Fulvio Carmagnola 10 gennaio 2008 TRE DISCORSI SUL METODO. Qualche ragionamento preliminare sul problema di come pensare e mettere in forma la propria ricerca nel campo delle scienze umane/sociali UNO – Il foglio bianco Scrive Max Weber nel saggio “La scienza come professione” (1918-19): “Ciò è semplice e facile, quando ognuno abbia trovato il demone che tiene i fili della sua vita” (tr. it. p. 43). Il “metodo” consiste forse nel trovare e nominare questo demone? All’origine di questa relazione stanno alcune domande insieme banali e tremende. Domande che immagino – sulla base della mia esperienza di docente – che voi stessi con maggiore o minore grado di lucidità e di chiarezza vi siate fatti. Come suonano - a un primo elementare livello - le domande del metodo? - ma tu come fai a studiare? - e che cosa cerchi? - e soprattutto: perché lo fai? Cartesio come vedremo si pone il compito – ingenuo e insieme grandioso, fondativo – di rispondere a questo tipo di domande. Ma a un differente livello di razionalizzazione ci si può chiedere : - che cos’è il “metodo” - e oggi c’è “il” metodo? - che cosa definisce la scientificità di ciò che chiamiamo “scienze umane e/o sociali” ? - quali sono i parametri o i criteri che definiscono la qualità scientifica di un lavoro “di ricerca”? A queste domande non c’è una risposta univoca e rassicurante. Quella che Cartesio ricerca attraverso il metodo, ovvero “la salda roccia” della certezza, è oggi più che mai vacillante. Possiamo dare due definizioni iniziali di orientamento per ciò che intendiamo come “metodo”. E’ “la via per-“, ovvero il metodo è in rapporto al fine, allo scopo della ricerca: “regulae ad directionem ingenii” suona il titolo di uno degli scritti cartesiani. O, per dirla con Weber, sarebbe l’insieme dei procedimenti che garantiscono “l’oggettività” di un sapere nell’àmbito delle scienze “storicosociali”. Tuttavia, dal momento che abbiamo perduto la fiducia proto-moderna nella rintracciabilità o financo nell’esistenza della “salda roccia”, credo che il modo più sensato per dscutere oggi del metodo sia di dire: 1 In questa circostanza In rapporto a questo field o dominio o campo Questa ricerca esemplare Ha usato questi procedimenti E ottenuto questi risultati. Si tratta allora di motivare questa modalità che è la nostra (e non più quella cartesiana), conseguente a una constatazione : esistono “metodi” e non più “il” metodo. La mia discutibile modalità di esposizione, di conseguenza, si articolerà cosi: - in primo luogo l’esame di tre “discorsi sul metodo” che scandiscono a mio parere tre periodi di sviluppo dei saperi nel campo delle scienze umane - in secondo luogo, la proposta di un esercizio che consisterebbe nel cercare di ricavare, a monte di alcune esposizioni esemplari, il metodo di ricerca da esse impiegato, anche quando questo non sia dichiarato esplicitamente - in terzo luogo, il tentativo di ricavarne non dico le nuove regulae ad directionem ingenii, ma almeno alcune indicazioni . DUE. L’origine, il punto di mezzo, il presente Vorrei confrontare ora tre grandi testi. Tra loro intercorre uno spazio di più di tre secoli che scandisce anche lo sviluppo o la crescente “differenziazione” dei saperi (Weber) e insieme una profonda discontinuità. Eppure qualcosa li tiene legati: un sistema di riferimenti impliciti o espliciti, una continua ridefinizione di ciò che dovrebbe essere uno specifico modello di “scientificità”, un’indagine sulla figura del ricercatore. Dobbiamo cercare di capire le faglie, le differenze, e insieme dove siamo noi – sulle spalle di questi giganti. Il primo e obbligatorio riferimento, naturalmente, è il Cartesio del Discorso sul metodo (1637) e delle Meditazioni che lo accompagnano. Determiniamo innanzitutto il campo e lo scopo della sua ricerca: a che cosa serve il metodo? Il campo è la connessione, presente nella cultura del tempo, tra la ricerca della “verità” e la “vita buona” - cioè una connessione tra il livello epistemologico e il livello etico. E’ precisamente questa connessione che verrà messa in discussione nella modernità sviluppata, come vedremo, da Weber. Parlo in prima persona : da che cosa sono colpito, che cosa ho imparato rileggendo Cartesio? Che la figura demonica del cogito è in larga parte una nostra reinvenzione – una forma di Nachtraeglichkeit, avrebbe detto Freud. E che dunque noi possiamo respingere come sorpassate le regole del metodo o accettarle come una sorta di luogo comune basico. Ma in ogni caso non 2 possiamo più prenderle “alla lettera” come un enunciato “vero”. Per capirle dobbiamo genealogizzarle – e non limitarci a situarle lungo l’asse diacronico di un divenire progressivo di cui esse sarebbero il punto iniziale. Ma dicendo questo, sto già facendo una scelta metodologica di cui vi avverto – sto leggendo Descartes dopo che, o meglio, perché, ho studiato Foucault, o Nietzsche. E’ sempre cosi: non possiamo che guardare il passato alla luce del presente. Proviamo ora a ri-dire le quattro regole e a seguire brevemente il percorso espositivo del Discours: le regole stanno “in luogo della congerie di regole di cui la logica si compone” – scrive con pragmatica semplicità Cartesio. Sono, insomma, una sintesi, una semplificazione operativa. E dunque si tratta d’ora in poi di “non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi evidentemente per tale in modo cosi chiaro e distinto da non offrire alcuna occasione di essere revocata in dubbio (…) dividere ciascuna delle difficoltà (…) in quanti più punti era possibile (…) imporre ai miei pensieri un ordine cominciando dagli oggetti più semplici (…) fare (…) enumerazioni (…) complete e rassegne (…) generali” (tr. it. p. 303; vedi anche Terza meditazione, tr. it. p. 90; corsivi miei). Non accogliere, dividere, ordinare, enumerare. Tutto qui? Non v’è chi non veda che queste regole oggi fanno parte del buon senso elementare di ogni ragionamento, fino alle regole seguite da ogni manager nei propri resoconti agli azionisti. Ma del resto Cartesio l’aveva detto: “il buon senso è la cosa nel mondo meglio ripartita” e si tratta di seguire il lumen naturale di cui ognuno di noi è