07-Caroli-Il Patto

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Il Patto balcanico nella politica
estera italiana, 1952-55
1. - L’intesa raggiunta da Jugoslavia, Grecia e Turchia nel febbraio 1953 con la conclusione di un trattato di amicizia e cooperazione poi trasformato nell’agosto 1954 in alleanza militare, costituì per la
politica estera italiana allo stesso tempo una sfida e una opportunità.
Una sfida se rapportata al difficile confronto diplomatico in atto per
Trieste, una opportunità perché offrì la possibilità di una più ampia
articolazione di interessi nel contesto della politica atlantica. Inserita
nella nuova fase di confronto tra i due blocchi agli inizi dell’amministrazione Eisenhower negli Stati Uniti e della nuova gestione collegiale dell’URSS post-stalinista, l’alleanza tra la Jugoslavia di Tito e i due
Stati balcanici da poco tempo accolti nella NATO fu “pensata” soprattutto dai governi americano e britannico come strumento destinato, con l’aiuto dell’“eretico” Tito, ad elevare la capacità di difesa occidentale in caso di attacco dal blocco sovietico. Belgrado dall’inizio
degli anni Cinquanta aveva iniziato a ricevere contributi sempre più
sostanziosi in termini di aiuti economici e militari dall’Occidente, in
particolare dagli USA, mirati al consolidamento delle possibilità di resistenza del governo jugoslavo il cui collasso avrebbe provocato una
inaccettabile destabilizzazione in tutta l’Europa.
Per la politica estera italiana, centrata prevalentemente sull’alleanza con gli Stati Uniti e le altre potenze europee, la vicenda del
Patto balcanico aprì un nuovo e inaspettato campo di interessi, alla
fine dell’era degasperiana, simultaneamente alla stretta finale del negoziato per la soluzione della questione triestina.
La gestione da parte dell’Italia di questa vicenda, qui approfondita, non fu esente da incertezze, momenti di interesse, ostilità e contraddizioni, in particolare nel momento in cui si trasformò in alleanza
militare. Essa, tuttavia, offrì anche l’occasione al mondo politico-diplomatico italiano di dimostrare una dinamica capacità di confrontarsi con nuove problematiche.
A cinquanta anni di distanza dalla conclusione del Patto balcanico può essere interessante ricostruire le modalità con cui esso si inserì
nella politica estera italiana, sulla base, in particolare, di una lettura
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più ampia della documentazione presente nell’Archivio storico-diplomatico del ministero degli affari Esteri italiano.(1). Ciò sembra opportuno anche perché la storiografia italiana che affronta la questione
del Patto balcanico quasi sempre ne fa una sorta di variante subordinata all’aspro contenzioso italo-jugoslavo per Trieste, volta a condizionare in senso positivo per i desiderata italiani l’atteggiamento dei
maggiori alleati occidentali nel duro contrasto con Belgrado.(2). E’
stato possibile, tra l’altro, completare la ricostruzione delle reazioni
del mondo politico-diplomatico italiano al Patto balcanico con non
meno importanti valutazioni circa le implicazioni di natura strategicomilitare che esso avrebbe comportato per la posizione dell’Italia, consentendo, così, una visione più ampia della azione politico-diplomatica italiana.
2. - Il punto di partenza dell’interesse della politica estera italiana per l’area balcanica si può collocare nella posizione favorevole,
dopo qualche perplessità iniziale, all’ammissione di Grecia e Turchia
nell’Alleanza atlantica. Ampliamento inteso come valorizzazione del
contributo italiano alla difesa del Mediterraneo orientale, nel quadro
di un impegno della NATO allargato al “fronte meridionale” dell’Al-
(1)jArchivio storico del ministero degli Affari Esteri italiano (ASMAE), in particolare le buste relative ai documenti della Direzione generale affari politici ed alla corrispondenza con le sedi diplomatiche ad Atene, Ankara e Belgrado.
(2)jFra gli studi che più estesamente trattano del Patto balcanico del 1953 citiamo le acute riflessioni contemporanee di FRANCESCO RIPANDELLI, in Il trattato di
amicizia turco-greco-jugoslavo del 1953, in “Rivista di Studi Politici Internazionali”, n. 2, 1954, pp. 209-258; la dettagliata ricostruzione diplomatica in funzione
della battaglia per il ritorno di Trieste all’Italia di DIEGO DE CASTRO, in La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954. 2 voll.,
Trieste, Lint, 1981, pp. 836-840 e 975-988; la estesa analisi centrata sui rapporti
con gli alleati della NATO di MASSIMO DE LEONARDIS, in La “diplomazia atlantica”
e la soluzione del problema di Trieste (1952-1954). Napoli, ESI, 1992, pp. 203-232
e 439-466; le valutazioni inquadrate nei problematici rapporti italo-statunitensi di
quel periodo di ALESSANDRO BROGI in L’Italia e l’egemonia americana nel Mediterraneo. Scandicci, La Nuova Italia, 1996,pp. 108-120. La formazione del Patto e
poi dell’Alleanza balcanica è esaurientemente esaminata in rapporto alla politica
estera italiana, a volte in termini critici nei suoi confronti, anche in: ALFREDO CANAVERO, La politica estera di un ministro degli Interni. Scelba, Piccioni, Martino e
la politica estera italiana 1954-1955, in “Storia delle Relazioni Internazionali”, n.
1, 1990, pp. 63-97; STEFANO BIANCHINI, I mutevoli assetti balcanici e la contesa italo-jugoslava (1948-1956), in Roma-Belgrado. Gli anni della guerra fredda. A cura di Marco Galeazzi. Ravenna. Longo, 1995, pp. 11-37; GIAMPAOLO VALDEVIT, Italia, Jugoslavia, sicurezza europea: la visione americana (1948-1956), in RomaBelgrado… cit., pp. 39-61; DAMIANO FICONERI, L’Italia e il Patto balcanico, in “Affari Esteri”, n. 112, 1996, pp. 832-848.
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leanza. L’ipotesi di un “patto mediterraneo” separato e subordinato al
teatro centroeuropeo, infatti, era stata sempre vista con qualche diffidenza dall’Italia.(3).
Per l’Italia il sostegno alle adesioni greca e turca acquistò valore
anche perché fortemente volute da Washington, i cui vertici militari si
opposero nel corso di un lungo confronto alla costituzione, non meno
temuta da Roma, di un Comando atlantico mediterraneo e medioorientale guidato da Londra. L’appoggio italiano all’ingresso nella
NATO dei due Paesi fu tra l’altro legato all’avvicinamento tra le politiche italiana e turca, già avviato negli ultimi tempi della presenza di
Carlo Sforza alla guida degli Esteri. Deciso artefice di tale politica fu
in particolare una delle più dinamiche personalità del mondo diplomatico italiano, l’ambasciatore ad Ankara Luca Pietromarchi, molto
attento, fin dall’inizio della sua missione, all’importanza strategica
per l’Occidente della difesa della Tracia e dell’Anatolia.
Dal canto loro i governi di Ankara, in modo particolare, e di Atene, in cui si trovava un altro grande diplomatico, Adolfo Alessandrini, guardavano con interesse al legame con l’Italia ai fini della loro
valorizzazione nella difesa europea.
Tale valorizzazione fu in realtà prevalente, fin dal 1949-50, nella
politica degli Stati Uniti e della Gran Bretagna perché avrebbe potuto
agevolare l’apporto politico e strategico-militare della Jugoslavia di
Tito, che nel corso del 1951 riuscì ad avere un grande contributo economico di 200 milioni di dollari e, a novembre, la conclusione con
Washington di un Mutual Security Agreement.(4). La continuità della
linea di difesa meridionale della NATO, Adriatico-Mar Nero-Caucaso
e la necessità di inserire la nevralgica area di Lubiana nel dispositivo
di difesa dell’Europa centro-occidentale rendeva da tempo, quindi, la
Jugoslavia una sorta di alleato potenziale. Ma qui la politica italiana
si differenziava da quella degli alleati atlantici, essendo ancora in piedi il duro confronto con Belgrado a causa del problema aperto di
Trieste. Le prime reazioni della diplomazia italiana alla possibilità di
un raccordo tra le politiche di Atene, Ankara e Belgrado – in particolare del ministro a Belgrado Enrico Martino – furono negative, per il
(3)jVed., in proposito in ASMAE, busta 537, il telespresso (tss.) urgentissimo
22/02141, dell’11 agosto 1951, inviato dal Segretario Generale del ministero degli
Esteri, conte Vittorio Zoppi, al Rappresentante italiano presso l’organizzazione
atlantica, ambasciatore Alberto Rossi Longhi.
(4)jSulla genesi e sugli sviluppi dell’attenzione politica e strategico-militare dell’Occidente per la Jugoslavia di Tito e il suo ruolo nella politica di difesa occidentale, ved. BEATRICE HEUSER, Western “Containment” Policies in the Cold War. The
Yugoslav Case, 1948-1953. London-New York, Routledge, 1989; in partic. cfr. p.
184 e segg.
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timore di un declassamento del ruolo italiano nel potenziamento della
difesa dell’Europa meridionale a favore dell’intesa a tre e in particolare di Belgrado.
Alessandrini fu il primo, nel corso del 1952, a identificare nel
Consiglio atlantico la sede in cui meglio fronteggiare questa eventualità, facendo leva sull’appoggio americano e sul fatto che alla Jugoslavia, Stato pur sempre comunista, sarebbe stato necessario comunicare i piani per la difesa militare dei Paesi della NATO.
Anche l’ambasciatore a Washington, Alberto Tarchiani, pur non
attribuendo importanza fondamentale al valore strategico jugoslavo
per gli USA, ammonì il proprio governo a non sottovalutare il processo di riallineamento nei Balcani. Tito, come sottolineò ancora Martino, mirava a diventare in maniera spregiudicata l’“arbitro supremo”
dell’equilibrio balcanico e a presentare quello italiano come l’unico
governo che non capiva la mutata realtà internazionale.
Nell’estate del 1952, inserendosi nel dibattito sulla valorizzazione
occidentale della Jugoslavia, l’ambasciatore a Londra, Manlio Brosio,
cercò di andare oltre l’emotività che la questione triestina teneva alta
e non giudicò del tutto negativo il “lavorio diplomatico” nei Balcani ai
fini del consolidamento del fronte occidentale, con l’inserimento di fatto della Jugoslavia nella NATO. Non considerava tuttavia strategicamente opportuno per l’Italia che una intesa greco-turco-jugoslava si
concentrasse nella difesa della Tracia e degli Stretti e dimenticasse il
varco di Lubiana e le pianure centro-orientali dove l’esercito jugoslavo, a suo parere, non sembrava pronto per arrestare una eventuale invasione.(5). Anche per Brosio, sulla base di precise indicazioni fornitegli dal Foreign Office, era importante il fatto che il contributo a tre
greco-turco-jugoslavo, fosse discusso nella più ampia sede del Consiglio
atlantico dove l’Italia avrebbe potuto far sentire meglio la sua voce.
Un aspetto dai risvolti negativi a parere del Segretario Generale
del ministero degli Esteri, Vittorio Zoppi – e dello stesso De Gasperi –
tuttavia era anche un altro: l’inserimento nei piani NATO dell’apporto di Belgrado, ottenuto con l’intesa a tre, avrebbe reso ancora più
intrattabile Tito sul nodo triestino che in quel momento era entrato in
una nuova e decisiva fase negoziale.(6). Anche Pietromarchi da Ankara non riteneva l’alleanza a tre in grado di arrivare ad una efficace
cooperazione, soprattutto turco-jugoslava, sul piano della vitale difesa della Tracia; inoltre, sottolineando l’ambiguità di Tito ne metteva
in dubbio la effettiva volontà di cooperare con l’Occidente.(7).
(5)jASMAE, busta 601, Tss. 3388/1749, Londra, 8 luglio 1952.
