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Le Tempeste
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15
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Prima edizione Tsunami Edizioni, febbraio 2016 - Le Tempeste 15
Tsunami Edizioni è un marchio registrato di A.SE.FI. Editoriale Srl
Grafica e impaginazione: Eugenio Monti per Agenzia Alcatraz
Il testo riprodotto a pagina 270 è stato tradotto da Roberto Melfi
Stampato nel mese di febbraio 2016 da GESP - Città di Castello (PG)
ISBN: 978-88-96131-84-8
Tutte le opionioni espresse in questo libro sono dell’autore e/o dell’artista, e non rispecchiano necessariamente quelle
dell’editore.
Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, in qualsiasi formato, senza l’autorizzazione scritta dell’Editore
La presente opera di saggistica è pubblicata con lo scopo di rappresentare un’analisi critica, rivolta alla promozione di autori
ed opere di ingegno, che si avvale del diritto di citazione. Pertanto tutte le immagini e i testi sono riprodotti con finalità scientifiche, ovvero di illustrazione, argomentazione e supporto delle tesi sostenute dall’autore.
Si avvale dell’articolo 70, I e III comma, della Legge 22 aprile 1941 n.633 circa le utilizzazioni libere, nonché dell’articolo 10
della Convenzione di Berna.
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DUE PAROLE PRIMA
DI COMINCIARE
Q
uando, di tanto in tanto, qualcuno mi chiede che cosa io ci trovi di
così affascinante nel rock dell’Est Europa, la mia risposta è quasi
sempre “perché mi trasmette la stessa emozione dei film iraniani”.
Normalmente, questa replica scoraggia la stragrande maggioranza degli incauti, e la cosa finisce lì. Quando però, rarissimamente, qualcuno chiede conto
delle proprie perplessità, allora mi tocca argomentare.
Fin da bambino sono stato sempre molto curioso riguardo alle cose del
mondo, della geografia e della varietà del pensiero umano. Ricordo che una
volta mi regalarono un mappamondo che si accendeva dall’interno, e io passavo ore e ore a guardarlo, immaginando di poter viaggiare in tutti quei paesi.
Avevo poco più di dieci anni quando, chissà come, evidentemente da qualche
notiziario, mi giunse la notizia della rivoluzione khomeinista in Iran - era il
1979. Nella mia memoria si era impressa in particolare un’immagine: avevo
sentito dire che a Teheran circolavano i Guardiani della Rivoluzione con in
tasca un paio di forbici, e a chi veniva trovato a indossare una cravatta (vista
come un simbolo della cultura occidentale)... ZAC!, gli veniva recisa con un
taglio netto.
Ero poco più che un bambino e ricordo che questa notizia mi colpì moltissimo, con un sentimento ambiguo di paura e di fascino al tempo stesso.
Da un lato intuivo che non si trattava di una cosa tanto bella; perché mai, mi
chiedevo, uno se lo voleva non era libero di poter portare la cravatta? D’altro
canto, in qualche modo, la cosa mi intrigava; “questi iraniani”, pensavo tra me
e me, “non sono mica gente normale! Devono essere veramente fuori di testa.
Forse in un modo un po’ assurdo, forse non li capisco tanto, e per la verità mi
fanno pure un po’ paura, ma certo non ragionano come noi. Che bello sarebbe
potere andare lì, in un mondo così sottosopra...”.
Passarono gli anni e dimenticai questo episodio, fino a quando, oramai grandicello, nell’ambito di una rassegna cinematografica non mi capitò
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l’occasione di poter assistere a una serie di pellicole iraniane, opere dei padri
del cinema moderno di quella nazione quali Makhmalbaf e Kiarostami. Già
il fatto che potessero esistere dei film iraniani mi sorprese non poco, ma la
rivelazione più grande fu di scoprire che nulla di quanto si era materializzato
nella mia immaginazione di adolescente corrispondeva a realtà. Lungi dall’essere un popolo di gente “stonata”, in quei film gli iraniani apparivano in realtà
come incredibilmente, inconcepibilmente, sorprendentemente uguali a noi.
Scoprii allora che, sia pur con le immancabili differenze culturali, gli iraniani
vivono, amano, odiano, soffrono, sperano, fantasticano e sognano esattamente
come noi italiani e, in generale, come la totalità del resto del mondo (con in
particolare una passione smodata e malsana per il calcio, come si scopre nel
finale dello splendido E La Vita Continua di Kiarostami). Un mio preconcetto,
formatosi in modo casuale anni addietro, me li aveva dunque stereotipati in un
modo ideale (negativo e positivo al tempo stesso) che non rispondeva affatto
alla realtà.
Ebbene, con le dovute proporzioni, posso dire che con il rock dell’Est si
è verificato esattamente lo stesso processo di (dis)apprendimento. Quando da
adolescente iniziai ad ascoltare musica, erano gli anni fatati e migliori dell’heavy metal e naturalmente il mio orecchio si diresse subito a quelle sonorità.
In breve tempo scoprii che i Judas Priest o gli Iron Maiden non erano nati dal
nulla, ma derivavano a loro volta dai Deep Purple e dai Led Zeppelin; non mi
ci volle molto a procurarmi i vecchi vinili di queste band che iniziai subito
ad amare ed apprezzare. Non pago, consumato velocemente il catalogo delle
grandi icone del rock, mi diressi alla scoperta dei gruppi minori e poi ancora,
a seguire, di tutti quelli di estrazione non anglosassone. Mi accorsi così ben
presto che il rock era stato realizzato - magari con qualche difficoltà, ma spesso con ottimi risultati - non solo in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma anche in
Italia, così come in Germania e, in generale, in ogni angolo del mondo, dall’Islanda alla Nuova Zelanda, passando per Israele e l’Argentina.
All’Est però, quell’Est che normalmente si definiva “al di là del muro”,
questo non avveniva. E non avveniva semplicemente perché (a mio modo di
pensare) non era possibile.
Purtroppo, in quegli anni, a meno che non si fosse a contatto con un pensiero critico (e io purtroppo non ero tra quelli), il giudizio su ciò che avveniva
all’interno delle cosiddette “democrazie popolari” era estremamente qualunquista e, assai di frequente, dettato da dogmatismo. All’Est, si diceva, c’era il
comunismo. Ergo era tutto vietato. Tutto. Non si poteva fiatare, non si poteva
proferire parola e qualsiasi minimo cenno di dissenso o di devianza sarebbe
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stato immediatamente punito con la deportazione in Siberia. Sì, certo, qualche
gruppo rock probabilmente esisteva anche all’Est, questo potevo immaginarlo, ma si trattava verosimilmente di pupazzi del regime, gente messa lì a bella
posta per far vedere che anche all’Est c’era la musica dei giovani, mentre si
trattava in realtà di funzionari di partito a stipendio mensile garantito.