dotato… La grandezza del suo gesto allora consiste proprio nell’aver postulato questa presenza, nell’aver radicalmente seguito la semplicità del comportamento cognitivo che ne derivava. Ma la questione per noi è: da dove vengono le regole? Da dove viene la credenza nel lumen naturale? Da dove parla Cartesio? Perché il metodo? Sono le domande alla Foucault, le domande sull’origine del bisogno del metodo. Per ora limitiamoci a mettere in luce alcune considerazioni sulla strategia e sul progetto di ricerca cartesiano. In che cosa consiste? Consiste nel cercare la verità “per dirigere bene la propria vita”. Al metodo, alla sua esposizione, Cartesio arriva raccontando la propria vita: il Discorso è prima di tutto un’autobiografia. E’ retto da una constatazione iniziale, quasi un postulato (una credenza trascendentale, diremmo) – il lumen naturale – e giunge a una conclusione di grande importanza strategica per il pensiero moderno fino a Nietzsche e a Freud: il cogito non è ancora l’astrazione dell’io-penso, è ancora insieme anima. Ma soprattutto, è ciò che meglio conosciamo di noi stessi. Lo svolgimento è il seguente: il cogito/anima (la cosa che pensa) è una scoperta del metodo: 3 “bisognava necessariamente che io che lo pensavo fossi qualcosa (…) questa verità, penso dunque sono, era cosi salda e certa da non poter vacillare (…) giudicai di poterla accettare come il primo principio della filosofia che cercavo. (…) conobbi cosi di essere una sostanza la cui essenza o natura era esclusivamente di pensare” (Discorso, tr. it. p. 312). Ricordiamo la catena inferenziale che si sviluppa: a sua volta, Dio è una scoperta del cogito , una sua deduzione (ivi, p. 313). E il mondo fisico è garantito infine dalla veracità di Dio benchè Cartesio si cauteli nell’esposizione del sistema del mondo enunciandolo come una supposizione, memore dei contemporanei processi di Galileo (condannato nel 1633). Va messo in rilievo, in particolare, che le regole logiche hanno con le scienze della natura un rapporto singolare. Noi oggi diremmo che le scienze della natura sono state a lungo il “paradigma” della scientificità – ma questa è una constatazione aprés-coup. Per Cartesio le regole del metodo sono una semplificazione pragmatica della logica e della matematica - “un’arte confusa e oscura” (ivi p. 303) i cui procedimenti raffinati possono essere semplificati e trasferiti nel campo delle “scienze” e nel campo della ricerca delle verità in generale. La stessa geometria analitica cartesiana non è altro, nella mente del suo fondatore, che la risposta a un’esigenza di visibilizzazione, proveniente dall’ordine, per cosi dire, in cui il pensiero e il sensibile sono ancora mescolati. Mi serviva, scrive Cartesio, per trasformare le aride cifre immaginandole “sotto forma di linee, perché non trovavo nulla di più semplice né di più adatto a venir rappresentato distintamente alla mia immaginazione e ai miei sensi” - e poi dovevo poter esprimere queste linee con “cifre, le più compendiose che fosse possibile” (ivi p. 304). Cartesio insomma non si azzarda a dire come Galileo che è la natura stessa a parlare il linguaggio dei numeri … Ne consegue un progetto di ricerca “avanzato”, un secondo stadio: trasferire le competenze e le sicurezze che il metodo ha dato all’esame del mondo fisico, e in particolare, verso la fine della sua vita, alla medicina. Perché la medicina? Perché è il sapere che più corrisponde al proposito di “essere utili” (ivi p. 341). Inclinazione etica, come si vede. Mi concentro ora su alcune considerazioni. In primo luogo, lo ripeto, il cogito cosi come noi lo pensiamo ora è in un certo senso una retro-proiezione del moderno. In Cartesio non possiede ancora quella purezza che noi gli abbiamo conferito per poi demonizzarlo e detronizzarlo. Noi lo abbiamo reificato nell’entità astratta “pensiero” ma questa entità per Cartesio è ancora molto ricca, comprende gli attributi del sentire, dell’anima. Il suo progetto di ricerca, dovremmo azzardare, non è ancora “scientifico” nel senso che più tardi verrà attribuito a questo termine, è piuttosto “etico”, appunto. Si potrebbe 4 dire, utilizzando il linguaggio di Foucault, che in fondo appartiene a una strategia di cura del sé. In secondo luogo, il field della sua ricerca non è ancora strutturato o “differenziato” come si esprimerà Max Weber. La distinzione tra scienze umane/sociali e scienze della natura non è ancora emersa: Cartesio è un pensatore dell’ “età classica” , c’è in lui ancora forte l’eredità della scolastica con le sue nozioni e il suo lessico, insieme alla precisa consapevolezza dell’alto livello raggiunto da alcuni campi specifici: la matematica, la fisica galileiana, la logica (Port-Royal è dello stesso periodo). Ma è proprio questa condizione ancora indistinta che gli permette di pensare “il” metodo come una dimensione di pensiero universale e trasversale. Ecco perché le regole da un lato procedono in parallelo con le “meditazioni metafisiche” (elaborate a partire dal 1629 e diffuse quattro anni dopo il Discorso, nel 1641). E dall’altro, si tratta di una razionalizzazione eticopragmatica del livello raggiunto dagli episodi più avanzati del sapere del tempo. Non è percepita la differenza tra il sapere dei fondamenti e le regole del buon vivere - proprio la faglia su cui si soffermerà in modo drammatico il discorso di Max Weber, come vedremo. Dunque, si può capire Cartesio non prendendolo alla lettera ma in modo genealogico e per cosi dire “al futuro anteriore”. Il nostro cogito è quello che il cogito cartesiano “sarà stato”. Ne consegue una constatazione apparentemente paradossale: abbiamo bisogno di Weber per capire Cartesio – e di Foucault per capire entrambi. Per capire il cogito allo stato nascente , non a caso contemporaneo al grande dipinto di Velàzquez, “Las meninas” (1656) che Foucault commenterà in uno dei suoi scritti più celebri. Spostiamoci adesso dallo stato nascente (o dall’età classica) alla modernità sviluppata per prendere in considerazione una seconda grande posizione metodologica, quella espressa da Max Weber in particolare in tre scritti: il discorso ai giovani studiosi