(6)jASMAE, busta 601, n. 1209, Segreto, da Zoppi a Brosio, 18 luglio 1952.
(7)jASMAE, busta 602, Tss. 1250/710, Istanbul, 25 agosto 1952.
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Tuttavia, la marcia di greci, turchi e jugoslavi verso l’intesa continuò. Nell’autunno del 1952 iniziò lo scambio di missioni composte da
militari dei tre Paesi per il coordinamento dei rispettivi piani di difesa
per la Tracia e la Macedonia. Il governo italiano per il momento preferì tentare di condizionare negativamente la temuta integrazione jugoslava nella NATO all’interno del Consiglio atlantico tramite il rappresentante italiano, Alberto Rossi Longhi.(8). La concessione in novembre di aiuti occidentali per 99 milioni di dollari alla Jugoslavia e la visita a Belgrado del generale Thomas Handy, Comandante delle forze
terrestri americane in Germania, frenarono però le speranze italiane,
anche se vi era nella compagine diplomatica statunitense chi mostrava
qualche cautela nei confronti della cooperazione occidentale con Tito,
come lo stesso ambasciatore ad Atene, Peurifoy.(9), che voleva dal leader jugoslavo l’assunzione di obblighi ben precisi. Ambienti su cui contava Tarchiani – soprattutto dopo l’entrata nelle sue funzioni della
nuova amministrazione repubblicana di Eisenhower – per limitare l’influenza della “lobby” filo-jugoslava in seno al governo USA.(10).
La speranza di poter condizionare i partners atlantici della futura intesa a tre subì u arresto con la visita a Belgrado del ministro degli Esteri turco, Fuad Köprülü, nel gennaio del 1953; se Ankara si
mostrava disposta a patrocinare addirittura la presenza italiana nell’intesa balcanica, non voleva fare, però, della questione triestina un
fattore prioritario. A Pietromarchi Köprülü confermò tuttavia la
lealtà atlantica del suo Paese e il suo personale impegno affinché gli
interessi italiani fossero salvaguardati. Sia Atene che Ankara si prodigavano inoltre per convincere il governo italiano che il collegamento
dell’intesa balcanica alla NATO non si sarebbe realizzato senza il consenso di tutti gli Stati membri.
3. - La visita di Alcide De Gasperi nella capitale ellenica a metà
gennaio del 1953 sembrò confermare l’intesa italo-greco-turca e il
(8)jUn Appunto della Direzione generale affari politici del ministero degli Esteri, busta 602, n. 129/C, 8 gennaio 1953, riprese e approfondì inviandole alle altre
ambasciate e legazioni gli argomenti fatti propri da De Gasperi, attestando la buona volontà e le aperture di Roma nei confronti di Belgrado, anche se definiva non
accettabile il potenziamento militare indiscriminato del regime di Tito.
(9)jCfr. Foreign Relations of the United States (FRUS), 1952-1954, vol. VIII,
Washington, 1988, n. 315, 3 gennaio 1953, pp. 602-603.
(10)jASMAE, busta 670, Tss. segreto 424/199, Washington, 14 gennaio 1953. Se
Valdevit (op. cit., p. 57) difende Belgrado dall’accusa di aver abilmente condizionato il governo americano, certo è che nel corso delle varie missioni militari (anche
jugoslave negli Stati Uniti) la rilevanza strategica della Jugoslavia fu adeguatamente esaltata.
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complesso rapporto tra l’Italia e la costituenda intesa a tre. Se sul
piano dei rapporti bilaterali italo-greci i risultati furono complessivamente positivi, il nascente rapporto tra Atene, Ankara e Belgrado appariva ormai difficilmente eliminabile. Belgrado, del resto, accusava
l’Italia di non vedere, con la sua ostilità al nascente Patto, i pericoli
di un conflitto isolato nei Balcani, cercando di sabotare l’integrazione
jugoslava nell’Occidente e adducendo a falso motivo la prioritaria soluzione per la questione di Trieste: chiaro tentativo di creare nell’area
un suo particolare “predominio” e di attuare una politica “irredentistica” e “imperialistica”. A dar man forte a Tito arrivò la decisione
statunitense di stanziare per la Jugoslavia 20 milioni di dollari nel
quadro degli aiuti economici e militari e nei mesi successivi si sarebbero aggiunti ad essi altri 26 milioni di dollari.
Il viaggio di Köprülü a Belgrado ed i successivi colloqui grecoturchi, preliminari alla firma del Patto fra i tre Paesi, sembrarono
dunque aver ignorato le riserve dell’Italia. Inutilmente Pietromarchi
manifestò al governo turco il risentimento del suo governo per la
“fretta” di concludere l’intesa, anche se negò che Roma volesse sabotare la nascente alleanza. I turchi cercavano di calmare le apprensioni italiane descrivendo il un patto come di sola amicizia – “di mera
facciata” lo descrisse Köprülü – ma l’Italia si mostrava ben convinta
che nascondesse in realtà obblighi di natura militare.
Il “no” italiano ad una cooperazione della NATO con Tito prima
della fine del contenzioso Roma-Belgrado divenne così anche un “no”
ad un inserimento dell’Italia nella dimensione militare che il Patto
avrebbe assunto, sulla base della scarsa credibilità di questa e della
“malafede” dello stesso Tito che dietro il paravento della creazione di
una alleanza regionale celava obiettivi di egemonia nei Balcani. E, a
dispetto delle accuse di ostruzionismo che egli lanciava all’Italia, Roma affermò invece di condividere la necessità di rinsaldare il “bastione anatolico”, affermando che la difesa degli Stretti sarebbe stata inutile se non si fosse difesa anche la Tracia e la parte settentrionale della Jugoslavia esposta ad attacchi dalla pianura danubiana.(11).
Alla vigilia della conclusione del Patto balcanico vi erano dunque
molte incertezze nella politica italiana. I rappresentanti diplomatici
nelle capitali interessate cercarono di offrire elementi più precisi alle
valutazioni del governo, soffermandosi in particolare sulle difficoltà
che i tre governi avevano nel trovare un equilibrio tra le rispettive
esigenze nazionali di difesa. La Legazione italiana a Belgrado arrivò
(11)jASMAE, busta 668, Appunto s.d., Direzione Generale Affari Politici del
MAE.
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anzi ad ipotizzare, ma erroneamente, la conclusione solo di una dichiarazione comune di princìpi.(12).
Cercando di modificare le riserve italiane, il ministro degli Esteri
greco Stefanopoulos prospettò ad Alessandrini la possibilità che l’ingresso dell’Italia nel Patto avrebbe potuto fare di quest’ultimo una
sorta di polo di attrazione per i satelliti europei dell’URSS, “depotenziando” la minaccia da est a vantaggio della sicurezza italiana. Il fatto che anche questo fosse l’obiettivo di Washington avrebbe dovuto
convincere il governo italiano della opportunità di una tale scelta. Come sottolineò l’ammiraglio Usa Carney dopo una visita in Jugoslavia,
i Balcani erano diventati un’importante area strategica per gli interessi americani. Ma la possibilità di vedere la Jugoslavia inserita nel
fronte occidentale costituiva ora una fonte di preoccupazione difficilmente eliminabile per il governo italiano.
Sulla base di alcune dichiarazioni della Grecia, un documento
elaborato al ministero degli Esteri.(13) sembrò spostare su Atene le
speranze italiane di condizionare la conclusione dell’intesa a tre, nella speranza che assumesse almeno solo un aspetto “politico”. L’Italia,
secondo il documento, non intendeva sottovalutare l’importanza di
una difesa più avanzata, sul varco di Lubiana piuttosto che sull’Isonzo, ma una equa soluzione del problema di Trieste costituiva il solo
modo per giungere a quell’obiettivo.
Nuovi colloqui militari fra i tre Stati, a dispetto della posizione
italiana, si svolsero ad Ankara dal 15 al 20 febbraio 1953 con la partecipazione dei tre Capi di Stato Maggiore, anche se non sembrarono
andare più in là del semplice scambio di informazioni, per esempio
sulle direttrici di forza in caso di guerra. Il 19 però iniziarono ad Atene anche i colloqui politici a livello di funzionari e di ambasciatori per
arrivare alla formulazione di un testo di intesa. Osservando con estremo scrupolo questi negoziati Pietromarchi non mancò di segnalare ancora i punti di disaccordo fra i tre governi, in un momento in cui la
pressione americana perché l’Italia approvasse la nuova alleanza e
anzi vi aderisse tornava a farsi sentire.(14). Finalmente, dopo un incontro ad Atene tra i ministri degli Esteri jugoslavo e greco Popovic´ e
Stefanopoulos, la fase finale della trattativa si spostò ad Ankara dove
ai due si aggiunse Köprülü.
La firma al Trattato di amicizia e collaborazione venne infine
apposta il 28 febbraio: il Patto balcanico era nato. Esso si presentava
come uno strumento di cooperazione fra i tre, impegnati per cinque
(12)jASMAE, busta 667, Tss. 470/333, Riservato, Belgrado, 7 febbraio 1953.
(13)jASMAE, busta 668, “Difesa balcanica: atteggiamento della Grecia”, s.d.
(14)jFRUS, cit., n. 329, 28 febbraio 1953, pp. 627-628.
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anni a consultarsi su tutte le questioni di comune interesse, regolando
pacificamente le loro controversie, attuando sforzi comuni per la pace
e la sicurezza, comprese “misure comuni di difesa” in caso di aggressione, mantenendo gli impegni internazionali preesistenti e, inoltre,
cooperando nei campi economico. tecnico e culturale. Una Conferenza dei tre ministri degli Esteri si sarebbe svolta almeno una volta l’anno e si lasciava la porta aperta all’adesione di altri Stati.
Un Appunto della Direzione generale degli affari politici del ministero degli Esteri italiano, riportando sinteticamente i contenuti del
Patto.(15), confermò i timori italiani e descrisse l’accordo come una
tappa basilare del processo diretto a inserire la Jugoslavia nel sistema
di sicurezza atlantica. Da Ankara Pietromarchi mise in risalto come
l’intesa tra i rappresentanti militari fosse l’“unico fatto concreto” di
un accordo forse troppo “teorico”; ma anche se gli Stati Maggiori
avrebbero posto all’attenzione dei tre governi le loro raccomandazioni, provvedendo alla pianificazione militare, tutto questo non bastava
a fare del Patto un’alleanza militare.
Un nuovo Appunto del ministero rilevò come la cooperazione militare fosse caldeggiata soprattutto da Tito che cercava di vincere alcune riserve del governo turco per un eventuale impegno diretto di assistenza reciproca; dal punto di vista italiano era proprio questa la
strada che portava all’inserimento della Jugoslavia nell’orbita atlantica.(16). Inoltre, se il Patto appariva come un compromesso tra l’accordo di amicizia e un trattato di assistenza, un aspetto interessante
ma problematico era anche l’impegno assunto da Atene e Ankara a difendere l’integrità territoriale della Jugoslavia e quindi anche quel
confine con l’Italia che Roma non dava per definitivo. Un altro documento del ministero, forse opera di Mario Toscano, allora responsabile dell’Ufficio studi e documentazione, riconobbe l’importanza degli
aspetti militari, che tuttavia sembravano definiti nel Patto solo a “livello potenziale”.(17).
Per il momento Zoppi raccomandò a Rossi Longhi di mantenere
le “riserve” dell’Italia, da esprimere comunque in tono “cordiale, sebbene esplicito”, se Grecia e Turchia avessero voluto “spiegare” il Patto in sede di Consiglio atlantico. Il governo italiano intendeva interve-
(15)jASMAE, busta 668, Appunto segreto della DGAP-MAE per il Presidente
del Consiglio dei Ministri, 7 marzo 1953.
(16)jASMAE, busta 668, Appunto segreto della DGAP-MAE, 13 marzo 1953.
