TRE DISCORSI SUL METODO - Dipartimento di Scienze Umane

Fulvio Carmagnola
10 gennaio 2008
TRE DISCORSI SUL METODO. Qualche ragionamento preliminare sul
problema di come pensare e mettere in forma la propria ricerca nel
campo delle scienze umane/sociali
UNO – Il foglio bianco
Scrive Max Weber nel saggio “La scienza come professione” (1918-19): “Ciò
è semplice e facile, quando ognuno abbia trovato il demone che tiene i fili
della sua vita” (tr. it. p. 43).
Il “metodo” consiste forse nel trovare e nominare questo demone? All’origine
di questa relazione stanno alcune domande insieme banali e tremende.
Domande che immagino – sulla base della mia esperienza di docente – che
voi stessi con maggiore o minore grado di lucidità e di chiarezza vi siate fatti.
Come suonano - a un primo elementare livello - le domande del metodo?
- ma tu come fai a studiare?
- e che cosa cerchi?
- e soprattutto: perché lo fai?
Cartesio come vedremo si pone il compito – ingenuo e insieme grandioso,
fondativo – di rispondere a questo tipo di domande. Ma a un differente livello
di razionalizzazione ci si può chiedere :
- che cos’è il “metodo” - e oggi c’è “il” metodo?
- che cosa definisce la scientificità di ciò che chiamiamo “scienze
umane e/o sociali” ?
- quali sono i parametri o i criteri che definiscono la qualità scientifica di
un lavoro “di ricerca”?
A queste domande non c’è una risposta univoca e rassicurante. Quella che
Cartesio ricerca attraverso il metodo, ovvero “la salda roccia” della certezza,
è oggi più che mai vacillante.
Possiamo dare due definizioni iniziali di orientamento per ciò che intendiamo
come “metodo”. E’ “la via per-“, ovvero il metodo è in rapporto al fine, allo
scopo della ricerca: “regulae ad directionem ingenii” suona il titolo di uno degli
scritti cartesiani. O, per dirla con Weber, sarebbe l’insieme dei procedimenti
che garantiscono “l’oggettività” di un sapere nell’àmbito delle scienze “storicosociali”.
Tuttavia, dal momento che abbiamo perduto la fiducia proto-moderna nella
rintracciabilità o financo nell’esistenza della “salda roccia”, credo che il modo
più sensato per dscutere oggi del metodo sia di dire:
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In questa circostanza
In rapporto a questo field o dominio o campo
Questa ricerca esemplare
Ha usato questi procedimenti
E ottenuto questi risultati.
Si tratta allora di motivare questa modalità che è la nostra (e non più quella
cartesiana), conseguente a una constatazione : esistono “metodi” e non più
“il” metodo. La mia discutibile modalità di esposizione, di conseguenza, si
articolerà cosi:
- in primo luogo l’esame di tre “discorsi sul metodo” che scandiscono
a mio parere tre periodi di sviluppo dei saperi nel campo delle scienze umane
- in secondo luogo, la proposta di un esercizio che consisterebbe nel cercare di
ricavare, a monte di alcune esposizioni esemplari, il metodo di ricerca da esse
impiegato, anche quando questo non sia dichiarato esplicitamente
- in terzo luogo, il tentativo di ricavarne non dico le nuove regulae ad directionem
ingenii, ma almeno alcune indicazioni .
DUE. L’origine, il punto di mezzo, il presente
Vorrei confrontare ora tre grandi testi. Tra loro intercorre uno spazio di più di
tre secoli che scandisce anche lo sviluppo o la crescente “differenziazione”
dei saperi (Weber) e insieme una profonda discontinuità. Eppure qualcosa li
tiene legati: un sistema di riferimenti impliciti o espliciti, una continua
ridefinizione di ciò che dovrebbe essere uno specifico modello di
“scientificità”, un’indagine sulla figura del ricercatore. Dobbiamo cercare di
capire le faglie, le differenze, e insieme dove siamo noi – sulle spalle di questi
giganti.
Il primo e obbligatorio riferimento, naturalmente, è il Cartesio del Discorso sul
metodo (1637) e delle Meditazioni che lo accompagnano. Determiniamo
innanzitutto il campo e lo scopo della sua ricerca: a che cosa serve il
metodo? Il campo è la connessione, presente nella cultura del tempo, tra la
ricerca della “verità” e la “vita buona” - cioè una connessione tra il livello
epistemologico e il livello etico. E’ precisamente questa connessione che
verrà messa in discussione nella modernità sviluppata, come vedremo, da
Weber.
Parlo in prima persona : da che cosa sono colpito, che cosa ho imparato
rileggendo Cartesio? Che la figura demonica del cogito è in larga parte una
nostra reinvenzione – una forma di Nachtraeglichkeit, avrebbe detto Freud. E
che dunque noi possiamo respingere come sorpassate le regole del metodo
o accettarle come una sorta di luogo comune basico. Ma in ogni caso non
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possiamo più prenderle “alla lettera” come un enunciato “vero”. Per capirle
dobbiamo genealogizzarle – e non limitarci a situarle lungo l’asse diacronico
di un divenire progressivo di cui esse sarebbero il punto iniziale. Ma dicendo
questo, sto già facendo una scelta metodologica di cui vi avverto – sto
leggendo Descartes dopo che, o meglio, perché, ho studiato Foucault, o
Nietzsche. E’ sempre cosi: non possiamo che guardare il passato alla luce
del presente.
Proviamo ora a ri-dire le quattro regole e a seguire brevemente il percorso
espositivo del Discours: le regole stanno “in luogo della congerie di regole di
cui la logica si compone” – scrive con pragmatica semplicità Cartesio. Sono,
insomma, una sintesi, una semplificazione operativa. E dunque si tratta d’ora
in poi di
“non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi evidentemente
per tale in modo cosi chiaro e distinto da non offrire alcuna occasione di essere
revocata in dubbio (…) dividere ciascuna delle difficoltà (…) in quanti più punti era
possibile (…) imporre ai miei pensieri un ordine cominciando dagli oggetti più
semplici (…) fare (…) enumerazioni (…) complete e rassegne (…) generali” (tr. it. p.
303; vedi anche Terza meditazione, tr. it. p. 90; corsivi miei).