intitolato “La scienza come professione” (1918-19) e due dei saggi compresi nel volume dal titolo Il metodo delle scienze storicosociali (1904, 1917). La prima osservazione che vorrei fare riguarda il mutamento di scenario e di field. Il campo è costituito ormai da un insieme di discipline altamente strutturate e specializzate – lo scenario è quello della modernità sviluppata dove prevale la “specializzazione” o come Weber la chiama, la “differenziazione” irreversibile dei saperi. Lo sfondo è costituito dal “politeismo dei valori”. La specializzazione si oppone alla possibilità di fondare un sapere sul semplice lumen naturale, mentre il politeismo implica scelte etiche drammatiche. Leggiamo all’inizio della conferenza del 1918: “Un’opera realmente solida e definitiva, oggi, è sempre un’opera specializzata. Resti quindi discosto dalla scienza chi non è capace di mettersi, per cosi dire, il paraocchi, e di penetrarsi dell’idea che il destino della propria anima dipende 5 appunto dall’esattezza, poniamo, di quella congettura, proprio di quella, rispetto a quel passo di quel manoscritto. Altrimenti egli non avrà mai fatto dentro di sé ciò che può chiamarsi ‘l’esperienza vissuta’ (Erlebnis) della scienza. Senza questa strana ebrezza, derisa dai non iniziati, senza questa passione (…) non c’è vocazione per la scienza e bisogna scegliere un’altra via. Giacché per l’uomo nella sua umanità nulla ha valore di ciò che non può fare con passione” (tr. it. p. 13). Noterò che “anima” ed “esattezza” sono termini che nella loro antitetica coappartenenza figureranno nelle pagine di uno dei grandi scrittori del Novecento, Robert Musil. Dunque “il metodo” è ormai lontano dall’essere un insieme di regole per raggiungere la verità e condurre una vita buona. E la scienza, ormai identificata nella sua specificità e distinzione (“scienze dello spirito”, “scienze storico-sociali”) sottostà a determinate condizioni.: - si dissocia dalla ricerca del “significato ultimo” - si può oggettivare solo nella coscienza della sua parzialità - ha in comune con le scienze della natura il procedimento della “logica”. Il significato obiettivabile, rintracciabile, scrive Weber, riguarda solo “una parte finita dell’infinito numero dei fenomeni (…) una sezione finita dell’infinità priva di senso del mondo” (Il metodo… tr. it. pp. 92 e 96). Non c’è tempo qui per ricordare analiticamente lo scenario del dibattito sulle scienze dello spirito al quale Weber partecipa (cfr. il preciso saggio introduttivo di Pietro Rossi a Il metodo…). Richiamo solo brevemente alcuni punti chiave della posizione weberiana. Questi punti sono: a - lo scenario del sapere: crisi della deducibilità analitica e quindi della connessione cartesiana tra cogito, Dio e mondo b - il politeismo: una visione drammatica e post-nietzscheana del conflitto irrimediabile tra i valori ultimi (“morte di Dio”) c - il metodo che ne nasce: tipizzazione ideale, come costruzione riflessiva cosciente del suo statuto interpretativo e non rappresentazionale d - la figura dell’intellettuale: come lavoratore della conoscenza (diciamolo alla nostra maniera) che non è in grado e non vuole pronunciarsi sulla questione dei valori e - infine il profilo della ragione che ne emerge: una fiducia ancora “moderna” nell’oggettivabilità, a determinate condizioni. Lo scenario del sapere – Weber certifica la crisi definitiva di quello che lui definisce “naturalismo monistico” e che noi potremmo definire “il profilo Cartesio-Laplace” (mi riferisco al celebre scritto di Laplace del 1814). Il “fine della conoscenza”, scrive Weber, non può essere raggiunto “mediante l’investigazione di ciò che è conforme a leggi” (Il metodo… p. 88). Quand’anche potessimo ridurre a legge, trovare le leggi o i fattori ultimi di “tutte le connessioni causali dei processi finora osservate, ed inoltre anche di quelle pensabili in qualsiasi tempo futuro” (una chiara eco di Laplace, appunto) tutto questo non ci fornirebbe altro che un “lavoro preliminare” in 6 vista della conoscenza del significato delle “connessioni culturali” - cioè di quello che Weber definisce “senso”. In altre parole, la conoscenza del reale come deduzione da leggi è un’ipotesi che appartiene al “monismo naturalistico”, alla convinzione che la ragione possa abbracciare la realtà – la quale, invece, deve ormai essere pensata appunto come un divenire infinito privo di senso. Le scienze storico-sociali devono affrancarsi dal “pregiudizio naturalistico, secondo il quale si dovrebbe dar luogo (…) a qualcosa di affine a ciò che producono le scienze esatte della natura” (ivi p. 105). E’ qui che entra in gioco la considerazione del mutamento storico: le scienze sociali del XX secolo nascono da una reazione critica alla “fede ottimistica nella possibilità di una razionalizzazione teoretica e pratica del reale” tipica delle concezioni del mondo del XVIII secolo. Al contrario le scienze sociali contemporanee assumono il “carattere problematico” di tale punto di vista. Il politesimo – Da questa constatazione nasce l’impossibilità di ciò che Cartesio professava, cioè “una conoscenza di tipo monistico dell’intera realtà, che fosse puramente ‘oggettiva’ cioè sciolta da tutti i valori, e al tempo stesso razionale, cioè liberata da ogni accidentalità” (ivi p. 102). Come si vede, Weber giunge per le scienze sociali a un analogo di ciò che per le assiomatiche sarà il teorema di Goedel, di un decennio successivo. Noi viviamo in un’epoca di disincanto (Ent-zaeuberung), come già Freud andava constatando. Il politesimo non è la risorgenza dell’antico paganesimo né la futura indifferenza eclettica post-moderna, ma la conseguenza drammatica del fatto che il nostro mondo ha perduto la possibilità di dedurre i valori supremi – Nietzsche aveva parlato del nichilismo come la situazione nella quale “i valori supremi si svalorizzano”. Dobbiamo imparare a vivere in questo mondo: la scienza non può dedurre i valori, quindi non può darci sicurezza nella scelta, non può rispondere alla domanda “quale degli dèi in lotta dobbiamo servire?” (“Il lavoro…” p. 38). All’individuo abbandonato dalla fede spetta la scelta difficile