Helen Alford e Francesco Compagnoni Etica civile ed impresa 1. Il Manifesto della Fondazione Lanza per una rinnovata etica civile nella parte dedicata alla Economia inizia così: “La crescente complessità dei problemi economici che il pianeta nel suo insieme e le singole realtà territoriali si trovano ad affrontare richiede un forte riferimento a principi etici condivisi.”. Come possono essere “condivisi” i principi etici? Storicamente, ci sembra che due proposte, più o meno fattibili, siano state avanzate. Attualmente quella dominante in Occidente (e finché l’Occidente rimane la parte trainante del mondo, in un senso reale è anche dominante nel mondo intero) è la ricerca di un consenso. Questo può essere sia a priori, cioè, può consistere nell’astrazione di un “contratto sociale” che crei le basi di una vita in comune dove ognuno è trattato con dignità, in un modo uguale, che a posteriori, dopo la costituzione della comunità, dove attraverso i processi democratici si arrivi, idealmente, a posizioni in comune sui vari problemi da affrontare. L’altra proposta, emarginata dall’Illuminismo in poi ma che sta riprendendosi, è quella del "diritto naturale", cioè la teoria che sostiene che esistono in ogni uomo certe tendenze intrinseche, strutturali da sviluppare e di certi limiti alla sua azione (come la regola universale di “non uccidere”) che tutti possono riconoscere. In un periodo come il nostro, dove cerchiamo di trattare l’ambiente “secondo la sua natura”, cioè di avere un rapporto “sostenibile” con esso, e dove contemporaneamente vediamo l’ascesa di nuove potenze come la Cina, dove il pensiero di Confucio (simile a quello di Aristotele) è ancora molto influente, ci sembra importante sviluppare anche quest’altra strada verso principi etici condivisi. I risultati dei nuovi saperi come le neuroscienze e la genetica tendono a sostenere la posizione che abbiamo “predisposizioni” linguistiche e morali che sono da formare e sviluppare durante la vita, soprattutto durante l’infanzia (ma non solo) nel contesto di un ambiente sociale e culturale. E non dimentichiamo che anche le grandi “tradizioni di sagezza” (wisdom traditions) tendono verso certi punti in comune. Con questa forma di “triangolazione” fra varie fonti, possiamo creare una posizione forte in favore di un set di principi etici condivisi. Questa posizione si è già dimostrata recentemente convincente nei confronti del mondo delle grandi imprese attraverso il movimento nato attorno alla fondazione inglese “Blueprint for Better Business”. Attualmente la BBB sta lavorando con 11 delle FTSE 100 (le 100 imprese più grandi della GB) e con molte altre. L’approccio comincia dall’idea che l’impresa deve porsi un obiettivo centrale da raggiungere (il purpose dell’impresa), il quale si fonda su, e parte dalle dignità umana e il bene comune come sono interpretati anche nella Dottrina Sociale della Chiesa. Ma ci sono due altre cose che rendono questa posizione convincente nei confronti delle imprese: primo, c’è un gruppo di esperti di altre religioni e di dirigenti che appartengono a queste fedi che sottoscrivono alle stesse posizioni, e stanno lavorando per dimostrare il collegamento fra le loro tradizioni e i principi di BBB; secondo, ci sono i risultati delle nuove scienze, come abbiamo menzionato sopra, che confermano le indicazioni delle tradizioni di saggezza. Mettendo insieme la “caritas” delle fedi e la “veritas” delle scienze, possiamo costruire una posizione più forte di quella che ognuna di loro potrebbe avere da sola. 2. La rivista on line OIKONOMIA, che fa riferimento alla Facoltà di Scienze Sociali dell’Angelicum di Roma, si pone da anni questi temi. Il secondo numero di quest’anno di OIKONOMIA (giugno 2016) è un fascicolo monografico sull’economia circolare; i numeri passati includono numeri monografici sulla sviluppo sostenibile e la decrescita (febbraio 2012), la CSR in Italia (ottobre 2014), i fondamenti etici della CSR (febbraio 2009) e vari contributi e articoli dal convegno: “The Good Company: dottrina sociale della chiesa e la responsabilità sociale d’impresa in dialogo” (dal giugno 2007 al ottobre 2008). La Facoltà si impegna su questi temi anche a livello della offerta formativa. Essa propone due Master annuali per la gestione del Terzo Settore e per la Responsabilità Sociale d’Impresa. Diversi membri dello staff editoriale fanno anche parte di agenzie per gli investimenti etici e di movimenti internazionali per l’etica