Anno VI
Numero 52
aprile 2009
INDIE RAGION PER CUI
INDIE RAGION PER CUI
L’indie è il motivo, indi ragion per cui siamo qui.
Ce lo ha ricordato in questi giorni il Paese è reale,
disco voluto e ispirato dagli Afterhours, band che
con la sua partecipazione a SanRemo ha messo
in chiaro che l’Italia non è solo quella che la
tv e la radio ci propinano. E per sottolineare il
gesto non scelgono la strada del facile disco post
festivaliero ma pubblicano una compilation, che
consigliamo a tutti, con tutto, o quasi, il meglio
dell’indie Made in Italy. Non è un fenomeno
ma una realtà che da anni esiste e resiste sul
territorio. E noi con lei, con questo giornale,
figlio più o meno legittimo delle mitiche fanzine
ciclostilate e con i nostri concerti (parte in questi
giorni il nostro festival Keep Cool dedicato alla
musica indie).
Abbiamo dedicato questo numero a quello che,
forse, è più di tutto uno stile di vita, il modo
in cui interpretiamo noi stessi all’interno della
realtà. La filosofia che questo concetto porta con
se è quella del do it yourself, figlio del punk e
padre dell’altro mercato, dell’altra informazione
e più in generale dell’altra cultura. Ne abbiamo
parlato con Marco Philopat, pioniere e teorico di
questo pensiero nel nostro paese. Lo troviamo
aggiornato ai nostri tempi con le storie delle
nuove radio e tv nate sul web. E ancora sul web
abbiamo visto come un gruppo come i Radiohead
possa fare a meno di una major e vendere di più.
Prima di internet l’indie era fatto di carta, sudore,
vinile. Ce lo ha raccontato Gianni Maroccolo,
per la musica e per il mercato discografico un
personaggio chiave (nei Litfiba, nei Csi, nei
Marlene Kuntz come musicista e tra i fondatori
del Cpi - Consorzio Produttori Indipendenti).
Ancora musica con le interviste ai salentini
Muffx e Shank, agli americani Cristal Antlers,
ai Les Fauves, agli El ghor. Come sempre
recensioni indie, e non, e il Salto nell’indie, manco
a dirlo, la nostra rubrica dedicata alle etichette
discografiche. La letteratura ospita le parole
di Serge Quadruppani e Marco Mancassola, il
cinema quella di Margherita Buy. E alla fine
come sempre troverete gli appuntamenti più
“cool” di aprile.
Un mese speciale per Coolclub che saluta un
amico che torna e uno che si allontana, i ritorni
ci si augura siano per sempre gli arrivederci per
poco. Per il resto a tutti, come ogni mese, buona
lettura.
Osvaldo Piliego
Editoriale 3
CoolClub.it
Via Vecchia Frigole 34
c/o Manifatture Knos
73100 Lecce
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Anno 6 Numero 52
aprile 2009
Iscritto al registro della
stampa del tribunale di Lecce
il 15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
C. Michele Pierri, Cesare
Liaci, Antonietta Rosato, Dario
Goffredo
Hanno collaborato a questo
numero: Simone Rollo,
Marco Montanaro, Giancarlo
Susanna, Dino Amenduni,
Ennio Ciotta, Marco Chiffi,
Vittorio Amodio, Tobia
D’Onofrio, Pierfrancesco
Pacoda, Alfonso Fanizza,
Rino De Cesare, Federico
Baglivi, Camillo Fasulo, Oscar
Cacciatore, Emiliano Cito,
Rossano Astremo, Nino G.
D’Attis, Francesca Maruccia,
Roberto Conturso, Michela
Contini, Elisabetta Lapadula
In copertina foto di Giovanni
Ottini
Ringraziamo Manifatture
Knos, Cooperativa Paz
di Lecce e le redazioni di
Blackmailmag.com, Radio
Popolare Salento di Taranto
e Lecce, Controradio di Bari,
Mondoradio di Tricase (Le),
Ciccio Riccio di Brindisi,
L’impaziente di Lecce,
quiSalento, Lecceprima,
Musicaround.net.
Progetto grafico
erik chilly
Impaginazione
dario
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso in redazione la
domenica delle palme tra un
arrivederci e un bentornato
Per inserzioni pubblicitarie e
abbonamenti:
[email protected]
0832303707
Indie ragion per cui
Marco Philopat 6
Pronti al peggio 11
Prima di tutto i Beatles 12
Gianni Maroccolo 18-19
musica
Crystal Antlers 20-21
Muffx 24
Recensioni 29
Libri
Serge Quadruppani 42-43
Marco Mancassola 44
Recensioni 47
Cinema Teatro Arte
Margherita Buy 52-53
Recensioni 54-55
Momart 56
Eventi
Calendario 59
sommario 5
MAI SOTTO PADRONE
Intervista a Marco Philopat
È il simbolo della controcultura italiana degli ultimi trent’anni. Tra i primi punk in Italia è stato
uno dei fondatori del Virus, mitico centro sociale.
Anni cruciali per la scena underground italiana, raccontati da Marco Philopat in Costretti a
sanguinare pubblicato nel 1997. Libro che inizia
una trilogia che prosegue con La Banda Bellini
nel 2002 e si chiude con i Viaggi di Mel nel 2004.
Nel 2006 esce Punx - creatività e rabbia, un dvd/
libro che tratta della scena punk in Italia. Sempre
nel 2006 pubblica per Agenzia X Lumi di punk,
la scena italiana raccontata dai protagonisti. Nel
2008 esce Roma KO (Agenzia X) scritto insieme al
Duka, che intreccia fiction e realtà ripercorrendo
trent’anni di underground romano, dagli anni settanta al G8 di Genova 2001. Agitatore e animatore della scena “indipendente” italiana (anche se la
parola non gli piace, ndr) Marco Philopat è oggi
nel gruppo di Agenzia X, casa editrice che unisce
cultura “alta” e cultura di “strada”. Uno dei più
grandi conoscitori di tutto quello che si muove
all’ombra, delle culture “altre”, un personaggio
fuori dagli schemi capace di offrirci una prospettiva nuova sulla nostra storia e il nostro presente.
Questo numero di Coolclub.it è intitolato
Indie ragion per cui, come se l’essere indipendenti sia il motivo per cui siamo su
questo pianeta, che cos’è oggi, secondo te,
essere indipendenti e che senso aveva 20,
30 anni fa?
Diciamo che la parola indipendente non mi è mai
piaciuta molto, indipendenti da che cosa? È un
po’ riduttivo. Per quel che mi riguarda essere
indipendenti vuol dire non esssere sotto un padrone. Sono convinto che il fatto di essere indipendenti, autonomi, nel caso della mia gioventù
da militante nella scena punk, delle autoproduzioni, coincide con il do it yourself. Quello che ci
permetteva di fare una rivista, un disco, facendo
tutto da noi, senza dover andare a bottega da
nessuno, senza dover dipendere dal più infinitesimale dente dell’ingranaggio della produzione
culturale che c’era. Chi faceva il do it yourself
ai tempi del punk faceva di tutto: era musicista,
pubblicista, promotore, grafico, rilegatore, venditore e distributore del proprio prodotto. Aveva
a disposizione, se pur con numeri limitatissimi
tutto quanto era necessario per il meccanismo
della produzione e, bene o male, avendo un’ idea,
una visione complessiva del processo di produzione culturale imparava in fretta i modi i punti
in cui si vendeva meglio.
Essere lontani dal mercato, a volte, è una
scelta, quale messaggio “politico” si riferisce a questa scelta?
In questo senso io credo che, per la situazione
del mercato oggi, e lo dico soprattutto per i giovani che si affacciano nel mondo del lavoro così
frastagliato e devastato, così privo di umanità in
cui la competizione è tutto, può essere una scelta. Magari uno fa uno stage per imparare una
piccola parte del proprio lavoro sottoposto a ritmi allucinanti in cui predomina l’arrivismo, la
competizione, lo sgomitare contro i propri simili.
Con il do it yourself invece collabori con le altre
persone, non c’è questo clima di competizione che
c’è adesso. Una volta c’era il praticantato, l’inserimento nel mondo del lavoro tramite i corsi di
formazione che al tempo funzionavano. Poi con
l’avvento del post fordismo questo è decaduto
completamente. Diciamo che il do it yourself e
anche l’essere indipendente aiuta molto i giovani
per la scelta del loro ruolo nel mercato del lavoro. Poi per quanto riguarda la scelta di essere
indipendenti, è sicuramente una scelta che ha
dei costi.
Le controculture hanno bisogno di essere
documentate, di diventare testimonianza,
forse in questo senso l’essere indipendenti è in qualche modo un’esigenza, cosa ne
pensi?
Si, perché l’ambiente contro culturale, quello
underground è proprio uno stile di vita, che non
prevede, tra l’altro, meccanismi gerarchici. Tutto ciò che è dipendente vuol dire dipendenza soprattutto da questi meccanismi: capo, sotto capo,
capoufficio e quant’altro. Quindi la cultura underground rifiuta gli schemi gerarchici, figurati
stare dentro una grande azienda. Non esiste la
possibilità di dividersi in due lavorando da una
parte per un padrone e dall’altra per te stesso,
perché le pratiche contro culturali dell’underground non prevedono la separatezza tra questo mondo e quell’altro mondo, non siamo divisi
in cassetti (questa è la mia professione, questo
è il mio hobby, questa è la mia convinzione politica)… si vive alla luce del giorno… o meglio,
nel buio dell’underground ci si riconosce in una
maniera orizzontale. Non esiste una proposta
culturale all’interno di grandi corporations o
addirittura aziende che pretendono di essere
capostipite di qualcosa. Per quanto mi riguarda
non riesco a concepire, questo è un mio grosso
problema, di stampare i miei nuovi libri in una
casa editrice, preferisco ancora lavorare nel mio
piccolo laboratorio dove la resa, anche dal punto di vista economico, è inferiore ma la qualità
migliore di dieci volte. Questa scelta ha però dei
costi, a cui facevo riferimento prima, che equivalgono a una mancanza di organizzazione, interminabili riunioni dove si tenta di trovare una via
INDIE RAGION PER CUI 7
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comune perché si lavora in equipe e quindi un
libro rischia di uscire con quattro, cinque mesi
di ritardo. È un principio di crescita, una scelta
di vita anche dura però, per quella che è stata la
mia vita, non riuscirei a fare altro.
Musica e scrittura, il punk cosa significa oggi?
Il punk… Quando ho cominciato a scrivere Costretti a sanguinare, nei primi anni ’90, l’avevo scritto soprattutto perché mi sembrava che
l’esperienza del punk, del Virus (storico centro
sociale milanese) a cui avevo partecipato quando ero giovane, erano cose che stavano andando
perdute. Agli inizio degli anni ’90, con la caduta
del muro di Berlino, il punk sapeva di muffa, allora mi è sembrato giusto scriverne per dare memoria storica di quello che avevo vissuto. Però,
allo stesso tempo, proprio quando ho cominciato
a scrivere il libro è scoppiata la guerra, prima in
Slovenia, poi in Croazia, il mondo non era più
tanto pacificato e quindi le nuove generazioni
hanno trovato nel punk ancora un preciso riferimento per contestare, per opporsi alla logica della guerra e di un sistema che stava diventando
peggio del precedente. Un sistema che si è rivelato man mano sempre più pazzesco. Pensa che
quando è uscito, nel ’97, Costretti a sanguinare
ha iniziato ad andare subito bene “inaspettatamente” e avevamo stampato solo 1000 copie.
Poi è scoppiata la guerra anche in Serbia con il
bombardamento di Belgrado nel ’99 e anche qui
le nuove generazioni hanno trovato nel punk
nuova linfa vitale per poter ribellarsi alle proprie condizioni di vita partendo dalla condizione
della guerra in senso stretto. Negli anni 2000 poi
la situazione è ulteriormente peggiorata e quindi
i gruppi punk, che agli inizi degli anni ’80 erano cinque o sei a Milano, sono esplosi. C’è stato
un grandissimo proliferare di band e di riviste
agli inizi degli anni zero, non solo a Milano ma
in tutte le città italiane e le provincie. È un fenomeno europeo e più in generale occidentale.
Di conseguenza sono andato a rivedere perché
il punk non morisse e ancora qui nella filosofia
Do it yourself ho trovato una risposta. I ragazzi
che oggi escono dalle scuole, magari da istituti
professionali di quartieri popolari o zone depresse italiane, si buttano nel mondo del lavoro e lo
vedono organizzato in maniera assolutamente
assurda… beh forse gli conviene mettere su una
band oppure una piccola redazione di una rivista
ed entrare in meccanismi di collaborazione reciproca. Do it your self è quindi una chiave di volta importante che ha portato il punk a resistere
così tanto nel tempo.
Ancora, la tua attività editoriale come scrittore e non solo è un percorso unico in Italia.
Ci racconti l’esperienza di Agenzia X?
A noi piace chiamarlo un laboratorio di scrittura,
che lavora in stretto contatto con gli autori. Tutti
gli autori dei nostri libri sono qui a lavorare con
noi per la realizzazione dei vari volumi. Abbiamo
un rapporto di amicizia reale, vero e anche tutta
la parte che riguarda le presentazioni e la promozione in genere la portiamo avanti insieme. X
è una sorta di crocevia di una serie di personaggi
che individuano nelle idee per la condivisone dei
saperi il terreno comune. Condivisione di saperi
che significa mischiare i saperi alti, elevati, quelli dell’accademia a quelli della cultura del ghetto, la gente che arriva dalla strada, l’urgenza di
scrivere, di esprimersi attraverso la carta stampata… una scrittura che noi abbiamo definito
“teppista”. In realtà quasi tutti i nostri libri sono
indirizzati sul rapporto tra fonti orali e una trasposizione storica in chiave narrativa, nel senso
che molti nostri libri partono proprio da registrazioni orali di persone che sanno raccontare bene.
Noi mettiamo insieme queste storie, le elaboriamo e cerchiamo di metterle in forma narrativa
come una sorta di racconto che ha un inizio, uno
svolgimento e una fine. Questo per far si che la
memoria, la memoria storica del nostro presente
sia una sorta di veicolo in movimento verso una
migliore comprensione di ciò che ci circonda e di
quello che può essere un orizzonte futuro. Abbiamo anche una collana dedicata al cinema, una
che si occupa di odio e opposizioni e anche alcune
riviste e saggi che esplorano dal punto di vista
storico e sociologico.
Quali sono, secondo te, le realtà indipendenti italiane più interessanti?
Mi piacciono le case editrici che lavorano su
un limitato campo di azione. Mi piace Derive e
Approdi, una casa editrice che lavora tanto su
un immaginario che è nato durante gli anni ’70
e che in qualche modo dà strumenti di lettura
per un possibile rapporto tra letteratura e impegno politico. Sensibili alle foglie è un’altra
casa editrice che mi piace seguire. Ci sono cose
interessanti anche dal punto di vista musicale e
teatrale. Vorrei citare il sito carmillaonline: un
progetto collettivo in cui c’è dentro tanta gente.
È portato avanti dal fondatore Valerio Evangelisti ed è l’esempio di un sito che ha più di un milione di contatti, che ha creato un dibattito forte
e si è creato anche una forte identità attraverso
tutti quelli che vi partecipano.
