pensare la dignità umana QUADERNI DELL’ALMO COLLEGIO BORROMEO | PAVIA A.A. 2011-2012 pensare la dignità umana QUADERNI DELL’ALMO COLLEGIO BORROMEO | PAVIA qb c ne ia quaderni dell'almo collegio borromeo Università degli Studi di Pavia Dip. di Diritto Romano Storia e Filosofia del Diritto Progetto editoriale e realizzazione Almo Collegio Borromeo, Pavia a cura di don Paolo Pelosi | Giampaolo Azzoni | Davide Griffini immagine di copertina http://www.flickr.com/photos/petertandlund/7006420637/ Dagens foto - 170: Walk With Me di petertandlund (CC BY-NC-ND 2.0) © 2013, Almo Collegio Borromeo - Pavia | www.collegioborromeo.it pubblicazione degli interventi svolti nel ciclo di incontri promosso dal Collegio Borromeo in collaborazione con l’Università degli Studi di Pavia, Dipartimento di Diritto Romano, Storia e Filosofia del Diritto, nell’ambito del progetto P.A.V.I.A realizzato nell’ambito dei Servizi agli studenti nei Comuni sedi di Università, promosso e sostenuto dal Dipartimento della Gioventù - Presidenza del Consiglio dei Ministri e dall’ANCI - Associazione Nazionale dei Comuni Italiani ii introduzione Consegniamo alla ‘rete’ questo primo e.book di una collana di Quaderni dell’Almo Collegio Borromeo che ci auguriamo possa essere lunga. Ci fa piacere inaugurare la serie con la raccolta degli atti di un ben riuscito ciclo di conferenze sulla dignità umana, tenute in Collegio durante l’anno accademico 2011-12, con il coordinamento del professor Giampaolo Azzoni. Come proprio Azzoni ha scritto in un suo saggio, quello di dignità umana è il concetto normativo che meglio interseca le due grandi tradizioni dell’Occidente moderno, il cristianesimo e l’illuminismo, rappresentando quindi l’esito più alto di una convergenza tra differenti prospettive valoriali. Il pensiero corre alla Lettera ai Galati di S. Paolo (3, 28) o ai documenti del Concilio Vaticano II, ma anche a Immanuel Kant e, infine, alla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea dove la dignità della persona umana non viene posta solo come un diritto fondamentale in sé, ma costituisce la base stessa dei diritti fondamentali. In questo contesto, il tema del rispetto e della valorizzazione della dignità di ogni uomo, promossi dalla nostra civiltà sotto la spinta dell’istanza cristiana, merita di essere costantemente approfondito con una riflessione sempre più adeguata ai tempi e alle circostanze. Ecco il senso di una lettura multidisciplinare come quella offerta in questa pubblicazione. La convinzione profonda è che ogni discorso e impegno per la crescita della nostra società non possa che partire dalla centralità della persona e della sua dignità. don Paolo Pelosi Rettore del Collegio Borromeo iii pensare la dignità umana P AOLO B ECCHI U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI G ENOVA La dignità umana e l’ordinamento giuridico italiano INDICE 1. Usi della dignità nella Costituzione e nella legislazione ordinaria 2. Usi della dignità nella giurisprudenza costituzionale e in quella ordinaria 3. Conclusioni Note 1. Usi della dignità nella Costituzione e nella legislazione ordinaria La prima cosa che non può non sorprendere quando ci si appresta ad analizzare l’ordinamento costituzionale italiano è l’uso del termine dignità. La Costituzione repubblicana entrata in vigore il 1° gennaio del 1948 – e dunque anteriore alle stessa Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo – contiene tre riferimenti espliciti alla dignità: l’art. 3, 1˚comma, si riferisce alla “pari dignità sociale”, di tutti i cittadini, l’art. 36, 1˚comma, sostiene che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione tale da “assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”; l’art. 41, 2˚comma, afferma che l’attività economica privata non può svolgersi “in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Abituati a considerare la dignità in modo astratto, come una qualità inerente l’essere umano, intrinseca alla condizione umana, dobbiamo subito registrare che nulla di tutto ciò si ritrova negli articoli citati. La Repubblica italiana non è fondata sul riconoscimento di un principio assoluto e incondizionato come la dignità umana, ma “sul lavoro” come recita l’art. 1 e di conseguenza il soggetto con cui viene posta esplicitamente in relazione la dignità non è mai l’uomo in quanto tale, ma il cittadino, il lavoratore, l’imprenditore. Persino laddove si trova la locuzione “dignità umana” (art. 41) essa riguarda in particolare le mansioni lavorative che non devono rivelarsi degra5 danti o umilianti per coloro che sono chiamati ad eseguirle. Vale la pena sottolineare però l’espressione “pari dignità sociale” che, se male non mi appongo, non si ritrova in nessun’altra Costituzione. Come è stato osservato in uno dei pochi contributi dedicati specificamente a questa formulazione “si tratta evidentemente di un parametro non assoluto, ma relazionale”(1), non è cioè un principio incondizionato, pre-positivo, paragonabile, per fare un esempio significativo a quello che emerge dall’articolo 1 del pressoché coevo Grundgesetz (2), bensì una qualificazione di diritto positivo, che in modo esplicito viene attribuita alla totalità dei cittadini. C’è uno stretto collegamento tra i tre articoli della Costituzione in cui compare il riferimento alla dignità. Il filo che li collega è la nozione di lavoro, a cui a ben vedere si riferisce anche l'articolo 3, se interpretata in una accezione ampia, vale a dire non limitata come nei due precedenti articoli all’attività di lavoro subordinato. È il lavoro che consente di realizzare la “pari dignità sociale”. Aboliti tutti i titoli nobiliari contribuire con il proprio lavoro (qui inteso nella sua accezione più ampia di esplicazione di una attività produttiva) al progresso della società è l’unico titolo di dignità ammesso dalla costituzione italiana, e diventa il suo valore fondante. Ciascun cittadino è portatore di un valore pari a quello di ciascun altro cittadino e questo già implica la deduzione contenuta nel secondo comma dell’art. 3, vale a dire la piena partecipazione di tutti i cittadini – soprattutto di coloro che a causa del- le loro condizioni ne sono di fatto impediti – alla vita della collettività: “dignità” non è un dato naturale da difendere, ma qualcosa da promuovere e costruire rimuovendo tutti quegli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, 2˚comma). Vi è tuttavia anche un altro aspetto da considerare. Se l’art. 3 ha questa funzione propositiva, negli altri due contesti essa compare come limite: sia come limite all’attività imprenditoriale, che come abbiamo visto non può svolgersi in modo da danneggiare la dignità umana (art. 41), sia come limite all’attività lavorativa. L’art. 36, infatti, mentre garantisce al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa” e il diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, sottolinea che a questo diritto “non può rinunciarvi” (art. 36, 3° comma). Mentre la dignità è tradizionalmente associata all’aggettivo “umana”, la Costituzione italiana però, introducendo i due aggettivi “pari” e “sociale”, preconizza uno scenario diverso, quello appunto descritto dall’art. 3, al 2˚comma. La dignità è connessa tanto al ruolo che ciascun consociato è chiamato attivamente a svolgere all’interno della società, quanto al fatto che lo Stato deve assicurargli la possibilità di svolgere e di svolgerne dignitosamente uno. Come il lavoro oltre ad essere un diritto è altresì un dovere, così la dignità oltre ad essere un onore, del tutto sui generis poiché connesso ai meriti acquisiti con le proprie prestazioni sociali e un onere, dal momento che ciascun consociato è chiamato a contribuire con la sua attività al progresso economico e sociale del proprio paese. 6 Ben inteso, anche la Costituzione italiana riconosce i “diritti inviolabili dell’uomo” in quanto tale (art. 2) e dunque non solo nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la propria personalità, ma anche come “singolo”, e tuttavia è significativo che neppure l’art. 32, 2˚comma, un articolo, come vedremo al centro di molte attuali discussioni, in cui si afferma che “nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge” (e che persino quest’ultima “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”), ritorni esplicitamente il riferimento alla dignità umana. Implicito resta il rinvio alla dignità anche in un altro punto esemplare: quello che riguarda il trattamento del detenuto. L’art. 27, 3˚comma, afferma, in negativo, che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e subito dopo continua, in positivo, che esse “devono tendere alla rieducazione (sociale) del condannato” (3). Così pur riconoscendo attraverso l’umanitarismo penale il principio che nessun condannato deve essere trattato in modo degradante e umiliante è, ancora una volta, sulla dimensione sociale che si insiste, sottolineando che lo scopo della pena deve mirare al recupero sociale del detenuto. L’analisi della Costituzione potrebbe continuare entrando nel dettaglio delle singole disposizioni analizzate, ma non è questa l’occasione per farlo, qui preme piuttosto sottolineare che l’uso esplicito del vocabolo “dignità” è in essa circoscritto alla dimensione sociale – la dignità paritaria che implica l’eguaglianza sostanziale dei cittadini –, mentre l’altro uso, quello che la considera un principio supremo, pre-positivo, è solo im- plicito. La formulazione del tutto peculiare usata dal Costituente – “pari dignità sociale” – non ha avuto particolare fortuna in dottrina (4), salvo le rare eccezioni che abbiamo segnalato. Basta sfogliare i manuali di diritto costituzionale più accreditati (5) e le enciclopedie giuridiche più diffuse per rendersene subito conto. Solo l’Enciclopedia giuridica Treccani ha inserito una voce concernente la dignità, ma significativamente essa riguarda esclusivamente la dignità del lavoratore (6). L’interesse tuttavia sta senza dubbio crescendo, come mostra l’introduzione della voce “dignità” nel Trattato di Biodiritto (7) e nel recentissimo quarto volume dell’Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica (8). Come è evidente è la connessione tra bioetica e dignità ad essere ora al centro di molte discussioni sia con riferimento all’inizio della vita (tecniche di riproduzione assistita) sia alla fine (rifiuto di cure, eutanasia). Ma di tutto ciò ci occuperemo in seguito. Prima di analizzare alcune interessanti pronunce giurisprudenziali è opportuno fare una carrellata della legislazione ordinaria. Anche se la nozione di dignità non compare nè nel codice civile, nè in quello penale, molteplici sono i riferimenti alla dignità nelle leggi ordinarie. Tenuto conto dell’importanza che assume la figura del lavoratore nella Costituzione è proprio da qui che prende le mosse il legislatore, approvando con la legge n. 300 del 20 maggio 1970 lo Statuto dei lavoratori, in cui è centrale il richiamo alla dignità. Tutelando la categoria dei lavoratori da modalità di controllo messe in atto dai datori di lavoro sull’attività lavorativa e sul lavoratore medesimo la legge portava a concreta realizzazione il dettato costituzionale (9). 7 In anni più recenti quella tutela si è di molto estesa, comprendendo anche un’ampia gamma di comportamenti riconducibili al cosiddetto mobbing (si veda il d. leg. 11 aprile 2006, cd. Codice delle pari opportunità) e ad un fenomeno che spesso a questo è connesso, quello delle molestie e in specie di quelle sessuali, considerate alla stregua di discriminazione (10). Partendo dal soggetto-lavoratore nel corso degli anni la tutela della dignità si è andata ad estendere a diversi altri soggetti, tutelati proprio per via della loro specifica condizione: il detenuto, la donna, il malato, la persona disabile, lo straniero, il consumatore, il defunto, e così via con differenziazioni ulteriori e sempre più specifiche (ad es.: il tossicodipendente, il malato terminale ecc.). Non pare invece aver assunto un ruolo di rilievo il richiamo alla dignità con riferimento all’embrione. Nella pur controversa legge n. 40 del 2004 sulla fecondazione assistita non ricorre mai il riferimento alla dignità dell’embrione, quantunque il primo articolo assicuri “i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Di seguito una rassegna delle leggi più importanti. Con riferimento alla condizione di detenuto già la legge n. 354 del 26 luglio 1975, sull’ordinamento penitenziario, portando a concreta realizzazione quanto previsto dalla Costituzione, afferma che “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Con riferimento alla donna si pensi anzitutto alla legge n. 194 del 22 maggio 1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza, in cui si sottolinea che gli accertamenti necessari in vista di tale richiesta dovranno avvenire “nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna” (art. 5). Con riferimento alla condizione di malato già l’importante legge n. 833 del 23 dicembre 1978, con la quale si istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, richiamando l’art. 32 della Costituzione, fa esplicito riferimento al fatto che anche i trattamenti sanitari obbligatori disposti dall’autorità giudiziaria devono avvenire “nel rispetto della dignità della persona umana” (art. 33). In particolare al tossicodipendente si riferisce il testo unico della legge in materia (d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309; le recenti modifiche, l. n. 49 del 2006, non riguardano il tema qui trattato), il quale prevede che il programma terapeutico socio-riabilitativo sia “formulato nel rispetto della dignità della persona“ (art. 122, 2˚comma). Della dignità del malato terminale si occupa il controverso progetto di legge su “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”, ma si tratta di un riferimento meramente formale (il disegno di legge all’art. 1, lettera b, “riconosce e garantisce la dignità di ogni persona in via preliminare rispetto all’interesse della società e alle applicazioni della tecnologia e della scienza”), contraddetto da concrete disposizioni che di fatto per più versi la violano (non è richiesto il consenso del paziente quando ci si trovi in una situazione d’urgenza, anche se l’interessato è ancora capace di intendere e di volere e quindi gli si impone un trattamento non voluto [art. 2, c. 9], si esclude dalla dichiarazione eventuale anticipata di trattamento la possibilità di esprimersi sull’alimentazione e l’idratazione artificiali [art. 3, c. 4]). Qualcosa di analogo si può dire con riferimento a tutt’altra condizione, quella di straniero: la legge n. 40 del 6 maggio 1998 all’art. 12 afferma che qualora 8 non sia possibile eseguire immediatamente l’espulsione del clandestino “lo straniero è trattenuto nel centro (di permanenza temporanea) con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità”. (La legge più recente del 24 luglio 2008, n. 125 non modifica questo punto se non per il fatto che ora i centri sono chiamati “di identificazione e di espulsione). In un successivo d.p.r. del 30 marzo 2001 si sottolinea però la necessità di monitorare “il livello di diffusione nel nostro paese di atti discriminatori (…) profondamente lesivi della dignità degli stranieri”. Con riferimento alle persone disabili particolare importanza riveste la legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale, i diritti delle persone disabili (legge n. 104 del 5 febbraio 1992) la quale “garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società” (art. 1). Una più recente legge (la n. 7 del 9 gennaio 2006) tutela inoltre specificamente le persone disabili da discriminazioni, specificando che tra di esse vanno fatte rientrare anche le “molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creano un clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti” (art. 2, 4˚comma). Con riferimento alla condizione di consumatore, anche se la disciplina specifica (legge n. 281 del 30 maggio 1998) non conteneva un esplicito richiamo alla tutela della dignità, esso era tuttavia presente nella legge n. 39 del 1˚marzo 2002 in cui, integrando precedenti disposizioni, si vietava “la televendita, che vilipenda la dignità umana” (art. 52). Sorprende l’uso del vocabolo “vilipenda”: tale fattispecie di reato infatti si riferisce nell’ordinamento italiano all’offesa fatta verso istituzioni, cose e simboli tutelati per legge; il vilipendio di persone riguarda soltanto chi professa la propria fede religiosa o l’amministra, e nell’ambito dei delitti contro la pietà dei defunti. È evidente che il legislatore, qui, ha fatto un uso diverso del vocabolo. Riguardo al consumatore si deve però ora tenere presente il d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (con il quale è stato emanato il Codice del Consumo). In particolare nell’art. 27 bis compare la salvaguardia della dignità umana nei codici di condotta specifici che possono essere adottati da organizzazioni imprenditoriali e nell’art. 30, 1˚comma, in cui è vietata “la televendita che offenda la dignità umana”. Con riferimento al defunto il riferimento alla dignità compare in alcune leggi regionali in materia di servizi funebri e cimiteriali, laddove si afferma la necessità di tutelare la “dignità del defunto” (ad es. art. 1 della legge regionale umbra del 21 luglio 2004, n.12). Tra le condizioni, sempre più specifiche, che prevedono una tutela della dignità va annoverata quella di membro di una associazione che abbia come sua finalità la promozione sociale. Nell’art. 2 della legge n. 383 del 7 dicembre 2000 si parla infatti di “dignità degli associati”. E, per sottolineare questo aspetto della dignità connessa al ruolo che la persona riveste sulle formazioni sociali, si possono ricordare i codici deontologici di molte professioni in cui il vocabolo “dignità” viene utilizzato per indicare la propria categoria: la dignità riferita allo status di lavoratore si estende così alle libere professioni, come quel9 la del giornalista, dell’avvocato, del consulente del lavoro, del medico e del farmacista. Sinora la nostra attenzione si è principalmente focalizzata, anche se non in modo esclusivo, su quella dimensione sociale della dignità che riguarda concrete categorie di persone, le quali nelle diverse formazioni sociali in cui temporaneamente o stabilmente sviluppano la loro personalità possono, attraverso discriminazioni di ogni genere, trovare un impedimento alla loro realizzazione. Oggi tuttavia i pericoli per la dignità umana possono venire anche dalla società stessa, nel momento in cui essa tende a privare i singoli individui del nucleo più profondo di intimità, che dovrebbe invece essere sottratto agli occhi indiscreti del pubblico. Ogni uomo non solo ha diritto ad essere rispettato, in positivo, per quello che è nella società, ma anche in negativo, per quello che di sé non vuole far conoscere agli altri, e su cui desidera che sia mantenuto l’assoluto riserbo. La dignità in questo caso non riguarda il lavoratore, la donna, la persona disabile e così via, ma ciascun individuo che ha diritto a non essere disturbato nella sua sfera privata. La nozione di riservatezza, di privacy, è così l’altra faccia della dignità sociale. Tanto quest’ultima incide sull’esistenza sociale, quanto la prima sull’esistenza individuale. L’apposito codice in materia di protezione dei dati personali (d. lgs. n. 196/2003) nasce proprio da questa esigenza. Ed è significativo che tale codice non si limiti ad enunciare fattispecie astratte e generali sotto le quali il giudice dovrà sussumere i casi concreti; ma preveda l’istituzione di un Garante che dovrà valutare se singole situazioni possano costituire violazione della privacy. Due provvedimenti al riguardo sono di particolare interesse: nel primo (9 novembre 2005, il relatore è Pizzetti), riguardante il trattamento dei dati personali in ambito sanitario viene ribadito che esso deve avvenire “nel pieno rispetto della dignità dell’interessato” e che la “tutela della dignità personale deve essere garantita nei confronti di tutti i soggetti cui viene erogata una prestazione sanitaria, con particolare riguardo a fasce deboli quali i disabili, fisici e psichici, i minori, gli anziani e i soggetti che versano in condizioni di disagio o di bisogno”. (Garante per la protezione dei dati personali, Strutture sanitarie: rispetto della dignità umana). Anche se la “dignità personale” riguarda tutti, una particolare attenzione viene riservata alle fasce deboli. Il secondo provvedimento riguarda un argomento dal punto legislativo ancora aperto: vale a dire quello delle intercettazioni telefoniche. A seguito della reiterata pubblicazione da parte di varie testate giornalistiche di numerose trascrizioni di intercettazioni telefoniche il Garante (relatori: Chiaravalloti e Paissan) ha emanato il 21 giugno 2006 un provvedimento (Garante per la protezione dei dati personali, Pubblicazione di intercettazioni telefoniche e dignità della persona) in cui si ribadisce che il diritto dei cittadini all’informazione, con la connessa libertà di stampa deve comunque avvenire senza ledere “il pieno rispetto della dignità della persona”. In conclusione: la legislazione ordinaria lascia emergere una tutela della dignità molto differenziata, che dalla dimensione eminentemente sociale e lo stretto legame con l’idea di eguaglianza sostanziale, come esplicitamente previsto dalla Costitu10 zione, è passata via via a coprire nuovi scenari. Tutto ciò si riflette, come tra poco vedremo, tanto nella giurisprudenza costituzionale quanto in quella ordinaria. Ma prima va pur ricordato un elemento importante. La dignità umana come tale è pur entrata a far parte del nostro ordinamento giuridico con la ratifica del Trattato di Lisbona, avvenuta con legge n. 130 del 2.8.2008, il quale all’art. 1bis colloca la dignità al primo posto tra i valori fondanti gli Stati membri dell’Unione (seguono in successione la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo Stato di diritto e i diritti umani), mentre i primi cinque articoli della sua Carta dei diritti fondamentali sono raccolti sotto il Capo I, dedicato alla dignità, e qui la dignità, nell’ordine di successione, precede il diritto alla vita, il diritto all’integrità della persona, il divieto della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato. 2. Usi della dignità nella giurisprudenza costituzionale e in quella ordinaria È qui impossibile un’analisi dettagliata del profilo giurisprudenziale (11). Ci limiteremo, pertanto, a registrare le tendenze di fondo. Cominciamo anzitutto dalle pronunce della Corte Costituzionale. La Corte ha fatto un uso tutto sommato piuttosto prudente del principio di dignità – a partire dalla sentenza n. 3 del 1957 in cui si tenta persino di definire la “pari dignità sociale” osservando che l’espressione “sta a significare, che deve- si riconoscere ad ogni cittadino uguale dignità pur nella varietà delle occupazioni o professioni anche se collegate a differenti condizioni sociali”- circoscrivendolo a quanto specificamente previsto dall’art. 3 della Costituzione per ribadire l’illegittimità di qualsiasi forma di discriminazione, oppure utilizzandolo come elemento rafforzativo, di sostegno, quando entrano in gioco i diritti inviolabili dell’uomo tutelati all’art. 2. In alcune sentenze, più recenti, essa non si sottrae neppure all’attività di bilanciamento (si veda esemplarmente la n. 196 del 2004). Restano invece piuttosto isolate le pronunce in cui la Corte riconosce alla dignità un rilievo autonomo. Ciò avviene, se non sbaglio, solo in due casi: quando attraverso di essa si vuol configurare un nuovo diritto costituzionalmente protetto, come esemplarmente la sentenza n. 37 del 1985, nella quale si fa discendere dalla dignità “un diritto costituzionale agli alimenti”, o quando la dignità – sottratta ad ogni bilanciamento – viene intesa come un limite, rispetto al quale altri diritti costituzionalmente tutelati devono soccombere. È questo il caso più interessante ed una sentenza al riguardo merita una considerazione più ravvicinata. Nella sentenza n. 293 dell’11 luglio 2000, riguardante il fondamento giustificativo della punibilità di coloro che diffondono a mezzo stampa con particolari impressionanti raccapriccianti immagini di avvenimenti realmente verificati, la Corte Costituzionale ha riconosciuto nella dignità un limite invalicabile, oltre il quale neppure la libertà di manifestazione del pensiero può spingersi, dal momento che “quello della dignità della persona è, infatti, valore costituzionale che permea di sè il diritto 11 positivo”. Per la Consulta, insomma, c’è un “contenuto minimo” del rispetto della persona umana che oltrepassa la pur legittima pluralità delle concezioni etiche presenti nella nostra società e questo contenuto lo si ritrova nel principio della dignità che diventa, in tal modo, una sorta di norma di chiusura dell’intero ordinamento. Di “nucleo irriducibile” o “irrinunciabile”, “limite invalicabile”, rappresentato dalla dignità si parla anche in alcune sentenze attinenti i trattamenti sanitari (ad es.: sentenza n. 509 del 13 novembre 2000, richiamata anche nella sentenza n.11 del 2005; sentenza n. 282 del 19 giugno 2002 o, più recentemente la sentenza n. 10 del 2010). Tra queste da ricordare ancora, più recentemente la n.151 dell’8 maggio 2009 che ha dichiarato, limitatamente ad alcune parole, l’illegittimità della legge sulla procreazione medicalmente assistita, richiamando gli art. 3 e 32 della Costituzione (peraltro senza utilizzare espressamente la parola “dignità”). Ci siamo soffermati su alcune pronunce della Corte Costituzionale in cui la dignità viene tutelata in quanto tale, ma si tratta – occorre ribadirlo – di casi piuttosto isolati. Molto più spesso essa non si riferisce all’uomo in quanto tale, ma ad una qualità concreta