CONIDERAZIONI CONCLUSIVE SULLA POETICA DI MONTALE
Quella di Montale è la “poesia delle cose”, ma sempre con un valore simbolico.
A titolo di esempio è significativa la prima poesia della raccolta “Ossi di seppia”:
“I limoni”. Questa lirica è stata assunta come immagine della sua poetica.
Montale si rivolge con un tono volutamente familiare (= ‘Ascoltami’) a un
interlocutore indeterminato (il famoso ‘tu’ montaliano), che egli chiama a
testimone della sua concezione di poesia: gli parlerà delle “strade che riescono
agli erbosi / fossi”, delle “pozzanghere / mezzo seccate”, delle “viuzze che
seguono i ciglioni”, di ‘cose’ insomma opposte al paesaggio aulico e illustre dei
“poeti laureati” (a partire dai ‘classici’ fino a D’Annunzio) che invece parlavano di
piante nobili e dai nomi altisonanti come i ‘bossi’, i ‘ligustri’ e gli ‘acanti’.
LA PAROLA E IL MONDO
Il suo modo di fare poesia è un riflettere sulla poesia stessa (metacognizione:
scrivere poesie riflettendo cioè sulla poesia nel suo farsi) e questo implica la
meditazione sul senso e sulle possibilità (in verità molto limitate) della parola,
che non arriva mai a dar conto di una realtà inesplicabile. La parola non può
fermare ciò che non può essere fermato: la parola non può spiegare la vita.
È interessante confrontare questo pensiero con quanto aveva affermato
Pirandello in “Uno, nessuno e centomila” a proposito del suo relativismo:
“Ognuno per se stesso non è nessuno, ma è quello che sembra agli altri,
assumendo tante infinite realtà diverse a seconda del giudizio che gli altri si
formano di lui; perciò è centomila, ossia assume centomila forme ed apparenze
diverse. Il dramma vero è cercare di essere uno, cioè se stessi, trovare una
forma, vivere la pena della propria forma, poiché la vita o la realtà non è, ma
diviene sempre, fluisce inarrestabile, mutevole, senza meta, senza assoluto”.
Rileggendo queste parole si nota una certa affinità fra il pensiero di Pirandello e
quello di Montale in merito al rapporto fra la parola e il mondo (ovvero l’uomo)
all’interno della complessità del reale e del rapporto tra verità e finzione.
Secondo Montale, inoltre, ammesso che il ‘miracolo’ esista, esso sfugge ad ogni
possibilità conoscitiva, non appartiene ai sistemi che interpretano la realtà,
anche se a volte è possibile intuirne l’esistenza per una sorta di ‘folgorazione’
improvvisa (poesia come illuminazione = lezione di Ungaretti).
Un’altra lezione di Ungaretti gli viene da un nuovo modo di fare poesia
attraverso l’uso dell’analogia. Ungaretti infatti aveva detto che, mentre
nell’Ottocento ci si era serviti (in senso metaforico) dei ‘ponti’ e delle ‘strade’ per
creare i rapporti tra le immagini, nel Novecento invece si abbattevano i ponti, si
tagliavano i ‘fili’ e si demolivano le ‘rotaie’ perché l’immagine (sott.: da sola)
‘(ri)chiamasse’ l’immagine.
IL PAESAGGIO E LE COSE
Per esprimere il suo modo di ‘sentire’ le cose entro una visione di negativa
consapevolezza della vita, Montale ambienta le sue poesie in un paesaggio
domestico (la ‘sua’ Liguria) arso dal sole, fatto di - usando le sue parole - muri
scalcinati, prati polverosi, orti (nel senso letterale del termine, senza nessun
latinismo), burroni, rupi, terreni bruciati dal sole e abitati dal croco (di colore
giallo zafferano), dalle ginestre, dalle margherite e dall’agave (simbolo
quest’ultima di tormento e di immobilità: “ora son io / l’agave che s’abbarbica al
crepaccio / dello scoglio”). In questo scenario antiretorico il poeta colloca il suo
“male di vivere”, che si manifesta proprio a partire da questo mondo
allusivamente irto e difficile. Lo sguardo del poeta passa attraverso le cose
fisiche e per questo la critica ha parlato di “poetica degli oggetti”: gli oggetti
diventano la manifestazione esterna di una ‘spinta’ interiore nata nel profondo.
Come dice lo stesso Montale nell’ “Intervista immaginaria” (del 1946):
“Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra
l’occasione e l’opera-oggetto, bisognava esprimere l’oggetto e tacere
l’occasione-spinta”. È la famosa tecnica del “correlativo oggettivo” (l’oggettosimbolo) di cui aveva parlato Eliot nel suo saggio su Amleto.
IL PARTICOLARE ERMETISMO DI MONTALE
A causa del rapporto espresso tra psicologia e cosa, tra riflessione e oggetto, la
poesia di Montale risulta più ‘difficile’ rispetto a quella di Ungaretti e diversa da
quella di altri poeti ermetici a lui contemporanei: per Montale non si tratta di
fare una poesia ‘pura’ (come diceva invece Ungaretti) tutta giocata sulle
suggestioni sonore, ma di costruire una lirica che corrispondesse alla sua
concezione in negativo della vita, tesa a dare testimonianza del nulla. È il
nichilismo di uno sguardo che tuttavia non rinuncia a guardare e che pone al
nulla che scruta domande lucide e ostinate. L’oggetto non ne esce mai avvolto
da un alone di mistero, anzi: spicca nella pagina poetica e quasi assale il lettore
nella sua cruda essenzialità. Si tratta della visione del mondo tipica della filosofia
esistenzialista che concepiva la vita come angoscia e rivelazione del nulla, come
naufragio esistenziale. I nomi delle cose secondo Montale hanno lo stesso potere
evocativo delle immagini poetiche e rinviano ad un loro soprasenso, ad un ‘oltre’
che però non è da intendersi come un rapporto religioso con l’aldilà (come in
Ungaretti). Quello di Montale è un amore per il nulla, ma, paradossalmente, in
una delle ultime raccolte poetiche, ‘Satura’, nella sezione intitolata ‘Xenia’ (dal
greco: epigrammi con cui si accompagnavano nell’antichità i doni inviati agli
amici in occasione di feste), tutta dedicata alla moglie morta da poco, questa
(‘Mosca’= Drusilla Tanzi) gli appare in sogno attraverso il ricordo di momenti di
vita vissuta e con lei il poeta sembra continuare un tenero colloquio famigliare al
di là della morte, un dialogo che diventa una riflessione sulle verità inafferrabili…