francese Gilberto Gil. Poi prosegue: “La nostra priorità è costruire industrie di contenuti forti. Credo nella cultura come arte, ma anche come settore economico. Per i giovani delle nostre favelas, credo allo sviluppo economico attraverso la cultura. Ci ho creduto tutta la vita”.Nelcamerino,Gil prende tempo. Mi racconta come nel 1967, quando ha cominciato a usare chitarre elettriche in un festival di San Paolo, è stato insultato eaccusatodiessereun agente dell’imperialismo americano che cercava di imporre influenze occidentali nella musicabrasilianapura. “Ci piaceva solo il rock anglosassone e la cultura pop,” esclama Gilberto Gil. Finisce in prigioneepoiriparain esilioaLondra. Gilberto Gil fa un paragone tra l’epica battaglia a favore del rock e quella di oggi legata a internet. Nei panni del musicista difende i diritti d’autore, ma come ministro della Cultura ha cercato di promuovere la libera diffusione della musica – mi dice di essere lui stesso un “hacker” –, soprattutto attraverso le licenze “creative commons”. Memore dell’esperienza personale di giovane nero, cresciuto nel Brasilepovero,sentedi doverfarequalcosaper i giovani delle favelas che vuole aiutare a comunicare grazie al digitale. La sera del nostro incontro, Gilberto Gil ha cantato Pela internet le cui parole recitano: “Voglio essere sul web / Promuovere un dibattito / Radunare attraversointernet/Un gruppo di fan del Connecticut / Voglio essere sul web per raggruppare / Le case del Nepal e i bar del Gabon”. Nel corso delle mie inchieste, mi è stata piùvoltecitatalafrase di George W. Bush, allora presidente degli Stati Uniti, che arriva in America latina e si scusa di fronte al pubblico di un meeting dicendo:“Sorry,Idon’t speak latin” (scusate non parlo latino). Che siaveraomeno,lagag è divertente e soprattutto solleva una questione importante: neanche i latinos parlano più “latin”. Questoèilproblema. Contrariamente a quanto credevo, non esiste affatto una culturacomuneatuttii paesi ispanici e lusofoni. Il sogno di Simón Bolívar di un’Americalatinaunita è un miraggio sul fronte culturale, soprattutto per quanto riguarda l’entertainment. Di sicuro esiste un mercato da 350 a 450 milioni di persone con unagrandeomogeneità linguistica – lo spagnolo – ma solo le major statunitensi del cinema e della musica riescono ad accedervi. Si tratta, in effetti, di una “diversità standardizzata” profondamente sconcertante. Solo una cultura globalizzata, ampiamenteformattata negli Stati Uniti, raduna oggi i popoli dell’America latina, in particolare attraverso grandi star della musica,unpop“latino” ibrido, film di successo al cinema, format di talk-show televisivi e bestseller letterari – a cominciare da Paulo Coelho, autore del successo mondiale L’alchimista, inizialmente pubblicato da una piccola casa editrice brasiliana e oggi distribuito negli Stati Uniti da HarperCollins, l’imprint che appartiene a News Corp di Rupert Murdoch, e in tutto il mondo attraverso un’agenzia con sede in Spagna. È lontano il tempo in cui scrittori come Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, Gabriel García Márquez,MarioVargas Llosaeranoconsiderati ambasciatori culturali dei loro paesi e dell’America latina. Oggi il soft power si misura più sull’intrattenimento che sulla cultura d’élite. Solo le telenovele sembrano sfuggire a questa uniformazione, ma anche queste sono l’esito di una commercializzazione a oltranza e di una concorrenza selvaggia traipaesidell’America latina e le televisioni nordamericane. Oggi, la separazione traAmericadelNorde America del Sud è più sottile e si confonde con la globalizzazione. In una certa misura, a eccezione delle telenovele, è spesso la cultura pop americana, o americanizzata, a comporre la cultura comune dell’America latina per quanto riguarda l’intrattenimento mainstream. Dopo aver realizzato lamiainchiesta,lacrisi economica ha modificato lo scenario di Miami. Mtv Latin America ha mantenuto lapostazioneprincipale a Miami, ma ha “regionalizzato” ulteriormente gli uffici di Città del Messico e Buenos Aires per esserepiùvicinaalsuo gruppo, beneficiare di tassi di scambio tra dollari e pesos e fare concorrenza, a Buenos Aires, a Much Music Tv.Incampotelevisivo, invece, Disney ha puntato soprattutto sugli uffici di Buenos Aires e chiuso quelli di Miami. Cnn Español mantiene la sede ad Atlanta. Hbo ha invece consolidato Hbo Latin AmericaaMiami.Peril cinema e il settore audiovisivo, Miami accusa il colpo della concorrenza di Los Angeles, Buenos Aires, RioeCittàdelMessico; invece, sul fronte musicale, Miami continua a essere dominante. “Ogni volta che c’è una crisi economica negli Stati Uniti, l’industria discografica abbandona Miami; ma ogni volta che c’è una importante crisi politica in America latina,tuttiriportanole truppe a Miami. Aspettiamolaprossima crisi per fare armi e bagagli. Forse si verificherà con l’apertura di Cuba e allora Miami diventerà indispensabile,” sintetizza Rafael Artero. Resta la questione demografica – come sempreunadellechiavi del successo o del fallimento delle industrie creative in tutto il mondo. Anzitutto negli Stati Uniti, cuore del mercato:“Laprincipale minaccia che incombe sul mercato latino in America del Nord, sul lungo termine, è l’assimilazione. Oggi mum e dad guardano telenovele in una stanza e ascoltano musica latina, mentre incameracisonoifigli che guardano alla tv una serie televisiva americana e ascoltano hip-hop”, spiega il dirigente di una televisione a Los Angeles.Dalcantosuo, Mariano Kon, della casa di produzione Cuatro Cabezas a Buenos Aires, è più critico ancora: “Per un certo periodo abbiamo creduto che il tipo ‘latino’ esistesse, ma che fosse un elefante bianco. È l’illusione secondocuigliispanici sembranotuttiidentici. È una visione da americani. Gli studios hollywoodiani sognano un‘mercatolatino’,ma è un’entità molto artificiale”. Luiz Claudio Latgé, uno dei direttoridelgruppoTV Globo, è ancora più esplicito: “Anche gli americanisannodinon poter governare l’America latina da Miami”. Altri sono più ottimistiepensanoche l’America latina possa svegliarsi: “Il Brasile ormai è una grande potenzaeconomica,ma in Europa è ancora considerato come il paese delle favelas, della miseria e della violenza.Gliamericani, invece, non sanno nemmeno che esistiamo e che parliamo portoghese. Ci confondono con il Venezuela! Quando si rendono conto dell’errore, diventiamo una potenza su cui contare, anche nell’intrattenimento”, spiega José Zimerman, uno dei direttori di Tv Brasil, televisione pubblicabrasiliana. José Tillan, vicepresidente di Mtv Latin America, sottolinea anche che le previsioni sull’americanizzazione degli ispano-americani sono sbagliate: “Non siamo come gli ungheresi o gli italiani, la cui acculturazione è diventata totale in proporzioneconlaloro americanizzazione. I latinos resteranno latinosnegliStatiUniti perché sono numerosi, grazie ai mezzi di comunicazione moderni, per via della vicinanza geografica con i loro paesi e soprattutto perché modificheremo in profondità gli Stati Uniti”. Poi Tillan conclude: “Stiamo realizzando la ‘latinoamericanizzazione della cultura de los EstadosUnidos”. 14. ComeAlJazeeraè diventataun’emittente mainstreamdelmondo arabo Un sabato verso le ore 16, nel bel mezzo di un pomeriggio caldo e umido del luglio 1997, le famiglie saudite stanno guardando alla televisione un programma educativo destinato ai ragazzi e trasmesso da Canal France International – una banca di programmi televisivi francesi, filiale del gruppo France Televisions. L’emissione è assicurata dal satellite ArabSat, piattaforma inaugurata nel 1985 e realizzata da ventuno paesi arabi, il segnale principale è trasmesso da Riyadh in Arabia saudita. Improvvisamente, si verifica un errore nella trasmissione del segnale e al posto di Canal France International è mandato in onda Canal +. Si sarebbe trattato di un banale errore tecnico senza particolari conseguenzese,inquel momento, Canal + non stesse trasmettendo ClubprivéauPortugal, unfilmpornografico. Seduto su un largo divano, nel suo ufficio di place des Ailes a Boulogne-Billancourt (periferia ovest di Parigi e luogo in cui hanno sede molte emittenti televisive francesi), Philippe Baudillon è tranquillo. All’epoca dell’incidente del cambio di canale dirigeva Canal France International (oggi è amministratore delegato di Clear Channel France, filiale del colosso americano delle affissioni urbane, neicuiufficimiriceve): “Posso solo dire che quella è stata la cosa peggioredituttalamia carriera. Attraverso Canal France International, l’audience dei programmifrancesiera in forte aumento nei paesi del Golfo. Questo errore ha mandato a monte tutta la nostra strategia di sviluppo. La trasmissione del film pornografico di Canal + è durata circa trenta minuti prima che i tecnici parigini rimediassero alla cantonata” (il film era destinatoauncanalea pagamento del Pacifico). Secondo i dati dell’epoca, il film porno è stato trasmesso in una ventina di paesi arabi e, potenzialmente, avrebbe potuto essere visto da un pubblico di 33 milioni di persone. “È stato terribile, ha mandato all’aria la presenza francese nei paesidelGolfoesiamo stati radiati dall’offerta dei programmi,” dice dispiaciuto Philippe Baudillon. Su questa vicenda, Ahmed H.M. Al Kilani, intervistato a Riyadh, capitale dell’Arabia saudita, è ancora più critico: “All’epoca ero rappresentante di Canal France International in Arabia saudita. Mi ricordo benissimo. È stato terribile. Abbiamo cercato di bloccare subito il programma, ma alla sede centrale dell’emittente non rispondeva nessuno. Peraltro,c’eragiàstato qualche problema quando avevano trasmesso un programma ‘un po’ leggeroeosé’dalLido. In quell’emittente franceseeranodavvero incompetenti, non capivano nulla della culturaaraba”. Secondo la versione ufficiale sostenuta a Parigi, ma con scarse prove che possano avvalorarla, questo incidente, effettivamente avvenuto, è stato un pretesto per cacciare i francesidaArabSat.“È una spiegazione plausibile,” sostiene Saud al Arifi, amministratore delegato dell’importante gruppo saudita di media satellitari Salam Media Cast, incaricato di gestire l’integrazione dei contenuti su ArabSat e da me intervistato a Riyadh. Poi prosegue: “In Arabia saudita, i film pornografici esistono a pagamento, ed esistevano anche all’epoca.Sonocriptati, anchesemoltiriescono ad accedervi in modo illegale. La collera dei sauditi in quella circostanza è stata dunque proporzionale alla loro voglia di liberarsi dei francesi”. Per scrupolo, Al Arifi telefona in mia presenza a un rappresentante di ArabSat in Giordania per chiedergli se l’incidente sia stato un pretesto per sbarazzarsi dei francesi. Dall’altro capo sento rispondere in arabo. Dopo aver riattaccato, Al Arifi mi traduce la risposta in inglese. “Ad ArabSat dicono che non è stato unpretesto,quelfilmli ha davvero fatti infuriare.” Nonsappiamoancora se quel film porno sia stato una messa in scena o un pretesto, ma in ogni caso ha avuto come effetto di radiare Canal France International da ArabSat poiché i sauditi si sono sentiti oltraggiati da questo errore “tecnico” e a nulla sono valse le pressioni della diplomazia francese. Il canale liberatosi nell’offerta di ArabSat è assegnato a una giovane emittente che da tempo cercava di aumentare il proprio pubblico e ambiva a diventare mainstream: AlJazeera. Alla sede di Al Jazeera nelQatar Alle ore 21.30 in punto, su tutti gli schermi della “control room”, compare l’immagine di Mohamed Krichen. Attorno a me, otto uomini sono intenti a lavorare davanti a trentasei schermi televisivi e venti computer di ultima generazione.Quattrodi loro indossano il dishdasha, il lungo e magnifico abito bianco in uso nei paesi del Golfo, e portano in testa una kefiah bianca. Mi trovo a Doha, capitale del Qatar, all’interno della sede di Al Jazeera. È appena cominciata la diretta di uno dei più celebri talk-show dell’emittente, Ma war’aalkhabar (Tra le righe). Il quartier generale di Al Jazeera (che in arabo vuol dire “La Penisola”) è un bunker estremamente protetto situatoaunaventinadi minuti dal centro di Doha, in mezzo al deserto. All’esterno ci sono uomini armati e torrette di controllo, mentre all’interno ci sono prati verdi (mi si diceimportati,apezzi). Per entrare devo sottopormi a due controlli di polizia, ma una volta dentro posso circolare piuttosto liberamente. Sono subito meravigliato nel vedere una situazione particolare data dall’eterogeneità delle persone presenti: ci sonomoltedonneconil veloemoltealtresenza velo, uomini in dishdasha e altri in jeans. Nelbarinternoincui ho appuntamento con MohamedKrichensono sorpreso nel vedere gente di una pluralità di nazionalità e di religioni. Mi vengono presentati drusi, libanesi sciiti, palestinesi sunniti, sauditi laici, inglesi islamisti – nessun abitante del Qatar, già non molto numerosi in generale e ancor meno traigiornalisti. “Nel mondo arabo la corrente islamista è forte. È dunque comprensibile che esista anche all’interno di Al Jazeera. Si può tuttaviaessereislamisti e validi giornalisti,” precisa subito in francese il mio interlocutore. Mohamed Krichen è il presentatore di punta di Al Jazeera, ha cominciato alla Bbc ed è tra i fondatori dell’emittente araba, manonèislamista.Nel comitato di redazione dell’emittente passa per essere un “nazionalista panarabo”,esidicesia incontrapposizionecon l’attuale direttore di Al Jazeera. Krichen, tuttavia, non intende affrontare la questione e svicola: “Io difendo i valori e l’integrità del giornalismo, questa è l’unica cosa che mi muove, è l’unica guida dei miei comportamenti”. Allora gli chiedo in modo esplicito un suo parere su Wadah Khanfar, attuale direttore di Al Jazeera, molto criticato per la sua vicinanza con gli islamisti (e di cui Krichen è uno dei principali oppositori all’interno dell’emittente):“Lasua nomina è stata una decisione politica dell’emiro del Qatar, non posso pronunciarmisuquesta scelta. Tuttavia, essendoci di mezzo Al Jazeera, non bisogna emettere giudizi frettolosi. Certo, abbiamo fatto degli errori, un’emittente comelanostranonpuò essere sempre perfetta e irreprensibile. Posso però affermare che il pluralismo è visibile all’interno del palinsesto: su Al Jazeera sono rappresentate tutte le tendenze del mondo arabo”. All’iniziodellaguerra inAfghanistan,Krichen era inviato sul campo. Poi ha intervistato il presidente israeliano Shimon Peres durante la Guerra di Gaza – un’impresa folle per un’emittente araba. Ha intervistato anche il presidente della Siria Bachar al Asad, il presidentedell’Autorità nazionale palestinese Mahmud Abbas e il presidente del Venezuela Hugo Chávez.Ovunque,nella rete di Al Jazeera, Krichen è riconosciuto per la sua professionalità e la sua serietà. Presenta i telegiornalidellaserae tre volte alla settimana conduce Tra le righe, una delle trasmissioni politiche più popolari del mondo arabo. “È lo show numero uno sull’emittente araba numero uno,” dice con vanto Nazar Daw, produttore del programma, intervistato alla fine della diretta. Krichen è meno spavaldo e fa il modesto: “Il nostro successo è dovuto al fatto che privilegiamo leinformazionirispetto ai commenti, cerchiamo di descrivere l’attualità più che dare le nostre opinioni”. Inoltre, il programma è un newsshow, ovvero collegato alle notizie della giornata. I temi sono scelti il pomeriggio stesso della diretta e il produttore mi conferma che fino a trenta minuti dalla messa in onda possono subire variazioni. “Di sicuro, è il programma più mainstream di Al Jazeera,”precisaNazar Daw,perchéèinprima serata ed è legato alla stretta attualità. “Si tratta, in realtà, di una sorta di editoriale dell’emittente.” Da quest’angolo del deserto del Qatar ho l’impressione che figure come quelle di Krichen e l’esempio di libertà all’interno dei media arabi rappresentato da Al Jazeera possano portarelontano. AlJazeeranasceil1° novembre 1996 per volontà di un solo uomo, l’emiro del Qatar. Il Qatar è un minuscolo stato di ottocentomila abitanti, in grande maggioranza immigrati del Pakistan, dell’India e dell’Iran. È stato a lungo uno dei paesi più poveri del Medio Oriente e in meno di vent’anni, grazie ai giacimenti di petrolio e alla scoperta di giacimenti di gas (i più grandi al mondo dopo quelli di Russia e Iran), è diventato uno dei più ricchi. È avvenuto il “boom petrolifero”. Se in passato era uno sconosciuto, oggi l’emiro siede alla corte deigrandidellaTerrae dialoga con tutti i paesi. Inizialmente aveva posizioni filoarabe, ma dal 2001 ha cominciato a dialogare con gli islamisti (alcuni dicono che sia passato dall’orbita della Lega araba a quella dell’Organizzazione della conferenza islamista, ma è un punto molto controverso). In ogni caso, il Qatar è un paese fondamentale all’interno della costruzione di un nuovo asse forte del mondoaraboinsiemea SiriaeIranpiùchecon EgittoeArabiasaudita. Le relazioni diplomatiche con questi paesi sono peraltrocomplesseedi difficile interpretazione. Il Qatar ha una politica estera non allineata rispetto al mondo arabo,fattadivisibilità internazionale e di indipendenza su scala regionale: dialoga con culturediverse,sipone come mediatore tra Oriente e Occidente, nutre diffidenze verso l’Arabia saudita, sostiene la pacificazione del Libano attraverso accordi con Hezbollah e, ovunque, porta avanti una diplomazia “da libretto degli assegni”. Ma il Qatar tiene anche i piedi in più scarpe: è vicino all’Iran, ma continua a tenere sul suo territorio la base americana di Al Udied (a partire dalla quale è stata avviata la guerra in Iraq del 2003); si mette in condizione di sudditanza, nel contempo, con gli Stati Uniti di George W. Bush e la Siria di Bachar al Asad; autorizza gli israeliani ad aprire un ufficio “commerciale” a Doha, con status diplomatico, situato non lontano dalla residenza di Khaled Meshal, leader di Hamas, in esilio protettonelQatar. Questa sottile politica diplomatica compare, inevitabilmente, nella linea editoriale di Al Jazeera che, spesso, si allinea alle variazioni della politica diplomatica del Qatar. “AlJazeeraèlapolitica estera del Qatar, è un prodotto d’esportazione, un’ambasciata del Qatar,” dice Ahmed Kamel, ex direttore dell’emittente. “Non è un’ambasciata,” sottolinea Atef Dalgamouni, uno dei fondatori e tra i principali dirigenti di AlJazeeraaDoha,“èil ministero degli Esteri delQatar.” Al Jazeera decolla realmente alla fine del dicembre 1998 grazie al potente segnale lasciatoliberodaCanal France International: è l’unica emittente a poter trasmettere le immagini dell’operazione Desert Storm, l’attacco aereo americano in Iraq. Queste immagini esclusive rappresentano l’inizio di un riconoscimento sulla scena internazionale. Da qui comincia anche lo sviluppo della sua audience che aumenta enormementenelcorso degli anni facendola diventare un’emittente imprescindibileintutto il mondo. Trasmette le immaginidellaseconda Intifada palestinese a partire dal 2000, i video di Osama bin Laden e la guerra in Afghanistan nel 2001, la guerra in Iraq nel 2003, la Guerra di Gazanel2008. Al Jazeera è un’emittentearaba,ma le relazioni con questo mondosonocomplesse, infatti è vietata in Tunisia, Marocco, Algeria e Iraq; fino al 2007,alcunistatiarabi come l’Arabia saudita hanno minacciato di proibirla, più recentementel’hafatto l’Autorità palestinese. Anche l’India si era espressa in questo senso.Inognicaso,che sia proibita o meno, è sufficiente una parabola di meno di cento euro per captare il segnale ovunque nel VicinoeMedioOriente. Paradossalmente, l’emittente non è stata criticata solo dai talebani e dagli sciiti radicali, ma è stata violentemente attaccata e minacciata dall’amministrazione Bush negli Stati Uniti (una discussione tra George Bush e Tony Blair, riportata in una nota britannica segreta, lascia pensare che George Bush avrebbe avuto l’intenzione di bombardare la sede dell’emittente a Doha, ma la veridicità del documento è tutta da provare). Al Jazeera, peraltro, ha accusato l’amministrazione Bush di aver fatto pressione sui cablo-operatori affinché non facessero arrivare il segnale all’interno delle abitazioni negli Stati Uniti. Anche in questo caso l’affermazione deve essere provata, ma è vero che Al Jazeera, per ragioni politiche o commerciali, è poco presente sulle reti americane. Anche questo è un paradosso: in termini di censura e di limitazione della libertàdiinformazione, gli Stati Uniti si sono comportati con Al Jazeera come le dittaturearabe,mentre isuoisostenitoridicono che l’emittente ha semplicemente fornito una copertura giornalistica sul campo che Cnn non ha voluto opotutogarantire. I grandi anni di Al Jazeerasonostatitrail 1996 e il 2001. In questo periodo, l’emittente ha infranto tutti i tabù del mondo arabo,soprattuttosulle donneesullasessualità e ha aperto un ufficio in Israele e dato la parola per la prima volta all’interno di un media arabo ai rappresentanti dello stato ebraico (spesso senza tagliare né travisarne le argomentazioni). Molti telespettatori arabi hanno così potuto vedere per la prima volta un israeliano sostenere il proprio punto di vista su un’emittentearaba.Dal 2001, tuttavia, sembra che l’emittente abbia cambiatolinea. Hossein Abdel Ghani dirige gli uffici di Al Jazeera al Cairo. Per incontrarlo è necessario avere tanta tenaciaquantounbuon senso dell’orientamento, poiché gli uffici si trovano in un desueto edificio sulle rive del Nilo, senza alcuna visibilesegnalazionené indicazione. L’ascensore non funziona e le scale non vengono pulite da diversi mesi, c’è polvere ovunque. Al quintopianononc’èné il campanello, né un cartello, né un centralino. Non c’è neanche una particolare sicurezza. AlJazeerahapostouno dei suoi centri nevralgici mondiali al Cairo in un luogo inaccessibile e sconosciuto a (quasi) tutti. All’interno degli ufficicisonogiornalisti e cameraman che lavorano, donne senza velo con magliette attillate colorate in stileAmericanAppareil intente a lavorare, tranquillamente, come gli uomini. Decine di telecamere digitali sono appoggiate sui tavoli, anche macchine fotografiche Sony. Un cameriere mi porta un caffè. Ovunque, sui muri, è ben visibile il logo di Al Jazeera – il nome scritto in corsivo con caratteri arabi dorati sembra una fiamma – sotto c’è scritto, in arabo e in inglese, il motto “Il punto di vista e il suo contrario”. Hossein Abdel Ghani mi riceve in jeans e scarpe da ginnastica – all’americana. In virtù delle rigide regole di comunicazione dell’emittente,èl’unico ad avere il diritto di parlareconl’esterno,e lo fa senza troppi giri di parole. “In Egitto siamoinunasituazione controversa. Paghiamo il prezzo della nostra libertà e della nostra indipendenza,” afferma, confermando il fatto pubblicato anchesuigiornali,cioè che ha appena trascorso due giorni in prigione. Dirige un gruppo di venticinque persone, un ufficio sensibile all’interno di unpaesesensibile. Hossein Abdel Ghani parla inglese con accentoperfetto.Come molti dei centoventi giornalistidiAlJazeera hacominciatoaLondra nell’ufficio Arabic Bbc News, un’emittente in joint-venture tra Bbc World Service e la società saudita Orbit. La chiusura dell’emittente nel 1996, a causa di disaccordi tra inglesi e sauditi, ha contribuito al lancio di Al Jazeera. Hossein Abdel Ghani è stato incaricato, nel 1997, di aprire l’ufficio egiziano di Al Jazeera, un anno dopo l’avvio dell’emittente a Doha. Insieme agli uffici di Ramallah e Baghdad, anche quelli del Cairo sono tra i più importanti.Induestudi sommariamente attrezzati, ma ben situati, i giornalisti realizzanoiloroservizi di fronte a un panorama naturale impressionante: il Nilo e l’immensa città del Cairo. “Facciamo giornalismo secondo le regoleinternazionalied è questo che ci viene rimproverato dai paesi arabi e anche dagli Stati Uniti,” afferma Hossein Abdel Ghani, che mi fa osservare sulle pareti del suo ufficio un gran numero di diplomi e medaglie ricevuti in tutto il mondo come riconoscimento di indipendenza della stampa. Al Cairo c’è anche un’équipe che segue lo sport per Al Jazeera e ci sono giornalisti che realizzano documentari culturali e talk-show. “Il nostro successo è il frutto di una sottile miscela tra informazione e intrattenimento. Questa formula piace molto ai milioni di personecheciseguono fedelmente in tutto il mondo. Ci occupiamo dituttociòchetoccala gente, le masse, non l’élite. Per questo sono importanti sia i nostri telegiornali sia i nostri talk-show: i fatwa talkshow, condotti da satellite sheiks, hanno per esempio un gran successo.” Hamid Taoufik, che incontro qualche mese piùtardiinSiria,nonsi esprimerebbe mai usando espressioni come“fatwatalk-show” o “sceicchi via satellite”, anzi malsopporta lo spirito del collega egiziano. Abdul Hamid Taoufik è a capo dell’ufficio di Al JazeeraaDamascoedè stato direttore politico della televisione ufficiale siriana. Ha baffi sottili, piccoli occhiali, i capelli brizzolati, parla veloce e a lungo e lascia poco spazio alle domande; non parla inglese e a intervistarloconmec’è un traduttore. L’ufficio in Siria di Al Jazeera è posto sopra un Columbus Café, a East Mezh, una periferia ricca a ovest di Damasco. Dalla strada, il logo dell’emittente è piccolomabenvisibile. Al primo piano, in quattro o cinque uffici, c’è una quindicina di persone. Ci sono telecamere appoggiate per terra. “In Siria, siamo un’emittente popolare,” dice con soddisfazione Abdul Hamid Taoufik. “Le persone più politicizzate guardano AlJazeeraol’emittente diHezbollah,AlManar, che è considerata l’emittente della resistenza. Altrimenti, per svagarsi, molti siriani guardano Lbc, emittente libanese, oppure i canali sauditi di Mbc.” Chiedo come sia possibile conoscere i dati dell’audience. “Non si possono sapere. Non esistono statistiche sul settore audiovisivo in Siria e non esiste l’auditel nei paesi arabi,” sospira Abdul Hamid Taoufik. “Né il governo, né i privati conoscono le cifre. Si possono fare solo delle ipotesi” (secondo diverse fonti, ilpubblicodiAlJazeera supererebbe i 50 milioni di famiglie al giorno). Un cameriere ci porta un tè turco, parliamo a lungo, ma non apprendo granché sulla questione che mi interessa, ovvero come AlJazeerasiadiventata un’emittente mainstream. La stanza è circondata da tende rosse che danno un senso di soffocamento e fanno provare una sensazione di claustrofobia. Al momento dei saluti finali, Abdul Hamid Taoufik mi fa vedere unamagnificacopiadel Corano, dipinta a mano, messa in vista all’ingresso del suo ufficio. Mentre sto uscendo, chiedo un parere sulle voci che girano secondo cui Al Jazeera, in Siria, sarebbe vicina al potere e lascio intendere che, per aprire l’ufficio di Damasco, forse si è dovuta fare qualche concessione. Il direttore di Al Jazeera a Damasco mi guarda con calma. In quel momento gli altoparlanti moderni e rumorosi trasmettono l’invitodelmuezzinalla preghiera. “Non siamo sottomessi al potere, lavoriamo rispettando la legge siriana e la deontologia del giornalismo di Al Jazeera,” si giustifica abilmenteAbdulHamid Taoufik. Qualchegiornoprima avevo parlato a Londra con uno dei fondatori di Al Jazeera che era statoanchedirettoredi alcune reti appartenenti all’emittente prima di dare le dimissioni. “L’ufficio di Al Jazeera a Damasco è molto legatoallostatosiriano e diffonde informazioni ufficiali,” mi aveva avvertito (questo ex dirigente vuole restare anonimo per rispetto dei suoi colleghi e per potermi parlare più liberamente). È necessario sapere, tuttavia, che per diversi anni, anche la Siria, come diversi paesiarabi,haproibito Al Jazeera sul suo territorio e rifiutava ogni richiesta di visto ai suoi giornalisti; aprire un ufficio a Damasco era dunque altamente improbabile. Sipuòfarel’ipotesiche lasuarecenteapertura sia stata negoziata ad alto livello, grazie a un riavvicinamento diplomaticotrailQatar elaSiriaapartiredalla Seconda guerra del Libano nel 2006 e ai negoziati del conflitto condotti dall’emiro del Qatar(chenel2008ha fatto un regalo personalealpresidente siriano Bachar al Asad, unAirbus). In ogni caso, il mio interlocutore critica il giornalismo di Al Jazeera in Siria e, più in generale, le sue trasformazioni. A suo avviso c’è stata una “evidente reislamizzazione di Al Jazeera a partire dal 2001”, e gli effetti si vedono in modo particolareinSiriaein Libano. Il mio interlocutore comincia poi una lunga analisi e fa una disamina personale sui cambiamenti fatti dall’emittente. “Prima del 2001 era soprattutto una televisione nazionalista, possiamo dire laica, all’interno della tradizione del nazionalismoarabo,del panarabismo e del socialismo arabo, rappresentato dalla Legaaraba–edicuiil Qatar è membro. La filosofia di fondo dell’emittentesibasava sulla modernizzazione dei paesi arabi e sullo spirito di apertura arabo, quello che si chiama infitah. A partire dall’11 settembre 2001, si è invece orientata verso una crescente islamizzazione. Progressivamente, per piccoli passi, si è cominciato a preferire la Siria all’Egitto, i Fratelli musulmani alla Lega araba, Hamas a Fatah. Sono stati trasmessi i video di Osama bin Laden, non tanto per fare informazioneoperfare audience, ma per motivi di propaganda. Anche le parole usate sonoindicative:siparla del ‘presidente’ Saddam Hussein e non del ‘dittatore’ come fannoglioccidentali;di ‘resistenti’ iracheni invece di ‘ribelli’; di ‘forze dell’invasione’ americane anziché di ‘forze della coalizione’.” Nel 2003, Wadah Khanfar, un palestinese che ha studiatoinGiordania,è diventato a trentaquattro anni direttore di Al Jazeera. In precedenza era a capo l’ufficio di Baghdad nel momento incuièstatorovesciato Saddam Hussein, e ciò gli ha permesso di acquisire una certa fama benché, secondo il mio interlocutore, “avesse un’esperienza giornalistica limitata”. Poi l’ex fondatore di Al Jazeeracheintervistoa Londra riprende il discorso: “Da quando Wadah Khanfar è stato nominato presidente, Al Jazeera è diventata favorevole alla resistenzairachena.Da quel momento è stata sostenuta una posizione contro gli sciiti in Iraq, ma a favore degli sciiti in Iran, Libano e Siria. Si è poi scelto di sostenere Al Qaeda in Afghanistan, di tener viva la memoria di Saddam Hussein, di mostrarsi favorevoli a Hezbollah e Ahmadinejad. Si è scelto anche di sostenere l’antiamericano Chávez in Venezuela e l’islamista Erdogan in Turchia! È un cambiamento totale rispetto all’obiettività diAlJazeeradegliinizi e rispetto al suo desiderio di neutralità. In quel momento ho datoledimissioni”. Ho lasciato parlare il mio interlocutore, conosce la storia dall’interno, è autorevole e affidabile, ma ha la propria interpretazionedeifatti che, ovviamente, non è condivisa da altre persone che considerano Al Jazeera “un’emittente come un’altra”. Alcuni rimarcano che all’interno del network ci sono molte libertà e molte differenze. Dopotutto, mi si dice a Doha, il fatto che l’emittente difenda i valori arabi non impedisce di fare giornalismo, e non è in realtà molto diversa dallaCnn,chesostiene il punto di vista degli Stati Uniti e i valori americani. Mi si fa notare anche che, se alcuni uffici di Al Jazeera sono effettivamente “all’ascolto” di Hezbollah o di Hamas in relazione alle situazioni locali, l’ufficio di Ramallah resta, per esempio, piuttosto laico e “all’ascolto” di Fatah. “Sarei la prima a lasciare Al Jazeera se diventasse filoiraniana e islamista,” afferma Dima Khatib, una palestinese intervistata a Caracas e direttrice dell’ufficio di Al Jazeera in Venezuela. Al contrario, il direttore di un ufficio di Al Jazeera, appena licenziato, conferma che, durante le manifestazioni dell’opposizione iraniana nel 2008, è emersa la vera natura di Al Jazeera: “Durante quegli avvenimenti, l’emittente era completamente a favore di Ahmadinejad. Ancora oggi difende le popolazionidiciviliela democrazia, ma in Iran è stata difesa e sostenuta una dittatura”. Anche questo dirigente dell’emittente precisa che i legami con Hamas sono diventati piùstrettidopol’arrivo di Wadah Khanfar alla testa di Al Jazeera. L’informazione mi è stataconfermatadapiù interlocutori. Altri sostengono che, grazieadAlJazeera,in molti paesi arabi come la Siria, i media del settore audiovisivo sono stati privatizzati; secondoloro,inoltre,la presenzadell’emittente avrà sul lungo periodo effetti decisivi in termini di modernizzazione del mondo arabo. Soprattutto, Mohamed Krichen spiega che “l’opposizione tra sunnitiesciitinonèun criterio pertinente per valutare le modalità attraverso cui Al Jazeera fa informazione”. Ahmed Kamel, ex direttore dell’ufficio di Al Jazeera a Bruxelles, sostiene che le trasformazioni dell’emittente sono nel contempo di natura ideologica e commerciali. A partire dal successo ottenuto, Al Jazeera ha voluto adeguarsi alle aspettativedella“gente araba della strada” e dunque, per forza di cose, è diventata più islamista per contrapporsi al crescente antiarabismo degli Stati Uniti di George W. Bush. “Al Jazeera è un’emittente privata che punta all’audience e al profitto,” spiega Labib Fahmy, suo collega e nuovo capo dell’ufficio di Al Jazeera a Bruxelles. “Ciò che fa muovere l’emittente