Enorme fu dunque la mia sorpresa quando, per la prima volta, mi capitò di
ascoltare un gruppo cecoslovacco che sembrava un misto tra i Soft Machine
e gli Henry Cow, guidati da un tastierista che suonava con l’estro di un Keith
Emerson e con la padronanza formale di un Béla Bartòk (erano i Collegium
Musicum, e in effetti il loro leader, Marian Varga, aveva studiato Bartòk). Da
allora, era la fine degli anni ’80, la mia ricerca è stata incessante.
Ho scoperto così un mondo vastissimo di musica, di suoni e di opere rock,
di valore enorme e del tutto ignorato nel resto del mondo. Ignorato perfino ai
giorni nostri, in cui si tende a rivalutare - talvolta anche esageratamente - ogni
nota purché composta in quei frenetici e irripetibili anni che vanno dal 1966
al 1978. Nonostante ciò, anche oggi il rock dell’Est rimane sostanzialmente
un figlio ripudiato.
Naturalmente ho scoperto pure che all’Est non era certo vietato fare del
rock, anche se questo non voleva dire che fosse completamente e liberamente
consentito. Ho indagato su storie di passione e di amore vero per la musica, artisti posti a contatto con difficoltà della vita quotidiana che avrebbero
scoraggiato chiunque, la mancanza di mezzi materiali, l’arroganza del potere
ideologico e delle forze di polizia, la censura più ottusa. Su artisti che sono
andati avanti a ogni costo, contro ogni logica, e il cui nome è ancora oggi del
tutto sconosciuto al di fuori dei confini della madrepatria. Artisti che meritano
un riconoscimento.
Non so se questo lavoro, frutto di venticinque anni di ascolto e di passione,
riuscirà a dar loro giustizia. Ma perlomeno potrò dire che il tentativo è stato
fatto.
Alessandro Pomponi
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NOTA PER IL LETTORE
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N
egli anni compresi tra il 1946 ed il 1989 alcuni paesi dell’Europa centro-orientale si sono ritrovati, loro malgrado, a subire
l’oppressione imposta da alcune delle dittature più tristi che la
storia abbia mai conosciuto. Tristi non solo perché foriere di terribili violazioni dei diritti umani, ma anche perché derivanti da una sorta di perversione malsana di idee concepite tempo addietro non certo per opprimere,
ma al contrario per assicurare agli uomini libertà e giustizia: il socialismo
e il comunismo.
I paesi che dovettero sottostare all’influenza politica e militare dell’Unione Sovietica e che vennero virtualmente, ma non formalmente, privati della
loro indipendenza furono la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Polonia, la Bulgaria, la Romania e infine la Germania Est, il Paese nato artificialmente dallo
smembramento del Terzo Reich hitleriano. Non maggiormente fortunata fu
l’Albania che, sfuggita all’influenza di Mosca, finì per avvicinarsi a Pechino
per rimanere infine prigioniera della delirante tirannia di Henver Hoxsa, che
isolò completamente la nazione dal resto del mondo. Miglior sorte toccò invece alla Jugoslavia, che guidata dalla politica terzomondista e non allineata del
maresciallo Tito riuscì a rimanere fuori dalla logica dei blocchi, concependo
a livello economico una singolare via di mezzo tra l’economia di mercato e
quella socialista. Non va infine dimenticato il tragico destino dei paesi baltici
- Estonia, Lettonia e Lituania - che la loro indipendenza la persero non solo
di diritto, ma anche di fatto, entrando a far parte dell’impero Sovietico come
repubbliche dell’Unione.
Queste vicende storico-politiche condizionano necessariamente anche
la storia della musica rock e di conseguenza costituiscono il presupposto
attorno al quale deve essere inquadrato tutto ciò che viene narrato in queste
pagine. Non ci occuperemo pertanto di rock baltico, la cui influenza rimane
marginale e che in ogni caso non fece la sua comparsa prima della seconda
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metà degli anni ’801; né tanto meno volgeremo lo sguardo al rock albanese, perché questa espressione non ha ragione di esistere dal momento che
Hoxsa sembrò, nei lunghi anni di regime, più interessato a costruire milioni
di bunker di cemento armato per difendersi da un’improbabile invasione del
suo Paese piuttosto che a offrire una qualche occasione di svago al proprio
popolo. Analogamente, ma per motivi opposti, non ci occuperemo di rock
jugoslavo; questo Paese ha infatti conosciuto una lunga e fortunatissima vita
musicale, paragonabile in tutto e per tutto a quella di un Paese occidentale,
e non basterebbe pertanto un libro intero per parlarne in modo esaustivo! La
nostra attenzione rimarrà pertanto concentrata ai paesi sopra indicati, quelli
che normalmente venivano indicati come facenti parte del Patto di Varsavia, e in cui i partiti comunisti salirono al governo tra la fine della guerra e
il 1948.
Inoltre, questo libro non è (volutamente) un’enciclopedia, intesa nel senso
di un’opera che indichi e cataloghi in modo sistematico tutto ciò che esiste, dal
grande al piccolo. L’idea è stata, al contrario, quella di privilegiare la qualità
artistica, il merito e il reale interesse musicale, cercando di mettere da parte
gli aspetti più feticistici e nozionisti. Non si parlerà dunque di musica classica,
né di jazz, né di canzone popolare o tradizionale, fatte salve le immancabili
eccezioni che si legano in qualche modo al nostro discorso principale, che è
quello che ruota intorno al rock.
A questo proposito, il concetto di “rock” è stato inteso nel modo più esaustivo possibile, includendo non solo il rock classico - dal beat, alla psichedelia,
al progressive alla new wave - ma anche il jazz rock e il folk rock e, in alcuni
casi, la canzone d’autore. Il lasso temporale preso in considerazione è quello
che va dal 1964-65, anni in cui il rock di fatto nasce all’Est (ovvero un paio
d’anni dopo i Beatles), fino al 1978, anno che segna in occidente l’avvento del
punk e all’Est la fine della stagione migliore. Per ragione di completezza - ovvero per non lasciare incompiute le vicende di formazioni attive anche dopo
quella data - o nei casi di maggiore interesse, si sono analizzati talvolta anche
avvenimenti successivi al 1978.
1 - Questo sebbene l’Estonia abbia visto il fiorire di una discreta cultura di musica alternativa,
soprattutto a partire dalla prima metà degli anni ’80, quando agli artisti venne consentito di
cantare in Estone, lingua fino ad allora, di fatto, bandita. Va detto inoltre che la difficoltà
di indagare sul fenomeno rock nei paesi baltici si scontra con la quasi totale assenza di
testimonianze sonore tangibili in quanto alla stragrande maggioranza delle band era del tutto
inibita la possibilità di pubblicare dischi. Esistono però casi, come quello dei lettoni NSRD, che
hanno alle spalle una vera e propria “discografia”, per quanto tutta edita su cassette amatoriali
che venivano fatte circolare clandestinamente.