Non accogliere, dividere, ordinare, enumerare. Tutto qui? Non v’è chi non
veda che queste regole oggi fanno parte del buon senso elementare di ogni
ragionamento, fino alle regole seguite da ogni manager nei propri resoconti
agli azionisti. Ma del resto Cartesio l’aveva detto: “il buon senso è la cosa nel
mondo meglio ripartita” e si tratta di seguire il lumen naturale di cui ognuno di
noi è dotato… La grandezza del suo gesto allora consiste proprio nell’aver
postulato questa presenza, nell’aver radicalmente seguito la semplicità del
comportamento cognitivo che ne derivava.
Ma la questione per noi è: da dove vengono le regole? Da dove viene la
credenza nel lumen naturale? Da dove parla Cartesio? Perché il metodo?
Sono le domande alla Foucault, le domande sull’origine del bisogno del
metodo. Per ora limitiamoci a mettere in luce alcune considerazioni sulla
strategia e sul progetto di ricerca cartesiano. In che cosa consiste?
Consiste nel cercare la verità “per dirigere bene la propria vita”. Al metodo,
alla sua esposizione, Cartesio arriva raccontando la propria vita: il Discorso è
prima di tutto un’autobiografia. E’ retto da una constatazione iniziale, quasi
un postulato (una credenza trascendentale, diremmo) – il lumen naturale – e
giunge a una conclusione di grande importanza strategica per il pensiero
moderno fino a Nietzsche e a Freud: il cogito non è ancora l’astrazione
dell’io-penso, è ancora insieme anima. Ma soprattutto, è ciò che meglio
conosciamo di noi stessi.
Lo svolgimento è il seguente: il cogito/anima (la cosa che pensa) è una
scoperta del metodo:
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“bisognava necessariamente che io che lo pensavo fossi qualcosa (…) questa
verità, penso dunque sono, era cosi salda e certa da non poter vacillare (…)
giudicai di poterla accettare come il primo principio della filosofia che cercavo. (…)
conobbi cosi di essere una sostanza la cui essenza o natura era esclusivamente di
pensare” (Discorso, tr. it. p. 312).
Ricordiamo la catena inferenziale che si sviluppa: a sua volta, Dio è una
scoperta del cogito , una sua deduzione (ivi, p. 313). E il mondo fisico è
garantito infine dalla veracità di Dio benchè Cartesio si cauteli
nell’esposizione del sistema del mondo enunciandolo come una
supposizione, memore dei contemporanei processi di Galileo (condannato
nel 1633).
Va messo in rilievo, in particolare, che le regole logiche hanno con le scienze
della natura un rapporto singolare. Noi oggi diremmo che le scienze della
natura sono state a lungo il “paradigma” della scientificità – ma questa è una
constatazione aprés-coup. Per Cartesio le regole del metodo sono una
semplificazione pragmatica della logica e della matematica - “un’arte confusa
e oscura” (ivi p. 303) i cui procedimenti raffinati possono essere semplificati e
trasferiti nel campo delle “scienze” e nel campo della ricerca delle verità in
generale. La stessa geometria analitica cartesiana non è altro, nella mente
del suo fondatore, che la risposta a un’esigenza di visibilizzazione,
proveniente dall’ordine, per cosi dire, in cui il pensiero e il sensibile sono
ancora mescolati. Mi serviva, scrive Cartesio, per trasformare le aride cifre
immaginandole
“sotto forma di linee, perché non trovavo nulla di più semplice né di più adatto a
venir rappresentato distintamente alla mia immaginazione e ai miei sensi”
- e poi dovevo poter esprimere queste linee con “cifre, le più compendiose
che fosse possibile” (ivi p. 304). Cartesio insomma non si azzarda a dire
come Galileo che è la natura stessa a parlare il linguaggio dei numeri …
Ne consegue un progetto di ricerca “avanzato”, un secondo stadio: trasferire
le competenze e le sicurezze che il metodo ha dato all’esame del mondo
fisico, e in particolare, verso la fine della sua vita, alla medicina. Perché la
medicina? Perché è il sapere che più corrisponde al proposito di “essere utili”
(ivi p. 341). Inclinazione etica, come si vede.
Mi concentro ora su alcune considerazioni. In primo luogo, lo ripeto, il cogito
cosi come noi lo pensiamo ora è in un certo senso una retro-proiezione del
moderno. In Cartesio non possiede ancora quella purezza che noi gli
abbiamo conferito per poi demonizzarlo e detronizzarlo. Noi lo abbiamo
reificato nell’entità astratta “pensiero” ma questa entità per Cartesio è ancora
molto ricca, comprende gli attributi del sentire, dell’anima. Il suo progetto di
ricerca, dovremmo azzardare, non è ancora “scientifico” nel senso che più
tardi verrà attribuito a questo termine, è piuttosto “etico”, appunto. Si potrebbe
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dire, utilizzando il linguaggio di Foucault, che in fondo appartiene a una
strategia di cura del sé.
In secondo luogo, il field della sua ricerca non è ancora strutturato o
“differenziato” come si esprimerà Max Weber. La distinzione tra scienze
umane/sociali e scienze della natura non è ancora emersa: Cartesio è un
pensatore dell’ “età classica” , c’è in lui ancora forte l’eredità della scolastica
con le sue nozioni e il suo lessico, insieme alla precisa consapevolezza
dell’alto livello raggiunto da alcuni campi specifici: la matematica, la fisica
galileiana, la logica (Port-Royal è dello stesso periodo).
Ma è proprio questa condizione ancora indistinta che gli permette di pensare
“il” metodo come una dimensione di pensiero universale e trasversale. Ecco
perché le regole da un lato procedono in parallelo con le “meditazioni
metafisiche” (elaborate a partire dal 1629 e diffuse quattro anni dopo il
Discorso, nel 1641). E dall’altro, si tratta di una razionalizzazione eticopragmatica del livello raggiunto dagli episodi più avanzati del sapere del
tempo. Non è percepita la differenza tra il sapere dei fondamenti e le regole
del buon vivere - proprio la faglia su cui si soffermerà in modo drammatico il
discorso di Max Weber, come vedremo.
Dunque, si può capire Cartesio non prendendolo alla lettera ma in modo
genealogico e per cosi dire “al futuro anteriore”. Il nostro cogito è quello che il
cogito cartesiano “sarà stato”. Ne consegue una constatazione
apparentemente paradossale: abbiamo bisogno di Weber per capire Cartesio
– e di Foucault per capire entrambi. Per capire il cogito allo stato nascente ,
non a caso contemporaneo al grande dipinto di Velàzquez, “Las meninas”
(1656) che Foucault commenterà in uno dei suoi scritti più celebri.