(17)jMASSIMO DE LEONARDIS, op. cit., p. 217. Un altro Appunto, anche esso attribuito da de Leonardis a Toscano, affermò che fra i vantaggi del Patto balcanico
vi era la collocazione della Jugoslavia su un piano inferiore rispetto all’Italia, mentre negativa era proprio “l’accettazione volontaria delle nuove frontiere” da parte
dell’Italia se vi avesse aderito (ibidem), p. 218.
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nire apertamente per impedire una integrazione ufficiale della Jugoslavia nella NATO, determinato non ad accettare una semplice “comunicazione” da parte di greci e turchi sulla nuova intesa ma a provocare un vero e proprio “esame” di legittimità. Anche il Direttore generale degli affari politici, Giulio del Balzo, appoggiò la decisione italiana di chiedere se il nuovo Patto fosse compatibile con il Patto
atlantico per eventuali difformità del trattato di Ankara rispetto agli
obblighi assunti da Grecia e Turchia con una terza potenza.
Un altro studio effettuato da Mario Toscano fu alla base di un
Promemoria che Pietromarchi inviò a del Balzo su sua sollecitazione.(18). In esso il Patto era definito più realisticamente un “accordo
transitorio” destinato ad essere seguito o dall’adesione ufficiale della
Jugoslavia alla NATO o dalla sua trasformazione in “accordo regionale” collegato ad ogni modo alla NATO. In ogni caso, le raccomandazioni che gli Stati Maggiori avrebbero inviato ai loro governi si sarebbero soffermate su temi secondari, non suscettibili di creare un sistema difensivo militare e ciò, tutto sommato, avrebbe dovuto tranquillizzare l’Italia. Tuttavia, se il governo italiano non abbandonava i tentativi di creare ostacoli e ritardi al processo che avrebbe portato la
Jugoslavia verso la NATO, Rossi Longhi ammetteva la difficoltà di
fermare una macchina che si era ormai messa in moto, cercando di
conciliare due necessità opposte, quelle della fermezza e di un atteggiamento di “maggiore arrendevolezza”.
Sulla compatibilità del Patto balcanico con la NATO risposero, il
18 marzo, i rappresentanti greco e turco presso il Consiglio atlantico,
con informazioni sugli “sviluppi politici” del Patto e sulle conversazioni militari. Dubbi e timori italiani non furono del tutto dissipati,
anche la temuta integrazione della Jugoslavia nel sistema atlantico
non c’era stata. Tuttavia – come confermò Tarchiani da Washington –
per gli Stati Uniti il Patto balcanico era ormai una “fonte potenziale
di forza per l’Occidente”, e l’Italia non sembrava davvero in grado di
“rallentare” una sua eventuale trasformazione in patto militare.
Il nuovo ministro italiano a Belgrado, Vanni d’Archirafi, attento
osservatore da quel momento degli umori jugoslavi, senza far mistero
della sua ostilità al regime di Tito, affermò che malgrado tutto l’ingresso della Jugoslavia nel sistema atlantico non era desiderato anche
da altri alleati della NATO. Di conseguenza, anche una eventuale adesione dell’Italia al Patto balcanico si sarebbe rivelata un peso insostenibile per le sue capacità difensive: combattere nei Balcani al di fuori
degli impegni assunti nel quadro della NATO o anche della CED non
era una prospettiva realistica.
(18)jASMAE, busta 668, n. 503, Pietromarchi a del Balzo e annesso Promemoria, 18 marzo 1953.
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Invece su questo punto gli ambasciatori ad Atene e Ankara iniziarono a mostrarsi cautamente ottimisti. Per Alessandrini infatti l’adesione italiana avrebbe potuto tutelare gli interessi balcanici del Paese e impedire la nascita di una nuova “Piccola Intesa”, mentre Pietromarchi, d’accordo con un Appunto preparato a Roma da Toscano
su un eventuale ingresso dell’Italia nel Patto, condizionato alla preventiva soluzione della questione triestina, pensò di lanciare una proposta costruttiva: riunire a Roma tutti gli ambasciatori accreditati nei
Paesi interessati con l’obiettivo di fare il punto sulla situazione ed elaborare una strategia comune e coordinata: “Tutto ciò che accade nei
Balcani tocca direttamente i nostri vitali interessi”, affermò l’ambasciatore ad Ankara, ed era ormai necessario trovare tra centro e periferia una linea d’azione unitaria, evitando la dispersione di giudizi e
iniziative.(19). Il Patto avrebbe potuto diventare, proprio su spinta
italiana, una “solida organizzazione difensiva” alle frontiere orientali
dell’Italia, alleggerendo il suo sforzo difensivo in quel settore. Pietromarchi in realtà non attribuiva una eccessiva capacità di resistenza
alle forze della nuova alleanza ad una offensiva da Est: si sarebbe
però “guadagnato del tempo prezioso”, ritardando l’urto sulle linee di
difesa italiane. In sostanza, il nuovo patto regionale avrebbe potuto
saldarsi al sistema difensivo atlantico grazie all’apporto sostanziale
dell’Italia.
Il salto di qualità nell’atteggiamento italiano proposto da Pietromarchi si scontrava con l’opposizione di chi, come Rossi Longhi, considerava invece l’adesione dell’Italia poco opportuna e pericolosa, negativa per il suo potere contrattuale su Trieste, consigliando invece di
continuare a fare “azione di disturbo” e sfruttare l’atteggiamento favorevole verso l’Italia di Grecia e Turchia.
Anche Vanni d’Archirafi, più che mai propenso a credere che Tito non avrebbe aderito all’Alleanza atlantica, affermò che sarebbe
stato meglio sfruttare l’interesse strategico anglo-americano per la Jugoslavia e, continuando a valutare negativamente una adesione italiana, rilevò con dovizia di particolari i punti deboli del regime, quali la
crisi economica e lo scontento dell’opinione pubblica.
Brosio da Londra mise in guardia dal fare troppo affidamento
sull’opposizione consigliata da Rossi Longhi, mero espediente “tattico”: un prolungato atteggiamento negativo nei confronti della nuova
alleanza regionale avrebbe anzi allontanato una soluzione per Trieste,
facendo apparire l’Italia come una “guastafeste” agli occhi della NATO,
mentre avrebbe dovuto ad ogni costo “essere presente” nei Balcani.
(19)jASMAE, busta 668, n. 612, Pietromarchi a Zoppi, 4 aprile 1953; n. 613,
Pietromarchi a Toscano, 8 aprile 1953.
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Iniziarono intanto a diffondersi le critiche di chi attribuiva alla
Jugoslavia uno scarso valore in termini di difesa militare. Il 22 aprile
il generale Mellano tenne una conferenza ai funzionari del ministero
degli Esteri sulla difesa della frontiera orientale italiana, esprimendo
– a nome dello Stato Maggiore della Difesa – nuovi dubbi sulla capacità “tecnica e addestrativa” di resistere da parte delle forze jugoslave, così che non era pensabile spostare una linea di difesa nella conca
di Lubiana esponendosi all’urto di ingenti masse di forze corazzate.(20). La stessa analisi allarmante sullo stato delle forze armate jugoslave si riscontrò in un Memorandum del Servizio di informazioni
delle Forze Armate a cura del generale Ettore Musco.(21), in cui si rilevava che la Jugoslavia sembrava preparata infatti più ad azioni di
guerriglia che ad azioni di guerra propriamente detta; il Paese era dotato di scarse risorse – malgrado gli aiuti dall’Occidente – e pochi
quadri specializzati, mentre impopolarità del regime, crisi economica
e accese contrapposizioni etniche ne minavano la struttura, senza contare la presenza occulta dei “filo-cominformisti” all’interno. Situazione allarmante che non rendeva credibile, dunque, la capacità di resistenza delle forze jugoslave in caso di invasione: inutile e pericolosa,
perciò, la loro integrazione nel sistema atlantico e la partecipazione
dell’Italia al Patto balcanico.
Simili considerazioni vennero fatte anche dall’Addetto militare
italiano ad Ankara, in rapporto alla visita in Turchia dell’ammiraglio
statunitense Carney, per il quale – se il Patto fosse divenuto alleanza
militare – doveva essere perfezionata la difesa terrestre, aerea e navale della Tracia nel settore tra le penisole di Çatalça e di Gallipoli,
ad opera soprattutto delle forze greche e turche. Una linea molto arretrata che solo dopo tre anni avrebbe potuto essere spostata sul confine greco-bulgaro e che palesava molti problemi di natura logistica,
senza contare la richiesta turca di allungare la linea di difesa dagli
Stretti all’Anatolia.
Esisteva quindi un certo contrasto fra i tre Paesi del Patto sulle
aree in cui concentrare lo sforzo difensivo, con una minore attenzione
da parte greca e jugoslava alle esigenze turche, decentrate rispetto al
baricentro balcanico. Non erano questioni da poco e la solidità del recente trattato a tre perdeva già qualche colpo.Persistevano inoltre le
tensioni greco-turche per Cipro e greco-jugoslave a causa di un consistente numero di slavi che erano stati costretti in passato a lasciare la
(20)jASMAE, busta 668, Appunto segreto della Direzione Generale Affari Politici del MAE, 28 aprile 1953.
(21)jASMAE, busta 670, Memorandum segreto n. S/64659/S/.M., SIFAR-SME
alla DGAP del MAE, 4 marzo 1953.
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Grecia settentrionale. Köprülü insistette con Pietromarchi sulla possibilità per l’Italia di aumentare la sua influenza nei Balcani partecipando all’intesa a tre, quasi contemporaneamente però il vice presidente del Consiglio esecutivo federale jugoslavo, Moshé Pijade, si scagliò proprio contro questa ipotesi, accusando l’Italia di nutrire ancora delle “pretese” nella regione balcanica. Anche l’attenzione jugoslava nei confronti dell’Albania – che Alessandrini aveva denunciato in
precedenza con una certa preoccupazione - veniva ad assumere le vesti di una forma di “garanzia” contro l’“invadenza” italiana.(22). Forse si spiegava anche così – secondo Pietromarchi – il desiderio di Belgrado di una integrazione con il sistema difensivo atlantico a nord del
Paese, con un minore interesse per la difesa del fronte meridionale
per il quale Tito contava sul contributo turco.
Altra apprensione sollevò a Roma la notizia di una nuova missione del generale americano Handy a Belgrado per esaminare la situazione militare jugoslava, ma poi essa venne vista come una nuova manovra di Tito in occasione della riunione ad Atene dei tre Stati Maggiori. “Singolari acrobazie di marca balcanica” definì queste iniziative un appunto della Direzione generale affari politici, fatte per consentire alla Jugoslavia di continuare con la sua politica.(23).
Due rapporti dell’Addetto militare italiano ad Atene, tenente colonnello Alberto Di Leo, ridimensionarono la portata dei colloqui militari a tre, limitandoli ad un confronto greco-jugoslavo sul modo migliore di collegare le rispettive forze armate in caso di attacco dalla
Bulgaria, e a discussioni di natura logistica. Sembrava inoltre che in
caso di guerra l’abbandono della Tracia fosse stato dato ormai per
scontato. Una certa confusione sul piano militare era evidente
La posizione degli alleati atlantici dell’Italia era indubbiamente
determinante per il governo e Zoppi inviò istruzioni ai rappresentanti
italiani a Washington, Parigi, Londra e presso il Consiglio atlantico
affinché sottolineassero che l’Italia non poteva né voleva restare
estranea a una questione che la interessava così da vicino e che rimaneva in attesa di “pronte e amichevoli assicurazioni” da parte alleata:
per questo motivo i dettagli delle conversazioni militari fra i tre Paesi
avrebbero dovuto essere sottoposti in ogni caso agli organi militari
della NATO.
Si confermavano intanto le notizie sui dissapori interni all’alleanza balcanica, dovuti ad esempio ai malumori greci e turchi per l’eccessiva importanza attribuita dall’Occidente alla Jugoslavia e per la
ricerca da parte di quest’ultima di una “completa libertà d’azione”.