inerente la condizione esistenziale o professionale della persona. Viene così protetta, per fare qualche esempio, la dignità del militare in generale (sentenza 189/1976) e del militare subordinato in particolare (sentenza 45/1992), della casalinga in quanto lavoratrice (sentenza 85/1985), della persona sottoposta a perizia medico-legale (sentenza 54/1986), del minore dato in adozione (sentenza 303/1996) del detenu- to in generale (sentenza 526/2000) e del detenuto in particolare (sentenza 158/2001) del bambino handicappato (sentenza 465/2002), del giudice (sentenza 204/2004), dei siciliani (sentenza 283/2002) degli omosessuali (ordinanza 129/2005) degli ebrei (sentenza 268/1998) e soprattutto (e di gran lunga prevalente) del lavoratore. Proprio questa attenzione riservata dalla Corte non all’uomo in astratto, ma ad individui concreti ed in particolare a quei “soggetti deboli” che possono facilmente diventar oggetto di discriminazione è un’ulteriore conferma del timbro particolare che ha la dignità nell’ordinamento costituzionale italiano. Questa specificità è confermata dell’analisi della giurisprudenza ordinaria. Dopo quanto sin qui si è detto non dovrebbe sorprendere che proprio la dignità del lavoratore rappresenti l’esempio che ricorre con maggiore frequenza nelle motivazioni dei provvedimenti giurisdizionali (12). Merita qui di essere riportato il passo di una importante pronuncia della Corte di Cassazione (la n. 5977 del 29 novembre 1985): “La dignità del lavoratore è l’estrinsecazione della persona umana nella caratteristica che le è propria di ordinare le sue azioni al più alto grado di compimento, in vista di uno scopo comune, quale sviluppo del consorzio di vita economica, sociale e spirituale in cui vive, affinamento della propria coscienza e capacità di esteriorizzare anche solo con il comportamento, il principio di elevazione morale, insito in ogni uomo. La prestazione di lavoro è impossibile in una condizione di disprezzo di essa, di disprezzo della persona che la rende, di disprezzo degli uomini che vi 12 attendono, e, quindi, in una condizione di costrizione ad eseguirla senza dignità…” Il modo in cui qui la Suprema Corte pone in risalto l’importanza del lavoro e della dignità di chi lavora è in precisa sintonia con il dettato costituzionale e conferma la centralità che il lavoro (ed il lavoratore) ha nell’organizzazione sociale ed economica del nostro Paese. Più recentemente il rispetto della dignità del lavoro ha assunto specifiche connotazioni come quelle definite dal fenomeno del mobbing o delle molestie, in particolare sessuali. E anche nella giurisprudenza ordinaria si manifesta quella stessa tendenza, che abbiamo già documentato in quella costituzionale, vale a dire la tutela della dignità di specifiche categorie di persone: i minori, i portatori di handicap, i tossicodipendenti, i detenuti, gli extra-comunitari, i militari con ruoli subordinati e le persone decedute. Un’analisi dettagliata ci porterebbe troppo lontano. Ma almeno un caso merita di essere richiamato, perché bene mostra l’evoluzione compiuta anche dalla Suprema Corte. La sentenza riguarda la condanna (confermata in appello) di un comandante di fregata per il reato di ingiuria ad inferiore. Il ricorso si basava sul fatto che nel procedimento era stato omesso di valutare la dichiarazione della persona offesa, la quale aveva escluso ogni intento offensivo in una espressione volgare che il suo superiore gli aveva rivolto, considerandola alla stregua di un atteggiamento scherzoso. La Corte Suprema ha tuttavia rigettato il ricorso osservando che è irrilevante “che il soggetto passivo abbia percepito l’espressione offensiva senza ritenersi offeso, in quanto l’oggetto della tutela penalistica va individuato in termini assai più ampi, e precisamente nel valore della dignità umana in quanto tale (Cass. pen. 1˚aprile 2004, n.15503). È evidente che qui la dignità assurge a valore oggettivo, del tutto indipendentemente dalle valutazioni soggettive delle parti coinvolte. Dalla tutela della dignità sociale del lavoratore siamo passati alla tutela di un’idea di dignità come valore indisponibile ed irrinunciabile anche da parte del suo titolare. È tuttavia (a partire dal 1990 con una sentenza della Corte Ass. di Firenze del 18 ottobre che ha fatto storia) soprattutto con riferimento ai trattamenti sanitari che in molte pronunce troviamo un rinvio al principio della dignità. Fuoriesce dai limiti di questo contribuito un’analisi dettagliata al riguardo, qualcosa va però in conclusione detto, riguardo a due casi tormentati che hanno suscitato in Italia un ampio dibattito. Mi riferisco come è evidente alle tristi vicende di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro (13). Nel caso di Welby, affetto da distrofia muscolare progressiva, l’accento sulla dignità viene posto dai suoi legali nella loro richiesta di sospensione della respirazione artificiale, poiché questa avrebbe consentito la prosecuzione sì della vita, ma in condizioni ritenute dal loro assistito degradanti e lesive della sua dignità. Il rispetto di quest’ultima viene qui strettamente connesso al diritto di autodeterminazione, nella fattispecie al diritto di rifiutare un trattamento non più voluto. Un diritto ampiamente tutelato – come abbiamo visto – dalla Costituzio13 ne italiana e tuttavia farlo effettivamente valere è stato molto più difficile di quanto si potesse in linea di principio immaginare. Al dottore che ha materialmente staccato il respiratore, dopo aver accertato anche nell’imminenza del distacco la volontà dell’interessato, è stato infatti imputato il reato di omicidio del consenziente, quantunque alla fine il giudice dell’udienza preliminare abbia prosciolto il medico, in ragione dell’esimente dell’adempimento di un dovere. Nella sua motivazione, tra l’altro, il giudice descrive Welby come un paziente “ormai profondamente consapevole di aver esaurito ogni aspettativa di vita, di una vita che ancora possa essere chiamata tale e che abbia conservato la dignità coessenziale alla qualità di uomo” (Tribunale Roma, sentenza 23 luglio/17 ottobre 2007, n. 2049). Anche se questo richiamo alla dignità è del tutto marginale e non ha influito sulla decisione presa dal giudice è significativo che egli riconosca, sia pure implicitamente, incompatibile con il senso di dignità della paziente la prosecuzione della vita in quelle condizioni. oggettivo, confuso ad onor del vero, con il diritto alla vita. D’altro canto la Corte di Cassazione, con sentenza del 16 ottobre 2007, n. 21748, fa propria la visione soggettiva della dignità, ritenendo indegno protrarre per anni la mera sopravvivenza del corpo di una persona, che se cosciente, non avrebbe sicuramente accettato. Va peraltro riconosciuto che l’ultima sentenza tenta in realtà una sintesi tra la versione oggettiva e quella soggettiva della dignità nel momento in cui vuol tener ferma l’idea della tutela della dignità umana nella sua generalità e astrattezza, salvo d’altro canto concretamente riconoscere il diritto “di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato”. Insomma, proprio il tema del finis vitae lascia intravedere un aspetto sul quale la riflessione è ancora soltanto agli inizi, e cioè che la dignità è un principio superiore della vita stessa. Proprio su questo punto è interessante l’altra vicenda, quella di Eluana Englaro, che fa bene emergere questa versione della dignità, riconducibile all’autodeterminazione del paziente, che alla fine si è imposta. Del lungo iter processuale ricordiamo qui solo la fase iniziale e quella finale. Il primo decreto del Tribunale di Lecco (1° maggio 1999) dichiara inammissibile la richiesta di autorizzazione alla sospensione dell’idratazione e nutrizione artificiali poiché “la dignità attinge dal valore assoluto della persona e prescinde dalle condizioni anche disperate in cui si esplica la sua esistenza”. La dignità è qui un valore Dopo quanto abbiamo detto resta aperto un interrogativo di fondo: c’è qualcosa che accomuna gli usi legislativi e giurisprudenziali, così disparati, che abbiamo incontrato, o la dignità si rivela un’idea tanto suggestiva ed evocativa, quanto vaga e indeterminata? Cosa lega, per fare qualche esempio, la tutela della dignità dei detenuti alla tutela della dignità dei lavoratori? O la dignità di questi ultimi a quella dei malati terminali? È evidente che in tutte le situazioni indicate la “dignità” assume un significato diverso. Un detenuto ha diritto ad una cella pulita, a non essere maltrattato o torturato, ad un minimo di riser- 3. Conclusioni 14 vatezza; un lavoratore, anzitutto, ad un’attività lavorativa e ad un ambiente di lavoro non degradanti. Anche qualora si volesse definire il lavoro salariato come una forma di sfruttamento, neppure il marxista più ortodosso lo paragonerebbe ad una forma di tortura. E le difficoltà non fanno che aumentare non appena si passa da situazioni comunque connesse ad una dimensione sociale a situazioni in cui la dimensione è individuale: che cosa ha a che fare la dignità del lavoratore, il diritto al pieno sviluppo della sua personalità e alla partecipazione effettiva alla vita della collettività, con la dignità del malato terminale che proprio in nome della dignità rifiuta di procrastinare la morte nel tempo? Persino la stessa espressione “vita dignitosa” acquista due significati diversi a seconda che si riferisca al diritto che ha il lavoratore ad una retribuzione che consenta a lui e alla sua famiglia di condurre una vita dignitosa, o al diritto che ha il malato terminale di non prolungare ulteriormente una vita da lui ritenuta, appunto, non più dignitosa. Peraltro, proprio con riferimento a quest’ultimo caso l’argomento della dignità viene utilizzato tanto da coloro che in nome della sacralità della vita sono contrari all’eutanasia, quanto da coloro che richiamandosi all’autodeterminazione del paziente sono invece favorevoli. Si sarebbe, a prima vista, tentati di concludere che la nozione di dignità sia di per sé poco utile a risolvere i problemi che concretamente si presentano: se ad essa si fa ricorso è paradossalmente perché la sua sostanziale indeterminatezza fa sì che essa sia utilizzabile per scopi molto diversi: la sua duttilità la ren- de applicabile ad una pluralità indefinita di situazioni. Da qui, in fondo, la sua scarsa utilità pratica. Questa conclusione è però, a ben vedere, tutt’altro che convincente. Che della dignità si parli al plurale non deve sorprendere. Il linguaggio ha una struttura aperta e non si vede perché questo non dovrebbe valere anche per la parola “dignità”, come tutte le altre parole anche questa è ambigua e soprattutto vaga. Questo è proprio quanto emerge dalla registrazione dei diversi usi, nei diversi contesti, che abbiamo fatto. Si potrà certo discutere se usi “marginali” della dignità siano coerenti o meno, con il significato di solito attributo a quella parola, ma il vero problema è un altro: qual è il nucleo centrale di certezza, ammesso che ve ne sia uno che consente di definire questo vocabolo? Non si può rispondere astrattamente a questa domanda; alla luce degli usi che abbiamo sin qui registrato si può però dire che nei primi decenni successivi alla promulgazione della Costituzione l’accento batte sulla “dignità sociale” e sullo stretto legame che questa ha con l’eguaglianza sostanziale (art. 3), nell’ultimo decennio pur senza venir meno questo motivo ad esso se ne è aggiunto un altro, imperniato sull’art. 32, il quale insiste sul fatto che “in nessun caso” nell’ambito dei trattamenti sanitari può essere violato “il rispetto della persona umana”, indicando così un limite che neppure la legge può varcare. Per quanto paradossale possa sembrare il carattere assoluto, incondizionato, della dignità compare nella Carta costituzionale solo nel punto in cui espressamente la parola non c’è, anche se 15 buona parte della dottrina e della giurisprudenza oggi interpreta quell’articolo alla luce del principio dignità. Così, incisivamente, si esprime Stefano Rodotà, dopo aver citato l’art. 32 della Costituzione: “È, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni nella base della legge e con provvedimento motivato dal giudice. Nell’art. 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile” (14). Peraltro anche qui il principio compare in stretta connessione con un diritto fondamentale, quello della salute. Insomma, ciò che in generale sembra caratterizzare il dibattito giuridico italiano sulla dignità è che questo principio non compare quasi mai come valore assoluto, incondizionato, quale fondamento dei diritti umani, ma semmai concorre con essi. Con riferimento al dibattito italiano bene si attaglia quanto Eugenio Ripepe (uno dei pochi filosofi del diritto – assieme a chi scrive – ad essersi occupato dell’argomento) ha invece preteso di generalizzare, vale a dire che la dignità lungi dal fondare alcunché è soltanto la “risultante di un insieme di valori” (15) sempre variabile e legata all’evoluzione della sensibilità prevalente. Similmente il noto civilista Paolo Zatti ha di recente sostenuto la tesi che per spiegare la dignità può essere utile far ricorso al termine (di derivazione junghiana) di “costellazione”. La dignità si costella, interagisce con la vita e l’integrità e quindi con la libertà, senza che per questo vada perduta quella dimensione sociale che sin dall’inizio in Italia la contraddistingue. Ma gli pare rischioso “rinunciare al fondamento della dignità” (16). Quel fondamento però non può che alludere ad un nucleo duro, sicuramente meno duttile ma anche più stabile ad una, per così dire, clausola generale, che senza negare tutte quelle settoriali che il multiforme uso della dignità ha messo in evidenza, le supera; e quel nucleo non può essere trovato nell’aggettivo “sociale”, ma nell’aggettivo “umano”, che non è un mero di più, ma qualcosa a tal punto costitutivo della dignità che nella lingua tedesca forma con essa un’unica parola: Menschenwürde. Il nucleo intangibile della dignità è dunque l’uomo stesso. Ad essere indisponibile, inscalfibile, è l’idea atemporale, ontologica, della natura umana, ma ciò ha a che fare soprattutto con gli attuali angosciosi problemi connessi alla manipolazione genetica. E su questo il dibattito è aperto. Note 1 Cfr. G. Ferrara, La pari dignità sociale. (Appunti per una ricostruzione), in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, vol.II, Milano, Giuffrè, 1974, pp. 1089-1105; la stessa linea interpretativa, ma attualizzata al nuovo contesto sociale della crisi del Welfare si ritrova nell’articolo di M.R. Marella, Il fondamento sociale della dignità umana. Un modello costituzionale per il diritto europeo di contratti, in “Rivista critica del diritto privato”, XXV, 1, 2007, pp. 67-103. Cfr. anche P. Grossi, La dignità nella Costituzione italiana, in La tutela della dignità dell’uomo, a cura di E. Ceccherini, Napoli, Editoriale Scientifica, 2008, pp. 113-136 (il saggio è apparso anche, con lo stesso titolo, in “Diritto e società”, 2008/1, n. 1, pp. 31-63). Tra gli scritti più recenti si veda F. Politi, Diritti sociali e dignità umana nella Costituzione Repubblicana, Torino, Giappichelli, 2011. 16 2 Il comma 1 dell’art. 1 del Grundgesetz recita: «La dignità umana è intangibile. Rispettarla e difenderla è dovere di ogni potere dello Stato». Per un confronto tra la Costituzione italiana e quella tedesca con specifico riguardo al tema della dignità non posso qui che rinviare al mio contributo: Die italienische verfassungsrechtliche Variante im Vergleich zur deutschen, in: Menschenwürde. Begründung, Konturen, Geschichte, a cura di G. Brudermüller e K. Seelmann, Würzburg, Kӧnigshausen und Neumann, 2008, pp. 107-116 e ora, in una versione integralmente rielaborata, a P. Becchi, La dignità umana nel Grundgesetz e nella Costituzione italiana, in «Ragion pratica», Nr. 38, 2012, pp. 25-43. La parte monografica del fascicolo, che ho curato insieme a F. Belvisi e V. Pacillo, è dedicata alla dignità umana. 3 Si veda, al riguardo, in particolare M. Ruotolo, Il principio di umanizzazione della pena e i diritti dei detenuti nella Costituzione italiana, in “Diritto e società”, 2005/1, n. 3, pp. 51-74 e, del medesimo autore, la monografia Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, Giappichelli, 2002. 4 Prima del contributo di Ferrara, citato alla nota 1, la formulazione era stata ampiamente sottovalutata dai costiruzionalisi e compare solo del tutto incidentalmente nelle due monografie che affrontano in modo specifico il tema della dignità sotto il profilo costituzionale. Cfr. F. Bartolomei, La dignità umana come concetto e valore costituzionale, Torino Giappichelli 1987, pp. 20-21 e A. Pirozzoli, Il valore costituzionale della dignità. Un’introduzione, Roma, Aracne, 2007, pp. 125-126. Una trattazione più ampia nel recente volume di M. Di Ciommo, Dignità Umana e Stato costituzionale. La dignità umana nel costituzionalismo europeo, nella costituzione italiana e nelle giurisprudenze europee, Firenze, Passigli, 2010, p. 147-156. 5 I più importanti sono riportati nell’esile sottoparagrafo dedicato alla “pari dignità sociale” nel recente Commentario alla Costituzione, Art. 1-54, Torino, UTET, 2006, pp. 671-72 (A. Celotto). 6 Cfr. A. Cataudella, Dignità e riservatezza del lavoratore (tutela della), in Enciclopedia Giuridica Treccani, XI, Roma, 1989 (1a ed.), pp. 1-11 (dell’estratto). 7 Cfr. G. Resta, La dignità, in Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, vol. I: Ambito e fonti del biodiritto, Milano, Giuffrè, 2010, pp. 259-296 (si tratta del miglior lavoro di sintesi attualmente esistente per quel che attiene il biodiritto). 8 Dignità umana, in Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, diretta da E. Sgreccia e A. Tarantino, vol.IV, Napoli-Roma, ESI, 2012, pp. 283-320. 9 Oggi, una controriforma del mercato del lavoro imposta all’Italia dall’Unione Europea sta smantellando le conquiste dei lavoratori ottenute con le lotte operaie alla fine degli anni Sessanta. L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori prevedeva infatti una norma di tutela come è quella del reintegro per chi fosse stato licenziato senza una giusta causa o in modo discriminatorio. Senza il “principio lavorista” (art. 1), si perdono i fini e le forze che reggono l’affermazione dell’uguaglianza e la “pari dignità sociale” dei cittadini (art. 3): gli stessi diritti inviolabili (art. 2) perdono il loro fondamento ultimo. 10 Cfr., in generale, M. V. Ballestrero, G. De Simone, Diritto del lavoro, Milano, Giuffrè, 2003 e, specificamente, M. Barbera, Molestie sessuali: la tutela della dignità, in “Diritto e pratica del lavoro”, 1992, pp. 1401-1406. 11 Per un esame più approfondito cfr. anzitutto A. Ruggeri – A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale, in “Politica del diritto”, 3, 1991, pp. 343-337 e, più recentemente F. Gambini, Il principio di dignità, in I diritti della persona. Tutela civile, penale, amministrativa, a cura di P. Cendon, vol.I, Torino, UTET, 2005, pp. 236-241 e soprattutto A. Pirozzoli, Il valore costituzionale della dignità. Un’introduzione, Roma, Aracne, 2007, pp. 103-137 (alle pagine indicate si trova la più ampia rassegna, oggi esistente, della giurisprudenza costituzionale). 12 Per un’analisi più approfondita non si può qui che rinviare a A. Cataudella, Dignità e riservatezza del lavoratore in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, 1989, pp. 1-11 dell’estratto; e G. Alpa, Dignità. Usi giurisprudenziali e confini concettuali, in “Nuova Giurisprudenza Civile Commentata”, II, 1997, pp. 415-426. 13 Per una ricostruzione complessiva delle due vicende processuali non posso qui che rinviare al mio articolo Am Ende des Lebens. Rechtliche Fragen im Zusammenhang mit dem Tod in der heutigen Medizin, in Auf der Scholle und in lichten Hӧhen. Festschrift für Paul Richli zum 65. Geburtstag, a cura di M. Caroni, S. Heselhaus, K. Mathis, R. Norer, Zürich-St. Gallen-Baden-Baden, 2011, pp. 23-54. Una ricostruzione più analitica la si può trovare nei miei seguenti contributi: La vicenda Welby: un caso ai limiti della denegata giustizia, in “Ragion pratica”, 28, 2007, pp. 299-312; Piergiorgio Welby e il diritto di lasciar(si) morire, in “Ragion pratica”, 30, 2008, pp. 245-265; L’imperialismo giudiziario. Note controcorrente sul caso Englaro, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto” LXXXVI, 3, 2009, pp. 379-403. Cfr. P. Becchi, La giustizia fra la vita e la morte, Torino, Giappichelli, 2012. 17 14 Così si esprime Stefano Rodotà nell’editoriale con cui si apre la parte monografica intitolata Sulla giuridificazione della dignità umana, della “Rivista critica del diritto privato”, XXV, n.1, 2007, 3-5 (4). 15 Cfr. E. Ripepe, La dignità umana: il punto di vista della filosofia del diritto, in La tutela della dignità dell’uomo, a cura di E. Ceccherini, Napoli, E.S.I., 2008, pp. 11-38. 16 Cfr. P. Zatti, Note sulla “semantica della dignità”, in Bioetica e dignità umana. Interpretazioni a confronto a partire dalla Convenzione di Oviedo, a cura di E. Furlan, Milano, F. Angeli, 2009, pp. 95-109 (107), anche P. Zatti, Maschere del diritto volti della vita, Milano, Giuffrè, 2009, pp. 24-49 (46). 18 G IOVANNI G ASPARINI U NIVERSITÀ C ATTOLICA DEL S ACRO C UORE Bellezza e dignità umana Tra dignità e bellezza 1. A proposito di valori Il grande, ineludibile tema dei valori porta lo scienziato e il ricercatore sociale a percorrere lo stretto crinale che separa la sociologia dalla filosofia e ne coglie al tempo stesso feconde possibilità di scambio e di reciproco arricchimento. Il sociale, vale a dire gli aspetti e i destini delle società così come il loro tessuto interno costituito di relazioni tra gruppi e attori sociali, è sempre stato oggetto di analisi filosofica, sin da Platone e Aristotele. A tali analisi si accostano poi le riflessioni e prescrizioni teologico-religiose – basti citare la visione di società e di legge che prende forma nel mondo ebraico come esplicita conseguenza di quanto scritto nella Bibbia –, oltre ad analisi e valutazioni politiche interessate a favorire un certo disegno e assetto del sociale: esemplare in questo senso l’analisi di Machiavelli, che dopo parecchi secoli viene tuttora universalmente utilizzata in chiave di scienza politica. INDICE 1. A proposito di valori 2. La dignità e la bellezza nella vita sociale 3. La bellezza e l’Italia Riferimenti bibliografici Vale la pena di richiamare qui per sommi capi che la sociologia nasce tra fine Ottocento e inizio Novecento per offrire una diversa visuale sul e del sociale: una prospettiva che, come afferma autorevolmente Max Weber, è “libera dai valori” (wertfrei), e non corrisponde cioè a valutazioni di come la società e i rapporti sociali “dovrebbero essere” ma di come essi si manifestano realmente, oggettivamente in un certo senso, in un contesto dato e attraverso un approccio descrittivo-interpretativo che si suppone indipendente dai desideri e dagli au19 spici dell’osservatore sociale, del politico, del reggitore di uno stato. Viene quindi in evidenza il tema dei valori, i grandi principi che regolano non solo la vita personale di ogni individuo ma anche la struttura dei diversi sistemi sociali, degli stati e persino – tendenzialmente e tentativamente - di una realtà mondiale come è quella oggi rappresentata dalle Nazioni Unite, al cui fondamento si trova la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 Dal punto di vista della sociologia, i valori possono essere definiti nel modo più semplice come i giudizi su ciò che è considerato bene o male, positivo o negativo nel sociale, vale a dire in un determinato sistema sociale, in una collettività che si dà delle norme e delle leggi, le quali possono variare grandemente nel tempo e rispetto a quelle di altri gruppi sociali e di altri stati. Un esempio drammatico al riguardo è rappresentato dal valore della vita in caso di gravi violazioni delle leggi compiute da singoli membri di un sistema: alla maggioranza di stati che non applicano la pena di morte fanno tuttora da contrappunto, come è noto, altri stati che prevedono per le forme di devianza-delinquenza più gravi l’applicazione di tale forma estrema di pena. Tra il “dover essere” degli approcci filosofici e teologici e l’approccio orientato all’“essere” delle scienze sociali (sociologia, antropologia culturale, psicologia sociale ecc.), i sociologi si sono districati non senza fatica. Charles Wright Mills, indimenticato sociologo americano morto prematuramente negli anni Sessanta del Novecento, affermava in epigrafe alle sue opere di aver cercato di essere obiettivo, non neutrale. E del resto, se andiamo a osservare la vita e gli orientamenti socio-politici dei padri della sociologia, come Max Weber e Emile Durkheim, possiamo cogliere un loro impegno quanto meno di principio in favore di certi orientamenti ideali o ideologici nel sociale. L’approccio che si vorrebbe qui proporre è in consonanza con la sfida di Mills di conciliare l’obiettività dell’osservazione dei dati di realtà sociale con l’impegno “non neutrale” nei confronti dei grandi valori: si tratta in altri termini di immaginare e praticare una Sociologia umanistica, che pur mantenendo il carattere cosiddetto della Wertfreiheit sia tuttavia sensibile e attenta ai valori. Oggi, nel contesto della società post-industriale (o post-moderna) che si sta strutturando a livello mondiale nel XXI secolo, con i gravi problemi posti dalla globalizzazione e dalla crisi economica, ritengo che per lo scienziato sociale sia sempre più opportuno, e persino doveroso in termini deontologici, dichiararsi non neutrale ma al contrario simpatetico e sensibile rispetto ai grandi valori. Sono, questi macro-valori, quelli che in fondo permettono anche alle scienze sociali e umane di continuare ad operare e a svolgere una funzione conoscitiva e critica nei sistemi contemporanei: si tratta della convivenza e del dialogo tra gruppi sociali e paesi portatori di culture diverse, della pace, della democrazia e del rispetto dei diritti delle minoranze. E sono, naturalmente, i grandi valori nati dalla rivoluzione francese – libertà, eguaglianza e solidarietà (moderna 20 traduzione della fraternità) – ai quali si può aggiungere esplicitamente il valore-quadro della dignità della persona: dignità di ogni individuo indipendentemente dalla sua condizione di nascita, dai suoi comportamenti, dalle sue specifiche opzioni politiche e religiose. Il perseguimento della giustizia, poi, rappresenta in un certo senso il punto di riferimento sintetico e il suggello dei valori condivisi in una società come quella di oggi, che si afferma espressione di uno stato di diritto. Il disegno di una sociologia umanistica, che si apparenta più all’anima filosofica e letteraria delle radici del pensiero sociale piuttosto che a quella scientifica in senso stretto che ha accompagnato la disciplina sin dalle sue origini (cfr. Lepenies 1987), è particolarmente interessato non solo ai valori ma anche agli aspetti concreti del vivere insieme (la qualità della vita realizzata e/o consentita nei nostri sistemi): è qui che il tema della bellezza e della sua costruzione sociale a vari livelli assume un valore non secondario in termini di indagine, di opzioni e di fattibilità. 