Spostiamoci adesso dallo stato nascente (o dall’età classica) alla modernità
sviluppata per prendere in considerazione una seconda grande posizione
metodologica, quella espressa da Max Weber in particolare in tre scritti: il
discorso ai giovani studiosi intitolato “La scienza come professione” (1918-19)
e due dei saggi compresi nel volume dal titolo Il metodo delle scienze storicosociali (1904, 1917).
La prima osservazione che vorrei fare riguarda il mutamento di scenario e di
field. Il campo è costituito ormai da un insieme di discipline altamente
strutturate e specializzate – lo scenario è quello della modernità sviluppata
dove prevale la “specializzazione” o come Weber la chiama, la
“differenziazione” irreversibile dei saperi. Lo sfondo è costituito dal “politeismo
dei valori”. La specializzazione si oppone alla possibilità di fondare un sapere
sul semplice lumen naturale, mentre il politeismo implica scelte etiche
drammatiche. Leggiamo all’inizio della conferenza del 1918:
“Un’opera realmente solida e definitiva, oggi, è sempre un’opera specializzata. Resti
quindi discosto dalla scienza chi non è capace di mettersi, per cosi dire, il
paraocchi, e di penetrarsi dell’idea che il destino della propria anima dipende
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appunto dall’esattezza, poniamo, di quella congettura, proprio di quella, rispetto a
quel passo di quel manoscritto. Altrimenti egli non avrà mai fatto dentro di sé ciò
che può chiamarsi ‘l’esperienza vissuta’ (Erlebnis) della scienza. Senza questa
strana ebrezza, derisa dai non iniziati, senza questa passione (…) non c’è
vocazione per la scienza e bisogna scegliere un’altra via. Giacché per l’uomo nella
sua umanità nulla ha valore di ciò che non può fare con passione” (tr. it. p. 13).
Noterò che “anima” ed “esattezza” sono termini che nella loro antitetica
coappartenenza figureranno nelle pagine di uno dei grandi scrittori del
Novecento, Robert Musil. Dunque “il metodo” è ormai lontano dall’essere un
insieme di regole per raggiungere la verità e condurre una vita buona. E la
scienza, ormai identificata nella sua specificità e distinzione (“scienze dello
spirito”, “scienze storico-sociali”) sottostà a determinate condizioni.:
- si dissocia dalla ricerca del “significato ultimo”
- si può oggettivare solo nella coscienza della sua parzialità
- ha in comune con le scienze della natura il procedimento della “logica”.
Il significato obiettivabile, rintracciabile, scrive Weber, riguarda solo “una
parte finita dell’infinito numero dei fenomeni (…) una sezione finita dell’infinità
priva di senso del mondo” (Il metodo… tr. it. pp. 92 e 96).
Non c’è tempo qui per ricordare analiticamente lo scenario del dibattito sulle
scienze dello spirito al quale Weber partecipa (cfr. il preciso saggio
introduttivo di Pietro Rossi a Il metodo…). Richiamo solo brevemente alcuni
punti chiave della posizione weberiana. Questi punti sono:
a - lo scenario del sapere: crisi della deducibilità analitica e quindi della connessione
cartesiana tra cogito, Dio e mondo
b - il politeismo: una visione drammatica e post-nietzscheana del conflitto
irrimediabile tra i valori ultimi (“morte di Dio”)
c - il metodo che ne nasce: tipizzazione ideale, come costruzione riflessiva
cosciente del suo statuto interpretativo e non rappresentazionale
d - la figura dell’intellettuale: come lavoratore della conoscenza (diciamolo alla
nostra maniera) che non è in grado e non vuole pronunciarsi sulla questione dei
valori
e - infine il profilo della ragione che ne emerge: una fiducia ancora “moderna”
nell’oggettivabilità, a determinate condizioni.
Lo scenario del sapere – Weber certifica la crisi definitiva di quello che lui
definisce “naturalismo monistico” e che noi potremmo definire “il profilo
Cartesio-Laplace” (mi riferisco al celebre scritto di Laplace del 1814). Il “fine
della conoscenza”, scrive Weber, non può essere raggiunto “mediante
l’investigazione di ciò che è conforme a leggi” (Il metodo… p. 88).
Quand’anche potessimo ridurre a legge, trovare le leggi o i fattori ultimi di
“tutte le connessioni causali dei processi finora osservate, ed inoltre anche di
quelle pensabili in qualsiasi tempo futuro” (una chiara eco di Laplace,
appunto) tutto questo non ci fornirebbe altro che un “lavoro preliminare” in
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vista della conoscenza del significato delle “connessioni culturali” - cioè di
quello che Weber definisce “senso”. In altre parole, la conoscenza del reale
come deduzione da leggi è un’ipotesi che appartiene al “monismo
naturalistico”, alla convinzione che la ragione possa abbracciare la realtà – la
quale, invece, deve ormai essere pensata appunto come un divenire infinito
privo di senso. Le scienze storico-sociali devono affrancarsi dal “pregiudizio
naturalistico, secondo il quale si dovrebbe dar luogo (…) a qualcosa di affine
a ciò che producono le scienze esatte della natura” (ivi p. 105).
E’ qui che entra in gioco la considerazione del mutamento storico: le scienze
sociali del XX secolo nascono da una reazione critica alla “fede ottimistica
nella possibilità di una razionalizzazione teoretica e pratica del reale” tipica
delle concezioni del mondo del XVIII secolo. Al contrario le scienze sociali
contemporanee assumono il “carattere problematico” di tale punto di vista.
Il politesimo – Da questa constatazione nasce l’impossibilità di ciò che
Cartesio professava, cioè “una conoscenza di tipo monistico dell’intera realtà,
che fosse puramente ‘oggettiva’ cioè sciolta da tutti i valori, e al tempo stesso
razionale, cioè liberata da ogni accidentalità” (ivi p. 102). Come si vede,
Weber giunge per le scienze sociali a un analogo di ciò che per le
assiomatiche sarà il teorema di Goedel, di un decennio successivo. Noi
viviamo in un’epoca di disincanto (Ent-zaeuberung), come già Freud andava
constatando.