Pietromarchi riferì in particolare dei contrasti emersi anche nei pre-
(22)jASMAE, busta 667, Tss. 1023/498, Ankara, 28 maggio 1953.
(23)jASMAE, busta 669, Appunto della DGAP del MAE, Roma, 9 giugno 1953.
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cedenti colloqui militari a tre: greci e jugoslavi avevano fatto pressioni perché fosse privilegiata la linea del fiume Struma, confine grecobulgaro, per la difesa della Tracia, mentre Ankara aveva insistito affinché lo sforzo maggiore fosse compiuto più indietro, nell’area a ridosso degli Stretti.(24).
4. - L’esito delle elezioni politiche italiane, nel giugno 1953, con il
ridimensionamento del governo De Gasperi, apportò altre incertezze
nella conduzione della politica estera italiana in merito al Patto balcanico. A sfavore delle posizioni italiane sembrò andare anche la politica di “apertura” dell’Unione Sovietica nei confronti della Grecia e
soprattutto della Turchia, con l’attenuazione delle critiche di Mosca
verso il Patto balcanico. Il venir meno della pressione sovietica coincise per di più con l’avvio di un nuovo interesse a buoni rapporti con
il Cremlino da parte di Tito.
Viceversa, l’atteggiamento negativo nei confronti del Patto balcanico era riscontrabile in misura più sensibile nei Paesi filo-sovietici
dell’Europa sud-orientale a ridosso della nuova intesa regionale, a cominciare dalla Bulgaria. Tito cercò di confutare le accuse dei governi
vicini di essere uno strumento dell’imperialismo americano nel Mediterraneo, affermando più volte che il Patto non avrebbe svolto alcuna
politica aggressiva, ma era al contrario uno strumento di stabilità nei
Balcani.
L’Incaricato d’affari a Washington, Mario Luciolli, cercò di agire
per vie ufficiose sul governo americano affinché all’Italia venissero
date “informazioni precise” sui colloqui militari USA con Belgrado,
ma il Dipartimento di Stato cercò di ridimensionare la portata di queste conversazioni, respingendo la richiesta di De Gasperi di partecipare alle discussioni sugli aiuti militari a Tito.
In un breve appunto di Zoppi si confermarono i motivi che impedivano all’Italia di diventare in futuro “alleata di un nemico”, prima
di risolvere la questione di Trieste e in uno dei suoi primi interventi
nelle vesti di nuovo Presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Pella
mise in chiaro che l’Italia, perdurando la situazione negativa dei rapporti italo-jugoslavi, non avrebbe potuto partecipare né in forma diretta né indiretta ad accordi balcanici. La questione della cooperazione militare con Belgrado assunse aspetti più gravi quando il ministro
della Difesa, Randolfo Pacciardi, informò il collega degli Esteri in merito alle attività del Pentagono e degli organismi della NATO, a partire dallo SHAPE, per pianificare l’apporto militare jugoslavo e su alcuni studi che prevedevano addirittura la “saldatura operativa” tra
Italia e Jugoslavia, tenuti segreti alla stessa Italia.
(24)jASMAE, busta 667, Tss. riservato 1402/678, Istanbul, 28 luglio 1953.
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In agosto una missione militare jugoslava giunse in visita a Washington, ma da parte americana si assicurò all’Italia che non erano
state fornite agli ospiti informazioni militari della NATO e che era stato comunque valorizzato ai loro occhi il contributo difensivo italiano;
in ogni caso i governi dei tre Stati della NATO interessati – Italia,
Grecia e Turchia – sarebbero stati opportunamente “informati”.
Ciò non riusciva ad attenuare gli effetti negativi della tendenza
americana di procedere rapidamente verso una qualche forma di integrazione militare della Jugoslavia nella NATO che avrebbe messo l’Italia “con le spalle al muro” per quanto riguardava soprattutto la sua
eventuale partecipazione al Patto. L’ambasciatore Tarchiani da Washington definì una pura illusione la speranza occidentale di convincere Tito che la partecipazione italiana fosse elemento essenziale della
cooperazione jugoslava con la NATO: fino a che punto, si chiedeva,
l’Italia avrebbe potuto porre ostacoli ad essa?
In una fase in cui nella vicenda triestina si era di fronte ad un
momento particolare di tensione e altrettanto delicato si rivelava il dibattito sulla ratifica del trattato istitutivo della Comunità Europea di
Difesa, Pietromarchi cercò di trovare una soluzione sottoponendo ai
suoi interlocutori turchi l’ipotesi di una partecipazione italiana al
Patto, al fine di garantire all’Italia un ruolo di “cerniera” tra Europa
occidentale e Balcani. Ruolo che riproponeva i Balcani come area di
“interesse” particolare dell’Italia.
Il ministero degli Esteri fece sua allora la proposta di convocare
a Roma i diplomatici accreditati ad Atene, Ankara e Belgrado per fare il punto sulla controversa situazione.(25).
Il 18 settembre ebbe effettivamente luogo presso il ministero degli Esteri una riunione preliminare alla presenza di Pietromarchi,
Alessandrini, d’Archirafi, Zoppi, dei ministri Magistrati, del Balzo e
Casardi e del consigliere Lanza.(26). Il giorno successivo la riunione
proseguì e si aggiunsero al dibattito lo stesso Presidente del Consiglio Pella, il sottosegretario agli Esteri Benvenuti e altri diplomatici
come Scola Cancrini e Perrone Capano. L’incontro terminò infine il
giorno 21.(27).
Zoppi e i tre rappresentanti ad Atene, Ankara e Belgrado furono
così in grado di confrontare la loro analisi dei fatti, confermando la
(25)jASMAE, busta 669, Appunto della Direzione Generale Affari Politici del
MAE del 25 agosto 1953; Lettera di Zoppi a Pietromarchi, Alessandrini e Vanni
d’Archirafi del 28 agosto 1953.
(26)jASMAE, busta 668, Verbale della riunione preliminare, 18 settembre 1953.
(27)jSulla riunione a Roma, ved. anche BIANCHINI, op. cit., pp. 29-30, dove si
mette in risalto quasi esclusivamente l’interesse generale dei convenuti per la “presenza” attiva dell’Italia nei Balcani, cui si contrapponevano il Patto balcanico e
l’ostilità o l’indifferenza degli alleati occidentali.
457
molteplicità delle posizioni italiane, pur nell’ambito di un punto fermo, quello della imperativa soluzione del nodo triestino. Zoppi sferrò
il suo usuale attacco alla politica di Tito ed al suo obiettivo di raggiungere il “predominio” nei Balcani, sia sulla contesa per Trieste con
l’Italia che nelle alleanze regionali, come il Patto balcanico. L’Italia
avrebbe potuto comunque “partecipare” stabilendo un’intesa, al di
fuori del Patto, solo con Grecia e Turchia, pur lasciando la porta
aperta ad una sua vera e propria adesione se non vi fosse stato il pericolo di un coinvolgimento in conflitti “locali” nei Balcani.
Pietromarchi cercò di approfondire la sua analisi, rilevando che il
Patto. così come la successiva “euforia balcanica” non andavano sopravalutati: l’aspetto politico sarebbe stato prevalente e l’eventuale
adesione italiana lo avrebbe rafforzato Anche per Alessandrini il Patto non andava sopravalutato, mentre per l’Italia si sarebbe dovuto
parlare più limitatamente di “partecipazione” che avrebbe dovuto essere lo strumento soprattutto per sviluppare una nuova politica di
amicizia con Atene. Più critico nei confronti dell’opportunismo di Tito
fu d’Archirafi: Belgrado ormai tendeva a raggiungere una equidistanza fra i blocchi, cercando di usare il Patto come polo di attrazione nei
confronti degli alleati est-europei dell’URSS. Tendenza “pericolosa”
per l’Italia che perciò non avrebbe dovuto aderire ufficialmente.
Anche Massimo Magistrati fu abbastanza critico definendo il Patto “militarmente vago”, soprattutto per la reticenza di Belgrado a dare informazioni sul suo dispositivo difensivo. Per quanto riguardava
la possibile adesione italiana, invece, l’alternativa avrebbe potuto essere la conclusione di un semplice accordo di consultazione italo-greco-turco. Del Balzo si rivelò più possibilista sull’adesione, ma vi era
senza dubbio il rischio di trovarsi un giorno a difendere le frontiere
della Jugoslavia e l’Italia doveva essere cauta pensando in particolare
all’esigenza di avere un’Albania indipendente. Pella si chiese invece se
l’azione italiana avrebbe potuto essere determinante per impedire lo
sviluppo militare del Patto: per il Presidente del Consiglio si trattava
di svolgere allo stesso tempo una “azione ritardatrice” della marcia
del Patto verso la trasformazione in alleanza militare, ma senza cercare l’annullamento del Patto, nell’ottica della ricerca di una soluzione vantaggiosa per Trieste. Del resto, il Patto non avrebbe avuto vita
lunga nel caso Tito avesse “fatto pace” con l’Unione Sovietica.
Alla luce di questi interventi si può concludere che si trattò di un
dibattito interlocutorio che mise a confronto tesi diverse, anche se
non in modo netto, evidenziando ancora un certo grado di incertezza
sulla politica da adottare.(28). Se il confronto non aveva messo in ri-
(28)jUno scritto apparso sulla rivista “Esteri” (n. 1, 1954), periodico ufficiale
del ministero, lamentò il fatto che non fosse stata avviata una indagine preliminare
458
salto una ostilità preconcetta al Patto balcanico, era evidente comunque che la soluzione del problema triestino restava per tutti prioritaria. Ciò venne messo in evidenza anche nei colloqui con il premier
greco Papagos che, accompagnato dal ministro degli Esteri Stefanopoulos, giunse a Roma nei giorni successivi per restituire la visita di
De Gasperi del gennaio precedente.
Forse fu Pietromarchi con le sue valutazioni a riassumere compiutamente il senso generale della riunione, con le sue luci e le sue
ombre: “(Era stato) un gesto di grande saggezza…dichiararci non
contrari, in linea di principio, all’intesa balcanica e sospendere la nostra collaborazione fino a quando non fosse stata regolata la questione di Trieste. Così abbiamo mantenuta viva l’attesa di una nostra
partecipazione e impedito che Grecia e Turchia divenissero aperti sostenitori degli interessi jugoslavi”.(29). Di conseguenza, occorreva
continuare a premere indirettamente su Tito agendo in particolare sul
governo turco e rendere maggiormente “presente” l’azione dell’Italia
nelle sedi in cui la Jugoslavia era “assente”, NATO e CED. Il nodo da
sciogliere restava comunque la questione della partecipazione italiana
al Patto. E continuava a non essere affatto facile, vista anche la tensione nuovamente alta per la questione triestina, in particolare dopo
gli accesi discorsi di Tito e Pella e la dichiarazione bipartita angloamericana dell’8 ottobre sul futuro passaggio dell’amministrazione
della Zona A all’Italia.
5. - Parlando alla Camera dei Deputati, Pella, esaltata la nuova
amicizia con Grecia e Turchia e precisato che l’Italia era stata tenuta
al corrente dagli alleati sui negoziati per l’intesa balcanica, confermò
che l’“approvazione” italiana al Patto non poteva essere disgiunta dal
risanamento dei rapporti italo-jugoslavi in merito al problema di Trieste e che il collegamento del Patto stesso, e quindi della Jugoslavia, al
sistema atlantico non avrebbe dovuto essere affrontato separatamente
da questi aspetti.