2. La dignità e la bellezza nella vita sociale Il quadro sinteticamente delineato sollecita una messa a fuoco comparata o integrata tra la dignità e la bellezza: quest’ultima va considerata anch’essa nelle sue valenze e ricadute sociali, e come un valore che può essere esplicitamente dichiarato e perseguito da un dato sistema (cfr. Gasparini 2012). Prima di illustrare in alcune dimensioni la tematica della bellezza è opportuno arricchire i riferimenti alla dignità sopra enunciati. Ora, il valore-principio fondamentale della dignità di ciascun essere umano è richiamato sin dal Preambolo e dal primo articolo della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo del 1948 allorchè si afferma: Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo, … [Preambolo] Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. [art.1] Lo stesso documento ribadisce all’art.22 che ad ogni individuo è riconosciuta la possibilità di realizzare i diritti economici, sociali e culturali “indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità”. La Costituzione italiana, da parte sua, proclama espressamente, all’art.3, la pari dignità di tutti i cittadini in relazione al valore della libertà: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata nel 2000, nel suo Preambolo unisce esplicitamente il valore della dignità umana ai tre grandi valori adottati dagli stati moderni, ponendolo quindi a oggetto del primo articolo: Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà. (…) [Preambolo] 21 La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata. [art.1] Le fa eco l’art. 2 del Trattato sull’Unione Europea (Carta di Lisbona approvata nel 2009), che recita solennemente: L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Ora, alla prefigurazione e creazione di una società orientata a tali grandi valori di base non è estraneo il tema della bellezza. L’irrinunciabilità dell’obiettivo della bellezza per l’uomo – che noi consideriamo nello stesso tempo, in un’ottica sociologica umanistica, una persona irripetibile nella sua unicità e un attore sociale che condivide con molti altri una realtà di vita e una serie di condizionamenti e di possibilità inerenti a un dato contesto e struttura sociale – è affermato anzitutto da scrittori e filosofi umanisti. Tra gli altri François Cheng, autorevole mediatore contemporaneo tra la cultura cinese e quella occidentale, rileva il fatto stupefacente che l’universo non sarebbe obbligato ad essere bello ma tuttavia lo è: L’universo potrebbe essere semplicemente dotato del carattere della verità, ma in tal caso esso sarebbe formato da elementi funzionali, uniformi, indifferenziati e intercambiabili. La vita invece ci parla dell’unicità e insostituibilità di ciascun essere nello spazio e nel tempo, ed è questo ciò che provoca incessantemente stupore, ponendosi all’origine della bellezza. L’unicità trasforma ogni essere in una presenza che, come un fiore o un albero, continua a tendere nel tempo verso la pienezza del suo sviluppo [éclat], che è la definizione stessa di bellezza” (Cheng 2006, p.26). Nota ancora Cheng, con una osservazione traducibile anche in termini sociali, che esiste tra ciascuna presenza uno scambio che assicura la permanenza della bellezza in una sorta di rete collettiva universale: La bellezza attraverso il suo potere di attrazione contribuisce alla costituzione dell’insieme delle presenze in un’immensa rete di vita organica in cui tutto si collega e si tiene insieme, dove ogni unicità trova senso di fronte alle altre unicità e in tal modo prende parte al tutto. (Cheng 2011, p.23) Gli fa eco in qualche modo uno studioso cognitivista come Howard Gardner, quando osserva che le esperienze di bellezza rappresentano “una delle ragioni principali per essere vivi, per desiderare di restare vivi, per condividere la gioia di vivere con altri” (Gardner 2011, p.191). In termini certo diversi ma non troppo lontani nel fondo si esprimeva nell’immediato dopoguerra un umanista ed economista come Louis Joseph Lebret, fondatore del movimento Economie et Humanisme negli anni Quaranta e successivamente consigliere al Concilio Vaticano II, allorché poneva la bellezza subito dopo la verità tra i valori dell’uomo nella società industrializzata: L’uomo moderno ha un immenso bisogno di bellezza. L’uomo non ha solo bisogno di verità. Egli è anche avido di bellezza. Senza bellezza gli manca qualcosa, è infelice. (…) Mentre la verità penetra nella mente lentamente, e sovente attraverso il ragionamento, per induzione o deduzione, la bellezza s’impone a tutto l’essere. (…) Chi percepisce la bellezza penetra immediatamente nel più intimo delle cose. (…) 22 L’uomo moderno raramente incontra la bellezza: egli ne è allontanato dagli ambienti delle fabbriche, delle strade e delle periferie urbane; vive in case mal costruite; utilizza strade senza armonia … (Lebret 1946, I, p.80) Senza nulla perdere della propria forza e capacità di attrazione, il tema della bellezza viene riportato qui esplicitamente alla dimensione sociale, vale a dire alla possibilità concreta di vivere esperienze di bellezza dal punto di vista del lavoratore, dell’uomo comune e dell’attore sociale che partecipa ad una società urbano-industriale di massa come quella di metà Novecento. E’ evidente che non si può trattare esclusivamente di un fatto volontaristico, lasciato alla sensibilità o alle opzioni individuali: esso risente infatti delle dimensioni strutturali e delle opzioni culturali e politiche della società in questione, o per usare una locuzione sintetica del suo impegno nei confronti della costruzione sociale della bellezza. Appare significativo, in questa prospettiva, quanto è stato scritto in particolare a proposito del rapporto tra arte e società in occasione di una mostra dedicata nel 2011-2012 a Cézanne, vale a dire che L’arte è elemento essenziale per la costruzione di una convivenza civile che abbia per obiettivo la felicità di tutti e di ciascuno. L’inesausta ricerca di Cézanne è in questo senso un esempio e una sfida (Pisapia 2011) Si può immaginare allora una società giusta e dignitosa che sia anche una società bella, nella quale – per fare alcuni esempi – vengano tutelati e curati adeguatamente la natura e il paesaggio, o in cui si combatta l’inquinamento ambientale compreso quello acustico, o dove le condizioni della realtà urbana siano improntate a criteri che coniughino armoniosamente la dimen- sione estetica con la vivibilità e con il rispetto delle regole da parte di tutti. E, ancora, si può cercare di costruire una società le cui strutture educative sin dalla scuola dell’obbligo contemplino una esplicita educazione alla bellezza (nelle espressioni naturali e paesaggistiche, nell’arte, nella stessa vita quotidiana) dei giovani scolari e studenti. Attualizzando un invito di Albert Camus, Salvatore Veca ha recentemente posto in epigrafe alla sua “teoria della giustizia senza frontiere” l’impegno dello scrittore francese di mantenere una duplice fedeltà, tanto alla bellezza quanto agli oppressi, realtà entrambe presenti nel mondo. Nella prospettiva di Veca l’essere fedeli alla bellezza, che rifugge sia dal riduzionismo di chi afferma non esservi spazio per la bellezza stessa sia dall’utopia di una società perfetta e indifferente ai duri vincoli della vita reale, si traduce nell’impegno nei confronti di una filosofia politica “che ci orienti nell’esplorazione dello spazio delle possibilità, entro il più ampio spazio che il mondo ci concede” (Veca 2010, p.7). Restano molto aperti qui i contenuti da dare al perseguimento del valore della bellezza nel sociale: una società bella in ogni caso non può non porsi il tema di un confronto e di un’integrazione con una società giusta, così come – secondo alcuni, specialmente nel mondo cattolico - di una società e di una “vita buona” (cfr. Scola 2009). Cade opportuno a questo punto il richiamo di un nuovo valore generale che è venuto acquistando progressivamente una certa diffusione e consenso negli ultimi decenni ed è rappresentato dalla qualità della vita, solitamente considerata in opposizione alle aspirazioni ad un benessere di tipo economico mera23 mente materiale: queste ultime peraltro – non sorprendentemente – continuano a raccogliere una adesione individuale e collettiva molto elevata. La qualità della vita ha a che vedere con la costruzione sociale della bellezza che si esprime in un sistema attraverso una serie di situazioni, comportamenti ed esperienze che si riflettono nella vita quotidiana. Indico in modo sintetico e a titolo di esempio la bellezza percepita (e anche attivamente tutelata) della natura e del paesaggio, l’armoniosità e vivibilità di un contesto urbano da fruire in modi concentrati anziché concitati – dando spazio ad esempio a pratiche di lentezza negli spostamenti e nella fruizione urbana, o preservando fasce e aree di silenzio a contrasto dell’inquinamento da rumore dominante -, la bellezza in sé di certe città che godono complessivamente di un particolare genius loci (come in Italia Venezia, Roma e Firenze, per citare tre casi di rinomanza universale), la bellezza di elementi e fenomeni culturali, dalle feste civili e religiose tradizionali fino alla gastronomia locale (come lo slow food in opposizione al fast food metropolitano). Ma altri elementi fondamentali si possono aggiungere, come la stessa bellezza del corpo umano, elemento di godimento estetico e di attrazione così come oggetto di cure e attenzioni che oggi trovano riflessi rilevanti nel perseguimento di condizioni di forma e di fitness adeguate. E, naturalmente, la qualità della vita ha a che vedere con quella bellezza di cui è espressione tipica e privilegiata l’arte nelle sue variegate espressioni, così come l’artigianato e il design, in cui il nostro paese mantiene espressioni e tradizioni molteplici e di grande prestigio. Costruire una società orientata in vario modo alla bellezza presuppone l’adozione di certi modelli e strutture formative, come si è già accennato sopra di passaggio. Si vorrebbe qui ribadire che una educazione consapevole ed esplicita alla bellezza nella società contemporanea, a partire dall’infanzia ma protratta in forme diversificate e molteplici a tutte le età della vita, potrebbe avere il compito di affiancare ai modelli efficientistici, economicistici e competitivi dominanti – legati alle caratteristiche tecnologico-organizzative della network society attuale - altri elementi e prospettive non meno cruciali per i destini individuali e collettivi: la capacità di concentrazione e di silenzio, la valorizzazione della qualità in sé accanto o in contrapposizione alla quantità, la lentezza da alternare opportunamente alla velocità, la convivialità con cui temperare l’individualismo, la sobrietà, la riscoperta della gratuità e delle dimensioni spirituali della vita. E naturalmente una rinnovata e creativa attenzione all’educazione alla bellezza – premessa per una costruzione sociale e persino di una “politica” della e per la bellezza – avrebbe come strumento privilegiato di espressione ed esercitazione le forme artistiche e quelle dell’artigianato. 3. La bellezza e l’Italia Dalle pagine che precedono si può trarre un primo elemento e orientamento sintetico: quello che dignità e bellezza possono convivere nei sistemi contemporanei, per quanto non sempre sia facile cogliere i livelli e i modi di tale compatibilità. Al riguardo, il tema della dignità, a cui si connette strettamente co24 me si è visto quello della giustizia, si pone in modo particolarmente acuto nei paesi e nei contesti in cui non sono adeguatamente soddisfatti i bisogni elementari e primari della popolazione o di parte considerevole di essa: è evidente che una società i cui membri vivono in maggioranza ad un livello di sussistenza, come è il caso oggi in particolare di parecchi paesi del continente africano, non si ponga come obiettivo primario quello della costruzione della bellezza nel paesaggio naturale o urbano. Ma la bellezza, al fondo, non è un problema di lusso, come indicano anche una serie di testimonianze quali quelle sopra indicate: anche in situazioni di deprivazione materiale o di povertà, i membri delle società moderne sembrano non accontentarsi di un semplice benessere materiale, sono avidi di bellezza per riprendere le parole dell’economista Lebret. L’Italia di oggi, alla luce della sua storia negli ultimi duemila anni almeno, esprime una realtà e una istanza di bellezza del tutto peculiare. Senza volersi addentrare in paragoni indebiti né tanto meno accampare pretese di superiorità nei confronti di altri paesi, è indubbio che il nostro paese rappresenti in termini universalmente riconosciuti un polo essenziale di attrazione in termini di bellezza: una bellezza persistente da secoli e articolata in forme assai diverse. La bellezza – in termini di una sua visibilità e fruibilità sociale – potrebbe addirittura rappresentare il perno di un rilancio dell’identità italiana nel mondo, a conclusione dei primi 150 anni di unità di un paese che proprio in questi anni si è interro- gato sui fondamenti dei propri caratteri, così come sono percepiti sia all’interno che all’esterno. L’Italia è un paese non solo indivisibile, come recita la Costituzione, ma molto particolare: un paese unico per la sua storia, per l’apporto dato al mondo intero in termini anzitutto culturali e spirituali. Credo che, nel travaglio che scuote oggi la società italiana, si potrebbero proporre tre aspetti sintetici per riaffermare la sua identità. Si tratta di elementi di indubbia attualità che nello stesso tempo hanno alle spalle una storia lunghissima. Essi hanno a che vedere in modo esplicito con la bellezza: mi riferisco all’arte, alla natura-paesaggio, alla lingua. Sull’arte, anche in termini di riflessi sul sociale (educazione e cultura, economia, turismo, oltre che qualità della vita) il discorso appare indiscutibile e quasi scontato. Non si tratta di stabilire graduatorie o record tra i capolavori artistici che hanno visto la luce in Italia – molti dei quali sono peraltro ospitati in musei stranieri, a partire dal dipinto più visitato nel mondo che è la Gioconda di Leonardo esposta al Louvre -, ma di riconoscere l’innegabile, straordinario e costante apporto artistico al mondo che il nostro paese ha dato nei secoli e che ancora oggi gli viene riconosciuto. Lo testimonia tra l’altro il fatto che l’Unesco considera l’Italia il detentore nel mondo della massima parte delle opere d’arte conosciute. Questo tratto caratteristico dell’identità italiana rappresenta un patrimonio da valorizzare e da offrire adeguatamente non solo agli italiani ma all’Europa di cui facciamo parte e naturalmente al mondo intero. 25 Nell’area artistica, come specificazione ulteriore e completamento volto all’attualità, non va trascurato anche il patrimonio che la creatività italiana nei secoli ha saputo perpetuare e rinnovare fino ad oggi nelle forme più varie di artigianato presente in tutte le regioni del paese, così come la componente di bellezza che si esprime nel design, nella produzione di oggetti industriali di uso quotidiano e nella moda che nel secondo dopoguerra si è imposta nel mondo all’insegna del made in Italy. Di passaggio, è significativo che nel 2012 sia stato lanciato dal quotidiano Il Sole – 24 Ore un “Manifesto per la cultura” che ha ricevuto molte adesioni e tra l’altro ha suscitato una esplicita presa di posizione del governo in carico, attraverso i tre ministri dei Beni culturali, dello Sviluppo economico e dell’Istruzione, Università e Ricerca, i quali hanno auspicato […] un investimento che deve interessare lo straordinario patrimonio culturale italiano, inteso non solo come risorsa da tutelare e preservare, ma da animare e valorizzare sempre di più, perché elemento costitutivo dell’identità del Paese, della sua storia, della sua civiltà, del suo “saper fare”, della sua stessa competitività. (Ornaghi, Passera, Profumo 2012) Il paesaggio, secondo elemento indicato di una riaffermazione identitaria dell’Italia, integra un ambiente naturale di varietà stupefacente, se si tiene conto delle dimensioni relativamente limitate del paese: non a caso in Italia si registra il numero più elevato di specie vegetali tra quelle presenti sul territorio di qualunque altro paese europeo. L’Italia, il bel paese sin dai tempi di Dante e di Petrarca fino all’omonima opera ottocentesca dell’abate Stoppani che ebbe grande risonanza, esprime un singolare assortimento di paesaggi: essi risentono tanto della diversità di condizioni naturali e climatiche (dai ghiacciai alpini fino ai vulcani attivi in Sicilia e nelle isole circostanti) quanto dell’invenzione storicamente determinatasi di soluzioni culturali specifiche a ciascuna area. Dai paesaggi alpini a quelli appenninici, dagli ambienti marini liguri e tirrenici a quelli assai diversi delle coste adriatiche e delle isole maggiori, dalla pianura padana ai laghi prealpini, dalle colline toscane a quelle umbre e marchigiane, tralasciando parecchie altre aree, si assiste ad una varietà che si nutre nello stesso tempo di natura e di cultura: quest’ultima coinvolge anche il tipo di insediamenti urbani e rurali tipici di ogni paesaggio. E’ bene ricordare qui che dal Settecento, se non prima, il Grand Tour in Italia offriva ai giovani aristocratici e intellettuali di tutta Europa una serie di bellezze che erano rappresentate insieme da arte e da natura-paesaggio. La lingua è il terzo elemento di bellezza e di valorizzazione identitaria dell’italianità che si vorrebbe proporre. Al riguardo, pur evitando eventuali confronti con altre lingue, è opportuno prendere atto che la lingua italiana, troppo poco valorizzata oggi nel mondo a vantaggio di altre più funzionali all’informatica e più forti per ragioni economico-politiche, non soltanto è dotata di grande musicalità, versatilità e attitudine ad esprimere le sfumature più minute dei sentimenti, ma si trova affiancata e corroborata da una letteratura che è considerata unica al mondo, a partire dalla presenza di Dante, “il poeta assoluto” come lo chiamava a ragione Cristina Campo, i cui versi 26 ogni italiano è tuttora in grado di ascoltare e – sia pure con qualche sforzo – di comprendere. L.J.Lebret (1946), Guide du militant, Economie et Humanisme, L’Arbresle (Rhône), 2 voll. Uno dei più autorevoli critici contemporanei ha scritto recentemente che la lingua italiana è “una lingua ricca, leggera, complessa, nobile, musicale” (Citati 2011), al punto tale che negli ultimi anni essa è stata adottata da un certo numero di scrittori maghrebini e africani che l’hanno preferita al francese, la loro lingua ex-coloniale. W.Lepenies (1987), Le tre culture, Il Mulino, Bologna. Così, senza alcuna velleità nazionalistica, l’Italia può riscoprire oggi con umile orgoglio la propria straordinaria vocazione alla bellezza nell’arte, nella natura e nel paesaggio, nella lingua, per offrirla al mondo in un dono condiviso. A.Scola (2009), La vita buona, Messaggero di S.Antonio, Padova. L.Ornaghi, C.Passera, F.Profumo (2012), “Cultura. Necessario tornare a investire”, Il Sole – 24 Ore, 24 febbraio. G.Pisapia (2011), Esposizione Cézanne – Les Ateliers du Midi, Palazzo Reale, Milano, ottobre 2011 – febbraio 2012. S.Veca (2010), La bellezza e gli oppressi, ed.ampliata, Feltrinelli, Milano. Riferimenti bibliografici F.Cheng (2006), Cinq meditations sur la beauté, Albin Michel, Paris. Id. (2011), Oeil ouvert et coeur battant, Desclée de Brouwer – Collège des Bernardins, Paris. P.Citati (2011), « I narratori che scelgono l’italiano », Corriere della sera, 6 novembre. H.Gardner (2011), Verità, bellezza, bontà, Feltrinelli, Milano. G.Gasparini (2012), “La costruzione sociale della bellezza”, Aggiornamenti sociali, 63, 4, aprile, pp.297-306. 27 M ARKUS K RIENKE F ACOLTÀ TEOLOGICA DI L UGANO Dignità umana e bene comune I NDICE 1. Considerazioni introduttive 2. Il comune contesto “ideale” 3. Dignità Umana in contrapposizione al bene comune? 4. Ritrovare la sintesi Note 1. Considerazioni introduttive Anche se pochi studi se ne sono accorti, la “storia delle idee” della dignità umana è intimamente connessa con il concetto del bene comune, anzi si può dire che trova le sue radici in quest’ultimo. Compito di queste riflessioni è argomentare questo nesso, che a prima vista può sembrare senz’altro molto sorprendente: di solito si identifica il fondamento della dignità umana nel pensiero kantiano (1), mentre il bene comune fa capo al filone aristotelico-tommasiano del pensiero occidentale. Oggi vediamo infatti nella discussione attuale questi due concetti spesso ideologicamente contrapposti, innanzitutto nel dibattito tra “libertarismo” e “communitarismo”. È stato innanzitutto Alasdair MacIntyre a schierare il filone aristotelico-tommasiano, basato sull’etica della virtù e sul concetto di bene comune, contro l’individualismo moderno che nella storia delle idee fa capo a Locke e Kant (2). Ma proprio se abbiamo presente questa discussione accesa, possiamo evincere che la riconsiderazione della loro comune appartenenza ideale è in grado di aprirci nuove prospettive per oltrepassare battaglie di trincea che oggi piuttosto impediscono il progresso culturale anziché promuoverlo. Come distinzione iniziale dei due concetti, possiamo delineare la seguente considerazione: mentre il termine dignità umana fa prevalere l’individuo alla società ed appartiene in quanto concetto giuridico al discorso della “modernità”, il bene comune è riferito al livello politico della comunità e ci deriva piutto28 sto dal contesto “premoderno”. Mentre quest’ultimo concetto segue la logica argomentativa “eteronoma” (“premoderna”), il primo viene declinato sulla falsariga di quella “autonoma” (“moderna”). Ma contrariamente a questo quadro generale, ciò che in realtà rende complicato il rapporto tra dignità umana e bene comune non è affatto la presunta “opposizione” tra i due termini, ma piuttosto la loro vicinanza. E con questa osservazione si oltrepassa già la loro contrapposizione ideologica. Infatti, abbiamo a che fare in entrambi i casi (1) con un concetto morale (quindi di etica della politica e del diritto) che spiega la “ragione dell’obbligazione” nella sfera pubblica, che svolge quindi la (2) funzione di legittimazione per la realtà politico-giuridica e che ha (3) l’importante compito di critica del potere politico. In questa prospettiva, si delinea quindi un compito importante chiarire innanzitutto il loro comune contesto “ideale”. 