Il politesimo non è la risorgenza dell’antico paganesimo né la futura
indifferenza eclettica post-moderna, ma la conseguenza drammatica del fatto
che il nostro mondo ha perduto la possibilità di dedurre i valori supremi –
Nietzsche aveva parlato del nichilismo come la situazione nella quale “i valori
supremi si svalorizzano”. Dobbiamo imparare a vivere in questo mondo: la
scienza non può dedurre i valori, quindi non può darci sicurezza nella scelta,
non può rispondere alla domanda “quale degli dèi in lotta dobbiamo servire?”
(“Il lavoro…” p. 38). All’individuo abbandonato dalla fede spetta la scelta
difficile di muoversi in un mondo dove la realtà è riconosciuta, scriveranno
Berger e Luckmann (1966), come “costruzione sociale”..
Il metodo – E’ a valle di questa constatazione, di questo scenario. Se i valori
non sono deducibili, il presupposto di ogni percorso scientifico non può
essere dimostrato con i mezzi della scienza stessa, e questo vale per tutte le
scienze – come si vede, l’analogia con il teorema di Goedel è piuttosto
impressionante: le scienze naturali presuppongono, senza essere in grado di
dimostrarlo, che il cosmo sia “degno di esistere” – e all’altro estremo l’estetica
e la critica d’arte presuppongono, senza essere in grado di dimostrarlo, che
“debbano” esservi opere d’arte, che debba esservi il bello…
Allora a che cosa serve il metodo? Il metodo è lo strumento del procedere
scientifico, e la scienza “questo soltanto (…) può indicare: se si vuole
conseguire un risultato, il mezzo per raggiungerlo ci è dato da questa regola
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(…) “. Ma non può dire se i fenomeni da essa indagati siano degni di -, in
altre parole, metodo e valore si dissociano.
Il metodo fa si che lo scienziato possa dire a chi deve decidere : guarda che,
dati i tuoi presupposti - che io non sono in grado di discutere (politeismo dei
valori) - le conseguenze logiche sono le seguenti. Insomma, scrive Weber, il
metodo serve a fare “l’analisi logica di un ideale”. A partire da questa
posizione, il metodo delle scienze storico-sociali, come è noto, si baserà
sulla nozione di Idealtypus, che Weber definisce come “un ordinamento
concettuale della realtà empirica” (Il metodo… p. 67) che non ha alcuna
pretesa di individuare come la realtà sia in se stessa, ma solo di produrre un
quadro coerente a fini euristici, con il quale misurare gli elementi empirici
presenti nel campo:
“il concetto tipico-ideale serve a orientare il giudizio di imputazione nel corso della
ricerca (…). Esso non è una rappresentazione del reale ma intende fornire (…) un
mezzo di espressione univoco (…) ottenuto mediante l’accentuazione unilaterale di
uno o di alcuni punti di vista, e mediante la connessione di una quantità di
fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura
(…) corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, in un quadro
concettuale in sé unitario. Nella sua purezza concettuale questo quadro non può
mai essere rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro
storico si presenta il compito di constatare in ogni caso singolo la maggiore o
minore distanza della realtà da quel quadro ideale” (Il metodo… p. 108, corsivi
miei).
Weber fa qui l’esempio del concetto di “economia cittadina” e altrove parla del
concetto marxiano di “capitalismo” come un Idealtypus – ma potremmo fare
altri esempi da altri campi: il concetto di economia del dono in Mauss o la
stessa nozione di “pulsione” in Freud - definita come una “semplificazione
(…) cui tendiamo nel lavoro scientifico” (Il disagio della civilità, 1929, tr. it. p.
255) - o altri. L’ Idealtypus weberiano insomma non è un’essenza, un “fine”
ma solo un “mezzo” per la ricerca (Weber, cit. p. 111).
La figura dell’intellettuale – Come il metodo nasce dalla disillusione sulla
possibilità di connettere sapere e valori, cosi la figura dell’intellettuale è il
risultato di una drammatica autolimitazione: l’intellettuale si occupa delle
conseguenze di scelte che può fare solo in quanto essere umano, ma che
non può fare in quanto intellettuale. Si muove nel cerchio tracciato dalla sua
“vocazione” (Beruf) , dalla sua passione, dalla sua professionalità
autolimitata. E’ notevole il fatto che il messaggio etico di Weber sia rivolto
esplicitamente ai futuri studiosi (nel discorso del 1918 che ho citato) e che si
basi tutto sull’esplicita distinzione tra l’esposizione scientifica e la demagogia
del tribuno, concludendosi su un tono volutamente dimesso:
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“tra le pareti dell’aula d’insegnamento una sola virtù ha valore: la probità intellettuale
(…) ci metteremo al nostro lavoro ed adempiremo al ‘compito quotidiano’ – nella
nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale.” (Il lavoro… pp. 42-43).
E infine, quale profilo di ragione emerge da questa posizione? – Come ho
cercato di mettere in luce, “che il mondo abbia un senso” è un presupposto di
valore, non scientifico, che il lavoro intellettuale come professione non può
accogliere. Questa posizione, si può notare, somiglia molto, se non nello stile
almeno nell’atteggiamento, a quella di un Wittgenstein, che nell’ultima parte
del Tractatus scrive, in quegli stessi anni: tutto ciò che può dirsi, deve potersi
dire chiaramente - e “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”
(Tractatus, Proposizione 7, tr. it. p. 82).
E tuttavia resta per il modello di razionalità di Weber un duplice presupposto
che chiameremmo “moderno” : in primo luogo la fiducia che lo stesso
disaccordo, di cui si deve tener conto, possa essere obiettivato – pensiamo
per contro alla posizione di un pensatore del post-moderno come JeanFrancois Lyotard, secondo il quale la condizione di “dissidio” è strutturale (Il
dissidio, 1983, tr. it. 1985) o in altro ambito, alla nozione di
“incommensurabilità” in Thomas Kuhn. Per Weber invece anche un cinese
deve poter riconoscere il potere della logica, e soprattutto anche ai
contendenti schierati su fronti opposti è possibile “conoscere perché e in che
cosa non si può concordare”, e “comprendere ciò che l’avversario (…)
realmente intende” (Il metodo… p. 327). Una posizione che ritroveremo in
Habermas.
Il secondo potente segnale di un atteggiamento che non è ancora arrivato
allo scetticismo postmoderno è la proclamata fiducia nella possibilità che il
lavoro scientifico sia in grado di distinguere i “fatti” dalla sfera dei “valori” - un
presupposto senza il quale l’intera costruzione delle scienze storico-sociali
perderebbe qualunque possibilità di “obiettivazione”. Che sia insomma
possibile distinguere tra la esposizione obiettiva che “un fatto concreto
avviene cosi (…) la situazione concreta in esame si è configurata cosi” – e la
domanda su “che cosa si deve praticamente fare in una concreta situazione?”