Simone Rollo
INDIE RAGION PER CUI 9
ESSERE O NON
ESSERE INDIE
L’essere indipendente è un po’ come essere rock
and roll, è un attitudine, un atteggiamento che si
assume nei confronti del mondo, e non solo musicalmente parlando. E proprio con il rock and roll
nasce, in embrione forse, l’idea di un mercato ufficiale e di un mercato altro, negli anni ‘50 e anche prima, con le piccole etichette discografiche,
che producevano in linea con quella che sarà poi
teorizzato come il do it yourself, dischi realizzati
in bassa fedeltà (low-fi) molto diversi dalla musica commerciale del tempo e rivolti a un pubblico
di nicchia. Ma già il rock and roll, la sua esplosione con Elvis, è la testimonianza di come l’indie
non sia solo un genere destinato a pochi ma forse
più vicino al gusto reale della gente. Un fenomeno, quello dell’aggressione dell’indie al mercato
globale, che la nostra generazione ha vissuto con
i Nirvana e l’etichetta Sub Pop, giusto per fare
un esempio. Alcuni sostengono che il mercato
indipendente non faccia che anticipare quello
che prima o poi diventerà un gusto diffuso. In
un senso più politico l’indie è opposizione alle
major, alla grande industria discografica rappresentata da un pugno di etichette che gestiscono
la quasi totalità del mercato. Tutto il resto è indie? E quanto spazio ha? Difficile marcare i confini, soprattutto oggi, di un concetto che assume
una miriade di sfaccettature. L’indie può essere
inteso anche come un genere musicale, padre di
una grande famiglia di sottogeneri che partono
dall’indie rock, passano dall’indie pop e arrivano
INDIE RAGION PER CUI
all’indie dance. Anche il punk è indie? Sicuramente si, almeno nelle intenzioni, nel suo nascere. Essere contro o meglio essere liberi sembra la
chiave di volta dell’indie. Suonare o creare più in
generale senza pensare a un pubblico inteso in
senso commerciale. Detto in questi termini sembra quasi una forma di espressione egoista, ma
non è così. L’indie è estremamente solidale, sviluppa naturalmente il senso di rete, di circuito,
una sorta di mutuo soccorso volto alla resistenza, alla sopravvivenza. E grazie a questo che ieri
e mai come oggi (merito della rete, questa volta
intesa come internet) che la musica indie arriva
ovunque.
Simon Reynolds, critico inglese illuminante, ha
proposto una teoria secondo la quale la sostanziale differenza tra cultura indie e cultura pop si
basa sulla dicotomia celebrale/corporeo. L’indie
rinuncia alla carica sessuale che il rock aveva
negli anni ‘60 (Mick Jagger, Iggy Pop), si allontana dalla sua radice black per assumere caratteri più passivi, un look più trasandato, una virata verso il rumore (Sonic Youth, Husker Du) o
un atteggiamento più snob (The Smiths). Il pop
mainstream invece predilige il ballo, l’eleganza,
la spudoratezza e attinge ancora oggi a piene
mani dalla cultura r&b, funk, soul. E dice Reynolds: “il culto della perfezione oggi dilagante ci
toglierà il diritto di costruire le cose, di costruire
una cultura”.
L’indie sembra inoltre voltare le spalle al futuro
(no future?) visto come il paradiso del consumatore e si esilia, si rifugia nell’infanzia, nell’androginia, nel disordine.
Sono passati un po’ di anni dalle parole di Reynolds e i confini si sono, per così dire, avvicinati.
Il nuovo indie riscopre la dance, la pista, l’estetica e il nuovo pop si lascia affascinare da suoni
più underground e “sporca” la sua patina levigata. Resta l’atteggiamento, la spinta da cui tutto
parte, il senso del fare musica, o forse semplicemente il “modo”. Segno di una continua evoluzione, di una generation (beat, blank o rave) figlia
del tempo che scorre e batte un ritmo sempre
nuovo.
Indie o pop che sia l’importante è che ci siano
ancora canzoni e musiche capaci di raccontare
quello che siamo.
Osvaldo Piliego
PRONTI AL PEGGIO
Storia di una web tv al servizio dell’indie
Non posso dire di aver mai compreso appieno
cosa sia l’indie. Indie pop? Indie rock? Indie boogie? Rimane il fatto che certa musica che ascolto
finisce sotto questa etichetta. Ah, il problema
deve esser proprio quello, l’etichetta. Freghiamocene. Sarà un movimento, sarà qualcosa d’inesistente come la maggior parte dei movimenti.
L’intervista che segue è ad Andrea Girolami,
una delle menti di Pronti al Peggio, una web
tv che si occupa di musica (indie? boh), e lo fa
avvicinandosi di traverso ai protagonisti attuali
della canzone italiana meno conosciuta (meno
sputtanata, fate voi). Sul sito di Pap troverete
molte rubriche interessanti, dai live improvvisati in stile Blogotheque a interviste informali sul
luogo del lavoro (quello vero) dei musicisti.
Come nasce l’idea di Pronti al Peggio? Intendo dire, quando vi siete accorti che tecnicamente si poteva cominciare?
Quando ci sono stati i soldi. Scusa la poca poesia
ma è così. Pronti Al Peggio è un format a budget
ultra ristretto ma per produrre alcuni dei contenuti e, soprattutto, ripagare me e Iragazzidellaprateria che ci lavoriamo 12 ore al giorno serviva
un budget di partenza. Abbiamo prima girato dei
piloti che abbiamo presentato in giro, poi è partita
la prima serie vera e propria.
Credo che saremo in disaccordo su quanto sto per dire. Direi che l’indie, come altri “movimenti” musicali, sia più un fatto
d’atteggiamento che di genere musicale;
non vedo cosa c’azzecchino Le luci della
centrale elettrica con i Radiohead ad esempio; poi mi chiedo, anche da un punto di vista dell’atteggiamento, cosa c’azzecchino i
gruppi citati sopra; forse è solo un atteggiamento verso il music business? (che suona
sempre bene)
C’è chi fa le cose per sfondare, per guadagnare
soldi o perché un’analisi di mercato gli ha detto
così. E sono tanti. Poi c’è chi fa le cose per urgenza, per bisogno espressivo, semplicemente perché
gli piacciono e non potrebbe-vorrebbe fare altro.
Qualcuno, in musica, chiama questa seconda categoria indie, va bene se ci fa comodo, tanto sappiamo tutti il vero significato. Serve più che altro
a separarci dagli altri, ma è un discorso di forma
più che di sostanza.
Altra cosa sull’indie: che io sappia, a differenza di altre sottoculture metropolitane
(argh) non credo ci sia un qualche tipo di
droga strettamente legato a questo stile di
vita. Eccetto forse quel pensare sempre che
siamo un po’ tutti nella merda (cosa che genera dipendenza, a mio parere).
L’indie pensa di essere nella merda perché non si
droga abbastanza. È un grosso errore che io cerco
di non fare.
Quello che mi piace di PaP è il motivo di
fondo: e cioè che produrre musica, oltre che
un lusso (data l’offerta, visto che non siamo
negli anni ’50 e tutti hanno una band), è un
grosso sacrificio, e che non è più tempo di
rockstar. Il che esce fuori molto bene nell’intervista a Jukka dei Giardini di Mirò, quasi
a disagio nel far ascoltare la sua musica sul
posto di lavoro.
Oppure che nessuno è una rockstar se lo osservi
abbastanza da vicino. Le superstar oggi vengono
create a tavolino, perché permettono di creare le
cosiddette property: vacche grasse da cui poter tirare fuori soldi in ogni modo. Ecco, noi cerchiamo
di fare la cosa opposta, non perché siamo dei missionari ma crediamo sia semplicemente più interessante parlare o sentir suonare una persona in
carne ed ossa che un cartellone pubblicitario.
Marco Montanaro
INDIE RAGION PER CUI 11
PRIMA
DI TUTTO
I BEATLES
Uno dei nodi centrali nella storia della civiltà occidentale è il rapporto tra gli artisti e i detentori
dei mezzi di produzione dell’arte stessa. Proprio
per questo non si contano i tentativi dei musicisti di realizzare le loro opere in assoluta autonomia dalle “logiche commerciali”. Non è questa la
sede per affrontare una questione tanto complessa, ma possiamo almeno tentare un breve esame
di uno dei casi più eclatanti di “business” gestito
in prima persona da artisti.
Non tutti lo ricordano, ma anche i Beatles tentarono di trovare la classica quadratura del
cerchio: lavorare all’interno del mercato privilegiando soprattutto la qualità della musica (e non
solo quella, come vedremo). Nel 1967 i Beatles
vennero informati che rischiavano di perdere
due milioni di sterline in tasse se non li avessero
reinvestiti al più presto. Decisero quindi di creare una società con una serie di divisioni specializzate in vari settori della comunicazione e della
produzione e nel gennaio del 1968 trasformarono
la Beatles Ltd in Apple Corps.
Il nome e il logo della Apple furono scelti da
Paul, che era un appassionato collezionista
12 INDIE RAGION PER CUI
di Magritte. La mela verde compariva intera
sull’etichetta della facciata A dei dischi e tagliata a metà su quella della facciata B. Ci furono
poi delle varianti: la mela era arancione per All
Things Must Passa di George Harrison, bianca
per Imagine di John Lennon. (Un aneddoto: nella parodia beatlesiana dei napoletani Shampoo,
pubblicata dalla EMI, sulle etichette c’erano un
pomodoro intero e uno a metà!).
Le sezioni della Apple Corps, tuttora in attività
dopo varie vicissitudini erano sei. Il responsabile, che ha preso il posto di Neil Aspinall, scomparso nel 2008, è attualmente Jeff Jones.
Apple Records. Partì alla grande nel 1968 con
Hey Jude dei Beatles e Those Were The Days di
Mary Hopkin. Ha chiuso i battenti nel 1975, ma
dischi dei Beatles come One o Love portano ancora il marchio della mela verde. Tra i dischi del
catalogo c’è il primo di James Taylor prodotto da
Paul.
Apple Films. Fu lanciata nel ’68 e chiusa da Allen Klein nel 1969. Ha prodotto pochissime cose,
ma sulla carta è ancora in funzione.
Apple Retail. La famosa Apple Boutique di Baker Street a Londra fu aperta nel dicembre del
’67 – il gruppo creativo olandese The Fool aveva fatto dipingere uno splendido murale, provocando le proteste degli abitanti del quartiere - e
chiusa per difficoltà nella gestione a luglio del
’68.
Apple Electronics. Un vero disastro. Ad opera
di Alex Mardas (alias Magic Alex), che aveva allestito negli scantinati della Apple a Savile Row
uno studio di registrazione con un 72 piste (!) totalmente inefficiente.
Apple Publishing. Molte entrate, grazie soprattutto a Without You, la canzone dei Badfinger portata al successo da Harry Nilsson.
Zapple Records. Etichetta sperimentale, pubblicò solo due dischi, uno di John e Yoko, Life
With The Lions (1969), e uno di George Harrison,
Electronic Sounds (1969).
Secondo John Lennon, «L’obiettivo della società
non è una serie di denti d’oro in banca. Non ci
interessa. È più un trucco per vedere se riusciamo a ottenere la libertà di espressione artistica
all’interno di una struttura commerciale; per
vedere se riusciamo a creare cose e a rivenderle
senza caricare tre volte sui costi».
Non si può dire che la Apple sia stata un totale
fallimento, ma certo non raggiunse del tutto gli
obiettivi che i Beatles si erano prefissati. Ingenuità, senso dell’amicizia – tutti i collaboratori della Apple, da Derek Taylor (ufficio stampa) a Pete
Shotton (direttore della boutique), da Magic Alex
a Neil Aspinall, erano amici stretti dei quattro
– volubilità, spese “voluttuarie” e presunzione
furono alcune delle cause dei vari naufragi all’interno della Apple Corps.
Se John, George e Ringo non avessero chiamato
– contro il volere di Paul, l’ex manager dei Rolling Stones Allen Klein, la Apple avrebbe trascinato i Beatles in un disastro definitivo.
P.S. Un’altra curiosità: uno degli oggetti più
ambiti dai collezionisti dei Beatles è una confezione di quattro 45 giri pubblicata solo in Italia
alla fine del ’68 per lanciare il marchio Apple. Il
primo 45 giri comprendeva un’intervista ai Beatles di Kenny Everett, gli altri dei brani di Mary
Hopkin, The Iveys e Jackie Lomax.
Giancarlo Susanna
EFFETTO
RADIOHEAD
Il mondo indie ha un’occasione irripetibile. La
coda lunga (vedi Coolclub di marzo), ovvero quella teoria economica che spiega che nel mondo dei
beni immateriali (Internet, in particolare), i costi
di produzione e distribuzione di prodotti e servizi ha costi tendenti allo zero apre uno scenario
ancora incompreso dal mercato discografico mondiale. Non a caso, è stato un gruppo a consegnare
il vaso di Pandora al mercato musicale. Non a
caso, l’idea è cresciuta subito dopo la furibonda
litigata tra Radiohead ed EMI che ha portato alla
rescissione del contratto. Rimasti soli e con un
album pronto tra le mani, hanno deciso di mettersi alla prova. E già che c’erano, hanno messo
alla prova anche i nervi di molti amministratori
delegati. Hanno creato un sito internet, www.inrainbows.com, su cui hanno messo a disposizione
il loro ultimo album. Tutti i brani, scaricabili legalmente. Il prezzo? Lo hanno fatto decidere agli
utenti. Si poteva pagare 10, 20€, 70 centesimi,
nulla. E’ stato l’utente a dare un peso all’intangibile. Si è tornati al rapporto diretto tra musicisti e appassionati. Chi ha deciso di pagare ha
messo i soldini nelle tasche dei Radiohead, e solo
a loro. Nessun’azienda che produce cd, nessuna
casa discografica, nessuno spazio pubblicitario,
nessun volantino. Ma soprattutto, il quartetto
di Oxford ha deciso di non farsi proteggere da
nessuna macchina pubblicitaria. Quanto hanno
raccolto? 2,75€ ad album. Un settimo del prezzo
di un cd. Un disastro? Affatto. La vendita di un
cd musicale porta in media 2,3€ nelle casse degli
artisti. 17€ e 70 centesimi arricchiscono aziende
in cui il compratore non aveva deciso di investire.
I Radiohead hanno quindi inventato un’operazione economica per loro stessi e per i loro fan. E la
prossima volta, chissà, la musica dei Radiohead
avrà un valore ancora maggiore. E gli italiani?
Truffatori, scaricatori a tradimento su eMule,
consumatori a scrocco? Il primo mercato mondiale. 800mila € spesi. Il motivo? Di sicuro, non
è solo una questione di smisurata ammirazione
per Thom Yorke. L’Italia è un mercato dove la
qualità premia, ma premia anche la relazione
personale. Le case discografiche sono avvisate: i
gruppi possono sfondare senza il bisogno dell’aiuto di nessuno.
Dino Amenduni
13
JUST DO IT
(YOURSELF)
14
Erano gli anni novanta. Avevo spesso i capelli
lunghi ed ero convinto che non sarei mai morto.