2. Il comune contesto “ideale” Troviamo dei riferimenti più espliciti per questo comune contesto in un terzo autore rispetto ad Aristotele e Kant, ossia Tommaso d’Aquino. In effetti, egli non soltanto riscopre nel medioevo occidentale Aristotele, ma anticipa anche – cosa un po’ meno nota – tanti concetti importanti di Kant. E non a caso dobbiamo a lui la prima definizione filosofica del termine “bene comune”, che come mero termine appare per la prima volta già negli Stoici romani. In che cosa consiste questo primo significato autentico del bene comune, che si lascia eviden- ziare proprio come contesto storico-ideale dello sviluppo del concetto di dignità umana? Per rispondere a questa domanda, conviene analizzare la dimensione del bene comune in Aristotele: per lui, τὸ κοινῇ συµφέρον significa il bene del corpo politico (polis) che è quel “contesto” e “ordine” della realizzazione del “vivere bene”, della “felicità” che è la «piena realizzazione dell’umanità di ciascuno dei suoi membri» (3). Infatti, è tale società politica, non l’individuo né la famiglia, che viene chiamata dallo Stagirita “autosufficiente” o “autarchica”. In questo senso, la polis diventa l’ultimo punto di riferimento per definire quel «ciò cui tutto tende» che è la definizione di “bene” in Aristotele, e costituisce così la «comunità […] perfetta», «per rendere possibile la vita, in realtà per rendere possibile una vita felice» (4). Come afferma Aristotele nell’Etica Nicomachea, «identico è il bene per il singolo individuo e per la città; tuttavia è chiaramente cosa più grande e più perfetta conseguire e salvaguardare quello della città. Il bene infatti è amabile anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è più bello e più divino quando concerne un popolo o delle città» (5). Mentre alla famiglia sono associati i rapporti diseguali e gerarchici tra le persone (padre, madre, schiavi), la società assolveva la funzione etica dei rapporti egalitari e quindi di “giustizia”. Allo stesso momento, però, questa uguaglianza si articola come un’uguaglianza elitaria, in quanto valeva solo per gli uomini liberi, il che significava concretamente per non più di un quarto della società. Innanzitutto nel rapporto tra liberi e schiavi, tra Greci e Barbari, tra uomini e donne, tra giovani e 29 adulti ecc. si esprimeva una disuguaglianza fondamentale, che era considerata di “diritto naturale”. Per questo certi gruppi di persone erano di per sé esclusi dallo svolgimento della “vita politica” e quindi dalla partecipazione nel senso pieno della parola alla “buona vita” della “polis”. Considerando che Aristotele definisce l’essere umano uno “zoon politikon”, allora queste persone sono esclusi dalla realizzazione della vita nel suo significato pieno, e costituiscono una seconda parte della società, in quanto anche loro non possono certo vivere al di fuori della società. Lì, infatti, per i Greci vivono solo le bestie e gli dèi: i primi perché non sono capaci di rapporti sociali, i secondi perché sono gli unici individui “autarchici”. La società politica è pensata come un organismo, in cui ogni parte (organo) ha il suo posto e svolge il suo ruolo naturalmente assegnato da essa. Evidentemente, senza la vita dell’organismo la singola parte non potrebbe né realizzarsi né vivere, ma in ogni caso si deve realizzare nella maniera assegnatagli dalla costituzione naturale dell’organismo. Tale contesto “politico” del “bene comune”, connesso alla realtà della polis, assegna a quest’ultima una responsabilità elevata nella realizzazione – Rawls parlava addirittura della «massimizzazione» – del bene (comune ed individuale), attraverso un compito educativo (e perciò tendenzialmente interventista) per lo sviluppo e la formazione di una vita virtuosa. La “misura” dell’uomo, quindi, era metafisicamente determinata nel contesto politico della polis. A conoscerla e concretizzarla erano destinati i filosofi, in quanto si potevano basare su un “vantaggio conoscitivo” nel contesto politico. L’apporto decisivo di San Tommaso per la filosofia politica non sta tanto nella misura in cui riprende l’accezione di questo “bene politico” di Aristotele, ma in quanto la modifica: il bene comune è identificato non con il telos della felicità che l’individuo acquisisce nel contesto sociale della polis, ma con il fine della beatitudine che è Dio come il bonum commune extrinsecum et intrinsecum di ogni essere umano (6). E anche se egli condivide con Aristotele il riferimento fondamentale alla dimensione sociale per il conseguimento del “fine” della persona, questa non è più identificata con la polis ma con la “società dei santi”. L’uso di un vocabolario molto simile non deve ingannare: mentre il contesto sociale di riferimento per Aristotele era la polis, per San Tommaso lo è la dimensione sociale della natura umana perfezionata per grazia, ossia la communio sanctorum (7). Il “telos” non si identifica più con un “ideale” di società concreta, ma quest’ultima è finalizzata, a sua volta, alla civitas Dei. Ciò non toglie niente al fatto che San Tommaso possa fedelmente riportare la posizione di Aristotele per quanto alla società politica: «Ciascuna causa tanto è anteriore e preferibile, quanto è maggiore il numero di cose a cui si estende», per cui «sembra molto più importante e perfetto procurare e salvare ciò che è bene per l’intera città piuttosto che ciò che è bene per un solo uomo». Ma questa dimensione ora è inserita nel bene soprannaturale: «si è detto che ciò è più divino, per il fatto che assomiglia maggiormente a Dio, il quale è la causa ultima di tutti i beni». Questo bene soprannaturale, Dio, non è un bene “politico” ma riferito al compimento della persona in quanto tale: e per questo il compimento dell’individuo (la felicità) non è più finalizzato alla dimensio30 ne della polis, ma vice versa la comunità politica risulta indirizzata alla tensione tra dimensione naturale e soprannaturale della natura umana. Come primo risultato, tale finalizzazione trascendente del bene comune porta ad un’universalizzazione personalistica di questo concetto, che supera l’aristotelico elitarismo morale. In questa maniera, la polis come fine risulta sostituita dalla “natura umana” in quanto creata da Dio e quindi in quanto essa porta in sé la “legge naturale” come riflesso della “legge eterna” del Creatore. E la “natura umana”, rispetto alla natura non-umana, ha lo specifico di avere la capacità (intelligenza) della conoscenza di Dio e del bene comune. Certamente questa duplice conoscenza delinea un ordine lessicale: la persona è finalizzata innanzitutto alla beatitudine e all’interno di questa destinazione soprannaturale si trova anche costitutivamente membro della società politica. Mentre la prima finalizzazione impegna tutta la persona, l’ultima la concerne soltanto in quanto cittadino: «l’uomo non è ordinato alla comunità politica secondo tutto se stesso e secondo tutte le cose sue […], ma tutto ciò che l’uomo è, e ciò che può, e ha, deve essere ordinato a Dio» (8). In questa dimensione trascendente della natura umana, quest’ultima acquisisce la sua dignità (come immagine di Dio e coronamento della creazione) che quindi, in conseguenza dei ragionamenti appena svolti, diventa il criterio per il bene comune (9). In che cosa consiste precisamente questa dignità per San Tommaso? Essa si basa sulla considerazione che «le sostanze intellettuali sono governate per se stesse, le altre cose invece per esse» e perciò «la creatura razionale è governata per se stessa». Incontriamo qui una nuova definizione del significato di dignità: “dignus” non è più soltanto colui che nella gerarchia sociale occupa un posto più in alto, ma soprattutto e fondamentalmente chi raggiunge un livello morale più alto di autogoverno e autocontrollo. Questa dimensione è stata considerata già da Cicerone, il quale distinse due significati di questo termine: da un lato, in quanto segnala, all’interno del pensiero stoico sulla dignità dell’uomo che partecipa al Logos universale, questa posizione speciale dell’uomo nel cosmo, e, dall’altro lato, la dimensione politico-sociale del termine che designa persone più egregie all’interno della gerarchia sociale. Come per lo stesso Cicerone, però, anche nella storia successiva, diventò incisiva soprattutto la seconda dimensione del termine, cioè quella che definisce la dignità in riferimento alla collocazione sociale di una persona. È il merito di Tommaso d’Aquino di aver messo al centro della riflessione filosofica il primo significato: ossia quello che assegna all’uomo ontologicamente un posto elevato nella creazione, per cui il criterio delle virtù e quindi del perfezionamento della persona non sta più nella polis politica, ma è diventato personalistico e quindi, si potrebbe dire, de-politicizzato, appunto perché il telos della natura umana non è più indirizzato alla dimensione politica ma alla trascendenza. Attraverso questa riflessione, già iniziata dagli Stoici e poi teorizzata da Tommaso d’Aquino, nella dignità umana si poteva scoprire il criterio del bene comune. L’importanza storico-ideale di tale passaggio è stata descritta egregiamente da Rosmini nella Filosofia del diritto: «Ora chi mai può disconoscere il fatto, che il Cristianesimo, introducendo la carità 31 nel mondo, vi pose un principio d’incessante azione, e ch’egli ha così immensamente aumentata e perpetuata l’attività negli uomini? […] Un principio di libertà sì manifesto, che mentre all’umanità gentile parea non potersi muovere oppressa sotto il peso d’inesorabile fato, l’uomo cristiano all’opposto sente la propria individualità, e svolge in sè stesso una sempre nuova libera sua potenza? Se altro dunque non è una società umana che un complesso, un avvincolamento di diritti e di doveri, chi non intende da questo solo, come l’istituzione della società cristiana, dee aver influito su tutte le altre società, sulla domestica e sulla civile specialmente, facendo comparire in esse nuovi diritti, quasi dal nulla traendoli con potenza creatrice, ed accertando gli incerti, pur con solo ammigliorarne la radice, coll’ammigliorar cioè e quasi creare nell’uomo il soggetto de’ diritti?» (10). Con quest’analisi Rosmini ha elaborato precisamente la dimensione che il cristianesimo, con l’aiuto della riflessione stoica, ha inserito nella tradizione aristotelica del bene comune. Tale aspetto nuovo si evince dal momento che per l’Aquinate «nessuno deve danneggiare ingiustamente un altro per promuovere il bene comune», ossia, in altre parole, il bene comune non è più l’ultimo orizzonte della valutazione morale del perfezionamento dell’uomo. Grazie al riferimento della persona umana alla trascendenza tramite la conoscenza di Dio, il bene comune trova come limite e misura lo stesso soggetto. In questo modo è nato il «soggetto de’ diritti». Per la politica del bene comune nasce così una nuova criteriologia: anche se San Tommaso ripete ancora l’importanza educativa del governo individuata in Aristotele, riguardo al “perfe- zionamento” delle virtù esso non ha più nessuna competenza, in quanto essa avviene nel contesto non politico ma soprannaturale. Riguardo a quest’ultima dimensione, il governo può soltanto garantire le condizioni e le istituzioni più favorevoli, quindi creare le condizioni di possibilità, ma non più l’esito. Sarebbe infatti compito del Re, secondo Tommaso, di «provvedere alla vita buona della moltitudine secondo questo criterio, cioè secondo quanto conviene al conseguimento della beatitudine celeste, ossia fornire le cose che conducono alla beatitudine celeste e proibire, nella misura in cui ciò sia possibile, quelle ad esse contrarie» (11). Il bene comune è quindi tutto declinato sul concetto della natura umana nella sua tensione tra natura e compimento soprannaturale, e non più all’interno del riferimento della polis. Segno evidente per questa nuova determinazione del concetto è [1] l’importanza della contemplazione spirituale, e [2] la rivalutazione conseguente del “lavoro”. Si tratta di due dimensioni che non troviamo nella visione dell’uomo di Aristotele. In primo luogo, la contemplazione non è più considerato l’elemento che distingue la “vita felice” di alcuni filosofi dalle altre vite, ma è diventato elemento della vita del cristiano in quanto tale: la natura umana in quanto tale si deve perfezionare attraverso la contemplazione, perché ora non è più una particolare prestazione intellettuale dei sapienti, ma un esercizio di tutti. In secondo luogo, l’uomo, nella versione cristiana, si realizza positivamente nel lavoro, per cui il lavoro non è più un elemento che distingue una vita “inferiore” da quella che realizza la “felicità”, come in Aristotele separa quella degli schiavi dai liberi. 32 Infatti, nel mondo greco il lavoro non era considerato un elemento del perfezionamento della natura umana in quanto tale, ma proprietà caratteristica della vita inferiore delle persone non libere. La realizzazione della vita umana avvenne al di là del lavoro in una vita da filosofo o da politico. Ora, nel cristianesimo, i monasteri benedettini sono evidenti indicazioni per una considerazione della realtà umana radicalmente nuova, che segnano l’inizio di una nuova epoca (Medioevo): perché con la regola ora et labora non intesero affatto definire una “vita particolare” dei monaci, alla quale sono chiamati solo pochi, ma stabilirono un nuovo ideale di vita per la città, una nuova antropologia. Qui si evince chiaramente che il riferimento alla trascendenza dà luogo ad una nuova interpretazione delle relazioni sociali, e quindi del bene comune, come esse vengono esemplarmente realizzate nei monasteri come modello sociale alternativo. Non a caso, infatti, accanto alla scienza politica di Aristotele, Tommaso stabilisce quella monastica e l’economia: contemplazione e lavoro sono declinate come due elementi della dignità specifica della persona individuale. La persona non viene più definita a partire dal contesto politico e secondo i suoi parametri: ossia nella distinzione tra liberi e schiavi, tra greci e barbari ecc., ma la dimensione politica è soltanto una tra altre in cui l’essere umano si realizza. Nella misura in cui il bene comune ha acquistato in San Tommaso la dimensione della dignità umana, esso diventa anche “legittimazione” o “criterio” del potere politico: infatti i suoi compiti – assicurazione dell’«unità della pace», del «bene materiale dei sudditi» e «stimolare la vita virtuosa dei sudditi» – si giustificano come “sussidiari” alla realizzazione della vita morale della persona che consiste (1) nell’autodeterminazione alla moralità in libertà e (2) nella vita religiosa, e tramite queste due dimensioni è finalizzata alla felicità e alla beatitudine. In queste dimensioni, in Tommaso d’Aquino sin trova prefigurata l’idea moderna della libertà di coscienza e di opinione, del concetto di dignità umana e dell’importanza della libera autodeterminazione del soggetto da qualsiasi costruzione o paternalismo politico. Questa concezione di bene comune tommasiana si costituisce quindi con elementi che non derivano né dall’ambito politico né da quello pubblico aristotelico, ma dalla realtà metafisica di un corpo sociale consistente da relazioni interpersonali. Da questa prospettiva si evince, che è quindi la dimensione metafisica della persona ad assegnare la vera e propria dimensione morale al bene comune. Senza la persona, il bene comune non è pensabile: San Tommaso ne presenta una vera e propria definizione basata sulla dignità della persona: «Questo intero, che è la moltitudine civile, oppure la famiglia domestica, ha la sola unità di ordine, secondo la quale qualcosa non è uno in assoluto. Perciò la parte di quell’intero può avere un’operazione che non è operazione dell’intero, come un soldato dell’esercito può avere un’operazione che non è dell’intero esercito. Nondimeno anche lo stesso intero ha qualche operazione che non è propria di una qualche parte, ma dell’intero, per esempio il combattimento dell’intero esercito. E il trainare una nave è operazione della moltitudine i coloro che trainano la nave. Esiste invece qualche intero, che ha unità non solo per ordine, 33 ma per composizione, o per connessione, o anche per continuità, secondo la quale unità è uno in assoluto, perciò non vi è alcuna operazione della parte che non sia dell’intero. Nelle realtà continue infatti è identico il moto del tutto e della parte; e similmente nelle realtà composte, o connesse, l’operazione della parte è principalmente del tutto». Questa definizione del bene comune tramite elementi che formeranno nella modernità l’idea di dignità umana viene svolta da San Tommaso come una riflessione morale, e non politica. Una tale depoliticizzazione rispetto ad Aristotele non significa però che questo concetto non abbia nessuna conseguenza o importanza politica, come abbiamo appena visto. Le sue ricadute sulla politica sono però morali e la dignità umana ancora non è un concetto giuridico. Persino l’uccisione del tiranna – argomento in cui si evince l’importanza della dimensione morale della natura umana, e la sua dignità, in precedenza al contesto politico – non è argomentata in maniera giuridica, ossia come un diritto individual-liberale, ma si riflette sulla sua giustificazione morale. Come si vede, le riflessioni in Tommaso avvengono all’interno di una considerazione del contesto sociale della natura umana: non un ragionamento individualistico, ma il motivo del bene comune diventa la giustificazione morale dell’uccisione del tiranna. Ciò comporta delle conseguenze precise per l’articolazione del bene comune che ancora non ha acquisito la sua intera accezione personalistica e mantiene la sua configurazione come quadro morale-sociale della persona contro la quale quest’ultima non ha un vero e proprio diritto di individualità: infatti, per la dimensione morale e soprannaturale della persona, il bene comune mantiene la sua funzione etica costitutiva. In altre parole, la dignità della persona e anche la sua “prospettiva” di beatitudine non si lasciano definire senza la considerazione etica del bene comune. Il diritto viene determinato a partire dalla moralità (diritto naturale) e non ha ancora acquisito la sua definizione più specifica a partire dalla dignità e la libertà morale della persona. Tale contesto morale in cui è articolata la soggettività dei diritti, si esprime in alcuni luoghi di Tommaso d’Aquino in cui ragioni del bene comune prevalgono ancora sui diritti individuali: «Peccando, l’uomo lascia l’ordinamento della ragione e digrada dalla dignità dell’uomo, in quanto l’uomo è libero per natura e vive per sé, cade nella dipendenza delle bestie […]. Siccome è un male di uccidere un uomo per quanto rimane nella sua dignità, potrebbe essere un bene di uccidere un uomo come se fosse un animale, se vive nei peccati, perché l’uomo cattivo è peggio di una bestia e causa danni maggiori». L’uomo quindi ha ontologicamente una dignità per creazione, ma la deve costantemente adempiere e rinnovare. La misura di questo “adempimento” si desume dal bene comune: la dignità non è affermata completamente come principio ontologico (soggettività), in quanto come principio morale è inserito all’interno della “regola” del “bene comune”. Questo fa sì che in San Tommaso abbiamo a che fare, in fin dei conti, con una concezione ancora “eteronoma” della dignità umana che assegna al bene comune la prerogativa criteriologica alla dignità umana. Ci troviamo, come ora si evince immediatamente, alla soglia dello sviluppo dell’idea individuale di dignità umana, ma che ancora non viene sviluppata perché il crite34 rio determinante della riflessione è il bene comune che inserisce la persona costitutivamente in un contesto sociale di riflessione. 3. Dignità Umana in contrapposizione al bene comune? Con Hobbes il pensiero politico moderno afferma un cambiamento paradigmatico nella determinazione del rapporto tra dignità umana e bene comune, in quanto il Leviatano può assicurare la dignità (la vita) degli individui soltanto attraverso il bene comune dell’ordinamento statale. La dignità umana continua così a dipendere dalla determinazione del bene comune che ora però risulta – insieme alla trascendenza divina – radicalmente immanentizzato: come il Leviatano rappresenta il “Dio mortale” in politicis, così la vita umana risulta completamente reintegrato nel contesto politico: infatti al di fuori del Leviatano per l’uomo non c’è prospettiva di sopravvivenza: un uomo diventa il lupo dell’altro e qualsiasi esistenza umana diventa impossibile nella guerra di tutti contro tutti (12). Ora, la politicizzazione dell’individuo attraverso il bene comune identificato con lo Stato e con la sua volontà realizza una situazione di rischio per l’individuo ancora più radicale rispetto al contesto antico, perché ora, nella modernità, non è più una moralità razionale ad esigere l’ossequio individuale, ma la pura ragione di Stato. Tale dimensione si radicalizza poi soprattutto in Rousseau. In altre parole, non è il contesto sociale della polis, ma lo Stato moderno che si identifica con il “bene comu- ne”. Questa radicale politicizzazione del bene comune ora provoca l’astrazione degli elementi individuali della dignità umana dal loro contesto stoico e tommasiano, per farli diventare l’affermazione della libertà ed individualità della persona radicalmente antecedente a qualsiasi inserimento sociale o politico. Già con John Locke infatti si compie il passo di assegnare la dignità umana alla situazione giuridica e prestatale dell’individuo, mentre il bene comune rimane collegato al contesto politico e quindi appare solo come un risultato del contratto sociale (13). Con questo ribaltamento della determinazione di rapporto tra diritto individuale prepolitico e bene comune statalizzato rispetto ad Hobbes, Locke diventa il padre del liberalismo moderno. Infatti, in questo modo è data per la prima volta la possibilità che il bene comune non è più la condizione di possibilità per la realizzazione della dignità umana, ma può entrare in conflitto con essa e metterla a rischio. È uno dei caratteri contraddistintivi del pensiero politico di Kant ad aver riconosciuto in Rousseau l’apporto decisivo per il pensiero politico moderno ossia la congiunzione di tutte le volontà di una comunità politica in una sola, e quindi lo Stato come possibilità della libertà e dignità della persona. Ma a differenza dal pensatore francese, egli riuscì a pensare tale realtà radicalmente a partire dalla dignità dell’individuo: da ciò risulta una forte e inscindibile connessione dell’individuo al contesto politico, in quanto soltanto all’interno di questo esso acquisisce la dimensione della dignità umana come soggettività del diritto: «L’idea di una costituzione politica in generale, che è nel contempo per ogni popolo un imperativo assoluto della ra35 gione pratica giudicante secondo i concetti del diritto, è santa e irresistibile; e anche se l’organizzazione dello Stato fosse in se stessa difettosa, nessun potere subalterno in questi Stati potrebbe opporre una resistenza attiva al sovrano legislatore» (14). In questo modo avviene all’interno della sfera politica un capovolgimento della concezione rousseauiana e il bene comune diventa un risultato della dignità umana nella cui definizione esso si trova ormai incluso. Solo con Kant abbiamo quindi, in fin dei conti, il ribaltamento dalla concezione morale eteronoma di Aristotele ad una concezione definibile come autonoma, e la dimensione del bene comune come elemento esplicativo di ciò che è la dignità umana come principio di ordinamento politico. Il concetto di bene comune, infatti, non è per niente superato nell’accezione della dignità umana in Kant, in quanto la persona può affermare e trovare riconosciuta la sua dignità soltanto all’interno del contesto politico. E soltanto con Kant, la dimensione politica è veramente pensata a partire dalla dignità della persona e si porta a compimento la novità di Tommaso d’Aquino rispetto ad Aristotele. In questo modo, abbiamo a che fare per la prima volta con la formulazione radicale della “dignità umana” come unico principio originario della legittimazione dell’etica politica e giuridica. Infatti la dignità dell’uomo sta nell’autodeterminazione della ragion pratica, che in questa maniera diventa radicalmente “inizio” e “principio” del concetto di “bene”: «E’ impossibile pensare nel mondo, e, in genere, anche fuori di esso, una cosa che possa considerarsi come buona senza limitazioni, salvo, unicamente, la volontà buona» (15). Qualsiasi dimensione di bene comune dipende quindi dalla volontà individuale che è l’autodetermi- nazione della ragione pratica in libertà: questa esclude la teleologia alla base del bene comune come valore finale della felicità. Anzi, per Kant la dignità della ragione sta proprio nel fatto di non avere un fine al di fuori di sé e di determinarlo in libera autodeterminazione morale (autonomia), ma di diventare, attraverso l’autodeterminazione secondo l’imperativo categorico, degna di essere felice. Mentre questo concetto rimanda però alla trascendenza che non può essere oggetto della filosofia trascendentale, Kant trae per il contesto morale e politico la conseguenza della dignità assoluta della persona, ontologicamente radicata nella sua libertà: «Nel regno dei fini, tutto ha un prezzo o una dignità. Ha un prezzo ciò, al cui posto può esser messo anche qualcos’altro, di equivalente; per contro, ciò che si innalza al di sopra di ogni prezzo, e perciò non comporta equivalenti, ha una dignità». Il “bene comune”, come conseguenza da questa definizione della “dignità umana”, è l’esistenza dell’uomo nello Stato, perché solo all’interno dello Stato, quindi in uno “stato” di costituzione giuridica, può vivere la sua dignità, contrariamente allo “stato di natura”, dal quale quindi è obbligato ad uscire. Per questo, qualsiasi possibilità di insurrezione contro il sovrano o di rivoluzione viene radicalmente negata da Kant. Non esiste un appello ad un bene comune sostanziale superiore allo Stato per legittimare una resistenza contro la sovranità. Il bene comune risulta quindi desostanzializzato e meramente formale: si identifica con le condizioni di possibilità politico-giuridiche sancite dallo Stato e che sono dovute alla dignità degli individui perché la felicità è interpretata come telos della vita indivi36 duale: «la salute pubblica, che deve per prima essere presa in considerazione, è proprio quella costituzione legale che assicura ad ognuno la sua libertà per mezzo di leggi; dove rimane impregiudicato per ciascuno cercare la felicità per la via che gli sembra migliore» (16). Il bene comune quindi non ha perso soltanto la sua origine politica, ma anche la sua dimensione metafisico-sostanziale: siccome il bene comune classico è stato definito in riferimento al conseguimento del perfezionamento virtuosa di essa, la definizione kantiana della dignità umana conosce come punto di partenza soltanto la ragion pratica (la «volontà buona») ed ha reso irrilevante, di conseguenza, la concretezza della natura umana come condizione per questo compito. E siccome questa dignità della persona non viene né riconosciuta né garantita nello “stato di natura” ma attraverso l’ordinamento formale costituzionale dello Stato liberale, il bene comune si identifica – come dimensione di realizzazione della dignità della persona – con quest’ultimo, e l’imperativo morale nell’ambito politico diventa quello di lasciare lo stato di natura, intesa come affermazione che la persona come essere morale non può vivere al di fuori di un contesto politico-giuridico di diritto. Lo “stato” della persona che è la stessa dignità si