(Il metodo… p. 334).
Come si vede, non è possibile discutere di un metodo o del metodo in modo
completamente immanente, senza far luce sui presupposti da cui l’esigenza
metodologica nasce. Abbiamo cosi riscontrato una differenza profonda tra il
“monismo” cartesiano e l’inevitabile constatazione di Weber che prende atto
dello scenario della differenziazione e specializzazione dei saperi.
Che cosa ci resta di questa eredità? In primo luogo l’atteggiamento di
consapevolezza, ovvero la capacità riflessiva di mettere in luce la domanda:
tu da dove vieni? E’ l’eredità di ciò che Paul Ricoeur defini a suo tempo “la
scuola del sospetto” – un sospetto moderno i cui principali rappresentanti
secondo Ricoeur sono stati Marx, Nietzsche e Freud.
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La ricerca di Michel Foucault raccoglie e radicalizza questa eredità – è noto
che lo stesso pensatore francese ebbe a definirsi a suo tempo come “un
marxista nietzcheano”. Ora vorrei riprendere alcune delle sue posizioni,
chiarendo che non mi pongo qui la questione se Foucault “abbia ragione” o
se la sua ricerca sia più consistente rispetto a Weber o a Cartesio. Certo
questi, e altri, sono suoi precedenti obbligatori. La questione sarebbe
piuttosto: come fa Foucault a dire quel che dice, quale dominio o campo
investe le sua ricerca, quali sono i suoi strumenti di indagine.
Si può cominciare dicendo che Foucault reagisce a un atteggiamento
esemplare della modernità, che troviamo espresso in pagine come quelle di
Ernst Cassirer. Il filosofo tedesco scriveva in un passo di Filosofia delle forme
simboliche (1923, tr. it. 1961, vol. I , p. 331):
“Dalla sfera della percezione sensibile a quella dell’intuizione, dall’intuizione al
pensiero concettuale e da questo al giudizio logico, conduce, per quanto riguarda la
riflessione critico-epistemologica, una via non interrotta” (corsivi miei).
Potremmo opporgli la dichiarazione di Foucault: “ho dissociato la lunga serie
costituita dal progresso della coscienza” (L’archeologia del sapere, 1969, tr.
it. 1971, p. 15).
Guardiamo prima di tutto il campo di riferimento di Foucault: all’inizio della
sua ricerca, verso la metà degli anni cinquanta, si tratta del sapere
psichiatrico, e questa fase culmina nella elaborazione della Storia della follia
(1961). Alle spalle, una enorme mole di documenti che si riferiscono alla
micro-storia, dunque l’assunzione di una forma di sapere paradigmatico: la
storia documentale, la micro-economia, opposta alla grande “storia delle
idee”. Il “metodo” è innanzitutto scelta di campo: la molteplicità delle analisi
“concrete” contro l’astrazione delle grandi formazioni ideali.
Emergono in seguito tre grandi campi di riferimento definiti come “scienza
naturale”, “analisi delle ricchezze” e “grammatica generale”, di cui Foucautl
esaminerà il passaggio verso discipline diversamente strutturate, nel
passaggio dalla “età classica” alla “modernità”. Dunque, nel complesso, la
ricerca della prima fase sembra pienamente corrispondere alla nozione
weberiana di “scienze storico-sociali” a base “empirica”.
Il percorso complessivo appare ripartito in due tipologie di scritti: analisi di
campo (“empiriche”!) da un lato, scritti riflessivi e “metodologici” dall’altro. Con
un punto di svolta o di radicalizzazione situato alla fine degli anni sessanta,
non a caso contrassegnato dalla lettura della Genealogia della morale di
Nietzsche. E’ in questo punto che emerge, a valle, la riflessione sul metodo:
L’archeologia del sapere (1969) è il Discours di Foucault. A differenza del suo
grande predecessore, Foucault decide di riflettere a posteriori su quel che ha
già fatto: “mi sono dedicato a fare un bilancio (…) di ciò che avevo intrapreso
in occasione di indagini concrete” (Archeologia… p. 233).
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Qui emerge la strategia. Si tratta di disfare, di disaggregare le grandi
continuità ideali (sul tipo di quella espressa da Cassirer), di scavare, nello
stile della genealogia di Nietzsche, alle spalle degli impliciti del sapere. Di
rivelarme i presupposti – per dirla alla Weber, di mettere in luce lo strato dei
“valori”. Di un valore su tutti: il valore di verità – o piuttosto, della verità come
un valore. Di rivelare insomma quella che potremmo chiamare la posizione di
enunciazione o il trascendentale implicito: da dove viene quel che dici? A
differenza di Weber, Foucault sceglie di discutere, di rendere discutibili,
proprio i “valori”. Ma per farlo bisogna cambiare campo.
La domanda archeologica, scopre Foucault, chiede “alle cose dette (…) in
che modo esistano” – notare: non “perché” esistano (Archeologia… p. 127).
Si tratta dunque di riesaminare la “storia delle idee” e di scavare dietro le
nozioni di “soggetto”, “continuità ideale”, “progresso”. La domanda del
metodo cambia rispetto all’età classica cartesiana e alla stessa modernità
rappresentata da Weber: non è più “come ottenere la certezza della verità e
condurre una vita buona” ma nemmeno “come dare ai propri procedimenti un
sufficiente grado di oggettivazione”. La stessa “oggettivazione” diventa
discutibile, l’a-valutatività di Weber discende, vista con lo sguardo
archeologico, da un valore non dichiarato e dunque tanto più potente.
Si tratta dunque di rimettere in discussione lo stesso valore della verità che si
cerca. Ovvero. Da dove viene il fatto che l’uomo (moderno, occidentale) ha
impostato tutta la propria ricerca sulla verità senza domandarsi perché lo sta
facendo? Ne emerge una “teoria generale delle discontinuità” (Archeologia, p.
19) e una riflessione su quell’entità indiscussa che si chiama “soggetto”.
Vorrei esaminare ora alcuni tratti di questo percorso per mettere in luce il
legame tra strategia di ricerca e metodo – Cartesio alla luce di Nietzsche, si
potrebbe dire. Il punto chiave, lo sottolineo ancora, è biografico:
“Mi sono dunque messo a descrivere delle relazioni tra enunciati. Ho avuto cura di
non accettare per valida nessuna di quelle unità che mi potevano venir proposte e
che l’abitudine mi metteva a disposizione. Ho deciso di non trascurare nessuna
forma di discontinuità” (Archeologia… p. 41). .