Erano anni in cui la gente acquistava ancora i
dischi e vantava in comitiva di avere “colonne” di
compact disc e vinili in casa. Io ero uno di quelli. Mentre la maggior parte dei miei compagni
d’avventura ordinava tramite posta i magici oggetti del desiderio, alternando di tanto in tanto
le spedizioni postali con pacifiche invasioni di
massa presso negozi specializzati in giro per
l’Italia, io inizio sfacciatamente ad acquistare
ogni sorta di supporto audiovisivo presso i banchetti in giro durante i concerti. Inizia anche per
uno come me, allora poco meno che maggiorenne, il lungo viaggio nel fantastico, affascinante
ed incoerente mondo dell’autoproduzione. Era
stimolante spulciare tra pile e colonne di vinili,
cassette e compact disc senza conoscere neanche
un nome, farsi spiegare il genere, le influenze,
le motivazioni, le mille storie che si nascondono
dietro un gruppo o dietro un disco. A quanto pare
scopro tutta una serie di dischi, libri e fanzine
che sfuggono alle dure leggi del mercato, esprimendo efficacemente l’idea di autoproduzione
ed autogestione. Moltissime di quelle esperienze
non mi hanno mai più abbandonato. L’autoproduzione è un concetto che è stato introdotto nei
primissimi anni ottanta da uno storico gruppo
musicale, anarchico e pacifista: i Crass. La loro
comparsa ebbe un effetto dirompente sulla scena punk di quel periodo, caratterizzata da giovani scapestrati dall’attitudine marcatamente
nichilista, autolesionista e teppista. Essi ebbero
il merito di introdurre la pratica dell’autoproduzione in reazione all’industria discografica che,
allora come oggi, cercava di influenzare a scopo
commerciale la musica e le idee degli artisti sotto contratto. L’autoproduzione viene vissuta non
solo come un modo per livellare i prezzi di vendita ma, soprattutto, è il modo più efficace per
mantenere la propria indipendenza dalle pressioni che le case discografiche fanno sugli artisti
al fine di commercializzare la propria musica per
poter avere un prodotto più vendibile. Da un lato
quindi viene vista come un “prodotto”, una merce su cui investire, dall’altro come il frutto della
propria creatività che, in quanto manifestazione
di libera espressione, non accetta di essere manipolata. I confini non esistono per chi è abituato
a pensare con la propria testa ed a confrontarsi
con ciò che vede, e quindi anche il concetto di “Do
It Yourself” inizia a manifestare ai miei occhi
tutte le sue molteplici sfaccettature. L’idea di libera espressione si confronta subito col fatto che
buona parte di questi gruppi, e parliamo spesso
e volentieri di formazioni punk, hardcore, post
punk, crust, grind core, assorbono in ogni caso
una nicchia di mercato attenta ma piccola, non
suscitando alcun interesse da parte di possibili
investitori e rendendo necessaria la nascita di
piccole etichette (le celeberrime etichette indipendenti) in grado di saper gestire questo business. Succede anche che l’autoproduzione venga
spesso vista come una rampa da affrontare per
poter conquistare un po’ di attenzioni in giro, un
modo per stare “nel mercato” prima che qualcuno si accorga del potenziale e decida di investire
tempo e denaro. Queste ed altre differenze specifiche hanno reso il confronto spesso poco disteso,
lasciando spazio a critiche, chiacchiere e “nicchie
di appartenenza”. Resta necessario capire questo clima interno, frutto dell’evoluzione degli
anni novanta che vanno a chiudersi, per poter
comprendere la situazione attuale. Oggi l’autoproduzione è una realtà consolidata e forte. I
grossi trust del mercato discografico, sulla scorta
dei pessimi dati di vendita dei dischi, perdono rapidamente il loro ruolo ed il loro potere, creando
purtroppo anche loro grosse risacche di precariato, concentrando quindi le loro attenzioni su affari “mordi e fuggi”. Ecco quindi che il valore di un
singolo, cioè del brano con cui un artista lancia
sul mercato il proprio disco, si trasforma nel potenziale di una suoneria per il cellulare. Ormai
quasi tutti gli artisti ad ogni livello sono abituati
(o sono stati costretti) a gestire in casa i propri
affari, autoproducendo i propri dischi per poi
affidarli a bravi distributori o meglio ancora ad
ottimi promoter. Pur di battere cassa, anche chi
prima viveva comodamente adagiato sulle sue
cifre di vendita, ha dovuto imbracciare gli strumenti e tornare a suonare dal vivo. In un’epoca
in cui accendere il pc significa avere accesso a
qualunque brano musicale (e non solo) mai esistito, creare un supporto fisico destinato alla
vendita rimane un’idea a cui in molti hanno già
rinunciato. L’evoluzione del mercato discografico, e quindi anche l’autoproduzione, con tutto il
suo bagaglio storico, ideologico e pratico, sono il
vero fulcro intorno al quale oggi girano molte domande senza una risposta definitiva. Come in un
battito di ciglia siamo passati dai banchetti coi
dischi punk con le splendide copertine inguardabili, alle migliaia di stand del meeting delle
etichette indipendenti di Faenza, in cui davvero
chiunque si sente autorizzato a parlare di autoproduzione pur di raschiare il fondo di un barile
ormai vuoto. Ma noi non vendiamo ciò che abbiamo di più intimo, lo regaliamo o preferiamo
sprecarlo!
Ennio Ciotta
INDIE RAGION PER CUI 15
16
LIBERA RADIO
IN LIBERO WEB
Nell’era del web 2.0 e di internet nella quale
stiamo nuotando (affogando forse) il fenomeno
delle web radio è in costante aumento. Le web
radio sono emittenti radiofoniche che trasmettono in streaming il proprio segnale su internet, e
se da una parte la rete è diventata un canale fondamentale per le grandi compagnie radiofoniche
per ampliare il proprio bacino di ascolti, dall’altra è diventata un’opportunità per sfogare la
passione amatoriale per la radio. Il parallelismo
con le radio libere degli anni settanta è spontaneo. Nel 1976 la Corte Costituzionale dichiara
illegittima una legge che proteggeva il monopolio della Rai sulla diffusione radiotelevisiva.
Risultato: quelle che prima erano radio “pirata”
diventano radio “libere”. Bastava un giradischi,
un trasmettitore, un microfono e senza nessuno
sponsor o costo aggiunto si era “on-air” nel raggio di qualche chilometro.
Per trasmettere sul web oggi bastano una connessione internet, un pc, un piccolo software e
pochi spiccioli per affittare un server al quale agganciarsi. Ma a parte l’economicità dei mezzi che
è rimasta la stessa, è cambiato il raggio d’azione,
dai pochi chilometri si è passati alla possibilità
di farsi sentire dal mondo intero e certo questa è
la peculiarità delle libere web radio del duemila.
Ma la libertà, l’indipendenza, esiste davvero? A
tutt’oggi in Italia le istituzioni non si sono interessate al fenomeno, almeno a livello giuridico,
ma ci pensano i grandi comparti del music business. Per chi fa musica a livello amatoriale la
SIAE è come l’esattore delle tasse che ti dorme
sul pianerottolo. E con la SIAE si muove la SCF
(Società Consortile Fonografici). E se ci spostiamo all’estero il quadro non è poi tanto differente.
Negli USA la RIIA, l’associazione dei produttori discografici, sta gradualmente entrando nel
settore delle web radio richiedendo royalties
altissime che favoriscono solo i grandi gruppi.
Col tempo sono nate anche delle forme di associazionismo tra le emittenti web. In Italia spicca
la WRA (Web Radio Associate) mentre a livello
internazionale vi è la ETCA (European Thematic Channels Association), che si propongono di
rappresentare e tutelare chi trasmette sul web.
Certo la situazione appare quanto mai difficile
ma il problema dei diritti d’autore non risolve
e chiude tutta la questione. Nonostante tutto,
piccole emittenti crescono e si moltiplicano. Lontano dai meccanismi dei grandi gruppi radiofonici e dagli interessi derivanti da pubblicità e
royalties, gruppi di ragazzi aprono spazi “liberi”
a costo quasi zero e arrivano a risultati spesso
interessanti.
Un esempio è RadioFLO, una piccola emittente
nata a gennaio 2009 che raccoglie un gruppo di
ragazzi con la comune passione per la musica e
la radio. Tutto è autoprodotto e non c’è né uno
sponsor né tantomeno pubblicità all’interno dei
programmi. Dando poi uno sguardo al palinsesto è sorprendente vedere sia il numero dei programmi e degli speaker (che per onor di cronaca non prendono un centesimo) che i luoghi da
dove trasmettono, dalla Puglia alla Sardegna,
alla Finlandia! E se poi un progetto come questo
invoglia gli ascoltatori a collaborare e ad avere
un proprio spazio all’interno del palinsesto, beh
di certo si inserisce appieno nella logica del web
duepuntozero. Inoltre, con meno di tre mesi di
vita RadioFLO ha collezionato più di 6.200 visite
sul sito e quasi 800 membri del gruppo su Facebook. RadioFLO è solo un esempio. Ma credo
renda bene l’idea. Se il web è fatto dagli utenti
e per gli utenti, anche le radio entrano nella logica e diventano un prodotto degli utenti stessi.
Indipendenti dalle speculazioni e dai programmi
commercialmente vendibili, queste piccole realtà
riescono a trovare un ruolo che parte dall’ambito
locale per poi estendersi col passaparola ad altre realtà. Certo è inutile soffermarsi su questi
aspetti dato che il web sta insegnando a tutti
quelli che lo utilizzano regole precise sui ruoli e
le possibilità. In fin dei conti resta la voglia di
fare e la passione di mettersi in gioco.
Marco Chiffi
17
GIANNI
MAROCCOLO
Trent’anni di rock italiano dai Litfiba ai Marlene Kuntz
Un pezzo della nostra storia. Gianni Maroccolo,
o più intimamente Marok, per chi con lui ha condiviso suoni e note, ha attraversato la scena del
rock indipendente italiano sotto le vesti - mutevoli e intrecciate - di musicista, produttore, scopritore di gemme rare e, perché no, alchimista
di incontri. Dai Litfiba passando per i Csi fino
ad arrivare ai Marlene Kuntz la vita di Gianni
Maroccolo è costellata di innumerevoli progetti
a cavallo tra musica e arte. Tra le sue numerose
collaborazioni quelle con Timoria, Andrea Chimenti, Bandabardo’, Diaframma, Pgr. È stato
uno dei fondatori di un altro mercato discografico con il Cpi, Consorzio Produttori Indipendenti,
realtà emblematica della scena musicale italiana indipendente degli anni ’90, Gianni Maroccolo rappresenta non un capitolo ma un vero e
proprio tomo della storia dell’indie italiano.
Questo numero è dedicato al concetto di
18 INDIE RAGION PER CUI
Indie (indipendente), per molti musicisti
della tua generazione un sogno... un sogno
che si è realizzato o un percorso che si è
interrotto?
Per ciò che mi riguarda un sogno che si è realizzato. Ho lavorato con etichette indipendenti, ne
ho fatta una (il CPI), ho anche lavorato con le
majors, e sempre da indipendente ovvero, portando avanti ogni progetto secondo le mie idee e
salvaguardando sempre l’indipendenza mia e/o
degli artisti che ho prodotto.
Senti a proposito degli inizi riesci ora, in
maniera distaccata, a parlarci brevemente
di quell’esperienza che fu l’IRA Records?
L’IRA fu un sogno meraviglioso. Un’esperienza
nata sulle onde dell’entusiasmo che purtroppo
però in poco tempo si trasformò in “altro”. Devo
molto all’ Ira, ma ben presto la filosofia dell’etichetta si modificò in modo netto. Iniziò ad ope-
rare come se fosse una major e il rapporto tra
etichetta e artisti divenne davvero molto pesante
e limitante.
È innegabile che gli anni ‘80, nonostante
loro, siano stati per la musica italiana indipendente la chiave di svolta... e la Toscana
in quel periodo giocò un ruolo di strategica
importanza. Penso ai gruppi fiorentini, alla
Materiali Sonori di San Giovanni Valdarno, all’Indipedent Music... cosa è rimasto di
quella scena 30 anni dopo?
Poco o niente direi, a parte la mitica Materiali Sonori! Il fermento eccezionale di quegli anni
sfumò nel giro di 7/8 anni. Non fummo in grado di unire le forze... tutti pensarono esclusivamente al proprio orticello ed arrivò il “mercato”
a comprarsi quello che potenzialmente valeva di
più. Un’ occasione persa direi, ma un’ impronta
indelebile che rimarrà per sempre.
I Litfiba sono stati tra i primi gruppi di
quella scena a sottoscrivere un contratto
con una major... ne seguirono polemiche ed
accuse di “tradimento”. Oggi questa netta
separazione tra i “due” mercati esiste ancora? E se no? qual è oggi il concetto di “indipendente” che ti senti di condividere...
Indipendente per me significa non dover dipendere da nessuno. Questa è stata ed è la mia filosofia di vita in generale e ancor di più in particolare musicalmente parlando. Ho sempre operato
con le majors e non ho mai dovuto sottostare a
nessun tipo di compromesso. È un falso storico
che siano le majors a rovinare gli artisti ... gli
artisti si rovinano da soli x mille ragioni, non ultima, la sete di successo e popolarità.
Una sera, proprio a Firenze, parlando con Caterina Caselli e dei primi dischi di “rock italiano”
prodotti dalla Sugar mi disse “mi spieghi perché
un gruppo che prima di arrivare da noi riesce a
fare un disco con 5/10 milioni di lire e con noi
ne spende minimo 100 di milioni? Se i dischi
dei gruppi rock italiani continuassero a costare
poco, si potrebbe investire più in promozione ecc.
invece arrivano da noi ed i costi aumentano vertiginosamente”... in effetti un bel paradosso.
Un paradosso relativo. Non sempre è così. Con
Csi e Pgr abbiamo lavorato benissimo con Polygram/Universal e non siamo caduti mai nella
tentazione a cui accenna Caterina. Sono le persone che fanno la differenza, la loro capacità di
sapersi gestire. Questo vale anche ad esempio
per i MK (gruppo con cui collaboro dal ‘94) e il
loro rapporto con Virgin/Emi. Il vero problema
è un’altro... Se le majors investissero davvero in
“ricerca” non si troverebbero nella situazione di
dover acquisire a cifre alte artisti che provengono dall’underground. In tal senso trovo giusto
che non essendoci stati nel momento più difficile
e non avendo rischiato alcunchè l’acquisizione di
un’artista preveda un riconoscimento per tutto
ciò che è stato il “passato”.
Del resto, secondo me, i gruppi italiani,
quelli del cosidetto nuovo rock, hanno sempre considerato il “disco” come “biglietto
da visita” per suonare dal vivo e non come
prodotto a se’... o no?
Si e no. Negli 80 ad esempio, il disco rappresentava una meta per tutti noi. Ci si arrivava dopo
anni di concerti, di gavetta dura. Oggi invece
è diverso. Siamo in un periodo di passaggio da
un’epoca ad un’altra ancora tutta da comprendere. Ora produrre un disco è alla portata di tutti e
il farlo rappresenta una delle molteplici attività
di chi fa musica. Serve per farsi conoscere, per
provare a farsi suonare in radio e per trovare
concerti.
Come è cambiato, e se è cambiato, il concetto di musicista indipendente con l’avvento
del web 2.0... le carenze sono sempre le stesse... (produzione, distribuzione, promozione...)
É cambiato l’uso che si fa della musica. Il mercato ti propone si e no il 10% della musica prodotta
e suonate nel mondo. Il web fa si che ora la musica circoli liberamente e che il concetto di “indipendente” ormai più che una scelta sia la “regola”. C’è musica ovunque... e il supporto è sempre
meno importante. Oggi essere musicista significa (mi si perdoni il termine) essere imprenditore
di se stessi... Questa è una grande conquista ...
Indipendenti in tutto e al tempo stesso unici artefici del proprio destino.
In chiusura raccontaci a cosa stai lavorando...