identifica perciò con lo “Stato” nel suo ordinamento costituzionale e quindi con il bene comune. Questo è solo possibile, però, se l’idea del bene comune è pensata in maniera formale, ossia come ordinamento e garanzia dei diritti fondamentali. In ogni caso, Kant esclude una determinazione metafisico-sostanziale del bene comune, perché non corrisponderebbe alla dignità umana. Il bene comune trova quindi il suo criterio necessario nella dignità umana. Per la stessa ragione, Kant rifiu- ta completamente il compito educativo dello Stato, tipico di una concezione sostanziale o etica del bene comune, che può risultare soltanto «il dispotismo più grande immaginabile». Kant ha determinato, quindi, per la prima volta, il bene comune radicalmente come espressione della dignità umana. Sarà Georg Wilhelm Friedrich Hegel a criticare questa concezione kantiana per il suo formalismo astratto: senz’altro anche per lui, nei Lineamenti di filosofia del diritto, la dignità umana, con il corrispondente imperativo etico-giuridico, funge come “principio” dell’ordinamento moderno – confermando quindi il superamento kantiano dell’aristotelismo – ma che non potrebbe essere allo stesso modo anche il suo “fine” perché è privo di qualsiasi contenuto etico materiale. Solo identificandosi con il bene comune – che per Hegel è l’eticità della famiglia, della società civile e dello Stato – la dignità umana potrebbe acquisire la sua dignità etica. La libertà dell’individuo, per Hegel, si compie eticamente quindi soltanto in strutture di bene comune: famiglia, società civile e Stato. In questo modo, Hegel reintegra la dignità umana nella dimensione finalistica del bene comune, e dimostra questa integrazione come antropologicamente necessaria in quanto la libertà soggettiva costituirebbe sempre e solo un principio insufficiente per poter assicurare quel “bene” all’uomo di cui avrebbe maggiormente bisogno. Perciò, Hegel sviluppa un’idea di ordinamento come espressione dello Spirito oggettivo, e quindi come concezione sostanzialistica – recuperando in questa maniera, appunto, la classica dimensione metafisica del bene comune, ma all’interno dell’ordinamento costituzionale dello Stato moderno, intro37 ducendo le forme dell’eticità e definendo lo Stato come massima istituzione e vero telos dello sviluppo della libertà (dignità). Hegel afferma in questo modo che l’uomo non si realizza in senso vero e proprio attraverso una dignità astratta e nei rapporti formal-apriori di libertà con gli altri, ma in fin dei contri soltanto in relazioni sostanziali, nelle quali la libertà individuale si concretizza, mentre altrimenti rimarrebbe formale ed astratta e in questa negatività non si affermerebbe quale libertà umana ed espressione della dignità della persona (17). L’ordinamento istituzionale nella sua realizzazione nell’eticità, e quindi in quanto bene comune, completa e realizza la dignità umana la quale, al di fuori di esso, rimarrebbe sempre priva di eticità e in quanto tale si annullerebbe difatti nella propria “non verità”. Significativamente, per Hegel è, in fin dei conti, nella famiglia, nelle corporazioni e nello Stato che l’uomo trova la sua realizzazione: «Il diritto degli individui alla loro destinazione soggettiva alla Libertà, ha il suo compimento nel fatto che gli individui appartengono alla realtà etica. Infatti, la certezza della loro Libertà ha la propria verità in tale oggettività, e, nell’Etico, gli individui possiedono realmente la loro propria Essenza, la loro universalità interna» (18). In questo senso, l’eticità è «l’Idea della Libertà nel senso del Bene vivente» (19), riassumendo in sé le due dimensioni del diritto e del dovere, dell’individualità e della collettività. Si tratta, in altre parole, di condizioni sociali che consentono all’uomo di “diventare uomo”, di “realizzare” quella dignità che altrimenti non c’è – una dimensione tipica della concezione classica del bene comune. Questo passaggio avviene come un sottomettersi coscientemente e volontariamente alla vita universa- le che si realizza concretamente nelle tre forme dell’eticità, e in maniera massima nello Stato di diritto: «Lo stato inteso come la realtà della volontà sostanziale, realtà ch’esso ha nell’autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale in sé e per sé. Questa unità sostanziale è assoluto immobile fine in se stesso, nel quale la libertà perviene al suo supremo diritto, così come questo scopo finale ha il supremo diritto di fronte agli individui, il cui supremo dovere è d’esser membri dello stato» (20). Come si evince, Hegel in questa maniera raddoppia il concetto di “dignità umana”, concependola sia come “principio” che come “fine”, intendendone però due realtà morali molto diverse: infatti, solo nell’ultima accezione, essa è identificata con il “bene comune” che entra in conflitto con la definizione della “dignità umana” come principio dell’autodeterminazione morale del soggetto: ciò che “comincia” come principio individuale finisce “deindividualizzato” (in realtà: «aufgehoben») nello Stato (21). Per questo, come il dovere fondamentale era quello di «esser membri dello stato», tutti i doveri che per Hegel sono sempre doveri all’interno dello Stato che così avanza come il luogo etico del bene comune: «Una dottrina immanente e coerente dei doveri, invece, non può essere altro che lo sviluppo dei rapporti che nello Stato sono necessari per via dell’Idea della Libertà, e che, pertanto, sono reali nella loro intera estensione» (22). L’uomo nella sua dignità personale, così, non è più fine dell’eticità; trasferendo la teleologia dell’eticità nello Stato di diritto, essa si avvera soltanto nella persona come cittadino dello Stato. In questo modo, Hegel risolve il conflitto tra “di38 gnità umana” e “bene comune” nella Aufhebung della prima nel secondo. Mentre in Aristotele la dimensione individuale era determinata a partire da quella comune, in Hegel il bene comune (l’eticità) è determinata a partire dalla Aufhebung della dignità umana, che quindi a sua volta si comprende solo nel suo fine che è lo stesso bene comune. In questo consiste la differenza del bene comune come polis in Aristotele e come Stato di diritto in Hegel. 4. Ritrovare la sintesi Dall’insoddisfazione con il riferimento del bene comune allo Stato moderno – in maniera negativa (Kant) o positiva (Hegel) – nasce la proposta di Antonio Rosmini, che si contraddistingue per una reinterpretazione originale di San Tommaso nella modernità e per averlo collocato all’interno della sfida kantiana ed hegeliana. Mettendosi sul terreno del pensiero moderno Rosmini considera la “persona” come radicalmente una, e soprattutto per le sue dimensioni di bene e di libertà non può essere separata in aspetti diversi. Egli distingue all’interno della persona il supremo principio personale – la volontà libera – che è espressione pratica di quel “principio divino” nell’uomo che è l’intuizione dell’idea dell’essere e quindi la costituzione dell’intelletto. Sta in questo principio la dignità dell’uomo, perché questa partecipazione all’essere la rende fine e grazie alla sua libera volontà l’uomo può indirizzare tutti gli altri principi concreti della natura umana a secondo questo supremo principio. Così «si può dir fine la persona umana, come quella che partecipa dell’infinita dignità dell’ente, a cui trovasi essenzialmente congiunta […] Sotto questo punto di vista si può dire fine la stessa persona umana, cioè può dirsi fine il bene infinito, di cui è essenzialmente partecipe questa persona ordinata a parteciparne vie più» (23). La libertà è quindi originalmente “libertà concreta”, per la stessa costituzione ontologica della persona: e in quanto pone in sintesi “idea” (legge morale) e “realtà” dell’uomo (la sua tendenza al bene eudaimonologico) costituisce la moralità della stessa. Abbiamo in questa sistematica la esatta ripresa della sistematica del bene comune in San Tommaso, ma ora incentrata sulla dinamica conoscitiva e morale del soggetto che in questo modo diventa, come Rosmini afferma, il «soggetto de’ diritti» il quale è costituito in una triplice «cagione della dignità»: percezione all’essere nell’intuizione intellettiva dell’essere, ordinamento dell’essere umano al bene assoluto e il godimento e la beatitudine che da questa congiunzione risultano. È questa per Rosmini la costituzione della dignità umana nel triplice radicamento nell’essere. La realizzazione di questa libertà morale che è la realtà concreta di questa costituzione della dignità, si ha nella relazione ad altre libertà che essa necessariamente incontra realizzando la propria dinamica che è quella del “perfezionamento”: essendo la libertà morale, tende incessantemente verso il suo perfezionamento. Proprio questa struttura di perfezionamento, però, non è completamente sottoposta alla “scelta” liberale – mero arbitrio – ma ha delle dimensioni “non negoziabili”, o meglio: “naturali”. Rosmini individua ora una duplice dimensione di 39 perfezionamento: nel rapporto all’assoluto aperto dalla stessa costituzione della dignità umana, e nella famiglia – “società domestica”. Il “bene” della persona appare quindi come il “perfezionamento” della libertà del soggetto, che si realizza in relazione ad altri. Rosmini recupera in questa maniera non solo il senso religioso-etico del bene comune in San Tommaso, ma lo declina anche in maniera personalistica e quindi lo rende fruibile anche dal pensiero moderno. Il bene comune è la realtà personale vissuta in compartecipazione relazionale: relazione all’altro con cui è naturalmente connessa in relazioni familiare, e al totalmente altro della trascendenza divina. In altre parole: la “dignità umana” si realizza sempre in strutture di “bene comune” che però non sono strutture predeterminate o da un realismo metafisico aristotelico, o dallo Stato moderno (Hegel) – entrambi concetti politici del bene comune –, ma sono le stesse strutture metafisiche della libertà morale in quanto relazione, e quindi sono dimensioni del perfezionamento della natura umana. E solo dopo aver declinato il bene comune come dimensione religiosa e familiare della persona, se ne aggiunge ancora una terza dimensione ossia quella della società civile che si rapporta alle prime due in maniera completamente sussidiaria. Ciononostante realizza anch’essa una dimensione di bene comune – questo sarebbe il bene comune politico che significativamente, per il suo rapporto sussidiario alle altre due società, risulta il più debole nella gerarchia del bene comune. Questa gerarchia sussidiaria del bene comune riconosce quindi come primo e più importante livello la dimensione religiosa della persona che può viverla soltanto insieme ad altri, come ad esempio nella Chiesa (24). Il secondo livello è costituito dal bene della famiglia, che di nuovo esprime una dimensione della libertà umana che deve essere condivisa con altri (25). Solo al terzo e ultimo posto segue anche la necessità della comunità politica la quale significa che anche nel contesto politico esiste un bene condiviso della natura umana. Rosmini formula questa struttura sussidiarietà all’interno del bene comune nella modernità per parare la sua identificazione con la volontà o la ragion di Stato, e sottolinea che quindi soltanto nella e attraverso la definizione della dignità della persona e dei suoi diritti individuali si può anche affermare un bene comune politico (26). In questa fondazione antropologica e nella triplice articolazione del bene comune Rosmini recepisce quindi la vera originalità di San Tommaso. A questo punto diventa chiaro, come Rosmini è riuscito a conciliare bene comune e dignità umana che tra Kant ed Hegel si accordavano soltanto in maniera problematica e riduttiva, in quanto Kant riportava il primo al secondo, e Hegel interpretava la dignità umana in maniera compiuta solo all’interno del bene comune. Rispetto a San Tommaso, Rosmini rovescia la determinazione di rapporto integrando le strutture del bene comune come dimensioni relazionali-istituzionali nella libertà (dignità) stessa (27). Innanzitutto, in riferimento alla prima e più importante dimensione di bene comune, ossia la società teocratica (la Chiesa) oppure «famiglia soprannaturale» come la chiama anche, è interessante che lo stesso Rosmini ne propone anche una let40 tura “laica” come «società del genere umano» (28). Tale dimensione universale non nasce soltanto dall’universalismo cristiano che si esprime anche nella Chiesa mandata a tutti gli uomini, ma soprattutto dalla considerazione che la dimensione di compimento soprannaturale della natura umana per la quale essa è sacramento, indica questa dinamica di perfezionamento soprannaturale della natura umana. Per questo, in Rosmini la Chiesa è anche segno visibile di un bene comune che remotamente è il bene comune di tutta la umanità, come esso viene espresso soprattutto attraverso l’etica dei diritti umani. La dimensione del bene comune nel suo perfezionamento soprannaturale non fonda quindi un esclusivismo cristiano, ma crea bene comune dell’umanità che vede tutti gli uomini non in quanto individui singolari ed astratti, ma attraverso un legame che significa non soltanto libertà individuale ma anche rapporti di responsabilità reciproca e di doveri umani specifici (29). Sono quindi questi legami antropologici di libertà che creano solidarietà e responsabilità e che si articolano nel linguaggio della tradizione tomistica come strutture “familiari”: la famiglia naturale che instaura i legami e i doveri tra i coniugi e tra loro ed i figli, la famiglia soprannaturale che unisce le persone nella loro tendenza al perfezionamento ma che forgia anche lo sguardo per il fatto che tutti gli uomini sono già uniti in una famiglia umana e che devono vivere rapporti di fraternità attraverso l’etica dei diritti e doveri umani (30). Non è quindi il contesto della nazione o dello Stato che potesse determinare ciò che deve essere il bene comune per tutti: la persona sta in un contesto di diritti e di doveri con gli altri già per la struttura antropologica del suo essere, e quindi in maniera molto più originale del contesto politico-statale (31). Il bene comune designa innanzitutto il contesto prestatale e in questa maniera, come si può evincere dalla riflessione rosminiana, costituisce il vero e proprio fondamento etico dei diritti umani. Contrariamente, i diritti umani indicano a loro volta il limite necessario per non identificare il bene comune con lo Stato e la sfera politica, in quanto definiscono l’ambito dell’umano escludendo la competenza e la prerogativa dello Stato in questo compito. Bene Comune e diritti umani sono quindi correlati come principi che si reggono, delimitano e giustificano a vicenda. Sarebbe una riduzione unilaterale cercare di voler ridurre l’uno all’altro o definire l’uno semplicemente come “sostituzione” o “articolazione moderna” dell’altro. Conviene, nella riflessione etica e politica, soprattutto nell’ambito internazionale, riscoprire questo nesso reciproco. Possiamo desumere quindi dalle pagine analizzate della Filosofia del diritto di Rosmini tali conclusioni: bene comune significa che non c’è diritto senza realizzazione di libertà morale in contesti relazionali concreti, e quindi senza relazione e società. La dimensione etica del bene comune sta nel fatto che esso è universale e si estende all’uomo in quanto tale nella sua dignità. Il “perfezionamento” della persona avviene in queste strutture della libertà morale, non in società politiche: per il Roveretano, infatti, il bene comune non può essere in nessun modo politicizzato (e quindi assolutizzato), ma costituisce il contesto etico della dignità umana e quindi del fondamento dei diritti umani. 41 Note 1. Evidentemente il concetto di dignità umana risale fino al pensiero romano e alla distinzione importante di Cicerone tra una dimensione che la riflette a partire dall’ordine naturale e che perciò assegna all’uomo una posizione di spicco nel contesto ontologico in quanto partecipa alla razionalità della natura, e una dimensione che considera la persona nel contesto sociale-politico per cui essa assume una dimensione “relativa” alla posizione e al riconoscimento di cui gode pubblicamente. 2. Cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, tr. it. P. Caprioli, Milano 1998, 302-303. 3. E. Berti, Nuovi studi aristotelici, vol. 3. Filosofia pratica, Brescia 2008. 4. Aristotele, Politica, I, 1252b 28-31. 5. Aristotele, Etica Nicomachea, I, 2 (1094b 7-11). 6. Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I 60, 5 ad 3, ad 5; I/II 109, 3; II/II 25, 1 ad 2; I/II 26, 2-4. 7. Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I/II 21, 4 ad 3; cfr. anche J. Maritain, La persona e il bene comune, Brescia 2009. 8. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I/II 21, 4 ad 3. In questo senso, il bene comune politico diventa il criterio etico per le leggi positive; cfr. ibid. I/II 90, 4. Per questo motivo, la giustizia del singolo nei confronti del contesto politico, che si realizza nell’adempimento delle leggi (giuste) (iustitia legalis), è il contesto in cui si collocano le due modalità specifiche di giustizia, ossia del rapporto del “tutto” alla “parte” (iustitia distributiva) e tra i cittadini (iustitia commutativa). 9. Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II/II 68, 3; I/II 21, 4 ad 3; I/II 113, 9 2 ad 2. 12. Cfr. T. Hobbes, De cive, VI, 1-15; cfr. inoltre E.-W. Böckenförde, Gemeinwohlvorstellungen bei Klassikern der Rechts- und Staatsphilosophie, in: H. Münkler / K. Fischer (edd.), Gemeinwohl und Gemeinsinn im Recht. Konkretisierung und Realisierung öffentlicher Interessen, Berlin 2012, 43-65, qui 56-60. Böckenförde sottolinea che la concezione hobbesiana non significa in nessun modo uno sganciamento del sovrano dai presupposti morali vincolanti della retta ragione e soprattutto della sua responsabilità dinanzi a Dio. Ma si tratta di vincoli morali che giuridicamente non sono rivendicabili in quanto ciò metterebbe a repentaglio la sovranità assoluta. Ciò che avviene quindi innanzitutto è la dissoluzione della legge positiva dalla legge naturale e il confinamento di quest’ultima alla mera dimensione morale. Ciò significa che la realizzazione politica del bene comune consiste nella creazione di condizioni di pace e tranquillità per la vita civile in cui i cittadini sono messi in grado di godere dei beni nel migliore modo. Il bene comune, quindi, risulta separato da una concezione morale di “vita buona”. In Locke, questo concetto viene giuridicamente portato, in maniera critica rispetto ad Hobbes, ad un concetto di garanzia di libertà e proprietà degli individui. 13. Cfr. J. Locke, Two Treatises of Government, § 4-6, 123, 135. 14. I. Kant, La metafisica dei costumi. 15. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi. 16. I. Kant, Sul detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica». 17. Cfr. L. Siep, Was heißt: “Aufhebung der Moralität in Sittlichkeit” in Hegels Rechtsphilosophie?, in: Hegel-Studien 17 (1982) 75-96. 18. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del Diritto, § 153. 19. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del Diritto, § 142. 20. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del Diritto, § 258. 10. A. Rosmini, Filosofia del diritto, 6 voll., a c. di P. Orecchia (Ediz. naz., 35-40), Padova 1967-1969, II, n. 496 (IV, p. 854). Cfr. la vicinanza di questa posizione con il giudizio analogo di Hegel, in: Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a c. di C. Cesa, Roma-Bari 2009, § 482 aggiunta. 21 G. Luf, Menschenwürde in der Philosophie des Deutschen Idealismus, in: K. Seelmann (ed.), Menschenwürde als Rechtsbegriff (Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie, Beiheft 101), Wiesbaden 2004, 82-92. 11. Tommaso d’Aquino, De regimine principum, 14s. 22. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del Diritto, § 148. 42 23. Rosmini, Filosofia del diritto, I, n. 52, nota 2 (I, p. 192, nota 2). 24. Rosmini, Filosofia del diritto, II, nn. 632-735 (IV, pp. 888-917). 25. Rosmini, Filosofia del diritto, II, nn. 969-1039 (IV, pp. 989-1011) 26. Cfr. Rosmini, Filosofia del diritto, II, nn. 1644-1645, 1660 (V, pp. 1223, 1227); C. Liermann, Rosminis politische Philosophie der zivilen Gesellschaft, Paderborn et al. 2004. 27. Cfr. M. Krienke, What is the connection between common good and human dignity? The contribution of the Thomistic tradition to a reflection on common good, in: Philosophical News, n. 6, Milano 2013, 54-60. 28. Cfr. Rosmini, Filosofia del diritto, II, nn. 635-670 (IV, pp. 888-898). 29. Cfr. M. Krienke, Menschenwürde als notwendig anerkannte Freiheit in Hegel und Rosmini. Wie kann „intersubjektive Allgemeinheit“ gedacht werden?, di prossima pubblicazione. 30. Cfr. Rosmini, Filosofia del diritto, II, nn. 966-968 (IV, pp. 985-987). 31. Cfr. Rosmini, Filosofia del diritto, I, p. 164; II, n. 987 (IV, p. 993). 43 M ARIA Z ANICHELLI U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI P ARMA Dignità umana e disabilità I NDICE 1. La tutela delle persone disabili nelle società attuali 2. La dignità umana dall’autodeterminazione alla vulnerabilità 3. Integrare la vulnerabilità umana nel discorso morale 4. Disabilità e dignità umana a. Dignità del disabile in quanto individuo: oltre la categoria b. Dignità del disabile in quanto persona: oltre le capacità c. Dignità del disabile in quanto essere umano: oltre l’indipendenza Bibliografia citata Una riflessione sulla condizione disabile richiede cautela e umiltà: nascere con un handicap o diventare disabile nel corso della vita è un’esperienza esistenziale irriproducibile, la cui portata eccede ogni tentativo di studio e discorso critico; è dunque anzitutto l’esperienza diretta, ben più di qualunque istanza teorica esterna, che può legittimare a parlarne. Un aspetto che tuttavia merita di essere approfondito, anche sul piano teorico, è la possibilità di scorgere nel disagio e nella sofferenza legati alla disabilità luoghi di manifestazione della dignità umana: situazioni in cui l’umanità, pure provata dal limite, non cessa per questo di essere riconoscibile nei suoi tratti distintivi inalienabili, ed è anzi tanto più meritevole di rispetto e tutela. Se è innegabile che le persone disabili siano partecipi a pieno titolo di quella dotazione universale che da secoli definiamo “dignità umana”, ciò significa che il nucleo di tale dotazione non va ricercato in quelle abilità e competenze che normalmente fioriscono in alcune stagioni o circostanze della vita umana, ma va identificato altrove: in ciò che caratterizza più essenzialmente ogni persona in quanto tale, in ciò che ne costituisce il valore permanente, e la rende degna di cura e protezione, anche e soprattutto quando è colpita da una disabilità congenita, o quando la sua autosufficienza viene meno per infortuni o malattie o per l’avanzare dell’età. A fronte di modelli culturali, giuridici, etici oggi sempre più incentrati sull’individuo quale artefice autonomo e vincente della propria vita, appagato dall’esercizio della sua autodeterminazione e dalla fruizione dei suoi diritti, uno sguardo consape44 vole sulla disabilità come concreta modalità del vivere umano, esito sempre possibile della nostra condizione di esseri fragili e imperfetti, può contribuire a una ridefinizione della dignità umana, capace di ricomprendere anche quelle situazioni in cui la persona appare più bisognosa di sostegno, impossibilitata a scegliere, dipendente dagli altri. 