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La fonte d’informazione principale e quasi esclusiva per la ricostruzione
delle vicende qui esposte è stata fornita dai dischi stampati nel corso di quegli
anni, che poi di fatto sono l’unica reale informazione attendibile di tipo storiografico, per quanto imperfetta e necessaria di interpretazioni. Minore, ma
comunque valida utilità, è venuta dalle non numerose pubblicazioni edite in
Ungheria, in Cecoslovacchia e in Polonia relative al fenomeno, e da conversazioni con addetti ai lavori, musicisti e testimoni che hanno vissuto personalmente quegli anni. Quasi nessuna valenza è stata invece concessa all’informazione reperibile su internet, che assai spesso (ma tanto più in un caso come
questo) tende a essere approssimativa, inattendibile e infarcita di improbabili
leggende metropolitane non sempre rispondenti alla realtà.
In conclusione di questa nota, non ce ne vogliano coloro che troveranno
superflui, oppure superficiali e privi di approfondimento, i brevi cenni storici
presenti all’inizio di ogni capitolo. L’idea non era certo quella di fare un trattato di storia, quanto di fornire un quadro di riferimento per coloro ai quali determinati avvenimenti possono risultare poco noti o finanche del tutto ignoti.
Starà poi al singolo lettore approfondire, se vorrà, l’interessante e turbolenta
storia di questi paesi.
Buona lettura.
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INTRODUZIONE:
UNO SGUARDO GENERALE
AI PAESI DEL BLOCCO
C
ontrariamente a quanto si sarebbe portati a pensare, nei paesi del
Patto di Varsavia la presa del potere avvenne il più delle volte in maniera relativamente democratica, attraverso delle elezioni, per quanto forzate o tenute all’ombra della minaccia sovietica; vi furono talvolta brogli
e manipolazioni, ma in ogni caso si trattò pur sempre di elezioni e non di veri
e propri colpi di stato. In qualche modo, si potrebbe anche osservare come la
scelta popolare fu, inizialmente, genuina: tali e tanti erano
stati infatti gli orrori del nazifascismo1 che gli uomini si illusero, per un attimo, di avere
trovato finalmente una via che
assicurasse a tutti uguaglianza, giustizia e diritti.
Fu purtroppo un’illusione di breve durata. Nel giro
di pochi anni, infatti, vennero
abolite tutte le garanzie demo- Una delle ultime fotografie che ritraggono assieme i leader dei
Paesi del Patto. Da sinistra Husák, Zhivkov, Honecker,
cratiche, la possibilità di creaGorbaciov, Ceausescu, Jaruzelski e Kadar
re partiti politici alternativi al
partito comunista e la libertà
1 - Ricordiamo la Polonia invasa da Hitler e ridotta a un grande campo di concentramento,
l’Ungheria in mano ai regimi fascisti di Horty e Szalaszi, la Cecoslovacchia smembrata con
la Boemia annessa al Reich e la Slovacchia “promossa” a stato indipendente - in realtà un
fantoccio governato da Monsignor Jozef Tiso e sotto il controllo diretto del Führer. È comunque
significativo come, dopo il crollo dei regimi, alla fine degli anni ’80 tutti i monumenti fatti
innalzare nel corso degli anni dalla tirannide siano stati rimossi, ma non quelli inneggianti alla
lotta partigiana contro il nazifascismo. Infatti, nonostante quei monumenti fossero stati creati
con chiari intenti demagogici dai partiti comunisti, riflettevano comunque un sincero orgoglio
delle popolazioni per essersi opposte, spesso senza fortuna, al nazismo.
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economica di impresa mentre, al contempo, il controllo poliziesco sulla vita
dei cittadini divenne disumano, invadendo ogni spazio dell’esistenza privata.
È difficile comprendere cosa abbia potuto portare a una simile degenerazione. Nel migliore dei casi, si trattò di un delirio parossistico di obbedienza
alle direttive del partito in nome di un non meglio precisato “bene del popolo”
cui la società tutta doveva tendere; sotto altri aspetti, una “normale” quanto
tragica manifestazione di quella innata tendenza degli esseri umani ad approfittarsi dei loro simili ogni volta che si trovino in una situazione di potere.
Sta di fatto che decine di milioni di persone si sono viste portare via gli anni
migliori della propria vita.
Non è facile, per noi, immaginare che cosa
possa significare vivere all’interno di un regime
comunista come quelli che imperversarono in
Europa orientale nel ventesimo secolo. Da un
lato, infatti, noi tutti - con eccezione di coloro
Francobollo della DDR per i 30 anni
che sono abbastanza anziani da avere conosciuto
del Patto di Varsavia
il fascismo - siamo stati abituati a ragionare nei
termini di uno stato di diritto, nel quale ci appare ovvio e scontato che esistano
determinate libertà inviolabili e determinate garanzie di fronte alla legge. Ai
nostri schemi mentali risulta naturale che tali diritti debbano esistere, e facciamo fatica ad immaginare il contrario. D’altro canto bisogna anche riconoscere come, dal nostro lato del mondo, il giudizio sui regimi totalitari dell’Est
sia stato dettato quasi sempre non tanto da una sincera volontà di ricerca e
di comprensione critica quanto dall’ideologia. Se è vero allora che una certa
parte della nostra sinistra, soprattutto negli anni oramai trascorsi, ha talvolta
sbrigativamente liquidato tale questione con un giudizio lapidario ed estremamente qualunquista, riassumibile nella frase “non si stava poi tanto male”, è
anche vero che chi, da destra, contestava anche legittimamente quelle forme
di governo ha avuto gioco facile nel descrivere i paesi dell’Est europeo come
nazioni dominate dal terrore, dove ogni barlume di vita, ogni anelito di speranza e ogni minima forma di manifestazione del pensiero erano assolutamente bandite e dove poteva bastare una parola sbagliata, un gesto incompreso o
una delazione per finire immediatamente deportati in Siberia o essere fucilati.
È nostra opinione che questa idea infondata debba assolutamente essere
smentita. E questo, sia ben chiaro, non tanto per assolvere quei regimi, né per
sminuire le loro responsabilità di fronte alla storia, ma semplicemente per riuscire ad afferrare la realtà dei fatti. Non agendo in tal modo, non potremmo
riuscire a comprendere in che modo molti degli avvenimenti che ci accingiamo
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a narrare siano potuti accadere. Scopriremo infatti, con sorpresa di molti, che la
storia del rock nei paesi dell’Est europeo è stata una storia di relativa autonomia e libertà intellettuale, una storia fatta di scelte coraggiose, di contrasti, di
difficoltà, ovviamente anche di battaglie quotidiane con la censura, ma anche
una storia tutto sommato libera da condizionamenti e imposizioni, fatte salve
alcune eccezioni (come il cantante popolare tradizionale cecoslovacco Karel
Gott, che, nel 1978 firmò l’Anti-Charta 77, un documento del governo che
contrastava quello ben più celebre di contestazione diffuso l’anno precedente). Ed è una fortuna che sia stato così: se in quei paesi non ci fosse stato altro
che musica di regime, oggi non avrebbe senso parlare di rock dell’Est!