di muoversi in un mondo dove la realtà è riconosciuta, scriveranno Berger e Luckmann (1966), come “costruzione sociale”.. Il metodo – E’ a valle di questa constatazione, di questo scenario. Se i valori non sono deducibili, il presupposto di ogni percorso scientifico non può essere dimostrato con i mezzi della scienza stessa, e questo vale per tutte le scienze – come si vede, l’analogia con il teorema di Goedel è piuttosto impressionante: le scienze naturali presuppongono, senza essere in grado di dimostrarlo, che il cosmo sia “degno di esistere” – e all’altro estremo l’estetica e la critica d’arte presuppongono, senza essere in grado di dimostrarlo, che “debbano” esservi opere d’arte, che debba esservi il bello… Allora a che cosa serve il metodo? Il metodo è lo strumento del procedere scientifico, e la scienza “questo soltanto (…) può indicare: se si vuole conseguire un risultato, il mezzo per raggiungerlo ci è dato da questa regola 7 (…) “. Ma non può dire se i fenomeni da essa indagati siano degni di -, in altre parole, metodo e valore si dissociano. Il metodo fa si che lo scienziato possa dire a chi deve decidere : guarda che, dati i tuoi presupposti - che io non sono in grado di discutere (politeismo dei valori) - le conseguenze logiche sono le seguenti. Insomma, scrive Weber, il metodo serve a fare “l’analisi logica di un ideale”. A partire da questa posizione, il metodo delle scienze storico-sociali, come è noto, si baserà sulla nozione di Idealtypus, che Weber definisce come “un ordinamento concettuale della realtà empirica” (Il metodo… p. 67) che non ha alcuna pretesa di individuare come la realtà sia in se stessa, ma solo di produrre un quadro coerente a fini euristici, con il quale misurare gli elementi empirici presenti nel campo: “il concetto tipico-ideale serve a orientare il giudizio di imputazione nel corso della ricerca (…). Esso non è una rappresentazione del reale ma intende fornire (…) un mezzo di espressione univoco (…) ottenuto mediante l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e mediante la connessione di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura (…) corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, in un quadro concettuale in sé unitario. Nella sua purezza concettuale questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro storico si presenta il compito di constatare in ogni caso singolo la maggiore o minore distanza della realtà da quel quadro ideale” (Il metodo… p. 108, corsivi miei). Weber fa qui l’esempio del concetto di “economia cittadina” e altrove parla del concetto marxiano di “capitalismo” come un Idealtypus – ma potremmo fare altri esempi da altri campi: il concetto di economia del dono in Mauss o la stessa nozione di “pulsione” in Freud - definita come una “semplificazione (…) cui tendiamo nel lavoro scientifico” (Il disagio della civilità, 1929, tr. it. p. 255) - o altri. L’ Idealtypus weberiano insomma non è un’essenza, un “fine” ma solo un “mezzo” per la ricerca (Weber, cit. p. 111). La figura dell’intellettuale – Come il metodo nasce dalla disillusione sulla possibilità di connettere sapere e valori, cosi la figura dell’intellettuale è il risultato di una drammatica autolimitazione: l’intellettuale si occupa delle conseguenze di scelte che può fare solo in quanto essere umano, ma che non può fare in quanto intellettuale. Si muove nel cerchio tracciato dalla sua “vocazione” (Beruf) , dalla sua passione, dalla sua professionalità autolimitata. E’ notevole il fatto che il messaggio etico di Weber sia rivolto esplicitamente ai futuri studiosi (nel discorso del 1918 che ho citato) e che si basi tutto sull’esplicita distinzione tra l’esposizione scientifica e la demagogia del tribuno, concludendosi su un tono volutamente dimesso: 8 “tra le pareti dell’aula d’insegnamento una sola virtù ha valore: la probità intellettuale (…) ci metteremo al nostro lavoro ed adempiremo al ‘compito quotidiano’ – nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale.” (Il lavoro… pp. 42-43). E infine, quale profilo di ragione emerge da questa posizione? – Come ho cercato di mettere in luce, “che il mondo abbia un senso” è un presupposto di valore, non scientifico, che il lavoro intellettuale come professione non può accogliere. Questa posizione, si può notare, somiglia molto, se non nello stile almeno nell’atteggiamento, a quella di un Wittgenstein, che nell’ultima parte del Tractatus scrive, in quegli stessi anni: tutto ciò che può dirsi, deve potersi dire chiaramente - e “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” (Tractatus, Proposizione 7, tr. it. p. 82). E tuttavia resta per il modello di razionalità di Weber un duplice presupposto che chiameremmo “moderno” : in primo luogo la fiducia che lo stesso disaccordo, di cui si deve tener conto, possa essere obiettivato – pensiamo per contro alla posizione di un pensatore del post-moderno come JeanFrancois Lyotard, secondo il quale la condizione di “dissidio” è strutturale (Il dissidio, 1983, tr. it. 1985) o in altro ambito, alla nozione di “incommensurabilità” in Thomas Kuhn. Per Weber invece anche un cinese deve poter riconoscere il potere della logica, e soprattutto anche ai contendenti schierati su fronti opposti è possibile “conoscere perché e in che cosa non si può concordare”, e “comprendere ciò che l’avversario (…) realmente intende” (Il metodo… p. 327). Una posizione che ritroveremo in Habermas. Il secondo potente segnale di un atteggiamento che non è ancora arrivato allo scetticismo postmoderno è la proclamata fiducia nella possibilità che il lavoro scientifico sia in grado di distinguere i “fatti” dalla sfera dei “valori” - un presupposto senza il quale l’intera costruzione delle scienze storico-sociali perderebbe qualunque possibilità di “obiettivazione”. Che sia insomma possibile distinguere tra la esposizione obiettiva che “un fatto concreto avviene cosi (…) la situazione concreta in esame si è configurata cosi” – e la domanda su “che cosa si deve praticamente fare in una concreta situazione?” (Il metodo… p. 334). Come si vede, non è possibile discutere di un metodo o del metodo in modo completamente immanente, senza far luce sui presupposti da cui l’esigenza metodologica nasce. Abbiamo cosi riscontrato una differenza profonda tra il “monismo” cartesiano e l’inevitabile constatazione di Weber che prende atto dello scenario della differenziazione e specializzazione dei saperi. Che cosa ci resta di questa eredità? In primo luogo l’atteggiamento di consapevolezza, ovvero la capacità riflessiva di mettere in luce la domanda: tu da dove vieni? E’ l’eredità di ciò che Paul Ricoeur defini a suo tempo “la scuola del sospetto” – un sospetto moderno i cui principali rappresentanti secondo Ricoeur sono stati Marx, Nietzsche e Freud. 