è, in effetti, la pressione dellastrada,”conferma Mohammed Krichen. “Siamosempresottola costante pressione dell’opinione pubblica araba.Mamichiedose siamo il riflesso di questa opinione pubblica araba oppure selasubiamo.” Afiancodiuncelebre ristorante gay, non lontano dall’emittente concorrente Future, si trova la discreta sede di Al Jazeera, in via Hamra, nel settore Kantari di Beirut in Libano. Telecamere circondano l’edificio giallo-rosa. Le scarne indicazioni all’esterno, e soprattutto le dodici parabole sul tetto, fanno semplicemente intendere che qui, a El Mina, al primo piano c’è un’emittente televisiva. All’interno c’è un’immensa redazione in open space. Su un muro c’è la grande fiamma del logo di Al Jazeera e anche la fotografia di Tarek Ayoub, corrispondente ucciso nell’aprile 2003 da un missile americano che ha colpito la sede dell’emittente a Baghdad. Il capo dell’ufficio di Al Jazeera a Beirut si chiama Ghassan Ben Jeddou e da questa sede presenta ogni settimana il talk-show Dibattito aperto. GhassanBenJeddou,di padre tunisino sunnita, madre cristiana, sposato con una sciita, suscita controversie e fascino. Nel mondo arabo è noto soprattutto per aver intervistato nel luglio 2006, nel pieno del conflitto israelolibanese, Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah. Con la telecamera, GhassanBenJeddouha filmato anche i tunnel segreti che collegano Gaza all’Egitto. (Non sono riuscito a intervistarlo, il motivo ufficiale è che la settimana in cui ero a Beirut lui era nel Sud del Libano a registrare lasuatrasmissione.) Anche sulla concezione di giornalismo rappresentata da Ghassan Ben Jeddou i pareri sono discordi. “Al Jazeera è contro la democraziainLibanoe l’ufficio locale, anche il suo capo, è a favore di Hezbollah, vicino agli iraniani e all’emiro del Qatar,”sostieneAhmad Kamel,exgiornalistadi Al Jazeera e oggi a capo dell’ufficio di Bbc a Damasco. Altri pensano invece che la sua intervista al leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, sia stato un colpo giornalistico che non sarebbe riuscito neancheallaCnn:“Èla conferma del suo talento giornalistico, non di collusioni con Hezbollah”,sostieneun responsabile di Al Jazeera a Doha. (Si ricorda che per realizzare questa intervista,GhassanBen Jeddouèstatocondotto dalsuointerlocutorein un luogo segreto con gli occhi bendati e all’interno di un “blind bus”, un veicolo con i vetri oscurati. Hassan Nasrallah è infatti uno degli uomini più ricercatidaIsraeleche lo considera “uno dei principali terroristi del mondo”. Quando Ben Jeddou ha chiesto durante l’intervista a Nasrallah dove si trovassero, anche questi non ha saputo rispondere poiché vi era stato condotto a suavoltabendato.) Un format News & Entertainment Il mio obiettivo continua a essere quello di capire come AlJazeerasiadiventata un’emittente mainstream. E le ragioni di questa trasformazione non vanno ricercate nelle questioni politiche, ma nel tipo di giornalismo e nei format televisivi adottati dall’emittente. “Il successo di Al Jazeera è frutto dei suoi talk-show,” spiega Labib Fahmy, direttore dell’ufficio di Al Jazeera in Belgio, incontratoinunbardel centro di Bruxelles. Il mio interlocutore non vuole parlare di questionipolitiche(non è autorizzato a esprimersi su questi temi), ma accetta di parlare di come Al Jazeera sia diventata mainstream. Il segreto di Al Jazeera è il palinsesto. Ha una programmazione diversificata e offre a ciascuna sensibilità del mondo arabo un suo specificotalk-show.Per i liberali c’è la trasmissione Più di un’opinione, girata a Londra con il presentatore di punta Sami Haddad. Poi c’è Solo per le donne, un programma sulle questioni femminili presentato con pugno durodallasirianaLuna Shebel che, tra le persone arabe da me intervistate, suscita o profonda avversione o adorazione (il programma è stato sospeso di recente). Per i nazionalisti c’è la trasmissione di punta L’opinione contraria, sulmodellodiCrossfire di Cnn, condotta da Doha da un drusosiriano, Fayzal al Qazem, che affronta anche questioni tabù e “smitizza i miti”, dice egli stesso, critica inoltre i governi dei vari paesi. La trasmissione politica Tra le righe, di Mohammed Krichen, accontenta il pubblico che sostiene il nazionalismo panarabista e gli islamisti. Per gli islamisti sunniti c’è invece Senza frontiere del flemmatico Ahmed Mansour, trasmessa dal Cairo (si dice che questo egiziano sia vicino ai Fratelli musulmani). Soprattuttoperloroc’è La sharia e la vita trasmesso da Doha ogni domenica alle ore 21.05 (ora de La Mecca). In questa trasmissione interviene regolarmente, come invitato, una grande star,losceiccoYoussef al Qaradauoi, un telepredicatore islamista (fuoriuscito egiziano e noto per esserevicinoaiFratelli musulmani). In questo programma, il satellite sheik (così chiamato perché fa prediche via satellite) risponde a domande concrete formulate da musulmani su come vivere nella modernità restando buoni credenti. Milioni di persone sono influenzate dalle sue opinioni e dalle sue fatwa. È un grande sostenitore dei palestinesi sulla questione degli attentati kamikaze, è nemicodegliStatiUniti per l’invasione in Iraq, ma è critico verso Al Qaeda poiché considera “controproduttivi” gli attentati dell’11 settembre. Secondo i suoi sostenitori, YoussefalQaradauoi,è in realtà l’interprete di un islam progressista, soprattutto nei confronti delle donne. Altriinveceloaccusano di aver invocato la jihad contro la Francia quando ha proibito il foulard islamico nelle scuole pubbliche. Risponde in modo affermativo a un telespettatore che gli chiede se il Corano consente di potersi filmare mentre fa all’amore con sua moglie. Inoltre, la sua posizione sulla fellatio come compatibile con i valori dell’islam continua a essere uno degli interventi più dibattuti di tutta la storia della televisione araba. “È stata una trasmissione come L’opinione contraria a permettere ad Al Jazeera di diventare mainstream. Probabilmente è lo show oggi più celebre del mondo arabo e Fayzal al Qazem è una star internazionale. Il successo viene dalla libertà che si respira nel programma, le persone discutono in modo brillante e con veemenza. Il mondo arabo è molto diviso al suo interno e questo tipo di trasmissioni ricostruisce un certo equilibrio e l’audience aumenta. Non sono tanto le news, ma i news-show e l’intrattenimento ad averci permesso di arrivare dove siamo oggi,” conferma Labib Fahmy, direttore dell’ufficiodiBruxelles. In origine, il format di Al Jazeera avrebbe dovutoesserequellodi “news & entertainment” – il cosiddetto “infotainment” –, ma dopo aver visionato i pilots,l’emirodelQatar ha privilegiato esclusivamente l’informazione. Tuttavia, l’intrattenimento è rimasto presente all’interno del palinsesto e si è accentuato con l’aumento dei format dei talk-show (che, tecnicamente, sono spesso dei news-show, ma con una forte componente di intrattenimento). “All’inizio i talk-show duravano un’ora e mezza, poi li abbiamo portati a cinquanta minuti,” spiega Mohammed Krichen. “Sono stati i nostri talkshow a contribuire alla modernizzazione del mondo arabo. All’inizio risultavano scioccanti e incredibili per molti spettatori. Poi li abbiamo abituati alla nostra audacia e il pubblicocihaseguito.” Anche la dimensione interattiva è importante: molte trasmissioni valorizzano il pubblico rispondendo alle domande telefoniche fatte durante le trasmissioni, si fa intervenire il pubblico in studio o utilizzando ilwebperfarsentirele domande, le reazioni e le voci della strada. Al Jazeera dà la parola al popolo, nessun altro media lo aveva fatto prima. “Inoltre, ci si chiede sempre più spesso di ‘personificare’ il dibattito, di raccontare dellestorie,dimandare in onda ‘storie concrete’, testimoni, storie vissute,” conferma Labib Fahmy aBruxelles. Nelnovembre2006è stata avviata la versione in inglese di Al Jazeera, emittente che risponde a una precisa strategia dell’emiro del Qatar. Anzitutto, fare di Al Jazeera un gruppo media globale: in questa fase sono stati introdotti canali sportivi a pagamento e importanti siti web (è stato avviato anche un canale per bambini, Al Jazeera Children, lanciato dalla moglie dell’emiro, ma senza legamistrutturaliconil gruppoAlJazeera).Per aumentare la sua influenza si è inoltre ritenutonecessarioche Al Jazeera cominciasse a comunicare con l’Occidente. “Per invertire la direzione dei flussi di informazione che, normalmente, si spostano da ovest verso est e da nord a sud, mentre vogliamo fare reportage a partire dai paesi arabi e trasmetterli in Occidente. Con le nostre immagini possiamo capovolgere la direzione dei flussi audiovisivi. Siamo diventati mainstream con le nostre immagini vere sulla guerra in Iraq,inAfghanistanea Gaza. Tutti hanno cominciato a guardare le nostre immagini, anche quelli che non capivano l’arabo. Era dunque necessario che cominciassimo a trasmettereininglese,” mi dice Atef Dalgamouni, un giordano di nazionalità americana e tra i fondatori di Al Jazeera English intervistato nella sede dell’emittente a Doha. Al Jazeera dunque recluta giornalisti, hosts e anchors, e ben pagati (sul modello americano,nonsiparla di speaker al femminile, ma di anchor),diCnn,Abce, come dalle origini, di Bbc. Tuttavia l’emittente non è ovviamente riuscita ad avere star come quelle di Cnn – tipo Larry King, Anderson Cooper, Wolf Blitzer, Lou Dobbs, Christiane Amanpour e Fareed Zakaria – ma questi restano il modello e sonoimitatiaDoha. Al Jazeera araba e la consorella inglese sono due entità separate e i giornalistichelavorano per la prima collaboranodiradocon la seconda. “L’emittente internazionale prende più precauzioni, vuole fornire un’immagine positiva del mondo arabo,” lascia intendere un direttore dell’ufficio di Al Jazeera. Il canale in inglese cerca di raggiungere anche i musulmani che non parlano arabo, in Indonesia, India, Pakistan, nell’Africa anglofona,maanchele giovani generazioni di arabi in Europa. A Giacarta, capitale dell’Indonesia,incontro Stephanie Vaessen, corrispondente di Al Jazeera English. È bionda, olandese e non corrisponde per nulla al profilo della giornalista di Al Jazeera che mi aspettavo di incontrare nel primo paese musulmano al mondo. “L’ufficio di Al Jazeera a Giacarta dipende dall’ufficio regionale di Kuala Lumpur in Malesia, quartier generale del gruppo rivolto all’Asia musulmana,” mi dice. I corrispondenti di Al Jazeera in Cina, India, Thailandia e alle Filippine dipendono da quella sede. Secondo diverse fonti locali, Al Jazeera non ha un grande impatto in Indonesia. Per Al Jazeera, l’Asia è un mercato emergente e comunque l’emittente ci investe molto, per esempio producendo una speciale trasmissione asiatica One on One East (che riprende il format di Asian Uncut di Star World a Hong Kong, che a sua volta riprende il format del talk-show Jimmy Kimmel Live! di Abc negliStatiUniti). Oggi il gruppo di Al Jazeera si sviluppa in tutte le direzioni. La dimensione del divertimento mainstream sembra la nuova priorità, insieme all’informazione. Per questo, nel novembre 2009, sono state acquisite per 650 milioni di dollari diverse emittenti sportive satellitari del grupposauditaArt,con irelatividirittisportivi. Grazie a questa mossa, Al Jazeera Sport Channels (Jsc) può trasmettere le partite di calcio del campionato algerino, marocchino, siriano, giordano, egiziano e numerosi altri eventi sportivi come le Olimpiadi e soprattutto i Mondiali di calcio del 2010 e del 2014. Al Jazeera detiene ormai quasi un monopolio dello sport nel mondo arabo, anche se la concorrenza, Abu Dhabi Television, ha ottenuto i diritti per il campionato di calcio inglese per 330 milioni di dollari. Progressivamente, con lo sport all’interno della sua offerta nel settore dell’intrattenimento, Al Jazeera diventa un gruppo media globale, uno dei più importanti del mondo arabo. Unisce inoltre, in un sottile dosaggio, canali gratuiti e canali a pagamento: i canali di informazione gratuita conducono il pubblico verso i canali a pagamento. Attualmente dispone di due canali d’informazione continua in arabo e in inglese, di una dozzina dicanalisportivi,dicui sette gratuiti e cinque a pagamento, di un canale gratuito che trasmettedocumentari, di un programma in persiano, di un canale per i bambini (indipendente) e ha numerosi altri progetti in corso di sviluppo. “Dopo l’informazione, lo sport è l’elemento centrale di Al Jazeera,” conferma Madjid Botamine,presentatore di punta della rubrica sportiva di Al Jazeera, intervistato nella newsroom dell’emittente a Doha. Ilgruppoentradunque con forza nell’intrattenimento per un pubblico di massa. “Il nostro obiettivoèraggiungere tuttigliarabi,poituttii musulmani, poi tutto il mondo,” mi spiega a Doha uno degli uomini chiave di Al Jazeera, il giordano-americano Atef Dalgamouni. Ma come è possibile riuscire conquistare pubblico a est e a ovest? “Qui ad Al Jazeeranonparliamodi est e ovest, ma di nord e sud. E riusciremo a raggiungere tutti attraverso informazione e intrattenimento. Vogliamo essere un gruppo mainstream. Al Jazeera guarda da sud verso nord,” conclude Dalgamouni. Oggi, nel mondo arabo, esistono oltre cinquecento canali televisivi e ciò indebolisce sia l’audience sia il mercato pubblicitario sucuipuntaAlJazeera. Tuttavia, questa situazione non ha modificatolaspecificità dell’emittente e il fatto che continui a rappresentare un modello per il mondo araboenonsolo.Trale emittenti più influenti ci sono Nile News Tv, emittente di informazione egiziana vicina al presidente Hosni Mubarak, Abu Dhabi dal Golfo, Arab News Network, emittente con sede a Londra e di proprietà del nipote del presidente Bachar al Asad e naturalmente vicino agli interessi siriani; Al Aqsa Tva, l’emittente palestinese di Hamas; Al Manar, l’emittente di Hezbollah; Al Arabiya, l’emittente araba di informazione con sede a Dubai Media City, controllata da un gruppo saudita. Ho visitato la maggior parte di queste emittenti a Dubai, Riyadh, Damasco, Beirut,Londra,alCairo per cercare di capire perché nessuna di queste–tranneforseAl Arabiya – sia riuscita a diventare un’emittente globalizzata, mainstream tanto quantoAlJazeera. La guerra immagini delle “È davvero il benvenuto nell’ufficio stampa di Hezbollah.” Rana, una giovane donna con il velo, capo dell’ufficio stampa del Partito sciita libanese, mi accoglie calorosamente parlando un francese perfetto. Mi alzo, le tendo la mano, ma lei ritrae la sua e mi guarda un po’ stupita, poi con un sorriso mi dice:“Qui,traglisciiti, gli uomini non possono toccare la mano di una donna”. Porgo le mie scuse. “Non deve scusarsi, non c’è problema, gli occidentali non sono abituati.Laperdono.” Haret Hreik è il feudo di Hezbollah a Beirutsud.Mitrovonel distretto di Dahieh, il quartiere sciita di Beirut, chiamato più semplicemente “periferia sud”. Siamo a soli venti minuti dal quartiere cristiano di Ashrafieh, dove alloggio, ma l’autista del taxi che mi ci ha portato era inizialmente titubante; anche tutti gli altri interlocutori libanesi mi hanno sconsigliato di andarci, per ragioni di sicurezza, per gli occidentali e i cristiani è una zona pericolosa. L’esercito israeliano nel 2006 ha bombardato queste strade. Numerosi edifici, distrutti o sventrati, ne portano ancora i segni, anche se alcune rovine risalgono alla Guerra del Libano del 1982 e devono ancora essere rasealsuolo. L’ufficio stampa di Hezbollahsitrovanella principale arteria di Haret Hreik e, apparentemente, non sembra sottoposto ad alcun regime di sorveglianza particolare. All’ingresso dell’edificio c’è il cartello “Media Relation of Hezbollah”, a testimoniare che la formazione libanese si considera un’organizzazione rispettabile. Il partito sciita vuole “libanesizzarsi” per vincere le elezioni (ha avuto due ministri nel governo di unità nazionaledelnovembre 2009). Al primo piano sono accolto in un piccoloufficioincuimi si chiede di attendere. Appesa alla parete c’è una bandiera di Hezbollah, verde su sfondo giallo, al centro c’è un fucile d’assalto tipoAk47consopraun brano del Corano scritto in rosso e sotto c’è un’altra frase: “Resistenza islamica in Libano”.Difronteame c’è una televisione accesa, sul canale Al Manar. Devo fornire il mio passaporto, il tesserinodigiornalista, immediatamente fotocopiati su una macchina polverosa che funziona lentamente. Ricevo poi un accredito stampa di Hezbollah che mi autorizza a visitarne l’emittente televisiva, Al Manar, la radio, Al Nour, ma che non mi dà diritto di fare fotografie, descrivere i luoghi degli studi e intervistare il personale senza autorizzazione (peraltro la cosa non mistupisce,sochenon visiterò gli studi ufficiali e che in ogni caso ci sono più studi, dal momento che Al Manar è sotto la minaccia di bombardamenti israeliani. So anche, per esperienza, che nessuno accetterà di parlarmi senza l’autorizzazione dell’ufficio in cui mi trovo). La cosa più impressionante di questa calorosa accoglienza è il fatto che l’ufficio stampa di Hezbollahèingradodi accogliere giornalisti stranieri in diciassette lingue, benché non siano molti a venire fino qui. Il capo dell’ufficio stampa, la signora Rana, mi precisa che il Libano è un paese libero, che posso andare dove voglio e che sono il benvenuto a Haret Hreik. L’emittentetelevisiva Al Manar (Il Faro) è stata creata nel 1991. È una classica emittenteinondehertz per il Sud del Libano e un canale satellitare per il Vicino Oriente e il resto del mondo. Secondo quanto mi si dice, “azionista principale”diAlManar è Hezbollah, che ottiene una serie di fondi direttamente dall’Iran e, secondo un’importante inchiesta del “New Yorker”, anche da un poco chiaro sistema di cellule autonome di fundraising insediate nei paesi del Golfo, nell’Asia musulmana, in America latina e anche negli Stati Uniti. Secondo alcune stime, sembra che Al Manar sia vista da circa dieci milioniditelespettatori in Libano e in tutta la regione (ma senza strumenti efficaci di misurazione del pubblico il dato non puòessereverificato). A Haret Hreik, a Beirut sud e, più lontano, a sud del Libano, Al Manar avrebbe, secondo diversi miei interlocutori, diversi ufficiestudi,alcunidei quali localizzati nei sotterranei e in condizioni di massima sicurezza, soprattutto quando Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah,trasmette.È impossibile verificare queste informazioni. UnedificiodiAlManar è comunque accessibile. I portavoce di Al Manar difendono la loro etica professionale.Rifiutano la neutralità di Al Jazeera che dà la parola agli israeliani e “trasmette tanto la voce delle vittime quanto degli aggressori”. Al contrario di Al Jazeera, Al Manar dichiara di essere di parte, a favore degli sciiti libanesi e dei palestinesi vittime dell’occupazione israeliana. Nell’inchiestadel“New Yorker”, viene citato il direttore di Al Manar Hassan Fadlallah (che non ho incontrato) quando ha detto nel 2002:“Nonèneinostri obiettivi intervistare Ariel Sharon. Vogliamo avvicinarlo non per fargli un’intervista, ma perammazzarlo”. Mi chiedo allora come sia possibile il successo di questa emittente a Beirut sud e nel Sud del Libano e tra i palestinesi, mentre in molti paesi del mondo (per esempio in Francia) è vietata poiché sostiene posizioni negazioniste sulla Shoah. Secondo glisciitilibanesidame intervistati,AlManarè il simbolo della resistenza. “Guardiamo Al Manar, ascoltiamo Al Nour (radio di Hezbollah) e ci sentiamofieri,”midice Salim, uno studente incontrato nel quartiere di Haret Hreik. Gli piacciono in particolare “i missili Qassam che Hezbollah tira ogni tanto su Israele”. Più significativa è la posizione dei palestinesi in Libano, della Cisgiordania e Gaza che sono fieri di Hezbollah e della sua emittente ufficiale Al Manar, benché sciita (loro sono sunniti), per la sua “vittoria” nel Sud del Libano quando Hezbollah ha “cacciato l’esercitoisraeliano”. Per i suoi detrattori cristiani o sunniti moderati che ho incontratoinLibano,Al Manar ha come obiettivo principale di spingere i palestinesi a compiere attentati kamikaze, e il suo successo si spiega con questa dimensione propagandistica. Altri sospettano che Al Manar sia un canale di trasmissione delle informazioni di Hezbollah dal Libano verso i responsabili di Hamas. Anche per i critici più moderati, Al Manar e i suoi sostenitori iraniani sono un importante vettore per la diffusionenellaregione dell’islamismo e di posizioni a favore degli sciiti. Il successo dell’emittente e il fatto chesiapiùmainstream per palestinesi, sciiti libanesi e sunniti siriani sembrano dunque dovuti alla propaganda,allafedee allaresistenza. Nel pomeriggio, sempre munito del lasciapassare fornitomi daHezbollah,vadoalla ricerca di negozi di cd e dvd piratati a Haret Hreik. Karam, un giovane sciita incontrato in un cybercafé del quartiere, accetta di accompagnarmi. Agli incroci delle strade ci sono fotografie giganti che ritraggono i “martiri”, i militanti di Hezbollah uccisi durante l’offensiva israeliana del 2006. Talvolta vedo il ritratto dell’ayatollah Khomeini, la guida spirituale sciita della Rivoluzione iraniana. Incontro alcune donne con il velo, alcune indossano il burqa, ma altre sono senza velo e sembranoaloroagioin jeans e scarpe da ginnastica, come se fossero nelle vie cristiane di Beirut. Entro insieme a Karam in diversi negozi della Hassan Nasrallah Street, soprattutto in una specie di gift shop di Hezbollah, in cui si vendonobandiereverdi e gialle, cd musicali delle forze militari sciite. Un po’ più lontano, Karam mi porta in un mediastore in cui vedo migliaia di cd e dvd illegali, soprattuttoamericanie arabi. I film arabi sono soprattuttoegiziani,c’è qualche film di Bollywood e di kung fu diHongKong.Maipiù visibili sono i prodotti americani. Ci sono numerosifilmdiDisney e tutti i film recenti di successo di Hollywood, gli ultimi album di 50 Cent, Lil Wayne e KanyeWestemoltifilm d’azione. “I film violenti americani sono per noi tutti un esempio da seguire,” mi dice Karam, con tono serio (mi dice di adorare in particolare le torce Mag-Lite della Lapd, la polizia di Los Angeles, e che vorrebbe averne una). Al di sopra della cassa c’è un ritratto gigante, quello di Hassan Nasrallah, uno degli uominipiùpopolaridel mondo arabomusulmano. “Tutti questi film sono illegali,” mi dice Karam. “Qui sono prodotti i cd e i dvd masterizzati da computer, poi si fanno fotocopie a colori delle custodie dei dvd affinché il prodotto sia più bello.” La responsabile del negozio, una bella ragazza senza velo in jeans e maglietta, che Karam conosce, annuisce. Poi mi dirà chelefa“unpo’ilfilo”, ma è una ragazza “difficile”; le ragazze più facili si trovano a Beirut, e il fine settimana va nel quartierecristiano“per andare a rimorchiare ragazze”. Chiedo a Karam, che ha venticinque anni, per chi ha votato alle ultime elezioni libanesi e perché. Lui mi risponde: “Ho votato per Hezbollah perché difende il nostro paese”. “Contrariamente a quanto pensate spesso voi in Europa, gli sciiti non votano Hezbollah perchéèunmovimento violento, ma perché è un movimento dolce e protettivo,” mi dice qualche giorno più tardi, sempre a Beirut sud, l’intellettuale LoqmanSlimchedirige un importante centro culturale indipendente tra gli sciiti. Nelle sue argomentazioni insiste sui servizi in ambito sociale e scolastico realizzati da Hezbollah nella periferia sud di Beirut (“grazie soprattutto a denaro iraniano”). Poi prosegue dicendo che “Hezbollahhainvestito molto sull’intrattenimento e sui media. In passato ha saputo fare della violenza una coreografia, conosce il valore dell’estetica in campo politico e oggi punta sulla ‘resistance pop culture’. Ciò significa che Hezbollah favorisce sia la cultura pop sia le armi e sostiene una cultura della battaglia, del combattimento e della resistenza attraverso immagini, libri e dischi”. Nelle vie di Haret Hreikhovistodecinedi bar, cybercafé, ma nessun cinema. “Hezbollah non vuole cinema e, teoricamente, è ostile alla musica come accade in Iran. Ma siamo a Beirut, sa di dover fare delle concessioni.Autorizzai barsesonofrequentati solo da uomini. Su molti altri temi, gli ufficiali sciiti sono addirittura più aperti: non vogliono figurare come censori, né esseretroppoortodossi suidirittidelledonneo essere in conflitto con le aspirazioni al divertimento dei giovani sciiti libanesi. Hezbollah non intende allinearsi alle posizioni moralistiche di Iran e Siria, sa che per ottenere consensi deve ‘libanesizzarsi’. Per questo chiude un occhio sul mercato nero di cd e dvd,” spiega Loqman Slim. Poi aggiunge: “Gli arabi inseguono un altro sogno, quello della modernità. Ma vogliono diventare moderni da soli, senza gli occidentali, senza gliamericani”. Il giorno dopo vado nei campi dei profughi palestinesi di Sabra e Chatila, nella periferia ovest di Beirut. Sono dunque nella zona sunnita, all’interno di un quartiere povero in cui il Libano non ha mai voluto integrare i palestinesi che vivono lì dal 1948. Anche se nati in Libano, talvolta da tre generazioni, i palestinesi continuano a non avere diritto di voto, né passaporto, non possono esercitare numerose professioni liberali, inoltre non possono comprare appartamenti, dunque sono obbligati a vivere neicampi. In una via pedonale di Sabra, trasformata in mercato, Hassan, un palestinese che vende su un banco di fortuna cd di musica araba – riconosco quelli di Elissa, Amr Diab, Majid, Latifa –, accetta di accompagnarmi in negozi di dvd. Lascia momentaneamente l’attivitàalfratelloemi porta in un negozio in una vietta perpendicolare sui cui muri si vedono ancora, come mi mostra, le tracce dei proiettili del massacro di Sabra e Chatila del 1982. Ci sono dvd di film arabi classici (soprattutto egizianiesiriani).Dopo un breve colloquio in arabo con il venditore, Hassan mi prende per mano e mi fa passare per una porticina con un grosso catenaccio e mi conduce nel sottosuolo. Con grande stupore mi trovo di fronte a quattro sale la cui modernità stride conlapovertàdellavia di Sabra, piene di migliaiadicdedvd.In questo enorme scantinato ci sono numerosi clienti. Vi si trova tutta la produzione americana, anche i film usciti da una settimana. “C’è anche un reparto di vecchi film,” mi dice Hassan – guardo per capire quale tipo di classici vi si trova e vedoSpider-Man. Tutti i film sono minuziosamente ordinatipergenere,poi inordinealfabeticoper attore (Tom Cruise, Matt Damon, Leonardo DiCaprio, Harrison Ford, Brad Pitt, Arnold Schwarzenegger, Will Smith ecc.). Ci sono anche numerose serie televisive americane. Come all’interno del quartiere sciita, il venditore mi spiega in inglese che i dvd sono fabbricati in Cina, ma sonomasterizzatiqui,a Sabra e Chatila, scaricati da internet (non vuole dirmi dove si trova il laboratorio clandestino in cui si approvvigiona). C’è un settore di programmi piratati per il sistema Windows, un settore di videogiochi, ma si trovano anche i discorsi di Hassan Nasrallah in cd e il settore islamista. Tra i diversi dvd vedo anche Valzer con Bashir. Sapendo che questo notevole film d’animazioneisraeliano sulmassacrodiSabrae Chatila è stato censurato in Libano, come tutti i film israeliani, e che la sua diffusione è totalmente illegale e perseguibile, chiedo al venditore perché lo vende. “Non è un film ebreo, è un filmarabo,locompri,è davvero bello,” mi dice ilvenditorechenonha ancora sedici anni (mi sidiràlastessacosain seguito, nel quartiere Bahsa a Damasco, in cui migliaia di dvd piratati americani sono venduti per strada e in cui si può acquistare altrettanto facilmente ValzerconBashir). Sempre nello scantinato di questo negozio palestinese, Hassan mi porta in un’altra sala che, secondo lui, dovrebbe interessarmi. Sono immediatamente sbalordito per ciò che vedo: c’è un settore, molto frequentato, pieno di film pornografici. Film americani, asiatici e anche arabi. Sulla custodia dei dvd ci sono donne con il velo eincuiilvelosiferma all’altezza della vita e poi nude sotto, oppure donne con il velo e sottovesti luccicanti. Non oso chiedere se ci siano film pornografici gay. In seguito, ho visto tre negozi di questo tipo a Sabra e Chatila, non particolarmente frequentati ma estremamente facili da identificare, e se le autorità lo volessero, da chiudere. Sembra certo che tutti – gli imam del campo, i responsabili politici sunniti, gli ufficiali palestinesi, le autorità libanesi – lascino fare deliberatamente pur conoscendo questa grande diffusione dell’intrattenimento di Hollywood, di soap opera americane e di film pornografici. “Si possono trovare altrettanti film porno dagli sciiti di Haret Hreik,” mi dice il venditore palestinese sunnitadiunodiquesti negozi vicino alla via Sabra. Capisco dalle sue parole che si sente rassicurato da questa dichiarazione improvvisa. Al Arabiya, quando i sauditientranoingioco A una decina di chilometri da Dubai, sulla strada in direzionediAbuDhabi, la Dubai Media City è come un miraggio nel deserto. Fino a cinque anni fa, la città dei media dell’emirato arabo non esisteva. Oggi un cartello indica con fierezza “The largest media production zone in the world” (la zona di produzione di media più grande al mondo). Ci arrivano autostrade giganti che si fermano nel deserto come se fossero insabbiate e non andassero da nessuna parte; in questa zona sono cresciute come funghi 1300 aziende del settore audiovisivo, della stampa e di internet; ci sono un centinaio di grattacieli, affiancati da enormi gru, la cui costruzione si è interrotta con la crisi immobiliare del 2008 e il quasi fallimento dell’autunno 2009; da lontano si vedono due torri gemelle che sono la copiadell’EmpireState Building. A Dubai, emirato di un’irriverente sovrabbondanza di ricchezza,lospettacolo preferito degli emiri sono le corse dei cammelli con un robot al posto del fantino (i bambini sono stati vietatipernonrovinare loro la colonna vertebrale). Mazen Hayek tiene a sottolineare che non si tratta di cammelli, ma di dromedari: “Qui non cisonocammelli”. Nella sede del gruppo Mbc nel cuore dellaDubaiMediaCity, dove l’emittente Al Arabiya ha il quartier generale, mi riceve Mazen Hayek. È il portavocedelgruppo,è un caloroso libanese chehogiàincontratoa Parigi, mi parla in francese. “Siamo un gruppo saudita con sede negli Emirati,” precisa subito per evitare ogni confusione. Come Al Jazeera, emittente del vicino Qatar e odiato concorrente, Mbc ha cominciato a trasmettere a Londra nel 1991, per comunicare con gli arabi emigrati. Dal 2002 il gruppo si è insediato a Dubai. “Contrariamente ad Al Jazeera, noi seguiamo una logica commerciale. Tra i gruppi di media arabi siamo l’unica azienda in attivo. Vogliamo difenderelamodernità, favoriamo l’edutainment e siamo molto legati ai valori arabi,” sintetizza Hayek. Nelle mie inchieste all’interno dell’industria della televisione araba ho sentito spesso il termine“edutainment”, che mette insieme educazione e intrattenimento. È un’espressione che si può tradurre come educare attraverso il divertimento. “È divertimento intelligente,” spiega Mazen Hayek. Per lui come per gli altri miei interlocutori arabi, è unterminecheassume un comodo significato politico, poiché l’edutainment arabo si distingue dall’entertainment americano, considerato abbrutente e poco conforme ai valori dell’islam. Si tratta di una precauzione linguistica giustificata da questioni religiose. Del resto, Mazen è consapevoledelquadro della situazione: “Siamo odiati dagli islamisti radicali, dai talebani, da Al Qaeda, dai religiosi, da Hezbollah. Rifiutano tutti l’intrattenimento poiché nell’islam radicale non c’è posto per il divertimento. I nemici dell’intrattenimento sono gli islamisti”. Diverse serie televisive arabe realizzate secondo format occidentali (Loft Story nel Bahrein, Star Academy in Kuwait, Libano e Arabia saudita, Super Star in Libano e Siria) hanno dato luogo a fatwa emesse da religiosi e hanno suscitato manifestazioni di ostilità e di condanna della“SatanAcademy”. “Per quanto riguarda il pubblico, cerchiamo di raggiungere i 350 milioni di arabi nel mondo e l’1,5 miliardi di musulmani. Ma se sappiamo comunicare agli arabi, comunicare ai musulmani è molto più difficile: gli iraniani, gli indonesiani, gli indiani sono forse musulmani come noi, ma hanno valori spesso molto lontani dai nostri e naturalmente non parlanoarabo.” Mofeed Alnowaisir è il responsabile dei nuovimediadiMbc.Gli faccio visita nel suo ufficio alla sede del gruppo a Riyadh e resto sorpreso dalla sua giovane età e dal suodinamismo. È vestito con una lunga thobe bianca, l’abito tradizionale saudita, ma sullo schienale della sua sediac’èunabitoFcuk. Mi chiedo, senza formulargli la domanda, se per caso usi l’abito tradizionale allavoroepoisicambi per andare nei centri commerciali con gli amici a Riyadh. Il giovane principe mi spiega la strategia del suogrupposuinternet. “La nostra strategia è raggiungere tutti nella zona araba, a differenzadiAlJazeera che si orienta su una nicchiaediRotanache si interessa solo al mercatodeigiovani.La nostra filosofia e il nostro business plan sono diversi. Raggiungeremoinostri obiettivi grazie al digitale.” Con quel linguaggio, mi fa pensare a un giovane imprenditore di startup della Silicon Valley. Anche lui parla di musulmani, soprattutto di iraniani e indonesiani. Lascia intendere che attraverso internet sarà possibile raggiungere molte più persone. A registratore spento, un altro responsabile di Mbc in Arabia saudita mi dice che uno degli obiettivi delgruppoèdiffondere programmi in Iran, ma siccome è vietato trasmettere da Riyadh e Dubai in persiano, Mbc aggira la regola diffondendo i suoi programmi verso l’Iran in arabo, ma con sottotitoliinpersiano. La ragione di queste trasmissioni da Dubai verso l’Iran sta anzitutto nei forti legamicheesistonotra iduepaesiperviadella presenza a Dubai di decine di migliaia di iraniani – forse centomila – e soprattutto di lavoratori immigrati che fanno avanti e indietro con il loro paese e di cittadini fuggiti dal regime islamista iraniano dopo il 1979, spesso artisti, intellettuali o mercanti del suk di Teheran. In secondo luogo, per ragioni demografiche: la popolazione iraniana è particolarmente giovane e il mercato dell’intrattenimento è di certo in aumento. In questa zona, in cui la richiesta è forte e l’offerta censurata, ci sono dunque prospettive commerciali illimitate. Infine, per ragioni politiche, i paesi del Golfo, e in modo particolare l’Arabia saudita,conduconouna guerra fredda con l’Iran e cercano di “arginare” il regime utilizzando i media attraverso la battaglia delle idee e delle immagini. Tutto concorre a far diventare Dubai la piattaforma commerciale strategica attraverso cui trasmettere flussi d’informazione e di contenuti tra Iran e resto del mondo. Voice of America e Bbc in persiano, le emittenti musicali iraniane come Persian Music Channel vi si sono insediate e garantiscono i legami tra Iran e Occidente. Queste reti all’interno dei paesi del Golfo si basano spesso sull’importante comunità iraniana presente a Los Angeles,cheassicurail legame con gli Stati Uniti. Dubai è quindi oggi una capitale dell’industria dei contenuti, una sorta di HongKong,diMiamio di Singapore per il mondo arabo nel suo complesso e per il mondo persianoiranianoinparticolare. VisitandoilocalidiAl Arabiya a Dubai, facendo un giro negli studi televisivi in cui si registrano i programmi, assistendo alle trasmissioni, sono sorpreso dalla libertà delle donne, quasi sempre senza velo, e dalfattochetrauomini e donne ci siano relazioni distese. Il gruppo Mbc ha insediato la sua emittente Al Arabiya all’interno della Dubai Media City, gran parte della produzione televisivaèconcentrata qui perché questa è una “free zone”, libera in tutti i sensi. È sicuramente una zona franca sul piano economico poiché le aziende non pagano né tasse, né diritti doganali. Inoltre, come in Svizzera, esiste un segreto bancario che facilita i trasferimenti monetari dall’Iran, i movimenti di capitali tra paesi nemici e soprattutto il riciclaggio di denaro sporco. Ma la cosa più importanteècheDubai è un mercato pubblicitario in cui le agenzie di comunicazione acquistano spazi per tutto il mondo arabo. Se all’interno del settore della televisione araba c’è una forte concorrenza, con oltre cinquecento emittenti, quello della pubblicitàèfortemente concentrato: “Il 50 per cento della pubblicità per le televisioni satellitari gratuite è nelle mani di una decina di emittenti”, riconosceDaniaIsmail, direttrice della strategia di Mbc. Chiedo se, con la crisi del 2009, Dubai è in pericolo. Dania Ismail mi risponde: “Sa, si ha l’abitudine di dire che ilmercatopubblicitario oscilla tra Beirut e il Golfo. Ogni volta che c’è una crisi a Dubai, gliinserzionistivannoa Beirut. Ma ogni volta che c’è la guerra a Beirut o che Hezbollah va al governo in Libano, tornano a Dubai. Se vanno via, aspettiamo che ritornino”. Infine, Dubai è una zonaliberaperimedia, internet e i costumi. “Qui non c’è alcuna censura, non c’è alcun controllo,” dice compiaciuto Mazen Hayek, portavoce di Mbc. Poi aggiunge: “Nei nostri talk-show siamo molto liberi, parliamo di tutto, di donne che rifiutano di portare il velo, di gay. Ma nel contempo non siamo qui per disjoncter la società araba (usa il termine francese per dire ‘mandare in tilt’). Tutti i nostri talk-show sono registrati, e se necessario editati. Abbiamo regole molto precise, per esempio non si possono dire parolacce. Non si improvvisa mai nulla. Non si verificano incidenti. Se mai ce ne fossero, tagliamo”. La star Lojain Ahmed Omran, un’affascinante saudita, che presenta la fascia mattutina di Mbc 1 e parla tutti i giorni a milioni di arabi, conferma: “Siamo sempre un po’ in bilico. In televisione non porto il velo, cosa rara per una donna saudita, ma metto un foulard per non provocare. Facciamo soprattutto edutainment. Parlo di tutto,manelcontempo devo essere didattica e diplomatica. Se spingessi le donne a essere lesbiche chiuderebbero l’emittente!”