Tolleranza e Repressione
È dunque necessario interrogarsi per cercare di comprendere come, e
fino a che punto, il controllo dello stato, le direttive dall’alto e le imposizioni
fossero pervasive e quanta libertà fosse invece lasciata ai singoli cittadini. A
tal proposito si può certamente affermare che, se è vero che nelle cosiddette
democrazie popolari molte cose erano proibite, è anche vero che non tutti i
divieti avevano la stessa forza cogente. Non tutti i comportamenti “al di fuori dell’ordine”, per così dire, dovevano necessariamente avere conseguenze
ugualmente nefaste.
Sotto questo punto di vista, crediamo si possa distinguere innanzitutto
tutto ciò che era strettamente legato alla vita politica, alle istituzioni, alla
coesione sociale, all’organizzazione del lavoro e del partito. Questi erano
aspetti che dovevano sempre, in ogni situazione, essere considerati con
estrema cautela, se non si volevano rischiare conseguenze indesiderate. Criticare apertamente, o anche velatamente, il governo e le autorità, o mettere
in discussione il ruolo guida del partito comunista, dell’amicizia con l’Unione Sovietica, e avere atteggiamenti di tipo anti-patriottico poteva portare
con estrema facilità all’arresto, alla prigione e, non di rado, perfino a conseguenze peggiori.
Va comunque precisato, e si tratta di una precisazione da tenere sempre
in considerazione nel corso di questa storia, che in questa sede dovremo giocoforza limitarci a osservazioni di carattere generale, applicate a situazioni
molto diverse nel tempo e nello spazio. La Germania Est o la Romania non
erano la Cecoslovacchia della fine degli anni ’60 o l’Ungheria tra gli anni
’70 e gli ’80. E se è vero, come tutti sanno, che anche solo per una banale
delazione del vicino di casa nella DDR si rischiava di finire nei guai con
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la Stasi, la polizia politica le cui spie erano disseminate ovunque, è anche
vero che nel 1977 decine e decine di intellettuali cecoslovacchi firmarono
il manifesto di protesta democratica noto come Charta 77 ma non per questo vennero automaticamente arrestati, anche se indubbiamente negli anni
seguenti le ritorsioni nei loro confronti furono molto pesanti. In ogni caso,
in linea di massima sulle questioni più prettamente politiche (intendendo
questa espressione in senso lato) non era consentita alcuna leggerezza. Chi
sbagliava veniva punito severamente e senza esitazioni.
Vi era poi tutta una serie di comportamenti che di per sé non erano formalmente vietati, anzi in pura teoria rimanevano del tutto legittimi. Tuttavia,
chiunque avesse desiderato assumere un ruolo di qualsiasi rilievo all’interno
della società, avrebbe fatto meglio ad astenersi dal porli in essere. Ad esempio, avere una fervida fede religiosa, recarsi in chiesa tutte le domeniche,
dimostrarsi apertamente credenti, non era cosa che formalmente riguardasse
lo Stato. Nei paesi del blocco (a differenza dell’Unione Sovietica vera e propria, dove la religione fu bandita e le chiese trasformate in musei) non venne
mai apertamente proibita la pratica religiosa e anzi questa, nelle zone più
ferventemente cattoliche, come la Polonia e la Slovacchia, rimase alquanto
diffusa - per quanto naturalmente i preti dovevano fare i preti e non osare
neanche sfiorare la politica, altrimenti si finiva in carcere, come accadde
a Mindszenty in Ungheria e a molti altri. Tuttavia, chiunque rivestisse o
avesse preteso di rivestire un ruolo formale all’interno dell’organizzazione
statale, dal semplice soldato o poliziotto al docente universitario o al funzionario di partito, avrebbe fatto meglio ad astenersi da qualsiasi legame troppo
stretto con la religione e con la Chiesa.
Anche avere un atteggiamento freddo o indifferente nei confronti del
Partito era da considerarsi un comportamento a rischio, per quanto in linea
di massima legittimo. Essere iscritti al Partito Comunista non era certo obbligatorio; tuttavia, chi non fosse stato iscritto avrebbe probabilmente incontrato difficoltà a trovare un qualsiasi impiego, sia pur di basso livello,
nella società “perbene” e di certo avrebbe sicuramente faticato di più dei
suoi colleghi regolarmente tesserati. A volte poteva bastare la dimenticanza
nel pagare le tasse annuali sul documento di partito per cadere in disgrazia.
Con le dovute proporzioni, possiamo dire che tutti i comportamenti legati alla musica (non accademica) e alla cultura giovanile e alternativa potevano essere inquadrati sotto questo secondo aspetto non strettamente politico. Ascoltare rock, specie se proveniente dall’estero, portare i capelli lunghi,
avere un atteggiamento trasandato nel vestire, ubriacarsi e cose simili erano
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considerati comportamenti devianti ma, di per sé, non particolarmente criminali - per quanto fossero atteggiamenti che lo stato cercava di reprimere
con ogni mezzo, anche attraverso divieti che oggi possono far sorridere: ad
esempio a Praga nel 1966 ai cosiddetti máničky, ovvero ai giovani con i capelli lunghi ed un aspetto particolarmente poco curato, venne interdetto l’ingresso ai ristoranti di prima e di seconda categoria (si deve dunque pensare
potessero entrare in quelli di terza!). Era in teoria un reato non avere un lavoro - lo stato socialista garantiva un posto a tutti, dunque perché rifiutarlo?
- ma anche su questo c’era il più delle volte una certa tolleranza. Perfino la
droga conosceva una minima diffusione, per quanto rimanesse un fenomeno
assolutamente marginale che non riguardava la gente comune ma solo alcuni
personaggi che, in virtù della loro posizione, erano in grado di procurarsela.
Dunque la gente era tutto sommato libera di ascoltare la musica che preferiva, senza alcuna limitazione. Il problema vero era riuscirci, dal momento
che tutti i mezzi di comunicazione rimanevano in mano allo Stato che, dal
canto suo, faceva tutto il possibile per scoraggiare tali forme di espressione
culturale. Ma un conto è dire (cosa vera) che i Beatles e i loro epigoni fossero regolarmente bollati sui giornali di partito quali “prodotto degenerato
del capitalismo occidentale”, un conto è voler sostenere che la musica dei
quattro ragazzi di Liverpool fosse vietata o che addirittura a Est di Vienna
i giovani non sapevano chi fossero i Beatles! Questo significherebbe far
torto all’intelligenza di interi popoli con una sciocchezza che, sinceramente, ricorda abbastanza da vicino l’analoga diceria secondo cui ancora oggi
alcuni popoli musulmani sarebbero tenuti all’oscuro del fatto che l’uomo
sia andato sulla luna! E comunque sia, anche in un’epoca in cui internet e le
comunicazioni di massa erano solo fantascienza, la musica rock ha sempre
avuto la capacità incredibile di superare i confini e le barriere culturali e
ideologiche, forse proprio in virtù del rivoluzionario messaggio di libertà e
pace di cui è foriera2.