Sto collaborando con i MK su svariati progetti.
A giorni uscirà l’album di addio dei Pgr e sto
preparando il nuovo disco di IG con Ivana Gatti.
In preparazione un mio disco solista tutto strumentale... e poi è nato un gruppo estemporaneo
che si chiamerà Beautiful... ci sarò io, i 3 MK
e Howie Beee... e per finire... mi sto occupando
della produzione artistica di due giovani band:
Bastian Contrario di Caserta e The Clockmakers
di Padova.
Vittorio Amodio
INDIE RAGION PER CUI 19
MUSICA
CRYSTAL ANTLERS
Neo psichedelia dalla California
Dopo un folgorante EP d’esordio, esce sempre su
Touch and Go l’atteso album dei Crystal Antlers,
band californiana del filone neo-psichedelico. In
occasione del tour italiano, scambiamo due chiacchiere con il cantante e bassista Johnny Bell.
La vostra musica è un mix di rock psichedelico, garage, prog, ma in alcuni pezzi si
sente una netta vibrazione punk-hardcore.
Credo che un simile effetto si avverta nella musica dei Wolf Parade. Puoi spiegare
come si mescolano tutte queste influenze?
20 MUSICA
Non sono sicuro, per quanto riguarda i Wolf Parade, perché non li ho mai ascoltati. Abbiamo
suonato con gli Handsome Furs (vedi recensione
in questo numero), il progetto parallelo di metà
dei Wolf, Dan Boeckner. Tutti noi suonavamo in
gruppi punk, in pratica è il nostro background;
poi alcuni sono rimasti legati alla scena, mentre
altri hanno iniziato ad esplorare sonorità diverse
come il soul, la musica psichedelica anni ‘60, e
sono queste influenze, prendi ad esempio l’organo, che rendono il nostro sound psichedelico, ma
stiamo cercando di suonare gli strumenti anche
in modo diverso.
Certo, si sente molto il soul nella tua voce
e soprattutto ci sono molte più tastiere rispetto all’EP d’esordio.
Si, assolutamente! Ho scritto seduto a un organo
molti pezzi del nuovo album, nonostante io sia il
bassista.
Le vostre uscite hanno riscontrato un immediato successo di critica e pubblico. A
parte la prestigiosa Touch and Go, il vostro
EP è stato prodotto da Ikey Owens, il tastierista dei Mars Volta. Come vi siete conosciuti?
Beh, Long Beach è una città molto piccola, ha
una ristretta scena musicale, quindi ci conoscevamo da tempo. Il nostro batterista (Damian
Edwards), che tutti chiamano Sexual Chocolate, era un suo amico. All’inizio abbiamo suonato
insieme e ci siamo divertiti un mondo; avevamo
due tastiere, per un certo periodo. Grazie a questa esperienza abbiamo avuto modo di entrare
sempre più in sintonia, finché Ikey ha deciso di
produrre il nostro EP.
Ho letto che avete registrato l’album Tentacles in una settimana; sembra incredibile!
Come avete fatto?
Beh, avevamo molti impegni, così abbiamo deciso
di ritornare nello stesso studio di registrazione
in cui eravamo già stati… i Closer Studios a San
Francisco. Lì ci ha registrati Joe Glodring, che si
è rivelato una specie di mago, è stato grandioso.
Il risultato è estremamente compatto, avete
registrato in presa diretta?
Si, quasi tutto il materiale. In realtà abbiamo
sovrainciso poche tracce: qualche tastiera, piano,
i fiati, il sax e qualche controcanto. Ma il grosso è
tutto registrato in presa diretta.
Volevo giusto farti un’altra domanda a questo proposito. Molte delle vostre canzoni
suonano un po’ come delle jam sessions. Mi
chiedevo se lo fossero davvero. Quanto spazio lasciate all’improvvisazione?
In realtà nessuno, è solo un impressione. Tutte
le parti sono ben definite, ogni passaggio è esattamente come lo abbiamo strutturato in fase di
scrittura. Non c’è improvvisazione. Fondamentalmente non mi piace improvvisare e non amo
ascoltare parti improvvisate.
Parlami del rivival psichedelico in America: Animal Collective, No Age, Fleet Foxes,
Bodies of Water, avete legato con qualche
band in particolare e soprattutto che ne
pensi di questo revival?
Non saprei, anche perché effettivamente le bands che hai nominato sono davvero molto diverse
l’una dall’altra. Non so fino a che punto psichedelico sia la parola giusta, o se semplicemente indichi, più che altro, un’attitudine free alla musica.
Abbiamo legato con diverse band che potremmo
definire psichedeliche, per esempio i Fucked Up,
con cui abbiamo girato in tour, oppure le Vivian
Girls… ci sono un sacco di gruppi grandiosi che
suonano musica free, al momento, semplicemente non le chiamerei bands psichedeliche.
Alcuni critici e diverse riviste vi hanno paragonato ai Comets on Fire. Pensi che il paragone sia calzante?
Ho capito a cosa ti riferisci, ma non mi sembra
che tra i due gruppi ci siano molte somiglianze.
Le nostre canzoni si muovono su uno spettro sonoro più ampio. Non credo che il paragone sia
calzante.
Vi siete fatti un’idea della scena indipendente italiana? C’è qualche gruppo che ti
piace?
Beh è la prima volta che veniamo in Italia, nessuno dei componenti della band ci era mai stato prima. Finora siamo stati a Bologna, ma non
siamo ancora riusciti a farci un’idea della scena
musicale. Girando, però, abbiamo avuto modo di
apprezzare le bellezze di questo posto incredibile.
In questo momento non mi viene in mente nessun gruppo italiano. Forse gli Uzeda, anche se
vivono in America. Steve Albini è un personaggio
importante… da il meglio di sé proprio lavorando
in studio, sembra riesca ad essere più critico.
Raccontaci qualche disavventura che vi è
capitata mentre giravate in tour!
Beh viaggiando in tour ce ne sono capitate di tutti i colori, con innumerevoli gruppi. Quante volte
abbiamo rotto i pullman! In un tour con i Fucked
Up, ci fermammo nel bel mezzo di un’autostrada canadese e fummo costretti a fare l’autostop.
Arrivammo a destinazione con tre ore di ritardo,
ma il locale stava già chiudendo. Allora stanchi
morti, in quell’atmosfera surreale, strappammo
una performance di quindici minuti a testa…
Fantastico!
Tobia D’Onofrio
MUSICA 21
LES FAUVES
Giocare a fare sul serio
Sono uno dei gruppi di punta della scuderia Urtovox, piccolo re mida della discografia indie italiana. I Les fauves con questo Liquid Modernity
spiazzano e dividono pubblico e critica. Secondo
capitolo di una trilogia questo nuovo album mette
da parte i giovanilismi e decide di fare sul serio.
Basta ascoltare i primi tre brani del vostro
ultimo album ed il vostro eclettico programma appare subito chiaro. Si sentono
la psichedelia e il garage dei ‘60, ballate
esotiche, pulsioni dance, la new wave dei
’70, ma ciò che colpisce di più è la tensione
tra lo spirito garage-punk che caratterizza molti dei vostri patchwork e l’attenzione verso i dettagli che spesso e volentieri
sforna cambi e arrangiamenti interessanti.
Quello che intendo dire, è che senza dubbio l’approccio dadaista e giocoso investe
sin dalla copertina, ma sembra anche che
la ricerca di soluzioni musicali “originali”
sia una parte importante del vostro lavoro.
Quanto vi prendete sul serio, insomma e
dove conduce la vostra ricerca?
Non ci prendiamo granché sul serio a dire il vero,
il tutto é inteso come gioco, come prendere tanti ingredienti, frullarli insieme e poi cercare di
22 MUSICA
ridargli un ordine, destrutturare e ricomporre
in nuove forme, eliminare gli schemi fissi per
crearne di liquidi. Il fatto che il nostro eclettico
programma sembra subito chiaro un po’ mi preoccupa.
Mi sembra che Liquid Modernity si rifaccia soprattutto alla new wave americana,
in particolare Devo, Residents e Pere Ubu.
Sono davvero stati questi i vostri ascolti?
In parte si, siamo grandi ammiratori di quei gruppi, come anche della scena no wave di new york,
come Linda Lunch o i Contortions, ma ciò che ci accomuna a loro non é tanto la musica in sé, quanto
l’approccio iconoclasta credo, per il resto si tratta di
gruppi esistiti in un altro posto e in un’altro periodo e noi non cerchiamo di fare revival.
Il disco è il secondo capitolo di una trilogia. NALT significa Noise Arms Limitation
Talk. Che vuol dire, esattamente?
È preso dai trattati di non prolificazione delle
armi di distruzione di massa, fra la Russia e gli
Stati Uniti, durante la guerra fredda, quelli si
chiamavano SALT, e ce ne furono tre, in quel
periodo il batterista stava studiando storia contemporanea e l’analogia ci é sembrata carina.
volutamente evitato i cliché, oppure li abbiamo
esasperati fino al paradosso.
Ho letto che avete realizzato una colonna
sonora. Come è nata questa collaborazione
che ha portato all’acclamato film del Festival di Venezia, Non Pensarci? Che tipo di
esperienza si è rivelata, cosa ha rappresentato per voi?
Ci hanno chiesto di usare un nostro pezzo per
quel film e noi abbiamo accettato a scatola chiusa,
senza nemmeno guardare il film o informarci sul
regista. Fortunatamente poi siamo stati invitati
alla proiezione a Venezia e il film era una bella
commedia, al di sopra della media italiana.
Mentre la collaborazione con Swayzak, il
duo elettronico londinese su K7? È stata una
vostra idea?
Conosciamo molto bene Francesco Brini, il loro
batterista, é un nostro grande amico e ha mixato anche parecchi pezzi nell’album. Ci ha chiesto
lui di collaborare e noi abbiamo accettato più che
volentieri.
Avete immediatamente attirato l’attenzione
della critica e della stampa internazionale,
il che non accade tutti i giorni ad una band
italiana. Ovviamente vi farà piacere, visto
che ogni musicista sogna di portare in giro
le sue canzoni in tutto il mondo. Ma a partire dalla scelta della lingua Inglese, sembra
che il vostro target, sin dall’inizio, fosse da
qualche altra parte, oltre i confini nazionali.
È soltanto una mia impressione?
Hihi, il nostro target é potenzialmente oltre i confini planetari! No, a parte gli scherzi penso che
quando qualcuno comincia un lavoro non dovrebbe partire ponendosi dei limiti, deve seguire le
proprie inclinazioni naturali. Nel nostro caso sono
testi in inglese e musiche al limite della comprensibilità.
Forse Keep living in a Subway è il brano
in cui emerge più chiaramente la classica
struttura strofe e ritornello, così a metà
tra Barret e i Flaming Lips. Avete evitato
consapevolmente la forma canzone tradizionale?
Si, abbiamo cercato di giocare con le strutture
tradizionali, mescolare un po’ le cose. Abbiamo
Nonostante la quantità enorme di sonorità
differenti, ogni passaggio sembra comunque
ricercato e studiato nei dettagli. Come nascono i vostri pezzi? Scrivete insieme tutto
il materiale?
Beh, di solito si parte da una struttura per la ritmica, un giro di basso più batteria, una struttura
che di solito comprende già una linea vocale e tutti
i vari cambi, che per questo possono essere anche
audaci ma non sono mai artificiosi, e su questo poi
si condisce di roba. È un po’ come accade con un
quadro o con una scultura: si fa prima una struttura portante e poi la si lavora fino ai particolari.
Parlatemi del vostro tour americano, avete avuto la possibilità di entrare in contatto con la fiorente scena neo-psichedelica?
Ma soprattutto credete che esista davvero
e quali sono i gruppi che seguite maggiormente?
Beh, non é stato un vero e proprio tour, abbiamo
suonato solo all’ SXSW ad Austin, per i restanti
sei giorni siamo stati a zonzo per il Texas, é stato
un bel viaggetto on the road, una bella sfacchinata
ma ne è valsa la pena. La scena neo-psichedelica
però non l’abbiamo vista neanche da lontano, apprezziamo comunque molto gruppi come Clinic e
Animal Collective
Tobia D’Onofrio
MUSICA 23
MUFFX
Piccole ossessioni stoner dal Salento
Nuovo album per la band salentina capace di
mettere a frutto la lezione dello stoner rock di
matrice americana imbastendo un circo sonoro
alieno e al contempo personale. Esce in questi
giorni Small Obsessions, album licenziato da Go
down records che conferma eclettismo e maturità di una band veramente esplosiva.
Inutile dire che il vostro mondo musicale è
assolutamente visionario, da dove nascono
queste piccole ossessioni?
Al super mercato quando mi trovo vicino alla
cassa felice di trovare sempre meno fila e ringrazio la “crisi” per questo; nel salotto di casa in
fondo a destra vicino al pianoforte; su facebook
dove tutti sono amici di tutti e si interessano di
te e dei tuoi cazzi; la sera nei bar quando tutti
si lamentano dei politici esattamente come ieri,
e non ti spieghi se è l’alcol a rendere meccanica
24 MUSICA
la gente ho è la meccanicità insita in noi che ci
spinge comunque sempre in questi discorsi di
merda; poi sul terrazzino di casa dove da bambino lanciavo gavettoni in testa ai passanti ed
invece oggi al massimo qualche mozzicone di sigaretta per sbaglio; quando discuto con gli anziani, molto più aperti, rivoluzionari, interessanti e
alternativi di tanti giovani o presunti tali, sarà
che non ci sono più i vecchi di una volta? Queste
piccole ossessioni, emergono un po’ dappertutto.
Rispetto al primo lavoro, si nota nei nuovi
brani un certo coraggio, la voglia di intraprendere nuovi percorsi musicali, cosa è
successo?
Credo che fisiologicamente prendendo maggiore coscienza di quello che già si sapeva, e cioè
che con la musica non ci guadagnerai mai salvo
in casi rari (sempre se non si è un “big” dei ma-
trimoni) a questo punto si è deciso di lasciarsi
andare un po’ di più nelle ambientazioni sonore
senza troppe seghe mentali, il divertimento personale non ha prezzo e in questo vogliamo essere
ricchissimi! In più, mi piacciono i Beirut, Yan
Tiersen, Nino Rota, Ivo Papasov, Tom Waits e
molto etno world in genere... ascolta oggi e ascolta domani prima o poi qualcosa filtra nella tua
musica... basta filtrarla con “educazione”.
Poi cambiano anche le esperienze, resta il teatrino Salento, ma se ti piace osservare noti che
cambiano tante cose, pensa al clima per esempio!
Cambia lui, figurati noi.
Il vostro rapporto con la musica ha un che
di giocoso, ci spieghi questa immagine del
circo?
A nostro avviso dovrebbero giocarci tutti con la
musica, se ci si prende troppo sul serio anche con
le sette note non ci resta che piangere Giocare
ma con rispetto ovviamente, rispetto per la tua
dignità di musicista ma principalmente per chi
ti ascolta, soprattutto se suoni roba tua. Il circo invece lo interpretiamo un po’ come evasione
dal frenetismo della vita attuale sempre più difficile sotto tutti i punti di vista, inoltre in forte
contrapposizione al divertimento virtuale, cito
Guitar Hero per esempio... poi il circo è vario,
stilisticamente riconoscibile ma nonostante ciò
rappresenta un contenitore di tante cose diverse, è nomade come lo siamo un po’ tutti ancor di
più in quest’epoca, odora di “zingaro” e la cultura
Rom mi affascina (addirittura volevo metterci
un pezzo cantato in romanes nel disco ma poi...
vabbhé...).