Noterete senz’altro l’ironica ripetizione dello stile autobiografico cartesiano.
Alla luce di questa nuova versione del dubbio metodico le grandi unità
disciplinari – medicina, grammatica, economia – si rivelano essere solo una
forma nachtraeglich, “un raggruppamento retrospettivo”. Vengono quindi
sfasciati gli “oggetti”, i gruppi di enunciati unitari delle forme tradizionali del
sapere, e ne emergono nuove formazioni concettuali. In particolare la
nozione di “discorso” appare non più come il prodotto di un Soggetto
(trascendentale o storico-ideale) ma come una congerie eterogenea e
impersonale : “esteriorità”, “cumulo”.
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Va notata l’estrema creatività lessicale, l’invenzione di una terminologia
teorica specifica. Deleuze spiegherà a questo proposito che la filosofia è
“invenzione di concetti” Vorrei ricordare solo alcuni di questi termini che
diventano elementi di un lessico concettuale innovativo e coerente, legati
circolarmente:
DISCORSO
VERITA’
EPISTEME
ARCHIVIO
Il DISCORSO – da prodotto di un soggetto a “realtà materiale” o “evento”
(L’ordine… tr. it. p. 40). L’ipotesi è che
“in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata,
organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la
funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di
schivarne la pesante, terribile materialità” ( L’ordine… tr. it. p. 9 , corsivi miei ).
Notate la tonalità marxiana: il discorso viene considerato come un modo di
produzione. Il discorso è un insieme di relazioni anonime che produce o
rende visibile il suo soggetto – e non viceversa. Gli oggetti di cui il discorso
parla a loro volta non esistono là fuori ma solo “nelle positive condizioni di un
ventaglio di rapporti” – e qui si vede l’eredità del dibattito strutturalista. Il
discorso è una “pratica” che produce gli oggetti di cui parla (Archeologia…
pp. 59-60). E’ “l’insieme degli enunciati che appartengono a uno stesso
sistema di formazione” – la formazione discorsiva appunto. Il campo degli
enunciati è anonimo e dispersivo, è questo che decide e “definisce la
possibile posizione dei soggetti”, e va esaminato a prescindere dai soggetti
stessi (Archeologia, p. 141). Il discorso è insomma il trascendentale del
cogito, rovesciando la premessa cartesiana che sta alla base
dell’epistemologia moderna. Diciamola cosi: quel che Cartesio non poteva
vedere è che il suo cogito è a sua volta non un inizio, ma un prodotto.
L’ARCHIVIO - è l’insieme dei “sistemi di enunciati”, o “la legge di ciò che può
essere detto, il sistema che governa l’apparizione degli enunciati”. Ci siamo
dentro, ci si dà “per frammenti, regioni e livelli” (Archeologia, pp. 150-151). Lo
si può vedere e descrivere, nota Foucault con una strana inflessione quasihegeliana, solo stando sul bordo – il bordo che “circonda il nostro presente
(…) a partire dai discorsi che hanno appena cessato di essere i nostri” –
come nel caso della follia che è ormai diventata “malattia mentale”. L’
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“archeologia” allora non è altro che il discorso che descrive l’archivio stando
sul bordo, descrive i singoli enunciati come prodotti di “pratiche specifiche”
appartenenti all’archivio.
L’EPISTEME – E’ “l’insieme delle relazioni che per una data epoca si
possono scoprire tra le scienze quando si analizzano al livello delle regolarità
discorsive” (Archeologia… p. 218). Ci ritornerò. Ci può essere però
un’archeologia, un metodo archeologico di analisi, che non si riferisca solo al
“sapere” ma che investa anche altre pratiche: la sessualità, l’arte, la politica,
l’etica. Ci possono essere,
anticipa Foucault, “archeologie nonepistemologiche”. Questa dichiarazione programmatica apre all’ultima fase
della sua ricerca, incompiuta.
Infine, LA VERITA’ – la verità è un prodotto, non un fine indiscusso. Deriva
dalla “volontà di verità”. Qui Foucault non fa che svolgere nel campo delle
scienze umane l’intuizione nietzscheana. Invece di descrivere (alla Cassirer,
appunto) “in che modo la verità si sia liberata dall’errore” (Archeologia, p.
163) si tratta di esaminare i tratti di questa volontà (storica) che impone il
discorso-di-verità come il discorso principale – e cosi facendo si occulta,
diventa “inaggirabile”. Diventa cioè un presupposto sul quale si smette di
discutere, e che sta dietro la “verità proposizionale” ovvero i contenuti dei
singoli “enunciati”. Si potrà allora discutere se l’enunciato sia vero o falso, ma
non mai mettere in discussione precisamente il fatto che si faccia questo,
come scopo, culmine e nocciolo del discorso scientifico…
Insomma l’esame archeologico della verità scopre come la posizione di
enunciazione (volontà-di verità) scompaia da sempre dietro il “discorso vero”,
come essa sia “un prodigioso macchinario destinato ad escludere”, insomma
un meccanismo di potere (L’ordine del discorso, pp. 17-18). E’ in virtù di
questo meccanismo che non ci si potrà limitare a “dire il vero” – si dovrà
prima “essere-nel-vero” ossia ottemperare a norme di “polizia discorsiva” (ivi,
pp. 27-28) mettendosi sotto la protezione dell’insieme (archivio) dei discorsi
riconosciuti-come-veri e respingendo i “mostri” fuori dell’ordine del discorso
stesso: Mendel, ma anche Galileo, e poi Bataille, Artaud… la casistica dei
mostri è lunga e istruttiva.
Mi fermo qui nell’esposizione per domandarmi ora: quali risultati ottiene
Foucault? Provo a ripeterne uno scarno elenco:
- la liberazione da un modello “lineare” e progressivo della storia delle idee
(Archeologia, p. 194)
- la decostruzione del trascendentale sovrano del “soggetto” e la ridefinizione della
nozione stessa di soggetto come “il tema generale delle mie ricerche” (cit. in
Catucci, 2000, p. 132) - cioè come un termine problematico e non come un
definiens, un saldo punto fermo
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- la messa in discussione delle altre grandi unità : “origine”, “mediazione” e la
possibilità di rivelare dietro la storia ideale di queste grandi unità la presenza della
“volontà di verità”.