9 La ricerca di Michel Foucault raccoglie e radicalizza questa eredità – è noto che lo stesso pensatore francese ebbe a definirsi a suo tempo come “un marxista nietzcheano”. Ora vorrei riprendere alcune delle sue posizioni, chiarendo che non mi pongo qui la questione se Foucault “abbia ragione” o se la sua ricerca sia più consistente rispetto a Weber o a Cartesio. Certo questi, e altri, sono suoi precedenti obbligatori. La questione sarebbe piuttosto: come fa Foucault a dire quel che dice, quale dominio o campo investe le sua ricerca, quali sono i suoi strumenti di indagine. Si può cominciare dicendo che Foucault reagisce a un atteggiamento esemplare della modernità, che troviamo espresso in pagine come quelle di Ernst Cassirer. Il filosofo tedesco scriveva in un passo di Filosofia delle forme simboliche (1923, tr. it. 1961, vol. I , p. 331): “Dalla sfera della percezione sensibile a quella dell’intuizione, dall’intuizione al pensiero concettuale e da questo al giudizio logico, conduce, per quanto riguarda la riflessione critico-epistemologica, una via non interrotta” (corsivi miei). Potremmo opporgli la dichiarazione di Foucault: “ho dissociato la lunga serie costituita dal progresso della coscienza” (L’archeologia del sapere, 1969, tr. it. 1971, p. 15). Guardiamo prima di tutto il campo di riferimento di Foucault: all’inizio della sua ricerca, verso la metà degli anni cinquanta, si tratta del sapere psichiatrico, e questa fase culmina nella elaborazione della Storia della follia (1961). Alle spalle, una enorme mole di documenti che si riferiscono alla micro-storia, dunque l’assunzione di una forma di sapere paradigmatico: la storia documentale, la micro-economia, opposta alla grande “storia delle idee”. Il “metodo” è innanzitutto scelta di campo: la molteplicità delle analisi “concrete” contro l’astrazione delle grandi formazioni ideali. Emergono in seguito tre grandi campi di riferimento definiti come “scienza naturale”, “analisi delle ricchezze” e “grammatica generale”, di cui Foucautl esaminerà il passaggio verso discipline diversamente strutturate, nel passaggio dalla “età classica” alla “modernità”. Dunque, nel complesso, la ricerca della prima fase sembra pienamente corrispondere alla nozione weberiana di “scienze storico-sociali” a base “empirica”. Il percorso complessivo appare ripartito in due tipologie di scritti: analisi di campo (“empiriche”!) da un lato, scritti riflessivi e “metodologici” dall’altro. Con un punto di svolta o di radicalizzazione situato alla fine degli anni sessanta, non a caso contrassegnato dalla lettura della Genealogia della morale di Nietzsche. E’ in questo punto che emerge, a valle, la riflessione sul metodo: L’archeologia del sapere (1969) è il Discours di Foucault. A differenza del suo grande predecessore, Foucault decide di riflettere a posteriori su quel che ha già fatto: “mi sono dedicato a fare un bilancio (…) di ciò che avevo intrapreso in occasione di indagini concrete” (Archeologia… p. 233). 10 Qui emerge la strategia. Si tratta di disfare, di disaggregare le grandi continuità ideali (sul tipo di quella espressa da Cassirer), di scavare, nello stile della genealogia di Nietzsche, alle spalle degli impliciti del sapere. Di rivelarme i presupposti – per dirla alla Weber, di mettere in luce lo strato dei “valori”. Di un valore su tutti: il valore di verità – o piuttosto, della verità come un valore. Di rivelare insomma quella che potremmo chiamare la posizione di enunciazione o il trascendentale implicito: da dove viene quel che dici? A differenza di Weber, Foucault sceglie di discutere, di rendere discutibili, proprio i “valori”. Ma per farlo bisogna cambiare campo. La domanda archeologica, scopre Foucault, chiede “alle cose dette (…) in che modo esistano” – notare: non “perché” esistano (Archeologia… p. 127). Si tratta dunque di riesaminare la “storia delle idee” e di scavare dietro le nozioni di “soggetto”, “continuità ideale”, “progresso”. La domanda del metodo cambia rispetto all’età classica cartesiana e alla stessa modernità rappresentata da Weber: non è più “come ottenere la certezza della verità e condurre una vita buona” ma nemmeno “come dare ai propri procedimenti un sufficiente grado di oggettivazione”. La stessa “oggettivazione” diventa discutibile, l’a-valutatività di Weber discende, vista con lo sguardo archeologico, da un valore non dichiarato e dunque tanto più potente. Si tratta dunque di rimettere in discussione lo stesso valore della verità che si cerca. Ovvero. Da dove viene il fatto che l’uomo (moderno, occidentale) ha impostato tutta la propria ricerca sulla verità senza domandarsi perché lo sta facendo? Ne emerge una “teoria generale delle discontinuità” (Archeologia, p. 19) e una riflessione su quell’entità indiscussa che si chiama “soggetto”. Vorrei esaminare ora alcuni tratti di questo percorso per mettere in luce il legame tra strategia di ricerca e metodo – Cartesio alla luce di Nietzsche, si potrebbe dire. Il punto chiave, lo sottolineo ancora, è biografico: “Mi sono dunque messo a descrivere delle relazioni tra enunciati. Ho avuto cura di non accettare per valida nessuna di quelle unità che mi potevano venir proposte e che l’abitudine mi metteva a disposizione. Ho deciso di non trascurare nessuna forma di discontinuità” (Archeologia… p. 41). . Noterete senz’altro l’ironica ripetizione dello stile autobiografico cartesiano. Alla luce di questa nuova versione del dubbio metodico le grandi unità disciplinari – medicina, grammatica, economia – si rivelano essere solo una forma nachtraeglich, “un raggruppamento retrospettivo”. Vengono quindi sfasciati gli “oggetti”, i gruppi di enunciati unitari delle forme tradizionali del sapere, e ne emergono nuove formazioni concettuali. In particolare la nozione di “discorso” appare non più come il prodotto di un Soggetto (trascendentale o storico-ideale) ma come una congerie eterogenea e impersonale : “esteriorità”, “cumulo”. 