In questo album avete importanti collaborazioni, ce le racconti?
In questo disco hanno collaborato in molti, la
selezione è stata basata su due principi fonda-
mentali: il primo ovviamente riguarda la scelta
degli strumenti che volevamo aggiungere; e poi
un’attenta ricerca durante i concerti salentini
per individuare appunto i personaggi che avrebbero potuto dare vibrazioni positive in relazione
all’idea finale del disco. Ed ecco che la ricerca
ha dato i suoi frutti. Dopo aver chiesto a tutti la
collaborazione e dopo che tutti hanno accettato
il cerchio si è chiuso col giusto entusiasmo, così
abbiamo in questo disco con noi: Max Ingrosso
e Max Ear per le percussioni, Marco Tuma per i
flauti, Marco Landolfo voce baritono, Zara Veleno cori e sexy voice, Claudio Prima all’organetto
diatonico e diabolico, Alessia Vantagiato Terragno voce in Prelude, Gabriele Saracino all’organo
leslie... solo due artisti ci sono scappati per questioni di tempi, Cesare Dell’Anna e Mauro Tre
ma una collaborazione con loro sarà inevitabile,
il magnetismo tra i Muffx e questi due artisti folli
c’è, e presto o tardi esploderà in qualche modo.
Un album, un immaginario, ma anche
un’immagine, sono in preparazione due
clip, ce ne parli?
Il divertimento impagabile nel girare il primo video clip realizzato nel 2007 non volevamo perdercelo neanche questa volta, perciò abbiamo deciso
di ripristinare la vecchia squadra capitanata da
Cristian Sabatelli, per questo nuovo capitolo della band si è deciso di girare con lui As the Foxes,
un video clip tra il minimale e lo sperimentale
davvero divertente! E poi Cristian sta ai Muffx come Morricone sta a Sergio Leone (ora l’ho
sparata grossa!). In più, mandammo una copia
del disco ad Edoardo Winspeare prima ancora
del master definitivo, per vedere cosa ne pensava, in fondo gli spaccati di società che spesso lui
mette in risalto nei suoi film non erano poi così
distanti da quelli realmente vissuti da alcuni di
noi e che volenti o nolenti trasudano dalle nostre
canzoni... chissà ci siamo detti: magari qualche
atmosfera di S.O. si potrebbe legare bene alle sue
visioni, alla fine ci arrivò la telefonata, Winspeare aveva accettato la nostra umile proposta, il
secondo video clip dell’album si avvarrà della sua
regia. Bella storia. Sulla canzone scelta dal regista per ora tutto tace…
Credi ci sia più rabbia o alienazione in
quello che fate?
Per questa domanda siamo andati alle votazioni,
il responso è che: Amedeo e Cristiano sono arrabbiati con tutti per via della loro alienazione; io
e Alberto siamo alienati da tutto perché sempre
arrabbiati...
Osvaldo Piliego
MUSICA 25
26
Logique, presente nel primo album Dada Dazè
del 2006, ci siamo accorti che la lingua francese poteva rappresentare il sigillo di una ricerca
musicale ed “estetica”; oggi mi riesce più facile
cantare in francese anziché in italiano, ma non
escludo eventuali cambiamenti.
EL GHOR
Italia canta Francia
Italiani ma con la passione per la musica francese, figli della gioventù sonica ma curiosi esploratori della melodia, gli El Ghor riescono a far
convivere stati d’animo e atmosfere sonore con
equilibrio ed eleganza. Questo nuovo Merci
Cucù, licenziato da SuoniVisioni e Seahorse Recordings si prepara ad essere una delle rivelazioni indie di questo 2009.
La vostra musica riesce a unire sfuriate soniche a momenti di melodia malinconica,
quante anime compongono gli El Ghor?
Di anime, come per ogni buon artista che si rispetti , ce ne sono tante. In questo caso, le anime
visibili sono quattro: Luigi Cozzolino, Ilaria Scarico, Luca Marino e Francesco Simeone.
Nella vostra musica fanno da contrappunto
arrangiamenti affidati agli archi, quasi un
voler prendere fiato, ma allo stesso tempo
dare corpo alle canzoni. Come strutturate
le canzoni e i loro vari strati?
Non esiste uno schema ben preciso e neanche un
vincolo stilistico, ogni brano ha una propria storia. Ci sono pezzi nati da improvvisazioni e man
mano sistemati a seconda dei nostri gusti e dalle
nostre esigenze espressive. Altri, invece, partono da un singolo riff di chitarra che muta spesso
con l’innesto degli altri strumenti. Nel caso di
Nessuno Mi Risponde e Cucù-tête, tutto ruota
intorno al pianoforte.
Gli arrangiamenti di fiati e di archi sono arrivati
in un secondo momento, dopo aver completato
i brani con i nostri strumenti principali, anche
perché siamo consapevoli di non poterli proporre
sempre in una dimensione live.
Strana la scelta della lingua francese, almeno per un gruppo italiano, da dove viene?
Grazie ad un brano “francofono” come Sans
In questo disco avete delle collaborazioni
importanti, ce ne parli?
Si! Innanzitutto, mi fa piacere dire che queste
collaborazioni sono frutto di amicizia.
Davide Arneodo dei Marlene Kuntz , ad esempio,
lo conosciamo da un paio di anni, e sin dall’inizio c’è stata grande stima reciproca; pochi mesi
prima di entrare in studio di registrazione, lo invitai a prendere parte al disco e lui fu contento
della cosa. Con Francesco Di Bella dei 24 Grana,
la storia è differente, tutto parte dal loro attuale
fonico che missò la nostra prima demo e la fece
ascoltare alla band, che ha sempre nutrito interesse nel nostro progetto. A Luca Fadda invece,
ci lega un’ amicizia nata tramite web, visto che
vive da molti anni a New York , anche in questo
caso tutto è stato molto spontaneo. Per quanto
riguarda i restanti musicisti, gravitano costantemente intorno alla band e hanno dato un ulteriore, e grande, contributo al disco: Regina Ada
Scarico (violoncello), Massimo Rosa (clarinetto),
Giovanni Bonifacio (violino).
Questo numero di Coolclub.it è dedicato
alla musica indipendente, voi sicuramente
ne fate parte, cos’è oggi essere indipendente secondo te?
Beh, vuol dire poter utilizzare ogni mezzo per
comunicare in un contesto dove non esistono
censure di nessun genere. Noi viviamo a pieno questa dimensione, visto che Paolo Messere
di Seahorse Recordings e SuoniVisioni, l’altra
etichetta che ha coprodotto l’album, ci hanno lasciato fare senza nessun tipo di vincolo, e ci hanno permesso, inoltre, di eseguire la produzione
artistica dell’album.
Che cosa della folta scena indie francese vi
piace ascoltare, cosa di quella italiana?
Dell’ attuale scena francese, siamo molto legati
ad artisti come Yann Tiersen, Benjamin Biolay,
Pascal Comelade, Jérome Miniére. Vorrei citare
però, una band Canadese che canta in francese
e che si chiama Malajube, in particolar modo
mi è piaciuto l’album Trompe-l’oeil. Per quanto
riguarda la scena italiana, ci sono tantissime
band valide, sicuramente i Blessed Child Opera,
i Maisie, gli Spiritual Front, i vecchi Bartok e
Teho Teardo, reputo le sue soundtracks splendide.
Antonietta Rosato
27
SHANK
Rock estremo salentino
Colonna portante del rock estremo del nostro
territorio, gli Shank arrivano al traguardo del
secondo album. Esperienza da vendere, rabbia e
coerenza, sono nati, morti e risorti più volte, ma
resistono e sono ancora qui a suonare un altro Salento. Abbiamo parlato con Max e Andrea.
Siete una band che si può definire “storica”,
parola che in musica ha un peso. Questo in
particolare è un momento cruciale del vostro percorso: il cambio di formazione, il secondo disco… qual è il bilancio?
Beh, in effetti dieci anni passati a calcare i palchi (pochi) e i pavimenti (moltissimi!) dei peggiori
postacci del Sud Italia sono un bel periodo, soprattutto in rapporto alla vita media delle band
underground. Se mi guardo alle spalle vedo due
album e 200 concerti, tanti bei momenti, ma ovviamente tante difficoltà e tante perdite di tempo
che ci hanno penalizzato e impedito di raccogliere per quanto seminavamo. Il mio passaggio alla
voce (prima suonavo solo la chitarra) è stato un
momento cruciale che ha dato come frutto principale il nostro nuovo album Create/Devour e spero
che porterà nuova linfa e nuove motivazioni in
tutti noi. Il bilancio attuale, a giudicare dalle reazioni che stiamo raccogliendo per il disco nuovo da
parte degli addetti ai lavori e durante gli ultimi
concerti da parte di chi ci viene a sentire, è positivo, ma tanto ormai qui da noi per i bilanci falsi
non si va nemmeno più in galera!
Il metal, l’hardcore e affini hanno subito un
evoluzione (Converge, Mastodon, Terror).
Come vi rapportate a queste scene? Quali
sono le vostre influenze?
Mastodon e Terror li mastico poco, anche se non
mi dispiacciono. Tutt’altro discorso per i Converge
e tutta la schiera di band cresciute lungo la east
coast americana tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del nuovo millennio: Botch, Dillinger Escape
Plan, Coalesce. Questi sono attualmente i miei
principali punti di riferimento in fase compositiva. “Metalcore” o “post-hardcore” sono etichette di
28 MUSICA
comodo sotto cui si ammassano gruppi diversissimi tra loro, un po’ come quando sotto l’etichetta
“grunge” trovavi dei metallari impenitenti come
gli Alice In Chains e dei punk-rockers come i Mudhoney. Noi ci inseriamo in questi filoni per non
doverci inventare un’etichetta e perché se dico che
facciamo metal si aspettano un clone degli Iron o
degli Slayer e se dico che facciamo hardcore pensano agli Hatebreed o agli Agnostic Front!
Qual è lo stato di salute della musica estrema nel Salento?
Rispetto a qualche anno fa ci sono in giro più
gruppi, la qualità media si è alzata, escono dischi e demo che suonano meglio, ci sono un paio
di posti che offrono serate in maniera abbastanza
frequente ma sembra che “il pubblico” stia diventando più schizzinoso. Non faccio nomi perché
vorrei che chi legge sia abbastanza curioso da farsi un giro tra i vari myspace delle band salentine
per ascoltare e giudicare di persona. A proposito:
www.myspace.com/shank555
Quali sono i vostri prossimi impegni?
Due date con gli Slowmotion Apocalypse (una
delle migliori band italiane in circolazione!), l’8
maggio a Bari e il 9 a Squinzano per la serata di
chiusura del calendario metal dell’Istanbul Cafè
(curato quest’anno interamente dal sottoscritto);
inoltre stiamo lavorando per delle date tra Calabria e Sicilia a fine maggio e stiamo delineando
progetti più a lungo termine. È prevista la nostra
partecipazione al secondo volume di Stones From
The Sky, la compilation-manifesto del post-hardcore italiano curata dai ragazzi di Neuroprison.
Consigliateci tre dischi da portare all’inferno.
Andrea: Con questa intervista ti sei guadagnato
il paradiso hahaha, ma comunque dico: Converge
Jane Doe, Slayer Seasons In The Abyss e Botch We
Are The Romans.
Max: Bitches Brew di Miles Davis, un patto con il
diavolo a tutti gli effetti.
Ennio Ciotta
ALELA DIANE
To Be Still
Rough Trade
U2
No Line On The Horizon
Island
Alela Diane è un amichetta di
Joanna Newsom. Una sensibilità affine è evidente nelle
tematiche affrontate: la natura al centro del mondo, le relazioni, il viaggio alla ricerca
di equilibrio e stabilità domestica; musicalmente, però, le
due cantautrici hanno ben poco
in comune, dato che Alela si
muove in territorio folk verso i
monti Appalachi, e bisognerebbe citare Marissa Nadler e Cat
Power, come riferimenti contemporanei prossimi alla Diane. Tuttavia Cat Power ha costruito le sue gemme in cornici
ultraminimali,
aggiornando
così il genere “confessionale”,
mentre Alela indulge in corposi
arrangiamenti country-folk di
tipo tradizionale, rivelandosi una sorprendente versione
femminile del maestro Will Oldham aka Bonnie Prince Billy.
Questo secondo album, infatti,
é privo di segnali contemporanei. È una raccolta di paradisiaco folk ombroso e raramente obliquo, le cui canzoni si
insinuano sotto pelle una alla
volta, diventando tanto irresistibili da scomodare la Mitchell
e lo spettro di Sandy Danny.
Ci vorrà più di qualche ascolto
per gustare i notevoli arrangiamenti, tutt’altro che innocui;
attenzione però, potreste non
riuscire più a farne a meno.
Tobia D’Onofrio
Era il 1990 e gli U2 registravano Achtung Baby, opera seminale che anticipava diverse tendenze, senza la quale non sarebbero
forse esistiti ne i Radiohead (soprattutto Ok Computer) ne gran
parte del rock anni 90. Poi l’ispirazione della band capitolava irrimediabilmente con l’album Pop, consegnando gli irlandesi ad un
finale di carriera fatto di dischi inutili e mainstream. Ingannando
ogni pronostico, il nuovo lavoro si apre con un brano degno dell’ultimo TV On The Radio, secondo il rock ultra-sonico codificato dagli
stessi U2. Si fa apprezzare il timido gospel di Moments Of Surrender. Unknown Caller forza un po’ i clichè della band, ma le voci
allucinate funzionano. Get On Your Boobs è un trascinante hardrock, in cui spiccano i cori, che si inseguono ancora in Stand Up
Comedy, tributo ai Jane’s Addiction. Fez è una rarefatta cavalcata
in crescendo che ci risparmia banali ritornelli, mentre Cedars Of
Lebanon sembra uscita dall’ultimo Radiohead. The Edge avrà anche esaurito i trucchi del suo arsenale, ma alcuni pezzi piacciono e
lasciano sperare in un ritorno agli U2 che furono. Meno male che
non si sono dati allo shoegaze!
Tobia D’Onofrio
ZINA
Afreeque
11/8 records
C’è chi fa quello che può e chi fa
quello che vuole, labile quanto
sostanziale differenza tra il ge-
nio e il talento. C’è poi chi ha
dentro talmente tante anime,
che un solo abito non può vestire. Cesare Dell’Anna è di tutto
questo un po’. Difficile stargli dietro e forse solo l’ascolto
concede di capire, appieno, la
sua spiccata e multiforme personalità musicale. Zina è tra i
suoi progetti, quello che più risponde all’idea di musica totale. Una bussola impazzita, un
amante infedele, anarchia al
servizio dell’arte, oriente e occidente, nord e sud del mondo
uniti sotto un’unica bandiera
che sa di pace. Disco meticcio
che guarda ai canti griot come
al rap francese, che passa dal
MUSICA 29
30
reggae e il dub made in salento
lo sporca di funky anni ’70 e si
sposta in Palestina, in Marocco, in Senegal. Il beat si spezza
quando tende verso il Magreb,
tira dritto verso la Bristol più
jamaicana, si dilata e diventa
in levare, si comprime. Su tutto Cesare, la sua tromba dalla
grammatica tra il jazz e l’ovunque, che fa da timone a questo
battello ebbro. Zina non ha generi in cui restare ingabbiato,
Zina è free, è Afreeque.