Un appunto segreto.(30) preparato, dal generale Ettore Musco,
dopo una visita al quartier generale della C.I.A. a Washington e un
dei vantaggi per Belgrado da una intesa con l’Italia. Se Tito voleva veramente inserirsi nell’Occidente allora l’Italia avrebbe dovuto far parte del Patto balcanico,
anche se con qualche rischio a causa della mancata soluzione preventiva della questione triestina. Risolta anche questa, la partecipazione italiana al Patto avrebbe
comunque fatto fallire “i piani di predominio” di Tito, costringendolo a scoprire il
suo gioco.
(29)jASMAE, busta 668, Tss. segreto 1760/876, Istanbul, 28 settembre 1953.
(30)jASMAE, busta 668, Appunto segret.mo, riserv. person., Servizio informazioni delle Forze Armate - Stato Maggiore Difesa, al ministro della Difesa, 8 ottobre 1953. In realtà Tito, in una intervista all’organo delle Forze Armate jugoslave,
sembrò prendere anche qualche distanza dal “modello” di difesa occidentale, ri-
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colloquio con il suo direttore, Allen Dulles, fu inviato al ministro della Difesa Taviani ma comunicato anche a Zoppi. In esso si rilevava come fosse il Pentagono ad essere più convinto della indispensabilità
della cooperazione militare con Belgrado (e pessimista sulla stabilità
interna italiana), al contrario della C.I.A. il cui giudizio negativo su
Tito era più vicino a quello del SIFAR italiano.
A novembre si diffuse la notizia di un prossimo incontro fra i
rappresentanti degli Stati Maggiori dei tre Paesi in cui si sarebbe discusso tra l’altro dell’organizzazione della difesa greco-jugoslava sullo
Struma, della dislocazione di forze di riserva di un Paese sul territorio degli altri, di questioni di natura logistica e dello scambio di informazioni militari. L’Addetto militare italiano ad Ankara, capitano di
vascello Umberto Del Grande, precisò, sulla base di alcune confidenze, che l’agenda delle conversazioni, peraltro sottoposta preventivamente da greci e turchi all’esame del Cincsouth della NATO, si sarebbe soffermata sull’articolazione della difesa comune in caso di attacco
dall’Est: sui monti a ovest dello Struma per greci e jugoslavi, spingendosi a sud fino a Salonicco, e su Çatalça e Gallipoli per i turchi,
ma con la possibilità di spostarla più avanti in territorio bulgaro in
caso gli avversari fossero stati respinti.(31). Anche se non c’era stato
accordo sulla effettiva consistenza delle forze bulgare, romene e sovietiche, comunque superiori a quelle dei tre alleati, si era firmato un
protocollo, sottoposto all’approvazione dei rispettivi governi, che confermava, in caso di aggressione ad uno di essi, l’immediato ingresso
nel conflitto da parte degli altri due. Secondo Del Grande il Patto
“politico” ora assumeva “una fisionomia decisamente militare”, a vantaggio della leadership jugoslava. La tesi italiana della non indispensabilità dell’apporto militare italiano vacillava di nuovo.
Quali ripercussioni avrebbe avuto sulla NATO l’obbligo di intervento “automatico” per Grecia e Turchia a difesa di un Paese non
partner della NATO? Il conflitto tra l’art. 3 del trattato di Ankara e
l’art. 8 sugli obblighi atlantici di Atene e Ankara sembrava così riproporsi in termini ancora più drastici.
Subito dopo la visita di Pella ad Ankara, a metà novembre, Pietromarchi espresse la sua insoddisfazione nei confronti delle risposte,
tranquillizzanti ma generiche, dategli dal sottosegretario agli Esteri
turco, Birgi, e dallo stesso Köprülü circa gli esiti della riunione dei tre
Stati Maggiori. Soprattutto rimase scettico sulla interpretazione ridut-
vendicando l’originalità della dottrina difensiva jugoslava, articolata su piccole
unità autosufficienti, in grado di resistere all’aggressore e respingendo qualsiasi
tentativo di avvicinare la struttura militare del Paese a quella dei Paesi membri
della NATO.
(31)jASMAE, busta 667, Rapporto n. 222/S, Ankara, 27 novembre 1953.
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tiva degli impegni assunti nella riunione di Belgrado data dai turchi e
dai greci, quando Tito ne valorizzava invece una interpretazione
estensiva. Ciò sembrava rendere inutile il tentativo dell’ambasciatore
di convincere gli interlocutori che l’unico consolidamento del Patto
balcanico sarebbe derivato dalla eliminazione del contenzioso su Trieste, come aveva sottolineato lo stesso Pella in Turchia.
Anche il ministro greco Canellopoulos non attribuì soverchia importanza con Alessandrini alla clausola di assistenza: in fondo non si
era deciso di attuare se non “misure preliminari” in caso di aggressione, tramite il “coordinamento” delle forze greche e jugoslave. Di fronte al trionfalismo dei governi turco ed ellenico, i diplomatici italiani
davano segno, invece, di voler ancora contare su almeno tre fattori di
debolezza del Patto balcanico: la confusione attribuita ai tre circa la
scelta delle aree in cui concentrare lo sforzo comune, i contrasti etnico-territoriali che periodicamente tornavano ad affacciarsi fra i partners del Patto, nonché la chiara ricerca di una egemonia all’interno
dell’intesa a tre da parte di Tito.
In effetti, una improvvisa polemica nacque tra Atene e Belgrado
quando gli jugoslavi criticarono Papagos, in visita a Bruxelles, per
aver troppo accentuato il collegamento tra Patto balcanico e Patto
atlantico. Subito dopo giunse da Belgrado una doccia fredda su greci
e turchi quando in una intervista al “Times” Tito sembrò mutare nuovamente orientamento entusiasmandosi all’idea di una politica di
“equidistanza” dai blocchi occidentale e orientale, che nel Paese era
senz’altro più popolare, confermando l’impressione che non volesse
alcun collegamento tra Patto balcanico e NATO. Per Pietromarchi la
presa di distanza dalla NATO da parte di Tito confermò le sue previsioni sulla scarsa disponibilità di Belgrado a cooperare con l’Occidente.
Nel primo anniversario del Patto balcanico l’atmosfera dei rapporti fra i tre Paesi non sembrava, quindi, delle migliori e l’anello di
congiunzione tra le due alleanze finiva per non saldarsi, in un momento in cui la politica americana vi attribuiva invece un grande valore nel quadro dei rapporti con l’Unione Sovietica.
D’Archirafi a Belgrado non aveva dubbi: il Patto doveva confermarsi per la Jugoslavia come alleanza politica e non solo militare, una
organizzazione regionale diretta genericamente a salvaguardare la
“pace europea”. Per l’Italia, comunque, non doveva cambiare la
priorità: nessuna subordinazione della soluzione negoziale per Trieste
alla trasformazione in alleanza militare del Patto balcanico.
6. - Tutto cambiò di nuovo con la visita di Tito in Turchia a metà
aprile del 1954: al ritorno a Belgrado il leader jugoslavo tornò ad attribuire grande importanza all’alleanza militare con Atene e Ankara
parlando nuovamente di rapporto con il Patto atlantico; forse, sensi-
461
bile alle critiche che da parte americana si erano levate in quel periodo a un eccessivo disimpegno dalla cooperazione con l’Occidente.
Di fronte al rilancio della possibile integrazione di fatto della Jugoslavia nel dispositivo atlantico, tornò a farsi sentire la voce dell’Italia. Il ministro degli Esteri del nuovo governo guidato da Mario Scelba, Attilio Piccioni, ripropose al Consiglio atlantico il diritto di “veto”
italiano sulle decisioni in merito al Patto balcanico, confermando la
necessità della unanimità per quanto riguardava il consenso alla sua
trasformazione in alleanza militare poiché la sua “fisionomia originaria” si sarebbe profondamente modificata.(32). Piccioni chiese che l’eventuale ”adesione indiretta” della Jugoslavia alla NATO fosse strettamente controllata, sottolineando i rischi derivanti dalla conoscenza
da parte di Belgrado della pianificazione alleata. Il documento finale
del Consiglio atlantico sembrò in effetti dare ragione all’Italia nel sottolineare “l’opportunità che siano portate all’attenzione del Consiglio
informazioni sugli sviluppi della politica internazionale, ogniqualvolta
questi interessino altri membri del Consiglio o l’organizzazione nel suo
insieme”.(33).
Il “no” alla trasformazione del Patto Scelba e Piccioni lo avrebbero reiterato il 3 maggio nel cruciale e per certi versi burrascoso incontro a Villa Carminati, vicino Gallarate, con il Segretario di Stato
USA, John Foster Dulles e l’ambasciatrice Clare B. Luce, a causa in
particolare del non sufficiente appoggio nella trattativa triestina rimproverato dagli italiani al governo americano.(34). Il 12 successivo,
davanti alla Commissione Esteri della Camera Piccioni ammise però
che l’Italia avrebbe dato il suo assenso ad una eventuale stipulazione
di una intesa militare greco-turco-jugoslava che doveva però essere
esaminata in tutti i suoi aspetti ed approvata preventivamente da tutti i partners della NATO. La questione dell’assenso preventivo sollevò
le obiezioni di Grecia e Turchia, per le quali esisteva solo un obbligo
di “informare” gli alleati. In una intervista rilasciata al “New York
Times” il 18 maggio, Papagos nel rilanciare l’importanza strategica
della cooperazione a tre sferrò un inaspettato attacco alla richiesta
dell’Italia del preventivo consenso NATO all’alleanza militare tripartita, là dove sarebbe stata sufficiente una “notifica” al Consiglio
atlantico, nonché al tentativo di “ritardare” l’alleanza stessa con le
sue “pretese” su Trieste. In realtà il termine inglese utilizzato era
(32)jDE CASTRO, op. cit., p. 838. Vedi anche CANAVERO, op. cit., p. 70.
(33)jAnnuario di Politica Internazionale, anno 1954. Milano, I.S.P.I., 1955,
pp. 847-848.
(34)jCANAVERO, op. cit., pp. 70-72. Ved. anche Patto balcanico e Alleanza
atlantica in “Relazioni Internazionali” n. 12, 29 maggio 1954.
462
“claim” che non aveva un significato negativo, ma bastò per suscitare
un intenso quanto breve incidente diplomatico con Atene che non
giovò affatto alla posizione dell’Italia.
Era comunque il sintomo di un equivoco che continuava a pesare
sulla politica del governo italiano: il contributo strategico jugoslavo
alla NATO era considerato urgente, soprattutto da Washington, ma
l’Italia poneva il “veto”insistendo su un problema considerato secondario dagli alleati e dipingendo la Jugoslavia come un Paese nemico
dell’Occidente.
In un lungo Appunto inviato a Zoppi alla fine di maggio dal rappresentante italiano presso il Consiglio atlantico sulla trasformazione
del Patto balcanico in Alleanza militare.(35), si suggeriva di valutare
bene se fosse conveniente per l’Italia proseguire in questa direzione.
Se si insisteva sul piano giuridico formale, fatto che avrebbe chiesto
l’unanimità di giudizio per l’“approvazione preventiva” da parte del
Consiglio atlantico, l’Italia correva il rischio di restare isolata, compromettendo i rapporti con Grecia e Turchia. Forse sarebbe stato opportuno insistere più realisticamente sul piano politico, della sola consultazione, senza perseguire l’“ulteriore azione ritardatrice” e mettendo in rilievo la inopportunità della trasformazione del Patto alla luce
della tensione esistente tra Roma e Belgrado.
Il 29 maggio si svolse al ministero degli Esteri una nuova riunione di politici e diplomatici per discutere ancora di Patto balcanico e
del ruolo dell’Italia. Anche in quell’occasione non si registrò una unanimità di vedute: era evidente come l’obiettivo del “rallentamento”
della conclusione dell’alleanza non era stato abbandonato dal governo, diventando però sempre più improduttivo.
Le visite di Tito ad Atene e del presidente turco Adnan Menderes
prima a Washington e poi ad Atene confermarono la rinnovata solidarietà tripartita e l’esistenza di un diffuso risentimento verso l’Italia.