. In termini di libertà, un altro mio interlocutore all’interno di Mbc, che preferisce restare anonimo per ragioni evidenti, mi dice comunque che “a Dubai la libertà è relativa: non si può bere, non si può spergiurare,nonsipuò mostrare una donna svestita o in costume da bagno e anche i segni d’affetto tra uominiedonnedevono essere molto limitati. Non è l’Arabia saudita, ma è comunque un ‘islam del deserto’, quello dei beduini, in fondopiùtollerantema anche più arcaico”. Le riprese di una versione araba di Sex and the City che avrebbe dovuto essere realizzataaDubaisono state rifiutate dall’emirato che, nonostantetutto,opera secondo la legge coranica.Così,glistudi sono utilizzati quasi esclusivamente dai paesi arabi e talvolta da Bollywood. Mai dagli occidentali. Di fatto, i programmi più “liberi” di Mbc non sonoregistratiaDubai, ma a Beirut, al Cairo e forse ben presto ad AbuDhabi. Negli Emirati arabi uniti è stata a lungo vigente una tacita ripartizione del settore audiovisivo: Abu Dhabi finanziava e Dubai produceva. La prima aveva le banche, la seconda gli studi. Di recente, Abu Dhabi ha creatolapropriaMedia City e, di fronte agli errori finanziari e speculativi della capitale del vicino emirato, intende approfittare della ricchezzaperattirarea sé un po’ del buzz dell’intrattenimento arabo. Alle manie di grandezza di Dubai fanno eco quelle dei banchieridiAbuDhabi, ben decisi a soppiantare l’emirato caduto in disgrazia e recuperare un po’ del suo glamour. Resta il fatto che i canoni morali di Abu Dhabi sembrano ancora più rigididiquellidiDubai. Soprattutto, i due emirati possiedono entrambi infrastrutture e mezzi economici importanti ma pochi contenuti: sono poco popolati e privi di una classe di creatori, devono sempre ricorrere ad artisti, registi, tecnici specializzati e sceneggiatori di Libano,EgittoeSiria,e ciò frena il loro sviluppo. Il futuro dirà se queste città sorelle saranno capaci di restare a lungo le capitali dell’intrattenimento arabo, oppure se saranno state solo un miraggioneldeserto. QuandosiparladiAl Arabiya e della sua concorrenza diretta con Al Jazeera, c’è un ultimo tema che deve essere affrontato, quello del ruolo degli americani nella sua nascita. Molti miei interlocutori in Palestina, Siria, nel Qatar, a Dubai hanno insinuato che Al Arabiya sarebbe nelle manidegliamericani.È un’ipotesi plausibile, ma poco provata. Sul tema intervisto Abdul Rahman al Rashed, amministratore delegato di Al Arabiya, che, naturalmente, nega qualsiasi legame. Sostiene che i sauditi di Mbc non hanno in ogni caso bisogno del denaro americano, “i mezzi finanziari non sono per nulla un problema per Al Arabiya”. Rahman al Rashed mi fornisce comunque due informazioni fondamentali e teoricamente riservate, cioècheilbudgetdiAl Arabiya sarebbe “attorno ai 120 milioni all’anno, ovvero il 50 per cento di quello di Al Jazeera in arabo” (ovviamente è impossibile verificare questi due dati fondamentali). Lo specialista di media sauditi, Saoud al Arifi, intervistato a Riyadh è più moderato: “Se ricevono denaro americano per vie traverse? Dalla Cia? Forse sì. Forse no. Dubito”. Ho intervistato altri esperti e tutti confermanoilfattoche non esistono legami strutturali, o scambi finanziari, tra gli Stati Uniti e l’emittente saudita, ma sottolineano la possibilità di “convergenze di interessi”. Uno di loro precisa,acondizionedi restare anonimo: “Gli americani, come i sauditi, sono interessati al fatto che esista una vera concorrenza ad Al Jazeera, questo è ciò che li unisce”. Un diplomaticooccidentale in carica a Riyadh afferma invece che “Al Arabiya,vuoleesserela voce del mondo arabo, primadiesserelavoce del mondo musulmano – in fondo il contrario di Al Jazeera. Mbc, al quale appartiene l’emittente, è un gruppo schermo che riflette la posizione del regime saudita, come Al Jazeera riflette quella del Qatar. Su alcuni temi come Iran, Hezbollah, Siria, l’emittente può risultare vicina agli interessiamericani,ma il legame con gli Stati Uniti è molto improbabile. Il re Abdallah dell’Arabia saudita, che è entrato in una logica di guerra fredda con gli sciiti, conduce una diplomazia dei media, la sua”. Tuttavia, le relazioni commerciali con gli americani sono numerose: Mbc per esempio ha recentemente siglato unaccordoesclusivodi treanniconParamount per trasmettere i film di Hollywood sui suoi canali di cinema. Diversi interlocutori a Los Angeles mi hanno confermato che esistono accordi simili conDisneyeWarner. Lascio Dubai un po’ sconvolto. In questo piccolo emirato praticamente non ho visto autoctoni, gli emiri, oziosi privilegiati. Ho visto soprattutto libanesi e immigrati del Pakistan, dal Bangladesh e dall’India (Mumbai è a solo due ore e mezza da Dubai). Portandomi all’aeroporto, l’autista del taxi, un po’ perso fra tutte le strade con ostacoli nella Dubai Media City, chiede più volte indicazioni a lavoratori indiani e hindi. Poi passiamo davanti a un immenso centro commerciale e midice,ininglese:“Èil Dubai Mall. Il più grande shopping mall al mondo, con il più grande hotel internazionale e il più grande multisala del pianeta”. È visibilmente meravigliato. Poi fa un cenno: “Guardi, è la BurjDubai,latorrepiù alta del mondo. Non ci crederà,èaltaquasiun chilometro”. Ilfiumedellaverità Hala Hashish in Egitto è una star. Contrariamente alle sue assistenti non porta il velo, ma occhiali neri: “È il mio modo di portare il velo,” mi dice sorridendo. “Non sto scherzando, questa mattinanonhoavutoil tempo di truccarmi.” Incontro Hala Hashish più volte al Cairo, nel grande edificio circolare della radiotelevisionenazionalein cui lavorano oltre quarantamila egiziani. Come a Parigi, Yaoundé, Shanghai anche qui l’edificio della radio-televisione pubblica è tondo, circolare e, al Cairo, c’è anche un personale pletorico che gira in tondo. Hala Hashish dirige una sorta di Cnn egiziana, emittente televisiva nazionale di informazione continua, Nile News Tv (Egypt NewsChannel).Èstata presentatrice dell’hit parade di musica egiziana At your Request e di Arabic Chart, trasmissione di musica famosa da Beirut a Tunisi, al quale il pubblico partecipava per telefono o con sms a pagamento (che finanziavanoloshow)e conosce bene le tecniche mediatiche popolari. Dal momento che aveva lavorato anche per conto del governo egiziano, all’interno dell’agenzia ufficiale di informazione, conosce ancheilpolitichese. Lo slogan della sua emittente è “The River ofTruth”(Ilfiumedella verità).Sullaparetedel suo ufficio, un grande ritratto di Hosni Mubarak ci osserva: “Sono una donna forte”, dice chiedendo con fermezza a un cameriere di avere un caffè e la sua borsa. Peraltro, mentre discutiamo, un fiume continuo di camerieri, consulenti, giornalisti (anche uno dell’odiata concorrenza di Al Jazeera) sfila nel suo ufficio, e questa donna mi pare effettivamente forte. Mi è stato raccontato che aveva fatto mettere la fotocopiatrice di Nile NewsTvnelsuoufficio per controllare chi la utilizzava. E non è solo una voce, nell’ufficio vedolafotocopiatricee tutti quelli che se ne servono passano davantialei. L’emittente, il cui obiettivo non dichiarato è la concorrenza ad Al Jazeera, trasmette ventiquattr’ore su ventiquattro in arabo. Ilcanalerappresentail governoegizianoedice di essere un media “moderato”, così come l’Egittosidefinisceuno “stato moderato”, spiega Hala Hashish. Poi aggiunge: “Al Jazeera è un’emittente più negativa, più critica, noi siamo invece positivi. La nostra formula è fatta, nel contempo, di informazione e divertimento. Abbiamo inventato il format news & entertainment”, dice Hala Hashish, senza rendersi conto che è la formuladiAlJazeerae, da oltre vent’anni, di numerose emittenti americane. Allora le dico: “Ha ragione, è una formula di Al Jazeera: un insieme di newsedentertainment, è questo che ne ha fatto il successo”. Dunque, come tutti, anche l’emittente pubblica egiziana trasmette sempre più talkshow “live” per unire cultura, varietà e sport all’informazione. Tuttelesere,lacelebre trasmissione Live from Cairofausoeabusodi questo format. “L’informazione fa parte dell’intrattenimento,” concludeHalaHashish. LatelevisionedelSud Qualche mese dopo mi trovo a Caracas, in Venezuela, nell’ufficio di Andrés Izarra, presidente onnipotente di Telesur. Giovane, muscoloso,abbronzato, in jeans e scarpe da ginnastica,Izarramidà l’impressione di un omosessuale di West Hollywood appena uscito da una palestra. Gli comunico le mie impressioni. “Cerco di fare sport tutti i giorni e la mia palestra è vicinoall’ufficio.Masa, da quando sono l’uomo di Hugo Chávez nei media, ho una vita sociale molto limitata. Non posso uscire che subito vengo additato. Allora trascorro il tempo qui a lavorare, sto con mia moglie e i miei due figli.” Poi prende il telefono che aveva appena fatto un bip.Rispondedigitando alcune parole. Mi dice: “Era un sms di Chávez”. Non so se fosse vero o meno, comunque Izarra, trentacinque anni, è gia stato due volte ministro della Comunicazione di Chávez, presidente venezuelano autoproclamatosi leader del “socialismo del Ventunesimo secolo”.Midicediaver lavorato prima come corrispondente di Cnn, Nbceperlatelevisione venezuelana. Parla correntemente inglese, tedesco e francese. È stato anche consigliere dell’ambasciata del Venezuela negli Stati Uniti. Da due anni è stato chiamato da Chávez a presiedere una delle emittenti più importantidell’America latina, Telesur. È una televisione che trasmette ventiquattro ore su ventiquattro ed è stata chiamata dai numerosi oppositori “TeleChávez”. Telesur (Tele Sud, in spagnolo) è stata avviata nel 2005 dal Venezuela con il sostegno finanziario e logistico di sei paesi “fratelli”: Cuba, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Uruguay, Argentina (ma al progetto non hanno contribuito né il Brasile, con cui il Venezueladialoga,néil Messico, il Perù e il Cile, nemici giurati, né soprattuttolaColombia considerata, a causa della sua vicinanza con gliamericani,“l’Israele dell’America latina”). “Non siamo un’emittente di propaganda. Abbiamo un punto di vista, il punto di vista della sinistra. E difendiamo l’America latina. Durante il colpo di statoinHonduras,Cnn Español parlava solo della morte di Michael Jackson. Noi parliamo di questa regione. Ci occupiamo di America latina. Cnn Español se ne frega. Noi amiamo sinceramentel’America latina. Vogliamo dare una voce al Sud,” precisaIzarracontatto e professionalità. Dietro di lui c’è un quadro immenso che rappresenta Fidel Castro; sulla sua scrivania c’è una fotografiadiCastrocon un berretto di Telesur; più in là, su una scrivania strapiena di libri,c’èunafotodilui, consuofiglioeChávez. Osservo tra me e me che mancano solo Simón Bolívar e Che Guevara. È stato il colpo di stato in Honduras a portare alla ribalta Telesur, un po’ come, con le debite proporzioni, l’attacco aereo americano ha fatto conoscere Al Jazeera a tutto il mondo. Mentre Cnn Español, che trasmette da Atlanta, generalmente tace sulle guerriglie di estrema sinistra o tratta a margine nelle sue informazioni le vicende di Bolivia ed Ecuador,Telesurrende conto di qualsiasi evento, sempre in diretta. L’emittente ha un’importante équipe anche a Cuba, le immagini sono fornite gratuitamente dall’ufficio di Telesur a L’Avana, finanziato da RaulCastro. Chiedo a Izarra di quale budget disponga per la sua televisione neoguevarista. “Ho 50 milioni di dollari l’anno,” risponde con aria sincera. Dal momento che l’emittente ha 400 dipendenti, 12 uffici all’estero, altre sedi che apriranno a Portorico, Madrid e Londra nel 2010, e considerati i grandi investimenti fatti nel digitale e nel satellitare, mi rendo subitocontochequesta cifraèfalsa.Cosìcome sono sicuro che mente quando mi dice che Chávez non interviene mai nella linea editoriale di Telesur. Il presidente-militare è celebre per la trasmissione Aló Presidente, sulla televisione del regime: èunadiscussioneconil “popolo” di quattro o cinque ore tutte le domeniche ed è ritrasmessa su tutti i canali del paese su semplice sua richiesta. “Chávez vuole essere sempresuTelesur,non rispetta l’indipendenza deimedia,anchequella dell’emittente meno indipendente del Venezuela,” dice con ironia il patron di un’emittente concorrente. La maggior parte dei miei interlocutori in Brasile, Messico, Argentina ha sottolineato il fallimento del progetto di Telesur e i suoi ascolti ridicoli. Faccio una domanda a Izarra su questo punto. “Siamo molto soddisfatti della nostra audience. In Venezuela siamo leader nell’informazione. Altrove siamo in crescita. Telesur è un’emittente giovane, trasmettiamo da soli quattro anni. La battaglia si gioca sul fronte dei media e in America latina sono tutti di destra. Ma la rivoluzionediBolívarin Venezuela ha aperto il futuro e ha creato una via per la democrazia. C’è un nuovo soggetto di fronte all’élite, i poveri. La democrazia cresce. I successi della rivoluzione di Chávez sono oggettivamente importanti. Quelli che sono stati esclusi dai ricchi, dai monopoli, dai conservatori hanno presoilpotere.Telesur è la loro emittente.” Andrés Izarra parla velocemente, più come un guerrigliero che come un manager americano. È agitato, rapido, molto efficace, muove le mani, prende uno dei suoi tre cellulari, tra cui un iPhone e un Blackberry, dà un’occhiata al suo iMac. Riprende: “Certo, c’è una rivoluzione in corso all’internodeimediain questo paese, la democratizzazione dell’informazione è necessaria. È una guerra. Ciascuno deve scegliere il proprio campo. L’opposizione continuerà a logorarci e noi continueremo a proteggere la rivoluzione. Li oscureremo se necessario perché una televisione di merda come Globovision merita di essere bandita, neanche in Francia sarebbe mai autorizzata. Rctv era un’emittente in posizione monopolistica. Noticias 24 è la voce degli americani in Colombia. Abbiamo interrotto il monopolio di Cnn Español. Abbiamo restituito una voce al Sud. Il nostro slogan è ‘Nuestro Norte es el Sur’(IlnostroNordèil Sud). Siamo l’equivalente di Al Jazeera per l’America latina”. Izarra si alza improvvisamente e soffermailsuosguardo con tenerezza verso le colline del quartiere Boleita Norte di Caracas, dove si trova il barrio Petare – una dellepiùgrandifavelas dell’America latina (in Venezuela le favelas si chiamano“barrios”). Il magico nome di Al Jazeera è stato pronunciato. Andrés Izarra non vuole parlarne troppo, ma so che esiste un importante accordo di collaborazione tra Telesur e Al Jazeera. “Ci scambiamo immagini,” mi dice semplicemente. Poco dopo, nella newsroom di Telesur vedo giornalisti tradurre alcuni programmi di Al Jazeera, facilmente riconoscibili dalla fiamma color oro. Nel congedarmi, Andrés Izarra mi fa un regalo: una biografia di Simón Bolívar in spagnolo, pubblicata dalle edizioni della presidenza della “Repubblica socialista bolivariana del Venezuela”. Mentre lo ringrazio, vedo in corridoiounafotografia appesa al muro, il celebre ritratto di Che Guevara del fotografo Korda. Bolívar, Guevara, Chávez e Castro,èlaquadratura del cerchio del pensiero socialista in vogaaCaracas. “Con Telesur, vogliamo costruire un ponte tra America latina e mondo arabo,” mispiegalaserastessa all’internodiunpiccolo bardiunquartierechic di Caracas, Dima Khatib. Dima dirige l’ufficiodiAlJazeerain Venezuelae,misidice, è vicino ad Andrés Izarra e Chávez. “Chávez voleva creare una sorta di Al Jazeera in America latina e io ho lavorato con Andrés perprogettareTelesur. Chávez vuole fare di Telesur il primo media dell’America latina e si ispira molto ad Al Jazeeracheèriuscitoa diventare il primo media del mondo arabo.” Dima Khatib è palestineseedènatain un campo in Siria, ha una formazione da interprete e parla correntemente arabo, spagnolo, inglese e francese e lavora per l’emittente araba fin dagliinizi.Èunafigura nota di Al Jazeera e ha scelto di trasferirsi in Venezuelaperaprirein America latina l’ufficio regionale dell’emittente. “Da Caracas abbiamo la copertura di tutta l’America latina, abbiamo un piccolo ufficio in inglese a Buenos Aires e un corrispondente in Brasile, ma gran parte del lavoro viene fatto dal Venezuela. Sono l’unica corrispondente straniera a viaggiare con Chávez. Ci conosciamo bene. Noi vogliamo svegliare il mondo arabo e Chávez vuole cambiare l’America latina. Ci capiamo. Abbiamo costruito un’asse sudsud,”precisaKhatib. Con l’accordo segreto stretto con Al Jazeera (e che mi è stato descritto nel dettaglio da due interlocutori a Doha e Beirut), Telesur può ottenere gratuitamente le immagini a sua scelta dei programmi dell’emittente araba. Secondo alcune indiscrezioni, nel corso del 2010, Telesur apriràinoltreunufficio a Doha e uno a Damasco,sempreconil sostegno di Al Jazeera. In cambio, i corrispondenti di Al Jazeera a Caracas possono usare a loro piacimento gli studi di Telesur e le strumentazioni tecniche. Di sicuro, il sodalizio va oltre ed è fatto anche di scambi di informazioni. Secondo alcuni miei interlocutori, probabilmente esistono anche accordi per facilitare le comunicazioni satellitari, ma escludono relazioni di denaro (il Qatar e il Venezuela sono paesi ricchi). Tuttavia, secondo il rappresentante del Congresso americano Connie Mack IV, un repubblicano eletto in Florida, “questa nuova alleanza tra Telesur e Al Jazeera ha come obiettivo la creazione di un network televisivo mondiale per i terroristi e i nemici dellalibertà”. Network di terroristi mi pare davvero eccessivo, ma di certo è in corso una guerra sul fronte dei media e delle immagini. La conferma viene semplicemente ascoltando gli oppositori di Chávez in Venezuela. Marcel Granier è tra questi, è l’amministratore delegato di Rctv, un’importante emittente che trasmette in frequenze hertz, specializzata in informazione, intrattenimento e telenovele, che si è vista ritirare l’autorizzazione a trasmettere da parte del ministero della Comunicazione di Chávez. “Il futuro di Rctvdipendedalfuturo del Venezuela,” commenta rassegnato Granier,inunlussuoso salone all’interno della superprotetta sede di Rctv, nell’edificio storico che ospitava in precedenza Radio Caracas. “Lei crede che qui viviamo in una democrazia?” mi chiede gentilmente Granier per testarmi. Evito di esprimermi, ma decidiamo di proseguire l’intervista inmodofranco.Conun francese si sente in territorioamicoeparla sapendo che ne riporterò le dichiarazioni: “Qui c’è una dittatura militare. C’èunacensuratotale, completamente arbitraria. C’è una censura politica, ma anche commerciale. Per esempio, saturano completamente il mercato pubblicitario per costringere le emittenti private a chiudere senza doverlo fare loro con la forza. Ci attaccano personalmente, è in gioco la nostra integrità fisica. Io ho paura per la mia famiglia e sento la mia vita in pericolo”. Gli chiedo se ha mai pensato di espatriare. “Sono venezuelano, questo è il mio paese. La mia famiglia sta a Miami. Ma i miei dipendenti sono qui, sono minacciato, denunciato. Ma amo il mio paese. Devo stare qui.” Gli chiedo poi la suaopinionesuTelesur e il suo direttore Andrés Izarra. “Dice di aver lavorato per Cnn, ma nessuno se lo ricorda. La mia televisione è stata proibita dal suo ministero.Nonl’homai incontrato. Telesur è un’emittentescellerata, molto più pericolosa di Al Jazeera poiché lavora in modi non conformi alle pratiche del giornalismo. Qui in Venezuela,Telesurnon può fare più disastri di quelli fatti da Chávez che ha rovinato l’economia, distrutto la democrazia e messo il bavaglio allo stato di diritto. Anche in Brasile e Argentina, l’emittente è piuttosto inoffensiva, sono grandipaesichenonsi lasciano influenzare. Invece Telesur è molto pericolosaneipaesipiù piccoli come Uruguay, Bolivia, Honduras e Guatemala, poiché conduce una guerriglia politica di estrema sinistra. Non è importante l’audience, è uno strumento strategico. È un’emittente che ha molto più peso di quanto possa sembrare. Fa letteralmente la guerra.” “Visit Israel, Before IsraelVisitsYou” Per andare da Gerusalemme a Ramallah prendo lo sherut (taxi collettivo) numero 18. È la seconda volta in vita mia che vengo nella capitale della Palestina e sono spaesato poiché nulla è cambiato. Prendo contatto con alcuni palestinesi di mia conoscenza, trovo unalbergodifortunae attendo la giornalista Amira Hass all’interno delbarStar&Bucksdi Ramallah. Il posto è una copia dei bar della celebre catena americana,manonèin franchising, il “caffellatte”costadieci shekel israeliani (quasi due euro). Alcuni ragazzi fumano la pipa adacqua,unodiquesti indossa una maglietta con la scritta “Nypd” (New York Police Department). Su uno schermo piatto gigante sintonizzato sull’emittente saudita Rotana passano videoclip con ragazze moltosvestite.Sulviale di questo bar si vendono cd piratati di RotanaeritrattidiChe Guevara. Improvvisamente, un camioncino con uomini di Fatah armati passa nellestrade,sparanoin aria. Mi sento comunquealsicuro. Poco dopo mando alcune e-mail dal cybercafé. Sono sorpresodallapresenza di decine di cybercafé che non c’erano nel mioviaggioprecedente nelcentrodiRamallah. La velocità di connessione è rapida e nel computer vicino al mio un ragazzo discute via Skype con i fratelli che vivono negli Stati Uniti. Altri clienti consultano siti israeliani o cercano di rimorchiare ragazze su siti di incontro arabi. Unodeigiovaniuomini concuiparlomichiede di prestargli il mio iPod, mette le cuffie e capita su un brano di Re Leone (forse sorprende che ci sia questa musica sul mio iPod): “È Simba”. Conosce il film a memoria, anche il suo amico.Nonhannovisto il film né al cinema, né in televisione, ma “sul computer”. La falsa leggenda africana americanizzata (simba significa leone in swahili)funzionaanche inPalestina. Poco dopo, Amira Hassarrivadasola.Ha i capelli neri e una mèche davanti, porta un foulard verde e blu fluorescente attorno al collo. Sorride, parla con calma, ha una dolcezza evidente che dissimula uno spirito rivoltoso. Il parabrezza della sua auto, sulla sinistra, ha fori di proiettile: “Non ero in macchina quando c’è stato questo scontro armato tra Hamas e Fatah”, precisa. Allo specchietto retrovisore ha attaccato un pendaglio con sopra Che Guevara. Nello scenario politico israeliano, Amira Hass è considerata di estrema sinistra. Il programma della giornata prevede un giro in Palestina, tra i check-point, i media e laculturalocali. Poco dopo la nostra partenza, all’uscita di Ramallah c’è il primo check-point. Ingenuamente, penso che stiamo rientrando in Israele. “Sbagliato,” midiceAmiraHass.“È quanto l’esercito israeliano vuol far credere. Di fatto, in Palestina ci sono check-point dappertutto. L’esercito israeliano dice che è per questioni di sicurezza, ma in realtà èpercrearequelloche chiamo ‘designated territoiries’, marcare il territorioisraeliano.” Amira Hass è una delle più celebri giornaliste del Vicino Oriente(eunadellepiù premiate sul fronte internazionale). È israeliana ed è corrispondente fissa dalla Cisgiordania del quotidiano di Tel Aviv “Haaretz”. È l’unica giornalista ebrea israelianacheabitanei territori palestinesi (primaaGazaapartire dal 1993 e poi a Ramallah dal 1997). È figlia di genitori sopravvissuti allo sterminio nazista degli ebrei ed è nata a Gerusalemmenel1956. I suoi reportage sono generalmente favorevoliaipalestinesi e la sua specializzazione è la minuziosaanalisi,quasi scientifica, della colonizzazione israeliana in corso nei territori. I lettori di “Haaretz” chiedono il suo licenziamento con centinaia di lettere. Peraltro, ha avuto numerosi contrasti anche con Yasser Arafat e Fatah, di cui ha spesso denunciato l’incuria, lo sperpero, la corruzione. “Sono moltocriticaanchecon ipalestinesi,nonsipuò direchesiatuttacolpa degli israeliani,” dice AmiraHass. Mentre viaggio con lei la osservo lavorare. A ogni checkpoint, in ogni punto di approvvigionamento di acqua, ogni volta che una via è decretata “sterile” (termine ufficiale israeliano per indicare che è vietata la circolazione dei palestinesi, benché ci troviamo in Palestina), ognivoltachevedeuna terra confiscata, quando vediamo il “Muro” (a un certo punto vedo la scritta “StoptheWall”),Amira Hass scrive. Guarda la cartina, confronta i tracciati delle strade, constatalacomparsadi chiusure elettrificate (“che mettono i palestinesi in gabbia,” dice), segue minuziosamente gli spostamenti della “frontiera” – il suo tema principale – e prende appunti a tutta velocità sul suo computer Dell. “Sono molto fact-checking, non sono emotiva. I go by the numbers,” dice per insistere sulle sue descrizioni meticolose incuiriportadati,fatti, cartine, strade, tunnel, ponti, deviazioni. A Tel Aviv, il caporedattore la considera un po’ ossessiva. Nei quartieri palestinesi scopro spesso in vendita, sui marciapiedi come ovunque,migliaiadicd edvdcontraffatti,molti sono americani. “I palestinesi odiano gli americani, ma si tratta diunantiamericanismo sentimentale, romantico, non ideologico. Ascoltano musica americana e guardano i film di Hollywood come tutti,” spiega Amira Hass. Sonoineffettisorpreso di trovare la maggior parte degli ultimi film di successo hollywoodiani nelle vie di Ramallah e in altre cittàdellaPalestina.