Osvaldo Piliego
CLAUDIO COCCOLUTO
Amigdala
Just
HANDSOME FURS
Face Control
Sub Pop
Probabilmente le fantasie new
wave dei canadesi Wolf Parade
non esisterebbero senza l’unione fra le due anime musicali
del progetto: Spenser Krug,
padrino di Frog Eyes e Dan Boeckner che con la moglie forma
gli Handsome Furs. Più di un
anno fa il debutto di questi ultimi colpiva con la sua miscela
di cantautorato, blue collar e
beats sintetici a disegnare minimali atmosfere dark/wave.
Grande il potenziale melodico,
ma soprattutto freschissimo il
risultato.
Questo secondo capitolo prosegue sulla stessa linea, incrementando le distorsioni, così
da dare l’impressione di una
versione elettroclash di Bowie
o meglio ancora Springsteen.
Esemplare in questo senso
Su e giù nello spazio. É un’ avventura fiction, il nuovo album di
Claudio Coccoluto. Tutto il piacere dell’esplorazione astrale, la dimensione, la profondità, tra la pista da ballo ed il cielo. Cosmic
disco scelta in giro per il mondo ed assemblata con amorevole, artigianale cura da un dj che considera una “raccolta” una occasione
per mettere in scena lo “stato delle cose” della sperimentazione
dance contemporanea. Così l’album attraversa i territori, viaggia
per l’Europa, il nord dell’elettronica rarefatta, delle più psichedeliche interpretazioni della disco, arriva persino in Russia e poi
torna in Italia con il brano, inedito, di Coccoluto che chiude il
disco. Amigdala, spiega l’artista è quella ghiandola del cervello
dove si trova la memoria emotiva. Quella delle nostre sensazioni.
Perché la musica deve far vivere le passioni, trasformare la cultura elettronica in puro sentimentalismo. Masha Era con Ice Touch,
Mathias Meyer con Skipper e naturalmente Coccoluto con Beach
Games gli artisti da segnalare.
Pierfrancesco Pacoda
l’apertura con gli hand claps e
il ritornello che ricorda Human
Touch. Il titolo Face Control allude ai buttafuori dei club che
selezionano i clienti in base
alla loro apparenza. Nel complesso l’album è più a fuoco del
suo predecessore, pur fermandosi a un passo dal capolavoro. Fra rimandi a Soft Cell ed
episodi più aggressivi e meno
decadenti, l’epica di Boeckner
fiorisce in tutto il suo splendore
e ci regala una gradevolissima
collezione di canzoni che scende giù fresca, tutta d’un sorso.
Tobia D’Onofrio
METHEL & LORD
Steps of a long run
Point of View Rec
Forti dell’esperienza maturata
con il debutto (Pai nai), i Methel & Lord perfezionano la loro
macchina compositiva confermandosi band di culto della scena indie italiana. Anche in Steps
of a long run offrono la stessa
magia evocativa, un sound magnetico ed espressivo insito tra
le atmosfere elettrizzanti dei
brani sviscerando l’energia, la
poesia e l’ironia che gli viene
più congeniale. Un sound riconoscibile nella sua pluralità di
MUSICA 31
stili e linguaggi impiegati, dove
modellando musiche di matrice
classica con una discreta dose
di elettronica in atteggiamenti
blues e con spontanei rimandi
al jazz, al rock e al folk vengono proposte otto interessanti
composizioni. Coadiuvate da
un cantato manifestato in una
sorta d’inglese mediterraneo,
catturano nell’immediato brani
come Escape from significance
immersa in ritmiche elettrofunk, e Gnu & Gna e Pizza
mafia & mandolino dalle forti
reminescenze
psichedeliche.
L’album continua la sua ascesa musicale mostrando le sue
molteplici facce: incursioni jazz
(Dear Tony); emanazioni elettriche di (Maybe) o situazioni
più delicate (Hippocondriac e
Washed untrue), fino a concludersi sulle atmosfere delicate
e misteriose della strumentale
Grandfather.
Alfonso Fanizza
numerose sedute di registrazione in giro per il mondo, da
Città del Messico al Giappone
passando per Israele. In questo
paesaggio musicale che fonde
mirabilmente pop, rock progressivo ed elettronica, Wilson
si fa circondare da un cast stellare che annovera tra gli altri
Tony Levin al basso, Gavin
Harrison (dai Porcupine Tree)
alla batteria, Jordan Rudess
(dai Dream Theater) al piano e
Theo Travis, i cui flauto e sassofono avevano già impreziosito nel 2001 il suono dell’album
Returning Jesus dei No-Man.
L’eccellente prodotto finale può
essere collocato nella sfera sperimentale di recente frequentata da Portishead, Nine Inch
Nails e Thom Yorke.
Rino De Cesare
forma i The Wooden Birds. In
poche frasi Magnolia? Dodici
tracce di classica indietronica e
folk, in piena armonia con le ultime uscite dell’etichetta tedesca, vicini alle correnti europee
scandinave, inglesi, tedesche,
ma in fondo con un inconfondibile stile americano sommesso
che permea il tutto. Ad Aprile,
Morr Music per l’Europa, Brasuk per USA e Canada. Una
tranquilla release.
Federico Baglivi
SAXON
Into The Labyrinth
SPV/Steamhammer
THE WOODEN BIRDS
Magnolia
Morr Music
STEVEN WILSON
Insurgentes
K-Scope
Apprezzato per il suo lavoro
con Porcupine Tree, Opeth ed
Anja Garbarek tra gli altri,
Steven Wilson debutta come
solista con Insurgentes. Pubblicato il 9 marzo scorso su
K-Scope, l’album racchiude 10
brani che spaziano da ballate
sognanti ad assalti in perfetto
stile industrial noise. È un lavoro oscuro, cinematico e ricco
di sfumature, sintesi di due
anni di esplosione creativa e
32 MUSICA
Nuova band in arrivo nel catalogo Morr Music: i The Wooden
Birds, che esordiscono ad Aprile con Magnolia. In realtà questi The Wooden Birds sono una
nostra vecchia conoscenza, infatti dietro la band vi è un tale
Andrew Kenny degli American
Analog Set. Dopo sei album con
gli A.A.S., band ora inattiva
dal 2005, e dopo svariate collaborazione con Album Leaf, Her
Space Holiday, Styrofoam, Ola
Podrida, Arthur & Yu e Broken
Social Scene, il texano Andrew
Kenny ritorna ad Austin e
Ci sono band che restano sulle
proprie orme… per sempre fedeli a se stesse. Altre, invece,
hanno ancora voglia di giocare,
di rimettersi in discussione.. È
gente che mette il cuore in ciò
che fa. Ma non credo che occorra un’altra recensione per
svelare i contenuti del nuovo
album dei Saxon. Lèggere che,
dopo 30 anni, questi signori
hanno ancora voglia di conquistare un pubblico giovane
e di rivedere il sound che da
sempre li ha contraddistinti,
significa non poco. Se alla volontà si aggiunge la capacità
e la tecnica, allora salta fuori un risultato quanto meno
notevole! Di certo riuscire a
sfornare cose di questo genere,
a questi livelli, è un privilegio
che pochi possono permettersi.
Anche questo è “vivere per il
rock”! Resta soltanto da inchinarsi e ringraziare. Into The
Labyrinth allunga la seconda
giovinezza ritrovata dai Saxon
con The Inner Sanctum (2007)
e apre a nuovi stimoli. Diretti e privi di ambiguità Byford
e soci puntano tutto su riff di
chitarra e ritornelli adatti a
scatenare arene di metallari
“old school”. Birra, chitarre e
strade asfaltate continuano ad
essere lì, per chi di vecchietti
non vuol sentirne nemmeno
parlare. Del resto hanno una
personalità musicale granitica
e inconfondibile.
Camillo “RADI@zioni” Fasulo
MASCARIMIRÌ
Dieci anni (live tour)
Dilinò /Soniboni
Dalle nostre parti le ricorrenze
sono importanti. I dieci anni,
per la vita di una band, sono
traguardo ma anche punto di
partenza. I Mascarimirì li compiono con una dichiarazione
di maturità che è allo stesso
tempo conferma del nuovo continuo a cui Claudio Cavallo e
soci ci hanno abituato da sempre. Unici nel saper attingere
e approfondire con coerenza i
linguaggi della tradizione per
scrivere pagine inedite di quella che non è più musica popolare ma word music. La sensibilità di artisti come questi è
nella capacità di sentire, e non
solo con le orecchie, affinità con
ZU
Carboniferous
Ipecac
Notevole il percorso di maturazione e ricerca stilistica condotto dagli Zu fino ad oggi: una produzione pressoché sterminata
in circa dieci anni di attività, concretizzata in tre album di cui
Carboniferous è l’epigono. Tralasciamo di indicare il genere di
appartenenza: inclassificabile. Il loro suono è personalissimo; in
formazione “soltanto” batteria, basso e sassofono (ed effetti, sapientemente organizzati) ma a valere per dieci! Non hanno un
cantante (per evitare che l’attenzione primaria si focalizzi su di
lui) e dimostrano una scelta di timbri sempre coerente e dall’impatto disarmante, un flusso omogeneo e vagamente straniante ai
primi ascolti. Le dieci tracce sono legate da un discorso musicale
solo in apparenza oscuro ed introspettivo: si avvertono ‘emanazioni’ di matrice death-metal, industrial e ambient, amalgamate
brillantemente su tessiture e strutture jazzistiche, offrendo una
visione d’insieme totale e raffinata. Consigliato a chi avverte un
impellente bisogno di novità.
Oscar Cacciatore
il pianeta e suoi suoni, nel coraggio di osare e sperimentare
in un viaggio continuo fatto di
scoperte. Questo produce musica che è difficile etichettare.
In questo album i Mascarimì
celebrano la loro anima live,
dimensione assolutamente travolgente in cui la band consuma con attitudine punk un rituale a metà strada tra la festa
e il rave. Strumenti tradizionali ed elettronica, voce, sudore
e danza, dopo dieci anni e per
altri cento… ci auguriamo.
Osvaldo Piliego
MEDUSA
I musicisti hanno facce
tristi
Dracma records
Il titolo è il manifesto di una
generazione: quella dei musicisti ultratrentenni che ancora si barcamenano nella scena
indie, accumulando ettolitri di
birra, debito di sonno e poche
soddisfazioni. Riso amaro, ostinazione, passione sono sentimenti che in un modo nell’altro
emergono dalle tracce di questo
album. Un disco sulla consapevolezza, una sorta di concept in
MUSICA 33
cui i Medusa, in giro da quasi
vent’anni, ce le cantano e ce le
suonano senza girarci intorno. Tra stoner rock, Faith No
More, funk metal, punk rock
old school e rap i Medusa sanno pestare duro e tirare il freno
per lasciare il tempo alla melodia di entrare in circolo.
Se notate qualcosa di conosciuto nella voce, ci avete preso,
Diego ha collaborato e collabora con caparezza a con Antianti
(progetto solista di Dade, bassista dei linea 77).
tempi sono maturi per lasciare
il segno: La casa brucia (da Andrea Pazienza), la title track,
Bevo e Il futuro è una trappola
fra i pezzi memorabili; a coronare il tutto, piccoli interventi
di canti popolari campano-salentini al passaggio fra le tracce: senza retorica, freschi e di
sicura presa.
Oscar Cacciatore
quale Mercuri duetta in Altitudini. Un buon esordio, ben
curato, non innovativo ma che
miscela sapientemente il meglio del pop/rock all’italiana.
Scipione
IRENE SCARDIA
I giorni del vento
Workin’
FABIO MERCURI
Di tutto quello che c’è
Novunque
MINISTRI
Tempi Bui
Universal
“Veramente vivo in tempi
bui…”: da questo incipit siamo
subito trasportati nel mondo
dei Ministri i cui ingredienti
principali sono: riff rock alternative essenziali ed incisivi
(primi Afterhours, Verdena)
ma, soprattutto, accattivanti
refrain melodici (ottima prova
vocale di Davide Auteliano)
e validissimi testi, il tutto (o
quasi) opera d’ingegno del lead
guitarist, Federico Dragogna.
I Ministri ci hanno abituato
ad idee efficaci: nella copertina del full-lenght d’esordio, I
soldi sono finiti (2006), inclusero (fisicamente!) una moneta
da 1 euro (e la lista spese di
registrazione nel booklet…),
a fronte però di un disco non
particolarmente esaltante. Qui
la situazione è migliorata e i
34 MUSICA
Dopo una lunga carriera da chitarrista (in numerosi progetti e
con cantautori come Tricarico,
Dave Muldoon, Luca Gemma)
il salentino Fabio Mercuri arriva al suo album solista. Di tutto quello che c’è contiene undici
brani che spaziano tra canzone
d’autore, pop, echi psichedelici e atmosfere suggestive con
aperture melodiche interessanti. Le sonorità richiamano
Afterhours, Amerigo Verardi,
Tricarico, Moltheni, Baustelle
solo per dare qualche punto di
riferimento. I testi sono semplici, con un linguaggio a tratti
colloquiale, e si ispirano ad episodi di vita quotidiana e riflessioni generali. Il cd, prodotto
da Paolo Agosta, ospita Roberto Dellera e Enrico Gabrielli
(Aftehours), Paolo Iafelice (produttore tra gli altri di Pacifico),
I Cosi e la cantante americana
Georgeanne Kalweit con la
Negli ultimi anni il piano va
forte. Una battuta che sottolinea la popolarità di personaggi
come Ludovico Einaudi, Giovanni Allevi, Stefano Bollani,
Nicola Piovani, Enrico Pieranunzi e molti altri. Una tendenza che sembrerebbe solo
maschile. Nomi come Rita Marcotulli o Alessandra Celletti
hanno lanciato anche una “via
femminile” al pianoforte. La
salentina Irene Scardia, pianista e agitatrice culturale, si
inserisce in questo solco proponendo I giorni del vento. Nove
brani di poesia in punta di dita
nei quali “lo sguardo si rivolge,
ora con curiosità e slancio creativo, ora con spirito d’indagine
ad uno degli elementi naturali
maggiormente densi di fascino
e carico di innato potere evocativo, il vento”. Un disco - che è
anche la colonna sonora di uno
spettacolo multimediale – nel
quale si esprime tutto lo stile
della musicista che varia tra
sonorità morbide e raffinate,
influenze jazz, musica impressionista sino alle correnti minimaliste e romantica.
Gazza
AVANTI POP
Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub
Bat For Lashes – Daniel
Natasha Khan ha
aperto I concerti dei
Radiohead la scorsa
estate. Moltissimi non
sapevano
nemmeno
chi fossero i Bat for
Lashes, e almeno altrettanti non lo sanno
tuttora. Ma gli appassionati di musica un
po’ sgamati avevano già fatto una buona associazione mentale e avevano intuito che Thom Yorke
stava pontificando. Synth-pop in verità non troppo originale, ma sapientemente miscelato con
un po’ di glocalismo: i suoni orientaleggianti non
sono solo un orpello, ma il tributo che Natasha
Khan, di etnia pashtun, fa a se stessa.
Melanie Fiona – Give it to me right
Viene dal Canada, ha
origini sudamericane.
Non si sa molto altro:
facendo una ricerca
su Internet sulla sua
biografia si trova veramente poco, e per’altro
in Italiano, il che vuol
dire che ha fatto successo solo da noi. Alla
quarta pagina arriva la sua pagina Myspace.