In un certo senso il circuito discorso/episteme/archivio rappresenta cosi una
nuova figura di trascendentale storico: anonimo, impersonale, plurale,
eterogeneo. Un insieme di pratiche che “fanno” il soggetto – considerazione
che porterà alle ricerche degli ultimi anni sui processi sociali di
“soggettivazione”. La descrizione dei processi sociali di soggettivazione non
è, come qualcuno equivoca, un tardo “ritorno alla soggettività”. E’ piuttosto,
come osserverà Deleuze, una descrizione del campo di possiblità che si apre
ai soggetti all’interno dei regimi storici di discorso, degli archivi.
E’ interessante a questo punto chiudere questa breve analisi tornando sulla
definizione di quello che a mio avviso è il principale concetto innovativo
introdotto in questa fase della sua ricerca – il concetto di episteme - rispetto
al quale potremo rilevare una significativa differenza anche da Weber.
Ripetiamo: l’episteme
“non è una forma di conoscenza o un tipo di razionalità che (…) manifesta la
sovranità di un soggetto, di una mente o di un’epoca; è l’insieme delle relazioni che
per una data epoca si possono scoprire tra le scienze quando si analizzano a livello
delle regolarità discorsive” – ovvero ciò che, per una data epoca, “rende possibile
l’esistenza delle figure epistemologiche e delle scienze” – e non “ciò che si può
sapere di un’epoca” (Archeologia, p. 218, corsivi miei).
Ecco la differenza rispetto al suo predecessore nella scuola del sospetto,
Max Weber: per Weber i “trascendentali” sono i “valori ultimi” e su questi la
scienza non può e non deve parlare – per Foucault essi sono invece
accessibili all’analisi storico-sociale in quanto insiemi di “positività”. Non si
tratta di criticarli ma, con una forma di sguardo clinico, di cartografarli.
E’ possibile ora dire che cosa impariamo da Foucault sul piano del metodo
che costituisce l’oggetto di queste riflessioni? In primo luogo, va notato che
uno stile accomuna Foucault a Weber sul piano dell’atteggiamento etico:
“La genealogia è grigia; meticolosa, pazientemente documentaria (…) esige dunque
la minuzia del sapere, un gran numero di materiali accumulati e pazienza (…) . In
breve, un certo accanimento dell’erudizione” (“Nietzsche, la genealogia, la storia”
1971, tr. it. in Microfisica del potere, p. 29).
Si tratta di una citazione quasi letterale da Nietzsche (Genealogia della
morale, tr. it. p. 220). Ma non pare anche di risentire Weber con il suo appello
all’ understatement ? ma di più: la genealogia è anche una posizione di
lettura della storia delle idee, mi suggerisce ancora una volta che d’ora in poi
non posso più leggere Cartesio o lo stesso Weber secondo la verità
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professata dai loro enunciati – cioè come oggetti autonomi, come testi
indipendenti dai “discorsi” che li hanno generati, e nemmeno come punti su
una curva continua che si chiama “progresso del sapere” . Esige, piuttosto,
attenzione alle differenze e alle discontinuità che a loro volta non si vedono di
primo acchito, nell’immanenza testuale, ma solo di traverso, nel confronto
con gli altri elementi dell’insieme eterogeneo di appartenenza (looking awry,
scriverà di recente Slavoj Zizek). Il metodo deve poter rintracciare l’archivio.
Foucault insomma ha preso alla lettera l’intuizione di Nietzsche – ha tolto il
velo alla verità. D’ora in poi l’enunciato va considerato non come il prodotto
del soggetto ma come elemento (“evento”) di un sistema
archivio/episteme/discorso. Dovrò quindi genealogizzarlo, rintracciare gli
ordini di discorso che lo producono, l’archivio di appartenenza, la posizione di
enunciazione…
Ne emerge un altro “metodo” per la storia – nel caso specifico, per la storia
delle idee, e più avanti per la storia della sessualità, e in prospettivva, per la
storia dell’arte, per l’etica…. Usare la storia non per ridurre le differenze
immaginandole su un asse diacronico continuo (la “crescente
differenziazione” di Weber, la “via non interrotta” di Cassirer). Questo
procedimento starebbe ancora all’interno del cammino verso quella “verità”
che resta indiscutibile. Per contro la storia genealogica esalta le pluralità, le
discontinuità e le eterogeneità non commensurabili perché appartenenti a
differenti ordini e nello stesso tempo costruisce nuovi insiemi trasversali –
collezioni di eterogenei, diranno Deleuze e Guattari (1991, tr. it. 1996).
Ma allora, per esempio, lo stesso prender partito per una verità possibile – ha
ragione Foucault, ha ragione Weber – dal punto di vista genealogico è una
domanda che perde di senso, perché cerca, appunto, la verità - restando
all’interno di quel trascendentale storico chiamato “volontà-di-verità”.
Qualcosa di simile era già stato intuito da Weber, con la dissociazione tra
analisi e scelta - ma Foucault lo radicalizza. I trascendentali possono essere
e vanno guardati da fuori – e questo fuori è la posizione laterale (non il God’s
eye view) di colui che sta sul bordo.
Per inciso: la stessa opposizione pratico (empirico) vs. teorico risulta a
questo punto impropria, se guardiamo con attenzione come sono strutturate
queste ricerche. Per Weber infatti tutte le scienze storico-sociali sono per
definizione “empiriche” nel senso che devono riferirsi a un campo di elementi
fattuali, di “dati” su cui lavorare. La posizione di Foucault, come si è visto, è
assai simile: la sua ricerca genera, a un certo punto, una fioritura concettuale
e lessicale altamente innovativa ma lo può fare solo sulla base di una ricerca
“empirica” sterminata e paziente – i testi di storia della medicina, le
statistiche, la microstoria sociale e economica e cosi via: per esempio, il
contorno che a un certo punto si definirà (con un atto eminentemente teorico)
come “discorso medico” (Archeologia, p. 61) – è composto da un brulicare di
frammenti empirici, dalle varie forme di “enunciati” tra loro eterogenei, raccolti
e studiati: descrizioni, racconti, ragionamenti, ma anche statistiche,
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deduzioni, esperimenti … La teoria, l’atto teorico, traccia il contorno che
unifica e dà forma a una quantità di empiricità eterogenee.