Lo stesso atteggiamento della Turchia favorevole all’Italia sembrava
essersi ridimensionato; tanto che Pietromarchi parlò di “brusco voltafaccia” da parte di Ankara, anche se Menderes confermò successivamente la “massima simpatia e comprensione” nei confronti della posizione italiana. Era chiaro che una decisione si doveva prendere e Pietromarchi tornò a insistere per una partecipazione italiana alla alleanza militare come unico mezzo per influire su di essa.
Nel corso di una riunione a Palazzo Chigi il 9 giugno fu tuttavia
ancora evidente la esistenza di differenti opinioni tra governo e diplomazia. Se per Rossi Longhi l’alleanza militare era ormai in dirittura
d’arrivo, Piccioni era ancora dell’idea che toccasse all’Italia insistere
(35)jASMAE, busta 36, Tss. segr. 1984/794, Parigi, 26 maggio 1954.
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sulla sua incompatibilità con la NATO, mentre Zoppi tentò un compromesso conferendo al rappresentante italiano presso il Consiglio
atlantico l’incarico di decidere al momento della discussione “i limiti e
le modalità” del proprio intervento. Piccioni, come dimostrò il suo intervento al Senato del 23 giugno sul bilancio degli Esteri.(36), difese a
lungo la politica del governo nei confronti dell’Alleanza balcanica cercando soprattutto di controbattere le voci sempre più insistenti nel
mondo politico sulla “impreparazione” con cui l’Italia aveva finito per
trovarsi davanti al fatto compiuto. Ma sottolineò anche le preoccupazioni sempre nutrite per la sicurezza di Grecia e Turchia e la richiesta solo della preventiva soluzione del contrasto con la Jugoslavia.
L’Italia – affermò Piccioni – non si sentiva affatto minacciata dall’alleanza a tre, essendo protetta dall’Alleanza atlantica, quindi non esisteva una politica per sabotarla: ad Atene e Ankara si era semplicemente chiesto di “sincronizzare” la conclusione dell’accordo militare
con l’evoluzione dei rapporti italo-jugoslavi. La “precisazione” del ministro, nel momento in cui la conclusione dell’accordo militare sembrava ormai fissato per il 14 luglio, non riuscì a mutare la sensazione
che l’Italia non fosse in grado di porre condizioni.(37).
Il Segretario Generale degli Esteri lo stesso 23 giugno affermò che
la questione della partecipazione italiana all’Alleanza militare balcanica, ormai alle porte, era allo studio, anche sotto il profilo giuridico.
Zoppi inviò infatti a Pietromarchi una sua nuova, ampia riflessione
sul tema.(38) che si presentava adesso in termini più “concreti e pressanti”: se non si trattava più di stabilire il “se” aderire occorreva
però definire il “come”. Adesione pura e semplice o conclusione di
uno o più accordi separati ? L’adesione diretta avrebbe impedito che
l’Alleanza potesse andare in direzione contraria agli interessi italiani,
controllandola dall’interno. Ma era una soluzione fattibile ? L’Italia continuò Zoppi – più debole rispetto ad un regime dittatoriale deciso
e dinamico, sarebbe stata inevitabilmente “l’elemento meno dinamico”
dell’alleanza. Secondo Zoppi – che sembrava cercare da Pietromarchi
risposte ai propri dubbi, più che fornire indicazioni – la politica estera italiana non riusciva ad acquistare in incisività a causa soprattutto
dei dissidi politici interni, quasi a giustificare la limitata capacità di
agire a fronte di una leadership più dinamica come quella jugoslava.
Ma era realistico il suo suggerimento circa l’adozione di una partecipazione all’Alleanza balcanica con un “certo distacco formale”?
(36)jIl testo delle dichiarazioni è in ASMAE, busta 318, Italia 1954.
(37)jCANAVERO, op. cit., p. 77.
(38)jASMAE, busta36, Lett. riserv. person. segr. n. 4/288, da Zoppi a Pietromarchi, 23 giugno 1954.
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Pietromarchi in realtà aveva già preparato nelle stesse ore un
lungo rapporto che si incrociò con la lettera di Zoppi.(39): in esso si
sottolineava ancora l’esistenza di contrasti fra i tre governi sul “coordinamento” con la NATO e sull’ “automatismo” dell’intervento militare. L’ambasciatore continuava quindi a sperare in un certo potere
condizionante dell’Italia – soprattutto sui turchi – per “ritardare” la
firma dell’accordo, ma il governo turco poteva promettere al massimo
una contestualità della firma stessa con la soluzione per Trieste. Rispondendo subito dopo alla lettera di Zoppi.(40) Pietromarchi ribadì
che la partecipazione italiana avrebbe consentito di “essere presenti”
nella discussione sui problemi tecnici dell’organizzazione difensiva e
nel coordinamento dei piani, per poter salvaguardare gli interessi nazionali. I rischi ricordati da Zoppi, a partire dalla debolezza contrattuale italiana, c’erano tutti, ma dal punto di vista della forza militare
l’Italia era tutt’altro che secondaria e avrebbe anzi potuto essere il
Paese rappresentante della CED nell’alleanza: era noto infatti come
sulla CED si appuntasse un forte interesse da parte di Tito. Restare al
di fuori dell’alleanza sarebbe stato quindi penalizzante; l’adesione pura e semplice avrebbe attribuito un “diritto di parola” facilmente contestabile, però, in caso di un rapporto più tenue. Una decisione per
quanto grave andava presa al più presto.
Nelle settimane precedenti la firma dell’alleanza militare la pressione americana e britannica per l’adesione italiana si era fatta del resto molto più intensa e una nuova ondata di riflessioni giunse dalle
varie sedi diplomatiche italiane. Il 2 luglio da Londra Brosio si mostrò
ancora più determinato sull’adesione, sottoposto d’altra parte a precise pressioni da parte del governo inglese.(41): se dover fare i conti
nell’alleanza balcanica con “le ambizioni e la megalomania” di Tito
comportava dei rischi, erano garantite viceversa molte opportunità
politiche per esercitare nell’area balcanica una politica più attiva, e
non bisognava più dare l’impressione che la firma dell’Alleanza militare potesse impedire il raggiungimento dell’accordo su Trieste.
Lo stesso giorno anche Quaroni da Parigi inviò a Zoppi una lunga lettera.(42) in cui, con la sua usuale verve polemica, criticò l’incapacità del governo italiano di rendersi conto della situazione internazionale, soprattutto per i “rigurgiti” di nazionalismo a causa della
(39)jASMAE, busta 36, Tss. 1253/580, Ankara, 24 giugno 1954.
(40)jASMAE, busta 36, Lett. riserv. person. n. 1286, da Pietromarchi a Zoppi,
Ankara 30 giugno 1954.
(41)jASMAE, busta 299, Tss. riserv. 2380/1902, Londra, 2 luglio 1954.
(42)jASMAE, busta 36, Riservato n. 956, da Quaroni a Zoppi, Parigi, 2 luglio
1954.
465
questione triestina: il Patto balcanico non era estraneo alla sicurezza
dell’Italia ed era inopportuno ora mettergli i bastoni fra le ruote, visto che non ci si era riusciti in passato, abbandonando finalmente la
“psicosi da Patto balcanico”. Le alternative erano l’adesione o attuare una politica di rimessa, più “tranquilla”, “di membro modesto e serio della Comunità atlantica e di quella europea … Ma che Dio ci
guardi di entrare (dentro il Patto balcanico) con l’idea di dominarlo!”, o perseguendo “finalità irrealizzabili”. Per Quaroni, dunque,
ora che la soluzione per Trieste era ormai prossima, la stessa posizione geopolitica italiana costituiva una garanzia sufficiente e non bisognava più ricorrere a “mezzucci” diplomatici, come quello di insistere
con il governo turco per il rinvio della firma.
A Quaroni giunse subito il plauso di Brosio, soddisfatto di trovare nel collega la uguale convinzione della necessità di aderire pienamente all’Alleanza balcanica senza remore e senza illusioni di “predominio”. Tuttavia sarebbe stato necessario un “invito formale”, per
evitare ambiguità con gli alleati e per chiudere prima la questione di
Trieste, senza essere sottoposti ad alcuna condizione (Brosio nel suo
Diario scrisse: “Non sono sicuro che greci e jugoslavi ci vogliano tanto facilmente, bisogna essere sicuri dell’invito”), anche se per Quaroni nessuno avrebbe formulato tale invito “in pompa magna”.(43). Alla
corrispondenza tra Brosio e Quaroni occorre aggiungere il nuovo
commento, anche se di poco precedente, inviato a Zoppi da Alessandrini, ora nuovo Rappresentante italiano presso il Consiglio atlantico.(44). Anche Alessandrini auspicò una rapida e totale adesione italiana all’alleanza a tre, così da garantire al Paese quella “preminenza” (non dominio) dovuta al suo peso storico, geografico ed economico nel Mediterraneo orientale. Si doveva evitare un pericolo soprattutto: che l’alleanza evolvesse in senso contrario agli interessi italiani
(Alessandrini evocò il precedente della “Piccola Intesa” degli anni
Venti e Trenta): una adesione in tempi brevi avrebbe avvantaggiato
l’Italia nella NATO e nella CED, facendole riguadagnare la fiducia
degli Stati Uniti. La chiave di tutto restava però il rapporto con Belgrado. Occorreva capire se Tito voleva veramente l’Italia nell’Alleanza e se l’accordo su Trieste poteva essere davvero svincolato dal tema
dell’adesione.
Ad attribuire al governo jugoslavo un interesse solo strumentale
verso l’Italia contribuì d’Archirafi per il quale l’adesione tutto som-
(43)jASMAE, busta 36, Segreto personale n. 2991, da Brosio a Quaroni, 6 luglio 1954; s.p. n. 0988, da Quaroni a Brosio, 7 luglio 1954; s.p. n. 3040, da Brosio
a Quaroni, 9 luglio 1954. Diario di Manlio Brosio.A cura di Fausto Bacchetti, in
“Nuova Antologia”, luglio-settembre 1985, p. 16 (10 luglio), p. 17 (16 e 18 luglio).
(44)jASMAE, busta 36, n. 2470, da Alessandrini a Zoppi, 30 giugno 1954.
466
mato avrebbe potuto offrire qualche vantaggio, per esempio di chiedere agli alleati altre modifiche ai limiti imposti dal trattato di pace.(45). Tuttavia – fatto indubbiamente importante – i rapporti economici con Belgrado avrebbero potuto essere consolidati, grazie al più
grande potenziale economico-produttivo italiano, solo restando fuori
dell’Alleanza. L’importante era evitare di restare esposti a rischi di
coinvolgimento in un indesiderato conflitto regionale. La prudenza di
d’Archirafi e la sua immutata sfiducia nel regime di Tito lo rendevano tuttavia una voce isolata fra i colleghi, ormai orientati verso l’adesione. Anche il nuovo ambasciatore ad Atene, Caruso, si mostrò alquanto prudente, pur riconoscendo l’utilità dell’Alleanza balcanica
per l’Occidente.(46). La presenza italiana nell’area avrebbe tuttavia
avuto senso per Caruso solo se espressione di una politica responsabile e rispondente all’effettivo peso politico ed economico dell’Italia.
Un telegramma inviato il 9 luglio dal ministero degli Esteri alle
varie sedi diplomatiche continuò a insistere con il tentativo di condizionare le scelte greche e turche malgrado l’orientamento di Brosio,
Quaroni e Alessandrini.