1. La tutela delle persone disabili nelle società attuali Un importante fattore di promozione della dignità umana nelle sue espressioni più fragili e vulnerabili è oggi il diritto, anche attraverso le varie forme di tutela che assicura alle persone disabili. Non a caso ad esse è dedicata la prima carta dei diritti del terzo millennio: approvata dalle Nazioni Unite nel 2006 ed entrata in vigore nel 2008, la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità insiste ripetutamente sul concetto di dignità (artt. 1, 3, 16, 25). Tra i suoi fini principali vi è promuovere il rispetto per la “inerente dignità” delle persone disabili (art. 1). E il “rispetto per la dignità intrinseca” è il primo dei principi generali ricordati all’art.3. I disabili sono intesi dalla Convenzione come coloro che “hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri” (art. 1.2). Questa definizione reca traccia di un’evoluzione semantica: se tradizionalmente la disabilità era conseguenza diretta di un deficit individuale, oggi è intesa invece come risultato dell’interazione tra soggetto e ambiente, in senso fisico, istituzionale e culturale. La stessa evoluzione è ravvisabile nell’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF, 2001), adottata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che non identifica più la disabilità con le disfunzioni psico-fisiche (come avveniva nell’Internationl Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps, ICIDH, 1980), ma valuta in ogni essere umano diversi livelli di “funzionamento” e di “disabilità”, anche alla luce di fattori contestuali. Lo spostamento di attenzione dalla menomazione come dato ineliminabile alle varie possibilità di intervento nel rapporto soggetto-ambiente è alla base dell’ampia normativa giuridica che si è sviluppata in favore delle persone disabili. Si possono ricordare negli Stati Uniti il Rehabilitation Act (1973) e l’Americans with Disabilities Act (1990); in Gran Bretagna il Disability Discrimination Act (1995); in Francia la Loi pour l'égalité des droits et des chances, la participation et la citoyenneté des personnes handicapées (2005); in Italia la legge 104/1992 per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, la legge 68/1999 per il diritto al lavoro dei disabili, la legge 67/2006 per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni. Anche l’Unione europea è impegnata nella lotta contro le discriminazioni derivanti dalla disabilità (direttiva 2000/78; Carta dei diritti fondamentali, artt. 21, 26; TFUE Parte I, art 10 del Titolo II e Parte II, art. 19). La tutela giuridica riservata ai disabili rappresenta un indubbio progresso istituzionale, ed è il segno di una speciale sensi45 bilità del diritto odierno nei confronti dei soggetti svantaggiati. Ma non basta di per sé ad assicurare l’attuazione della loro dignità nel senso più ampio, né impedisce che permangano varie criticità in alcuni atteggiamenti culturali oggi dominanti. Se è vero, infatti, che risultano ormai acquisite importanti garanzie in termini di diritti, pari opportunità e strumenti di inclusione, non possono invece dirsi altrettanto consolidate nel sentire comune la consapevolezza della dignità intrinseca che accomuna i disabili a tutte le altre persone, e la disponibilità ad accettare il decadimento psico-fisico e la mancanza di autosufficienza come dimensioni ineludibili dell’esistenza umana, degne di cura e attenzione. Assistiamo, cioè, a uno squilibrio tra il livello spesso molto avanzato delle soluzioni giuridiche e dell’integrazione sociale in favore dei soggetti più vulnerabili e una mentalità diffusa che tende invece a coltivare ideali utopici di efficienza, produttività, autonomia, rimuovendo di fatto la disabilità dal proprio orizzonte consueto, quasi fosse un’eventualità eccezionale in cui incorrono pochi sfortunati. Si tratta di una difficoltà più generale a riconoscere la debolezza, la dipendenza dall’aiuto altrui, in definitiva l’imperfezione, quali requisiti “normali” dell’umanità, e a integrarli effettivamente nella dignità propria dell’essere umano. Un pregiudizio culturale che si traduce a sua volta in una visione antropologica limitata e fuorviante: l’illusione che la condizione umana sia connotata essenzialmente da forza, libertà, autonomia, capacità di scelta è un ostacolo all’accettazione di quelle situazio- ni in cui tali requisiti risultano attenuati o assenti: la disabilità è un caso paradigmatico. Se tendiamo a rimuovere l’handicap è perché esso ci parla della nostra vulnerabilità: in esso ci si svela con particolare intensità quella fragilità che non vorremmo vedere e che pure in una certa misura ci riguarda tutti, almeno potenzialmente o in certe fasi della vita, oppure indirettamente, per il fatto che l’esistenza di persone disabili interpella la responsabilità di ognuno. Cogliere anche in tale vulnerabilità i connotati incancellabili della dignità umana può apparire quasi una sfida rispetto ai modi di pensare più diffusi cui si accennava; eppure è il presupposto indispensabile per accostarsi all’handicap senza pregiudizi e anche, più in generale, per mantenere uno sguardo realistico e non riduzionistico sulla condizione umana. 2. La dignità umana dall’autodeterminazione alla vulnerabilità Dal punto di vista teorico, al fine di ricostruire il nesso tra dignità umana e condizione disabile, occorre ripensare in primo luogo il concetto stesso di dignità. Nozione in origine religiosa e metafisica, essa ha poi acquisito un proprio statuto anche nel linguaggio morale e giuridico. È con l’umanesimo moderno che si afferma una visione antropocentrica e razionalistica della dignità: grazie al dono della ragione l’uomo è libero, capace di autodeterminarsi, e dunque superiore alle altre crea46 ture, prigioniere di meccanismi di comportamento prefissati. Emblematica l’Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola, in cui Dio dice all’uomo: “La natura determinata per gli altri è chiusa entro leggi da me prescritte. Tu, invece, te la fisserai senza essere impedito da nessun limite, secondo il tuo arbitrio al quale ti ho consegnato” [Pico della Mirandola 1486]. Ma la teorizzazione più compiuta di un legame necessario tra la dignità dell’uomo e la sua autonomia razionale si deve a Kant. Nella Fondazione della metafisica dei costumi egli ha tematizzato la dignità quale prerogativa tipica ed esclusiva dell’uomo in quanto essere ragionevole capace di darsi una legge morale. Proprio in forza di tale prerogativa, affrancato dalle leggi naturali, egli può essere “fine in sé” e “legislatore del regno dei fini”. Pertanto “soltanto la moralità, e l’umanità in quanto capace di moralità, possono avere dignità”, e “il principio della dignità della natura umana e di ogni natura ragionevole” è l’autonomia [Kant 1785, pp. 94-5]. Kant riconduce inoltre la dignità all’idea dell’umanità come valore intrinseco non negoziabile, superiore ad ogni prezzo. Nella Metafisica dei costumi essa è consacrata come principio deontologico universale nell’imperativo categorico: “l’umanità è in se stessa una dignità, poiché l’uomo non può essere trattato da nessuno (cioè né da un altro, e neppure da lui stesso) come un semplice mezzo, ma deve sempre essere trattato nello stesso tempo come un fine; e precisamente in ciò consiste la sua dignità (la sua personalità), per cui egli non solo si eleva al disopra di tutti gli altri esseri della natura che non sono uomini, destinati appunto per questo a servirgli da strumento, ma anche, di conseguenza, si innalza al di sopra di tutte le cose.” [Kant 1797, p. 334]. La dignità dell’uomo, dunque, è esaltata nella modernità in quanto connessa alla razionalità e all’autonomia che lo contraddistinguono, segno del suo primato sugli altri esseri viventi e della sua centralità nell’universo. Ma questo è un resoconto solo parziale. Individualismo e autonomia soggettiva sono stati messi radicalmente in questione da varie filosofie novecentesche. Basti pensare ai moniti della Scuola di Francoforte circa gli effetti distruttivi e autodistruttivi della “ragione strumentale”, e circa la condizione di schiavitù, reificazione e vulnerabilità in cui l’individuo è stato ridotto proprio dalla sua smisurata indipendenza e dal suo potere illimitato sulle cose [Horkheimer, Adorno 1947; Horkheimer 1947]. I rischi che la hybris razionalistica comporta per il destino dell’umanità sono stati denunciati analogamente da Hans Jonas: “L’esclusiva fissazione sull’uomo in quanto diverso dal resto della natura può significare solo immiserimento, anzi disumanizzazione dell’uomo stesso, […] il che dunque contraddice il suo fine dichiarato, sanzionato proprio dalla dignità del suo essere”. Di qui l’invito alla responsabilità, alla cura per l’essere umano minacciato nella sua vulnerabilità [Jonas 1984, p. 175]. È evidente come queste istanze filosofiche contribuiscano a ridisegnare il paradigma della dignità dell’uomo ridimensionandone la presunta onnipotenza, e dando pienamente ragione di quei tratti di debolezza, non autosufficienza e bisogno di protezione che fanno parte naturalmente della condizione umana, e 47 che un modello come quello kantiano invece espungeva del tutto. Ma non è solo il pensiero filosofico a registrare questa evoluzione. Uno sguardo ad alcune fonti giuridiche conferma l’emergere nel Novecento di un nuovo tipo di attenzione al valore dell’umanità, che passa non dall’esaltazione delle sue competenze ma semmai dalla consapevolezza delle sue ferite. Il concetto di dignità umana, dal trionfalismo prometeico della sua genesi moderna, approda a uno statuto più ampio e articolato, contrassegnato dal senso del limite e della vulnerabilità: un bene fragile, di cui è in gioco la sopravvivenza, i cui presupposti sono messi costantemente a repentaglio da guerre, ingiustizie, discriminazioni, ma anche dal progresso tecnologico, dalla scienza, dalle stesse conquiste dell’ingegno umano. L’attenzione del diritto per la dignità umana, non a caso, è una ‘novità’ del Novecento: la nozione, del tutto assente nelle carte dei diritti di stampo illuminista, comincia a comparire solo con le convenzioni internazionali e con le costituzioni liberal-democratiche del secondo Dopoguerra. In particolare, il nesso normativo dignità-diritti è istituito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, fin dal Preambolo: “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Il documento è frutto di un percorso storico-politico tormentato dopo i totalitarismi, l’olocausto, i genocidi: il richiamo alla dignità diviene un monito a preservare l’umanità dalle sue stesse aggressioni. Una visione non certo legata, dun- que, alla razionalità e all’autonomia morale dell’uomo, ma al contrario alla consapevolezza di quanto egli possa essere di volta in volta prevaricatore violento o vittima inerme della sopraffazione dei suoi simili. Come ha osservato Michael Ignatieff, la Dichiarazione “è scritta nella piena consapevolezza di Auschwitz e nella consapevolezza nascente di Kolyma. La consapevolezza della barbarie europea è radicata nelle parole del preambolo […]. La Dichiarazione […] fu scritta quando la fede nell’Illuminismo stava affrontando la sua più profonda crisi. In questo senso, i diritti umani non sono tanto la dichiarazione della superiorità della civiltà europea quanto un monito degli europei perché il resto del mondo eviti di riprodurre i suoi stessi errori [Ignatieff 2001, p. 67]”. Considerazioni analoghe si potrebbero fare sulla Legge fondamentale tedesca del 1949, che si apre affermando: “La dignità della persona è intangibile. Al suo rispetto e alla sua protezione è vincolato l’esercizio di ogni potere statale. Il popolo tedesco riconosce pertanto i diritti umani inviolabili e inalienabili come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo” (art. 1). Da simbolo di orgoglio e superiorità qual era stata in età moderna, la dignità umana diventa nel Novecento un bene fragile, e proprio per questo meritevole di tutela giuridica. “Dopo Auschwitz”, si potrebbe dire, una fondazione puramente illuministica e razionalistica della dignità è divenuta per sempre impossibile. 48 A questo proposito non si può non accennare alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000), che ha fatto della dignità umana la propria pietra angolare. Dopo la proclamazione iniziale (“La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”, art. 1), gli articoli successivi tipizzano come oggetto di diritti alcuni beni che danno corpo alla dignità stessa (vita, integrità fisica e psichica, consenso libero e informato della persona interessata), e come oggetto di divieti alcuni comportamenti che la violano (pena di morte, pratiche eugenetiche, atti di disposizione del corpo a scopo di lucro, clonazione riproduttiva degli esseri umani, tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti, schiavitù, servitù, lavoro forzato, tratta degli esseri umani). Queste ultime previsioni confermano la vocazione contemporanea della dignità a operare come principio a tutela della fragilità umana e insieme come monito contro lo strapotere dell’uomo sull’uomo, anche in ambito bioetico. Un ruolo che emerge con nettezza in un altro importante documento giuridico, la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina, elaborata dal Consiglio d’Europa e firmata a Oviedo nel 1997. Essa, dopo aver sottolineato nel Preambolo che “un uso non adeguato della biologia e della medicina può condurre ad atti che minacciano la dignità umana”, afferma la volontà di tutelare “l’essere umano nella sua dignità e nella sua identità” (art. 1), e riconosce la che “l’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sull’interesse della società o della scienza” (art. 2). Sulla scorta di tali declinazioni giuridiche, si può dunque ricostruire una fisionomia della dignità idonea a rappresentare la condizione umana anche nelle sue espressioni più fragili e indifese. È questa versione della dignità che può consentire, ben più di quella kantiana, di includere anche la disabilità tra gli aspetti dell’umanità meritevoli di riguardo e protezione. A tal fine occorre però chiarire ulteriormente il concetto di dignità che ci si propone qui di adottare, trattandosi di una nozione semanticamente indeterminata, adattabile agli obiettivi delle filosofie e ideologie più svariate. Per dignità si intende qui anzitutto ciò che connota essenzialmente l’essere umano (concetto descrittivo che designa la specie biologica) in quanto persona (concetto normativo, nomen dignitatis). Dignità, in questa prospettiva, è una dotazione intrinseca della persona più che un risultato da conseguire: nessuno la attribuisce o la sottrae, a sé o ad altri; si può solo, con il proprio agire, riconoscerla o, di fatto, violarla. Oltre che un bene in sé, la dignità è anche un criterio normativo, che opera come limite dell’agire (per esempio, l’art. 41 della Costituzione italiana afferma che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno alla dignità umana) e come fine dell’agire (per esempio, l’art. 36 della stessa Costituzione prescrive che la retribuzione del lavoratore sia tale da garantire a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa). Proprio in forza di questa attitudine normativa la dignità umana è il fondamento dei diritti: “tutti i diritti umani derivano dalla dignità e dal valore inerente della persona umana” (Conferenza Mondiale di Vienna sui diritti umani, 1993). 49 La dignità, infine, è un universale concreto: esprime il nucleo indefettibile comune a tutta l’umanità ma si incarna nell’irriducibile singolarità delle persone. Tale dimensione individuale non comporta come esito scontato la relativizzazione soggettivistica: l’individuo portatore di dignità è una persona in relazione con altre persone, la sua identità si nutre di questa interdipendenza, e la sua dignità non è frutto di una costruzione volontaria completamente affidata al suo arbitrio, ma al contrario è una dotazione oggettiva che, sebbene si esprima e si attui in modo personale, lo accomuna ai suoi simili e lo ricongiunge ad essi. Come ricorda l’art. 1 della Dichiarazione universale, “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. 3. Integrare la vulnerabilità umana nel discorso morale La vulnerabilità che, come si è visto, va riconosciuta come propria dell’essere umano e parte essenziale della sua dignità, da rispettare e tutelare, ha una manifestazione paradigmatica nella disabilità. Il dato oggettivo che molte persone siano prive di quelle prerogative di razionalità, autonomia, integrità psico-fisica che nel paradigma moderno costituivano il valore dell’essere umano, in realtà non sminuisce per nulla la loro dignità, e rende pertanto desueto quel paradigma. Non a caso nei modelli filosofici contemporanei che hanno ripreso l’idea kantiana dell’uomo come essere razionale, libero e indipendente non vi è spazio per i disabili (1). Si può citare, a questo riguardo, la teoria di John Rawls, che esclude dalle questioni primarie di giustizia lo svantaggio dovuto all’handicap: “dato che partiamo dall’idea della società come equo sistema di cooperazione, noi assumiamo che le persone, in quanto cittadini, abbiano tutte le capacità che permettono loro di essere membri cooperativi della società stessa” [Rawls 1993]. La prospettiva razionalistica fondata sull’autonomia individuale, condotta all’estremo, può addirittura comportare l’esclusione dei disabili dalla comunità morale: per H. Tristram Engelhardt, ad esempio, i “ritardati mentali gravi” non hanno lo status morale di persone, riservato solo ai soggetti autocoscienti, capaci di scegliere e stringere accordi [Engelhardt 1986]. Le omissioni del pensiero liberale riguardo all’handicap sono state denunciate da varie filosofie che hanno riportato l’attenzione sul tema. In primo luogo i disability studies, campo di ricerca accademica connesso ai movimenti di rivendicazione sorti nel mondo anglosassone dagli anni ’60, hanno assunto la disabilità come categoria critica e hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica e la comunità scientifica, combinando analisi teorica e attivismo politico. Dopo una fase iniziale di lotta per la parità, tale orientamento ha privilegiato dagli anni ‘70 un’autocomprensione comunitaria, mirante a rivendicare la differenza e a promuovere la propria identità culturale [Davis 2006]. Al modello rawlsiano si contrappone poi esplicitamente il capability approach. Amartya Sen, in particolare, vede nella disabilità un problema primario di giustizia su scala globale, data la scarsa possibilità per le persone disabili di accedere alle 50 capacità e alle opportunità disponibili a tutti gli altri [Sen 2009]. Anche Martha Nussbaum ha ricondotto la disabilità al modello delle capacità ma ne ha accentuato il profilo antropologico. Le ingiustizie subite dai disabili sarebbero dovute anzitutto all’incapacità di riconoscere la dipendenza e il bisogno di cura quali caratteristiche diffuse dell’umanità [Nussbaum 2006]. Queste ultime considerazioni rinviano direttamente alla ethics of care, un paradigma teorico che ha criticato l’illusorietà dell’uguaglianza liberale, cieca rispetto alle sperequazioni che caratterizzano il dependency work, l’accudimento delle persone non autosufficienti, gravante quasi esclusivamente sulle donne senza alcun tipo di riconoscimento [Kittay 1999, p. 95]. Gradualmente si va dunque affermando anche nel pensiero filosofico l’attenzione a quei tratti di dipendenza e debolezza che segnano l’umanità, e la necessità di integrarli effettivamente nelle teorie etico-politiche accanto ai requisiti tradizionali di forza e autonomia. Se l’autonomia è aspirazione costitutiva di ogni persona, la vulnerabilità è caratteristica altrettanto ineliminabile. Una polarità presente in tutti gli esseri umani: “l’autonomia è quella di un essere fragile, vulnerabile. E la fragilità sarebbe soltanto una patologia, se non fosse la fragilità di un essere chiamato a diventare autonomo” [Ricœur 1995]. 4. Disabilità e dignità umana ovvio: esistono persone disabili, la grande maggioranza delle altre persone è immune dalle limitazioni che le colpiscono, e non sperimenterà mai su di sé la loro sofferenza. La specificità di tale condizione è di per sé fin troppo scontata. E tuttavia non è su questo che si fonda l’interrogativo morale suscitato dalla disabilità, ma al contrario sui fattori di continuità che sussistono tra disabili e non disabili: fattori reali, tanto più significativi e degni di attenzione quanto più la menomazione o la patologia tenderebbe a oscurarli, a farli dimenticare. La dignità del disabile dev’essere dunque ripensata guardando a lui in quanto individuo, persona, essere umano, prima che disabile. Ciò permette anche di evidenziare alcune criticità delle concezioni appena ricordate in tema di handicap: rispettivamente, (a) l’attenzione all’individuo corregge l’idea della disabilità come identità collettiva accreditata dai disability studies; (b) l’attenzione alla persona ridimensiona l’enfasi posta dal capability approach sulle capacità e sui funzionamenti; (c) l’attenzione all’essere umano evita gli opposti riduzionismi del liberalismo e della ethics of care, che in modo speculare assolutizzano, rispettivamente, l’indipendenza e la dipendenza quali cardini della condizione umana. Spostare l’attenzione da ciò che separa disabili e non disabili a ciò che invece li accomuna può essere un primo contributo al fine di preservare e valorizzare la dignità di ogni essere umano. La consapevolezza della vulnerabilità come caratteristica diffusa dell’umanità non può certo indurre a misconoscere un dato 51 a. Dignità del disabile in quanto individuo: oltre la categoria Tutelare giuridicamente le persone con disabilità non significa proteggere un’identità collettiva o una categoria in quanto tale; significa proteggere in primo luogo individui affetti da specifici problemi che richiedono risposte adeguate. Destinatari della tutela restano comunque i singoli individui: i diritti “dei disabili” sono diritti individuali, non diritti di una comunità. Si proteggono diritti dei disabili non per promuovere gli interessi di un gruppo, bensì per permettere una vita migliore a individui svantaggiati, secondo la stessa logica e per le stesse ragioni che giustificano la previsione di diritti umani universali. Fondamento di tale tutela è l’esigenza di preservare non tanto un’identità nella sua specificità, bensì la dignità comune a tutti gli esseri umani. Promuovere l’autocomprensione comunitaria della disabilità come minoranza oppressa, come hanno fatto i disability studies a partire dagli anni ’70, comporta il rischio di creare un’identità collettiva separata e autoreferenziale, e ciò rischia di tradursi in un ostacolo all’effettiva tutela dei diritti individuali dei disabili [Shakespeare 2006]. Del resto, la capacità di guardare alla persona disabile nella sua unicità corrisponde, ben prima che a una concezione teorica, a un’esigenza intuitiva, tanto più “vitale” quanto più stretto è il legame con la persona stessa. Dalle testimonianze di chi ha un familiare disabile emerge spesso la necessità irrinunciabile di vedere in lui un essere assolutamente unico, un individuo a sé, e non certo l’esemplare rappresentativo di una categoria. Eva Kittay, a proposito di sua figlia, affetta dalla nascita da una grave disabilità psichica, ha parlato del “bisogno di considerare Sesha come un’eccezione, non come membro di un gruppo stigmatizzato” [Kittay 1999, p. 289]. Analogamente, Michael Bérubé scrive a proposito di suo figlio, affetto da sindrome di Down: “Jamie è completamente sui generis, e quando sono con lui non riesco a pensare a lui se non come Jamie” [Bérubé 1996, p. X]. Sottolineare il primato dell’individualità della persona disabile rispetto alla sua appartenenza alla “categoria” dei disabili significa restituire alla persona la sua dignità e unicità, che precede la sua qualificazione come disabile e la sua assimilabilità ad altri soggetti che condividono lo stesso limite. È stato detto giustamente che i “diritti dei disabili” non dovrebbero essere un’aggiunta specifica alla lista dei diritti civili, bensì il loro pieno compimento [Bérubé 2009]. b. Dignità del disabile in quanto persona: oltre le capacità Su un piano di riflessione etico-antropologica, le nozioni di capacità e funzionamento accreditate dal capability approach presentano un limite: enfatizzano ciò che una persona può o dev’essere in grado di essere e di fare, anziché il fatto prioritario che quella persona “semplicemente” c’è, esiste, e ha comunque per ciò stesso un valore intrinseco incommensurabile. Una persona infatti non è la somma delle sue abilità, non è riducibile a ciò di cui è capace, né può essere definita in base ai suoi deficit. Come ha scritto Robert Spaemann, “[v]i sono qualità che ci spingono a definire gli uomini «persone». Tuttavia, 52 ciò che chiamiamo persone non sono queste qualità, ma coloro che le portano”. Che il valore di una persona e il significato della sua vita trascendano le sue capacità e i suoi funzionamenti vale a maggior ragione per i disabili: “il fatto che nella comunità di riconoscimento dell’umanità si tratti realmente del riconoscimento dell’essere se stessi e non, in realtà, soltanto della valutazione di qualità utili o gradevoli, diventa completamente chiaro nella relazione con coloro che non hanno tali qualità” [Spaemann 1996]. La priorità ontologica e assiologica della persona rispetto alla sua condizione accidentale di abile o disabile è alla base dell’approccio fenomenologico alla disabilità come esperienza umana. Ne sono un esempio significativo gli studi della filosofa statunitense S. Kay Toombs, colpita più di trent’anni fa da una forma di sclerosi multipla che l’ha condotta progressivamente a perdere del tutto ogni autonomia fisica: “Per offrire rispetto alle persone con disabilità si deve guardare oltre lo stereotipo, alla persona. Le persone che vivono con disabilità sono persone, semplicemente questo, in primo luogo e principalmente persone. Se ti concentri solo sulla mia disabilità, essenzialmente rendi me invisibile. Prestando attenzione alla persona e non alla disabilità, gli altri attestano che la limitazione fisica o mentale non sminuisce il valore personale”. [Toombs 2009, p. 344] La necessità di considerare i disabili come destinatari di cure professionali e di forme specifiche di assistenza non deve oscurare il fatto che essi sono anzitutto persone. La loro esistenza dovrebbe indurre a riflettere su ciò che vi è di comune tra loro e tutti gli altri, su “ciò che ci definisce nella nostra essenzialità, al di là delle nostre competenze, del nostro sapere, dei nostri doni, delle nostre debolezze”. Come scrive Jean Vanier, fondatore dell’Arche, comunità di accoglienza per disabili mentali con sedi in tutto il mondo, “Un handicap è fonte di una sofferenza che rischia di mettere in ombra tutto il resto della persona. Spesso, quando si guarda un portatore di handicap, non si vede che questo; lo si guarda con tristezza, a volte con pietà. Eppure i portatori di handicap sono, prima di tutto, delle persone che vivono pienamente”. [Vanier 1998, p. 25] c. Dignità del disabile in quanto essere umano: oltre l’indipendenza È interessante notare che la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità promuove l’indipendenza non come fine in sé ma come condizione per partecipare alla vita comunitaria, “al fine di impedire la segregazione e l’isolamento” (art. 19). La nozione di “vita indipendente” è associata alla “inclusione nella società”, e implica principi quali partecipazione, accesso ai servizi e all’assistenza (art. 19); anche in tema di accessibilità l’indipendenza è connessa alla partecipazione (art. 5). Anche la legge italiana 104/1992 associa ripetutamente l’autonomia alla partecipazione, all’integrazione sociale, alla comunicazione (artt. 1 [a], [b]; 5; 13.3; 16.3). 