2 - A riguardo desidero citare un episodio che a suo tempo mi colpì molto. Anni addietro ebbi
modo di conoscere la ragazza che, tra il 1966 e il 1969, aveva guidato il fan club ufficiale
italiano dei Beatles. Rossana, questo il suo nome, aveva conservato uno scatolone pieno di
lettere dei fan italiani che scrivevano a Londra per chiedere autografi dei Beatles e che gli inglesi
rispedivano al suo indirizzo di Roma. Ebbene, in mezzo a queste migliaia di lettere ce n’erano
numerose provenienti dalla Romania e scritte in rumeno - poiché a Londra evidentemente si
confondevano e scambiavano la lingua romena per italiano. Mi sono sempre chiesto come
potessero in Romania essere appassionati dei Beatles al punto di scrivere una lettera a Londra
(e all’indirizzo esatto) se non li vedevano alla TV, al cinema, non li sentivano alla radio e,
soprattutto, non avevano i loro dischi! Eppure, evidentemente, in qualche modo era così.
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ROCK oltre CORTINA
Nei paesi del blocco socialista, tutti i mezzi di comunicazione di massa,
televisione, radio e giornali erano direttamente in mano allo Stato o strettamente controllati dallo stesso. Tuttavia, sia perché non c’era interesse da parte
dell’apparato a mantenere una pressione assolutamente opprimente oltre il limite del sopportabile, sia perché era di fatto impossibile limitare o controllare
ogni tipo di contatto e scambio con l’estero, i giovani dell’Est europeo ebbero
occasione, in qualche modo, di farsi un’idea del tipo di musica che si ascoltava
al di là della cortina di ferro. Vediamo dunque quali possono essere state le
loro possibili fonti di ispirazione e influenze.
Innanzitutto, come in ogni altra parte del mondo i giovani avevano la
possibilità di ascoltare la musica alla radio o alla televisione. Naturalmente non c’era molto da aspettarsi dalle radio e TV di Stato che, come si può
facilmente immaginare, erano dominate da un conservatorismo assoluto.
Questo a ben vedere non sarebbe dovuto accadere in un Paese socialista e
rivoluzionario dove l’arte doveva, in primo luogo, promanare dalle masse
e soprattutto essere diretta alle stesse. Come osservava giustamente il sociologo di turno, tal Jacek Bromski, nelle note di retro copertina dell’opera
rock Naga dei polacchi Niebiesko Czarni: “L’opera è un’ulteriore prova
del fatto che la musica popolare non deve essere considerata una sottocultura, come suggeriscono alcuni sociologi cresciuti nella tradizione isolata dei conservatori”. Sta di fatto che, contrariamente alle implicazioni
logiche, nei paesi comunisti e socialisti la musica classica è sempre stata
tenuta in maggior riguardo rispetto a quella rock e leggera, con l’eccezione forse costituita dalle numerose tradizioni folk delle varie nazioni.
Del resto, anche in Italia nei primi anni ’70 non c’erano molte possibilità
di ascoltare musica “giovane” alla televisione o alla radio, eccezion fatta
per qualche programma di Renzo Arbore o per qualche ospite illustre che
poteva far capolino a Canzonissima; in ogni caso, a metterle tutte insieme,
al massimo si poteva trattare di una o due ore alla settimana. È verosimile
che all’Est l’attenzione dedicata alla musica pop fosse ancor minore e certamente il più delle volte gli spazi erano riservati alle realtà locali. A ogni
modo, che più o meno ovunque esistessero programmi specifici destinati
ai giovani, anche se non necessariamente a tema musicale, è un fatto accertato. C’erano poi le radio straniere, prima fra tutte l’avveniristica Radio
Lussemburgo che, a discapito di rozzi sistemi di schermatura predisposti
da alcuni regimi (in particolar modo quello della DDR), potevano essere
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Le Influenze
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captate nelle parti più occidentali dell’impero, certamente in Cecoslovacchia e Ungheria3. Da non dimenticare infine le emittenti radiofoniche che
trasmettevano quasi sempre musica occidentale, come Radio Free Europe,
predisposte dalle potenze dell’Ovest e nate appositamente per poter decantare agli amici dell’Est le meraviglie del capitalismo. Per la Germania Est, in
particolare, un problema era costituito dalla RIAS, ovvero la radio del settore
americano di Berlino, e per contrastare queste emittenti a volte gli apparecchi
radiotelevisivi che potevano essere acquistati avevano le frequenze bloccate.
A questo proposito, un episodio curioso è stato narrato in un’intervista dal
bulgaro Konstantin Markov, leader dei Tangra: pare che in alcuni quartieri periferici di Sofia fosse possibile, con qualche accorgimento, riuscire a prendere
il segnale della TV jugoslava; venivano così organizzati clandestinamente dei
veri e propri meeting intorno a una singola TV, al fine di poter vedere le immagini di una televisione che veniva considerata già estremamente “liberale”.
Lo stesso tipo di chiusura presente nelle radio e nelle televisioni si poteva
riscontrare sui giornali, che assai di rado si occupavano di musica e di cultura giovanile. Va
tuttavia detto che in alcune realtà, per esempio
in Polonia nei primi anni ’70, vennero realizzate
- non è dato però sapere se in maniera artigianale e sostanzialmente abusiva, oppure formalmente autorizzate - delle piccolissime riviste
in ciclostile che si occupavano esclusivamente
di musica, come Non Stop, che ebbe una certa
diffusione popolare. In Cecoslovacchia, durante la Primavera di Praga, ebbe invece vita un
giornale chiamato Pop Music Expres che presentava delle splendide copertine con gli artisti
locali in primo piano e notizie internazionali sul
mondo della musica. Anche in Ungheria vi erano delle riviste destinate ai ragazzi, per quanto
non esclusivamente dedicate alla musica, che si
3 - In verità anche nella libera Italia molti cercavano disperatamente di poter captare le onde di
Radio Lussemburgo o di Radio Capodistria per poter ascoltare un po’ di rock che la RAI non
trasmetteva mai, l’unica differenza è che non dovevano farlo di nascosto! Da ricordare che la
più celebre formazione ungherese, gli Illés, prese per qualche tempo il nome Luxembourg Beat,
in omaggio alla celebre radio. Dunque che in Ungheria si ascoltasse Radio Lussemburgo era un
fatto accettato. In Germania Est, invece, ascoltare Radio Lussemburgo era considerato sintomo
di “devianza sociale”.
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occupavano delle istanze giovanili, come per
esempio IM (Ifùusàgi Magazin). La situazione negli altri paesi del blocco era invece sicuramente peggiore: molti ricorderanno come,
il giorno della caduta del muro, i tedeschi
dell’Est fossero particolarmente affascinati
dalle edicole che presentavano un numero di
testate e di pubblicazioni veramente incredibile, per loro abituati a vedersi di fronte solo
pochi e scarni fogli di partito.