“Il paradosso è che i giovani palestinesi dellaCisgiordaniasono molto più americanizzati in generale dei giovani degli altri paesi arabi: questo si spiega con la loro vicinanza con Israele,” conferma AmiraHass. Il culto per i film americanièunpuntoin comune tra giovani israeliani e giovani palestinesi. Tuttavia, Benny Ziffer, caporedattore del quotidiano israeliano “Haaretz” (il giorno in cui l’ho intervistato indossavaironicamente una maglietta con la scritta “Visitate Israele prima che Israele venga a farvi visita”) relativizza questa vicinanza: “Quello dei palestinesi è un americanismo superficiale, quello delle marche e della moda, della musica pop, dei film di successo e di internet. Manelmomentoincui si entra nella cultura reale,quellachesivive in casa propria resta una cultura molto islamica. Per esempio, la cultura televisiva è molto musulmana, soprattuttoconleserie siriane, egiziane e in questo periodo con quelle turche che sono molto seguite in Palestina.Ilsuccessodi queste serie turche è rilevante, poiché sono nel contempo musulmane e più moderne rispetto al mondo arabo; in fondo è in questo modo che avviene un’americanizzazione indiretta, attraverso il filtro turco. Ma per il momento è ancora una cultura molto islamica”. Gael Pinto, critico cinematografico perlostessogiornalee intervistato alla sede, constata che in Israele non esiste un dibattito sull’America: “Contrariamente alla Palestina, qui non c’è dibattito sull’imperialismo americano o sulla dominazionedegliStati Uniti,èunfatto.Siamo talmente americanizzati che non c’è neanche bisogno di parlarne”. Un collega di Pinto, il celebre storico Tom Segev, ha scritto un libro sull’americanizzazione culturale di Israele e racconta come progressivamente lo stato ebraico abbia abbandonatoilmodello sionista, quello dei kibbutz o di un socialismo alla Ben Gurion, per dirigersi verso i valori del pragmatismo e dell’individualismo. La prova, mi dice, è che Israele oggi è una “start-upnation”,ilsuo dinamismo economico si spiega attraverso il più elevato numero di start-up rispetto a Giappone, India, Inghilterra. Il titolo del librodiTomSegev,che ricevo in dono, è sintomatico, Elvis in Jerusalem. Qualchetempoprima avevo fatto le mie inchieste a Gaza, in particolare nel campo di Jabaliya, e avevo potutoosservarecheAl Jazeera era guardata nella maggioranza delle case palestinesi, negli uffici in cui andavoedallefamiglie che mi accoglievano. Anzituttoeroincredulo, per via della grande povertàdiquesticampi palestinesi. Poi ho capito che quanto vedevo a Gaza, come a Ramallah, Betlemme, Damasco, Attaba Square (il mercato nel cuoredelCairodovesi trova quella che gli egizianichiamano“Cell Phone Street”, la strada dei telefoni cellulari) era una regola internazionale: ovunque si trovano facilmente decine di migliaia di antenne paraboliche e decoder satellitari, venduti tutti al mercato nero. Con l’equivalente di venticinqueeurosipuò comprare un decoder, con dodici una piccola parabola. Secondo alcune stime, solo il 2 per cento dei palestinesi ha un abbonamento satellitare legale, tenuto conto dei costi, mal’80percentodella popolazione delle città ha accesso a questi servizi in modo collettivo e illegale. Alla direzione dei grandi gruppi di media arabi,Mbc,Art,Rotana aRiyadheDubai,tuttii miei interlocutori mi hanno confermato che, secondo loro studi, la quasi totalità della popolazione araba, anche nelle zone più povere, ha accesso a una parabola e il tasso di penetrazione della televisione via satellite era pressoché totale. Abbiamotuttiimpresse nella mente le immaginidibeduininel deserto, con il dromedario e la parabola. “Qui la ricchezzadellefamiglie si misura con le dimensioni della parabola,” mi dice scherzando Ayman, uno studente di Gaza nel campo di Jabaliya. “Spesso dopo le ventidue non c’è più acqua né luce nelle strade, ma le televisioni restano accese. E più la parabola è grande più canali si prendono.” A casa sua sono accolto come un amico, mi si offre da mangiare e vengotrattatocomeun grande ospite. Su una cartina mi mostra il “suo villaggio”, Hulda, in terra israeliana. “Vengodalì”(ineffetti è suo nonno a esserne originario,madal1948 lasuafamiglianonciè più tornata). Appesa alla parete c’è una fotografia:“ÈSaid,mio fratello maggiore, è stato ucciso a Tsahal”. Su una televisione in soggiorno continua ad andareAlJazeera. Alla sede di “Haaretz”,aTelAviv,il giornalistaBennyZiffer conferma:“Nonappena il membro di una famigliaodiunclanha una parabola, tutto il quartiere riceve le televisioni satellitari gratuitamente. I palestinesi sono al corrente di tutto, nei villaggi più lontani e nei campi palestinesi più poveri. La Palestina, geograficamente, è un’enclave, ma sul fronte dei media è molto aperta e ampiamente ‘connessa’. Le persone vivono in una specie di prigione in cui l’informazione è incontrollata e illimitata. È un paradosso: la separazione e il muro con Israele e dall’altra partel’accessototaleai media. E più nessuno può fermare questa liberazione delle immagini nel mondo arabo, ormai senza alcunmuro”. Secondo un sondaggio del Palestinian Central Bureau of Statistics, il 75 per cento dei palestinesi di Gaza e della Cisgiordania utilizzerebbeAlJazeera come prima fonte di informazione. La seconda emittente sarebbe Al Manar, quella di Hezbollah, che mostra di frequente i bombardamenti e le vittime palestinesi. Abbandonando la striscia di Gaza, ho l’impressione assurda di una guerra mai terminata in cui l’esercito israeliano continuaadistruggere, con bombe finanziate dagli americani, insediamenti palestinesi finanziati daglieuropei. A Ramallah il capo dell’ufficio di Al Jazeera si chiama Walid al Omary. È una vera star nel network di Al Jazeera ed è anche una star in Palestina. Grazie a una rete di giornalisti corrispondenti ufficiali (una trentina) e di innumerevoli corrispondentiufficiosi, ha informazioni molto precise su quanto accade in tutti i territori palestinesi. Facendo uno dei lavori più pericolosi al mondo, questo araboisraeliano, nato in Israele vicino a Nazareth, che ha studiato all’Università di Tel Aviv, non abbandona mai i suoi tre cellulari (uno per i contatti nei territori occupati, un numero israeliano e uno per le chiamate internazionali). Deve la popolarità alla copertura che ha dato della seconda Intifada in Palestina a partire dal settembre 2000 (visita di Ariel Sharon sulla spianata delle moschee) e più recentemente alla Guerra di Gaza (20082009) in cui aveva sei reporter sul campo, mentre Cnn, Abc, Cbs e Bbc non ne avevanoalcuno,pervia delle restrizioni sui media imposte dall’esercito israeliano. Così, Al Jazeera è rimasta live per ventidue giorni per descriverelasituazione di Gaza. Non sono riuscito a incontrare WalidalOmaryquando eroinPalestina,mame ne hanno parlato in molti. Grazie ai suoi reportagefaesisterela resistenza palestinese nella quotidianità, attraverso le immagini, rendendola globalizzata e mainstream,pertuttoil mondoarabo. Nel contempo, Walid al Omary ha spesso denunciato, come Amira Hass, le derive dell’Autorità palestinese, e ciò gli è costatoalcuneminacce dal potere in carica a Ramallah. Essendo un arabo-israeliano (dunque è accreditato da Israele con un tesserino della stampa che gli permette di superare i check-point nei territori occupati), ha la possibilità di verificaretuttiifattidi cui è a conoscenza con le autorità israeliane e con i colleghi giornalisti ebrei, secondoilprincipiodel “fact-checking” americano, che gli permette di essere rispettato, per la sua deontologia, anche in Israele. “Walid è un grande giornalista, molto equilibrato, molto serio, è un modello,” spiega il presentatore di punta di Al Jazeera, Mohammed Krichen, intervistato a Doha. Dima Khatib, la palestinese che dirige l’ufficiodiAlJazeerain Venezuela, è ancora più esplicita: “Walid è un gigante, è un fenomeno.Èilsimbolo, luidasolo,dellanostra scuola di giornalismo. Ha problemi con tutti, ma tutti parlano con lui.Rappresentalevoci liberate di Al Jazeera e della Palestina messe insieme: ci ha fatto vedere la Palestina come non la conoscevamo e l’ha fattavederealmondo”. Nel corso della giornata trascorsa con Amira Hass in Cisgiordania, siamo entrati in diverse colonie ebree – gli accampamenti dei coloni israeliani, come all’epoca dei primi kibbutz, in cui olivi, eucalipti, pomodori crescono nel deserto. Una bandiera israeliana sventola sul settlement (si dice anche outpost). Una gru Caterpillar. Un colono ebreo con grosse mani da lavoratoreciriceve.Ha diversi ventilatori che fanno un rumore continuonelsuoufficio di caposquadra di una stazione radio legata all’esercito israeliano. Ascoltandoilcolonoho l’impressione di trovarmiinColoradoin mezzo agli evangelisti americani, ma qui si aggiunge la specifica mentalitàdell’assediato assediante. Contrariamente a quanto potessi immaginare, Amira Hass ha buone relazioni con i coloni e quello che incontriamo è anche uno dei suoi informatori.Anonimo. Rientrando a Gerusalemme, vedo giovani palestinesi saltare il “Muro”. Se l’esercito israeliano li vedesse, verrebbero uccisi. “Saltano perché altrimenti dovrebbero fare diversi chilometri per passare da un check-point. Il muro separa due quartieri dello stesso villaggio, talvolta passa anche tra le case della stessa famiglia,” mi dice AmiraHass. La sera, nelle strade della vecchia città di Gerusalemme,sentoun brano di musica araba che mi aveva colpito in Cisgiordania, ma di cui ignoro il titolo. Nelle bancarelle di alimentari, i venditori di vestiti, tutti sembrano ascoltare questa musica molto coinvolgente trasmessa afortevolumedacasse appese alle vetrine dei negozi. Il suono riecheggia sulle vie lastricate di pavé di Gerusalemme, così come risuonava a Ramallah, Betlemme, HebroneGaza. Chiedo a uno dei venditori, Hazem, un palestinese di Gerico, di trovarmi la canzone. Per qualche shekel, mi vende il cd che ho sentito dappertutto e che ho cominciato ad apprezzare involontariamente. La custodiaèinarabo.Poi ho saputo che era l’ultimo album di Amr Diab, distribuito dalla casa discografica Rotana. La rivoluzione che Al Jazeera è riuscita a fare per l’informazione nel mondo arabo, la sta facendo anche Rotana perl’intrattenimento. 15. Ilprincipedeimedia neldeserto Alle 14 in punto, un sabato – primo giorno della settimana in Arabiasaudita–,arriva il principe Al Waleed. La sua leggendaria puntualità è sorprendente. L’evidente scompiglio di qualche minuto prima da parte del personale lasciava presagire il suo arrivo. Nell’ascensore, le armi delleguardiedelcorpo erano visibili sotto le tuniche bianche. Le ragazze della reception, di una bellezza da fotomodelle,senzavelo né burqa, ma in pantaloni attillati e tacchi a spillo, si agitavano. L’arrivo del principe era annunciato.“Quinonlo chiamiamoil‘Principe’, ma il ‘chairman’,” correggeShadiSanbar, il suo più stretto collaboratore. In mezzo alla gigantesca hall c’è un immenso logo di Rotana: un mappamondo verde, il colore dell’islam, attraversato da una lettera araba stilizzata. Il messaggio è chiaro. MitrovonelregnodiAl Waleed, al cinquantottesimo piano della Kingdom Tower, uno dei simboli di Riyadh, capitale dell’Arabia saudita. La torre di vetro di novantanove piani di proprietà del principe somiglia a un banale apribottiglie ed è la sede della Kingdom Holding Company, la multinazionale finanziaria del principe. In realtà, il principe si chiama Al Waleed bin Talal bin Abdul Aziz al Saud, è principe di sangue, membro della famiglia reale dell’Arabia saudita, è nato nel 1955 ed è uno dei trentasette nipoti del fondatore del paese, re Abdul Aziz al Saud, di cui porta il nome come vuole la tradizione. È dunque nipote dell’attualereAbdallah e,dapartedimadre,è nipote del primo capo del governo del Libano moderno, paese di cui halacittadinanza.Èun imprenditore e uomo d’affari che ha fatto fortuna con la finanza internazionale e gli investimenti immobiliari, ed è così diventato uno degli uomini più ricchi del mondo. Ha investito capitali in una serie di società,diventandouno degli azionisti di peso di News Corp, Citybank, Aol, Apple, Walt Disney, eBay, PepsicoedEuroDisney. Al Waleed controlla inoltre diversi giornali influenti della regione, in particolare “Al Hayat”. È anche filantropoesostienegli studi islamici, per esempio all’Università di Harvard, e le arti islamiche, come al Museo del Louvre. Esattamente un mese dopo l’11 settembre è andato a New York a rendere omaggio alle vittimedelWorldTrade Center, portando un assegnodidiecimilioni didollariperilfondodi sostegno alle vittime degli attentati. Le televisioni di tutto il mondo lo hanno mostrato mentre camminava tra le macerie accanto al sindaco di New York (ma un comunicato stampa in cui Al Waleed criticava la politica americana verso i palestinesi non è piaciuto al sindaco chehadunquerifiutato l’assegno). “Al Waleed è un uomo straordinariamente atipico, anticonformista. Fa partedell’élite,manon è solo un ereditiere, suo padre era troppo liberale e non abbastanza ricco, era chiamato il ‘Principe rosso’. La sua discendenza gli ha permesso di avere una rete di relazioni e un’ottima posizione sociale, ma la sua fortuna, Al Waleed, se l’è costruita quasi da solo. Ha studiato negli Stati Uniti e gestisce il suo business ‘all’americana’. Al di sopra di tutto mette la cultura dei beduini. In affari è un nomade, nonèuncapitalistache accumula. Succede, peraltro, ancora che vada a dormire nella sua tenda nel deserto insieme ai beduini, per trovare la calma. Per meditare prima di prendere decisioni importanti. Il deserto non mente, il deserto non lo tradisce,” precisa, con una certa passione,ilsuobraccio destroShadiSanbar. Al Waleed è l’immagine progressista del regime. Il re Abdallah lo protegge, ma non lo ha mai nominato suo erede. In ogni caso sembra aver autorizzato nel 2008 la banca reale a coprirne idebitiperproteggerlo dalla crisi finanziaria mondiale in cui Al Waleed avrebbe perso miliardididollari(circa 21 miliardi di perdite nel 2008 secondo diversianalisti,ecosìè precipitato dal quinto al ventiduesimo posto nella classifica degli uomini più ricchi al mondo). Circondato da un nugolo di consiglieri e guardie del corpo, Al Waleed arriva. Indossa il thobe, la tunica bianca tradizionale in Arabia saudita, e porta lo shmaikh, una sorta di kefiah a quadretti rossi. Ha baffi e grossi occhiali, fatica a nascondere i suoi tic, ma ha un’aura che il cerimoniale che lo accompagna accresce ulteriormente. Tutti i sabati,quandononèin viaggio, arriva verso mezzogiorno nella torre di sua proprietà, fa la preghiera, presiede le riunioni, lavora con banchieri, avvocati, consulenti finanziari, fin verso le duedinotte,poidorme tutta la mattinata – come spesso i principi di sangue sauditi. Al sessantaseiesimo piano c’è la sede della multinazionale, la società madre; al cinquantottesimo quella di Rotana. Infatti, il sabato alle 14, il principe viene a presiedere il consiglio di amministrazione del suo gruppo media, Rotana. Arriva e si siede a capotavola, più che presiedere, troneggia fra i direttori. Cala il silenzio. Comincia la riunione. L’espressione “factum principis” non mi è mai parsa tanto azzeccata come in questomomento. Rotanaèstatacreata nel 1987. È il gruppo media e intrattenimento di Al Waleed. “Il principe detiene il 95 per cento della casa madre, Kingdom Holding Company, una società parzialmente quotata in Borsa, ma Rotana è interamente di sua proprietà,èsuodenaro personale. Il principe è sempre stato affascinato dai media,” mi spiega al sessantaseiesimo piano della torre Shadi Sanbar, direttore finanziario e numero due della multinazionale. Al Waleed è il capitanod’industriadei media arabi. Il magnate australoamericano Murdoch ha investito da poco diverse decine di milioni di dollari in Rotana e detiene ora il 20 per cento del capitale del gruppo saudita. “Il principe ha investito in News Corp attraverso la sua Holding Company e adesso Murdoch investesuRotana:sono partecipazioni incrociate e intelligenti. Per noi si tratta di un investimento puramente finanziario, mentre per Murdoch ha una valenza più strategica e geopolitica. In questo modo potrà raggiungere un mercato di 350 milioni di arabi,” commenta Sanbar. Anche gli americani di Sony CorporationofAmerica hanno firmato, nel giugno 2008, un contratto esclusivo con Rotana per la distribuzionedeifilmdi Sony, Columbia, Metro Goldwyn Mayer e dei dischiSonyMusic,Cbs, Artista ed Epic per tuttoilmondoarabo. Rotana è strutturata attorno a sei divisioni. Ladirezionegeneralee finanziaria del gruppo è a Riyadh, ma le attività sono suddivise in diversi quartier generali: il settore cinema è al Cairo, la musica e il management degli artisti a Beirut, le televisioni e le radio trasmettono dal Golfo, mentre la divisione internet è ripartita nellamaggiorpartedei paesi arabi dal Marocco alla Siria. Il gruppo è frazionato in tutto il mondo arabo e, con questo vasto impero, Al Waleed punta alla riconquista delmondomusulmano. Rotana possiede studicinematograficial Cairoeinquestomodo controlla il 50 per cento del catalogo cinematografico arabo. Nella musica la supremazia è ancora maggiore: quasi il 90 per cento della musica mainstream commercializzata nel mondo arabo, dal Marocco alla Siria, sarebbe nelle mani di Rotana. “È vero, siamo in posizione monopolistica nella musica,” conferma ShadiSanbar.Rotanaè nelcontempopromoter eagenziaditalentiesi è specializzata in due settori che contribuiscono a questo monopolio. Anzitutto internet: il gruppo ha investito milioni di dollari in siti ultramoderni e nell’Iptv, la televisione via internet. “Secondo noi, cultura, musica, film, televisione, libri devono diventare interamente digitali. Tutto cambierà completamente. È ciò che chiamo ‘telecotainement’, un insieme di telecomunicazioni e intrattenimento.Nonci saranno più dischi, né libri, né giornali, né televisione, ma solo schermi collegati a internet.Pernoiilweb non costituisce una minaccia, è un’opportunità. Coglieremo tutte queste opportunità, ne abbiamo i mezzi. Deteniamo i diritti su tutti i contenuti di intrattenimento e media, su tutte le piattaforme, per tutti i paesi. Dunque prepariamo il futuro. Qui sono l’uomo della cultura araba del futuro,” dice Youssef Mughrabil, direttore incaricato dei “nuovi media” a Rotana (ho saputo poi che questo saudita, che porta la cravattaenonlathobe, ha studiato ingegneria all’Università del Coloradoelavoratoper trent’anniperilcolosso americano di telecomunicazioni At&TnegliStatiUniti). Infine c’è la televisione. Rotana possiede oltre venti emittenti che trasmettono soprattutto via satellite. Ufficialmente sono vietate in molti paesi, tra cui l’Arabia saudita (dove sono ufficialmente autorizzati solo i due canali pubblici in frequenze hertz Saudi 1 e Saudi 2) e sono accessibili a tutti tramite parabole acquistate a buon mercato in tutti i paesi arabi e in Iran. Sono soprattuttoemittentidi cinema arabo e di musica in cui gli artisti prodotti da Rotana passano continuamente. La priorità di Rotana è il divertimento mainstream: Al Waleed sa che le principali trasmissioni di intrattenimento e i format dei programmi di successo nei paesi arabi sono importati dagli Stati Uniti. Per esempio, la versione araba di Chi vuole essere milionario? presentata da una sex symbol libanese ha un pubblico enorme in tutto il mondo arabo e tutti conoscono la celebre frase “Jawaab nihaa’i?” (è la tua risposta definitiva?). Al Waleed vuole interrompere questo monopolio americano. In Egitto ha creato in poco tempo un’emittente di cinema insieme a Rupert Murdoch,pertestareil mercatoeammansireil miliardario: Fox Movie trasmette, essenzialmente, ventiquattro ore su ventiquattro in versione originale sottotitolata, i film prodotti dalla major hollywoodiana di sua proprietà, 20th Century Fox. Per ammissione stessa degli egiziani che dirigono per Rotana l’emittente dal Cairo, dove li ho intervistati, per loro si tratta soprattutto di “inserire pubblicità tra i film inviati da Murdoch”. Ma questo è stato l’inizio di una strategia rivoltaatuttoilmondo arabo e su tutti i supporti mediatici eccezionalmente ambiziosaecomplessa. Da quel momento, il principe ha aggiunto diversi gioielli al suo impero: oltre a Rotana possiede, infatti, a titolo personale, l’emittente satellitare libanese Lnb, specializzata in talkshow popolari, sul modello americano, e un’emittente inglese poco nota, Al Reselah, destinata ai musulmani di tutto il mondo. “Stiamo lavorando anche per creare un’emittente di informazione non stop, ma è probabile che il principe la finanzierà con denaro proprio, al di fuori di Rotana,” confessa finalmente, dopo che gli ho fatto più volte la domanda senza avere risposta, Fahad Mohammed Ali, direttore generale di Rotana (l’unico uomo che indossa la thobe incontrato nello stretto entourage del principe aRiyadh). “La mission di Rotana è l’intrattenimento,” precisa Shadi Sanbar. “Ormai Rotana è un gruppo interamente assestatosuldigitale,è in pieno sviluppo e sta diventando sempre di più internazionale. Prima si va alla conquista del mondo arabo poi… the sky is the limit (il limite è il cielo).” Rotana è un gruppo globale, planetario. Il nuovo mondo non ha confini. “Me lo lasci dire ancora una volta, affinché sia chiaro,” prosegue, “Rotana si svilupperà in tutto il mondo.” Mostro il mio stupore per obiettivi che vanno ben oltre il mondo arabo. “La nostra filosofia è difendereivaloriarabi. Il nostro obiettivo è di tipo panarabista. Il principe crede nelle potenzialità della demografia, la chiave nel settore dell’intrattenimento. I giovani con meno di venticinqueannisonoil 60 per cento della popolazione in Arabia saudita,quelladimeno diquindicianniquasiil 40 per cento. La maggiorpartedeipaesi arabi ha statistiche simili. Questi giovani consumano – e consumeranno – anzitutto intrattenimento, più delle news. Questo è il settore di Rotana. Abbiamo il futuro davanti a noi, nel mondo arabo, ma anche oltre,” precisa Sanbar, che non mi dicepiùnient’altro. C’è però qualcosa che stona, da quando sono in Arabia saudita. Mi trovo di fronte a un paradosso: i sauditi sono onnipresenti nei media, ma i media in Arabia saudita sono assenti. I più importanti gruppi del settore audiovisivo del mondo arabo – Rotana, Orbit,Art,Mbc–hanno la loro sede sociale a Riyadh, ma nessuna emittente trasmette dall’Arabia saudita. È una situazione che mi ricorda quelle delle radio “periferiche” francesi (Rmc, Europe 1, Rtl) che trasmettevano da Montecarlo, dalla Germania o dal Lussemburgogiacchéil monopolio di stato impediva loro di farlo dal territorio francese. Qui il ruolo dello stato è ulteriormente appesantito dalle questioni politiche, religiose, dei costumi. Èungrandeparadosso: pressoRotanaaRiyadh sono nella sede di uno dei principali gruppi media arabi, specializzatoincinema, musica, televisione, ma in Arabia saudita non esiste una sala per concerti, poiché film e musica non religiosi sono vietati. “È un territorio nel contempo medievale e postmoderno,” afferma il regista Ahmed Dakhilallah, che intervisto sotto la sua tenda a Riyadh, io stesso stupito di trovarmi seduto su un tappeto a piedi nudi a mangiare datteri, di fronte a un cineasta in un paese in cui il cinema non esiste. “L’Arabia saudita ha l’accortezzadirifiutare al proprio interno ciò che diffonde altrove,” mi dice il giorno dopo con un’espressione enigmatica la realizzatrice di punta della televisione saudita, Hiyam Kilani (una donna senza velo né sposata, che mi riceve in jeans in casa sua, alla presenza del fratello). Suo fratello è giustamente più circospetto, è stato rappresentante di televisionioccidentalia Riyadh, e in un francese perfetto formula un’altra ipotesi: “Qui il rischio nonètantoquellodiun ritorno al passato, verso emittenti retrograde, ma quello di un’evoluzione all’americana: telepredicatori che vogliono modernizzare le televisioni arabe in nomediAllahapartire dall’Arabia saudita”. Bisognainterpretarein questo senso le voci secondo cui i sauditi vorrebbero riportare i gruppi di media in Arabia saudita piuttosto che lasciarli trasmetteredaDubaie Abu Dhabi? Sembra che l’intento sia quello di portare le sedi di Rotana, Mbc, Art e i loro studi alla King Abdallah Economic City, una nuova città a norddiDjedda,sulMar Rosso, dove ha appena aperto un’importante Media City. I sauditi hanno lasciato intendere – non ne esistono prove – che la città sarebbe come Dubai,unazonafranca, in termini fiscali e di “lifestyle”. Peraltro, quest’ultimo termine è equivoco ed è oggetto didibattiti. L’Arabia è un paese rigoroso in cui la religione è una questione di stato: è il paese del pellegrinaggio a La Mecca, unica forma di turismoconsentita,ein cui negozi e uffici chiudono cinque volte al giorno per la preghiera. È il paese della moutawa, polizia religiosa,odeicostumi (il vero nome è “Comando per la repressione del vizio e la promozione della virtù”) con novemila agenti,sostanzialmente chierici barbuti. Non sono armati e agiscono in tutto il paese con azioni di forza, molto visibili, con megafoni alla mano, che mi ricordano stranamente i metodi usati negli Stati Uniti dall’associazione gay che lotta contro l’Aids, Act Up. A Riyadh ho incontrato gli agenti della moutawa mentre controllavanoledonne, la lunghezza del loro velo, impedivano loro di guidare e verificavano che fossero proprio con il marito quando uscivano di casa (cosa che fanno raramente). La delazione, mi si dice, è la principale fonte di intervento di questa polizia dei costumi. “Tuttavia, la moutawa non entra negli uffici di Rotana. Qui il principe è bendisposto, questa è un’oasi rara. Le donne sono tutte delle bombe,” mi dice, visibilmente infiammato, il mio accompagnatore e traduttore che, al sessantaseiesimo piano,mimostraanche la moschea personale delprincipe. Mentre lascio il regno di Al Waleed, passo all’ufficio di Shadi Sanbar, posto proprio di fronte alla moschea. Questi mi ringrazia della visita e mi regala un bel sacco inpelleverde,ilcolore dell’islam, con il marchiodiRotana. A pianoterra della torre del principe Al Waleed, in un bar Starbucks, apro il sacco di cuoio e vi trovounatazzaRotana, una penna stilografica Rotana, un report annuale del gruppo, la biografiainarabodiAl Waleed del giornalista Riz Khan e soprattutto decine di copie di riviste americane come “Time”, “Newsweek”, “Vanity Fair”, “Forbes”, con copertine contraffatte. Inquestefotografiec’è Al Waleed in vestito o maniche di camicia, noninthobe.Suqueste primepaginerealizzate con Photoshop, si vede il principe a bordo di uno yacht privato di ottantasei metri, al volantediunadellesue trecento auto, a bordo di un Boeing 747 trasformato in aereo privato (nel 2010 ha ricevuto l’Airbus A380 che ha ordinato). La megalomania del principe è evidente. Poi, all’interno del sacco verde scopro un portadocumenti più piccolo, anch’esso verde, una sorta di pochette di lusso. All’interno del bar Starbucks apro la pochette che si dispiega e scopro, con grande stupore, che si tratta di un magnifico tappeto portatile da preghiera. Musica in Libano, televisione a Dubai, cinemaalCairo Il Rotana Café di Damasco si trova all’interno del Four Seasons, uno dei complessi alberghieri piùlussuosidellaSiria. Peraltro, non è un semplice albergo, ma un resort, un luogo di villeggiatura di lusso, di turismo internazionale d’élite che, su diciotto piani, propone decine di ristoranti alla moda, ristoranti up-scale, piscineeterme,oltrea ostentate gallerie commerciali e molti negozidimoda.L’hotel appartiene al principe AlWaleed(èl’azionista di riferimento degli alberghi Four Seasons ed è proprietario del George V a Parigi) e, naturalmente, al suo interno ha aperto un RotanaCafé. Il Rotana Café di Damascoèsutrepiani, poiché comprende anche un negozio di dischi in stile Virgin Megastore per ricchi a pianoterra e, al primo piano, un caffèristorantecondecinedi schermi che proiettano in continuazione videoclip di Rotana Tv, infine c’è un immenso lounge bar con terrazza con vista sulle moschee, il parco e il centro storico di Damasco. Vi si fuma il narghilè, ma le bevande alcoliche sono vietate,cisonococktail di frutta, chiamati Mocktails, tra cui il famoso Nojito (un imbevibile “Nonalcoholic Mojito”, incuiilrumèsostituito dalla Schweppes). Qui si possono incontrare tutte le star di Rotana, dalvivoovirtualmente. Infatti,ilprincipeinvita regolarmente le sue star a soggiornare nei suoi alberghi e a partecipare a serate nei Rotana Café per incontrare i fan. Si possono anche comprareicdevedere i video dell’egiziano superstar Amr Diab, di Angham o Sherin, due cantanti sexy egiziane, dell’irachenoMajid,del siriano George Wassouf, dei sauditi Abu Baker Salim e MohammedAbdo(sulle copertine degli album che acquisto entrambi portano una kefiah sulla testa), o la tunisina Latifa, la siriana Assalah e la libanese Elissa. Tutti questi artisti sono grandi star nel mondo arabo e i loro album sono stati registrati in Libano. A Beirut, il Rotana Café si trova sulla piazza de l’Etoile, nel quartiere cristiano, al pianoterra di un edificio moderno. Quattro piani sopra ci sono gli uffici di Rotana. “Rotana ha stabilito il settore musicale qui a Beirut,” conferma Tony Semaan,direttoreA&R di Rotana Music, che mi riceve nel suo ufficio un sabato mattina. Semaan ha trentadue anni e, mi si dice, è uno dei più grandi scopritori di talenti del mercato della musica araba. Mentreuncameriereci porta un tè in un coffee-mug firmato Rotana e Semaan termina una conversazione telefonica con un manager in Egitto, osservo il suo ufficio che fa angolo. Su una mensola, ben in vista, c’è la biografia in versione americana di Al Waleed, Businessman BillionairePrince. “Rotana è un gruppo mainstream. Il nostro obiettivo è la popolarità.ConRotana, AlWaleedvuolecreare un colosso dell’intrattenimento per tutto il mondo arabo e per tutto il mondo. E vuole farlo a qualsiasi costo. Si tratta di un progetto economico, ma anche politico,” commenta in francese Tony Semaan. Perraggiungerequesto obiettivo, il gruppo saudita ha collocato il quartier generale della musica a Beirut, quello delcinemaalCairoele emittenti televisive a Dubai. “Beirut è la capitale della musica araba, tutti i media arabi hanno qui uffici per la produzione musicale, studi di registrazione e per girare videoclip, siamo i leader in questa zona,” commenta Semaan. La strategia, indicata dal mio interlocutore, è semplice: in tutto il mondo si pensa alla musica araba con donne con il velo e uomini con la kefiah, Rotana invece produce video con ragazze sexy e poco coperte, come su Mtv. Naturalmente, non avendo il diritto di filmare le ragazze a Riyadh,perladivisione musicale del gruppo è statasceltaBeirut. Rotana ha sotto contratto circa centotrenta star della musica araba; per ogni album, gli artisti ricevono un flat fee, una cifra forfettaria, raramente hanno una percentuale sulle vendite. Poi la major adatta la musica a versioni e piattaforme diverse: cd, dvd, videoclip, programmi televisivi, prodotti derivati, contratti pubblicitari e persino le tazze per il caffè. Rotanasioccupaanche del management e ovviamente dei concerti di questi artisti, secondo una strategia detta a “trecentosessanta gradi” (Tony Semaan lascia intendere che questa modalità è tipicadiRotana,invece è la strategia in voga nella maggior parte delle case discografichedituttoil mondo, dopo essere stata quella di tutte le agenziedipubblicità). Icantantivengonoda tutto il mondo arabo, dal Maghreb all’Iraq, ma mai oltre. Per essere scritturato, un artista deve avere un “forte potenziale nel mondo arabo”, ovvero deve poter avere pubblico in diversi paesi.Rotanapersegue questa strategia crossover facendo cantare le star in egiziano, che è il dialetto che permette diesserecapitiintutto il mondo arabo. “È un accento facile da imparare e facciamo in modo che i cantanti libanesi, siriani e dei paesi del Golfo cantino in dialetto egiziano per raggiungere tutti,” spiegaTonySemaan. Per il momento Rotana non ha ancora la dimensione globale che ha in progetto di raggiungere. Le star del gruppo non vendono quasi niente in Asia, nulla in America latina né nell’Africa subsahariana, poco negli Stati Uniti. Tuttavia,ilgruppodiAl Waleed è andato ben oltre le proprie aspettative nella zona al centro del suo obiettivo, la zona chiamata da Rotana “MenaRegion”(Middle East North Africa). Qui i risultati sono eccezionali. Secondo i dati forniti dal gruppo, e impossibili da verificare, le centotrenta star di Rotana coprirebbero l’85 per cento della musicavendutaintutto il mondo arabo. I risultati sono in crescita nel Maghreb, grazie a star come la tunisina Latifa, la marocchina Laila Ghofran, l’algerina Amel Bouchoucha e Thekra, una tunisina trasferitasiinLibia,poi in Egitto, e recentemente uccisa in circostanze sospette. “Adesso, il nostro obiettivo è il mercato maghrebino in Europa, soprattutto in Italia, Spagna e Francia. In campo musicale, costruiamo concretamente l’Unione per il Mediterraneo cara al presidente Sarkozy,” mi dice sorridendo TonySemaan. Gli obiettivi del gruppo, tuttavia, non finiscono qui. Gli album, nell’epoca della pirateria di massa, nella strategia di Rotana non sono più una priorità, ma uno strumento di promozione, la priorità è la televisione. In questo settore, con diverse emittenti televisive musicali, Rotana è leader nei paesi arabi. Sul modello di Mtv, il gruppo ha inventato il videoclip arabo di tre minutietrenta.“Prima, le televisioni egiziane trasmettevano canzoni egiziane che potevano durare anche trenta o quarantaminuti.Erano lunghi poemi senza fine,” spiega Semaan. “PoisulmodellodiMtv e dei videoclip, Rotana si è assestata sul formato di tre minuti e trenta.” Tuttavia, il successo del gruppo non è dovuto solo a questo nuovo format, ma anche alle belle ragazze che figurano nei videoclip, al loro scarno vestire rispetto agli usi del mondo musulmano, alla sensualità del loro linguaggio. Per molti questa è la rivoluzione che Rotana ha fatto compiere all’intrattenimento arabo.Ilrisultatoèche quattro delle emittenti di Rotana sono tra i dieci canali più guardati nella regione araba. Di fronte a questo colosso saudita, sul fronte musicale, l’americana Mtv scompare. Sul Monte Libano, nel quartiere Naccache, periferia a nord di Beirut, la sede di Mtv è faraonica. Ci sono una decina di edificinuovifiammanti, sedici studi televisivi, bar e un servizio di sicurezza senza pari. Alla reception, cinque ragazze in stile top model rispondono al telefono e accompagnano gli invitati in studio. Il logo di Mtv – blu e rosso – non lascia comunque alcun dubbio. Il nome dell’emittente non ha proprio alcun legame con l’omonimo americano: Murr Television (più nota come Mtv in Libano) è una delle principali emittenti generaliste dei cristiani libanesi. “Non ha alcun legame con il gruppo Viacom che possiede Music Television (Mtv) negli Stati Uniti,” conferma Michel Murr, amministratore delegatodelgruppo. Michel Murr è visibilmente contento di poter incontrare un francese e mi riceve, disteso e accogliente, nella sede del gruppo insieme alla moglie, Pussy, un sabato pomeriggio. Nel corso della nostra lunga intervista risolve alcune questioni per telefono con un ministro (la sua famigliaèalcentrodel potere cristiano libanese, suo zio, che ha il suo stesso nome, Michel Murr, era il ministro dell’Interno e uno degli uomini di fiducia dell’ex primo ministro Rafik Hariri, assassinato). Il mio interlocutorenonvuole parlare troppo di politica. Mi ripete più volte che la sua emittente è “neutra”, ma so che fa parte dei “cristiani sunniti”: secondo la battuta frequente a Beirut, la minoranza cristiana si è frazionata nel 2009 tra “cristiani sunniti”, antisiriani, e “cristiani sciiti”, filo-Hezbollah. In Libano, ogni emittente televisiva è legata a un partito politico e questo ne riduce molto l’imparzialità. “Quiabbiamounodei più importanti complessi di produzione del settore audiovisivo del Vicino Oriente,” mi dice MichelMurr.