11 Va notata l’estrema creatività lessicale, l’invenzione di una terminologia teorica specifica. Deleuze spiegherà a questo proposito che la filosofia è “invenzione di concetti” Vorrei ricordare solo alcuni di questi termini che diventano elementi di un lessico concettuale innovativo e coerente, legati circolarmente: DISCORSO VERITA’ EPISTEME ARCHIVIO Il DISCORSO – da prodotto di un soggetto a “realtà materiale” o “evento” (L’ordine… tr. it. p. 40). L’ipotesi è che “in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, terribile materialità” ( L’ordine… tr. it. p. 9 , corsivi miei ). Notate la tonalità marxiana: il discorso viene considerato come un modo di produzione. Il discorso è un insieme di relazioni anonime che produce o rende visibile il suo soggetto – e non viceversa. Gli oggetti di cui il discorso parla a loro volta non esistono là fuori ma solo “nelle positive condizioni di un ventaglio di rapporti” – e qui si vede l’eredità del dibattito strutturalista. Il discorso è una “pratica” che produce gli oggetti di cui parla (Archeologia… pp. 59-60). E’ “l’insieme degli enunciati che appartengono a uno stesso sistema di formazione” – la formazione discorsiva appunto. Il campo degli enunciati è anonimo e dispersivo, è questo che decide e “definisce la possibile posizione dei soggetti”, e va esaminato a prescindere dai soggetti stessi (Archeologia, p. 141). Il discorso è insomma il trascendentale del cogito, rovesciando la premessa cartesiana che sta alla base dell’epistemologia moderna. Diciamola cosi: quel che Cartesio non poteva vedere è che il suo cogito è a sua volta non un inizio, ma un prodotto. L’ARCHIVIO - è l’insieme dei “sistemi di enunciati”, o “la legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l’apparizione degli enunciati”. Ci siamo dentro, ci si dà “per frammenti, regioni e livelli” (Archeologia, pp. 150-151). Lo si può vedere e descrivere, nota Foucault con una strana inflessione quasihegeliana, solo stando sul bordo – il bordo che “circonda il nostro presente (…) a partire dai discorsi che hanno appena cessato di essere i nostri” – come nel caso della follia che è ormai diventata “malattia mentale”. L’ 12 “archeologia” allora non è altro che il discorso che descrive l’archivio stando sul bordo, descrive i singoli enunciati come prodotti di “pratiche specifiche” appartenenti all’archivio. L’EPISTEME – E’ “l’insieme delle relazioni che per una data epoca si possono scoprire tra le scienze quando si analizzano al livello delle regolarità discorsive” (Archeologia… p. 218). Ci ritornerò. Ci può essere però un’archeologia, un metodo archeologico di analisi, che non si riferisca solo al “sapere” ma che investa anche altre pratiche: la sessualità, l’arte, la politica, l’etica. Ci possono essere, anticipa Foucault, “archeologie nonepistemologiche”. Questa dichiarazione programmatica apre all’ultima fase della sua ricerca, incompiuta. Infine, LA VERITA’ – la verità è un prodotto, non un fine indiscusso. Deriva dalla “volontà di verità”. Qui Foucault non fa che svolgere nel campo delle scienze umane l’intuizione nietzscheana. Invece di descrivere (alla Cassirer, appunto) “in che modo la verità si sia liberata dall’errore” (Archeologia, p. 163) si tratta di esaminare i tratti di questa volontà (storica) che impone il discorso-di-verità come il discorso principale – e cosi facendo si occulta, diventa “inaggirabile”. Diventa cioè un presupposto sul quale si smette di discutere, e che sta dietro la “verità proposizionale” ovvero i contenuti dei singoli “enunciati”. Si potrà allora discutere se l’enunciato sia vero o falso, ma non mai mettere in discussione precisamente il fatto che si faccia questo, come scopo, culmine e nocciolo del discorso scientifico… Insomma l’esame archeologico della verità scopre come la posizione di enunciazione (volontà-di verità) scompaia da sempre dietro il “discorso vero”, come essa sia “un prodigioso macchinario destinato ad escludere”, insomma un meccanismo di potere (L’ordine del discorso, pp. 17-18). E’ in virtù di questo meccanismo che non ci si potrà limitare a “dire il vero” – si dovrà prima “essere-nel-vero” ossia ottemperare a norme di “polizia discorsiva” (ivi, pp. 27-28) mettendosi sotto la protezione dell’insieme (archivio) dei discorsi riconosciuti-come-veri e respingendo i “mostri” fuori dell’ordine del discorso stesso: Mendel, ma anche Galileo, e poi Bataille, Artaud… la casistica dei mostri è lunga e istruttiva. Mi fermo qui nell’esposizione per domandarmi ora: quali risultati ottiene Foucault? Provo a ripeterne uno scarno elenco: - la liberazione da un modello “lineare” e progressivo della storia delle idee (Archeologia, p. 194) - la decostruzione del trascendentale sovrano del “soggetto” e la ridefinizione della nozione stessa di soggetto come “il tema generale delle mie ricerche” (cit. in Catucci, 2000, p. 132) - cioè come un termine problematico e non come un definiens, un saldo punto fermo 13 - la messa in discussione delle altre grandi unità : “origine”, “mediazione” e la possibilità di rivelare dietro la storia ideale di queste grandi unità la presenza della “volontà di verità”. In un certo senso il circuito discorso/episteme/archivio rappresenta cosi una nuova figura di trascendentale storico: anonimo, impersonale, plurale, eterogeneo. Un insieme di pratiche che “fanno” il soggetto – considerazione che porterà alle ricerche degli ultimi anni sui processi sociali di “soggettivazione”. La descrizione dei processi sociali di soggettivazione non è, come qualcuno equivoca, un tardo “ritorno alla soggettività”. E’ piuttosto, come osserverà Deleuze, una descrizione del campo di possiblità che si apre ai soggetti