Cerco sul suo lettore musicale, e il singolo non
c’è. Il mistero si infittisce. Scendo ancora, scopro
che in Inghilterra suona in arene da 15000 persone. Continuo a scendere: ha vinto un premio
reggae. Parte il player automatico, è bravissima.
Continuo a non capire. Ecco. Ha firmato per la
Motown. Hanno deciso di rinascere. E hanno
scelto una splendida voce. Ma il marketing non
è nelle loro corde.
Franz Ferdinand – No you girls
Dopo “Ulysses” qualcuno si sarà sentito
male e avrà scritto
tanti messaggi su Myspace. E allora i Franz
scelgono un secondo
singolo rassicurante
in un album che rassi-
curante non lo è affatto, tanta è la quantità di
sperimentazione e di divertissement pop. Dicono che i loro concerti italiani siano stati belli,
quanto sadicamente corti. Alex Kapranos scrive
di cucina su Internazionale. I White Lies, che
ora si fanno belli in Italia, sembrano poco più di
una loro cover band: non pensate che siano tra i
padroni del mondo musicale, seppur in perenne
stato di understament?
Dente – vieni a vivere
È andato a “Deejay
chiama Italia”. Fino
all’apparizione radiofonica era nell’altra rubrica, quella che trovi
se giri la pagina. Ma
quando Linus decide
c’è poco da fare, non c’è
niente da suggerire: Il
ragazzo ha sfondato.
Ora è poco più di un dettaglio il fatto che ci abbia
messo 33 anni per andare sulle radio nazionali.
Lui che non ha mai avuto niente da invidiare a
nessuno, lui che è schivo e per questo affascinante come molti altri nostri cantautori. Però scrivono molto meglio. Per fortuna (sua, e questa volta
anche nostra) è stato incrociato da qualcuno che
ha soldi da spendere e uffici stampa da scatenare. E per fortuna, sua, nostra e chi ci ha investito, Linus ha deciso.
Il Genio – Non è possibile
Noi di Coolclub continuiamo a mettere
le bandiere sui nuovi
territori conquistati da
Alessandra e Gianluca.
Nella nostra umiltà un
po’ nerd e un po’ snob,
possiamo dire che siamo stati tra i primi a
parlarne, che abbiamo esultato per “Pop Porno”,
anche perché con quella canzone hanno fregato
tutti. Ora scelgono un pezzo ancora più paraculo
e quindi ancora più affascinante. Video a Milano,
cavalcano tutti i clichè frettolosamente messi a
punto per raccontare un fenomeno pop. E continuano a giocare con il mondo della musica.
Dino Amenduni
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36
DAMMI UNA SPINTA
Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse...
La Roux - In for the kill (Skream rmx)
Era il 2 gennaio 2009 e
NME già si affrettava
nel parlare di sicura
prossima star raccontando di La Roux, duo
composto da Elly Jackson e Ben Langmaid,
il quale ha gentilmente prestato il palco a
Skream, uno dei 3 o 4
carbonari che hanno messo su il dubstep, l’unico
elemento di discontinuità che la musica mondiale ha saputo proporre a se stessa negli ultimi 2
anni. La Roux continua a non entrare nemmeno
nella top 10 in Inghilterra, in Italia sarà molto
difficile sentirla, ma qui c’era chi ci aveva visto
giusto: qui sforiamo il capolavoro postmoderno.
Bjork feat. Antony and the Johnsons – Dull
flame of desire (modeselektor rmx)
Non è tanto la trasformazione di Bjork, l’ennesima, per certi versi
anche meno estrema
di alcune sue invenzioni indigene (e quando
dico indigene dico indigene: ve lo ricordate
il video di Triumph
of the Heart? Baciava
il suo gatto dopo che in un pub di Reykjavik si
scatenava una jam session), quanto la trasfigurazione di Antony, uno dei pochissimi artisti che
può vantare la personalità necessaria per mettersi a duettare con sua maestà. Il remix, molto
meno elegante dei padroni di casa rende questo
improbabile duetto ancora più etereo, ancora più
eclettico, ancora più incredibilmente ipnotico.
Ed ancora più improbabile.
Royksopp feat. Robyn – The girl and the
robot
Il mese scorso denunciammo il primo caso
di autoplagio proprio
da queste righe, proprio al posto due di
questa rubrica. Oggi
dobbiamo
denunciare l’autoplagio di chi
scrive, perché non era mai capitato di citare gli
stessi artisti per due mesi consecutivi. Ma i Royksopp hanno deciso di boicottare il primo singolo
e partire con il battage sfruttando furbamente
la collaborazione con Robyn, un fattore aggiunto
per raggiungere il successo, almeno da Berlino
in su. Il pezzo è sinceramente meno bello del precedente “Happy up Here” ma è ruffiano all’impossibile. E allora diamo una spinta ai norvegesi, anche se in questo caso forse non ne avevano
tanto bisogno.
Yeah Yeah Yeahs – Zero
Karen O sembra Cyndi
Lauper. Detto questo,
e sapendo di averla
sparata
abbastanza
grossa, ci ritroviamo davanti al pezzo
più commerciale della band indie di New
York. Di indie si fa
sinceramente
fatica
a parlare in questo caso, a meno non si voglia
ricercare una vena “à la Franz Ferdinand”, in
cui la ricerca del suono più facile rappresenta
più una sfida alla propria essenza che la ricerca della via comoda. Non sono passati poi tanti
anni da quella bordata da 2 minuti e 3 secondi
che era “Pin”, ma a parte l’enorme carisma della
cantante non c’è nessun punto di contatto. E non
per tutti è un male.
Agnese Manganaro - Mille petali
E così abbiamo piazzato un salentino per rubrica. Qualcosa vorrà
pur dire. Anche in questo caso giochiamo in
casa, Spudoratamente, Ma si tratta solo di
seguire le intuizioni
della Irma Records,
di aprire gli occhi e le
orecchie, di percepire che abbiamo un piccolo fenomeno in casa e che se ne stanno accorgendo
gli addetti ai lavori. Almeno loro. Rendere una
star Agnese è una questione di senso di responsabilità nei confronti di un pubblico che ha un
disperato bisogno di grandissime voci italiane.
Dino Amenduni
37
SALTO NELL’INDIE
IMPROVVISATORE
INVOLONTARIO
38 MUSICA
Questo mese abbiamo il nostro viaggio nell’indie
di ferma dalle parti di Improvvisatore involontario etichetta che raccoglie musiche sperimentali o meglio “dell’oggi” come preferisce definirle
Francesco Cusa fondatore di questo stravagante
e coraggioso collettivo.
Il vostro collettivo/etichetta è un’esperienza insolita anche nel panorama indipendente. Da dove nasce questo progetto?
È un’idea che nasce tre anni fa, sulla scorta
delle mie esperienze fatte in associazioni quali
Bassesfere ed ExB. Nasce da una discussione
feconda tra il sottoscritto, Paolo Sorge e Carlo
Natoli (entrambi parte del gruppo Francesco
Cusa Skrunch), con l’idea di creare un soggetto
composito e aperto a tutte le forme artistiche ed
interdisciplinari, più un movimento d’opinione
che una realtà associativa chiusa ed autoreferenziale. Un soggetto camaleontico e fustigatore
dei consunti costumi e dei patetici cliché della
proposta artistica; un osservatorio attivo e dinamico sulla disperante e monodica recita della
farsa in cui versa la retorica della cultura artistica museale italiana. Quindi col tempo abbiamo accolto tanti “adepti” e la nostra famiglia è
cresciuta, venendo a costruire un piccolo esercito
con avamposti per ogni parte d’Italia e dell’Europa. Siamo dunque diventati label, management,
distribuzione, produzione ecc.
Chi è l’improvvisatore involontario?
Improvvisatore Involontario è una sorta di Kaiser Sose (vi ricordate il film I soliti sospetti?).
Succede che un giorno riceviamo una telefonata
nella nostra sede da parte di un noto finanziatore internazionale che ci ha intimato di mantenere l’anonimato. Egli, interessato al nostro
progetto, ha scelto di finanziarlo a fondo perduto
proponendoci un insolito contratto; poche righe
con la Clausola in neretto: “Il Finanziatore intende mantenere l’assoluto anonimato sulla vicenda pena la rescissione del contratto e relativa
penale”. Noi non siamo certo nella condizione di
poter rifiutare o reagire. Quindi, per quel che ne
sappiamo, il nostro benefattore potrebbe essere
la Cia, il Kgb, il Mossad, Murdoch, Gelli o la fallita Semeraro Mobili.
Sicuramente le vostre pubblicazioni hanno
un pubblico particolare, per non usare la
parola nicchia, quanto è difficile, in Italia,
produrre e promuovere musica sperimentale?
Grazie ai finanziamenti di “Kaiser Sose”, come
ormai abbiamo deciso affettuosamente di chiamarlo, per noi è relativamente più semplice.
Dovendo esprimere un giudizio più obiettivo nei
rispetti della situazione generale e verso chi è
meno fortunato di noi direi che è praticamente impossibile se non essendo ricchi e facoltosi
rampolli. Ci muoviamo in un regime e di conseguenza la musica “d’arte” - utilizziamo questo
patetico cliché -, è annientata da leggi vessatorie che uccidono il proliferare della attività
performative tramite una tassazione indecente
che finisce con il favorire, paradossalmente, gli
“stranieri” a discapito degli italiani. La musica
“sperimentale” (poi sperimentale ‘de che’?”) è vilipesa da un sistema crapulone della riscossione
del diritto d’autore, leggi: Siae, è oltraggiata dal
pullulare di conservatori e scuole di musica che
finiscono con lo sfornare replicanti senza meta, è
mortificata dall’indecente eccesso della proposta
e dall’arroganza dei neofiti. Non ci si vergogna
più di “darsi”. Ciascuno ostenta sicumere frutto
del trip egomasochista che trova in sottospecie
di guitti riccioluti i modelli tragici per non dire
immondi della libertà della espressione artistica
(come se fosse “bello” ruttare in faccia a chiunque pur d’esprimersi). La musica sperimentale
(sperimentale “de che”? Quali esperimenti di
grazia?), o meglio le musiche dell’oggi, sono lo
spettro angoscioso del senso di colpa e del rimosso: messa in scena del teatrino del nulla, sovente, al limite pratica masturbatoria nel migliore
dei casi. Quantomeno in Italia.
Questo numero del nostro giornale è dedicato al concetto di indipendente, secondo
te ha ancora un senso, è sinonimo di libertà
o cosa?
Non significa più nulla nell’era della società dei
consumi. Indipendente non è neanche la nostra
volontà, figurarsi l’espressione della nostra nevrosi. La moderna ricerca ha annientato l’illusione del concetto di libero arbitrio, fortunatamente. Improvvisatore Involontario segue le leggi
del Fato, è un simbolo, un archetipo che ci guida
verso il nostro cammino pre-determinato. Come
novelli Ulisse, noi abbiamo una Missione. Possiamo al massimo ingraziarci gli Dei affinché il
nostro cammino sia fecondo e propizio. La libertà poi è un altro concetto chimerico giacché essa
non esiste senza la prigionia. Ecco i nostri adepti sono come dei carcerati cui venisse concessa
qualche ora d’aria. Quella è la libertà.
Antonietta Rosato
MUSICA 39
ON
THE
ROCK
Dischi da ascoltare tutto d’un fiato
In tempi di crisi e vacche magre, mai il detto
“april dolce dormir” è stato più adatto alla pausa di pubblicazione di dischi di rilievo tra l’inizio
della primavera e la fine dell’estate. È così da
sempre e anche questo 2009 non si sottrae alla
consuetudine. Ma non disperiamo, anzi approfittiamo per segnalarvi alcune uscite di grande
interesse che pescano a piene mani negli annali
della storia del rock.
Se c’è una radio al mondo che grazie ai propri
archivi conserva tracce indelebili di intere generazioni di musicisti questa è la BBC. Così Joe
Jackson, che da qualche mese ha pubblicato
l’opaco Rain (10 tracce per la Rykodisc), edita
un disco, via Universal, che coglie il meglio della sua produzione tra il 1979 e l’83. Doppio cd,
quindi, che (ri)testimonia un allampanato e cinico inglese di Burton innamorato pazzo per New
40 MUSICA
York. Memorabile la versione in quattrominutiquattro di Fools In Love registrata durante una
puntata (quella del 21 febbraio 1979) del mitico
John Peel Show in uno scarno reggaestyle. A dispetto di chi dice che negli anni ottanta non si
suonasse del buon rock.
Se però il salto temporale di soli 29 anni non vi
suscita sufficiente curiosità provo a segnalarvi
un disco uscito ben 42 anni fa. In realtà si tratta
di un dei dischi più originali ed interessati mai
pubblicati. Basta citarvi, per esempio, che contiene un brano dal titolo I Can See For Miles; sto
parlandovi di Sell Out degli Who ripubblicato in
queste settimane in versione De Luxe.
In ordine cronologico è stato il terzo album della band di Pete Townshend e in questa versione
troviamo ben undici brani inediti. Per chi volesse
approfondire, e Dio solo lo sa quanto ne varrebbe
la pena, l’ultimo numero della prestigiosa rivista Mojo (www.MOJO4music.com ) gli dedica la copertina, approfondimenti ed immagini inedite.
Ma visto che questo numero è dedicato al concetto di “indipendenti” ora
sottraggo tutto lo spazio che mi rimane per raccontarvi di un gruppo che
del “concetto” né è stato portabandiera assoluto nella scena musicale
degli ultimi 40 anni. Un gruppo che
ho amato sopra ogni cosa: The Henry Cow. L’occasione me la fornisce
la pubblicazione di due raccolte (The
road: vol. 1-5 e The road: vol. 6-10) per un totale
di 9 CD e un DVD.
Il primo contiene la documentazione degli anni
dal 71 al 76, dalle primissime registrazioni del
periodo pre virgin ai concerti storici di Amburgo
e Trondheim, un booklet di 60 pagine con storia, note, memorie e foto. il box contiene lo spazio dove poter inserire (se lo possedete) il doppio
cd dal vivo Concerts. Il secondo a copertura del
periodo dal 76 al 78. Dalla prima fase post virgin fino allo scioglimento del gruppo. Inclusi i
concerti di Brema, Stoccolma e Goteborg. Il dvd
di 80 minuti ci propone invece riprese televisive
di un concerto in Svizzera nel 1976, ad oggi le
uniche immagini esistenti del gruppo. La band
inizia a suonare alla fine del 1968 quando i polistrumentisti Fred Frith e Tim Hodgkinson
danno vita all’embrione che assumerà identità
precisa qualche anno dopo, nel 1971. A loro si
uniscono il fiatista Geoff Leigh, il bassista John
Greaves e il batterista Chris Cutler. Radicali
nelle scelte iniziano a suonare ovunque sia possibile gratis o a prezzo politico. Per ascoltarli in
vinile si dovrà aspettare la primavera del 1973
quando viene pubblicato The Henry Cow Legend,
un concentrato di sperimentazione, tra free-jazz
rock e pazzie zappiane.
Una buona dimostrazione è offerta dai brani incisi nell’ottobre del 1973 in occasione del concerto alla Dingwall’s Dance Hall, compresi nel doppio LP della Greasy Truckers al fianco di Camel,
Global Village e Gong.
