L’onnipotenza e il limite
Sono molti i teorici delle scienze umane che negli ultimi anni sostengono che la nostra epoca è
segnata dall’illusione di vivere in un tempo dell’illimitatezza e dell’infinitamente possibile.
Un’illusione indotta e amplificata anche dal rapido diffondersi delle tecnologie legate all’ambito
della comunicazione che oggi ci permettono di percorrere distanze che solo alcuni anni fa erano
assolutamente imponderabili. Ad un livello più empirico si può osservare come il fenomeno della
comunicazione globale determini la sensazione di avere a disposizione, con internet, uno strumento
che rappresenta una fonte di comunicazione, di relazione, di informazione, di intrattenimento,
praticamente inesauribile. Può accadere persino che di fronte alle illimitate possibilità implicate
dalla navigazione nella rete, soprattutto nei casi di una fruizione saltuaria di internet, ci si senta per
qualche tempo disorientati, spaesati, sperduti, finanche paralizzati, per l’immensità di un «mondo»
che appare decisamente «troppo».
Effettivamente la rivoluzione digitale che caratterizza la nostra epoca permette di parlare del
complesso rapporto che l’uomo intrattiene da sempre con la dimensione dell’onnipotenza e del
limite. È questo infatti un rapporto che si radica profondamente nella storia del pensiero occidentale
e trova spazio nei presupposti culturali posti alla base dello sviluppo delle scienze moderne. La
tensione a spingersi con la conoscenza sempre oltre il dato contingente, rappresenta certamente una
delle peculiarità dell’essere umano, che in particolare ha avuto nei paradigmi scientifici
dell’Ottocento e del Novecento l’espressione più alta. Il confronto con il limite e con la finitezza
umana e il bisogno di provare a procedere oltre questo stesso limite, costituiscono un chiaro assunto
della ricerca che è implicata nella disposizione degli uomini ad indagare e rendere intelligibili le
arcane leggi che spiegano la natura stessa del mondo, risalente agli albori delle civiltà occidentali.
Proprio come se attraverso la sconfinata conoscenza si potesse aggirare la condizione di finitudine
esistenziale dell’uomo.
Potremmo dire quindi che oggi, più di ieri, il nostro rapporto con il limite e con le illusioni di
onnipotenza rappresenti un interessante rivelatore delle contraddizioni pedagogiche rispetto alle
quali siamo esposti in qualità del nostro essere adulti chiamati a svolgere un fondamentale ruolo
educativo nei confronti delle giovani generazioni. Il corpo, questo nostro corpo, istituisce ancora
una volta il discrimine fondamentale attorno al quale si gioca la difficile mediazione tra il limite e il
desiderio a vivere in modo sconfinato. È proprio il corpo, nella sua concretezza e contingenza
materiale, che rende evidente lo scarto con l’eccedenza delle possibilità che caratterizzano il mondo
contemporaneo: la molteplicità di offerte e di opportunità che riempiono gli spazi e i tempi di vita
dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze possono amplificare realmente l’illusione di poter realizzare
ogni cosa, rispetto alla quale si traduce bene l’idea del vivere in modo smisurato e senza limitazioni;
idea a cui fa da contrappeso una corporeità segnata dalla necessità e dal bisogno, con i suoi ritmi, la
sua lentezza, le stanchezze o le rabbie, le fatiche e le frustrazioni che pongono costantemente il
soggetto in contatto con l’esperienza del limite.1[1]
L’adolescenza si propone con forza come la condizione contraddittoria in cui limite e onnipotenza
si giocano come i possibili termini di un’esperienza corporea segnata dal cambiamento doloroso.