Era invece rarissimo che gruppi rock stranieri si recassero in tour nei paesi del socialismo reale, sia perché non graditi dai governi,
sia perché ovviamente la cosa non era conveniente per gli artisti stessi dal punto
di vista finanziario - si potrebbe dire quasi impossibile, salvo accordi particolari,
poiché le valute delle democrazie popolari non erano liberamente convertibili sul mercato ma si dovevano spendere all’interno del Paese. A tal riguardo,
merita di essere citato un episodio che
sicuramente incrocia realtà e leggenda. All’indomani delle date tenute dai
Rolling Stones al Palazzo della cultura di Varsavia, il management della
band si rese conto che i (non molti)
soldi ricevuti in pagamento non erano
legalmente esportabili; si dovette trovare allora un qualche modo di spenderli in loco, e la migliore soluzione
ipotizzata fu quella di acquistare un
carico di vodka per spedirla in Gran
Bretagna dove poi, verosimilmente,
sarebbe stata rivenduta. Quando tuttavia il carico giunse a destinazione,
le frontiere britanniche richiesero
sull’importazione un dazio così alto
Mick Jagger sul palco di Varsavia nel 1967
da rendere il tutto antieconomico, e
l’intera partita venne rimandata indietro. La leggenda vuole per l’appunto che doganieri e finanzieri polacchi abbiano
brindato per anni ed anni con la Stones’ Vodka!
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Ma a prescindere da questo episodio, e dalle difficoltà di carattere economico, è chiaro come dei musicisti multimiliardari viziati, capelloni e dediti
all’uso di droghe rappresentassero agli occhi dei governanti il massimo del
cattivo esempio da non dare al popolo, dunque concerti di rockstar occidentali
da quelle parti se ne vedevano pochi. Sempre riguardo al concerto polacco
degli Stones, va anche detto che da un documentario d’epoca si può vedere
chiaramente come, all’interno della sala, la reazione e il comportamento dei
fan fossero né più né meno quelli assolutamente disinibiti che accoglievano
la band in tutto il resto del mondo - sono pertanto da smentire ricostruzioni
esagerate che volevano agenti di polizia in ogni angolo, pronti a reprimere
qualsiasi accenno di entusiasmo o un minimo gesto al di fuori delle righe.
Oltre all’appena citato concerto dei Rolling
Stones, la Polonia degli
anni ’60 sperimentò anche i tour degli Animals
di Eric Burdon e degli
Artwoods di Art Wood
e Jon Lord, così come
quello dei Procol Harum
nel 1976; e anche i Free
di Paul Rodgers fecero
una sporadica visita in
Ungheria nel 1972. Ma
Gli Artwoods si esibiscono in Polonia
furono comunque casi
marginali, destinati a rimanere isolati, e comunque si trattò quasi sempre di
formazioni soul o rhythm‘n’blues, non particolarmente trasgressive e certo
del tutto apolitiche. Più frequenti furono i concerti di artisti occidentali in
Cecoslovacchia nel breve periodo della Primavera di Praga, anche se magari
i musicisti non erano tra i più famosi (per evidenti questioni di costi d’ingaggio). Gradite erano anche le formazioni di rock sperimentale ed elettronico,
non solo in quanto quel tipo di musica risultava assai amata dal pubblico ma
soprattutto perché essendo le loro composizioni del tutto prive, o quasi, di testi, non si prestavano ad alcun tipo di interpretazione politica. I Tangerine Dream, ad esempio, visitarono sovente la DDR (dove incisero anche un album) e
la Polonia. Molto più frequenti, e di fatto approvati, erano invece i concerti di
artisti puramente jazz quali Duke Ellington o Louis Armstrong, anche perché
il jazz era visto come una forma musicale che dava dignità ai neri d’America,
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visti a loro volta come la classe più oppressa dal capitalismo.
Stante la penuria di informazioni che potevano derivare da radio, TV, stampa e
concerti dal vivo, la migliore
fonte di conoscenza del patrimonio musicale occidentale
era costituita certamente dai I Tangerine Dream nella Repubblica Democratica di Germania
dischi, tanto da quelli stampati
ufficialmente dalle case discografiche controllate dal governo e comunemente
disponibili nei negozi, quanto da quelli importati dall’estero.
Riguardo alla prima categoria, va detto che la pubblicazione di musiche
rock nei paesi del blocco sovietico è sempre stata incostante ed episodica, sicuramente dettata, più che dalle mode o dalle richieste del pubblico, dagli umori
di qualche burocrate di turno e dal momento
politico più o meno favorevole a una concessione in tal senso. Sotto questo punto di
vista, sicuramente la Cecoslovacchia degli
anni che vanno dal 1966 al 1970 è stata la
nazione che ha visto pubblicare il maggior
numero di album di rock occidentale: Bob
Dylan come gli Hollies, Simon & Garfunkel
e i Byrds ebbero tutti dei dischi loro dedicati.
Naturalmente non veniva pubblicato l’intero catalogo, ma solo delle raccolte - spesso
anche poco rappresentative: pensiamo alla
complessità dell’opera di un gruppo come i
Album cecoslovacco di Simon & Garfunkel
Beach Boys ridotta a un solo misero album
con il titolo tradotto
- ma considerata la situazione era già tanto.
Dei Beatles invece vennero editi persino degli album interi, senza dunque rovinare il concetto artistico così come era stato concepito; si ricorda in particolare
l’edizione ceca di Abbey Road stampata con un anno di ritardo (come testimonia
lo splendido libro accluso, impreziosito da foto estratte dal volume contenuto nel
cofanetto inglese di Let It Be). Comunque, anche in Cecoslovacchia non si ebbe
mai un’editoria musicale organica e coerente e spesso di un gruppo veniva pubblicato un solo disco, il più delle volte neanche il meglio riuscito - ad esempio
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l’unico disco dei Deep Purple a essere edito
fu Come Taste The Band, peraltro con una
copertina ed un titolo diversi (Ochutnavka)
- e tutto sembrava sempre affidato all’improvvisazione. Sovente gli album non erano
normalmente reperibili nei negozi, ma potevano essere acquistati attraverso una sorta
di club del disco, per un pubblico, dunque,
di fatto selezionato e limitato. Quasi inutile
dire che non sempre l’intera produzione in
catalogo era facilmente disponibile: talvolta, ad esempio, si potevano trovare venti copie di un determinato titolo mentre gli altri
risultavano irreperibili.
Anche in Polonia sono stati editi degli
album tra la fine degli anni ’60 e l’inizio
del decennio successivo, ma, se possibile,
in modo ancor più amatoriale che in CecoManifesto cecoslovacco per Yellow Submarine
slovacchia: sembra infatti che vi fosse uno
strano gusto nel pubblicare dischi di gruppi del tutto secondari in occidente
(come i Gun di Race With The Devil, i Christie di Yellow River o, ancora, i pur
validi Atomic Rooster di Vincent Crane) tralasciando invece i nomi di maggior rilievo.
Pochi i dischi editi nella Germania
dell’Est, quasi tutti a cominciare dalla seconda metà degli anni ’70, e ancor meno
quelli pubblicati in Romania, laddove fino
alla fine degli anni ’80 non vi fu traccia
di rock occidentale. Solo nel corso degli
ultimi anni dell’avventura comunista, in
Romania vennero dati alle stampe tramite
l’etichetta discografica ufficiale di Stato, la
Electrecord, degli album che poi altro non
erano che riproduzioni di bootleg occiden45 giri polacco di Kate Bush
tali - italiani, per la precisione! Tra le potenze capitaliste occidentali, l’Italia godeva
all’Est di un occhio di benevolenza in virtù del suo grande e numeroso partito comunista, e la presenza anche in Romania di dischi di cantanti e gruppi
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melodici italiani - quali Domenico Modugno e i Dik Dik - mostra come la
canzone italiana tradizionale sia stata sempre diffusa in tutto il mondo, a prescindere dalle diverse situazioni politiche.