all’interno dei regimi storici di discorso, degli archivi. E’ interessante a questo punto chiudere questa breve analisi tornando sulla definizione di quello che a mio avviso è il principale concetto innovativo introdotto in questa fase della sua ricerca – il concetto di episteme - rispetto al quale potremo rilevare una significativa differenza anche da Weber. Ripetiamo: l’episteme “non è una forma di conoscenza o un tipo di razionalità che (…) manifesta la sovranità di un soggetto, di una mente o di un’epoca; è l’insieme delle relazioni che per una data epoca si possono scoprire tra le scienze quando si analizzano a livello delle regolarità discorsive” – ovvero ciò che, per una data epoca, “rende possibile l’esistenza delle figure epistemologiche e delle scienze” – e non “ciò che si può sapere di un’epoca” (Archeologia, p. 218, corsivi miei). Ecco la differenza rispetto al suo predecessore nella scuola del sospetto, Max Weber: per Weber i “trascendentali” sono i “valori ultimi” e su questi la scienza non può e non deve parlare – per Foucault essi sono invece accessibili all’analisi storico-sociale in quanto insiemi di “positività”. Non si tratta di criticarli ma, con una forma di sguardo clinico, di cartografarli. E’ possibile ora dire che cosa impariamo da Foucault sul piano del metodo che costituisce l’oggetto di queste riflessioni? In primo luogo, va notato che uno stile accomuna Foucault a Weber sul piano dell’atteggiamento etico: “La genealogia è grigia; meticolosa, pazientemente documentaria (…) esige dunque la minuzia del sapere, un gran numero di materiali accumulati e pazienza (…) . In breve, un certo accanimento dell’erudizione” (“Nietzsche, la genealogia, la storia” 1971, tr. it. in Microfisica del potere, p. 29). Si tratta di una citazione quasi letterale da Nietzsche (Genealogia della morale, tr. it. p. 220). Ma non pare anche di risentire Weber con il suo appello all’ understatement ? ma di più: la genealogia è anche una posizione di lettura della storia delle idee, mi suggerisce ancora una volta che d’ora in poi non posso più leggere Cartesio o lo stesso Weber secondo la verità 14 professata dai loro enunciati – cioè come oggetti autonomi, come testi indipendenti dai “discorsi” che li hanno generati, e nemmeno come punti su una curva continua che si chiama “progresso del sapere” . Esige, piuttosto, attenzione alle differenze e alle discontinuità che a loro volta non si vedono di primo acchito, nell’immanenza testuale, ma solo di traverso, nel confronto con gli altri elementi dell’insieme eterogeneo di appartenenza (looking awry, scriverà di recente Slavoj Zizek). Il metodo deve poter rintracciare l’archivio. Foucault insomma ha preso alla lettera l’intuizione di Nietzsche – ha tolto il velo alla verità. D’ora in poi l’enunciato va considerato non come il prodotto del soggetto ma come elemento (“evento”) di un sistema archivio/episteme/discorso. Dovrò quindi genealogizzarlo, rintracciare gli ordini di discorso che lo producono, l’archivio di appartenenza, la posizione di enunciazione… Ne emerge un altro “metodo” per la storia – nel caso specifico, per la storia delle idee, e più avanti per la storia della sessualità, e in prospettivva, per la storia dell’arte, per l’etica…. Usare la storia non per ridurre le differenze immaginandole su un asse diacronico continuo (la “crescente differenziazione” di Weber, la “via non interrotta” di Cassirer). Questo procedimento starebbe ancora all’interno del cammino verso quella “verità” che resta indiscutibile. Per contro la storia genealogica esalta le pluralità, le discontinuità e le eterogeneità non commensurabili perché appartenenti a differenti ordini e nello stesso tempo costruisce nuovi insiemi trasversali – collezioni di eterogenei, diranno Deleuze e Guattari (1991, tr. it. 1996). Ma allora, per esempio, lo stesso prender partito per una verità possibile – ha ragione Foucault, ha ragione Weber – dal punto di vista genealogico è una domanda che perde di senso, perché cerca, appunto, la verità - restando all’interno di quel trascendentale storico chiamato “volontà-di-verità”. Qualcosa di simile era già stato intuito da Weber, con la dissociazione tra analisi e scelta - ma Foucault lo radicalizza. I trascendentali possono essere e vanno guardati da fuori – e questo fuori è la posizione laterale (non il God’s eye view) di colui che sta sul bordo. Per inciso: la stessa opposizione pratico (empirico) vs. teorico risulta a questo punto impropria, se guardiamo con attenzione come sono strutturate queste ricerche. Per Weber infatti tutte le scienze storico-sociali sono per definizione “empiriche” nel senso che devono riferirsi a un campo di elementi fattuali, di “dati” su cui lavorare. La posizione di Foucault, come si è visto, è assai simile: la sua ricerca genera, a un certo punto, una fioritura concettuale e lessicale altamente innovativa ma lo può fare solo sulla base di una ricerca “empirica” sterminata e paziente – i testi di storia della medicina, le statistiche, la microstoria sociale e economica e cosi via: per esempio, il contorno che a un certo punto si definirà (con un atto eminentemente teorico) come “discorso medico” (Archeologia, p. 61) – è composto da un brulicare di frammenti empirici, dalle varie forme di “enunciati” tra loro eterogenei, raccolti e studiati: descrizioni, racconti, ragionamenti, ma anche statistiche, 15 deduzioni, esperimenti … La teoria, l’atto teorico, traccia il contorno che unifica e dà forma a una quantità di empiricità eterogenee. TRE – Considerazioni non conclusive Queste analisi ci suggerirebbero ora un utile esercizio, come anticipavo: cercare di scoprire, in alcune opere esemplari, il “metodo” che si annida nel “risultato”, cioè nella forma finale della Darstellung. Solo in alcuni casi il metodo è trasparente, a volte bisogna inferirlo. Diciamola cosi: si tratterebbe di mettere a nudo gli intestini della macchina, di aprire il cofano e esaminare il motore, invece di limitarsi a leggere le prestazioni sul cruscotto. Tentare di giungere a una qualche consapevolezza del metodo guardando bene quello degli altri invece di dedurne uno