Più che mai perdente si dimostrava in particolare il tentativo di
far coincidere la firma dell’Alleanza militare balcanica con la soluzione per Trieste e con la normalizzazione delle relazioni italo-jugoslave,
così come la richiesta di un esame approfondito in sede NATO prima
della firma. Ora anche la prospettiva della partecipazione italiana all’Alleanza sembrava perdere inevitabilmente ogni possibilità di realizzarsi, soprattutto per i nuovi forti attacchi provenienti dalla Jugoslavia contro l’ipotesi di una adesione italiana come risultato di un do ut
des nel negoziato per Trieste. Quando si diffuse la voce sulla possibile
conclusione del trattato militare per la fine di luglio, inutilmente da
Palazzo Chigi giunse l’affermazione che l’Italia non avrebbe rilasciato
una “cambiale in bianco” discutendo su un testo ancora non noto. Solo l’ambasciatore greco a Roma Argyropoulos parlando con Piccioni e
Zoppi era sembrato possibilista circa la contestualità della firma con
la fine della vicenda triestina.
7. - Un mutamento nella posizione italiana parve delinearsi in
due Appunti della Direzione generale affari politici del ministero il 15
e 19 luglio, nei quali si ammetteva l’impossibilità di far coincidere la
prossima firma del trattato di alleanza greco-turco-jugoslavo con la
soluzione del problema di Trieste. Nell’esame fatto dal ministero degli
Esteri l’Alleanza balcanica adesso finiva per coinvolgere anche gli in-
(45)jASMAE, busta 36, Segr. n. 1468, da d’Archirafi a Zoppi, 5 luglio 1954.
(46)jASMAE, busta 36, Riserv.mo n. 2532, da Caruso a Zoppi, 8 luglio 1954.
467
teressi italiani nel Mediterraneo orientale dove l’Italia era intenzionata da qualche anno a giocare un ruolo da protagonista. Non esisteva
alternativa: concluso l’accordo per Trieste, la via all’adesione al patto tripartito era ormai obbligata, anche se il passo era da compiere
solo dopo un invito formale. Fatto molto interessante, nei documenti
l’adesione all’Alleanza balcanica era equiparata a quella alla CED e
avrebbe dovuto inscriversi in una cornice più ampia, comprensiva anche di una cooperazione nel campo economico-sociale.
Malgrado questo nuovo tipo di approccio, Alessandrini si vide affidare ancora una volta l’incarico di richiamare in sede NATO l’urgenza del miglioramento dei rapporti tra Roma e Belgrado e di evitare qualsiasi impegno per l’Italia, “diretto o indiretto”.
La voce della “ragione”giunse ancora dalla diplomazia: Brosio da
Londra tornò infatti a sconsigliare qualsiasi difficoltà in merito all’Alleanza balcanica nella riunione del Consiglio atlantico del 29 luglio.
Ad essa doveva andare anzi il pieno appoggio italiano in quanto efficace strumento di difesa del settore sud-orientale e l’Italia non doveva più sollevare problemi di natura né giuridico-formale, né di natura politica per quanto riguardava la sua congruenza con il Patto
atlantico.
Zoppi vedeva ora con maggiore favore la partecipazione di Roma
all’Alleanza, ma il 27 luglio elencò a Piccioni una serie di rilievi critici alle considerazioni di Brosio, confutando in particolare la tesi che
un intervento presso la NATO si sarebbe ritorto contro l’Italia, ma
ammise che non era più possibile far dipendere la firma per l’alleanza militare dall’accordo per Trieste. Brosio, quasi paradossalmente,
affermò che parlare di adesione in quella situazione appariva improponibile. Anche la benevola disponibilità del governo turco era stata
in pratica neutralizzata dagli altri due partners. L’unica via da percorrere alla NATO era perciò il non opporsi all’Alleanza, continuando ad avere di mira la soluzione del contrasto italo-jugoslavo.
Il 27 luglio si fece sentire nuovamente la voce polemica di Quaroni che mise in guardia Zoppi dal voler fare dell’Italia una “potenza
balcanica”, visione miope e incapace di vedere il quadro complessivo
della situazione internazionale.(47). Anche per l’ambasciatore a Parigi se l’alleanza a tre era un risultato utile per la strategia atlantica,
doveva andare avanti “senza pathos e senza infingimenti”, fino a
quando si fosse chiesto all’Italia di parteciparvi. Quaroni uscì allo
scoperto nella sua polemica con Zoppi, che aveva rimproverato a lui
ed ai suoi colleghi di non essere riusciti ad opporsi all’Alleanza balca-
(47)jASMAE, busta 36, n. 1082 Riserv., da Quaroni a Zoppi, Parigi, 27 luglio
1954.
468
nica operando nelle loro sedi. Rilevò come, al contrario, fossero stati
proprio i telegrammi del ministero ad aver sollecitato la politica dell’opposizione a tutto campo all’intesa balcanica, ritenendo che la posizione di Tito ne sarebbe uscita indebolita. Per Quaroni occorreva
farla finita con i “romanticismi adriatici” e operare per un risanamento interno d’ordine morale oltre che politico ed economico, per
poi attuare una politica estera “tranquilla ma dignitosa”. La debolezza cui faceva riferimento Quaroni era ben visibile nelle accuse lanciate al governo di essersi lasciato “sorprendere” dalla conclusione dell’Alleanza militare, credendo che gli alleati non avrebbero permesso
la conclusione prima della “equa soluzione” per Trieste.(48).
In realtà, al Consiglio atlantico del 29 luglio l’Italia si presentò
con l’intenzione di proporre una linea d’azione costruttiva nei confronti dell’Alleanza. Se Dulles preferì non approfondire il rapporto
NATO-Alleanza balcanica e i rappresentanti greco e turco ne esaltarono la funzione difensiva verso il blocco sovietico, grazie al contributo “tecnico” jugoslavo, non si volle andare più in là per “tranquillizzare” chi, come l’Italia e altri Paesi membri del Nord Europa, nutriva timore per il coordinamento tra la NATO e Belgrado. Del resto,
per Alessandrini l’esame collettivo della nuova alleanza si stava effettivamente svolgendo, come richiesto dall’Italia, in modo non puramente “formale” e il rappresentante italiano puntualizzò solo la necessità di evitare l’ “automatismo” dell’intervento, rispetto alla versione dell’art. 5 del Patto atlantico.
Una posizione tutto sommato moderata, ma penalizzata dalla non
soluzione del dilemma di fondo: era possibile un accordo per Trieste
prima della firma della nuova alleanza ? Pietromarchi tornò a protestare, ma troppo tardi, su questo tema con Köprülü, cercando di
sfruttare il malumore del governo turco a causa del rifiuto di Tito di
rimandare a dopo la firma dell’alleanza la questione del suo rapporto
con la NATO; fatto che tra l’altro portò Ankara a chiedere un “rinvio” della cerimonia della firma.
Essa infine, il 9 agosto, a Bled, in Slovenia, venne definitivamente apposta dai tre ministri degli Esteri – Köprülü, Stefanopoulos e Popovic´ – al testo della nuova Alleanza militare balcanica.
Il testo del trattato di alleanza militare – stipulato per venti anni
– confermava il desiderio dei tre governi di creare uno strumento collettivo di sicurezza che offrisse l’opportunità di “un’azione politica
costruttiva in campo internazionale e…un prezioso contributo al consolidamento della pace sulla base del rispetto della sovranità e dell’indipendenza”. L’aggressione ad uno degli Stati membri avrebbe fatto
(48)jCfr BROGI, op. cit., p. 117.
469
scattare l’aiuto “immediato” degli altri due anche con il ricorso all’impiego della forza militare. La “consultazione reciproca” si rivelava però ancor più fondamentale per prendere le decisioni comuni, anche alla luce degli obblighi di assistenza militare che Grecia e Turchia
avevano nell’ambito della NATO. Un memorandum allegato al trattato prevedeva la costituzione di una Assemblea “consultiva” balcanica
che avrebbe dato solo raccomandazioni e suggerimenti ai governi per
intensificare la cooperazione, assicurando il necessario “sostegno popolare”. Nelle settimane successive la neonata Alleanza sembrò cadere repentinamente preda di polemiche e tensioni interne. Era visibile
soprattutto il disincanto da parte turca nei confronti della predominante volontà di Tito per quanto riguardava la NATO e lo stesso leader jugoslavo – pago di una alleanza militare “regionale” a protezione
soprattutto delle frontiere meridionali della Jugoslavia – accentuò rapidamente altri interessi, come il riavvicinamento all’URSS.
A Pietromarchi, anche dopo la firma del trattato, era ben chiaro
il quadro non esaltante delle relazioni fra i tre Paesi dell’Alleanza,
grazie alle confidenze di Köprülü, visibilmente deluso dopo il ritorno
da Bled. Da esse infatti trapelò l’azione di Belgrado per rendere più
deciso l’impegno all’aiuto “immediato” da parte degli altri due partners, ora timorosi, a causa del mancato collegamento al Patto atlantico, di un conflitto “localizzato”.
Ciò, secondo il ministro turco, tornava addirittura a vantaggio
dell’Italia che, grazie all’Alleanza, si trovava ora “protetta” ai suoi
confini orientali, mentre non aveva alcun obbligo verso di essa. Per il
governo di Ankara si confermava la indispensabilità della partecipazione dell’Italia all’Alleanza per creare un unico sistema difensivo
dall’Atlantico al Mar Nero. “La carta turca – commentò l’ambasciatore italiano – è una delle migliori del nostro gioco”, certo non per l’adesione dell’Italia ma per impedire che l’Alleanza diventasse un docile strumento nelle mani di Tito e per condizionare quest’ultimo nella
parte finale del negoziato per Trieste.
Nel rapporto tra Italia e Alleanza balcanica si inserì ad agosto
ancora un parere squisitamente militare, inviato dall’Addetto Militare
italiano ad Ankara, colonnello Di Casola, dopo un colloquio con il
collega jugoslavo, Jovanovic´.(49). Questi cercò di attenuare le forti
critiche lanciate in quei giorni da Belgrado all’indirizzo dell’Italia, facendo intravedere una inedita disponibilità jugoslava all’ingresso di
Roma nell’Alleanza. Una cooperazione militare era possibile, una volta sistemata la faccenda di Trieste: la Jugoslavia cercava solo di non
creare rapporti di dipendenza con altre potenze come si sarebbe verificato con l’ingresso nella NATO.
(49)jASMAE, busta 322, Rapporto segreto n. 493/S, Ankara, 20 agosto 1954.
470
Sembrava inarrestabile in quei giorni il raffreddamento delle relazioni turco-jugoslave. Il miglioramento dei rapporti con Mosca sembrava aver ormai acquistato priorità assoluta negli obiettivi di Belgrado. La crisi evidente dei rapporti fra i tre governi fece esprimere a
Pietromarchi un giudizio pesante sulle “diplomazie balcaniche”, definite “spregiudicate, manovriere, agili e tenaci nel perseguimento dei
loro obiettivi”.(50).
A conferma delle incertezze all’interno dell’Alleanza balcanica, la
nuova conferenza dei Capi di Stato Maggiore dei tre Paesi ad Atene del
21 settembre si era riunita senza aver preparato un’agenda dei lavori
sollevando l’impressione che la riunione non avesse che un “semplice
carattere orientativo”, malgrado l’intenzione di proporre ora ai rispettivi governi “precisi impegni di alleanza”. L’Addetto Militare italiano
ad Atene, tenente colonnello Alberto Di Leo, nel fornire i risultati della riunione dopo un colloquio con il vice Capo di Stato Maggiore greco, generale Dovas, rilevò che si era discusso della difesa sullo Struma
e che si era costituito un Comitato fra i tre alti ufficiali per approvare
la pianificazione comune, ma senza costituire un Comando unico.
Proprio nei giorni della conferenza militare, il 25 settembre,
Scelba, in un discorso al Senato confermò, tra l’altro, che “nessuna
opposizione di principio” era stata mai formulata nei confronti dell’Alleanza balcanica dal governo italiano, il quale vedeva con favore,
anzi, la conclusione di “intese regionali destinate a rafforzare i dispositivi della difesa occidentale”. Ma occorreva riportare alla normalità
le relazioni italo-jugoslave per poter riproporre eventualmente il collegamento con il sistema atlantico.