Curiosamente, fino alla prima metà degli anni ’80 non vennero pubblicati
dischi di rock occidentale in Ungheria; essendo quello ungherese sicuramente e
di gran lunga il più liberale dei regimi di quegli anni, e appurato che gli ungheresi
conoscevano molto bene la musica rock d’oltrecortina, dobbiamo pensare che in
Ungheria si potessero reperire molto più facilmente che altrove dischi di importazione dall’estero. Va aggiunto che in Jugoslavia e in Cecoslovacchia, ma verosimilmente anche in altri paesi, furono a lungo disponibili album di manifattura
indiana. L’India era considerato infatti un Paese terzo e non allineato, con il quale
dunque potevano essere effettuati più facilmente scambi di natura commerciale.
Molto spesso, comunque, la penuria di musica occidentale derivava più da banali questioni economiche che non ideologiche: le grandi case discografiche non
avevano infatti succursali nei paesi del blocco e le etichette locali non avevano
assolutamente le disponibilità necessarie per pagare i costosi diritti d’autore.
I dischi di produzione nazionale avevano un costo relativamente basso. Essendo il sistema economico non basato sull’economia di mercato e sul principio
della domanda e dell’offerta, i prezzi dei beni erano in linea di massima stabiliti
una volta per tutte ed immutabili. Dunque per trent’anni un LP in Germania Est
è stato venduto a 16 marchi e dieci centesimi (c’è da chiedersi in base a chissà
quale complicatissimo e astratto calcolo economico sia stata sancita l’importanza
dei dieci centesimi!), e analogamente in Cecoslovacchia un disco 33 giri costava
44 corone, in Romania 26 lei, mentre in Polonia vi fu qualche oscillazione poiché
si passò, nel corso di vent’anni, dagli 80 ai 110 złoty (fatto salvo però l’aumento
esponenziale durante la crisi degli anni ’80); in Ungheria invece, come vedremo,
ciò non avvenne poiché il Paese adottò una struttura economica di mercato quasi
all’occidentale - e comunque anche lì i dischi erano piuttosto economici.
È difficile fare raffronti di valore con i prezzi occidentali, sia perché i governi
imponevano un cambio fittizio ed artificiale - la Germania Est per esempio imponeva un cambio fisso di uno a uno con il marco della Repubblica Federale, mentre
al cambio nero in strada si poteva ottenere da cinque a dieci volte tanto - sia perché
in molti paesi la vita era dura e difficile, dunque privarsi di parte dei soldi dello
stipendio per comprarsi un disco poteva costituire uno sforzo maggiore di quanto
non lo fosse per un occidentale, a prescindere dall’astratto potere di acquisto della
moneta. Comunque, in linea di massima, i dischi non erano beni molto costosi e
ciò spiega la loro grande diffusione; sicuramente il basso costo degli LP è stato
uno degli elementi che ha contribuito alla diffusione delle culture rock nazionali.
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Per quel che concerne invece i dischi di importazione tedesca o inglese, non
esistevano canali ufficiali. Tuttavia procurarsi LP in vinile o, meglio ancora, in
formato audiocassetta (più piccole, leggere e che potevano essere spedite più facilmente) non è mai stato difficilissimo, sempre ammesso che non fosse vietato.
Sicuramente la possibilità di effettuare scambi con l’occidente o di riportare a
casa qualche album di rock (per i pochi che potevano permettersi di fare viaggi
all’estero) è variata nel corso degli anni e di Paese in Paese. In Cecoslovacchia,
ad esempio, i cittadini erano relativamente liberi di muoversi all’interno del mondo socialista (Jugoslavia esclusa), mentre per andare altrove era necessario avere
i permessi dal datore di lavoro, dal comitato di partito, ottenere una concessione
di valuta e infine il visto di uscita. Gli ungheresi dal canto loro avevano certamente più libertà di movimento, mentre i romeni erano praticamente confinati in casa.
In generale, non era preclusa la possibilità che qualcuno decidesse di farsi
mandare qualche disco dall’Inghilterra o da qualche altro Paese. Piuttosto, la
cosa più difficile poteva consistere nel trovare il contatto o l’amicizia giusta.
A volte si trattava del classico “amico di penna” (i governi socialisti amavano
l’idea della fratellanza tra popoli e incentivavano, in un certo qual modo, questa idea) oppure di un parente emigrato o che viveva all’estero. Senza contare
i membri di partito, i burocrati, i funzionari, i poliziotti, i militari e, naturalmente, i figli di tutti costoro, ai quali spesso era consentito ciò che agli altri
era vietato. Insomma, al di là della cortina di ferro procurarsi un disco dei
Beatles o dei Rolling Stones era un compito spesso difficile, ma certamente
non improbo o proibitivo - con l’eccezione forse della Romania agli inizi degli
anni’80, dove venne formalmente vietata ogni forma di comunicazione, anche
semplicemente epistolare, con l’estero e le persone potevano venire arrestate
anche solo per aver parlato con un’occidentale!
Vi erano in realtà persone che, già negli anni ’70, magari perché privilegiate, perché impiegate alla radio o alla televisione, o perché avevano la
possibilità di spostarsi all’estero, possedevano raccolte complete non solo dei
maggiori gruppi inglesi, ma anche di formazioni underground italiane o tedesche4. È ovvio poi che bastava un solo vinile a fare la copia su cassetta per
4 - Aggiungo che, personalmente, non ho mai avuto problemi ad effettuare scambi di dischi
con l’Est europeo, né i miei corrispondenti si sono mai fatti alcuna preoccupazione per ciò
che avrei potuto inviare loro, anche se va detto che, quando ciò accadeva, erano oramai gli
ultimi anni del regime. I miei contatti non potevano inviare più di otto LP contemporaneamente,
altrimenti si sarebbe trattato tecnicamente di una “esportazione”, cosa che avrebbe creato
pastoie burocratiche inimmaginabili. Ma al di là di questo non c’erano grossi limiti. Già
allora, comunque, chi cercava dischi era alquanto esigente: ricordo che mi venivano richiesti
regolarmente album assolutamente oscuri, dei quali io stesso ignoravo l’esistenza, e mai i dischi
più comuni dei gruppi affermati.
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tutti, e poi la musica si diffondeva a macchia d’olio! Addirittura in Cecoslovacchia si arrivò al punto di organizzare delle mostre-mercato intese come
punto di acquisto e di scambio di tutto ciò che riguardava il mondo musicale.