TRE – Considerazioni non conclusive
Queste analisi ci suggerirebbero ora un utile esercizio, come anticipavo:
cercare di scoprire, in alcune opere esemplari, il “metodo” che si annida nel
“risultato”, cioè nella forma finale della Darstellung. Solo in alcuni casi il
metodo è trasparente, a volte bisogna inferirlo.
Diciamola cosi: si tratterebbe di mettere a nudo gli intestini della macchina, di
aprire il cofano e esaminare il motore, invece di limitarsi a leggere le
prestazioni sul cruscotto. Tentare di giungere a una qualche consapevolezza
del metodo guardando bene quello degli altri invece di dedurne uno dall’autoosservazione immanente di stile cartesiano. Come si vede, uan conseguenza
di quel che suggerivo all’inizio.
A questo punto devo operare però un salto logico e passare a considerazioni
di altro ordine. Mi ero ripromesso di esaminare due opere esemplari che
appartengono a due differenti campi delle scienze umane – la sociologia e la
critica letteraria, per la precisione – per compiere l’esperimento che
annunciavo qui sopra. Le due opere che avevo scelto sono Pierre Bourdieu,
La distinzione. Ctitica sociale del gusto (1979, tr. it. 1983) e Peter Brooks,
Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo (1984, tr. it. 1995).
Sarebbe stato davvero un esercizio molto utile. Tuttavia per motivi di tempo
questo non mi sarà possibile. Mi lmito quindi a enunciare la probabile
“scaletta” per un’analisi di questo tipo:
- rintracciare il campo di riferimento e la sua configurazione
- tenere presenti gli autori di riferimento e la posizione del ricercatore rispetto a loro
- rintracciare l’intuizione o la domanda iniziale della ricerca
- rilevare le anomalie o i problemi immanenti al campo
- mettere in luce la strategia di ricerca implicita o esplicita
- esaminare le caratteristiche dell’esposizione
- analizzare la qualità delle conclusioni rispetto al campo affrontato.
Ripiegherò allora su alcune considerazioni di ordine pratico, tenendo presenti
le domande “banali e tremende” dell’inizio.
Abbiamo imparato, credo, che “il” metodo è l’espressione del bisogno di
un’epoca che non è più la nostra, ma nello stesso tempo , dato che il
politeismo non è pacifico ma drammatico, non possiamo limitarci a una scelta
indifferente di preferenze. Per la precisione, siamo consapevoli che ciò che ci
manca è la fede o la credenza cartesiana nell’esistenza di una procedura
universale per dirigere correttamente il proprio impegno, una sorta di metaalgoritmo normativo di validità trasversale. Non solo ogni sapere ha il suo
field e i campi vanno rispettati, ma, più radicalmente, è l’esigenza della verità
che può essere messa in discussione alle spalle del metodo. La prima
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indicazione che ne emerge dunque è che bisogna guardare il metodo alle
spalle, appunto (o guardarsi alle spalle quando si parla di metodo, se
preferite). La sicurezza che il metodo infonde è apparente e pericolosa.
Tuttavia, ci sono anche alcune indicazioni condivise che costituiscono una
sorta di grammatica elementare del lavoro “scientifico” – non procedure e
nemmeno norme ma il profilo minimale di un’attività di ricerca. Quanto alla
distinzione tra “scienze della natura” e “scienze umane” o “storico-sociali”
andrebbe osservato che oggi siamo ben oltre il Methodenstreit che
presiedeva, agli inizi del Novecento, alla nascita delle
cosiddette
Geisteswissenschaften, dal momento che la stessa scienza della natura ha
da tempo rimesso in discussione i propri ideali di oggettività e si è
riconosciuta come attività interpretativa per molti aspetti affine all’ “arte”
(Feyerabend parlava appunto di “scienza come arte”).
Come posso concludere allora questa esposizione in maniera almeno
dignitosa? Segnalando quelli che a mio parere sono i tratti distintivi di un
profilo di ricerca, e augurandomi che possano essere di qualche utilità . Si
tratta di un salto logico, avevo avvertito – dalla discussione dei grandi testi a
un piano ben più modesto – e tuttavia, credo, non inutile:
1 - nominare la propria passione: che cosa sto cercando, da dove viene.
Considerato da questo punto di vista l’elemento autobiografico (Cartesio, ma anche
Foucault) diventa un’ indispensabile componente riflessiva . Si tratta, per dir cosi, di
genealogizzare se stessi. In questo caso non una terapia, ma una parte della
ricerca che esige di includere se stessi nel campo
2 - individuare il dominio di riferimento: a quale discorso, con quale grammatica mi
devo confrontare? A quale “forma di vita culturale” faccio riferimento? In quale
dibattito entro con la mia posizione, e come è fatto questo campo nelle sue
componenti essenziali? Quali sono le anomalie del campo, i suoi “mostri”, le sue
cinture di sicurezza (chi è “nel vero” qui, e chi ne è stato respinto, e perchè?). Ogni
ricerca nasce sulla base di queste premesse e mai guardando puramente in faccia
nudi oggetti là fuori. Non c’è presa diretta.
3 - scegliere un filo del gomitolo – o per dirla più nobilmente, identificare la frazione
dell’ “infinito divenire privo di senso del mondo” (Weber) a cui dedicarsi. Parlo di un
nodo della rete, di un punto di inizio, con la coscienza metodologica (weberiana,
ancora, ma anche foucaultiana) della necessaria parzialità
4 - (di conseguenza) scegliere il proprio maestro (reale o ideale) – nella
paradossale coscienza che, ha scritto Derrida, “come la vera vita, il maestro è
sempre assente”
5 - esercitare il sospetto (anche su se stessi): formulare domande pertinenti ed
esplicite, diffidare dell’originalità, non mescolare la dimensione verticale con quella
orizzontale (ovvero non lasciarsi trascinare dal demone dell’analogia), diffidare
dell’enfasi “poetica” nella scrittura (“la genealogia è grigia”)
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6 - avere molta pazienza. E qui concludo con una folgorante osservazione
nietzscheana: la vita presenta tre grandi stadi, quello del cammello (sopportare
grandi pesi, “ruminare”) quello del leone (affermare la propria figura individuale in
combattimento) e quello del fanciullo (irresponsabilità, gioco). Si tratta di identificare
lo stadio in cui ci si trova. Può essere di qualche utilità però ricordare con Max
Weber che “l’epoca dei grandi fanciulli” è finita (Il lavoro… p. 24), mentre è facile
imbattersi in leoni che non sono mai stati abbastanza cammelli.
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