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Quale reddito di cittadinanza?
Autore: Andrea Fumagalli
Quando si parla di diritto al reddito sganciato dal lavoro spesso si intendono diversi
concetti. La stessa confusione che sorge tra i termini, ad esempio, come "salario
garantito", "salario di cittadinanza", e "reddito garantito" e "reddito di cittadinanza"
testimonia l’esistenza di diverse impostazioni, spesso fra loro inconciliabili. In questo
intervento, cercherò di svolgere alcune osservazioni per cercare di fare chiarezza. Tali
diverse impostazioni si possono raggruppare in due gruppi che fanno riferimento a due
ordini di giustificazioni: la prima è di carattere etico-sociale, la seconda di carattere più
prettamente economico.
Negli ultimi vent’anni il fenomeno della povertà si è ampliato, a prescindere dalla
definizione di povertà adottata (povertà assoluta vs. povertà relativa). La crescente
polarizzazione della distribuzione dei redditi, indotta dalla precarizzazione del lavoro,
oramai non interessa solo la fascia della marginalità sociale, a seguito della perdita del
lavoro e/o di rovesci della vita, ma sempre più anche chi è inserito nel processo
produttivo e partecipa alla creazione della ricchezza sociale. Figure sociali, come i
"working poor", che erano impensabili nell’epoca fordista, hanno raggiunto soglie
preoccupanti (in Italia si calcola che sia circa il 12% la quota di coloro che, pur
lavorando, gode di un reddito che è al di sotto della soglia di povertà relativa). In un
simile contesto, diventa sempre più "eticamente" e "socialmente" impellente la necessità
di intraprendere una sorta di battaglia contro la "nuova povertà", soprattutto in presenza
di un progressivo smantellamento dello stato sociale. Ne consegue che l’obiettivo di
garantire a tutti/e un reddito dignitoso diventa un asse portante e una necessità della
politica sociale. In Italia le politiche sociali sono sempre state caratterizzate dall’aver
come oggetto dell’intervento più il nucleo familiare che il singolo individuo. Non è un
caso che quei pochi interventi che sono stati intrapresi per arginare il fenomeno della
povertà (come la Legge Turco o come la recente proposta di "Istituzione di un reddito di
cittadinanza" nella regione Campania) si rivolgono di fatto al solo nucleo familiare e non
ai singoli componenti. E’ facile constatare che si tratta dei medesimi criteri per
accedere ai servizi sociali, laddove essi esistono ancora e non sono stati del tutto
smantellati.
L’idea di reddito di cittadinanza che sta alla base delle motivazioni di carattere etico e
sociale ora ricordate non è, dunque, alternativa alle politiche sociali legate al lavoro. Il
sussidio al reddito diventa diritto nel momento stesso in cui l’attività lavorativa non
consente una remunerazione adeguata, o perché il lavoro è insufficiente o perché
eccessivamente precario e malpagato. Il presupposto è che è sempre e comunque
l’attività lavorativa, fondata sul rapporto di sfruttamento capitale-lavoro, la principale
fonte di reddito.E’ in questo senso che si tende a parlare di un salario garantito o salario
di cittadinanza, in quanto il sostegno al reddito, essendo temporaneo e condizionato, è
visto in ogni caso una sorta di corollario alla remunerazione del lavoro, appunto il
salario.
Tuttavia, una tale visione e motivazione del reddito di cittadinanza non coglie appieno le
trasformazioni strutturali che hanno interessato il processo produttivo negli ultimi venti-
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trent’anni. Al limite, coglie uno dei suoi effetti finali, e precisamente, che il lavoro, più
o meno stabile, non sempre garantisce un reddito dignitoso al di sopra della linea di
povertà.