Il più delle volte si svolgevano grazie a un’organizzazione “spontanea” nei
boschi nei dintorni di Praga, ma tuttavia queste fiere improvvisate venivano
non di rado interrotte dalla polizia, perché in quel caso si trattava di una forma
di commercio illegale - come ha ben spiegato Vojtech Lindaur, giornalista
cecoslovacco degli anni ’80, in un’intervista a Radio Praga nel 2006.
Libertà e Censura
Finora abbiamo visto quanto (o quanto poco) i cittadini delle repubbliche
popolari fossero liberi di procurarsi e di ascoltare musica occidentale. Tale
analisi è fondamentale al fine di comprendere le influenze che possono aver
agito nel momento in cui essi si sono trovati a dover elaborare il loro modo
originale di fare musica rock.
Da un certo punto di vista, le limitazioni di cui abbiamo discusso potrebbero quasi essere considerate un bene. Infatti, avendo a disposizione un bagaglio
limitato di riferimenti importati, i musicisti hanno dovuto forzatamente fare
ricorso alla propria ispirazione, attingendo al contempo alla tradizione musicale dei loro paesi, piuttosto che alle mode provenienti dall’Ovest. In verità,
la critica che vede il rock italiano di quegli anni (ma il discorso vale anche per
quello tedesco) come in gran parte derivativo rispetto a quello anglosassone
non può essere smentita. I modelli e i comportamenti anglosassoni risultavano
troppo invadenti, nel vero senso della parola, per poter pretendere che i “provinciali” italiani ne restassero indenni. Questo in gran parte non è accaduto
all’Est, dove gli artisti hanno dovuto fare di necessità virtù, sviluppando modi
di fare musica propri e originali, riuscendo a miscelare - spesso con saggezza
- modernità e tradizione. Ciò ha reso gran parte di quelle opere assai vitali nel
tempo, in quanto meno legate alle mode passeggere, e ha creato al contempo
un rapporto unico di affetto e di familiarità con il pubblico che riconosceva
quelle musiche come proprie, anche perché il più delle volte erano cantate
nella lingua nazionale. Ancora oggi, molti dei protagonisti di quelle magiche
stagioni sono non soltanto ancora attivi sulla scena, ma soprattutto celebri ed
ammirati, con un seguito di pubblico popolare, di massa e spontaneo, inimmaginabile per noi occidentali. Purtroppo la loro fruibilità al resto del mondo
rimane limitata, sia in virtù dell’elemento linguistico, sia per le barriere che
l’establishment culturale imperante oggigiorno erige nei confronti di tutto ciò
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che non sia omologato (il discorso vale per la musica, ma ovviamente ancor di
più per il cinema e tante altre forme di espressione artistica).
Ma, una volta intrapresa la propria strada, di quanta libertà godevano musicisti e artisti desiderosi di dar vita alle proprie composizioni? Quanto invadente e pervasivo era il controllo dello Stato, e quanto essi erano invece
padroni di muoversi liberamente?
In teoria ben poco, se consideriamo che nei paesi del blocco sovietico
era effettivamente in vigore un controllo
severo da parte dello Stato, spesso poco
apparente ma capillare, su ogni forma di
diffusione delle idee. Tale controllo si
manifestava attraverso leggi e divieti applicati con zelo, attraverso la forma di organizzazione statale e sociale, attraverso
la struttura economica, ma soprattutto mediante una serie di proibizioni non scritte.
Tra queste, prima fra tutte, e che a noi interessa di più, spicca la censura.
La censura è sempre esistita, ovunque, nei paesi liberali come in quelli
repressivi. Ha assunto forme diverse,
dall’inquisizione al maccartismo, e ha
riguardato tanto gli aspetti più propriamente politici quanto, più spesso, quelli
morali, sessuali o religiosi. Comunque
è una realtà, codificata dalle leggi o esistente di fatto, che non è estranea a quasi nessuna società. La censura è subdola
Rapporto della Stasi sul fenomeno
nei paesi democratici, e strutturata e codei gruppi beat (vedi capitolo sulla DDR)
dificata in quelli che non hanno timore di
mostrare la propria autorità come lo erano i regimi fascisti e le democrazie
popolari di cui parliamo.
Sicuramente in Ungheria, come in Polonia o in Cecoslovacchia, esisteva
una censura cui dovevano essere sottoposti i film, le pubblicazioni a stampa e,
verosimilmente, anche i contenuti dei dischi che dovevano essere pubblicati in Cecoslovacchia, ad esempio, dopo l’agosto ’68 fu istituito l’Ufficio per la
Stampa e l’Informazione (UTI, o Utisk) il cui primo impegno fu la censura di
qualsiasi critica verso l’URSS o gli Stati fratelli. CONTINUA SUL LIBRO...
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Si può immaginare peraltro che non fosse una censura investita di un grande lavoro. Mentre era possibile, infatti, che in un articolo di giornale qualcuno
fosse andato un po’ troppo oltre le righe o che in un film, tenuto conto della
complessità della trama e degli avvenimenti, il regista si fosse spinto leggermente al di là del consentito, rimaneva relativamente improbabile che in un
disco venissero ravvisati chissà quali intenti controrivoluzionari5. I musicisti
sapevano infatti molto bene che determinati argomenti erano banditi, intoccabili, veri e propri tabù. Nessuno aveva interesse a fare un disco per poi
vederselo bocciare, meno che mai per procurarsi guai con la polizia politica.
Naturalmente sarebbe stato possibile fare un disco “impegnato” parlando bene
del partito, ma di questo fortunatamente pressoché nessuno sentì mai l’esigenza. Questo spiega anche il motivo per cui nella musica dei paesi del blocco
di quegli anni (in particolar modo nella DDR) risulti spesso preponderante
l’aspetto musicale rispetto a quello dei testi, sebbene quest’ultimo, quando è
stato proposto, abbia sempre dato prova di altissimo valore poetico.
Tuttavia, e lo vedremo nel corso della storia, vi sono stati casi in cui la
censura dovette intervenire per bloccare la pubblicazione di alcuni dischi,
per modificare i testi di alcuni brani (spesso in modo insignificante, seguendo processi logici comprensibili solo ai censori) o perfino per imporre delle
modifiche alle copertine. Una sorta di censura era spesso costituita dal divieto
di ristampare determinati album: ad esempio, dopo il processo di normalizzazione seguito alla Primavera di Praga del 1968, tutti gli LP pubblicati in
quella magica stagione caddero, per così dire, in disgrazia
e non vennero più ristampati,
con buona pace dei collezionisti che oggi se li contendono
a caro prezzo poiché, ovviamente, introvabili.
Ben più invadente fu invece l’intervento della censura in
campo letterario - basti pensare ai numerosi scrittori la cui
Scena dal film A Tanú.
opera venne osteggiata se non
Il treno dei fantasmi del socialismo nel parco giochi
del tutto proibita, come Kafka,
5 - L’uso di questa parola è volutamente ironico: è infatti in questo modo che nel 1956 vennero
bollati gli Ungheresi che si opponevano all’invasione sovietica - stante il fatto che la prima
rivoluzione, quella “vera”, era quella che aveva abbattuto lo stato borghese.
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