Infatti, come ho già detto in altra sede, «il corpo adolescenziale solleva la questione del dolore del
cambiamento che accompagna l’esperienza esistenziale richiedendo di oltrepassare una visione
dicotomica che separa il vissuto psichico dalla percezione sensoriale e fisica connessa al
1
corpo».2[2] Dal nostro punto di vista è come dire che non c’è trasformazione, non c’è cambiamento
possibile senza l’incontro con il limite rappresentato dal nostro stesso corpo. Detto altrimenti, non si
dà conoscenza se non a partire da ciò che possiamo cominciare a conoscere attraverso l’esperienza
del nostro corpo. È stato Socrate per primo ad indicare la necessità per l’Uomo di conoscere a
partire da se stesso, ma «il maestro greco non si riferisce però a un’individualità chiusa ed egoista,
ma allude al contrario a quella cura di sé che si pratica in un progressivo e lento cammino di ascesi,
e addita un percorso complesso verso l’universale esistente in ogni singolo uomo. Per gli educatori,
l’educazione comincia con il riconoscimento dei limiti, di ciò che è possibile e di ciò che è
realizzabile».3[3]
Lo scenario attuale ci propone una realtà sociale che, soprattutto a livello mediatico, disconosce
ampiamente il senso e la necessità del limite accrescendo l’illusione onnipotente di poter controllare
e manipolare le condizioni sottese all’esistenza corporea, spettacolarizzando la sofferenza,
esorcizzando la malattia e la morte, negando l’invecchiamento.
Essere adolescenti nella nostra epoca significa dunque dover giocare una partita più complessa con
le fantasie di onnipotenza alimentate da una realtà sociale in cui tutto sembra possibile e in cui
soprattutto il corpo esistenziale appare «neutralizzato» dal suo essere gettato sulla scena in modo
spettacolare, attraverso il parossismo dell’esibizione che ne rende invisibili i bisogni. Proprio
nell’effetto di distanziamento dai messaggi del corpo, che in particolare segna la vicenda evolutiva
degli adolescenti, leggiamo un rischio e una necessità pedagogica, che ci richiamano all’importanza
di porre al centro della riflessione educativa l’identità corporea del soggetto; la cura di sé
rappresenta in questo senso quel passaggio formativo determinante, capace di segnare il confine tra
l’ascolto del proprio corpo e la sua neutralizzazione come oggetto da esibire. Si tratta di un
prendersi cura del proprio corpo come forma di conoscenza di sé, dei propri limiti, delle proprie
risorse, che permette di accedere al mondo con una differente consapevolezza identitaria; si tratta di
una cura di sé che non nega la valorizzazione armoniosa dei tratti e delle forme, che pure assumono
assoluta centralità nei canoni della bellezza della cultura soprattutto occidentale, ma pone questi
ultimi in relazione con quelle altre «qualità interne» del corpo che integrano la «bellezza» e la
«particolarità» di ogni singolo corpo. Si tratta di un’educazione alla cura di sé che permette di
sfuggire alla trappola del corpo modellizzato, oggetto di culto ossessivamente perseguito attraverso
pratiche di tipo autodistruttive.
Educare il corpo, inteso anche come educare alla cura di sé, richiede di operare un ribaltamento
rispetto alle dominanti della cultura in cui siamo immersi; ci pone nella necessità di scardinare
l’illusione dell’onnipotenza che appare profondamente radicata nell’ideologia scientista ereditata
dal positivismo, per la quale davvero tutto sembrerebbe possibile. Come afferma il filosofo di
origine argentina, Miguel Benasayag: «l’esperienza della non-onnipotenza costituisce per ognuno di
noi (e in particolare per i bambini e gli adolescenti) un’esperienza di limitazione positiva e
fondamentale: lo sviluppo dell’essere umano non deve essere pensato come un’abolizione dei limiti
naturali o culturali, ma, al contrario, come una lunga e profonda ricerca di ciò che tali limiti rendono
possibile».4[4]
2
Le consapevolezze dei limiti, delle impossibilità, delle debolezze del nostro corpo, rappresentano
altrettanti operatori straordinari nel mobilitare il soggetto alla ricerca di nuove strategie e soluzioni,
favorendo la scoperta di risorse e qualità interne ampiamente scoraggiate dagli stereotipi sociali e
dai messaggi culturali del nostro tempo. Educare gli adolescenti a ricercare «dentro» il proprio
corpo le qualità di un’esistenza non omologabile al catalogo dell’immaginario mass-mediatico,
rappresenta una sfida complessa per gli educatori, ma costituisce allo stesso tempo una necessità
pedagogica inevadibile, perché, come ci suggeriscono con parole uniche Anna Fabbrini e Alberto
Melucci, «l’adolescenza è imparare il limite ed abituarsi al corpo che si è. Senza questo atterraggio
non c’è piacere possibile, né desiderio, né meraviglia per la vita, ma solo noia ed incapacità di darle
senso».5
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