La ristrutturazione tecnologica, esito della diffusione di tecnologie di linguaggio che si
sostituiscono o sono complementari alle tradizionali tecnologie meccaniche e ripetitive
di stampo taylorista, ha profondamente modificato le forme di erogazione del lavoro e
di origine del profitto. La nuova organizzazione flessibile del lavoro e della produzione
porta alla ridefinizione del rapporto capitale-lavoro, in cui la prestazione lavorativa è
totalmente subordinata e sussunta al capitale sia nella sua componente materiale che
immateriale. Non solo le braccia, ma anche la mente ed il tempo di vita sono diventati
fattori produttivi che danno origine a livelli crescenti di produttività, che assume
caratteri "sociali" e non più individuali: una produttività sociale che deriva sempre più
dalle esperienze e dai saperi soggettivi dei singoli individui e che assumono le più
disparate tipologie di "lavoro". Ciò porta ad una ridefinizione della separazione fordista
tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra produzione materiale e produzione
immateriale, tagliando trasversalmente non solo l’attività di trasformazione industriale
e il settore terziario, ma influenzando pesantemente i meccanismi di finanziamento e la
dinamica dei mercati finanziari. Nel fordismo, il rapporto capitale-lavoro si era
sviluppato all’interno di un patto sociale, garantito a livello nazionale, che da un lato
legava incrementi di produzione a incrementi dell’occupazione e, dall’altro, imponeva
la distribuzione di parte dei guadagni di produttività al reddito da lavoro salariato,
consentendo una crescita contemporanea di salario e profitto. Oggi il livello di
sfruttamento insito nel rapporto capitale-lavoro produce incrementi di produttività
"sociale" che non vengono ridistribuiti ma sono ad esclusivo appannaggio della crescita
dei profitti e della rendita finanziaria. La ridefinizione di un nuovo patto sociale postfordista non può che partire dall’esigenza di una ridistribuzione sociale del reddito. Il
reddito di cittadinanza è dunque la forma più moderna compatibile con l’attuale sistema
di accumulazione flessibile, resa possibile da un intervento ridistributivo dei guadagni di
produttività immateriale, che oggi sfuggono alle statistiche ufficiali, ma che producono
quella ricchezza, per lo più utilizzata per la speculazione finanziaria internazionale e
che è all’origine delle più moderne forme di esclusione sociale. In linea generale, un
intervento sui guadagni di produttività (tramite una tassazione sui beni capitali o sugli
investimenti diretti all’estero) e sulle transazioni finanziarie (ad esempio, tramite
l’introduzione di una Tobin Tax) sono dunque i campi dai quali reperire le risorse per un
finanziamento possibile del reddito di cittadinanza.
E quando si parla di reddito di cittadinanza è giocoforza, in un simile contesto, riferirsi
ad un reddito di esistenza, che deve avere due caratteristiche fondanti: deve essere
universale e incondizionato, deve cioè entrare nel novero dei diritti umani In altri
termini, il reddito di cittadinanza va dato a tutti gli esseri umani (individui, non
famiglie) in forma non discriminatoria (di sesso, razza, di religione, di reddito).E’
sufficiente, per averne diritto, il solo fatto di "esistere". Non è sottoposto ad alcuna
forma di vincolo o condizione (ovvero, non obbliga ad assumere particolari impegni e/o
comportamenti). I due attributi - universale e incondizionato - sgombrano il tavolo da
molti equivoci. Ma soprattutto si tratta di reddito e non di salario (non si può parlare al
riguardo, come molto spesso si fa, di salario minimo o salario garantito): il salario, in
quanto remunerazione del lavoro, è comunque legato all’organizzazione capitalistica
della produzione. Il concetto di reddito rientra invece esclusivamente nell’alveo della
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distribuzione delle risorse, una volta dato il livello di ricchezza complessiva. Il reddito
determina la possibilità di consumo e se il diritto al consumo è universale anche il diritto
al reddito deve essere universale e primario (non mediato, quindi, dal diritto al lavoro).
Tutte le proposte di tipo distributivo che fanno riferimento o alla condizione
professionale (stato di disoccupazione o/o di precarietà insufficiente a garantire un
reddito minimo) o all’obbligo di assumere degli impegni di tipo contrattuale, pur se
sganciati dalla prestazione lavorativa, (come il Reddito minimo di inserimento in
Francia), sono discriminanti e non conformi allo status di "diritto inalienabile
individuale". Non è così per il reddito di cittadinanza.
Ora è evidente che l’introduzione di un reddito di esistenza incondizionato e universale
non può avvenire nello spazio di un mattino. E’ necessario una certa gradualità, che
interessa sia il lato operativo che quello culturale. Però, alcuni punti fermi devono
essere mantenuti: anche se la sua introduzione non è immediatamente universale, la sua
titolarità deve essere individuale, comunque non sottoposta a condizionamenti e
obblighi (cioè a forme di controllo sulla vita e i comportamenti dei soggetti interessati) e
il suo finanziamento deve in ogni caso dipendere dalla fiscalità generale, pur se
territorialmente definita.
Anche se inizialmente, per favorire una graduale introduzione del reddito di
cittadinanza, può essere pensato un limite di reddito che ne riduca l’universalità,
tuttavia i tre parametri ricordati non possono essere misconosciuti. Altrimenti si tratta
di tutt’altra misura di politica sociale, comunque inadeguata rispetto alla