imprenditoriale. La nostra attenzione si è concentrata propriamente sul ruolo dell’impresa, intesa come centro propulsore dell’economia contemporanea. Ma al livello nazionale, e molto di più a quello internazionale, è molto difficile, sia teoricamente che praticamente individuare (e far rispettare) “principi etici comuni” per le imprese. E ancora: quali sono questi principi e come si individuano ? La summenzionata BBB è una giovane iniziativa, finora molto limitata nella sua estensione e non è sicuro che riuscirà a diventare un movimento internazionale/globale. Ma i tentativi globali non mancano. Abbiamo il Global Compact, lanciato nel 2004 dall’ONU di Kofi Annan, iniziative della ‘laica’ Caux Round Table (Moral Capitalism at Work), proposte della ‘religiosa’ enciclica Caritas in Veritate sulla possibilità che i principi del non-profit inficino anche l’economia profit (l’economia del dono). Da non dimenticare anche il progetto Weltethos di H. Kueng, che ha avuto anche applicazione all’economia, non per ultimo attraverso il “Manifesto for a Global Economic Ethic” dove il “principle of humanity” è il punto di partenza (http://www.globaleconomicethic.org/main/pdf/ENG/wemanifest-ENG.pdf ) 3. Il Global Compact sembrerebbe finora il tentativo più diffuso e più consistente in quanto fa riferimento ai diritti umani codificati e accettati ufficialmente dagli stati ONU. In realtà i 9 diritti umani (più la proibizione della corruzione) sono di per se indirizzati agli stati, che si sono impegnati a rispettarli firmando appositi documenti. Le imprese invece non hanno firmato nessuna convenzione o patto (né potevano non essendo soggetti di diritto internazionale). Sono quindi invitati ad osservare e promuovere questi particolari diritti umani, ma su un piano di volontarietà, su un piano non giuridico bensì morale sotto forma di Responsabilità Sociale d’Impresa. Anche i “Principles for Responsible Investment”, un’iniziativa del sistema ONU, nata accanto al Global Compact, porta in avanti un discorso simile nel settore dell’investimento. Sul piano ‘morale’ - quindi decisamente ‘beyond the letter of the law’- si possono distinguere il piano teorico e quello operativo. Quest’ultimo va poi diviso ulteriormente in simbolico e pratico. Come esempi, sul piano teorico si pongono le osservazioni del Capitolo sull’Economia del Manifesto della Fondazione, su quello operativo simbolico il movimento dell’Economia di Comunione, su quello operativo pratico la proposta di ‘votare col portafoglio’ di Leonardo Becchetti. Possiamo anche notare un'evoluzione nella definizione della RSI. Mentre del libro verde del 2001, la Commissione dell’UE parlava di un impegno “volontario” che andava “oltre la legge”, nella “strategia per la CSR” del 2011, la stessa istituzione parlava della CSR come responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società – evitando il riferimento alla volontarietà e la distinzione fra la responsabilità giuridica e sociale/volontario. Questa nuova definizione ha dei vantaggi paragonata a quella precedente, ma ha perso il riferimento all’intenzione (soggettiva) degli attori nell’impresa. Da un certo punto di vista, questo è un vantaggio (per esempio, facilita la misurazione della CSR, che è diventata una cosa piuttosto “oggettiva” e quindi misurabile), ma lo svantaggio è che, oscurando il lato delle motivazioni, tende a favorire lo spazzare via (crowding out) delle motivazioni intrinseche. Una definizione che combina bene il lato oggettivo con quello soggettivo è stata avanzata da Leonardo Becchetti nel suo articolo in OIKONOMIA dell’ottobre 2011, dove scrive che adottare la CSR significa “il passaggio dal criterio della massimizzazione del valore per gli azionisti a quello di un’attenzione più bilanciata ed equilibrata verso una più vasta platea di stakeholders che include i consumatori, i lavoratori, i fornitori, le comunità locali fino ad estendersi alle generazioni future” (http://www.oikonomia.it/index.php/it/oikonomia-2011/ottobre-2011 ). Qui vediamo una definizione che punta sulle relazioni fra gli stakeholders, la quale permette di dare il giusto peso agli aspetti oggettivi e soggettivi della CSR, con una tensione creative fra di loro. 4. Resta però il piano politico. Cioè né teorico né lasciato solo all’iniziativa operativa dal basso, anche se necessaria conseguenza delle altre due considerazioni. E’ stato recentemente tradotto in italiano lo studio di Robert B. Reich, Saving Capitalism, dove