“IlLibano costituisce la frontiera del mondo arabo, per questo vengono registrati i programmi televisivi più moderni dellaregione.Ledonne sono libere, la strumentazione tecnica è molto avanzata rispetto agli altri paesi arabi. L’intrattenimento è la nostraprofessione.” Pussy Murr mi fa visitare gli studi del gruppo, chiamati “Studiovision”, il mio intento è seguire le registrazioni di Rotana Café, la trasmissione culturale di punta di Rotana Moussica, una delle emittenti di Rotana. La scenografia del talkshow è celebre intuttoilmondoarabo: unbanconedabar,una finta libreria piena di volumi e lattine Rotana, imitazioni di Coca-Cola. Il programmaèindiretta ed è condotto da un gruppo di giovani intrattenitori che discutono liberamente tra loro della scena musicale, di televisione, di intrattenimento e di tutto ciò che fa il buzz delmomento. Spesso gli argomenti dei giovani intrattenitori suscitano polemicheneipaesidel Golfo, in Egitto e in Arabia saudita. Nel 2009iltalk-showLinea rossa sull’emittente libanese Lbc, di cui ormai il principe Al Waleed è azionista di maggioranza, ha scatenato una forte polemica: un giovane saudita, Mazen Abdel Jawad, descriveva comeusavailbluetooth per rimorchiare le ragazze saudite velate negli shopping-mall non potendo parlare direttamente con loro (è stato condannato a cinqueannidiprigione, mille frustate per “condotta immorale” e l’emittente Lbc è stata minacciata di oscuramento in Arabia saudita). “È nei talk-show registratiaBeirutdalle emittenti televisive di Rotana, Mtv, Lbc o Mbcchec’èlamaggior libertà. Nel mondo arabo,ciòcheigiovani sidicono,ecidicono,è completamente incredibile. Con il pretesto di parlare tra loro, di evocare i rumors e i pettegolezzi della televisione, di descrivere la loro vita quotidiana, affrontano le questioni della droga, della prostituzione, dei gay, della vendita delle donne irachene, di lesbiche e transessuali. Per un uomo della mia generazione è completamente inverosimile intendere tutto ciò. Sono loro, questi animatori di talk-show che non hanno neanche venticinque anni, che contribuiranno all’apertura dei paesi arabi,” afferma il produttore di serie televisive Makram Hannoush, un libanese intervistatoaDamasco. Questi talkshow mandati in onda in Libano, Qatar e più raramente negli Emirati vanno oltre il semplice divertimento: stanno intaccando le fondamenta stesse del mondo arabo. Sono fonte di inquietudine per l’establishment di paesi come l’Arabia saudita,l’IranelaLibia e sono causa di sconvolgimento sociale per le famiglie patriarcali. Infatti, mettono in discussione l’ordine familiare, la separazione tra generi, scompaginano la divisione del lavoro e mettono in discussione il codice d’onore. Portandosulloschermo non solo donne senza velo, ma semplicemente delle donne,questitalk-show di Al Jazeera e Lbc, i programmi di Mbc, i videoclip di Rotana chiudono con la tradizione che confina la donna nello spazio privato e riserva all’uomo lo spazio pubblico. Questa rivoluzione in corso è unfattoimportante. “The Arab Warren Buffett” è il soprannome dato dal “Time” al principe Al Waleed. “Il principe Al Waleed vorrebbe piuttosto diventare il Murdoch del Medio Oriente,” corregge Frederic Sichler. “Più che Warren Buffett, il suo modello è Murdoch, peraltro è il secondo azionista più importante di News Corp, il gruppo multimedia di Murdoch.” L’ufficio di Frédéric Sichler si trova nell’Hotel Four Seasons del quartiere Garden City del Cairo, un magnifico palazzo sulle rive del Nilo. Sichler è stato direttore di Studio Canal,ladivisionedella produzione di cinema dell’emittente francese Canal +, ed è stato chiamato dal principe saudita a presiedere la divisione cinema di Rotana. “Rotana è un gruppo nato per fare musica araba, datosi poi alla televisione e attualmente indirizzato verso il cinema,” dice Sichler. NeipaesidelGolfo,il problema non è il denaro, ma il talento. In Egitto è il contrario. I primi hanno banche, capitali, reti satellitari, ma sono privi di creatività. Le innumerevoli emittenti e la loro miriade di programmi, insediate a Dubai, Abu Dhabi, nel Qatar, hanno bisogno di contenuti. I principi dei paesi del Golfo e i loro uomini di fiducia, per i film, si approvvigionano al Cairo. In effetti, in Egitto,esistonotuttele tecnicheelepossibilità perprodurreedisporre dicontenutidelsettore audiovisivo: coproduzioni, prelazionidifilmperle televisioni del Golfo, joint-venture, produzioniproprie. “Rotana è una societàrivoltaatuttoil mondo arabo. Ci interessiamodituttele cinematografie arabe, poiché se la musica attraversa tutti i confini di questa zona, la cinematografia è invece molto legata ai diversi contesti nazionali,” prosegue Frédéric Sichler. “Nel cinema, infatti, contrariamente alla musica, i profitti si fannopersingolipaesi, e in ciascuno dei paesi arabi ci sono regolamentazioni precisechenecessitano dipermessiassegnatia livello locale.” Come tutti gli altri gruppi di media nel Medio Oriente, Rotana cerca di agire sul mercato arabo globale sul fronte della produzione, mentre lavora sui mercati nazionali per la distribuzione. “L’Egitto continua a essere il fulcro della produzione cinematografica,” prosegue Sichler. “È l’unico paese arabo in cui esista un’industria cinematografica, ben oltre gli altri tre produttori del mondo arabo: Siria, Libano e i paesi del Golfo.” Poi aggiunge: “In Egitto esiste una diffusa cultura cinematografica, ogni anno si vendono tra i venti e i trenta milioni di biglietti, mentre in Marocco meno di due milioni. Gli egiziani fanno commedie e intrattenimento da sempre, è un cinema che funziona in tutto il mondo arabo, mentre nonhanessunapresail cinema d’autore marocchino.Perquesto Rotana ha insediato il suo quartier generale dicinemaquialCairo”. Ci sono altre ragioni che fanno del Cairo il fulcro del cinema del mondo arabo. In Egitto c’è una ricca creatività grazie a una lunga tradizione nel settore audiovisivo, esistono un grande vivaio di sceneggiatori, attori e registi e una cultura artistica, letteraria e del divertimento di vecchia data. “Il Cairo è la Hollywood del mondo arabo per il cinema e la televisione,” conferma Mohammed Mouneer, direttoremarketingdel gruppo Rotana al Cairo. L’Egitto è anche l’unico grande paese arabo: con una popolazione di 75 milioni di abitanti è il primo mercato arabo del pianeta (di cui 17 milioni al Cairo, che è al contempo la più grande città araba al mondo e la città africana più popolata). Il paese ha un’enorme diversitàetnicaemolta immigrazione proveniente da tutti i paesi arabi. “L’Egitto è una società eterogenea e multietnica come gli Stati Uniti,” afferma Hala Hashish, direttricediEgyptNew Channel,intervistataal Cairo. “È l’unico paese arabo in cui si possono incrociare tanti siriani quanti marocchini, libanesi o libici. È una società cosmopolita, più aperta e diversificata, anche perché è uno stato pacifico. Poi qui si può girare un film o un teleromanzocondonne senzavelo,cosainvece impossibile a Riyadh o Teheran.” Inoltre, al Cairo sono presenti tutti i network televisivi mondiali, personale tecnico efficiente, c’è la coperturadeisindacati, esiste una censura limitata sui costumi (rispetto al resto del mondoarabo)esiparla una lingua usata in diversi paesi arabi e compresainquasitutti. “Due arabi di nazionalitàdiverse,per potersi capire, devono utilizzare il dialetto egiziano,” spiega Youssef Osman, che dirige la produzione di Media City vicino al Cairo. “È un circolo virtuoso,” conferma Hala Hashish, “i film sono girati in egiziano, i cantanti prendono l’accento egiziano, i nostri media sono i più potenti nel mondo arabo, e ciò rafforza la musica e il cinema egiziani.” Infine, per capire il ruolodecisivodelCairo rispetto a Dubai, Abu Dhabi, Beirut nelle industrie creative, è necessario aggiungere lapresenzadibanchee una valuta relativamente sicure. Infine, l’Egitto ha relazioni diplomatiche con la maggior parte dei paesi arabi, con gli Stati Uniti, l’Europa e Israele e, commerciando con Israele, l’Egitto si garantisceladiffusione dei contenuti in PalestinaeGiordania. La strategia multimedia, rivolta a tutto il mondo arabo, del gruppo Rotana con le sue filiali di Riyadh, Dubai, Beirut e Il Cairo, sembra mietere successi e non avere punti deboli. Tuttavia, diversi miei interlocutori non condividono questo ottimismo. Tra questi c’èilproduttorediStar Academy in versione araba, Nagi Baz, intervistato a Beirut, che mette in dubbio la vitalità dell’azienda: “Rotana non è un’azienda come le altre, è l’ancella di Al Waleed. Il business model non conta nulla: esiste solo un obiettivo politico e identitario arabo”. Altri sottolineano la megalomania del principe:“OgniannoAl Waleedinvitagliartisti Rotana in un Hotel Four Season, tutto pagato, e li fa cantare per la sua gloria. Recentemente ha regalato alla maggior parte di loro una Bmw franco di porto, tutti lo hanno ringraziato e si sonorivendutil’autodi lusso per intascare i soldi”. Pascal Gaillot, amministratore delegato di Emi-Medio Oriente, concorrente diretto di Rotana, intervistato a Dubai sottolinea: “Rotana ha ammazzato il mercato musicale arabo abbassando i prezzi. È concorrenza sleale. L’obiettivo del principe non è economico, ma quello di far conoscere lamusicaaraba.Perlui Rotana è un divertimento, noi invece facciamo business”. Altri sono ancora più critici: sembra che Rotana imponga alle proprie radio e televisioni di trasmettere i cantanti del gruppo e sembra che abbia diffuso clausole irregolari con gli artisti che sarebbero “legati mani e piedi contro le tradizionali pratiche internazionali sul copyright”, secondo Maxim Dupa, che coordina l’ufficio di esportazione della musica al ministero della Cultura del Libano. Le critiche sono ancora più velenose sulla qualità della musica promossa da Rotana: “un pop americanizzato in lingua araba”; “standardizzazione araba”; “Mtv in peggio”; “nella musica c’è sempre lo stesso ritmo, nei videoclip è sempre la stessa storia di un uomo e una donna che si incontrano, si allontanano e poi si ritrovano”; “Rotana non fa progredire la musica araba, la ammazza”. Infine, si rimprovera Al Waleed di aver scelto Beirut per produrre musica e IlCairoperilcinema,e ciò sarebbe la prova della sua ipocrisia: “Il saudita Al Waleed sa benissimo che non potrebbe fare i suoi film o registrare i suoi album a Riyadh. Può mostrare donne senza veloaBeirutoalCairo, ma non in Arabia saudita o nei paesi del Golfo. È la chiara dimostrazione dell’ipocrisiadeiregimi sunniti puritani che interpretano in modo radicale il Corano e proibiscono all’interno dei loro confini ciò che promuovono altrove”. Un altro dirigente del settore audiovisivo intervistato a Media CitydiDubaiaggiunge: “L’Arabia saudita è il paese dell’ipocrisia più totale: si proibisce l’alcol, le donne sono velate, ma di nascosto è il paese in cui ci si può procurare facilmente qualsiasi cosa: alcol, droga, prostitute, transessuali e tutto il resto. L’élite saudita è molto stravagante. E Al Waleed,cheappartiene a questa élite, ha divorziatotrevolteedè il simbolo delle contraddizioni di questo paese”. Con ironia, un dirigente di Rotana mi dice: “È vero, alcuni dei nostri cantantisonopoptutto l’anno, ma appena arriva il Ramadan, si trasformanoincantanti islamici. Fa parte dei paradossi del mondo arabo”. A discolpa di Rotana e di Al Waleed si potrebbe formulare anche un’altra ipotesi, secondocuilastrategia del gruppo intenderebbe contribuire alla modernizzazione del mondo arabo nel suo complesso, e più nello specifico dell’Arabia saudita. Il fatto che il principe difenda i diritti delle donne e avanzi critiche ripetute contro l’ala più retrograda del regno va in questo senso. È un pesce-pilota di un regime che intende “modernizzarsi”? Forse. È l’interprete della corrente liberale? Questa è l’opinione di alcuni esperti da me interpellati. È filoamericano? Sicuramente, ma è anche un grande sostenitore della causa palestinese. È filolibanese, e in particolare dei sunniti libanesi? Di sicuro, se non altro per le sue origini familiari. È invece difficile dire se sia in conflitto aperto con l’ala dura del regime.Peraccreditare la tesi “modernista”, è necessario ricordare che Al Waleed è stato oggetto di una fatwa preventiva emessa nel settembre 2008 dallo sceicco saudita radicale Saleh al Lihedan che rendeva legittima la sua uccisionesecontinuava a contribuire alla diffusione di programmi televisivi “corrotti” ed “empi”. Ma lo sceicco è stato dimesso dalle sue funzionidalre. Igruppirivoltiatutto il mondo arabo come Rotana,maancheAmc, Mbc possono riuscire nella loro strategia commerciale culturale e mediatica nell’epoca della globalizzazione? È una domanda di difficilerisposta.Nonsi può tuttavia dubitare chequestigruppisiano dominanti sul fronte dell’intrattenimento e dei media arabi. Possono spingersi oltre e fare concorrenza ad americani ed europei su mercati non arabi? Quisiponeilproblema dei valori e della censura del mondo arabo, che sono il puntodiforzadiquesti gruppi nella loro regione, ma il punto debole sui mercati internazionali. In Egitto, un paese relativamente “aperto” rispetto al resto del mondo musulmano, ho capito meglio i limiti della strategia araba che vuole diventare mainstream in tutto il mondo. Hollywoodneldeserto MamdouhalLaithysi rifà gli occhi guardando il piccolo schermodiunavecchia televisione. Mi riceve nel suo gigantesco ufficio e ascolta distrattamente le mie domande aspettando la traduzione (non parla néfrancesenéinglese) e in questo modo può continuare a guardare le donne con un vertiginosodécolletédi unfilminbiancoenero degli anni cinquanta conOmarSharif. Mamdouh al Laithy ricopre diverse funzioni: dirige il settore della produzione cinematografica della Media City del Cairo, presiede il sindacato dei registi dell’Istituto del film e della televisione nazionale egiziana, dirige l’Associazione dei critici cinematografici e prosegue, a settantatré anni, la lunga carriera di sceneggiatore e, mi si dice, di successo. È circondato da donne conilvelocuicontinua a dare ordini, da una moltitudine di segretari, valletti e autisti ai suoi ordini, è il padrone dell’industria cinematografica egiziana. È stato ufficialedipolizianegli anni sessanta, poi è stato promosso ed è passato dal ministero dell’Interno al settore audiovisivo per sorvegliare la libertà degliartisti.Neglianni settanta è incaricato della censura delle sceneggiature di film e teleromanzi. Nel 1978 diventa “censore generale” per i film mandati in televisione, unpostopiùadattoper unexpoliziottocheper unosceneggiatore. Sopra di lui c’è una fotografia di Hosni Mubarak, autocrate politico tanto quanto lui è un autocrate culturale. Sul tema del protezionismo in Egitto, Mamdouh al Laithy spiega come il paese difenda la propria cinematografia attraverso una rigida limitazione del numero di copie di film stranieri e la scritturazione di attori egiziani grazie al monopoliodeisindacati degli attori. Il mio interlocutore, ex censore in capo egiziano, non capisce invece la mia domanda sulla censura. Pone fine all’intervista e mi accompagna fuori con fermezza. Lo lascio nel suo grande ufficio, autocrate isolato, a finire di guardare le donne leggere e libere di film egiziani di un’epoca in cui non erano censurati – da lui. Per comprendere le regolamentazioni del cinema in Egitto, e per cercare di capire se il cinema arabo possa diventare mainstream al di fuori dei paesi arabi, ho cominciato bussando alla porta sbagliata. Poi mi sono recato al ministero della Cultura egiziana. Mi riceve Anwar Ibrahim,direttoredelle relazioniinternazionali. A parte un caffè turco, frasi di circostanza sulla “diversità culturale” e sull’amicizia francoegiziana, l’intervista non fa minimamente avanzare la mia inchiesta. Non so se il mio interlocutore non sappia nulla del sistema protezionista egiziano,oppuresenon voglia dire niente. Non so se abbia qualche timore, se sia incompetente o se sia una forma di controllo politico. Anche il mio secondo tentativo si rivela dunque un buco nell’acqua.Tentoallora con Arab Media Corporation. L’ufficio di Hadil Saleh si trova al decimo piano di un discreto edificio sulla strada panoramica El Nile, nel quartiere di Maadi, nel Sud del Cairo. Le porte dorate e in legno pregiato, il marmoelevetrateche danno sul fiume stonano con la decadenza dell’edificio e le guardie che dormono nella hall. Hadil è figlio del miliardario saudita Sheik Saleh Abdullah Kamel, proprietario di Arab Radio Tv (Art), una multinazionale dell’intrattenimento. Come Rotana, questa major ha la sede sociale in Arabia saudita, gli studi cinematografici e la direzione dei “contenuti” sono al Cairo, le reti di diffusioneinGiordania. Controlla una ventina di televisioni a pagamentoosatellitari, il cui fiore all’occhiello è Cinema Channel (un’emittente tipo la francese Canal + per tutto il mondo arabo), con un catalogo impressionante di film storici e infrastrutture di distribuzione molto potenti. “Non c’è alcun posto per fare cinema in Arabia saudita, per questo il principe ha collocato gli studi qui, al Cairo,” spiega Wael M. Essawy, direttore generaledelladivisione egiziana della major. Il gruppo ha un progetto commerciale,culturale, ma anche una mission morale: grazie al denaro dei paesi del Golfo, intende influenzare i contenuti del cinema egiziano per adeguarsi alle aspettative e ai valori delpubblicoarabo. KhaledAbdalGaleel, consiglierespecialedel gruppo, al Cairo, conferma senza giri di parole: “Abbiamo una strategiarivoltaatutto il mondo arabo. Vogliamo creare un settore produttivo completo utile a valorizzare la cultura araba e a sostenere l’orientamentoarabo.Il nostro scopo è difendere la nostra cultura, le nostre tradizioni, i nostri valori, la nostra religione. Il nostro obiettivo non è guadagnare denaro: il principe è già miliardario, non avrebbe alcun senso. La cosa importante sono i nostri valori. La nostra visione del mondo. Vogliamo fare film per trasmettere dei valori, non per guadagnare denaro come fanno gli americani. È una strategia morale e credo che abbiamo sostanzialmente il diritto di farlo. Soprattutto, oggi, abbiamo potere, capacità e soldi per difendere il punto di vista arabo. E condurremo questa battaglia”. I produttori arabi e i patron delle industrie creative a Riyadh, Beirut, Damasco, Dubai, Doha e Il Cairo sono dunque pronti a lanciarsinellabattaglia mondialedeicontenuti. Ritengono che cinema, musica e programmi televisiviarabipossano diventaremainstreame conquistare il resto del mondo. Hanno già avviato le loro strategie. Ora è necessario conoscere il punto di vista della concorrenza, soprattutto dei distributoriamericani. L’ufficio della 20th Century Fox si trova nella parte vecchia del Cairo,inviaAlAzbeka. “È dalla parte del bar americano,” è l’unica indicazione che mi è stata comunicata. L’autista del taxi è analfabeta e non se ne fa nulla delle indicazioni scritte che ho con me, deve chiedere ai passanti cosa ci sia scritto sul mio foglietto per condurmi in quella via. L’edificio è vecchio e nel contempo classicheggiante, in cattivecondizioni,hail fasto di una volta, appassito. Si potrebbe pensare di trovarsi di fronte a Palazzo Yacoubian. Anche qui c’è un guardiano addormentato nella hall e nessuno sa a quale piano si trovi l’ufficio della Fox. Prendo un ascensore scassatoesenzalucee arrivo al terzo piano. Penso che in un’epoca diversa da film di successo come Titanic e Avatar, da questo edificio sono uscite pellicole che hanno conquistato il mondo arabo.Strano. Se l’edificio ha un’aria da caos egiziano, all’interno gli uffici sono moderni e “all’americana”. Sui muri, bianco gesso, ci sono locandine gigantesche di Guerre stellari, X-Men e Simpsons. Nell’ufficio principale c’è un pendolo della 20th Century Fox che tutte le ore fa risuonare la famosa Fox Fanfare. Antoine Zeind è il presidente di United Motion Pictures, una societàchedistribuisce in esclusiva i film degli studios americani nei paesiarabi,soprattutto FoxeWarner. “Oggi in Egitto, non si tagliano più le scene in cui ci sono baci, ma quelle in cui ci sono donne nude o poco vestite sì!” sospira Antoine Zeind. È cristiano (maronita) e parla correntemente inglese e francese. Sono venuto a incontrarlo per capire il sistema di regolamentazione del cinema in Egitto. Questa volta ho bussato alla porta giusta. Antoine Zeind: “La censura riguarda soprattutto i tre ‘soliti sospetti’, religione, sesso e politica. Ma si tratta di una censura sempre più ipocrita, con diversi livelli e criteri di applicazione, e bisogna conoscerne i codici”. Per renderla operativa, il governo egiziano ha fissato un sistema di autorizzazione preventiva dei film prima della loro uscita nei cinema. “L’ufficio della censura può proibire qualsiasi lungometraggiooppure chiedere dei tagli per ‘mancanza di moderazione’,” mi dice Zeind, “rispetto al corpo femminile, per opinioni ostili nei confronti dell’Egitto, del presidente Mubarak, del Profeta o dell’islam, e naturalmente per ogni riferimento esplicito a sessualità, omosessualità, ma stranamente né la violenza né l’alcol costituiscono un problema.” Anche in questo caso si tratta di una censura molto imprevedibile: il film Yacoubian Building tratto dal romanzo del celebre scrittore egiziano‘AlaalAswani, che affronta l’ascesa dell’islamismo in Egitto,l’omossessualità e lo sfruttamento sessuale di giovani donne, non è stato censurato (solo vietato ai minori di diciotto anni). Ha riscosso anche un certo successo in Egitto. Censurediquestotipo, ancor più rigide, esistono anche in Arabia saudita, nei paesidelGolfo,inSiria einIran. Inoltre, il governo egiziano limita la diffusione dei film stranieriacinquecopie per ogni città al massimo. “Siccome, in realtà,cisonosolodue grandicittàinEgitto,Il Cairo e Alessandria, in generale abbiamo dirittoadiecicopieper tutto il paese,” dice amareggiato Zeind. “È un mercato chiuso, oppuresemichiuso.Esi capisce bene come il cinema egiziano possa occuparel’80percento delbotteghinoeperché il cinema americano è cancellato. Cancellato nel senso che abbiamo il restante 20 per cento, ma il mercato egiziano è di difficile penetrazione per la cultura americana. Si rende conto: dieci copie per un paese di settantacinque milioni diabitanti!Anchesemi dirà che c’è di peggio, per esempio in Libia, dove distribuisco film della Fox, abbiamo diritto a una sola pellicola!” La “cancellazione” del cinema americano deve essere attenuata. Se la quota di cinema egiziano resta complessivamente dominante in Egitto, la concorrenza americana è diventata rilevante nelle zone urbane. La loro quota di mercato può raggiungere il 4550 per cento nei multisala delle grandi città, dove sono concentrati i film di successo hollywoodiani. Inoltre c’èilmercatonero,che permette di accedere facilmente al Cairo, come altrove, a tutti i filmamericaniindvda prezzistracciati. A questa regolamentazione attraverso il numero di copie si aggiunge un sistema di tassazione sfavorevole al cinema straniero: 5 per cento su tutti gli introiti del box-office per i film egiziani, 20 per cento sui film stranieri. Tuttavia,AntoineZeind suggerisce che il problema principale della diffusione del cinema americano in Egitto, oltre questo doppio protezionismo dellalegge,èculturale. La questione è quella dei sottotitoli, poiché come in tutti i paesi arabi, quasi tutti i film stranieri non sono doppiati. In un paese con un analfabetismo vicino al 30 per cento ciò contribuisce a frenare la diffusione dei film stranieri. “Anche se avessi centocinquanta copie di un film non saprei dove proiettarle: la richiesta di cinema americano è scarsa, anche se in aumento,” ammetteZeind. Infine, esiste una regolamentazione indiretta attraverso il mercato. In Egitto esistono fondamentalmente due distributori che hanno sale proprie e sono fortemente integrati verticalmente (ovvero distribuiscono i film che producono). Di conseguenza, questo duopolio funziona secondo il principio dell’esclusività: i film americani sono marginalizzati, soprattutto durante i periodi più favorevoli del box-office, come in estate, la fine del Ramadan o la festa del Sacrificio. In definitiva, il dato reale di penetrazione del cinema americano in Egitto è difficile da valutare. Secondo diversi distributori, sarebbe attorno al 2025 per cento del boxoffice,mentreilrestoè rappresentato da film egiziani, mentre la cinematografia araba, europea o straniera è praticamente inesistente (gli ufficiali egiziani confermano queste statistiche). “In Egitto ci sono pochissimi film siriani, quasi nessun film libanese e nessun film del Maghreb,” spiega Zeind. Un film americano fa al massino 150.000 ingressi: “Con Titanic, che è stato un’eccezione con 400.000 ingressi in ventisei settimane, sono riuscito a fare sei spettacoli al giorno e con sole cinque copie! Abbiamo aggiunto una proiezionedetta‘supermidnight’ alle due del mattino e nei centri urbani anche una proiezione ‘after-thesuper-midnight’, alle quattro del mattino, chiamata ‘El Shabah’ (il fantasma)”! Solo il cinema americano riesce a sfondare in Egitto,ancheseancora moderatamente.“Mala richiesta di film americani crescerà,” prevede Zeind. “C’è sempre più appetito per i film d’azione americani. Gli egiziani non sanno più fare intrattenimento mainstream e anche i giovani tendono a non vedere più i loro film. Se la richiesta è limitata in modo autoritario nei cinema, il pubblico troverà su internet e sui canali satellitari l’offerta culturale che desidera.” Hala Hashish, direttricediEgyptNew Channel, respinge completamente queste argomentazioni. “Gli arabi sono capacissimi di produrre intrattenimento mainstream e di dimenticare l’islam. In Egitto facciamo intrattenimento dalla notte dei tempi.” Di fronte a lei ci sono tre schermi che trasmettono in continuo Al Jazeera, Al Arabiya e Egypt New Channel. “Tutti e tre questi canali sono molto mainstream,” aggiunge indicando gli schermi. “E peraltro parlano tutti egiziano. Ascolti, giornalisti, cantanti, attori di cinema, le persone dell’intrattenimento sono tutte egizianizzate.” “Egizianizzazione”, è la prima volta che sento questa espressione che ricalca quella di “americanizzazione”. Forse è a partire dal mondo arabo che bisogna cominciare a misurare il dominio americanonellacultura di massa. Il successo planetario dell’intrattenimento americano è simile al successo dell’intrattenimento egiziano sul mondo arabo; è solo una questione di scale differenti. Anch’esso suscita critiche ed è accusato di imperialismo. Come gli Stati Uniti, anche l’Egitto difende da tempo la cultura di massa e il divertimento. Questa tradizione di intrattenimento popolare è onnipresente e non è accompagnatadaalcun giudizio critico ed estetico volti a costruire gerarchie culturali. In Egitto esiste un cinema d’autore,dicuiYoussef Chahine è stato l’archetipo, ma non esiste invece, come in Francia o in Marocco, un discorso pubblico ufficiale che valorizza l’arte invece del divertimento e si propone di finanziare questo per controbattere l’altro. SecondoAntoineZeind, questa sarebbe la spiegazione del dominio egiziano nei paesi arabi: “In Marocco, Tunisia, ma anche Vietnam, Siria e Corea, Belgio francofono, Argentina in cui il modello francese è sempre stato forte in ambito culturale, si privilegia la cultura di stato e si sovvenziona il cinema d’autore; in Egitto, India, Brasile, tra i fiamminghi, a Hong Kong e oggi a Pechino, come da sempre negli StatiUniti,siprivilegia il divertimento. Per questo i secondi hanno successo e i primi invece no. Per questo la cultura marocchina nonhaalcunainfluenza oggi nel mondo arabo mentre domina la cultura egiziana”. Questopungentepunto di vista è condiviso dal critico cinematografico Youssef Cherif Rizkallah, intervistato al Cairo: “Il Marocco ha una produzione artistica, spesso sostenuta dallo stato. Si possono vedere questi film in sale che proiettano cinema d’autore in Europa, ma non sono proiettati neanche in Algeria e Tunisia. Mentre invece i nostri film dominano il cinema del Maghreb”. È dunque lecito chiedersiseipaesiche riescono ad affermarsi all’internodegliscambi culturali internazionali edeiflussidicontenuti sono quelli che sostengono l’intrattenimento rispettoall’arte.Questa argomentazione è condivisa nell’Africa francofona da Charles Mensah,direttoredella cinematografia del Gabon, intervistato in Camerun. “Le cinematografie che puntano sul film d’autore,sulmodellodi quella francese, come quelle di Marocco, Gabon e Camerun, non riescono a diffondere ampiamente i loro film all’estero, mentre quelli che promuovono un divertimento all’americana, come Egitto, Nigeria e soprattutto l’India riesconomeglio.” Come Stati Uniti e India,anchel’Egittoha una relazione particolare con le star. Oggisonopochiipaesi che hanno star molto popolari all’interno dei loro confini – quelle vere, capaci di creare parapigliaeaffascinare le folle –, sono più rari ancora quelli che hanno saputo produrre star globalizzate conosciute in tutto il mondo. Appartengono aquestaschieraArnold Schwarzenegger, Tom Cruise, Leonardo Di Caprio, Harrison Ford, Will Smith, ma sulla scena mondiale gli europei sono ormai assenti, mentre alcune star indiane ed egiziane cominciano a fare concorrenza a questiattoriamericani. A Mumbai sono stato sorpresodallareazione isterica delle folle alla comparsa di star di Bollywood, Amitabh Bachchan o Shah Rukh Khan, e ho visto le stesse scene nelle vie del Cairo quando una sera, mentre lo intervistavo nella sua auto dai vetri oscurati, il giovane attore cinematografico e presentatorediuntalkshowtelevisivo,Khaled Abol Naga, è stato riconosciuto a un semaforo rosso da decine di giovani egiziani che ci hanno seguito per le vie, costringendo la polizia a intervenire per liberare il passaggio e facilitare la fuga della star. E si trattava solo di un giovane attore debuttante. Quasi alla fine di questa lunga inchiesta è dunque opportuno chiedersi se, per diventaremainstreame comunicare a tutti, bisogna privilegiare l’intrattenimento e valorizzarlo con sincerità. Bisogna puntare sullo star system piuttosto che sugli attori? Bisogna abbandonare i propri valori, la propria arte, lapropriaidentità?Per diventare universali bisogna cessare di avere un’identità nazionale? È dunque necessario un viaggio in Europa, per capire comeinquestovecchio continente, patria della cultura occidentale e dei suoi valori, si sia smesso di voler essere mainstream. 