dall’autoosservazione immanente di stile cartesiano. Come si vede, uan conseguenza di quel che suggerivo all’inizio. A questo punto devo operare però un salto logico e passare a considerazioni di altro ordine. Mi ero ripromesso di esaminare due opere esemplari che appartengono a due differenti campi delle scienze umane – la sociologia e la critica letteraria, per la precisione – per compiere l’esperimento che annunciavo qui sopra. Le due opere che avevo scelto sono Pierre Bourdieu, La distinzione. Ctitica sociale del gusto (1979, tr. it. 1983) e Peter Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo (1984, tr. it. 1995). Sarebbe stato davvero un esercizio molto utile. Tuttavia per motivi di tempo questo non mi sarà possibile. Mi lmito quindi a enunciare la probabile “scaletta” per un’analisi di questo tipo: - rintracciare il campo di riferimento e la sua configurazione - tenere presenti gli autori di riferimento e la posizione del ricercatore rispetto a loro - rintracciare l’intuizione o la domanda iniziale della ricerca - rilevare le anomalie o i problemi immanenti al campo - mettere in luce la strategia di ricerca implicita o esplicita - esaminare le caratteristiche dell’esposizione - analizzare la qualità delle conclusioni rispetto al campo affrontato. Ripiegherò allora su alcune considerazioni di ordine pratico, tenendo presenti le domande “banali e tremende” dell’inizio. Abbiamo imparato, credo, che “il” metodo è l’espressione del bisogno di un’epoca che non è più la nostra, ma nello stesso tempo , dato che il politeismo non è pacifico ma drammatico, non possiamo limitarci a una scelta indifferente di preferenze. Per la precisione, siamo consapevoli che ciò che ci manca è la fede o la credenza cartesiana nell’esistenza di una procedura universale per dirigere correttamente il proprio impegno, una sorta di metaalgoritmo normativo di validità trasversale. Non solo ogni sapere ha il suo field e i campi vanno rispettati, ma, più radicalmente, è l’esigenza della verità che può essere messa in discussione alle spalle del metodo. La prima 16 indicazione che ne emerge dunque è che bisogna guardare il metodo alle spalle, appunto (o guardarsi alle spalle quando si parla di metodo, se preferite). La sicurezza che il metodo infonde è apparente e pericolosa. Tuttavia, ci sono anche alcune indicazioni condivise che costituiscono una sorta di grammatica elementare del lavoro “scientifico” – non procedure e nemmeno norme ma il profilo minimale di un’attività di ricerca. Quanto alla distinzione tra “scienze della natura” e “scienze umane” o “storico-sociali” andrebbe osservato che oggi siamo ben oltre il Methodenstreit che presiedeva, agli inizi del Novecento, alla nascita delle cosiddette Geisteswissenschaften, dal momento che la stessa scienza della natura ha da tempo rimesso in discussione i propri ideali di oggettività e si è riconosciuta come attività interpretativa per molti aspetti affine all’ “arte” (Feyerabend parlava appunto di “scienza come arte”). Come posso concludere allora questa esposizione in maniera almeno dignitosa? Segnalando quelli che a mio parere sono i tratti distintivi di un profilo di ricerca, e augurandomi che possano essere di qualche utilità . Si tratta di un salto logico, avevo avvertito – dalla discussione dei grandi testi a un piano ben più modesto – e tuttavia, credo, non inutile: 1 - nominare la propria passione: che cosa sto cercando, da dove viene. Considerato da questo punto di vista l’elemento autobiografico (Cartesio, ma anche Foucault) diventa un’ indispensabile componente riflessiva . Si tratta, per dir cosi, di genealogizzare se stessi. In questo caso non una terapia, ma una parte della ricerca che esige di includere se stessi nel campo 2 - individuare il dominio di riferimento: a quale discorso, con quale grammatica mi devo confrontare? A quale “forma di vita culturale” faccio riferimento? In quale dibattito entro con la mia posizione, e come è fatto questo campo nelle sue componenti essenziali? Quali sono le anomalie del campo, i suoi “mostri”, le sue cinture di sicurezza (chi è “nel vero” qui, e chi ne è stato respinto, e perchè?). Ogni ricerca nasce sulla base di queste premesse e mai guardando puramente in faccia nudi oggetti là fuori. Non c’è presa diretta. 3 - scegliere un filo del gomitolo – o per dirla più nobilmente, identificare la frazione dell’ “infinito divenire privo di senso del mondo” (Weber) a cui dedicarsi. Parlo di un nodo della rete, di un punto di inizio, con la coscienza metodologica (weberiana, ancora, ma anche foucaultiana) della necessaria parzialità 4 - (di conseguenza) scegliere il proprio maestro (reale o ideale) – nella paradossale coscienza che, ha scritto Derrida, “come la vera vita, il maestro è sempre assente” 5 - esercitare il sospetto (anche su se stessi): formulare domande pertinenti ed esplicite, diffidare dell’originalità, non mescolare la dimensione verticale con quella orizzontale (ovvero non lasciarsi trascinare dal demone dell’analogia), diffidare dell’enfasi “poetica” nella scrittura (“la genealogia è grigia”) 17 6 - avere molta pazienza. E qui concludo con una folgorante osservazione nietzscheana: la vita presenta tre grandi stadi, quello del cammello (sopportare grandi pesi, “ruminare”) quello del leone (affermare la propria figura individuale in combattimento) e quello del fanciullo (irresponsabilità, gioco). Si tratta di identificare lo stadio in cui ci si trova. Può essere di qualche utilità però ricordare con Max Weber che “l’epoca dei grandi fanciulli” è finita (Il lavoro… p. 24), mentre è facile imbattersi in leoni che non sono mai stati abbastanza cammelli. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI - Berger, P.L., Luckmann, Th., 1966, tr. it. 1969, La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino - Bourdieu, P., 1979, tr. it. 1983, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino - Brooks, P., 1984, tr. it. 1995, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Torino, Einaudi - Cassirer, E., 1923, tr. it. 1961, Filosofia delle forme simboliche, I. 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