EMMAUS E LA VIA DELLA SPERANZA di Antonio Pitta* Forse è noto che i vangeli utilizzano raramente il verbo “sperare” (elpìzein) e il sostantivo “speranza” (elpìs), mentre sono Paolo e Pietro con le loro lettere (Cfr. in particolare Romani 8,18-24; 1Pietro 3,13-16) a dedicare grande attenzione alla descrizione di quest’importante virtù teologale che dovrebbe alimentare il cammino dei discepoli del Risorto. Sorprende, in certo senso, che nei vangeli non sia riportato alcun discorso di Gesù che tratti in modo esplicito della “speranza”. In realtà anche se mancano i termini tipici della speranza, questa occupa grande spazio nei racconti delle parabole e dei miracoli riportati nei vangeli. Restando al vangelo di Luca, che nel corso del prossimo anno liturgico scandirà le domeniche dei credenti, i racconti dell’infanzia di Gesù sono colmi di speranza per coloro che, come Maria ed Elisabetta, attendono la visita del Signore (Cfr. Luca 1,5-2,52). E lo sguardo di quanti parteciparono al primo discorso di Gesù nella sinagoga di Nazareth è quello di chi povero, prigioniero, cieco ed oppresso (Cfr. Lc 4,16-21) si attende finalmente il vangelo della liberazione dall’oppressione materiale e spirituale. La fede dei malati o dei loro parenti che incontrano Gesù di Nazareth è continuamente tesa verso la speranza della guarigione: si pensi alla vedova di Nain (Lc 7,11-17) o a Giairo il capo della sinagoga (Lc 8,40-56). Con le parabole si assiste all’incontro stupendo tra le speranza umane, come dimostrano la parabola delle dieci vergini in Lc 19,11-27, e quelle divine, come si verifica con le parabole della misericordia: Dio stesso è come un pastore alla ricerca della pecora perduta, come una casalinga indaffarata nel ritrovamento del danaro smarrito e, soprattutto, è il Padre nell’attesa del ritorno del figlio perduto (Cfr. Lc 15,1-32). Nella preghiera, che caratterizza l’attesa del Signore, i discepoli sono esortati a vegliare senza stancarsi (Cfr. Lc 21,29-26); e sino all’ultimo momento della sua vicenda terrena Gesù diventa, sulla croce, destinatario di speranza per il “buon ladrone”: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42). Tuttavia, sembra che la narrazione più esemplare sulla speranza nel terzo vangelo si riscontri nella nota pagina dedicata ai discepoli di Emmaus, dove Luca riporta l’intenso dialogo con il Risorto: “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Lc 24,21). Nonostante i discepoli siano vissuti accanto e dietro Gesù per lungo tempo e abbiano ascoltato gli annunci della sua risurrezione, nel terzo giorno, di fronte alla sua morte di croce hanno perso ogni speranza: il loro cammino da Gerusalemme ad Emmaus è gravido di disperazione e di fallimento! Dal seguito della narrazione sappiamo che l’episodio di Emmaus si conclude con il ritorno dei discepoli a Gerusalemme per riferire ciò che era accaduto lungo la via e come l’avessero riconosciuto nello spezzare il pane (Cfr. Lc 24,35). Che cosa ha permesso la conversione del loro cammino, sino ad attraversare la speranza illusoria, la delusione scottante e approdare alla “speranza viva” (Cfr.1 Pt 1,3), riprendendo la definizione che della speranza cristiana offre Pietro nella sua prima lettera e che sta guidando la Chiesa Italiana verso il prossimo Convegno di Verona? Tra il “noi speravamo” e il “non ci ardeva forse il cuore” di Lc 24,32, l’evangelista descrive e indica le condizioni imprescindibili perché i discepoli diventino testimoni del Risorto e della speranza nella vita oltre la morte. Anzitutto è la prossimità misteriosa del Risorto che “si avvicina e cammina con loro” (v. 15) a rappresentare l’inizio della speranza cristiana: forse se il Risorto non avesse condiviso il loro cammino lungo la via, non avrebbero creduto in lui né avrebbero sperato, tanto era profonda la loro delusione. Soltanto quando si è “afferrati da Cristo”, mediante il suo Spirito, si possono superare le delusioni per il proprio discepolato e si può comprendere che la sequela di Cristo non è un’avventura passeggera o adolescenziale, segnata soltanto dall’illusione. Pertanto è l’incontro del Risorto con ogni discepolo che motiva la propria speranza, senza lasciarsi catturare dall’illusione per un Godot che non arriva mai, secondo la drammatica commedia di Samuel Beckett. Tuttavia, il Risorto non ci raggiunge per autoconvinzione personale, nel qual caso, l’illusione risulterebbe ancora più delusiva, bensì attraverso la sua Parola: “E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (v. 27). Sulla sua Parola, che rende viva e attuale l’intera Sacra Scrittura, bisogna gettare le reti della propria speranza per diventare suoi discepoli: sono questi i primi passi della sequela di Pietro, in occasione della pesca miracolosa (Cfr. Lc 5,1-11). E se il Risorto non apre la nostra mente all’intelligenza delle Scritture (Cfr. Lc 24,45 per i discepoli chiusi nel cenacolo) non possiamo, in alcun modo, superare le soglie delle case o delle sagrestie in cui ci siamo rintanati, per pigrizia o per paura, e diventare audaci testimoni di speranza. La paziente frazione della Parola, illuminata e spiegata dall’incontro con il Risorto, conduce i discepoli di Emmaus a rivolgergli una delle preghiere più intense: “Resta con noi Signore, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (Lc 24,29). Non basta la frazione della Parola per attraversare la notte dei dubbi e della disperazione; è necessaria che quella condivisione diventi “frazione del pane” da toccare e da mangiare: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (v. 30). Al culmine della vicenda di Emmaus, il Risorto compie gli stessi gesti realizzati durante l’ultima cena, senza neanche il bisogno di pronunciare una parola di commento perché siano riconosciuti dai discepoli come quelli di un corpo e di un sangue donati per tutti, sino alla morte di croce. Per questo ogni volta che nella comunità dei credenti si compie il prodigio della frazione della Parola e del pane si realizza il miracolo della guarigione da ogni forma di cecità, soprattutto di chi non sa dove e in chi puntare lo sguardo delle proprie speranza: “Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (v. 31). A causa dell’importanza paradigmatica che intende conferire alla via di Emmaus, Luca utilizza il raro verbo “sperare” nel suo vangelo: dall’incontro con il Risorto che “avviene” nello spezzare la Parola e il pane, si diventa credibili testimoni di speranza, di fronte a coloro che non hanno speranza. E non è fortuito che l’episodio di Emmaus sia descritto durante il “primo giorno dopo il sabato” che corrisponde alla nostra domenica, il giorno del Signore perché egli è il Signore dei giorni, né che uno dei due discepoli di Emmaus resti anonimo rispetto a Cleòpa. I credenti non possono vivere senza dominicum, senza la domenica dell’incontro con il Risorto nella frazione della Parola e del pane. E l’anonimato dell’altro discepolo può e dovrebbe essere colmato dal nome di ognuno di noi perché lungo la strada della nostra esistenza possiamo essere rigenerati in quella “speranza che non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato” (Romani 5,5). Forse non si sbaglia a intitolare la via che da Gerusalemme raggiunge il villaggio di Emmaus come “via della speranza”. n *Preside Pontificia Facoltà Teologica Italia Meridionale Sez. San Luigi-Napoli