16. Laculturaantimainstream dell’Europa Jonathan Karp, detto Jon, ha quarantun anni ed è la star dell’editoriaamericana. Mi concede un’intervistaall’interno diunagrandissimasala riunioni che può ospitare oltre cento persone, benché siamo solo noi due. È editor in chief, una sorta di direttore letterario, di Random House, il più importante gruppo editoriale americano (Karpmidice:“Ilprimo editore al mondo”). Sono al civico 1745 di Broadway a New York, all’angolo della Cinquantaseiesima Strada,treisolatiasud di Central Park. Nell’immensahalldella Random House Tower, sede del gruppo, ci sono migliaia di libri messi in cubi di vetro impilati l’uno sull’altro fino ad arrivare al soffitto, spettacolare esempio della produzione della casa editrice. Il più noto di questi libri è Il Codice DaVinci di Dan Brown – con sessantasei milioni di copie vendute e tradotto in quarantaquattro lingue. “Ogni anno pubblichiamo fra i tremila e i cinquemila libri,” afferma Karp. “Siamo un editore mainstreameciòcheci interessa sono i bestseller.” Jonathan Karp punta soprattutto sugli instant o runway bestsellers (quelli che vendono molto subito) e sui coast-to-coast bestsellers (quelli che piacciono a tutti, da unacostaall’altradegli Stati Uniti). Pubblica ancheautorimenonoti, ma con grandi potenzialità, cioè quando crede che un libro possa raggiungere il tip-ping point (espressione famosa nell’editoria americana e nell’ambito del marketing per indicare il punto a partire dal quale un prodotto è desiderato da un pubblico di massa e contagioso). Inoltre è attento a libri che possonoessereadattati dal cinema hollywoodiano e per questospessoopzionati da una major ancor prima di essere pubblicati. Non gli interessa per nulla pubblicare libri o monografie senza una storia vera, ai novels, romanzi noiosi, preferisce le fictions; lascia pubblicare alle “UniversityPress”testi accademici, con un preciso punto di vista, argomentazione e analisi, preferisce quelli che chiama elegantemente pop books. L’istinto metà editoriale e metà commerciale di Jonathan Karp e la sua capacità di individuare i libri più mainstream difictionodinarrative non-fiction (un testo o un saggio che raccontano una storia che i lettori possono seguire dall’inizio alla fine), gli sono valsi l’encomio da parte degli addetti ai lavori. “Non mi occupo dei libripubblicatidatutto il gruppo,” spiega comunque Jonathan Karp,“masolodiquelli pubblicati da Random House con il suo marchio.” Infatti, lavora per la casa che negli ambienti si chiama “Little Random”, l’imprint Random House all’interno del gruppo RandomHouse. Negli Stati Uniti, come nella maggior parte dei paesi occidentali, l’industria del libro è organizzata secondo il sistema degli imprint: all’interno di uno stesso gruppo ci sono diverse case editrici, apparentemente indipendenti, che pubblicano con il loro marchio. Random House, per esempio, comprende un centinaio di imprint come Alfred Knopf, Ballantine, Bantam e Pantheon Books, ciascunadiquestecase editrici pubblica un centinaio di libri all’anno. “In termini generali, l’imprint mantiene una forte identitàeditoriale:fale scelte degli autori, gestisce il marketing, la pubblicità e le relazioniconlastampa. Gli uomini chiave degli imprint sono gli editor. Tutto ciò che è backoffice è invece gestito da Random House, la casamadre.”Perback- office, Jonathan Karp intende produzione, stampa, distribuzione, magazzino, contabilità, questionilegaliediritti derivati (vendita all’estero, piattaforme digitali, vendita su eBooks e Kindle, adattamentinelsettore audiovisivo). “Sul fronte della casa madre, gli uomini chiave sono i numbers people, le persone che sioccupanodinumeri,” prosegue Karp. Negli Stati Uniti si dice che questo sistema dovrebbe servire a favorire la diversificazione dei titoli nel settore degli imprint, mentre all’interno del gruppo favorirebbe le economie di scala combinate e la distribuzione di massa. Ècomesedaunaparte ci fosse la grande autonomiadiunastartup e dall’altra la forza d’urto di una multinazionale. Questo modello di funzionamento è vigente in tutte le industrie creative e si ritrova anche nelle major della discografia attraverso le “etichette” (Columbia Records, Artista e Rca sono per esempio etichettediSony)econ le “unità specializzate” degli studios hollywoodiani (Focus FeaturesperUniversal, New Line Cinema per Warner). Anche i gruppi editoriali americanihannopropri imprint come Simon & Schuster e The Free Press all’interno di Viacom, HarperCollins all’interno di News Corp. Dopo la nostra prima intervista, la star dell’editoriaamericana, Jonathan Karp, che era rimasto alla Random House per sedici anni, ha dato le dimissioni per andare a lavorare per la concorrenza, Warner Books, controllata dal colosso Time Warner. La sede del gruppo è nella partesuddiNewYork, al civico 1271 di Avenue of the Americas, nella stessa torre del “Time”. Karp è presidente di un nuovo imprint creato da lui stesso, Warner Twelwe. “Pubblichiamo ormaitroppilibrienon abbiamo il tempo di occuparcene. Questo imprint si chiama così perché abbiamo deciso di pubblicare solo dodici libri all’anno,” spiegaJonKarp. Cosìfunzionadunque l’editoria americana. Eppure nessuno dei due fiori all’occhiello dell’editoria statunitense, Random HouseeWarnerBooks, è americano. Random House, infatti, primo gruppo editoriale degli Stati Uniti, è controllata dal colosso tedesco Bertelsmann, mentreWarnerBooksè stata acquisita nel 2006 dal francese Hachette Book Group (Lagardère). Ormai l’imprint di Jonathan Karp si chiama solo Twelwe. Le due princiali case editrici americane, di fatto, sonoeuropee. “Abbiamounagrande decentralizzazione. Si cercano sinergie, ma l’editoria continua a essereunsettoremolto artigianale. La concorrenza interna è sana,” spiega Arnaud Nourry, amministratore delegato di Hachette Livre. Axel Gantz, editore di successo e rappresentante di Bertelsmann France, che intervisto a lungo su un treno Tgv, conferma: “Bertelsmann segue una filosofia della decentralizzazione totale,tutteledecisioni sonopresedachihala responsabilità su un dato settore”. In Germania, alla sede di Bertelsmann, dove la direzione si è rifiutata di ricevermi e dove le poche persone che intervisto vogliono restare anonime, mi si dice che “Bertelsmann è una multinazionale molto delocalizzata, ogni unità ha libertà totale nella conduzione e nella gestione del proprio business; le unichecosepredefinite sono le strategie e le politiche di investimento”. La casa madre Bertelsmann, gestita da una fondazione familiare e non quotata in Borsa, non intende né controllare né organizzare la politica editoriale di Random House, così come non interviene sulle trasmissioni delle emittenti radiotelevisive Rtl, Channel 5, M6 e Fun Radio. “Il vero patron di Bertelsmann per quasi sessant’anni, Reinhard Mohn, recentemente scomparso, rappresentava un residuo del capitalismo renano familiare e regionalizzato. Ogni settore è molto autonomo e ogni dipendente è responsabilizzato attraverso una cultura dellacollaborazionetra direzione e lavoratori,” mi spiega uno dei membridelconsigliodi sorveglianza di Bertelsmann. Non ho conferme dirette di questo “idilliaco modello” dei rapporti di lavoro tra dirigenza e dipendenti, ma nei settori del gruppo visitati a Praga, Parigi e New York ho sicuramente notato la forte decentralizzazione. “Non dobbiamo chiedere alcuna ‘luce verde’ a Bertelsmann. Non controlla né la linea editoriale, né le nostre scelte commerciali, solo i nostri risultati e le vendite,” conferma a Praga Jan Knopp, responsabile del marketing dell’editore Euromedia, di proprietà di Bertelsmann. Tuttavia, i libri e i giornali editati da Bertelsmann,lamusica vendutadallasuafiliale Bmg Publishing, i programmi televisivi e radiofonici del gruppo non sono tedeschi – e spesso non sono neanche europei. La multinazionale tedesca controlla Random House, che continua a essere un gruppo editoriale completamente americano. L’Unione europea, composta da ventisette paesi, è un continente talmente vasto e diversificato che in temadimediaecultura del divertimento meriterebbe un libro a sé. Si pongono infatti temi come il ruolo cruciale di Bbc nel mondo, l’impero di Berlusconinelcontesto italiano, il potere di multinazionali francesi come Vivendi e Lagardère, inglesi come Emi e Pearson, spagnole come Prisa, portoghesi come Sic, rumene come Cem e tanti altri. Su questi diversi gruppi ho fatto alcune inchieste, ma piuttosto che riportarne i risultati ho preferito privilegiare, in questo capitolo finale sull’Europa, un approccio trasversale più approfondito su cinquespecificiaspetti: i paradossi del successo dei videogiochi francesi, il ritorno in Europa dei cechi, le tensioni culturali in Belgio, il ruolo di Londra e Parigi come capitali dellamusicaafricanae, infine, ai confini del continente, le aspettative europee della Turchia, tra americanizzazione e islamizzazione. Ogni singolo paese, preso a sé, ha scarso peso all’interno dei flussi dei contenuti internazionali, benché la presenza di Inghilterra,Germaniae Francia abbia una certa incidenza. Tuttavia, l’Unione europeaèfortee,sulle esportazioni dei contenuti, è seconda dopo gli Stati Uniti. Soprattutto, tra i paesi europeic’èunrilevante scambiodiprodottiedi informazioni e ciò fornisce reale consistenza al mercato interno e alla natura dell’intrattenimento europeo. Il successo, tuttavia, finisce qui. Le importazioni di contenuti, soprattutto dagli Stati Uniti, superano le esportazioni e ciò rende la bilancia dei pagamenti europea molto deficitaria in termini di cultura e di informazione(mentreè ampiamente in attivo per gli Stati Uniti). Le statistichemostranoun declino importante delle esportazioni di musica, dei programmi televisivi e dei film europei (il libro resiste meglio) da una decina di anni con un ritmo di –8 per cento all’anno. In estrema sintesi: l’Europa cala nella produzione ed è diventata il primo importatore di contenuti al mondo, mentre gli Stati Uniti, la cui produzione esplode, sono ormai ampiamente il primo esportatore di suoni e immagini – e queste esportazioni sono dirette anzitutto verso l’Europa. Come siamo arrivati a questa situazione? Le prossime pagine cercanodirisponderea questadomanda. Il successo in trompe l’œil dei videogiochi europei Quando ho voluto saperedovesonocreati i giochi La tigre e il dragone e Brothers in arms della casa francese Ubisoft, mi è stato fatto il nome Zhabei. Mi è subito sembrato un nome strano, Zhabei, e non riuscivo a immaginare dovepotessetrovarsi,a Parigi o in qualche altro angolo della Francia. Ubisoft è uno dei colossi del videogioco ed è una casa produttrice e distribuitrice europea. Le sue entrate sono in forte crescita, come quelle della concorrenza, American Electronic Art, Blizzard, Activision (queste ultime due sono state acquisite da Vivendi). Il successo economico dei videogiochi si spiega soprattutto con l’ascesa dei giochi su internet, degli abbonamenti per i prodotti multigiocatore e della connessione totale delle consolle di nuova generazione con internet. La Xbox 360 (dell’americana Microsoft), Playstation 3 (della giapponese Sony) e Wii (della giapponese Nintendo) sono veri e propri prodotti multimediali. Di fronte al successo dei giochi prodotti da Ubisoft e Vivendi Games, ho cercato di capire il segreto del french touch nel settoredeivideogiochi, dove le aziende francesi sono ormai leader mondiale. Così hoscopertoZhabei. Zhabei periferia è nella nord di Shanghai, una zona industriale high tech nota con il nome di Shanghai Multimedia Valley. Viene subito da chiedersi se sia una sorta di Silicon Valley in miniatura al servizio diunpaesegigantesco, ma in realtà è solo la concreta esemplificazione della delocalizzazione delle industrie creative europeeinCina. Mi trovo così di fronte Zhang Ian Xiao, che nel suo ufficio ha Marsupilami, il canescimmiainpelucheeil cane giallo di Martin Matin. Zhang Ian Xiao è il presidente di Fantasia Animation, una società privata di produzione di film d’animazione, di cartoni animati e di videogiochi.Mitrovoin questi locali quasi per errore, prima di fare visita a Ubisoft. Ian Xiao è stato direttore della ampiamente ufficiale Shanghai Television e da sempre le sue passioni sono i cartoni animati e lo “sport elettronico” (cioè i videogiochi). “Il nome della mia società è un composto di ‘fantasia’ e ‘Asia’,” spiega Zhang Ian Xiao, nel suo ufficio di Shanghai. Fantasia Animation realizza cartonianimatiegiochi per conto di numerosi produttori ed editori europei. A un centinaio di metri da Fantasia Animation si trovano Magic Motion Digital Entertainment, uno dei più grandi studi d’animazione 3D della Cina; Game Center, una delle principali società di videogiochi della regione e, un po’ oltre, finalmente, la società“offshore”della casa francese Ubisoft. Qui sono sviluppati videogiochi come La tigre e il dragone e Brothersinarms. “I dipendenti qui sono ben pagati, meglio che altrove a Shanghai,” sostiene il responsabile dello studio. “Guadagnano tra i 1500 e i 10.000 yuan Rmb al mese (150-950 euro), il doppio di un salario normale per questo tipo di lavoro a Shanghai. Anche se in euroèmenodelsalario minimo in Francia o negli Stati Uniti e senza previdenza sociale.” (Intervistati non in presenza del datore di lavoro, i dipendenti mi dicono che il loro stipendio è inferiore a 4000 yuan Rmb, ovvero 400 euro al mese.) Il successo commerciale di Fantasia Animation, Magic Motion, Game Center e della società offshore di Ubisoft si spiega con la presenza di questo tipo di manodopera: nel contempo altamente qualificata e incredibilmente a buon mercato. Il massimo, per gli europei. Anche nell’epoca del digitale, per produrre un film d’animazione o un videogioco è necessario, infatti, molto “tempo uomo”, dunque le case di produzione occidentali mantengono il controllo della sceneggiatura e del marketing e subappaltano tutte le fasi intermedie per la produzione di film e videogiochi a società cinesi come quella di Zhabei. Girando per gli uffici di Ubisoft e Fantasia, vedocentinaiadicinesi ammassati in vecchi depositi che sembrano scalcinati se si considera la loro struttura, ma ultramoderni se si guardano la quantità e la qualità dei computer. In ogni sala, a ogni piano, ci sono ingegneri, tecnici, sceneggiatori, animatori, compositori d’immagini che disegnano, colorano, creano. Hanno l’aria di essere appassionati ed entusiasti della loro attività. Vestono in jeans e indossano scarpe Nike e hanno meno di trent’anni. Ciascuno sta nel suo cubicle, insieme agli altri all’interno di un openspace,enellasua campana di vetro ascolta rap americano opopinmandarinosul proprio iPod e beve Coca Zero appoggiata sui minuscoli tavoli luminosi. All’interno di Fantasia Animation mi viene fatto visitare un ufficio chiamato “zone”, dove i capiprogetto sono in contatto con i committenti europei a cuifannoapprovare,in inglese,leproduzionia mano a mano che avanzano: i contatti telefonici avvengono la mattinaprestoolasera tardi per adattarsi alle differenze di fuso orario. Anche presso Ubisoft si pratica questo dialogo internazionale, ma invece di collegare Cina ed Europa, i capiprogetto ricevono ordini da oltre il Pacifico e arrivano regolarmente pacchi spediti con Fedex Worldwide, cioè provenienti dagli Stati Uniti. Tutti lavorano “all’americana”.Scopro dunque che i committenti di una società francese come Ubisoft non si trovano aParigi,mainAmerica delNord(aVancouver, a Montréal, oppure in Texas e in Carolina del Nord). Peraltro, i recenti successi di Ubisoft sono smaccatamente americani: Assassin’s Creed 2, Avatar e la versione in videogioco dei romanzi di Tom Clancy. È inoltre in preparazione il videogioco ispirato ai racconti di Le mille e una notte, la cui storia verrà portata sugli schermi da Disney nel 2010conLesabbiedel tempo. All’interno di questi videogiochi, il french touch è davvero molto relativo. Come accade a Bertelsmann con l’editore Random House, oppure a Sony conlamajorColumbia, i francesi controllano quella che è forse la più importante casa di produzione di videogiochi, ma non producono giochi francesi. Vivendi Games nel 2007 ha acquisito il colosso americano Activision e lo studio californiano Blizzard (editore del celebre gioco “fortemente multigiocatore” World ofWarcraft).Daallora, Vivendi è leader mondiale dei videogiochi. Ma allora, i contenuti sono francesi,oquantomeno europei? “Tutti i nostri giochi sono pensati, sviluppati e commercializzati negli Stati Uniti,” conferma undirigentediBlizzard intervistato a Irvine, vicino Los Angeles. “Il fatto di appartenere a una multinazionale francesenonincideper nulla sui prodotti che creiamo. Tutt’al più, questi giochi hanno un tocco asiatico, poiché molti giochi sono prodotti in Asia, ma in nessun caso hanno un sapore europeo. Del resto, non saprei cosa vuol dire avere un sapore europeo.” Blizzard, prima di essere acquisita da Vivendi, aveva uno studio in Francia, dopo l’acquisizione è stato chiuso. All’interno di Zhabei, qualcheoradopo,sono invitato a pranzare con le équipe di Fantasia, Magic Motrion e Ubisoft.Cercodicapire lo status giuridico di questesocietàoffshore, chedavveromisfugge. All’inizio del pranzo mi si spiega che sono società “private”: in generale “l’economia socialistadimercato”è un capitalismo. A poco a poco capisco che queste società sono legate “anche” a ShanghaiMediaGroup, un immenso conglomerato pubblico che comprende decine di televisioni e di radio di stato e studi cinematografici che appartengono alla città di Shanghai. “L’economia socialista di mercato” cinese è caratterizzataancheda un autoritario centralismo socialista. Continuo a non capire se sono società private o pubbliche e cerco di capire i legami che uniscono queste società e come avvengano le transazioni finanziarie, che immagino importanti, con Europa e Stati Uniti. In Cina bisogna saper attendere e porre regolarmente la stessa domanda, a ogni tappa dell’intervista, senza insistere,masenzamai allentare la presa, fino aquandononsiottiene risposta alla domanda formulata. Alla fine del pranzo, i miei interlocutori mi spieganoche,ineffetti, ciascuna di queste aziende funziona con società “che fanno da passerella”, con sede a Hong Kong, che effettuano le transazioni finanziarie. “Per far rientrare il denaro, la società e le banche di Shanghai funzionano bene, ma quando si tratta di farne uscire, per investire, comprare materiale, fare coproduzioni passiamo per la società di Hong Kong.” Non riesco a ottenere altre notizie sui legami tra società pubbliche cinesi e società schermo di HongKong,macapisco cheperrenderesicurii fondi, evitare limiti sui movimenti di capitali all’estero fissati da Pechino e per effettuare importanti versamenti internazionali, Hong Kongèindispensabile. LasciandoZhabeiela Shanghai Multimedia Valley incontro un gruppo di donne anziane che sembrano molto agitate e manifestano pacificamente. Chiedo al mio traduttore di dirmi cosa c’è scritto sui loro cartelli e cosa rivendicano. Ogni giorno queste donne vengono a manifestare davanti ai locali moderni delle società che lavorano con l’Occidente perché queste aziende sono state costruite sui loro villaggi, sulle loro terre. Sono state cacciate. Chiedono un compenso, un risarcimento economico. Da mesi questedonneanzianee poveremanifestanonel silenzio generale e in un freddo glaciale secco. Sono le vittime collaterali delle delocalizzazioni europee. Siamo di fronte a un nuovo panslavismo nei paesi dell’Europa centrale? Sia che producano videogiochiconUbisoft e Activision, sia che pubblichino libri con Random House o Hachette Book Group, sia che distribuiscano musica Emi (major della discografia controllata da diversi fondi di investimento inglesi) o Universal Music (che appartiene alla francese Vivendi), gli europei producono raramente cultura mainstream “europea”. Nel migliore dei casi, queste multinazionali tedesche, francesi o inglesi producono, spesso con successo, prodotti e servizi per il loro mercato interno, ma poco esportati, anche nel continente europeo. Per il resto, producono per il mercato internazionale semplicemente un intrattenimento mainstream americanizzato. E quando si viaggia in America latina, Medio Oriente e Asia e si incontrano i dirigenti locali delle major europee della musica, Emi e Universal, si resta sorpresi nel sentirlidirechetuttala parte artistica è trattata dagli uffici di NewYork,MiamieLos Angeles – e quasi mai da quelli di Parigi e Londra. Pascal Gaillot, che dirige Emi in Medio Oriente e Nord Africa, intervistato a Dubai conferma: “Dipendo da Londra per le questioni finanziarie ma da un americano, Billy Mann, direttore A&R di Emi, che sta a New York, per tutte le questioni artistiche”. Inoltre Gaillotspiegache,aldi fuori della musica strettamente inglese, tutte le decisioni artistiche di Emi sono prese a New York, per l’America latina, l’Asia, il Medio Oriente, l’Africa e l’Europa. Anche a Parigi, il potenteamministratore delegato di Universal Music France riconosce che la sede delgruppoèNewYork. “Laragioneèsemplice: gli Stati Uniti sono il mercatopiùgrandeper la musica. Però, Universal è una major francese poiché l’azionista di riferimento è francese,” spiega Nègre. José Eboli, amministratore delegato di Universal Music a Rio, conferma che le decisioni artistiche per il Brasile sono prese a Miami, poi a New York. Anche se alcune major della discografia sono europee, le decisioni artistiche sono prese negliStatiUniti. Per capire questa situazione e la fragilità della cultura “comune” degli europei, ho fatto inchieste a Praga, Londra, Roma, Madrid, Bruxelles,Copenaghen. Ovunque ho trovato una situazione simile: una feconda cultura su scala nazionale, spesso di qualità, e talvolta anche di successo, ma non esportata, e una cultura americana onnipresente, che rappresenta il “resto” della cultura. Non intendo l’arte, la cultura storica o i valori veicolati attraverso la cultura, ma parlo di prodotti culturali, di cultura di massa, di cultura dei giovani. Questa cultura europea comune non esiste più. L’unica cultura mainstream comune ai popoli europei è diventata la culturaamericana. “Prima della rivoluzione e della caduta del comunismo nel 1989, qui era vietato vedere film americani. Oggi è il contrario:èvietatonon vedere un film americano,” dice con autoironia Martin Malík, che dirige gli uffici di Warner Bros nellaRepubblicaCeca. Mi trovo al numero 13dellaviaSoukenická di Praga. Alla sede locale di Warner tutti sono di nazionalità ceca, ma lavorano per gli americani. Martin Malík afferma: “Il botteghino ceco è, come ovunque in Europa, fatto dalla produzione nazionale e da quella americana. Trannequalchesingolo film, spesso tedesco, comeGoodbyeLenino Le vite degli altri, il cinema europeo in sostanzanonesistepiù nella Repubblica Ceca. Di fronte ai film di successo hollywoodiani, la cinematografia nazionale tiene piuttosto bene. In questi ultimi anni, la produzione ceca è addirittura aumentata e i nostri film raggiungono un terzo della quota di mercato del botteghino” (in Europa, è la seconda cinematografia ad avere risultati così importanti sul proprio territorio, dopo la Francia). Tecnicamente, più la produzione nazionale aumenta, più la quota di cinema americano decresce, anche se arriva sempre al 50 e spesso60percentodel box-office. Come si spiega questo successo del cinema ceco? “Il nostro cinema ha successo grazie alle commedie e soprattutto a quelle che si chiamano teen comedies, che hanno unseguitoimmensotra igiovani,anchesesono spesso adattamenti di formatamericani,come American Pie o Rent,” spiega il critico cinematografico Irena Zemanova. “Esiste anche un cinema nazionale popolare con commedie in stile familiare, comico e leggero, spesso con temimoltoprovincialie talvolta rurali. Da noi tutto ciò ha successo, piace al nostro presidente nazionalista, ma è molto ruspante e soprattutto non viene esportato,” commenta Steffen Silvis, critico cinematografico al “PraguePost”. Il “ritorno in Europa”, slogan della rivoluzione del 1989, non ha avuto alcuna concreta applicazione sul piano culturale. A eccezione degli slovacchi, i cechi non hanno particolari legami con le nazioni confinanti: pochi con i tedeschi, per nulla con i polacchi e raramente con ungheresi, sloveni, croati, rumeni. Gli attuali dirigenti della Repubblica Ceca, a cominciare dal presidente Vaclav Klaus, si rifiutano di pensare che l’identità nazionale possa dissolversi all’interno dell’Europa. Alla cultura europea tutti hanno tendenza a preferire la cultura nazionale o, alla peggio, la cultura americana. “Pur essendo molto nazionalista, il presidente Klaus è piuttosto soddisfatto della penetrazione del cinema americano: Hollywood difende il sogno americano fatto diindividualismoenon di giustizia sociale, di valorifamiliarienondi fraternità. È esattamente questa la politica nazionalista di Klaus,” mi spiega a Praga il critico cinematograficoMichal Prochazka. Il redattore capodel“PraguePost”, Frank Kuznik, conferma pur relativizzando questa evoluzione: “Nel 1989, i cechi hanno voluto raggiungere ‘l’Ovest’. Vent’anni dopo si sono resi conto che neanche questo ‘Ovest’ concorda con la loro identità così come non concordava con il comunismo. Il presidente Klaus è euroscettico e protezionista, vuole ristabilire la cultura cecacomesuccedecon la musica e il cinema: non vuole né un’americanizzazione, né un’occidentalizzazione, né un ritorno al panslavismo, ma semplicemente un ritorno alla cultura ceca.Sitratta,tuttavia, di una sensibilità che hanno le persone che erano adulte prima del 1989,quellechehanno votato per Klaus, ma pernullapresentenelle giovanigenerazioniche sono letteralmente affascinate dal cinema americano”. Il critico cinematografico Irena Zemanovaèancorapiù chiara:“Èevidenteche la cultura mainstream in Repubblica Ceca è americana e quella dei giovani è quasi totalmente americanizzata”. InEuropacentrale,è addirittura probabile che l’influenza degli americani sia ancora più forte di quanto si possa immaginare. Gli studios, infatti, investono spesso nei film nazionali attraverso un abile sistema di coproduzioni, inoltre, dal 1989, Praga è un laboratorio per Hollywood: “Molti film cechi sono prodotti grazie a investimenti americani,eciòsivede nelle sceneggiature”, commenta Martin Malík alla sede di Warner Bros a Praga. Inoltre, gli studi cechi hanno un buon rapportoqualità-prezzo e gli americani ci vengono anche per girarci i loro film. Infine, il cinema ceco per quanto forte all’interno dei propri confini non si esporta. Come ovunque, c’è un cinema nazionale, ma the other cinema (l’altro cinema) resta americano. “I cechi sanno fare film per i cechi, ma solo gli americani sanno fare film per tutto il mondo e per tutti,” conclude MartinMalík. Qualche giorno dopo mi reco presso il principale distributore di film in Repubblica Ceca, il colosso locale Bonton Film Entertainment. Mi trovo sulla via Nadrazini,allasededel gruppo, al di sopra di un grande centro commerciale della periferia sud-ovest di Praga. Bonton Film è stata privatizzata nel 1989 e da allora è diventata un passaggio obbligato per la distribuzione di film nazionali e americani. “Sui grandi mercati come Germania e Inghilterra, le major americane sono in concorrenza tra loro e hannoufficipropri.Ma nei paesi più piccoli, nei cosiddetti mercati secondari, come Portogallo, Romania o da noi, le major collaborano tra loro e si sostengono: hanno creato delle jointventure per distribuire i loro film e si appoggiano a società locali come la nostra peraffrontaremeglioil mercato,” mi spiega Ales Danielis, direttore della distribuzione cinema di Bonton Film Entertainment. Danielis distribuisce in esclusiva i film di Universal,Paramounte Fox, mentre la concorrenza, Falcon Films, distribuisce Disney e Columbia. Danielis non dice però che per avere questa licenza esclusiva rinnovata ogni anno, è obbligato a prendere tutti i film prodotti dagli studios hollywoodiani per un anno, naturalmente i film di successo, ma anche film più scadenti, secondo il principio del blockbooking, sistema anticoncorrenzavietato negli Stati Uniti dal 1948, ma ancora oggi imposto dagli americani in Europa centraleeorientale. Con questa duplice operazione di forti investimenti nelle coproduzionilocaliedi saturazione del mercato attraverso accordi anticoncorrenziali, gli americani vogliono continuare a dominare il botteghino di quella che stranamente si chiama “zone Emea”. All’internodiun’analisi sul “Global Entertainment” fatta dallasocietàamericana PricewatherhouseCoope mostratami a Praga scopro che questi piccoli paesi sono indistintamente considerati dagli Stati Uniti all’interno dell’Emea, “Europa, Middle-East & Africa”, anche la Mpaa utilizza questacategoria. La potenza degli Stati Uniti nel cinema si ritrova nel resto della cultura mainstream in Repubblica Ceca. Nell’editoria, il 60 per cento di traduzioni è dall’americano (il resto: dal tedesco il 29 per cento, dal francese il 6 per cento e dal russo il 2 per cento). “Traduciamo soprattutto dall’inglese americano e quasi niente più dal russo. Con il 1989 siamo improvvisamente passati dal russo all’inglese,” conferma Denisa Novotna, responsabile della casa editrice ceca Euromedia, che appartiene al colosso Bertelsmann. Sulla piazza Venceslao visito una delle principali librerie della città, sono sorpreso nel vedere da lontano scaffali di libri in tedesco, inglese e anche francese, apparentemente simboli della diversità culturale, ma quando mi avvicino ai testi, constato che la maggiorpartediquesti titoli sono identici, spesso bestseller americani tradotti in diverselingue. Nella musica, i gruppi anglosassoni sono allo stesso livello del rock locale particolarmente vitale e dinamico, anche perché prima del 1989 era proibito, i capelli lunghi spaventavano i comunisti. Ma le sale da concerto programmano poco i gruppi europei: i grandi artisti sono soprattutto cechi o anglosassoni (tra loro c’è qualche inglese). I programmi televisivi sono ancora più americanizzati, spesso sono rifacimenti in ceco di serie di successo, oppure vengono acquistati i format: “Negli anni del comunismo la televisione trasmetteva molti film di Bollywood e serie televisive di Hong Kong, prodotti poco costosi e politicamente inoffensivi. Adesso, questi prodotti ‘esotici’ sono destinati ai festival e si guardano soprattutto programmi americanizzati”, commenta il critico cinematografico MichailProchazka. Laculturaamericana guadagna terreno a spese della cultura europeaedelle“altre”, manonindebolisceper nulla la cultura ceca. “Prima del 1989 sognavamodifarparte della cultura europea. Ma dopo la rivoluzione abbiamo scoperto che era un’illusione: non esiste oggi una cultura comune in Europa centrale e orientale. Siamo tutti egoisti: vogliamo costruire relazionispecifichecon Germania, Inghilterra, Stati Uniti e non con i paesiconfinanti.Icechi sono quasi totalmente atei, e guardano i polacchi, che sono in gran parte religiosi, con preoccupazione; detestanoglislovacchi; non considerano gli ungheresi. Chi vorrebbevederequiun film ungherese? Nessuno! È difficile costruire una cultura comune con i paesi confinanti se non ci sono relazioni. A beneficiare di questo egoismo europeo sono gli americani,” conferma il critico cinematografico di “Prague Post”, Steffen Silvis. Il vero sconfitto dal 1989 all’interno degli scambi culturali in Europa centrale è la Russia. “Con la caduta del comunismo è scomparsa la cultura ‘panslava’,” spiega Tomas Hoffman, direttore della casa di produzione Infinity. “Non c’è più alcun legame con i russi: su questo aspetto siamo tutti d’accordo, cechi, slovacchi, ungheresi e rumeni. Non vogliamo più sentire parlare di russi. Non ci fanno più paura, sono semplicemente inesistenti. Ce ne freghiamo completamente di loro. La Russia non rappresenta più un riferimento culturale per i cechi. Il vuoto lasciato dai cori dell’Armata rossa è stato colmato da Mtv Europa.” Le divisioni particolarismi culturaeuropea e i della Recentemente ho trascorso alcuni giorni in Belgio e alla Commissione europea e ho potuto avere ulterioriconfermedella fragilità della cultura europea. Peraltro, in tema di cultura dell’intrattenimento, a Bruxelles ho trovato una situazione simile a quella verificatasi a Beirut. Nella capitale del Belgio, valloni e fiamminghi sono in aperto contrasto tra loro: i primi hanno paura dell’“oppressore olandese” (così si è espresso un mio interlocutore francofono a Bruxelles), i secondi rifiutano un Belgio che nega la loro cultura e la loro lingua. Le rivalitàeledifficoltàdi una cultura condivisa sono ben illustrate dal fatto che non esiste un ministero della Cultura belga (federale). Ci sono invece tre ministeri: uno per i francofoni, uno per i fiamminghi e uno per la piccola comunità di lingua tedesca. Poi ci sono le deleghe di questi ministeri per la regione di Bruxelles (uno per francofoni, uno per i fiamminghi e uno per i progetti bilingue). Dunque, in totale, ci sono sei ministri! L’incontro con Alain Gerlache,expresidente di Rtbf, radiotelevisione pubblica francofona,econPeter Claes, uno dei direttori della Vrt, televisione belga di lingua olandese, mi ha permesso di capire concretamente il significato di questa guerrainterna. Le due emittenti hannosedenellostesso edificio, ma ciascuna haunproprioingresso, un proprio servizio di sicurezza e studi propri. Il lungo corridoio che le separa sembra il Muro di Berlino. Ho invitato Peter Claes ad accompagnarmi nella “zona francofona” – dove non era mai andato – e varcata la soglia, questo giovane uomointelligentemiha chiesto di fare insieme a lui il confronto tra i divani, i distributori di bibite e gli studi. Secondo questo confronto, per gli studi Vrt è all’avanguardia, i divani migliori sono quelli di Rtbf, mentre non eravamo d’accordo, ovviamente, sulcibo.Naturalmente, Peter Claes scherzava. Ma quando siamo tornati dalla parte di Vrtmihafattopensare ai cristiani di Beirut chesisentonoalsicuro quando rientrano ad Ashrafieh, la zona cristiana, dopo essere stati – fatto raro – a Haret Hreik, il quartierediHezbollah. “Del cantante Arno mi piacciono le parole: il Belgio è un paese piccolo, non è presuntuoso come i francesi, egocentrico come gli inglesi, bisogna accontentarsi di ciò che si ha. È fiammingo,macantain francese e olandese,” raccontaPeterClaesdi Vrt in un francese perfetto.