viene fortemente sottolineato che per avere una società equa e giusta è necessario dividere il reddito già nel momento della produzione e non solo nel momento della ridistribuzione del reddito attraverso la tassazione. Il crescente divario nei nostri paesi tra salari medi a livello di impresa e quello dei dirigenti è un segno evidente, rilevabile e significativo. Reich sottolinea che l’intervento governativo in un’economia ‘democratica’ non è abnorme perché il mercato ‘libero’ stesso è creato dalle condizioni politiche che lo stato solo può creare, definire e sostenere. Ma rifacendosi all’art. 25 della Dichiarazione Universale del 1948 (“Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia…) questo criterio di distribuzione del reddito in fase di produzione sotto il controllo politico si può far valere per tutti gli uomini, non solo per i salariati di ogni singola impresa. Il che significa che i rapporti tra paesi ricchi (e trasformatori) e paesi poveri (spesso detentori di materie prime) deve decisamente cambiare se vogliamo risolvere il divario tra il miliardo di persone relativamente benestanti e i 6 miliardi di diseredati, spesso estremi. Recentemente, vari libri importanti sono stati pubblicati sulla disuguaglianza (nazionale, internazionale, globale – Piketty, Atkinson, Bourgignon, Milanovic). Secondo quello più recente, il Global Inequality: A New Approach for the Age of Globalization di Branko Milanovic (Harvard University Press, 2016), la disuguaglianza globale sta riducendosi dal 2000, anche se di poco, ma quando la Cina sorpasserà il livello medio globale, questa tendenza potrebbe rinvertirsi. Non è chiaro da dove verrebbero miglioramenti simili in futuro (non sembra, ad esempio, che l'India è in grado di seguire la Cina su questa strada). In un grafico che presenta l’aumento proporzionale nei redditi reali pro capite attraverso la distribuzione globale del reddito dal 1988 al 2011, Milanovic dimostra che le classi medie globali hanno raddoppiato il loro reddito (sono le classi medie dei paesi emergenti; molti sono in Cina), mentre le classi medie dei paesi ricchi hanno sperimentato uno stallo. Ma sono gli estremi che dimostrano tendenze più eclatanti; mentre i ceti globali più poveri hanno perso, il top 1% ha visto un aumento di reddito reale di circa 40% (questo gruppo include il top 12% di statunitensi e il top 5% di inglesi). Attualmente, il global top 1% riceve 29% del reddito mondiale e detiene 46% di tutte le ricchezze del mondo. Il fattore che ha più effetto di tutti gli altri su quanto una persona guadagna è il luogo di nascita; Milanovic chiama questo l’ “affitto di cittadinanza”. Attualmente, il lavoro che ognuno fa ha un effetto leggermente più grande sul reddito percepito che nel 19° e 20° secolo, ma il cambiamento è poco. Per questo i poveri del mondo hanno capito che il modo più sicuro di migliorare la loro situazione è di migrare ad una parte più ricca del mondo. 5. Con l’aumento delle disuguaglianze nei paesi ricchi (cioè, paesi influenti nel sistema internazionale) e l’ascesa di partiti di estrema destra e xenofobi negli stessi paesi, la pressione migratoria che questa situazione crea non può essere gestita in un modo adeguato. E sempre più importanti che i governi, soprattutto dei paesi ricchi, ma anche degli altri, adottano politiche che contrastino l’aumento della disuguaglianza al livello nazionale. Mentre Milanovic pensa che questo tipo di intervento è possibile da prevedere in Cina, non è così ottimista per gli Stati Uniti. Se non possiamo prevedere questo tipo di bilanciamento al livello nazionale, come possiamo aspettarlo al livello globale? In concreto questo discorso sul ‘necessario e impossibile’ controllo politico vale soprattutto per le grandi imprese transnazionali che non rispettano nessun principio seppur semplice di giustizia. Operano in un ambito dove i singoli stati non arrivano con la loro competenza, oppure ‘saltano’ da uno stato all’altro a secondo dei propri interessi (La ex-Fiat ha sede legale in un paese comunitario ma paga le tasse in un altro dell’Unione Europea). Inoltre quanto più tali imprese si finanziarizzano, tanto più sfuggono ad un pur minimo controllo statale, e quindi politico. La proposta alle quale il gruppo di OIKONOMIA sta lavorando è quindi quella di intensificare la riflessione etica (teorica, simbolica, pratica e politica) sul ruolo dell’impresa per ridurre il malessere che la situazione attuale inevitabilmente genera.