53 L’indipendenza non dovrebbe dunque diventare un ideale assoluto. È certo auspicabile che essa sia promossa con adeguati interventi politico-legislativi; ma senza eludere un dato antropologico fondamentale: nessuno è del tutto indipendente, nemmeno i non disabili; tutti gli esseri umani vivono di relazioni, comprese le relazioni di aiuto. Sono “animali razionali dipendenti” [MacIntyre 1999]. La cultura oggi dominante censura invece l’idea stessa di “dipendenza”. Basti pensare all’ideale utopico di salute e benessere come assenza di limitazioni e completa integrità fisica e mentale: esso ostacola non solo l’accettazione della malattia e dell’invecchiamento quali dimensioni naturali della vita, ma anche la possibilità di scorgere una dignità nella condizione disabile. L’illusione dell’autosufficienza porta a misconoscere la dimensione relazionale della vita umana e la dipendenza come componente costitutiva di tale relazionalità: “Viviamo in un mondo in cui la piena indipendenza dall’aiuto e dalla benevolenza altrui può essere un obiettivo molto difficile da raggiungere, e a volte può non essere nemmeno l’obiettivo più importante”. [Sen 2009, p. 315] In conclusione, ripensare l’umanità senza ridurla all’indipendenza e alle capacità, e dissipare l’ideologia di una presunta “identità disabile” è forse il principale contributo che la teoria può dare alla dignità dei disabili. Si tratta “semplicemente” di riavvicinarli a tutte le altre persone, prendendo coscienza della comune umanità. In fondo, ciò che in essi interpella e provoca è proprio la consapevolezza che nella loro condizione avrebbe potuto (o potrà) trovarsi chiunque (si pensi a infortuni o malattie che in breve tempo rendono disabili persone fino ad allora perfettamente sane). Per tutelare pienamente la dignità delle persone disabili occorre “una filosofia in grado di integrare la vulnerabilità endogena degli esseri viventi in generale e dell’essere umano in particolare” [Kristeva 2011, p. 9]. Note 1. Sono qui ripresi e sviluppati alcuni temi affrontati in forma diversa in M. Zanichelli , Persone prima che disabili. Una riflessione sull’handicap tra giustizia ed etica, Brescia, Queriniana, 2012. Bibliografia citata M. BÉRUBÉ, Life As We Know It. A Father, A Family and An Exceptional Child, New York, Pantheon Books, 1996; M. BÉRUBÉ, Citizenship and Disability, in R.M. BAIRD, S.E. ROSENBAUM, S.K. 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Tre premesse Sono cosciente che il titolo della mia conferenza può dar adito a malintesi e per questo mi pare importante fare tre premesse per fugare subito alcuni legittimi dubbi. In primo luogo ci si può domandare se non ci troviamo dinanzi a una contraddizione: se c'è qualcosa che contraddistingue l'essere umano, qualcosa di specificamente umano, questo è senza dubbio la parola. Sin dagli antichi greci l'uomo è lo zoon logon ekon, l'animale razionale secondo la tradizione occidentale ma, eccepisce Heidegger, «animale razionale» è una traduzione limitativa, perché logos significa anche parola e ciò che caratterizza l'uomo per il filosofo tedesco non è tanto la ragione quanto invece il linguaggio, il logos in quanto verbo, la capacità di parlare e di creare parole (1), al punto che il linguaggio potrebbe costituire l'elemento per eccellenza per fondare la dignità umana, o per lo meno per ripristinare l'umanità: mi pare interessante segnalare a questo proposito le esperienze di rieducazione di giovani criminali condotte in Svizzera con il metodo della verbalizzazione e della scrittura: ci si rende conto, anche sulla scorta di studi americani corroborati però dalla pratica, che esiste un significativo parallelismo tra il disordine verbale di una persona e il disordine della sua vita: «quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su noi stessi» (2), e dunque la parola, il fatto di verbalizzare e articolare secondo un ordine le esperienze di violenza subite o com56 piute, consente di oggettivare tale vissuto e distanziarsene, collocarlo in una prospettiva umana; da qui un potere quasi taumaturgico della parola, un suo stretto legame con quanto ci identifica più umanamente e quindi, indirettamente, con la dignità). Del resto i greci consideravano barbaro, cioè non umano o comunque di un livello umanamente inferiore, chi secondo loro non era dotato della capacità di parlare la lingua greca, chi difettava del linguaggio per antonomasia. Dunque, la parola è un fattore fondamentale di dignità umana. E il silenzio in tutto questo? Se la parola contraddistingue l'umano, il silenzio non ci porta ad un livello subumano, non degno dell'umanità? Il silenzio di cui vorrei discorrere stasera non è opposto alla parola, anzi, come vedremo, sta alla base della parola e la legittima; quindi il primo dubbio è fugato poiché la parola ha una grande parte nella definizione della dignità umana. In secondo luogo vorrei precisare anche subito che il silenzio di cui tratterò non rientra nella generale retorica della purificazione che in diverse forme va qua e là diffondendosi nelle nostre società. Viviamo in un mondo dominato dalla logica dell'incremento, della crescita, con evidenti effetti collaterali: inquinamento, aumento dei ritmi lavorativi e della redditività, consumo di materie prime non rinnovabili, deforestazione, congestione delle vie di comunicazione, pervasività dell'informazione, onnipresenza di rumore e via dicendo. In un simile contesto si levano sempre più insistentemente voci critiche e vengono investite anche molte energie per contenere le ripercussioni di tale modello di crescita. Si moltiplicano gli sforzi e le proteste per ridurre l'impatto ambientale dei nostri modelli di vita, ridurre lo stress da lavoro, ridurre il consumo di energia, ridurre la produzione di rifiuti, ridurre il traffico ecc. Si inizia a promuovere l'idea che occorre sostituire la logica dell'incremento con una logica della riduzione, entrare nell'èra del «meno», The Age of Less (3). In questa sorta di fuga dagli eccessi e da quello che è stato definito l'horror pleni, il silenzio può rappresentare ‒ e di fatto rappresenta ‒ una mèta ambìta o per lo meno la direzione da seguire per ritrovare una dimensione umana autentica; del resto, anche in Italia la letteratura sul silenzio inteso in questo senso non manca; ricordo ad esempio il libro di uno studioso inglese pubblicato da Feltrinelli nel 2008 in cui la nostalgia del silenzio assurge addirittura a rivendicazione politica e assume la forma del manifesto. Nel suo Manifesto per il silenzio Stuart Sim, volendosi fare interprete di una generale preoccupazione per il rischio di estinzione di questo fenomeno, propone un vero e proprio programma a sostegno della tutela del silenzio in ambito sociale, politico e globalmente umano (4). Ecco, il silenzio di cui vorrei parlare stasera comprende evidentemente anche questo aspetto, ma non pertiene precipuamente a questa logica della fuga da una realtà assordante, non si oppone quindi in primo luogo al rumore. E la mia terza e ultima premessa per ben instradare la nostra riflessione concerne evidentemente la via mistica. Il silenzio è un vettore privilegiato di esperienze spirituali o comunque alogiche; nella nostra tradizione occidentale costituisce una forma di sigillo e quasi una prova dell'elevatezza, dell'eccellenza dei contenuti vissuti. Il cammino della speculazione filosofica 57 è costellato di pensatori che, pur nella diversità innegabile delle loro dottrine, condividono una diffidenza più o meno accentuata nei riguardi dell’approccio dialettico della realtà, considerandolo insufficiente e poco idoneo per raggiungere un’intelligenza soddisfacente ed autentica dell’essere e che, di conseguenza, subordinano le capacità descrittive del discorso predicativo alle illimitate potenzialità euristiche del silenzio. Un esempio tratto dalla fine del 400, il secolo che con Pico della Mirandola ha riscoperto e celebrato l'umano e la nozione stessa di dignità umana: Nicola Cusano sottolinea che «la nostra ricerca della sapienza ineffabile [...] è possibile più nel silenzio e nella visione, che nel parlare e nell’ascoltare» (5). Ora, non è mia intenzione questa sera invitarvi a fare qualsivoglia esperienza mistica parlandovi del silenzio o dell'ineffabile. Riassumendo, dunque, il silenzio di cui vorrei trattare stasera: - non si oppone alla parola; - non si oppone al rumore; - non si oppone alla ragione. Mi pareva importante fare queste premesse per preparare il «terreno» ma anche per evidenziare quanto la nozione di silenzio sia densa di significati, connotata socialmente e filosoficamente e direi connotata in un modo che la rende quasi scomoda per riflettere su un concetto come la dignità umana, la rende una nozione poco pertinente, impertinente anzi, forse inutile. Max Picard, il filosofo svizzero che ci accompagnerà stasera, ha scritto: «Il silenzio è oggi l'unico fenomeno "senza utilità" [ohne Nutzen]. Del resto non s'addice all'odierno mondo dell'utile, si limita ad esistere e sembra non avere alcun altro scopo, né si presta a qualsivoglia sfruttamento» (6). Il silenzio è privo di utilità: ecco, stasera vorrei mostrare che proprio per il fatto che è estraneo alla logica dell'utile, il silenzio può aiutarci a pensare la dignità umana in una prospettiva diversa. In che senso però il silenzio può avere un rapporto con la dignità umana? Per rispondere occorre dapprima esaminare rapidamente i capisaldi della dottrina picardiana del silenzio. 2. Una metafisica del silenzio La prospettiva in cui si muove il pensiero di Picard è la presenza o presenzialità (Gegenwärtigkeit); siamo cioè di fronte a un pensiero attento alle cose, alle persone e ai fenomeni nel loro apparire assoluto, assoluto in quanto liberato dalle innumerevoli connessioni (oggi, è bene ricordare, tutto sembra dover essere per forza interconnesso) che secondo il nostro occultano l’essenza originaria delle cose; scrive per l’appunto Picard: «ho sempre tentato nei miei libri di liberare i singoli oggetti e fenomeni dalle migliaia di relazioni, di rendere l’oggetto chiaramente visibile in se stesso, in modo che l’uomo potesse di nuovo avere un incontro con il mondo come esso veramente è: ossia un oggetto nettamente separato dall’altro» (7). 58 In questa sorta di archeologia (o archeofanìa) del presente, in questa lettura poetica del reale (come la definì Lévinas), che non intende superare le cose in un sistema concettuale ma semmai metterne in evidenza lo spessore e l'inesauribilità prima ancora di qualsivoglia cattura concettuale (prima di ogni Be-griff) da parte della ragione, il silenzio riveste un ruolo centrale. Ma, e qui la precisazione è fondamentale, il silenzio non interviene quale facilitatore o vettore di un certo tipo di incontro con le cose, bensì assume importanza proprio quale ingrediente irrinunciabile dell’essere, coefficiente di sostanzialità e, in definitiva, vera e propria dimensione metafisica della realtà. Per Picard, a tutela dell’oggettività del reale esiste un mondo del silenzio, da intendere come una dimensione dell’essere nella quale si attua, si dispiega, una delle componenti ontologicamente più pregnanti del reale. A proposito di questa valenza oggettiva del silenzio è opportuno leggere direttamente quanto scrive Picard: «Una volta il silenzio ricopriva tutte le cose. Prima di potersi avvicinare a un oggetto, l’uomo doveva innanzi tutto infrangere l’involucro del silenzio, e il silenzio si ergeva anche dinanzi ai pensieri che l’uomo voleva pensare. L’uomo non poteva gettarsi direttamente sui pensieri e sulle cose, poiché questi erano protetti dal silenzio che li circondava; ed egli era a sua volta trattenuto dal volgersi troppo precipitosamente verso di loro. Il silenzio stava dinanzi ai pensieri e alle cose, in una presenza oggettiva, e si ergeva davanti ai pensieri e alle cose come un oggetto. L’uomo si muoveva lentamente e con timidezza verso i pensieri e verso le cose; il silenzio si frapponeva sempre nel moto tra un pensiero e l’altro, tra una cosa e l’altra e il ritmo di questi movimenti era scandito dal silenzio. Ogni movimento era un atto particolare. Prima di poter avanzare si doveva rimuovere il silenzio, la roccia primordiale del silenzio; ma poi, una volta pervenuto ad un pensiero, l’uomo era veramente in esso e anzi solo in quel momento il pensiero o la cosa erano veramente presenti: veniva generata una presenza, talmente l’uomo era dentro il pensiero o la cosa». [MS, 191] Ecco, il silenzio non è uno stato in cui possiamo collocarci a seconda delle circostanze (il minuto di silenzio in onore di qualcuno o di qualcosa, ad esempio), il silenzio è una dimensione dell'essere, ha rilevanza ontologica in quanto sigillo, guaina metafisica che avvolge gli enti e certifica la loro separazione. Il silenzio, dice ancora Picard, rafforza la sostanzialità delle cose, restituisce le cose a se stesse, ne ripristina l'integrità. Per capire il messaggio di Picard occorre allora capovolgere la nostra prospettiva abituale: siamo abituati a concepire il silenzio come qualcosa che si ottiene per attenuazione di stimoli acustici; per Picard esso esiste indipendentemente da ogni volontà e al cessare del rumore diviene semmai percepibile (8). Ora, se analizziamo più da vicino il rapporto tra essere e silenzio ci accorgiamo che quello che Picard definisce il «grande mondo dell'oggettività del silenzio» delinea una dimensione 59 nella quale si esercita un atto di sostanzialità caratterizzato da quattro momenti: 1. momento di stasi, di arresto, nel quale il divenire cede il posto all’essere («Nel silenzio la sostanzialità delle cose è rafforzata») e l'ente può pertanto esercitare pienamente la propria virtù entitativa; 2. in secondo luogo un momento di coesione formale, di integrità e interezza e pertanto di separazione degli enti; il silenzio è indice inequivocabile di quell'autonomia grazie alla quale ogni cosa è più in rapporto con se stessa, è più per sé che non per altro (9); 3. in terzo luogo, un momento di verticalità, di rapporto diretto con la profondità, con quello che l'autore chiama il «fondo» delle cose (10), con quell'area di intimità in cui ci si può muovere solo in silenzio. Questa capacità che ha il silenzio di instaurare una relazione verticale è importante soprattutto sotto il profilo antropologico, perché il silenzio è il centro dell'uomo, è la sede in cui si origina ogni atto veramente umano, ad esempio la parola (11); 4. e infine un momento di eccedenza, di vera dignità della forma intesa come perfezione dell’ente, chiaro oltrepassamento di quanto è meramente necessario in un eccesso («das Mehr»), in un sovrappiù rispetto a ogni sua strumentalizzazione e subordinazione utilitaristica (il silenzio è «sacra inutilità») (12). Stasi, separazione, fondo, eccesso. L’origine delle cose, la venuta all’essere è per Picard innanzi tutto un atto di separazione, un atto di santità nel senso etimologico del termine (13). Le cose esistono perché separate, giacché l’atto separa (Aristotele) (14) e, come ha sottolineato anche Jeanne Hersch, la separazione è la cifra della creazione (15). Il silenzio è suggello di chiusura e di separazione e ciò che si separa emerge dallo sfondo dell’indistinto e dell’amorfo, accede all’essere. 3. Il rispetto delle cose Silenzio, essere, separazione, forma. L'opera di Picard mira a riscoprire il silenzio quale dimensione essenziale della realtà, descrive, come aveva visto Bachelard, la sottile coefficienza del silenzio nella fenomenicità del mondo (16) ma, mi pare di poter dire, nel suo intento di rendere manifesto il silenzio (17) vuole innanzi tutto ripristinare le cose nella loro autonomia entitativa, nella loro integrità (Unversehrtheit) e, direi, nella loro dignità. Come bisogna intendere infatti questa dottrina del silenzio, questa metafisica del silenzio? Credo che questa rivalutazione sia da riallacciare al concetto di fenomeno originario (Urphänomen), mutuato da Goethe, al concetto cioè di una realtà irriducibile. La prova inequivocabile dell'oggettività del reale risiede per Picard nell'anteriorità, nella datità a priori (das Vorgegebene), di fenomeni fondamentali e irriducibili che costituiscono l'orizzonte dell'agire umano e la misura dell'essere nel mondo. I fenomeni originari sono irriducibili non nel senso che vi sia un limite alla loro analisi, ma piuttosto per60 ché segnano il limite di pertinenza oggettiva per l'essere umano, sono dei paradigmi reali di interezza. Il silenzio è fra i fenomeni originari quello che racchiude più oggettività, quello che permea di se stesso tutti gli altri e, forse proprio per questo, il primo. Scrive Picard: «Il silenzio è un fenomeno originario, ossia è una datità primaria non riconducibile a nulla d'altro. Non può essere sostituita da nient'altro né con altro scambiata e dietro di essa non vi è nulla a cui riallacciarla, tranne il Creatore medesimo. Il silenzio esiste originariamente e naturalmente come gli altri fenomeni originari, come l'amore, come la fedeltà, come la morte e come la vita stessa. Il silenzio però esisteva prima ancora di tutti gli altri fenomeni originari ed è presente in ognuno di essi. Fra i fenomeni originari è quello primigenio; ingloba gli altri, l'amore, la fedeltà, la morte, sicché in essi vi è più silenzio che manifestazione, nell'amore, nella fedeltà, nella morte vi è più silenzio di quanto si mostri amore, fedeltà e morte nel mondo» (18). Siamo allora in grado di capire meglio cosa intende Picard quando afferma che il silenzio «conferisce alle cose che lo abitano parte della sua sostanzialità», oppure quando aggiunge che «Nel silenzio la sostanzialità delle cose è rafforzata» (19). Si tratta di sottolineare l'irriducibilità di ogni ente, la sua dignità, dovuta all'incidenza del silenzio che, in quanto fenomeno originario, non rimanda a nulla di altro, è un assoluto, non è scomponibile in parti più elementari. Ogni cosa, ogni ente, merita rispetto, ha una propria dignità, perché ogni ente prima ancora di essere il risultato di un processo o prima ancora di essere la somma delle sue parti è un'unità totale dotata di una propria intelligibilità e di un propria originalità ontologica. Tutti voi, credo, conoscete la metafora della ghianda e della quercia di Hegel: la verità della quercia, dice Hegel, non sta nel suo seme o nella ghianda o nella quercia stessa, ma in tutto il processo (dialettico) che dal seme porta alla ghianda e poi alla pianta matura. «Das Wahre ist das Ganze» (20), la verità è il tutto, sottinteso tutto il divenire dell'essenza. Ebbene, per Picard la stasi, la presenza, cancella il divenire, crea un nuovo ordine a sé stante: «Oggi nelle scuole si è soliti mostrare ai bambini un filmato che descrive lo sviluppo di un fiore partendo dal suo seme. La metamorfosi si dipana lentamente sotto gli occhi dei bambini. Ma il prodigio non consiste nella crescita del fiore davanti a noi, bensì nella sua presenza, nel fatto che il fiore è talmente presente come se non fosse mai divenuto, poiché in realtà il suo sviluppo è risolto nella sua esistenza presente. Questo è il miracolo, il fatto che il fiore sia qui come se mai fosse divenuto». (21) La presenza, la stasi, annulla il divenire, instaura una nuova intelligibilità, genera un irriducibile (ma anche un inesauribile direbbe Pareyson) e il silenzio che avvolge le cose è come il sigillo di questa separazione, la prova visibile (vedremo perché «visibile») che siamo in presenza di una alterità. Del resto, la risposta a Hegel è proprio questa: «Solo dinanzi al silenzio si dispiega l'unità totale di una cosa (Nur vor der Breite des Schweigens breitet sich das Ganze eines Dinges aus)» (22). 61 Se ripensiamo a quanto abbiamo detto all'inizio, cioè che l'intenzione di Picard è di «liberare i singoli oggetti e fenomeni dalle migliaia di relazioni, di rendere l’oggetto chiaramente visibile in se stesso», scopriamo che questa impostazione di fondo non ha mire speculative ma è animata proprio da un intento etico, dalla preoccupazione di ripristinare gli enti nel loro statuto appropriato di unità totali affinché possa avvenire un incontro al giusto livello ontologico fra l'uomo e l'essere («in modo che l’uomo potesse di nuovo avere un incontro con il mondo come esso veramente è»). La nozione di incontro è qui particolarmente importante: oggi per dimostrare la realtà dell'essere contro il pensiero postmoderno si afferma che occorre incontrare le cose in quanto esse hanno d'inatteso, di eccedente la rappresentazione, di «inemendabile» (23). È giusto, ma direi che non basta incontrare le cose, occorre incontrarle al giusto livello, a un livello che corrisponda alla loro integrità, alla loro dignità. Ma qual è questo livello adeguato, quando è dato incontrare le cose nella loro integrità (Unversehrtheit)? Ebbene, l'ente ripristinato nella sua verità, nel suo essere separato, nella sua interezza, è definito immagine (das Bild) e l'immagine non solo richiede un approccio integrale ed etico, che preservi l'integrità della stessa (24), ma si costituisce essa stessa attraverso il rispetto, il respicere, il fatto di guardare indietro al suo archetipo, al punto che il rispetto è l'atto costitutivo dell'immagine, la vocazione intima di ogni cosa: meno, perché ora sono a casa. La lontananza, da cui provengono, è risolta in splendore: si volgono indietro brillando». (25) «Le parti di una cosa convergono tendenzialmente verso la loro origine; nell'immagine sono; l'anelito verso l'origine viene La fisiognomica si è tradizionalmente affermata come la scienza della lettura dell’indole umana attraverso l'aspetto esteriore del corpo, segnatamente i tratti del viso, quasi una sorta di de- L'apparire delle cose in quanto immagini è splendore del rispetto. Vedete che in Picard, come in Lévinas, l'etica si fa estetica, ma si fa estetica perché il rispetto è iscritto nelle cose stesse. Ho visto che una delle lezioni di questo ciclo s'intitolava «Dignità Umana e bellezza», credo che nell'estetica di Picard vi sia una componente etica anche molto forte. Per esemplificare questa valenza etica dell'immagine mi sembra interessante analizzare brevemente come il silenzio agisce in quell'immagine per eccellenza che è il volto umano. In fondo, la critica di Picard alla fisiognomica classica mira appunto a salvaguardare la dignità umana in una scienza che apparentemente pare contraddire l'irriducibilità dell'umano a prospettive altre, subordinate. 4. Critica della fisiognomica Picard ha scritto tre opere sulla fisiognomica, ma l’attenzione alle fattezze dell’uomo, e anzi alle fattezze di tutta la realtà, attraversa l’intera sua opera, talché alcuni non hanno esitato a definire l'impostazione generale del suo metodo come una sorta di fisiognomica dell’essere. 