“Daunaparte ci sono i fiamminghi che accusano i francofonidiavereuna cultura presuntuosa e arrogante, come quella dei registi fratelli Dardenne; dall’altra ci sono i francofoni che rifiutano il cinema fiammingo americanizzato e quel pop nordico da vichinghi,” sospira Alain Garleche, ex presidente di Rtbf, un francofono che parla fiammingo. Garleche è stato lo sceneggiatore diunbeldocumentario intitolato Bye Bye Belgique: sul modello deLaguerradeimondi di Orson Welles, i programmidiRtbfsono stati improvvisamente interrotti per annunciare che i fiamminghi avevano fatto la secessione; è stato mandato in diretta alla televisione con veri uomini politici efintireportage.Ilfilm ha impressionato il pubblico, forse non era poi così tanto una finzione. “Tra fiamminghi e francofoni non c’è guerra, è ancora peggio,”dicePetervan der Meersch, redattore capo di “Standaard”, principale quotidiano belga in lingua olandese. “Il nostro problema ormai è l’indifferenza. Gli abitanti di lingua olandese non sono neanchepiùinteressati aquantofannoquellidi lingua francese e viceversa. Ci sono due culture e due televisioni nazionali, ma ciò che è più grave è che anche l’opinione pubblica è divisa in due. Le persone non si parlanopiù.” Jan Gossens, fiammingo e patron di Kvs, importante luogo culturale di lingua olandese a Bruxelles, condivide questo punto di vista: “I fiamminghi sono ossessionati dall’idea di fare la loro nazione e affermano che il Belgio è una nazione artificiale. Io preferisco pensare invece che siamo tutti ilprodottodimolteplici identità non cristallizzate. Per esempio, l’inglese – e non il francese né l’olandese – sta prendendo il sopravvento e sta diventando la lingua deibelgi”. Laculturaamericana conquista terreno sulle divisioni degli europei. A poco a poco, l’unica cultura comune dei belgi tende a essere quella americana – ovviamente con l’eccezione di Tintin, il fumetto letto dalle due parti della Linea Maginot. Anche se è Steven Spielberg ad avere in progetto di farne un adattamento cinematografico. Così l’America si appropria di un simbolo del Belgio, come aveva fattoconilkungfueil panda dei cinesi. Nel frattempo, nel 2008 qualcuno ha avuto l’idea di mettere in vendita il Belgio su eBay. La cultura mainstream europea oggi si sta indirizzando verso il modello belga. Battaglie linguistiche, di identità culturali, crescente inconsapevolezza della cinematografia e della musica degli altri paesi, poche letture comuni, frazionamento comunitario. Con tutte queste divisioni, la cultura americana avanza inesorabilmente. All’interno di questo fragile scenario europeo mi sono chiesto quali fossero i punti di forza e le possibilità del Vecchio continente.Hogiratola domanda a molti interlocutori e le risposte fornitemi compongono un complesso mosaico. A Bruxelles mi è stato detto:“Rifarelacultura europea è come cercare di ricomporre pesci integri a partire dalla zuppa di pesce”. AParigiilproduttoree distributore di cinema Marin Karmitz è più ottimista: “Il nostro punto di forza è che siamo degli artisti e dobbiamo valorizzare questoaspetto,bisogna valorizzare l’arte”. Il produttore italiano Sandro Silvestri, intervistato durante le riprese di un film a Cinecittà, dice invece che “a caratterizzare il cinema europeo è l’indipendenzaequesta indipendenza è vitale, soprattuttorispettoalla televisione che, ovunque,èinposizione di dipendenza, specialmente in Italia grazie a Berlusconi”. Rappresentanti della cultura francese intervistati in diversi paesi pensano anche loro che “dobbiamo restare degli artigiani di fronte all’industria americana: dobbiamo ripartire da ciò che siamo,elanostraforza sono gli indipendenti, non le major, il cinema e la cultura d’autore, nonildivertimento”.In Europa, molti puntano sulle nicchie di mercato, sulla specializzazione e rifiutano la cultura mainstream. Tutti hanno sostenuto la “diversità culturale” come una sorta di arma, una comoda espressione per ogni occasione che sembra ormai l’unico contrappeso all’imperialismo culturale americano. Molti mi hanno parlato dell’Africa.InAfricagli americani non ci si avventurano, “perché non è redditizia”, “perché non è abbastanza ricca per loro”, “perché non ci capiscono nulla”, mi è stato detto. Sembra dunquecheinAfricaci siano solo gli europei. Allora sono andato a verificare. Londra e Parigi, capitali della world musicafricana In Africa, il potere di attrazionedellacultura europea continua a essere forte e città come Londra e Parigi sono ancora crocevia dei flussi musicali provenienti da questo continente. Mi trovo nell’auto di Etienne Sonkeng, il sindaco di Dschang, cittàdelNord-ovestdel Camerun. Improvvisamente il sindaco chiede all’autista di fermarsi poiché ha visto un abitante della città costruire una casa senza permesso: il sindaco scende dall’auto di funzione e minaccia la persona di far demolire l’edificio abusivo. Tornando sull’auto mi dice poi: “Guardi là, spaghetti”. Di questi “spaghetti” ne ho visti spesso al Cairo, Shanghai, Mumbai, Damasco e neicampipalestinesidi GazaeBetlemme:sono innumerevoli fili che collegano le case tra loro. “Non sono fili elettrici, né per il telefono,” precisa Etienne Sonkeng, ma per le televisioni satellitari, “anche questi sono illegali e riforniscono tutto un quartiere a partire da una sola parabola. In Africa, questo tipo di illegalità è particolarmente diffuso e si potrebbe dire che si tratta di ‘home cinema’ grandi quanto intere città.” Questi “spaghetti” sono ben visibili e penzolanti, collegano una casa all’altra, così con un solo abbonamento pagato possono vedere la televisione mille famiglie: gli africani hanno inventato il “cavo aereo” invece di quello sotterraneo. “Qui in Camerun, esistono quasi duecento lingue nazionali, dunque franceseeinglesesono una lingua comune. La gente magari vive in case di fortuna, ma tutti possono vedere cinquanta canali francesi, inglesi e americani senza pagare,” dice estasiato il sindaco che non ha mai pensato di reprimere il fenomeno. A Dschang non si possono costruire case abusive, ma si possono ricevere illegalmente tutte le televisioni del mondo. Il giorno dopo mi trovo a Yaoundé, capitale del Camerun. Sui mercati e lungo i viali di questa grande città dell’Africa centrale si trovano numerosi cd e libri venduti al mercato nero. Ci sono film Disney in dvd in versione francese, con la custodia fotocopiata a colori; molte commedie musicali americane, il rap di TupacShakureancora molte audiocassette. I prodotti culturali non sono venduti in negozi di dischi o librerie, ma sono venduti dai sauveteurs (abusivi), così vengono chiamati in Camerun i venditori ambulanti abusivi. Qui il mercato nero è la norma, e non l’eccezione, e l’abbondante polizia non è minimamente interessata alla questione. In Africa, la cultura della strada è fondamentale, e attorno a essa si sviluppa il commercio. Anche i libri sono venduti al mercato nero, fotocopiati per abbattereicosti,infatti un libro nuovo costa quindicimila franchi Cfa, mentre un libro fotocopiato si compra con quattromilacinquecento franchi Cfa. Data questa diffusione del mercato illegale, è difficile avere statistiche affidabili sullevenditedimusica, filmelibri. A Youandé, Mal (è il suo vero nome e ometto il cognome per evidenti ragioni) mi spiegacomefunzionail mercato nero dei dischi. “La pirateria di prodotti culturali è un settoreeconomicovero e proprio. Impiega centinaia di persone nella produzione, nella distribuzione e nella vendita.” Questo sistema interessa milioni di album, si tratta di un esempio in scala ridotta dell’industria culturale legale.Icdeidvdsono fabbricati in Cina e masterizzati in laboratori illegali a Cotonou (Benin), Douala (Camerun), Abijan (Costa d’Avorio) e Lomé (Togo) – tutte queste città sono dei porti. Mal fa rifornimento a Douala, il grande porto del Camerun, e vende i cd nelle vie di Yaoundé ogni giorno della settimana, domeniche incluse. “Il 99 per cento dei cd venduti in Camerun è piratato,” afferma Mal, che non ha nessuna prova del dato che fornisce, ma tutto concorre a far pensare che sia plausibile. Marilyn Douala Bell, la figlia di uno dei principali capi dell’etnia bamileke di Douala, la più grande città del Camerun, mi spiega a lungo che tuttalavitaculturalein Africa è organizzata attraverso circuiti paralleli.Peresempio,i “cine-club” sono organizzati a casa di privati che hanno un videoregistratore e invitanogliabitantidel quartiere, a pagamento, a vedere i film. Questa rete parallela compensa lo scarso numero di sale cinematografiche nelle città dell’Africa subsahariana. Anche se i prodotti culturali piratati venduti nelle strade africane sono spesso americani, l’Europa continua a essere un passaggio obbligato periflussidicontenuti all’interno del continente africano. Nella più classica delle tradizioni coloniali, Londra e Parigi in modo particolare hanno un ruolo fondamentale per gli scambi con l’Africa anglofonaeconl’Africa francofona. Accade un po’ come a Miami per l’America latina, Hong Kong e Taiwan per la Cina, Beirut e Il Cairo per il Medio Oriente: LondraeParigisonole capitali esterne dell’Africa. In Camerun, in un ristorante di Yaoundé, incontroEricdeRosny, un gesuita diventato scrittore: “Qui, in ambito musicale, ci sono quelli che si ispirano alla tradizione e quelli che imitano l’Occidente, ovvero Parigi. La linea di divisione nella cultura popolare si colloca qui, fra tradizione ed Europa. Inoltre, sempre più spesso i cantanti camerunensi aggiungono termini inglesi nelle canzoni francesi, fa più hip. È un grande cambiamento”. Da tempo, Londra e Parigipermettonoaun artista africano di affermarsiediottenere “l’appeal internazionale” necessario al suo riconoscimento. “Quando un artista diventa famoso nel suo paese, deve passare perParigiperacquisire credibilità e conquistare poi tutto il continente africano. Salif Keita del Mali, Mori Kanté della Guinea, Youssou N’Dour del Senegal, Manu Dibango del Camerun, Ray Lema del Congo, il gruppo senegalese Touré Kunda: tutti questi artisti sono diventati celebri in Francia,” dice Christian Mousset che dirige il festival francese Musiques Métisses, intervistato qualche mese dopo al WomexdiCopenaghen, la grande fiera di musica“world”. Come si spiega questo ruolo importante assunto dall’Europa in Africa, è un fenomeno che sarà duraturo? “A Parigi e Londra ci sono studi di registrazione di qualità che mancano in Africa, anche se ce ne sono di buoni a Bamako nel Mali, Abijan in Costa d’Avorio, Kinshasa in Congo e Dakar in Senegal.Cisonoanche numerose etichette, molto rare in Africa. A Londra ci sono festival come il Womad, i Bbc Awards per la World Music, ci sono agenti, produttoriepromoter,” spiegaSambaSene,un senegalese di Dakar, cheviveaEdimburgoe che ho incontrato a Copenaghen. La situazione politica e le tensioni diplomatiche tra paesi non facilitano gli scambi: spesso è impossibileorganizzare una tournée in Africa, gli artisti non ottengono il visto, per esempio per andare semplicemente da Yaoundé a Dakar. Le dogane impediscono spesso il trasporto di strumenti musicali e materiale. E le guerre civiliinCostad’Avorio, nella Repubblica democratica del Congo e in Ruanda non facilitano di certo le cose. “Da Parigi, riusciamo a raggiungere tutta l’Africa,mentrequando si sta in Africa non si riesce neanche a dialogare tra paesi confinanti,” dice avvilito Luc Mayitoukou, responsabile di Zhu Culture a Dakar (intervistato a Copenaghen). In Europa ci sono anche i media. “Da Parigi raggiungiamo tutte le minoranze africane in Francia grazie a Rfi o alla playlist di France Inter e Radio Nova, gli inglesi fanno la stessa cosa con la Bbc,” conferma Claudy Siar, presentatore di punta della musica africana su Rfi e direttore di Tropiques Fm, intervistato a Parigi. E poi c’è la diversità africana: a Londra e Parigi ci sono tutte le minoranze africane, un’eterogeneità che non esiste in nessuna parte del continente africano. Infine, ovviamente, c’è il denaro. “Un solo concerto pagato in euro o sterline in Europa porta più di tuttiiconcertifattiper un anno in Africa pagatiinCfa,”constata tristemente Samba Sene. InAfrica,lamusicaè stata a lungo a immagine dell’aviazione. La compagnia aerea Air Africa che faceva voli interni al continente è fallita.Così,perandare daunacapitaleall’altra dell’Africa, bisogna transitare per Parigi o Londra. Per molto tempo è accaduta la stessa cosa con la musica. La ripartizione geografica ereditata dall’epoca coloniale è piuttosto immutabile: Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, CongoKinshasa, Mali e Africa dell’Ovest hanno come punto di riferimento Parigi (o Bruxelles per la Repubblica democratica del Congo), mentre Nigeria, Etisia, Ghana, Uganda, Africa dell’Est e Africa del Sud e ovviamenteilSudafrica hanno come punto di riferimento Londra. Un ristretto numero di paesi di lingua portoghese, come Mozambico, Angola, Capo Verde, Guinea Bissau, avevano come punto di riferimento soprattuttoLisbona.La circolazione dei prodotti culturali in Africaseguivalelingue elastoriacoloniale. Queste dinamiche di vecchia data tuttavia stanno cambiando. Ciò che è avvenuto alla Spagna con l’America latina, ovvero il lento cambiamento della cartografiadeimediae delle industrie creative con l’ascesa di potenti gruppi come il messicano Televisa e il brasilianoGloboTv,sta accadendo a Francia e Inghilterra in Africa. I cambiamenti della musica grazie al digitale, che facilita la produzione e la diffusione locale, il successo del rap africano su tutto il continente, dovuto anche alla diminuzione dei visti concessi per andare in Europa, hanno portato gli africani a cominciare a organizzarsiinproprio, senza più dovere – o potere – passare per Londra o Parigi. Agli scambi nord-sud subentrano quelli sudsud. Internet fa cominciare tutto da zero. In Africa, ormai ogni musicista ha la propria pagina su MySpaceeigruppinon hanno più bisogno degli europei per diffondere il loro rap. “Glibastaassistereagli Hip-Hop Awards di Dakar, al festival Rap Assalamalekoum in Mauritania, al Waga Hip Hop in Burkina Faso,” spiega Philippe Contrath, direttore del festival Africolor, intervistato a Parigi. Internet modifica in profondità la mappa degli scambi di contenuti in Africa, offre nuove possibilità di distribuzione, a vantaggio soprattutto delrap,musicadel“do it yourself” per eccellenza. Questo è anche un esito della globalizzazione delle persone frenata dalle ambasciate europee: “I francesi hanno una politicadeipermessidi soggiorno inadatta all’epoca della globalizzazione,fattadi disprezzo e di mancanza di condiscendenza, che sanzionaduramentegli artisti africani e li spinge a viaggiare non più verso Parigi, ma verso Dakar e Lagos, versogliStatiUnitieil Sudafrica”, dice dispiaciuto Claudy Siar. In questi ultimi anni, due paesi in modo particolare hanno assunto un ruolo fondamentale nello scenario africano, a vantaggio soprattutto dell’ascesa della lingua inglese in tutto il continente: Nigeria e Sudafrica. “Le nuove capitali culturali dell’Africa sono anglofone, questo è il problema per Parigi,” commenta Mayitoukou, responsabile di Zhu CultureinSenegal. LaNigeria,anzitutto, èuncolossodell’Africa subsahariana: è il paese più popolato del continenteafricanocon centocinquanta milioni diabitantiedèunodei paesi più ricchi, con un’economia dinamica grazie ai giacimenti di petrolio nel Delta del Niger. Anche se metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, nonostante la grande corruzione e la mancanza di sicurezza per la vita delle persone, la Nigeria possiede influenti industrie creative. La celebre Nollywood,contrazione diNigeriaeHollywood, produce dagli anni novantaoltremillefilm all’anno. Sarebbe dunque il terzo produttore di film al mondodopoStatiUniti e India. Il confronto, tuttavia, si ferma qui poiché la grande maggioranza di questa produzione, opportunamente chiamata “home video”, è fatta senza cinema e senza pellicole. Si tratta quasi interamente di video con piccoli budget, trame rudimentali, attori improvvisati e clamorosierroriditipo tecnico. Questi home video sono girati in qualche giorno con budgetdimenodimille euroesonoriservatial consumoadomiciliosu videoregistratore poichégiraredinotteè pericoloso e perché manca un circuito di sale cinematografiche. Il prezzo a buon mercato sollecita la produzione e frena la pirateria. Così, con attrici procaci, sceneggiature piene di pratiche magiche e sesso, di ricchi africani imborghesitiedicattivi ancora più crudeli che nella realtà (cosa non da poco in questo paese), i film di Nollywood hanno un successo mainstream inNigeriaeovunquein Africa occidentale. “I film nigeriani sono un vero e proprio fenomeno in Africa nera. Se i produttori decidessero di sottotitolarli in francese, avrebbero un gran successo anche nell’Africa francofona,” sostiene Remi Sagna, direttore dell’Organizzazione internazionale della francofonia intervistato in Camerun. Per aumentare le esportazioni e l’acquisto di diritti televisivi, Nollywood privilegia per il momento le produzioni in inglese e punta sui mercati dell’Africa anglofona, soprattutto l’Africa dell’Est e, naturalmente, il Sudafrica. Il Sudafrica è diventato infatti il modello da seguire e il punto di riferimento per tutti i paesi africani, convinti di un nuovo scenario sudsud. “Ormai, un artista africano dispone di tutto ciò di cui ha bisogno a Johannes burg: trova studi di registrazione, etichette, denaro, una legislazione che protegge il copyright. Stiamo diventando la capitale della cultura, dell’intrattenimento e dei media in Africa,” spiega Damon Forbes, direttore dell’etichetta Sheer Sound, che appartiene al gruppo Sheer, un’importante major musicale sudafricana (Forbes, intervistato a Copenaghen, è originario dello Zimbawe e vive da tempoinSudafrica). Il Sudafrica, con quarantanovemilionidi abitantieunPilinforte crescita, che da solo ammonta a un quarto di quello di tutto il continente, è oggi un paese emergente, l’unico a potersi chiamarecosìinAfrica. È ricco di materie prime, soprattutto minerali, e ciò contribuisce a questo eccezionaledinamismo. Coinvoltodallacrisidel 2008,ilpaesehaatteso i Mondiali di calcio del 2010 per rilanciare l’economia. In campo cinematografico, il Sudafrica del post- apartheid, ha ormai unacrescenteinfluenza con il recente successo di film come District9, Disgrace e Tsotsi. Questa cinematografia nazionale in pieno sviluppo è ampiamente sostenuta in termini artistici, tecnici e finanziari dagli studios hollywoodiani che hanno identificato il Sudafrica come paese determinante per il futuro delle loro produzioni locali e per il loro box-office mondiale.Nellamusica ilsuccessoèancorapiù evidente. Per esempio, il Moshito, il salone dell’industria musicale del Sudafrica, è diventato un importante crocevia e un mercato decisivo per la musica africana. Anche gli europei cominciano a prendere in considerazione questa nuova realtà, di cui rischiano di essere le prime vittime, e nel gennaio 2010 il Sudafrica è stato l’invitato d’onore del Midem, la Manifestazione internazionale dell’industria musicale aCannes. Infine, uno degli ambiti in cui è più sorprendente il cambiamento è quello della battaglia sui diritti sportivi. Se si prende per esempio la premiere league inglese di calcio, i cui interessi sono i più costosiepiùimportanti per lo sviluppo di un’offerta televisiva a pagamento, l’Africa è ormai suddivisa in tre zone: il mercato arabo, Maghreb incluso, dove Abu Dhabi Tv ha acquisito i diritti per 330 milioni di dollari sottraendoli ad Al Jazeera;laNigeriaèun mercato a sé stante e i diritti sono ormai nelle mani del colosso nigeriano Hi-Tv; infine il Sudafrica e il resto dell’Africa subsahariana, in cui i diritti sono di Multichoice del gruppo sudafricano Naspers. Una suddivisione significativa. “Ilnostroproblemaè che però ci manca la massa critica. Il mercato interno è insufficiente, tanto più che è frammentato in un paese con tredici lingue ufficiali. Dobbiamo dunque avviarciconforzaverso l’esportazione. Non tanto verso l’Africa, poiché le vendite sono scarse a causa della pirateria e poiché la nostra influenza è limitata nell’Africa francofona e di lingua portoghese. Per diventare la capitale culturale del continente,ilSudafrica deve fare ancora molta strada. Ci restano il mercato europeo e soprattutto nordamericano.Inostri vantaggi sono numerosi e i nostri artisti sono accolti bene negli Stati Uniti. E poi, c’è il Sud. Stiamoentrandoinuna nuova fase, quella del dialogo sud-sud,” commenta Damon Forbes, direttore dell’etichetta Sheer SoundaJohannesburg. Per gli europei, non c’è dunque solo la concorrenza di Sudafrica, Nigeria e Stati Uniti, ma sta emergendoconsempre più forza la nuova concorrenza dell’asse sud-sud, anche proveniente dall’esterno del continente africano. Stainfatticrescendoin Africa la presenza del Brasile. La cosa si spiega con i legami storici con i paesi africani di lingua portoghese, ma anche conlarecentestrategia del Brasile, dove la popolazione è in parte nera, di diventare una capitale esogena del continente. Una città brasiliana e nera come SalvadordeBahiaoggi intende affermarsi come capitale della musicaafricana. I cinesi non sono da meno. Hanno fortemente investito in quella che si chiama ormai “Cinafrica”. La loro presenza è ancora principalmente di tipo industriale, legata alle infrastrutture, alle materie prime e ai trasporti: nel continente africano ci sarebbero già mille imprese cinesi e cinquecentomila lavoratori cinesi. Con l’aumento degli scambi commerciali, la Cina provvede anche a rifornire l’Africa di reti senza fili e di fibre ottiche, che utilizzano in particolare i cavi aerei, un’alternativa ai cavi sotterranei, più costosi. A Brazzaville, una società cinese sta costruendo la nuova sede della televisione nazionale congolese; la stessa cosa avviene in Guinea. E siamo solo agli inizi. Dopo il settorehardsaràpoila volta di quello soft. È inoltre possibile anche l’esportazione di contenuti, quelli che provengono dallo sviluppo della produzione cinematografica cinese edelpopinmandarino. L’Africa sarà allora invasa da prodotti culturali cinesi a buon mercato, accessibili e, mi hanno detto alcuni ufficiali cinesi, “desiderati, perché i valori asiatici sono più compatibili con i valori africani rispetto a quelli occidentali”. Ci saràspazioancheperil mercato dell’informazione. I cinesi hanno lanciato nel 2009 “Africa”, un’importanterivistadi informazione. Le loro emittenti internazionali in inglese sono diffuse sulcontinenteneroesi dice si stia avviando un’emittente cinese di informazione. Questo piano mi è stato descritto con precisione da Fu Wenxia,undirigentedi Smeg (Shanghai Media and Entertainment Group), uno dei principaligruppimedia pubblici cinesi. Stando a quanto dice questo ufficiale intervistato a Shanghai, i cinesi prevedono di aumentarefortementei loro investimenti in Africa nei settori delle tecnologie, dell’audiovisivo e dell’informazione nei prossimidiecianni. “Si corre il rischio che nel settore della cultura africana, Francia e Inghilterra vengano sostituite dal Brasile e dalla Cina all’interno del nuovo dialogo sud-sud. Per l’Europa sarebbe un problema, ma per gli africani ciò aprirebbe nuove prospettive e nuovi mercati,” spiega Marc Benaiche, animatore di Mondomix, una piattaformafrancesedi musiche del mondo. Dopo la musica sarà dunque la volta di cinema, televisione e informazione? Per il momento in Africa non circolano contenuti cinesi, e la questione linguistica, probabilmente, continuerà a rappresentare un problema. Ma fino a quando? Unultimoesempiodi questaverarivoluzione geopolitica dei contenuti è il caso di Naspers. Naspers è un colossosudafricanonei media, inizialmente si occupava di stampa e televisione, poi dagli anni ottanta ha diversificato la produzione puntando sulla televisione e dal 2000 su internet, con i social network e le messaggerieistantanee per telefoni cellulari (alternativa agli sms nei paesi con un basso tenoredivita).Primadi puntare su internet, i dirigenti di Naspers hanno deciso di puntare sulla televisione satellitare e sulla telefonia mobile per diffondere i loro contenuti, consapevoli del fatto che, nel contesto africano, non esisteva ancora un diffuso uso privato di internet: come nella maggiorpartedeipaesi in via di sviluppo, l’accesso a internet avviene in luoghi collettivi, i cybercafé e gli uffici. Nel contempo, Naspers ha investito in campo internazionale e dagli anni novanta ha aumentato le partecipazioni nei media dell’Africa subsahariana, del Sudest asiatico e dall’inizio del nuovo millennio si è orientato sui paesi emergenti, anzitutto Russia, Brasile e Cina. Costruendo legami con l’Asia e l’America di lingua portoghese, il gruppo sudafricano spera di diventare uno dei grandi gruppi media dei paesi emergentiefavoriregli scambi dei contenuti secondo una logica sud-sud. Gli europei, anzitutto i francesi e gli inglesi, incontrano dunque una certa concorrenza sul continente africano, dove, con un certo spirito paternalista ancora tinto di colonialismo, si credevano punti di riferimento assoluti. Il fatto che l’economia del continente nero si orienti verso il Sudafrica e verso Brasile e Cina non è di buon auspicio per l’Europa. Questo fenomeno dimostra tuttavia che sta avvenendo un cambiamento inevitabile degli equilibri culturali internazionali e degli scambi dei flussi di contenuti nell’epoca dellaglobalizzazione. Ai confini dell’Europa, dell’Asia e del mondo arabo: la Turchia americanizzata Per misurare le fragilità dell’Europa, e per concludere questa inchiesta ho deciso di andare in Turchia, ai confini del continente, alla sua frontiera, tra Asia e mondo musulmano,traEuropa eAmerica. Ays‚e Böhürler è un’intellettuale musulmana, porta il velo e si definisce islamista. È regista, realizza documentari ed è produttrice di Canal 7, un’emittente turca vicina al potere islamico, all’interno dellaqualesioccupadi programmi per le donne e i bambini. La incontro nel suo ufficio di Istanbul, dove mi accoglie con contenuta benevolenza e approfitta del tempo della traduzione per consultare freneticamente la sua casella di posta elettronica su Gmail su un computer Apple. “Noi turchi siamo gli unici a fare sintesi dellecultureeuropeee siamogliuniciafornire al continente una reale diversità. Siamo l’estremo Oriente dell’Europael’estremo Occidente dell’Oriente. Di fronte al bombardamento della cultura americana riusciamoaproteggere la nostra cultura. Il marxismo ieri, l’islamismo oggi, il femminismo delle donne musulmane, per esempio, sono tutti modi attraverso cui mantenere questa identità. Abbiamo il nostro modo di restare turchi di fronte all’Occidente.” Ays‚e Böhürler si definisce “semi-femminista” e sostiene che il velo sia “unsegnodimodernità e di reazione al bombardamento della cultura americana” (ripete l’espressione più volte). Critica la cultura dell’intrattenimento che “sminuisce la donna e la riduce a un oggetto, a un corpo, alla sua bellezza”, ma considerandosi moderata,rifiutaanche i dettami sull’abbigliamento degli islamisti radicali. “In Turchia, siamo il simbolo di un islam moderato. C’è una controcultura, con una musica islamica, televisioni e cinema: è il nostro ‘christian rock’.” Ays‚e Böhürler prosegue: “Il problema della cultura turca è cheèmoltoparticolare e specifica del nostro paese. Produciamo una cultura ‘space-specific’ che, per definizione, non può essere esportata facilmente, tranne nei paesi musulmani”. Fa riferimento alle celebri serie televisive turche, che mettono in scena personaggi provenienti dal ceto medio delle città, con un accento, valori morali e senso dell’ironia specifici, nelle quali non è raro trovare delitti d’onore e vendette. Queste serie hanno un grande successo in Turchia e vengono ampiamente esportate con forza nel mondo arabomusulmano–manonin Europa. “La nostra cultura alla turca è geniale, ma gli europei non lo sanno!” conclude. Il giorno dopo mi reco alla sede di Cnn Türk, la cui presenza è di per sé indicativa delle tensioni tra Oriente e Occidente, soprattutto perché si trova in Europa, all’interno di un paese storicamente filoamericano, ma membro dell’Organizzazione della conferenza islamica. “Siamo una televisione turca, in lingua turca, che si rivolge ai turchi,” precisa subito Ferhat Boratav, presidente di Cnn Türk. Per lui, la televisione è una questione relativa al suopaese. Il suo ufficio si trova inunalontanaperiferia di Istanbul, all’interno di un enorme complesso, sede del gruppo privato di media chiamato Dogan Tv Center. Il gruppo Dogan,lacuiricchezza viene dal petrolio, ha una forte presenza nellastampa,l’editoria, la musica, la televisione, dove possiede numerose emittentisoprattuttoin partenariato con gli americani di Time Warner. Gli fa concorrenza un altro colosso di media, il gruppo di telecomunicazioni Çukurova che possiede il network Show. Questi due gruppi, in concorrenza tra loro, cercano di svilupparsi all’esterno nella “zona turca” e vogliono diventare grandi gruppi media su scala regionale. “Non siamo un clone di Cnn, siamo un clone mutante!” spiega con ironia Ferhat Boratav, alla Cnn Türk. L’emittente che dirige è una joint-venture tra CnneilgruppoDogan, dunque nel contempo americana e locale, ma ancora una volta Boratav insiste sulla dimensione turca dell’emittente. “Il nome Cnn è più forte di quello dell’America. Qui l’emittente non è identificata con gli Stati Uniti: si può amare Cnn Türk e odiare gli americani. Siamo considerati una televisione turca.” Cnn Türk ripropone alcuni programmi di Cnn, in particolaretrasmissioni esclusive di informazione e documentari, ma produce la maggior parte dei programmi localmentepoichéil90 per cento sarebbe in turco. “Siamo tipici dell’infotainment: informazione e intrattenimento,” confermasenzagrande originalità Boratav. I talk-show sono al centro della programmazione dell’emittente, soprattutto How come?, L’Arene e +1, che hanno grande seguito di pubblico. Anche i programmi musicali sono fondamentali come Frequency,cheuniscei successi turchi, soprattutto l’hip-hop turco, con le hit americane. “Vogliamo essere compatibili.” Boratavripetepiùvolte questa espressione e glichiedodiesserepiù esplicito: “Vuol dire essere nel contempo moderni, americani, legati allo spirito del tempo e dei giovani, restandoturchi”. Per capire meglio cosa significa questa “compatibilità” nel mondo dell’intrattenimento incontro al piano di sotto Barcu Senbakar, che produce il celebre programma settimanale How Come?,emidice:“Cnn Türk è un’emittente troppo seria e il nostro compito è spezzare questa serietà. Facciamounoshowpiù divertente, tra informazione e intrattenimento. Per esempio invitiamo persone famose ma anche gente ordinaria, un autista di taxi, una cameriera.Siorganizza ildibattitoesitrattano temi seri in modo divertente. Il pubblico, in studio, reagisce e applaude in diretta. È davvero molto divertente”. Il presentatore del talkshow quotidiano +1 su Cnn Türk, Mithat Bereket,ciraggiungee interviene: “Vuole sapere perché qui facciamo intrattenimento? Semplice, perché non vogliamo fare informazione noiosa. La stampa deve essere critica, problematica, impegnata. Questo non è il ruolo della televisione: deve permettere di fuggire dai doveri, dai problemi. La televisione è un media mainstreamedevefare intrattenimento”. L’arrivo del divertimento di massa alla televisione turca si è realizzato con la deregolamentazione del settore audiovisivo, la fine della televisione pubblica unica e la privatizzazione, il gruppo Dogˇan è il modello di queste evoluzioni. Lo scrittore Volkan Aytar, dell’importante fondazioneturcaTesef, spiega in termini più concettuali quanto è accaduto: “Paradossalmente, questi grandi gruppi media si sono sviluppati nello stesso periodo in cui si stava indebolendo la cultura kemalista, quella della Turchia dell’anteguerra, laica ma anche autoritaria edelitaria.Questaélite legittimava la cultura ufficiale, turca, nazionalista e rifiutava la cultura popolare e quelladelleminoranze, quella delle donne e dei kurdi. A poco a poco, la musica classica è stata sostituita dalla musica delle classi popolari, quella che si chiama ‘arabesk’, una musica pop con strumenti occidentali, ma su motivi orientali tradizionali. Al posto dei concerti d’élite aumentanoirock-bar,i folk-ballade-bars, l’hiphop alla turca e anche la musica americana si infila nella breccia con la fine di un certo nazionalismo turco. Oggilanostramusicaè ‘americano-arabesk’! L’intrattenimento si sviluppa con la fine della cultura d’élite, molto condiscendente, molto paternalista. L’intrattenimento si fa strada alla fine della cultura borghese in Turchia”. LaTurchiaèfieradel propriointrattenimento e della sua nuova cultura mainstream, e ora conta di esportarli. Si afferma come un potere culturale su scala regionale, che diffonde i propri contenuti in una zona ibrida che va dal Sud dei Balcani (Bulgaria, Romania, Albania, Macedonia) alle repubbliche asiatiche o di lingua turca dell’ex Urss (Azerbaijan, Uzbekistan, Kazakistan, Turkmenistan), senza dimenticare Armenia, Georgia, Ucraina, Moldaviaealcunipaesi del Medio Oriente (Siria,Iraq,Iranfinoin Israele). Opera dunque all’interno di un mercato insolito. Il gruppo Dogˇan investe ampiamente nei Balcani, la concorrente Show Tv si radica con forza in Ucraina e tutti puntano chiaramente con le loro serie televisive cool e il loro “hip-hop islamico” al mondo persiano e arabo. Il successo di questa cultura turca mainstreamaumentain tutta la regione, ormai sotto il fascino neoottomano dell’Iran e l’Egitto, passando per Siria e Palestina. I musulmani apprezzano i codici misti di questo intrattenimento turco, nel contempo orientale e moderno, e anche musulmano – piacciono anche le ragazze senza velo. Un buon esempio di questi “paradossi geografici”èilcasodel cantante Tarkan, le cui canzoni Kiss Kiss e Kuzu Kuzu, o più recentemente l’album Metamorfoz, hanno avuto grande successo. In Turchia è soprannominato “il principe del pop” e la suainfluenzanelpaese è paragonata dal “Washington Post” a quella di Elvis Presley negli Stati Uniti. Tarkan riscuote un grande successo in tutta la zona d’influenza dell’intrattenimento turco, in Asia centrale, Russia, Europa dell’Est e Medio Oriente. Eppure canta in turco, non in inglese, utilizza anche idiomi tradizionali e ciò gli è valso le felicitazioni dell’associazione nazionale di preservazione della lingua turca. Tuttavia, ha aumentato le provocazioni di caratteresessuale,fino a baciare sulla bocca ragazzi con i baffi, suscitando un dibattito ricorrente sulla sua omosessualità – che ha fermamente negato – e ha aumentato la passione che suscitava tra i giovani, i travestiti, come tra gli islamisti turchi. In questo modo è diventato lo sponsor ufficiale di