Scelba voleva naturalmente eliminare la tensione accumulatasi
nelle settimane precedenti la firma del trattato di Bled e cercava di
arrivare ad una sistemazione razionale di tutta la vicenda. Il Capo del
governo rilevò anche che “il necessario collegamento tra il sistema
atlantico e quello creato a Bled sarebbe rimasto di difficile per non
dire impossibile attuazione senza la normalizzazione della situazione
alle nostre frontiere orientali”. Ma nelle parole di Scelba l’Alleanza
sembrava non rivestire più per l’Italia alcuna importanza per la scarsa vitalità sia politica che militare rilevata dalle informazioni giunte a
Roma, tanto da indurre il governo italiano a dubitare sulla sua possibilità di durare a lungo.(51).
(50)jASMAE, busta 323, Tss. riservato 14/12108/C, DGAP-MAE, Roma, 11 ottobre 1954. Per questo e alcuni dei successivi documenti provenienti dalle varie sedi diplomatiche la copia rinvenuta nell’Archivio degli Esteri è solo quella ritrasmessa dal ministero alle altre sedi. Tra parentesi è comunque indicata la provenienza e la data originali. In questo caso: Ankara, 22 settembre 1954.
(51)jIl nesso causale tra i progressi della distensione internazionale (con la maggiore “autonomia” di alcuni Paesi piccoli e medi come la Jugoslavia) e l’appanna-
471
8. - Gli eventi internazionali dei mesi successivi sembrarono far
passare in secondo piano gli sviluppi balcanici, dall’affossamento della CED ad opera del Parlamento francese il 30 agosto 1954, alla successiva nascita della Unione Occidentale Europea con gli Accordi di
Parigi del 23 ottobre. La stessa intesa su Trieste, con il Memorandum
di Londra parafato il 5 ottobre e il regolamento provvisorio dei rapporti tra Roma e Belgrado, resero probabilmente inutile qualsiasi interesse per la eventuale adesione italiana all’Alleanza balcanica. Solo
Caruso da Atene era ancora persuaso che tale adesione fosse necessaria, ritenendo che essa potesse esercitare una certa pressione su Tito
a favore dell’Italia anche dopo l’intesa su Trieste, perché restava comunque aperta la questione della difesa del varco di Lubiana e del
possibile contributo italiano.(52). Puntare sul sostegno del governo
greco a questo fine, rilanciando l’amicizia con Atene, poteva essere
una scelta ancora valida secondo Caruso, che il 19 ottobre tornò sull’argomento prospettando la possibilità di “equilibrare” con l’ingresso
italiano una alleanza già malferma, impedendone in particolare evoluzioni indesiderabili, per esempio ai danni dell’indipendenza albanese.
Si doveva però agire con estrema cautela, facendo comprendere, anzi,
per evitare i sospetti di Belgrado, che ad aderire “non solo non abbiamo premura, ma forse potremmo anche non avere interesse”.
Quello di Caruso si rivelava però forse un suggerimento troppo complesso in un momento in cui il disinteresse del governo nei confronti
dell’Alleanza era divenuto definitivo.
Nel corso di un intervento alla Camera dei Deputati il nuovo ministro degli Esteri, Gaetano Martino, evidenziando l’importanza di
iniziare una nuova fase nella cooperazione italo-jugoslava, affermò
esplicitamente che “il problema (dell’adesione italiana) non si pone
nel raggio dei nostri attuali bisogni e doveri. Abbiamo per ora solo il
dovere di non anticipare e affrettare nessuna decisione, prescegliendo
nel momento debito soluzioni più conformi all’interesse dell’Italia e
quello generale della pace che attuasi con una azione continua e progressiva di ricostruzione”.(53). Nella nuova fase della politica estera
italiana l’ingresso in un patto regionale cui non sembrava più interessato lo stesso Tito non era più necessario.
mento dell’Alleanza balcanica è sottolineato da Bianchini (op. cit., p. 35). Tuttavia,
non si comprende bene perchè in Tito abbia prevalso l’interesse (“internazionalista”?) a tornare in buoni rapporti con Mosca a scapito dell’asserito e non meno importante obiettivo di una cooperazione “tra paesi a regime sociale differente” in
Europa.
(52)jASMAE, busta 322, Rapporto segreto n. 3982, da Caruso a Zoppi, Atene,
14 ottobre 1954.
(53)jCit. in ASMAE, busta 222, T. 144, dal MAE a Belgrado, 19 ottobre 1954.
472
Vi insisteva peraltro ancora Köprülü con un Pietromarchi visibilmente scettico, consapevole soprattutto dell’avvicinamento di Belgrado
a Mosca che stava cambiando rapidamente le carte del gioco balcanico.
Una nuova Conferenza dei tre Stati Maggiori si limitò ad attuare ancora semplici scambi di informazioni, confermando l’esiguo valore assunto ormai da questo tipo di confronto; anche da parte greca e turca. La
visita a Roma, dal 31 gennaio al 2 febbraio 1955, da parte di Menderes e del suo ministro degli Esteri mise in risalto infine anche il ridimensionamento dell’interesse turco, evidenziando soprattutto la identità di vedute in tema di Alleanza atlantica e la “speciale funzione” che
Italia e Turchia erano chiamate a svolgere nel Mediterraneo per la difesa dell’Occidente. La ratifica nei tre Paesi del trattato di Bled avvenne così in un atmosfera di disinteresse generale, mentre l’Alleanza
tornava lentamente ad essere soprattutto un accordo di cooperazione
“politica”, mettendo la sordina alla pianificazione militare.
All’inizio del 1955 sull’Alleanza balcanica tornò inaspettatamente
ad appuntare la sua attenzione il mondo militare italiano. La VII sessione di studi del Centro Alti Studi Militari dedicò infatti uno studio
sulle conseguenze del trattato di Bled per la politica militare del Paese.(54). Con il suo giudizio il CASD rivalutava il Patto balcanico come
un “importante coefficiente di stabilità” nella regione balcanica, in
grado di fronteggiare l’eventuale offensiva dei satelliti dell’URSS.
Tuttavia il CASD ammetteva che non ne sarebbe derivato alcun vantaggio diretto per la difesa italiana, rimanendo l’area settentrionale
della Jugoslavia debolmente difesa. Vulnerabilità che avrebbe potuto
essere risolta solo con un coordinamento italo-jugoslavo e la “saldatura” tra Europa centrale e Balcani, rendendo, così, superflua l’adesione dell’Italia all’Alleanza.
Nel corso della visita ufficiale negli Stati Uniti compiuta a fine
marzo da Scelba e Martino, nell’agenda delle discussioni i “Balcani”
figuravano al secondo posto dopo le relazioni Est-Ovest, insieme al
Medio Oriente, mentre alla cooperazione tra la NATO e la Jugoslavia
non venne più attribuita una importanza significativa, anche in rapporto al crescente disinteresse americano per il ruolo di Belgrado.
Brosio, ora ambasciatore a Washington, mise in relazione il riavvicinamento di Tito a Mosca con il ridotto “peso specifico” dell’Alleanza a tre, soprattutto alla luce del raffreddamento dell’intesa turco-jugoslava. Ma se la partecipazione dell’Italia “non era più di at-
(54)jLEOPOLDO NUTI, Appunti per una storia della politica di difesa in Italia
nella prima metà degli anni Cinquanta. In L’Italia e la politica di potenza in Europa, a cura di Brunello Vigezzi, Roman H. Rainero e Ennio Di Nolfo. Milano,
Marzorati, 1992, p. 664.
473
tualità”, era invece ancora attuale il contributo che l’Italia avrebbe
potuto dare alla difesa della conca di Lubiana. Per Brosio era necessario supportare i nuovi interessi americani, diretti in particolare
verso l’area mediorientale e il nuovo Patto di Baghdad, e puntare –
per quanto riguardava l’area balcanica – su singoli problemi, per
esempio sul necessario mantenimento dell’indipendenza albanese rispetto agli appetiti degli Stati confinanti. Problema che peraltro sembrava aver perso anche esso la sua urgenza in seguito alla crisi dell’Alleanza balcanica.
La riunione a febbraio dei tre ministri degli Esteri dell’Alleanza
ad Ankara confermò l’esistenza di una tiepida atmosfera di cordialità
e di fiducia nella necessità di continuare gli sforzi per il consolidamento della cooperazione politica, economica, tecnica e culturale e dei comuni “interessi permanenti”. Più che in passato l’approfondimento del
tema della dimensione militare, per l’ostentato disinteresse jugoslavo,
brillò per la sua assenza. Popovic´ tornò anzi sul generico argomento
caro agli jugoslavi dell’Alleanza intesa come strumento per coinvolgere
anche Paesi dell’orbita sovietica e come contributo alla “pacificazione
della situazione internazionale”, contro la logica dei “blocchi”.
Anche quando il 2 marzo al termine del Consiglio permanente
dell’Alleanza venne solennemente inaugurata l’Assemblea consultiva
balcanica le speranze di un consolidamento dell’Alleanza furono ridimensionate. Ci si avvide che i poteri dell’Assemblea restavano assai limitati, tra l’altro a causa dell’unanimità richiesta per le sue decisioni.
Pietromarchi si rivelò allarmato solo per la possibilità che venissero
allacciati rapporti con “istituzioni similari” come l’Assemblea del
Consiglio d’Europa o quella della Comunità Europea del Carbone e
dell’Acciaio, e che attraverso l’adesione all’Assemblea altri Paesi potessero diventare automaticamente membri della stessa Alleanza.(55).
L’intensità della cooperazione tripartita rimase dunque solo sulla carta capace di sviluppi positivi. La visita del presidente Menderes a Belgrado ai primi di maggio non cambiò sostanzialmente le cose e la distanza tra le due parti rimase invariata.
Infine sulla coesione dell’Alleanza piombò pochi giorni dopo con
effetti dirompenti l’improvvisa visita a Belgrado del leader sovietico
Kruschev: la pur cauta ripresa dei rapporti tra Stato jugoslavo e Stato sovietico sancirono la prosecuzione da parte di Tito delle sue scelte.
Nel primo anniversario del trattato di Bled Belgrado si espresse
ancora una volta per l’abbandono dell’Alleanza come strumento mili-
(55)jASMAE, busta 1105, Tss. 12/2888/C, DGAP-MAE, Roma 14 marzo 1955
(da Ankara, 3 marzo 1955); Tss. 12/3176/C, DGAP-MAE, Roma, 22 marzo 1955
(da Ankara, 7 marzo 1955)
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tare.(56). La presa delle distanze dalla politica di Tito da parte del governo turco divenne allora più netta, mentre si accentuò il dissidio tra
Atene e Ankara a causa della situazione cipriota e, di converso, la ripresa della cooperazione bilaterale solo tra Atene e Belgrado.
Il nuovo ministro degli Esteri turco, Rustu Fatin Zorlu, disse
esplicitamente a Pietromarchi che l’Alleanza con la Jugoslavia era
“morta”. “Cade così tutta una politica perseguita con tanta tenacia in
questi ultimi anni”, commentò l’ambasciatore, spettatore di un evento
fino a poco tempo prima inimmaginabile.(57).
Alle soglie della politica detta del “neoatlantismo”, l’Italia aveva
accantonato nei confronti dell’Alleanza balcanica sia timori che ipotesi di partecipazione. La ricerca di un ruolo da protagonista da parte
della politica estera italiana veniva ora rivolta con maggiore determinazione verso il Mediterraneo.
GIULIANO CAROLI
(56)jASMAE, busta 1105, Tss. 12/9626/C, DGAP-MAE, Roma, 24 agosto 1955
(da Belgrado, 12 agosto 1955).
(57)jASMAE, busta 1105, Tss. 12/9799/C, DGAP-MAE, Roma, 29 agosto 1955
(da Ankara, 13 agosto 1955).
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