62 cifrazione dell’apparenza per scoprire ciò che questa esprime (26). In questa prospettiva il volto assume uno statuto particolare poiché concentra nei suoi lineamenti l’espressione di tutta l’anima («Imago animis vultus est», sentenziava Cicerone) e perché è l’area privilegiata del corpo per accedere al mondo. In virtù della sua esposizione e patenza (la sua nudità direbbe Lévinas) (27) il viso è la parte del corpo che più manifesta la dimensione profonda dell’uomo e, nel contempo, per la sua apertura sul mondo, si dichiara anche quale vettore di esplorazione dell’esteriorità, come la parte del corpo più protratta in avanti (28). È un'esperienza che facciamo quotidianamente: il volto è la parte del corpo nella quale più facilmente ci identifichiamo e, viceversa, è la parte del corpo nella quale generalmente ci facciamo riconoscere. Ma questa centralità del volto non è dovuta per Picard alla sua trasparenza (un assunto regolarmente rimproverato alla fisiognomica) (29), bensì alla traccia di una decisione, all'espressione di una distanza. La logica della decifrazione immediata presupposta normalmente dalla fisiognomica sminuisce anzi per Picard i due termini in relazione, perché ne occulta sia la specificità sia la dignità. Infatti, se vi fosse corrispondenza assoluta tra l’interiorità umana e la forma del viso, l’interiorità sarebbe riducibile alla sua espressione plastica, sarebbe limitata ai tipi o alle forme caratteriali che traspaiono nei tratti somatici perdendo qualsivoglia mistero, libertà e complessità. D’altro canto, se non fosse che segno esteriore di caratteristiche soggettive, se la sua forma si esaurisse nell’espressione di elementi della personalità, il viso diventerebbe semplice strumento subordinato a una funzione di significazione e perderebbe la sua natura di fenomeno origina- rio, ossia il fatto di essere una datità primaria che trova il proprio senso nella sua stessa immediata presenza: «Proprio qui sta la dignità del volto umano, nel fatto che nel volto l’uomo decide se accettare ciò che l’immagine del viso esprime in silenzio. In questa decisione l’uomo è sottratto dal mero corso naturale delle cose e si ricrea una nuova natura grazie allo spirito» (30). Il volto dunque, lungi dall’essere mera espressione dell’anima, è il luogo di una decisione, è segno concreto e visibile di una netta separazione tra due grandezze a sé stanti, il viso e l’interiorità. La fisiognomica di Picard pone certo i due ordini in relazione, ma il loro reciproco rapporto non è necessariamente univoco, di diretta corrispondenza (31). L’uomo può essere perfettamente identico al suo aspetto, ma non lo deve necessariamente, ha la libertà di essere diverso dal suo viso (32), proprio perché il rapporto tra questi due ordini non è l’equivalenza diretta, bensì lo scambio dinamico tra dimensioni a sé stanti, contemperazione e bilanciamento di istanze eterogenee: «Come abbiamo detto, non importa che l’esteriorità, il viso, appaia secondo la natura dell’interiorità, importa invece che il viso aiuti l’interiorità ad essere una vera interiorità. Non conta che il viso sembri cattivo nonostante che l’interiorità sia buona. Conta però che il viso assuma su di sé la cattiveria affinché l’interiorità possa essere buona, – questa è la vera corrispondenza» (33). A livello fenomenologico tale complessa relazione dinamica ha il suo corrispettivo nella traccia iscritta nel volto stesso di una 63 doppia separazione: separazione del volto dal resto del corpo e, più profondamente, separazione del volto dalla propria forma. La decisione è iscritta dapprima nella collocazione del viso rispetto al resto del corpo, nel distacco netto dall’oscurità amorfa (Ungegliedert) della nuca e del cranio, un distacco che rievoca l’atto deciso, la sorpresa, della sua venuta all’esistenza. (34) Vi è dunque una separazione tra il corpo e il viso che situa quest’ultimo a un altro livello e che è all’origine della sorpresa e della novità che accompagna ogni epifania del viso (35). Il volto non è la continuazione di altre parti del corpo, ma è una forma a sé stante, separata e ben delimitata. Ma il viso è poi separato anche rispetto alla sua stessa forma. La decisione si manifesta come presenza di un eccesso di sostanzialità nel viso umano, eccesso che rende questa parte del corpo leggera e fluttuante (schwebend) sul suo sostrato fisico e ne fa un’entità che sfugge ad ogni com-prensione (36), un'entità che come dice Lévinas è presente nel suo rifiuto di essere contenuta (37). Il viso è uno spiraglio aperto direttamente sull’eterno, è scolpito nell’eternità (38), sicché nella sua apparizione pare riferirsi più ad un archetipo, all’idea, che non all’uomo. Nel viso, più che in ogni altro apparire, si manifesta quella discreta (silenziosa) dialettica che lega l’immagine al suo prototipo (Urbild) e che fa di ogni apparizione una risposta inadeguata e quindi sempre nuova ad un assoluto inesprimibile (39). È proprio in questa iconicità (Bildhaftigkeit), in questo rapporto di apertura sull’infinito, in questo débordement della forma (Levinas) per eccesso di sostanzialità (das Mehr) che Picard situa fenomenologicamente la possibilità di scelta e di decisione dell’uomo, lo scarto che connota il libero arbitrio: «Il viso è apparenza, immagine, si libra sopra la forma umana, ne è svincolato, pronto ad essere accolto. E l’immagine, leggera e fluttuante, non grava sull’interiorità, l’interiorità e l’esteriorità restano distanti l’una dall’altra: l’iconicità è il fondamento formale della libertà dell’interiorità rispetto all’esteriorità» (40). La traccia dell’infinità nel viso, l’inesauribilità del suo darsi nell’apparenza, l’eccesso di sostanzialità e la refrattarietà ad ogni categorizzazione, tutte caratteristiche che fonderanno peraltro la filosofia levinassiana del volto, hanno per Picard il loro fondamento nell’iconicità del viso, nel suo essere immagine, il che, secondo la logica fenomenologico-fisiognomica picardiana, è dovuto a sua volta alla presenza attiva del silenzio, al fatto cioè che il viso è intriso di silenzio. Il silenzio è anzi un organo del viso: «Il silenzio è come un organo nel viso umano. Nel viso non ci sono soltanto gli occhi e la bocca o la fronte, ma vi è anche il silenzio. Esso è ovunque nel viso, è il sostrato di ogni sua parte» (41). Il silenzio è il centro invisibile verso cui convergono tutte le parti che compongono il viso e da cui queste sono ordinate. Nella loro diversità, l’occhio, il naso, la bocca e ogni altra parte del viso costituiscono un’unità coerente grazie proprio alla forza unificante del silenzio. Anche nella fisiognomica agisce la concezione ontica del silenzio che informa tutto il pensiero di 64 Picard. Nel silenzio, come abbiamo visto, le cose sono più connesse con se stesse che con quanto le circonda (42). Per questo il viso sembra fluttuare sopra la sua forma. In questa leggerezza alberga la risposta all’atto creatore, la vocazione prima del viso che è innanzi tutto di essere risposta all’esistenza e a chi dell’esistenza è all’origine: «Il viso umano è più rivolto verso Dio che non verso l’uomo, è innanzi tutto risposta a Dio; risponde al Creatore. Questa risposta avviene nel silenzio. Tutto nel volto è retto in funzione di questa risposta. Il viso si esprime e diviene chiaro per gli uomini soltanto nella misura in cui la risposta a Dio, il silenzio rivolto a Dio, lo permette. La chiarezza ed espressività verso gli uomini è subordinata a questo silenzio» (43). Io credo che sottolineare che ogni chiarezza ed espressività del viso è subordinata al silenzio significa porre nel cuore dell’esposizione fenomenica della persona, cioè nel viso, la presenza attiva di uno scarto, di una distanza rispetto alla logica dell’esibizione, e quindi farne une segno visibile della primazia della dignità umana su ogni tentativo di lettura totalizzante (44). Il silenzio, la subordinazione dell’apertura del viso al silenzio, consente all’uomo di decidere se assumere o meno nel proprio viso la propria interiorità, è dunque il fondamento della distanza dalla propria natura, è il fondamento dell’eccentricità con cui l’uomo relativizza la propria esistenza, con cui «esce» da se stesso e invece di essere semplice tramite della natura agisce liberamente, si fa persona (Robert Spaemann) (45). 5. Conclusione: il silenzio e l'intero Siamo partiti dalla mancanza di utilità del silenzio. Abbiamo visto che questa refrattarietà del silenzio ad ogni strumentalizzazione è da associare alla sua pura sostanzialità e alla sua capacità di rendere le cose assolute. Abbiamo poi descritto come si manifesta e come si esercita (in quattro momenti) la valenza oggettiva del silenzio e in seguito scoperto che proprio grazie all'efficienza del silenzio le cose si fanno immagine e in quanto immagini sono un monito di rispetto per l'essere, permeano la realtà di rispetto. Analizzando l'immagine per eccellenza, il volto umano, siamo infine giunti a capire che nel volto si manifesta fisiognomicamente la decisione umana circa l'espressione della propria indole e pertanto che nel volto si mostra tutta la distanza dell'essere umano nei confronti della sua natura e quindi, indirettamente, la sua libertà e dignità. Lungo tutto questo itinerario, in ogni sua tappa, il silenzio ci è apparso come un fattore di assolutizzazione e di separazione: il silenzio restituisce le cose a se stesse, le separa, ne fa degli assoluti irriducibili e il silenzio separa anche l'essere umano dalla sua natura facendone un essere responsabile, capace di decisione. Si può evidentemente condividere o meno le posizioni di Picard, si può anche affermare categoricamente che un mondo del silenzio non esiste e che pertanto la realtà si costruisce diversamente. Io credo tuttavia che il contesto contemporaneo abbia bisogno di riscoprire il silenzio come dimensione dell'essere, ma anche il silenzio quale fondamento della parola. 65 La parola: oggi comunichiamo generalmente mediante strumenti elettronici, mass media e piattaforme virtuali, viviamo in un mondo di informazioni costruito su parole che nascono da altre parole e che sembrano generarsi spontaneamente per contiguità immediata, nel tempo reale. Ma queste sono parole che nascono per far scorrere questa realtà fluida ed istantanea (liquida), sono parole che non domandano una risposta, nascono senza interpellare veramente l'essere umano (del resto non ce ne sarebbe il tempo). Come rilevava il sociologo Jean Baudrillard, in Internet non esiste il silenzio perché i contenuti mediatici (parole o immagini) non tacciono mai, devono succedersi senza interruzione (46). Questa realtà liquida si costruisce non grazie alle parole ma intorno al brusio verbale (Wortgeräusch) che per Picard designa proprio l'opposto del silenzio, un vuoto involucro sonoro privo di limiti precisi e privo di sostanzialità che riempie i canali della comunicazione odierna (47). Forse il silenzio potrebbe aiutarci a ritrovare la vera parola, la parola che nasce dal centro dell'uomo ‒ che appunto è silenzio ‒ e che interpella un altro silenzio (48). Ma poi abbiamo bisogno del silenzio di Picard anche in un altro senso più fondamentale, proprio quale garante della separazione. Per diversi aspetti le scienze contemporanee ci pongono di fronte all'esigenza di distinguere ciò che è umano da ciò che non lo è, cioè ci impongono di definire, separare l'uomo e quanto gli pertiene specificamente da quanto lo costituisce chimicamente o biochimicamente e da quanto potrebbe aggiungersi all'umano. Sempre più spesso la scienza ci chiede di decidere dove inizia l'umano e dove esso finisce. Grazie alla conver- genza di nanotecnologie, biotecnologie, intelligenza artificiale e scienze cognitive si riesce oggi a mappare il genoma umano, si ipotizza la creazione di organismi viventi mediante manipolazioni genetiche, la clonazione di organi e facoltà umane, l'ibridazione tra l'organismo umano e le macchine, la manipolazione di embrioni e via dicendo. Ci sono scienziati che non esitano a definire il momento attuale come un momento di «svolta antropologica» perché le nuove possibilità che si aprono alla scienza e all'ingegneria genetica e cognitiva stanno plasmando una nuova identità dell'uomo o comunque dislocando i limiti tradizionali della nostra concezione dell'umanità. Un esempio significativo di tale temperie è un'indagine svolta dal filosofo francese Roger-Pol Droit sulle diverse rivoluzioni scientifiche che stanno modificando l'immagine classica dell'uomo; volevo leggervi solo un passaggio dell'introduzione di questo recente libro che situa, mi pare eloquentemente, i termini della problematica: «Impiantare nel nostro cervello estensioni di memoria, banche dati, strumenti di calcolo o di aiuto alle decisioni, riprogrammare le nostre cellule per evitare la malattia, la disfunzione o l'usura degli organi, collegare direttamente il nostro organismo ai sistemi informatici, regolare permanentemente il suo funzionamento, ibridare corpo e macchine, allontanare i limiti dell'esistenza, trasformare la successione delle generazioni, le identità sessuali: tutto questo è diventato prospettabile. E la lista delle metamorfosi che potrebbero far scomparire l'immagine classica dell'umano si allunga» (49). 66 Di fronte a questi sviluppi mi pare che sia estremamente importante salvaguardare la coscienza condivisa di quelli che sono i contorni dell'umano, la certezza di un nucleo intangibile dell'umano, di un limite o di quello che Habermas definiva un «involucro deontologico di salvaguardia dei confini umani» (50) che serva a tutelare l'inviolabilità della persona, una zona di silenzio appunto, di irriducibilità, che separi l'umano da ogni prevaricazione riduttiva o strumentalizzante. «Sembra proprio un miracolo che l'essere umano sia ancora circoscritto da contorni e che non sia dilaniato dalle sue stesse possibilità» (52). Abbiamo bisogno di ricollocare l'essere umano e le cose in una prospettiva che ne preservi l'integrità, ossia che le consideri come delle unità totali, degli interi, che eccedono le loro componenti e questo in due sensi: Note - sia nel senso che sono più delle loro parti (il tutto è più della somma delle sue parti); - sia nel senso che appartengono ad un altro ordine d'intelligibilità rispetto a quello delle loro componenti, dunque che sono esseri con esigenze specifiche, particolari. Il silenzio apre questa prospettiva integrale, senza peraltro pre-orientarla o indirizzarla ideologicamente. Prescindere da questo silenzio significa essere defraudati delle cose prima ancora di averle realmente incontrate (51), ma significa anche ignorare le prerogative dell'intero e quindi, per quanto concerne l'uomo e la sua dignità, rischiare di sacrificare la propria natura a profitto delle sue stesse possibilità di autoplasmarsi: in questo senso mi pare interessante ricordare ‒ mettendolo in relazione con la citazione precedente ‒ quanto Picard scriveva già nel 1934: Ecco, se questo miracolo perdura ancora oggi (fino a quando?), forse è anche grazie all'involucro di silenzio che ancora ci avvolge. 1 Sein und Zeit, §34: «Die spätere Auslegung dieser Definition des Menschen als animal rationale, "vernünftiges Lebewesen", ist zwar nicht "falsch", aber sie verdeckt den phänomenalen Boden, dem diese Definition des Daseins entnommen ist. Der Mensch zeigt sich als Seiendes, das redet». 2 Cfr. il resoconto sulle esperienze dell'associazione Rendez-vous en bibliothèque in La Liberté del 7 gennaio 2012, p. 9. Citazione da CAROFIGLIO 2010, 19; ma cfr. anche op. cit. p. 18: «Il rapporto fra ricchezza delle parole e ricchezza di possibilità (e dunque di democrazia) è dimostrato anche dalla ricerca scientifica, medica e criminologica: i ragazzi più violenti possiedono strumenti linguistici scarsi e inefficaci, sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi. [...] La povertà della comunicazione, insomma, si traduce in povertà dell'intelligenza, in doloroso soffocamento delle emozioni. [...] Chi non ha i nomi per la sofferenza la agisce, la esprime volgendola in violenza, con conseguenze spesso tragiche». 3 Cfr. ad es. DAVID BOSSHART, The Age of Less, Amburgo 2011. 4 STUART SIM, Manifesto per il silenzio, Feltrinelli, Milano 2008 (trad. it. di ADELE OLIVERI del testo originale: Manifesto for Silence: confronting the politics and culture of noise, Edimburgh University Press Ltd., 2007). 5 «Nostra inquisitio ineffabilis sapientiae, [...] potius in silentio et visu, quam in loquacitate et auditu reperitur» De Venatione Sapientiae, XXXIII. 6 MAX PICARD, Il mondo del silenzio, a c. di J.-L. EGGER, Servitium, Sotto il Monte (BG), 2007, p. 20 [qui di seguito citato come MdS]. 67 7 MICHAEL PICARD, Auswahl von wichtigsten „Stellungen“ von Max Picard, Neggio 1980 [excerpta dall’epistolario di Max Picard, dattiloscritto inedito], testo del 18.8.46. faudrait un grand livre. Ce livre est écrit. Il faut lire de Max Picard: Le monde du silence» GASTON BACHELARD, La poétique de l'espace, PUF, Paris 20049, p. 167. 8 «Certo, dove finisce la parola inizia il silenzio. Ma non inizia perché cessa la parola; inizia in quanto solo allora diventa manifesto», MAX PICARD, Il mondo del silenzio, cit. p. 17. 17 «... sei die Welt des Schweigens, die heute verdeckt ist, wieder deutlich gemacht» 18 MdS, 23. 9 MdS, 75: «In un mondo nel quale opera il silenzio una cosa è più legata al silenzio che a un'altra cosa. Esiste più per se stessa, appartiene più a se stessa che non una cosa in un mondo privo di silenzio, dove una cosa è soltanto in rapporto con altre cose». 10 MdS, 74: «Ogni oggetto hai sé un fondo molto più remoto della parola che lo nomina. Questo fondo l'uomo può incontrarlo soltanto col silenzio». 11 MdS, 61: «L'uomo nella cui essenza abiota ancora il silenzio si volge al mondo muovendo dal silenzio; il silenzio è il centro dell'uomo. Il moto allora non avviene direttamente da un essere umano all'altro, bensì dal silenzio dell'uno al silenzio dell'altro». 12 «Che cos'è l'eccesso? Questo: in ogni creatura vi è più di quanto sia necessario affinché sia com'è. Oltre a tutto il necessario vi è qualcosa in più nelle cose della creazione, il mondo non è impostato secondo un calcolo esatto e misurato, secondo l'appena sufficiente, bensì secondo la pienezza. L'eccesso è il fondamento del mondo, non il razionato», MAX PICARD, Das letzte Antlitz. Totenmasken von Shakespeare bis Nietzsche, Knorr & Hirt, Ahrbeck, 1959, p. 8. 13 Santo, participio passato di sancire, che vale «rendre intangibile» e, pertanto, «separare». 14 Metafisica 1029a 28. 15 «La creazione comincia dunque con la separazione, prima della quale non c’è altro che il creatore. Essa solo permette il raggruppamento, la ripartizione, l’ordine, la forma», JEANNE HERSCH, Essere e forma, Mondadori, Milano 2006, p. 88. 16 «Mais il faudrait une enquête d'un autre style pour dégager la métaphysique de tous les au-delà de notre vie sensible. En particulier, pour dire comment le silence travaille à la fois le temps de l'homme, la parole de l'homme, l'être de l'homme, il 19 MdS, 21. 20 Phänomenologie des Geistes, Vorrede, Ullstein, Frakfurt/M-Berlin-Wien, 1983, p. 22: «Das Wahre ist das Ganze. Das Ganze aber ist nur das durch seine Entwicklung sich vollendende Wesen». 21 MAX PICARD, Die Atomisierung der Person, Im Furche Verlag, Hamburg 1958, p. 12. 22 MdS, 75. 23 Ci riferiamo al recente volume di MAURIZIO FERRARIS, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari, 2012, in particolare p. 51. 24 Max Picard, «Bild und Pseudobild» in Erziehung zur Menschlichkeit, die Bildung im Umbruch der Zeit, Festschrift für Eduard Spranger zum 75. Geburtstag, 27 Juli 1957, Max Niemeyer Verlag, Tübingen, pp. 108. 25 Max Picard, Fragmente aus dem Nachlass 1920-1965, hrsg. und eingeleitet von Michael Picard, Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich 1978, p. 32. 26 «Fisiognomica è la scienza per imparare a conoscere il carattere (e non i destini contingenti) dell’uomo, ricavandolo dalla più minuziosa comprensione del suo aspetto esteriore, quindi dalla sua fisionomia», Lavater, Johann Caspar, Della fisiognomica, trad. a c. di Laura Novati, TEA, Milano 1993, p. 33 [ed. orig. Von der Physiognomik, Weidmann, Lipsia 1772]. 27 Nudità in quanto assenza di forma («nudité dégagée de toute forme») e principio assoluto di significazione: «Le visage s’est tourné vers moi – et c’est cela sa nudité même. Il est par lui-même et non point par référence à un système», Emmanuel Lévinas, Totalité et infini. Essai sur l'extériorité, Martinus Nijhoff, La Haye, 1961 [trad. it. a c. di A. Dell'Asta, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca 68 Book, Milano 1990]. Sul rapporto tra il pensiero del volto in Picard e Lévinas si leggerà con profitto il saggio di Silvano Zucal, «La filosofia del volto in Max Picard e Emmanuel Levinas», in Rassegna di teologia, vol. 47, n. 4, 2006, pp. 561-584. 28 «Nessun’altra parte del corpo è riposta così nel profondo, così vicina all’abisso come il viso, ma nessun’altra parte è anche così protratta in avanti, così decisamente nel mondo, – e proprio in questa tensione vive il viso: indietro in bilico sull’abisso e in avanti proteso verso il mondo, questa è la vita del viso», MAX PICARD, Die Grenzen der Physiognomik, Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich 1937, p. 139. 29 Celebri ad esempio, anche per la loro pungente ironia, le critiche di Hegel nella Fenomenologia dello spirito, cfr. Patrizia Magli, Il volto e l’anima. Fisiognomica e passioni, Bompiani, Milano 1996, pp. 359-362. 30 «Das macht die Würde des Menschengesichtes aus, dass der Mensch an ihm sich entscheidet, ob er das annimmt, was das Bild des Gesichtes schweigend ausdrückt» MAX PICARD, Die Welt des Schweigens, Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich 1948, p. 99 [ital. cit. p. 93]. 31 «Das eben charakterisiert das Menschengesicht: es ist nicht nur nach dem Gesetz der Entsprechung geformt, sondern das Überraschende baut auch an ihm», MAX PICARD, Das Menschengesicht, Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich 1947, pp. 69-70. 32 «Der Mensch kann so sein, wie er aussieht, er braucht es aber nicht, er hat die Freiheit, anders zu sein als sein Gesicht», MAX PICARD, Die Grenzen der Physiognomik, cit., p. 173. 33 «Nicht darauf kommt es an, haben wir gesagt, dass das Äussere, das Gesicht, so erscheint, wie das Innere ist, sondern darauf, dass das Gesicht dem Innern hilft, ein rechtes Inneres zu sein. Es ist nicht wichtig, dass das Gesicht bös aussieht, obwohl das Innere gut ist. Aber es ist wichtig, dass das Gesicht das Böse auf sich nimmt, damit das Innere gut sein kann, – das ist die wahre Entsprechung », MAX PICARD, op. cit., pp. 47-48 [ital. in Max Picard, Il rilievo delle cose. Pensieri e aforismi, a cura di Jean-Luc Egger, Servitium, Sotto il Monte 2004, p. 83]. 34 «Nur durch einen besonderen Akt, der plötzlich geschah und einheitlich und in einem Augenblick – es war der Augenblick der Ewigkeit – konnte das Menschengesicht entstehen; das Unerwartete, das in jedem Menschengesicht ist, das Überraschende, mit dem jedes Menschengesicht vor einem erscheint, stammt von diesem Akt her», MAX PICARD, Die Grenzen der Physiognomik, cit., p. 27 35 «Sorprendente e nello stesso tempo necessario, così appare ogni vero viso. Sorprendente e ogni volta nuovo: perché il viso brilla chiaramente e direttamente davanti a noi come se fuoriuscendo dall’eternità l’anima lo avesse accompagnato nel presente proprio in questo preciso istante e unicamente per noi; e poi necessario perché la sorpresa è tale da indurci a credere che la divinità non avrebbe potuto crearlo diversamente», Max Picard, Il rilievo delle cose, cit., p. 81 [ted. Das Menschengesicht, cit., p. 148]. 36 «Gestalt des Gesichts, Gestalt überhaupt, ist mehr, als durch allen Zweck und alle Anpassung erklärt werden kann. Die Gestalt besteht jenseits allen Zweckes», Max Picard, Das Menschengesicht, cit., p. 200. 37 Emmanuel Lévinas, Totalité et infini. Essai sur l'extériorité, Martinus Nijhoff, La Haye, 1980, p. 168: «Le visage est présent dans son refus d'être contenu». 38 «Das Gesicht ist ein Relief auf dem Hintergrund des Ewigen und darum deutlich und in allen Einzelheiten sichtbar», MAX PICARD, Das Menschengesicht, cit., p. 137. 39 «Darum hören die Bilder nie auf, einem neu zu sein, weil das Bild nie aufhört, das Urbild zu fragen, und die immer gleiche Antwort des Urbildes ist unausdeutbar», MAX PICARD, «Bild und Pseudobild», cit., p. 104 40 «Das Gesicht ist Erscheinung, Bild, es schwebt über die Gestalt des Menschen, es ist losgelöst, bereit, dass es abgeholt werde. Und das Bild, das leicht ist und schwebt, drückt nicht auf das Innere, Innen und Aussen bleiben distanziert voneinander: die Bildhaftigkeit ist die formale Basis für die Freiheit des Innern vom Äusseren», MAX PICARD, Die Grenzen der Physiognomik, cit., p. 45. 41 «Das Schweigen ist wie ein Organ im Menschengesicht. Nicht nur die Augen und der Mund und die Stirne sind im Gesicht, sondern auch das Schweigen. Es ist überall im Gesicht, es ist die Unterlage jedes Teiles», MAX PICARD, Die Welt des Schweigens, cit., p. 97 [ital. cit. p. 91] 42 «In ener Welt, in der das Schweigen wirkt, ist in Ding mehr mit dem Schweigen verbunden als mit einem anderen Ding. Es ist mehr für sich da, es gehört mehr sich selbst, als ein Ding in der Welt ohne Schweigen, wo Ding nur mit Ding zusammenhängt», MAX PICARD, op. cit., p. 77. 43 «Das Menschengesicht ist viel mehr Gott hingehalten als den Menschen, es ist zuallererst Antwort an Gott, es antwortet dem Schöpfer. Diese Antwort geschieht 69 im Schweigen. Alles im Gesicht richtet sich darnach. Das Gesicht ist nur in dem Masse laut und deutlich zu den Menschen hin, als die Antwort an Gott, das Schweigen zu Gott hin, es erlaubt. Die Deutlichkeit und Lautheit zu den Menschen hin ist diesem Schweigen untergeordnet», MAX PICARD, Die Grenzen der Physiognomik, cit., p. 13 50 In tedesco la «grenzerhaltende deontologische Schutzhülle», JÜRGEN HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, a c. di Leonardo Ceppa, Einaudi, Torino 2002, p. 83. 44 Anche per questo si è potuto presentare Picard come un innovatore della fisiognomica, cfr. Schmölders, Claudia, Das Vorurteil im Leibe. Eine Einführung in die Physiognomik, Akademie Verlag, Berlino 1995, p. 33. 52 «Wie ein Wunder erscheint es, dass der Mensch noch von Konturen begrenzt ist und dass er von seinen eigenen Möglichkeiten nicht zersprengt wird», MAX PICARD, Die Flucht vor Gott, Eugen Rensch Verlag, Zürich 1934, p. 22 [trad. nostra]. 51 «Wir sind der Dinge ledig, ehe sie unser sind». 45 «Essi [gli uomini] non sono semplicemente la loro natura, la loro natura è qualcosa che essi possiedono. E questo possedere è il loro essere […] Non accade qualcosa attraverso di esse [le persone], come nelle altre cose, ma esse agiscono in rapporto a se stesse. Il che significa: esse sono libere», SPAEMAN, ROBERT, Persone. Sulla differenza tra "qualcosa" e "qualcuno", a c. di L. Allodi, Laterza, Bari-Roma 2005, pp. 32-33 [ed. orig. Personen. Versuche über den Unterschied zwischen "etwas" und "jemand", Stuttgart 1996]. 46 «Le silence est banni des écrans, banni de la communication. Les images médiatiques (et les textes médiatiques sont comme les images) ne se taisent jamais: images et messages doivent se succéder sans discontinuité», JEAN BAUDRILLARD, La transparence du mal. Essai sur les phénomènes extrêmes, Galilée, Paris 1990, p. 20. 47 In questo senso, benché mirato ad altre finalità, va anche l'invito rivolto da UMBERTO ECO nel suo discorso al convegno 2009 dell'Associazione Italiana di Semiotica intitolato «Veline e silenzio», ora in IDEM, Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Bompiani, Milano 2011, pp. 207-215. 48 MAX PICARD, Il mondo del silenzio, cit., p. 154: «La parola che invece nasce dal silenzio muove dal silenzio verso la parola per poi ritornare nel silenzio e da questo verso una nuova parola e ancora di nuovo al silenzio e così via, di modo che la parola proviene sempre dal centro del silenzio: il flusso della frase è sempre interrotto dal silenzio e sempre la verticalità del silenzio urta contro l'orizzontalità del flusso della frase e l'interrompe». 49 MONIQUE ATLAN, ROGER-POL DROIT, Humain. Une enquête philosophique sur ces révolutions qui changent nos vies, Flammarion, Paris 2012, p. 16 [trad. nostra]. 70 Relatori del ciclo di incontri e autori dei testi Almo Collegio Borromeo, Pavia PENSARE LA DIGNITA’ UMANA martedì 27 marzo 2012, ore 21 PAOLO BECCHI, Università degli Studi di Genova La dignità umana e l’ordinamento giuridico italiano martedì 3 aprile 2012, ore 21 GIOVANNI GASPARINI, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Dignità umana e bellezza martedì 17 aprile 2012, ore 21 MARKUS KRIENKE, Facoltà teologica di Lugano Dignità umana e bene comune martedì 8 maggio 2012, ore 21 MARIA ZANICHELLI, Università degli Studi di Parma Dignità umana e disabilità martedì 15 maggio 2012, ore 21 JEAN-LUC EGGER, Giurilinguista e saggista - Berna Dignità umana e silenzio lxxi