Pepsi-Cola. “Sembra strano, sa, perchéall’iniziononho mai pensato che avrebbe funzionato,” ha spiegato Tarkan in un’intervista a Cnn. “Canto solo in turco e nessuno al mondo può capire una parola di quanto dico. Ma credo che sia anzitutto il mio ritmo (groove) a spiegare il mio successo. E poi i baci sonouniversali.” In Turchia, ai confini dell’Europa, le possibilità e gli aspetti di fragilità del paese sono, in miniatura, quelli dell’intero continente europeo. Tra laicità e religione, tra americanizzazione ed etnocentrismo, tra cultura e intrattenimento, il paese vacilla, come spesso fa l’Europa. “Siamo molto ambigui, molto incerti, molto schizofrenici,” conferma lo scrittore Volkan Aytar, alla sede della fondazione Tesef. “L’americanizzazione dellaTurchiaèdavvero paradossale, anche la sua difesa dell’intrattenimento. Consideriamo gli americani più forti e più moderni di noi, per le loro evoluzioni tecnologiche e culturali.QuiaIstanbul si vedono ovunque marche americane, Starbucks, Levi’s, McDonald’s: consumiamo prodotti americani perché vogliamo vivere una vita migliore, e questi prodotti ne sono il simbolo. Nel contempo vogliamo restare turchi.”VolkanAytarsi toglielagiaccapesante (quel giorno a Istanbul c’era un freddo secco) eriprende:“Comesifa a restare turchi nel mondo di oggi? Non è così semplice. Vogliamo essere nel contempo moderni e orientali,forseeuropei, ma certamente non americani, né arabi. Allora nei nostri film mostriamoinostridolci tipici, i lokum, giriamo all’interno dei bagni turchi,ripresentiamola storia turca e le sue mitologie facendo un cinema molto autoreferenziale – e nessun altro, se non noi,vuolvederequesto cinema d’autore nazionale! Ci rendiamo improvvisamente conto che i nostri giovani preferiscono i film americani. I giovani turchi si rivolgono versol’America,amano l’azione, la velocità, la libertà,lamodernità,le ragazze di questi film hollywoodiani così universali, contrariamente ai nostri. Vogliono più intrattenimento, più cultura mainstream. Li osserviamo diventare americani. Anche le minoranze,ikurdiegli armeni, vogliono più film americani, per sfuggire all’oppressione dell’élite turca. Così non capiamo più niente. Allora gli europeiincercad’arte, o gli islamisti ossessionati dalla religione, ci chiedono perché non ci sono cammelli nei nostri film, poiché secondo loro questo elemento li renderebbe più autentici e forse più mainstream. La cosa però è del tutto ridicola, noi non siamo arabi. Qui non ci sono né cammelli, né dromedari. Si trovano soloneglizoo.” Conclusioni Unanuovageopolitica dellaculturae dell’informazione nell’epocadeldigitale La guerra mondiale dei contenuti è dichiarata. È una battaglia che si svolge attraverso i media per il controllo dell’informazione; nel settore televisivo per il dominio dei format audiovisivi, delle serie televisive e dei talkshow; nella cultura per la conquista di nuovi mercati attraverso il cinema, la musica e il libro; infine è una battagliainternazionale attorno agli scambi di contenuti su internet. In questa guerra per il soft power sono in campo forze molto diseguali tra loro. Anzitutto è una guerra di posizione tra pochi paesi dominanti, in cui siconcentralamaggior parte degli scambi commerciali; poi è una guerra di conquista tra paesidominantiepaesi emergenti per assicurarsi il controllo delle immagini e dei sogni dei numerosi abitanti dei paesi dominati, che producono poco, o per nulla, beni e servizi culturali. Infine, si tratta di battaglie su scala regionale per acquisire nuova influenza attraverso culturaeinformazione. All’interno dei flussi di contenuti internazionali, misurati in termini quantitativi in modo impreciso da Fmi, Wto, Unesco e Bancamondiale,c’èun colosso come gli Stati Uniti che esporta ampiamente e ovunque i propri contenuti con circa il 50 per cento delle esportazioni mondiali. Insieme a Canada e Messico, l’America del Nord domina gli scambi senza avere concorrenza(circail60 per cento delle esportazioni mondiali). Segue un potenziale concorrente, ma probabilmente in declino, come l’Unione europea composta da ventisettepaesi,conun terzo delle esportazioni. Insegue poi,abuonadistanza,e senza avere un grandissimo peso negli scambi mondiali dei contenuti, una decina di paesi: Giappone, leader degli outsider, Cina e soprattutto Hong Kong, Corea del Sud, Russia, Australia. Per il momento, Brasile, India, Egitto, Sudafrica e paesi del Golfo non figurano significativamente come paesi esportatori di contenuti, anche se stanno aumentando fortemente le loro esportazioni e sviluppando solide industrie creative al lorointerno. In termini generali, i paesi che esportano beni e servizi culturali e informazione sono circa gli stessi che importano contenuti. C’è solo un’importante differenza, gli Stati Uniti hanno una bilancia commerciale ampiamente positiva (sono il primo esportatore e solo il quinto importatore). Al contrario, l’Unione europea è il primo importatore e solo il secondoesportatore.In larga misura, a eccezione ancora degli Stati Uniti, la maggioranza degli scambi avviene su scala regionale. Per esempio, all’interno dell’Unione europea, le esportazioni e le importazioni sono superiori a quelle che avvengono al di fuori dell’Europa. La globalizzazione non solo ha accelerato l’americanizzazione della cultura e l’emergere di nuovi paesi, ma ha favorito anche i flussi d’informazione e di cultura su scala regionale, forse non globali,maugualmente internazionali. Questi dati sui flussi di contenuti internazionali sottostimano, tuttavia, alcune evoluzioni in corso. Sono molto imprecisi e gli stessi economisti sostengono che sono dati che emergono da operazioni di “alta acrobazia”. Al di là dei problemi di metodo posti dalla raccolta e dal confronto dei dati, è evidente che queste statistiche, spesso formulate in dollari, riflettono una realtà moltofalsatadalpotere dellerispettivevalutee dai tassi di cambio. Comunicano dati, ma non dicono nulla della reale influenza. In effetti, misurare flussi culturali in valuta, piuttosto che attraverso il numero di libri o di biglietti di cinema venduti, mette automaticamente ai margini tutte le economie emergenti. Per esempio, 3,6 miliardi di biglietti sonovendutiognianno in tutto il mondo dai film di Bollywood, contro i 2,6 miliardi di Hollywood, ma se si confrontano gli incassi, il botteghino indiano fatica a superare i due miliardi di dollari l’anno, mentre Hollywood guadagna quasi 40 miliardi di dollari (dati del 2008). Infine, se le statistiche internazionali sono poco affidabili per quanto riguarda gli scambi di prodotti materiali, sono ancora meno opportune per misurare l’informazione, i servizi, i format dei programmi televisivi e internet. Per non parlare della pirateria. Per tutte queste ragioni, la globalizzazione dei contenuti è un fenomeno analizzato in modo insufficiente. Per valutarne l’incidenza si dovrebbero utilizzare altre unità di misura: numero di citazioni, diffusione di format e di codici narrativi, impatto sui valori e le rappresentazioni. È chiaro che né la superpotenzanéipaesi dominati hanno interesseapromuovere analisidiquestotipo. La nuova mappa degli scambi fa venire alla luce anche problematiche molto più complesse di quanto possano pensare i teorici delle “industrie culturali” o di quanto vadano affermando oggi gli altermondialisti e gli antiamericani, che hanno la tendenza a confondere la Cia con l’Afl-Cio, la confederazione sindacale statunitense. La teoria dell’imperialismo culturale americano presuppone che la globalizzazione culturale sia un’americanizzazione unilaterale e unidirezionale da parte di una “iperpotenza” diretta verso i paesi “dominati”. La realtà è più sfumata e più complessa. La situazione attuale è caratterizzata, nello stesso tempo, da omogeneità ed eterogeneità. Stiamo assistendoallosviluppo di un intrattenimento mainstream globale ampiamente americano e alla costituzione di blocchi su scala regionale. Inoltre, le culture nazionali si rafforzano ovunque, anche se “l’altro” referente, “l’altra” cultura, corrispondono sempredipiùagliStati Uniti. Infine, tutto si accelera ed è interconnesso: l’intrattenimento americano è spesso prodotto da multinazionalieuropee, giapponesi e indiane, mentreleculturelocali sonosemprepiùspesso coprodotte da Hollywood. I paesi emergenti vogliono affermarsiall’internodi questi scambi e fare concorrenzaall’impero. Questa guerra culturalemettedunque in gioco numerosi soggetti. La globalizzazione e internet riorganizzano gli scambi e trasformano le forze in gioco. Di fatto, scompaginano tutte le carte. L’intrattenimento americano Nel settore dell’intrattenimento e dei media, gli Stati Uniti sono dunque senzaegualiesonoper il momento il leader incontrastato, in grado di adeguarsi continuamente alla nuova realtà e in continuo progresso (l’esportazione di prodotti e servizi culturalièinrialzocon un ritmo del 10 per cento all’anno attualmente). Come e perché? Il sistema americano di produzione dei contenuti è un modello complesso, è il prodotto di una storia, di un territorio immenso e di un’immigrazione proveniente da tutti i paesi, con la presenza di tutte le lingue e di tutte le culture. Le ragioni di questa situazione e le spiegazioni di questo dominio culturale sono molteplicielericordoa grandi linee. Anzitutto, all’interno delle università vengono incentivate ricerca e sperimentazione, esistono finanziamenti pubblici decentralizzati, la controcultura è valorizzatainnumerosi luoghi alternativi, c’è molta vitalità che proviene dalla mobilità e dall’idea di ascesa sociale fortemente radicata nella società, si crede nei singoli artisti e c’è una vivacità eccezionale delle comunità etniche grazie al modello originale di integrazioneedidifesa di una “diversità culturale” all’americana. Formazione, innovazione, assunzione di rischi, creatività e audacia sono incentivate nelle università, nelle comunità e nel settore noprofit,aldifuoridel mercato e in modo fortemente decentralizzato. Infine, c’è il dominio di industrie creative dotate di ingenti capitali. Le più visibili sono naturalmente gli studios e le major. La composizione societaria e l’azionariato dei principali conglomerati media americani è interessante: cinque dei sei principali studios cinematografici sono americani, anche se Columbia è giapponese, ma gli investimenti stranieri, provenienti soprattutto da paesi del Golfo, India e Hong Kong (ovvero la Cina), oggi sono considerevoli. Nella musica, solo una delle quattro major internazionali è americana (Warner), le altre sono inglesi (Emi), francesi (Universal) e giapponesi (Sony). Nell’editoria la situazioneèancorapiù articolata: il colosso Random House appartiene al tedesco Bertelsmann e il gruppo Time Warner Books è stato acquisito dal francese Lagardère. Si sbaglierebbe dunque prospettiva nel considerare queste industriecreativecome soloamericane. In realtà, in termini dicontenuti,questidati sul capitale e sulla nazionalità di queste multinazionali hanno un’influenza limitata. I film prodotti da Sony e Columbia sono smaccatamente americani, la musica distribuitadaUniversal e Emi è in gran parte anglofona, i bestseller più tipicamente americani sono spesso pubblicati da Bertelsmann. Paradossalmente, con l’acquisizione degli studiosColumbia,delle case discografiche Cbs Music, Arista e Rca, i giapponesidiSonynon hanno indebolito la culturaamericana,anzi fornendo i mezzi finanziari di cui questa aveva bisogno, l’hanno ulteriormente rafforzata. Al di là del loro azionariato e dei luoghi in cui si trovano le sedi sociali, questi studios e queste major restano molto americani. Questa realtà indebolisce le interpretazioni neomarxiste secondo cui, per analizzare le industrie creative, la cosa importante è sapere chi detiene il loro capitale, chi è proprietario dei mezzi di produzione, con il presupposto che chi le possiedelecontrolla. È dunque necessario utilizzare nuove chiavi di lettura per analizzare, nell’epoca della finanziarizzazione dell’economia, ciò che definisco “capitalismo hip”: un nuovo capitalismo“avanzato”, globale, caratterizzato, nel contempo, da una forte concentrazione ma anche grande decentralizzazione e dall’essere forza creativaedistruttiva.È pertuttequesteragioni e perché la cultura, i media e internet sono ormai mescolati, che nonbisognapiùparlare di “industrie culturali”, cheèunveroeproprio ossimoro, ma di industrie dei contenuti odiindustriecreative. Con i conglomerati media di nuova generazione, il capitalismo hip non è monolitico:sitrasforma costantemente, si adatta continuamente, poiché le industrie creative non seguono più la logica del modello di fabbrica come avveniva con gli studiosdell’epocad’oro di Hollywood, oggi sono composte da reti diproduzionecostituite dacentinaiadimigliaia di piccole e medie imprese e di start-up. Non sono più major, ma sono composte da migliaia di etichette e di imprint e di unità specializzate, sono indipendenti che diventano progressivamente major e queste major sono dirette da indipendenti diventati mainstream. Non si tratta più di “oligopoli con frangia concorrenziale” (major che producono mainstream,circondate da indipendenti che si rivolgono a mercati di nicchia),comecontinua a ripetere la vulgata economica, ma di un sistema realmente decentralizzato in cui major e indipendenti sonoconnessitraloroe non in concorrenza, sono indispensabili le une agli altri. Si tratta di un modello dinamico, non statico, che in realtà cerca spessodiprivilegiarela creatività invece dell’omogeneità,l’hipe il cool invece di una riproduzione sempre uguale,ilcambiamento costante invece della standardizzazione, l’originalità invece della copia (benché ci siaancheunatendenza inversa, meno rischiosa, per esempio con il media franchise nel cinema). La globalizzazione e internet, caratteristiche del capitalismo hip, rafforzanoeaccelerano queste logiche e il dominio americano, come abbiamo avuto modo di vedere. In questo senso, le industrie dei contenuti sembrano anticipare profonde dinamiche che finiranno ben presto per coinvolgere tuttal’economia. Questo sistema ha raggiunto negli Stati Uniti un grado di tecnicità, complessità, lavoro di collaborazione davvero sorprendente e insospettabile se visto dall’esterno. Contrariamente a quantosicredespesso, è molto difficile produrre intrattenimento mainstream. Al centro di questo meccanismo ci sono le agenzie di talenti, vero e proprio ago della bilancia del mercato dei contenuti globali. Le agenzie gestiscono il “capitale umano” in modi molto diversi da quanto avveniva con il vecchio sistema degli studios e dello star system; si occupano infatti di tutti, piccoli e grandi, creano così un’inflazione generale dei costi, ma contribuiscono anche a regolare l’intero sistema, attraverso avvocati, manager, sindacati. Gli studios, le major e i conglomerati media, i veri detentori del potere e banche del sistema, acquisiscono invece il capitale più prezioso prodotto dalle industrie creative: l’Ip, la famosa Intellectual Property o proprietà intellettuale. All’interno di questo quadro, il sistema del copyright americano e soprattutto la clausola speciale del diritto del lavoro – il cosiddetto dispositivo del “work for hire” – contribuiscono alla circolazione mondiale dei contenuti e al loro adattamento su tutti i supporti. Il copyright e il work for hire si rivelano particolarmente adatti alla globalizzazione e all’epocadeldigitalein quantonondefiniscono piùl’artistacomeunico detentore dei diritti sull’opera, eliminano il final cut, e non prevedono il rilascio di autorizzazioni preventive, come accade con il “diritto d’autore” in versione europea. In questo modo è più facile adattare un contenuto a tutti i supporti e si facilitano il versioning e il Global Media. Si riduce tuttavia la dimensione artistica delle opere e i creatori hanno sempre meno tutele rispetto alle major. Il modello americano di produzione dei contenuti è dunque un sistemaspecificoincui tutti i soggetti in gioco sono nel contempo indipendentiecollegati tra loro, mentre le norme pubbliche anticoncorrenza, quando esistono, e le normative collettive, quando funzionano, cercano regolarmente di correggerne gli eccessi.Infindeiconti, il modello è costituito da migliaia di soggetti autonomi che, perseguendo obiettivi “privati” e in concorrenza tra loro, finiscono nondimeno, e nonostante una grande imprevedibilità, per dare all’insieme del sistema una sua coerenza e una certa stabilità. Contrariamente a quanto ripetono gli osservatorisuperficiali, la cultura, l’informazione e anche l’intrattenimento, negli Stati Uniti, non sono merci come le altre, appartengono a un ambito specifico e costituiscono una “eccezione culturale” sul territorio americano. La forza di questo sistema era già evidente nella prima metà del Ventesimo secolo quando il jazz e il cinema americano hanno dilagato in Europa. Ma nell’epoca della globalizzazione e dei cambiamenti tecnologici questo sistema si rivela più efficace che mai. La privatizzazione delle emittenti televisive in Europa, Asia, America latina e Medio Oriente ha incrementato la richiesta di contenuti americani. La diversificazione dei supporti multimediali, ilviacavo,ilsatellite,il digitale terrestre e internet hanno favorito la loro circolazione. Inoltre, la mancanza di prodotti di successo in numerosi paesi ha velocementeportatogli americani ad adattarsi aicontestilocali:illoro approccio alla globalizzazioneèattivo e mette insieme diffusione di contenuti di massa, indifferenziati e mainstream, e diffusione specializzata, assestata su specifici settori di nicchia dei paesi importatori. Sul fronte televisivo vendono format all’interno di mercati soprattutto di scala nazionale. Nella musica e nell’editoria, mercati misti con una forte dose di prodotti nazionalivendonohite bestseller mondiali e produconodischielibri di autori locali. Sul fronte del cinema, i film di successo, i blockbuster, hanno grande seguito quasi ovunque poiché producono non film semplicemente americani, ma prodotti universali e globali. I francesi fanno film per i francesi, gli indiani pergliindiani,gliarabi per gli arabi: solo gli americani fanno film per tutti. Oggi, ancor prima di puntare al mercato interno, sono gli unici a pensare di realizzarefilmdestinati all’esportazione. La priorità degli studios e delle major non è solo imporre il loro cinema, la loro musica e difendere un imperialismo culturale, ma è accrescere e ampliareiloromercati. Sitrattadiunobiettivo economico completamente diverso da quello ideologicoculturale perseguito se possibile con prodotti “americani”, ma anche con prodotti “universali”, creati per piacere a tutti e in tutto il mondo, non costituisce, infatti, un problema limitare, attraverso i focus group, lo spirito americano delle loro produzioni. Inoltre, finanziano e realizzano prodottisuscalalocale o regionale, tradotti in realtà a Hong Kong, Mumbai, Rio o Parigi e per un preciso tipo di pubblico (gli studios hollywoodiani realizzano ogni anno circa duecento film locali in lingua straniera raramente diffusinegli Stati Uniti). L’America produce dunque, nel contempo, cultura mainstream e contenuti di nicchia differenziati. In questo senso, gli studios e le major sono meno ideologici e più apolidi di quanto si possa immaginare. Come BankofAmerica,Hsbc, vogliono conquistare il mercato indiano, cinese e brasiliano – in dollari o in valuta locale.Percertiaspetti sono anche avvantaggiati, poiché attraverso la presenza negli Stati Uniti di numerose minoranze, che sono elemento centrale del sistema americano, le industrie creative statunitensi possono testare all’interno del loro territorio i diversi prodottieprevederese saranno capaci di conquistare il mondo. Mi sembra dunque più opportuno affermare che gli americani siano fautori di uno specifico e originale modello economico più che di una strategia per imporre al mondo alcuni valori e un’egemoniaculturale. In questo senso, l’America produce una “diversità standardizzata”, profondamente impressionante, ma straordinariamente efficace in termini di diffusione. È un modello di cultura simile al “tex-mex”, ovvero né propriamente texano némessicano,poichéla cultura tex-mex è una cultura locale americanizzata dagli stessi messicaniamericaninelterritorio degliStatiUniti.DaRe Leone ad Aida, da Kung Fu Panda a The Departed, da Tintin di SpielbergaShakira,gli Stati Uniti esportano questo tipo di cultura, né completamente originalenétotalmente americana. Ma c’è di più. Gli Stati Uniti non solo esportano i loro prodotti culturali, ma esportano anche un modello. A Damasco, Pechino,Tokyo,Riyadh e Caracas sono stato colpito dal fascino che su tutti i miei interlocutori esercita il modello americano di intrattenimento. Le parole sono in hindi o mandarino, ma la sintassi è americana. Questa è la forza degli Stati Uniti e nessun altro soggetto, per il momento, è dotato di questa forza, né l’Unioneeuropea,néla Cinacon1,3miliardidi abitanti. Viene da chiedersi, ma è difficile rispondere, se gli Stati Uniti possano perdere la leadership mondiale sui contenuti culturali, cosìcomenonsonopiù il paese con i grattacieli più alti, che oggisitrovanoaTaipei e Dubai. Se però non bisogna considerare la potenza americana come definitiva, poiché nulla è definitivo, non bisogna neanche sottostimarla. Lo scenario è sicuramente articolato e più volte si è insistito in queste pagine sull’ascesa dei paesi emergenti, non solo in campo economico, cosa che è stata già ampiamente analizzata, ma anche nell’industria dei contenuti–cosainvece più raramente riconosciuta. Viene dunque da chiedersi se sul fronte delle industrie creative si prospetta davanti a noi un mondo “postamericano”. Questo scenario mi pare da escludere, ma credo che la nuova geografia dei media e dell’intrattenimento sarà probabilmente caratterizzata da una pluralità di centri e di polarità.Èevidenteche siamo di fronte a paesi emergentichevogliono produrre e sostenere i loro contenuti. A mio avviso,lacrescitadegli “altri” non avverrà a scapito degli Stati Uniti, ma a loro vantaggio poiché si apriranno nuovi mercati e condizioni perproduzionisuscala locale. In ogni caso siamoinunasituazione in cui non si vede il declino americano e stanno comparendo nuovi concorrenti. Siamo di fronte al “the rise of the rest”, la crescita degli altri paesi, secondo la formula del giornalista indiano-americano FareedZakaria. Assistiamo dunque a una trasformazione radicale della geopolitica degli scambi dei contenuti culturaliemediatici.La paura dell’egemonia americana – un’ossessione tanto a ParigiquantoaRoma– sembra invece un concettoormaidesueto a Mumbai e Tokyo. In Iran,India,Cinamilioni di persone non sanno chi siano Mickael Jackson o Madonna. A Seul, Taiwan e Hong Kong si teme di più l’egemonia giapponese o cinese di quella americana; in Argentina si ha più paura del Brasile o del Messico;inGiapponee in India si diffida della Cina più che dell’America. Gli Stati Uniti continuano a essere un partner o un concorrente, ma non sono gli unici a maneggiare il soft power, a produrre contenutiedesportarli. In questo rimescolamento delle carte, ci sono vincitori (gliStatiUnitieipaesi emergenti) e vinti (i paesi dominati). Ci sono anche i paesi che vedono diminuire le loro quote di mercato. Sono i paesi che non hanno costruito industrie creative potenti, e stanno dunque perdendo velocità; sono quelli che non hanno accolto la globalizzazione, i suoi potenziali mercati ecedonoilpasso;sono quelli che hanno pensato a internet come a una minaccia e non come a un’opportunità e che rischiano di non aver alcun potere nel mercato dei contenuti. Questa è la situazione dell’Europa nel suo complesso e di paesi come Portogallo, Italia eSpagna,maanche,in minor misura, di Francia e Germania che stanno perdendo terrenosulfrontedegli scambiculturali. Sta prendendo forma una nuova geografia della circolazione dei contenuti, quella del Ventunesimo secolo. I grandi assi di questo scenario sono: scambi nord-sud sempre più asimmetrici e scambi sud-sud sempre più diseguali tra paesi emergenti e paesi più poveri. C’è un paese dominante sempre più potente, ma che con l’arrivo delle nuove potenze non sarà più l’unico a dominare. Ci sono paesi emergenti chesisviluppanoanche attraverso i loro contenuti. Infine ci sono vecchi paesi dominanti, a cominciare dall’Europa, che rischiano di essere sommersi. Il radicale cambiamento della cultura e dell’informazione nell’economia immaterialeeglobaleè un grande evento dell’inizio del Ventunesimosecolo. L’ascesa culturale dei paesiemergenti Fra tutti i paesi emergenti, il Brasile è tra i più interessanti. Grazie a un’ampia popolazione e a una florida economia, è l’unico paese dell’America latina non più emergente, ma ampiamente emerso. Nello stesso tempo è un paese isolato, per via della sua storia e soprattutto della sua lingua,ilportoghese.Il Brasile è alla ricerca della propria identità e insieme all’India sostiene la battaglia in favore della diversità culturale in nome dei paesi del Sud. Vuole difendere i propri interessi di fronte agli Stati Uniti, ma intende anche lottare (cosa di cui gli europei non si sono resi conto) contro l’arroganza culturale della vecchia Europa, in particolare di Portogallo e Spagna. Il Brasileèinoltrepronto a ricostruire legami economici e culturali con paesi confinanti, anche con il Venezuela di Chávez, ma altresì con Cina e India, così comeconStatiUnitied Europa. Sul fronte dei contenuti e della produzione mainstream, l’America latina nel suo complesso vive una situazione meno felice, complessa ed eterogenea. Escluse le telenovele e alcuni generi musicali con un grossoimpattosuscala regionale, oggi in Sudamerica circolano pochi contenuti latinos di massa. L’intrattenimento latinooggisiproducea Miami e Los Angeles, capitali esterne dell’America latina mainstream. Il Brasile e il Messico possono difendere le loro industrieecompensare la loro bilancia commerciale culturale in squilibrio con gli StatiUnitiattraversole dimensioni e il dinamismo del loro mercato interno, ma Argentina, Colombia e Venezuela non sono in questa situazione. Peraltro, tutti questi paesi perseguono logiche fatte di particolarismiinvecedi favorire gli scambi con i paesi confinanti. All’interno di questo scenario, nel cinema, nei videogiochi e sempre di più nella musica pop e nei bestseller, gli Stati Uniti hanno gioco facile. Attraverso la globalizzazione e il ruolo del Messico che fa da filtro, la linea di separazione tra America del Nord e America del Sud tende ascomparire. I contenuti Ramadan I problemi del della frammentazione dell’America latina sono ancora più evidenti nel mondo arabo che è oggi, insieme a Cina e Venezuela,ilprincipale concorrente culturale dell’Occidente. Peraltro, europei e americani sono posti sullo stesso livello all’interno dei discorsi critici attorno ai valori formulati a Riyadh, Damasco e Teheran. Oggi, nei paesi del Golfo sono comparsi potenti gruppi multimedia (Mbc, Art, Rotana, Al Jazeera). Il loro obiettivo è costruirefortiindustrie creative per comunicare a tutto il mondo arabo, difendere i valori dell’islameconquistare nuovi mercati. In questomodointendono lottare contro il dominio culturale e ideologico dell’Occidente. Visto dai paesi arabi, l’Occidente è semplicemente un’immagine, talvolta un miraggio, più che una realtà geografica. Èuninsiemedivalorie di atteggiamenti, George Bush e Disney, hard e soft power, diritti dell’uomo e cristianesimo, liberazione delle donne e diritti degli omosessuali, cultura dominanteall’esternoe presenza di nemici interni. Quando vengono intervistati, i sostenitori musulmani dell’industria dei contenuti e dei media contrappongono all’Occidente i valori della famiglia, la tolleranza religiosa, il rifiuto della violenza e della sessualità – non sono poi così lontani daivalorimainstreame familiari di Disney e della Mpaa. Le contraddizioni di questa battaglia contro l’Occidente sono immediatamente chiare. In ogni caso, questa strategia antioccidentale che si esprimeneicontenutiè elaborata a Riyadh, Doha, Damasco e Teheran e realizzata a Dubai, Beirut e Il Cairo. Il primo obiettivo è riunificare la cultura del mondo arabo, dal Marocco all’Iraq. In seguito si progetta di allargarsi verso la cultura musulmana guadagnando pubblico in Iran e Indonesia, passando per Afghanistan, Pakistan ma anche Turchia e India.Infine–esaràla cosa più difficile –, di conquistare il resto del mondo. Si punta sui musulmani dell’Asia e sugli immigrati del Maghreb per indirizzarsi verso gli “housing estates” dell’Inghilterra, le “banlieues” francesi e le “barriadas” spagnole.Questopiano mi è stato accuratamente presentatodaidirigenti dei gruppi Mbc, Art, Rotana e Al Jazeera, ma continua a confrontarsi con le tensioni interne al mondo arabomusulmano. Ci sono anzitutto le opposizioni interne tra sciiti e sunniti, probabilmente menofortiinterminidi contenuti di quanto non si possa credere. C’è poi l’opposizione fra la tradizione del nazionalismopanarabo, piuttosto laico, di ispirazione socialista, rappresentato dalla Legaarabaesostenuto da Egitto, Giordania e Tunisia,eilmovimento islamistarappresentato dai Fratelli musulmani, dall’Organizzazione della conferenza islamica e dall’asse Siria-Iran-Qatar. Oggi i conservatori dell’Arabia saudita sono ostili alle evoluzioni moderne dei gruppi dell’intrattenimentodel mondoarabofinanziate dai loro figli, ma sono ancora più ostili all’Iran.Eilmiliardario saudita Al Waleed, proprietariodelgruppo Rotana,cheharicevuto una fatwa da parte dei religiosi radicali, è per molti aspetti più vicino agli americani che ai mullah, gli eruditi musulmani. Questo è uno dei paradossi di una cultura che cerca di abbracciare tutto il mondo arabo, che è tuttaviaattraversatoda livelli diversi di modernizzazione e di infitah, lo spirito di apertura. Il problema dei paesi arabi non è solo di natura morale, maancheproduttivoed economico. I paesi del Golfo svolgono la funzione di banche in grado di finanziare potenti industrie creative,manonhanno al loro interno i creatori necessari, né storie da raccontare, devono comprarle a caro prezzo in Egitto e Libano. Altrove, nel Maghreb o in Siria, mancano capitali e strumentididiffusione. Infine, le canzoni prodotte da Rotana a Beirut, i teleromanzi del Ramadan realizzati al Cairo e Damasco, i programmi televisivi diffusi da Dubai tendono a riprodurre una forma di sottocultura mainstream americanizzata, ormai solo con un vago accento egiziano. A Damasco e Tunisi ci si può forse illudere di essere mainstream, ma laforteesportazionedi contenuti arabi a destinazione dei mercati internazionali deve ancora avvenire. Inoltre l’intrattenimento dei paesi arabi deve ancora dimostrare di essere capace di conquistare i musulmani di Asia, IndonesiaeIndia. Da Hollywood Bollywood,eritorno a L’India è il colosso asiatico che suscita oggi maggior attenzione. L’emergere del subcontinente indianoèilsimbolodel risveglio di tutta l’Asia del Sud. Gli americani depongono molte speranze nell’India, tanto più che le delusioni in Cina sono state importanti. In questo paese non esistono quote di riserva contro le importazionidiprodotti culturali, né censura e invecediunmercatodi 1,3 miliardi di cinesi, gli americani sono prontiadaccontentarsi di un mercato di 1,2 miliardi di indiani. L’India, tuttavia, non interessa solo in terminiquantitativi,ma anche sul fronte dei capitali e delle competenze nell’ambito del mainstream. L’ingresso in grande stile del colosso indiano Reliance a Hollywood, attraverso un importante investimento in DreamWorks, dimostra la nuova ambizione degli indiani, che cercano dunque di costruire potenti industrie creative al proprio interno, per affrontaregliamericani sul loro stesso terreno dell’intrattenimento mainstream e per opporsi alla Cina. Come è noto, quest’ultimoobiettivoè ormaiperseguitoanche dagli americani ed è possibile formulare l’ipotesi di un roseo futuro delle relazioni economiche e culturali tra Stati Uniti e India: gli indiani hanno bisogno degli americani per fare da contrappesoallaCinae gli Stati Uniti hanno bisogno dell’India per sfondare in Asia dopo averfallitoinCina. In ogni caso, il progetto degli indiani di costruire potenti industrie dei contenuti destinati al mondo interositrovadifronte a questioni problematiche.Sipone, da una parte, la scelta di continuare a sviluppare i loro punti di forza in ambito cinematografico e musicale – le songs & dances di Bollywood per esempio – con il rischio che questa cultura risulti troppo specificaedifficilmente esportabile, e dall’altra parte si pone la scelta di cominciare a produrre cinema anglosassone a tinte indiane, con il rischio di farsi schiacciare dalla concorrenza americana. Per il momento, il botteghino indiano decolla negli StatiUnitieinEuropa, ma resta ancora fortemente dipendente dal consumo delle minoranze indiane che vivono all’estero – i famosi Non Resident Indian o Nri. È un successo in termini di dollari, un po’ meno in termini di biglietti di ingresso e un fallimento quando si tratta di convincere un giovane bi