La bella Lindsay Cooper (fagotto e oboe) subentra a Geoff Leigh e all’inizio del 1974 gli e
Henry Cow registrano Unrest, se fosse possibile un disco che si spinge ancora più in là nella
loro lettura musicale del rock. Ma è nel ‘75 che
il progetto musicale compie quel salto di qualità
che li ascrive negli annali della storia, la band
decide di condividere
il percorso di un’altra
formazione : gli Slapp
Happy (Anthony Moore
- ts. - Peter Blegvad - ch.
- Dagmar Krause - v.) :
assieme i due organici
realizzano
Desperate
straight e In praise of
learning entrambi pubblicati dalla Virgin nel
‘75. Ed è di quegli anni i
due memorabili concerti a Taranto, a pochi mesi
di distanza l’uno d’altro, davanti ad un pubblico
straordianario (altri tempi decisamente... ndr.:
in quell’occasione registrai una delle mie prime
interviste). L’esile figura di Dagmar affascinava
e rapiva ed il resto lo facevano la creatività e la
grande maestria strumentale di Fred Frith e co.
In quegli anni svolgono costantemente un’intensa attività live a bordo di un autobus trasformato in casa che girerà senza sosta l’Europa tutta
e sempre nel 1975 effettuano alcune esibizioni
con la formazione allargata a RobertWyatt. Su
tre lati del doppio Concerts trovano spazio le registrazioni ricavate da concerti tenuti tra maggio e novembre, con particolare interesse per le
belle versioni di Little red riding Hood hits the
road (con Wyatt) e di Ruins (registrata a Udine,
in Italia la band aveva trovato la sua naturale
seconda patria).
Prima di esplodere in mille altre direzioni (carriere soliste, Art Bears, Aqsak Maboul, Work...)
Henry Cow resiste fino al 1978, in tempo per la
pubblicazione dell’ultimo, e ancora rilevante,
Western culture (Broadcast), registrato senza
l’apporto di John Greaves (impegnato con i National Health), che chiude degnamente la storia
di questo straordinario progetto musicale.
La spesa complessiva per portarvi a casa le due
raccolte dovrebbe aggirarsi sui 150 euri... fatevele regalare per la prossima occasione o se state
per sposarvi inseritele nella vostra lista nozze
(http://www.rerusa.com).
Infine segnalazione web2.0.: http://www.kgsr.
com questo è l’indirizzo presso il quale potete
ascoltare la stazione Radio Austin... una quantità indescrivibile di materiale audio, interviste e
live in studio. Alla prossima....
Vittorio Amodio
MUSICA 41
LIBRI
SERGE
QUADRUPPANI
Dal suo ultimo libro al caso Battisti:
lo scrittore francese ci racconta la sua idea di noir
Serge Quadruppani, francese, vive tra Roma e
Parigi ed è direttore di una collana pubblicata
da Metailié dedicata al noir italiano. Ha scritto
diversi saggi e romanzi noir, fra cui L’assassina
di Belleville, La breve estate dei colchici, La notte
di Babbo Natale, pubblicati nei Gialli Mondadori
e praticamente introvabili. Per Marsilio è uscito
nel 2007 In fondo agli occhi del gatto. Traduttore
dall’americano e dall’italiano, è la voce francese
di alcuni dei migliori giallisti italiani, da Andrea
Camilleri a Massimo Carlotto, da Marcello Fois
a Giancarlo De Cataldo. Coolclub.it gli ha chiesto
di raccontarci le sue idee sulla scrittura e sulla
società contemporanea. Con la grande simpatia
che lo contraddistingue Quadruppani ha accettato volentieri di fare due chiacchiere con noi.
mantiene intatta la sua forza dirompente e
la sua attualità, a dimostrare che i buoni
libri durano ben più dei canonici tre mesi
in libreria. È così anche per te? Credi che Y,
sia ancora oggi un libro che ti rappresenta?
Lo scriveresti di nuovo?
Ovviamente, non posso che condividere i giudizi
lusinghieri sul mio lavoro! Certo, Y mi rappresenta. Non lo scriverei esattamente nello stesso
modo (forse un po’ più di sobrietà nello stile, un
po’ meno di sesso - si, è vero, sto invecchiando)
ma, nella stessa maniera che in me, c’è sempre il
ragazzo di 36 anni fa e quello di 18 anni fa, che
fanno sempre parte di me, questo libro fa ancora
parte del mio mondo immaginario (che non è separabile dal nostro mondo tout court).
Il tuo ultimo libro pubblicato in Italia è
Y, un libro scritto diciotto anni fa, ma che
I tuoi libri per me sono diventati come una
droga, purtroppo in Italia di difficile repe-
42 LIBRI
ribilità e sconosciuta ai più, fino all’intervento dell’editore Marsilio. Come spieghi
questa miopia italiana nei tuoi confronti?
Caro fan, sono già molto fortunato di avere trovato un buon editore come Marsilio per continuare
a pubblicarmi. Oggi, la cultura è un mercato e
fino a quando ci saremo sbarazzati del mercato e
della merce, dovremo subire le “leggi” del mercato, cioè dei rapporti di forza in cui la qualità delle
opere ha un peso, si, ma molto leggero a confronto di altre forze come la stupidità, la moda, il
kitsch, le passioni tristi, il bisogno di dormire.
Cosa salvi e cosa invece “butteresti via”
della tradizione francese noir e polar?
Salvo sicuramente un certo numero di scrittori.
Prima di tutto, Manchette poi Jonquet, Delteil,
Prudon, J.-F. Vilar, Leroy, H.-F. Blanc, qualcun altro - e tra i più anziani: Amila, Georges J.
Arnaud, Tito Topin (di questo ultimo dovrebbe
uscire tra un anno un capolavoro, Photofinish,
tradotto per E/O dalla mia traduttrice preferita, Maruzza Loria) e qualcun altro. Butterei un
sacco di mezzecalzette, tra cui il pesante Daenaincks che scrive come un burocrate stalinista
e pensa lo stesso.
Credo che in Italia i libri gialli francesi più
letti siano quelli di Fred Vargas.
Il caso Vargas, per me, è complicato. Ho molta simpatia per lei per ragioni extra-letterarie
(come persona è gentile e vera, condivido con
lei la difesa di Cesare Battisti, e lei lo fa con un
coraggio e un dedizione imparagonabili - anche
se, facendolo, spara un sacco di cazzate). Come
scrittrice mi fa dormire ma, tra l’altro, lei ha
dichiarato che i suoi libri erano dei “calmanti”.
Questa parola risponde alla tua domanda. I nostri contemporanei stanno ancora, per ora, cercando di calmarsi invece di arrabbiarsi - ma il
giorno della rabbia verrà, questo è sicuro (se sarò
ancora vivo, non lo so, ma comunque, è l’attesa di
questo giorno che mi permette di ridere ancora
davanti alla gigantesca e tragica buffonata che
si chiama “ordine mondiale” o “civiltà tardocapitalista”).La situazione nel “mio” paese rassomiglia molto a quello del “tuo” (questi possessivi mi
fanno ridere, spero che capisca perchè): al capo
dello stato, un potere crepuscolare di un cinismo
mai visto, che scatena le repressioni contro i più
deboli per tentare di dominare il cuore di quelli che sono un po’ meno deboli, un opposizione
istituzionale in coma terminale, dei movimenti
di resistenza (l’Onda qui, le lotte degli universitari qua, la Guadeloupe, i sans-papiers). Una
cosa è diversa in Italia: la resistenza culturale
è molto più raggruppata e organizzata (tra l’altro, intorno alla New Italian Epic e agli amici di
Carmilla).
Conosci molto bene il panorama italiano.
Cosa pensi dei nostri autori gialli e noir,
dai maestri celebrati come Camilleri ai più
giovani (letterariamente parlando) come
Nino D’Attis o Angelo Petrella?
Ne penso un sacco di bene, come direttore di collana ne ho pubblicati un bel po’ nella mia Bibliothèque italienne, e ne pubblicherò sicuramente
tanti altri (tra cui, i due ultimi nomi citati).
Da lettore, cosa cerchi in un romanzo noir?
Atmosfera, scrittura, punto di visto sul mondo e,
in un modo o l’altro, rabbia.
Infine ti vorrei chiedere una battuta sul
caso Battisti, di cui le cronache italiane
sono tornate a parlare negli ultimi tempi.
Per ora, prevale l’isteria mediatica e l’amnesia organizzata. Un giorno o l’altro, verranno
dei nuovi storici, come è successo per esempio
in Israele dove una nuova generazione sta rivisitando i miti del sionismo. L’Italia si dovrà
confrontare con la storia degli anni ‘70, come la
Francia si è confrontata con la storia della guerra d’Algeria o di Vichy. Speriamo che, nel frattempo, Cesare avrà potuto rifare la sua vita in
Brasile o altrove. Invito tutti i lettori a comprare
e a diffondere il libro appena pubblicato da DeriveApprodi: Il Caso Cesare Battisti: quello che i
media non dicono. In particolare, bisognerebbe
fare leggere in tutte le scuole il testo di Tarso
Genro, il ministro della giustizia brasiliano, in
cui spiega le ragioni per cui ha concesso l’asilo
politico a Cesare. Il disprezzo con cui certi politici e giornalisti italiani hanno parlato del Brasile in questa occasione è veramente ridicolo: che
credono di essere, la Francia o l’Italia davanti a
paesi emergenti come il Brasile? Spero bene che
il Brasile non si arrenda davanti alle pressioni
deliranti dell’Italia e faccia vedere fino in fondo a
questi due paesini europei dove sta oggi la culla
della civiltà!
A proposito sai già quale sarà il tuo prossimo titolo che leggeremo in Italia?
In francese, si chiama Rue de la Cloche, è il secondo della trilogia iniziata con Y. Non abbiamo
ancora deciso niente per il titolo italiano.
Dario Goffredo
LIBRI 43
LA
VITA
EROTIC
Intervista a Marco Mancassola
Il trentacinquenne Marco Mancassola torna in
Puglia per presentare il suo nuovo romanzo La
vita erotica dei Superuomini edito da Rizzoli, il
Reading/Performance si svolgerà a Bari il 19 aprile alle 19.00 presso la Galleria Bluorg via Celentano 92, e a Taranto il giorno seguente alle ore 20.00
presso il Cine Teatro Bellarmino in corso Italia
angolo via Bellarmino. In attesa di incontrarlo,
raggiunto via mail, ecco cosa ci ha raccontato:
Partendo dal titolo del tuo ultimo lavoro,
perché chiami i protagonisti del romanzo
“superuomini” e non semplicemente “supereroi”?
Da un punto di vista, come dire, filosofico, il supereroe novecentesco sembra una declinazione del
superuomo. Voglio dire che ‘superuomo’ si porta
dietro molti significati, molte allusioni positive o
negative, molta ‘volontà di potenza’, molti riflessi
metaforici, sembra insomma un termine più ampio di ‘supereroe’. Anche se, in realtà, il vero motivo è l’idea che questo è un libro pieno di umanità…
I personaggi di questo romanzo sono vivi e sono in
carne e ossa, hanno una profondità sentimentale
che è umana, anzi, nel loro caso, potremmo dire
‘superumana’.
Alla Feltrinelli di Bari il libro era venduto
nella sezione “letteratura erotica”…
Bene: è un libro anche erotico. Male: la solita esigenza di rinchiudere tutto in qualche nicchia specifica. D’altro canto, il titolo, che a dire il vero non
ho scelto e non condivido del tutto, punta sulla
componente erotica. Attenzione, però: l’eros non è
il semplice sesso. L’eros è una forza attrattiva ampia, generalizzata, che ci costringe a fare il conto
con l’Altro, e con il nostro stesso corpo.
“Il corpo, residuo ultimo della vitalità e del
possesso. Il corpo lo abbiamo tutti ed è forse
l’unico potere che c’è rimasto. Quando non si
può agire più su nulla, sul corpo si può anco44
CA DEI SUPERUOMINI
ra.” Simona Vinci.
Ci racconti il ruolo della corporeità che
esplode prepotentemente tra le righe?
Se ho scelto di usare dei supereroi come personaggi, è perché mi interessavano i loro corpi, la
loro possibilità di incarnare, alla lettera, le rispettive condizioni esistenziali: l’Uomo di Gomma può allungarsi in ogni direzione, ma non riesce a stringere l’oggetto del desiderio. La mutante Mystique finisce per trasformarsi fisicamente
nelle persone che ama. Un paio di recensioni si
sono soffermate sul fatto che io, in un modo o
nell’altro, finisco sempre per scrivere libri corpocentrici. Libri sul corpo, libri fisici, quasi fisiologici. Ora, una ‘letteratura fisiologica’ è una strada quasi inevitabile, oggi, per molti narratori.
Perché il corpo è così importante, tanto da rientrare ossessivamente nei dibattiti etico-politici?
(Pensiamo alla questione del testamento biologico). Perché il corpo è l’ultima realtà difendibile.
Il corpo è la sede della nostra presenza. Il corpo
ci schiude misteri non ancora compresi.
L’approdo alla Rizzoli e la pubblicazione di
un romanzo strutturato e di respiro internazionale presuppone forse una possibile
sceneggiatura e/o traduzione? Ti piacerebbe magari ricavarne una serie televisiva o
un film d’animazione?
Sceneggiatura impossibile: non credo che la
Marvel o la DC Comics acconsentirebbero volentieri!... L’unica parte sceneggiabile sarebbe quella della famiglia De Villa, che peraltro è quella
che molti lettori hanno amato di più. Quanto
alle traduzioni, per adesso il libro è stato preso
in Francia da Gallimard. Gli editori anglosassoni sono più restii, si chiedono perché mai un
autore italiano si metta a raccontare una storia
così ‘americana’. Questa è la tipica ingenuità del
diavolo: l’America plasma il nostro immaginario,
poi si stupisce se qualcuno rielabora questo immaginario e glielo rimanda indietro…
Hai sempre curato molto l’aspetto performativo nella promozione dei tuoi libri accompagnandoti sovente a musicisti, i tuoi
non sono soltanto reading o semplici presentazioni ma performance in piena regola,
quanto è importante la dimensione “live” di
un libro e il rapporto diretto con i lettori?
Quando parlo del corpo e della ‘presenza’, non
parlo solo dei miei personaggi, parlo anche del
corpo e della ‘presenza’ dello scrittore. C’è un
piano di comunicazione sottilissimo, inafferrabile eppure profondo, che avviene solo nel ritrovarsi fisicamente gli uni al cospetto degli altri.
Anche se, ovvio, il muoversi e il parlare davanti
agli altri crea disagio, squilibrio, poiché nessun
gesto e nessuna voce sembrano abbastanza sicuri, abbastanza definitivi. E io in realtà sono un
uomo schivo, che si imbarazza per nulla. Non mi
reputo un bravo performer. Mi basterebbe essere
un performer sincero.
Da precursore dei saggi sulle musiche elettroniche con il tuo ormai pluricitato Last
Love Parade come giudichi il panorama
attuale e quale scena segui con maggiore
interesse?
Da qualche anno faccio una vita piuttosto austera, a dormire presto, pochi giri notturni, cose
così. Ascolto più musica classica che elettronica. Anche se certo mi emoziono sempre quando
sento un buon ‘beat’. Tra gli ultimi lavori che mi
hanno seriamente colpito: Untrue di Burial, un
anno e mezzo fa, e poi l’ultimo Sébastien Tellier.
Quanto alla scena dance, mi stupisco sempre di
quanta poca voglia di ballare sembrino avere i
ventenni di oggi. Voglio dire, ballare sul serio,
ballare per se stessi, per sentirsi pulsare, per
sudare fuori l’angoscia dei tempi, come si faceva
fino a qualche anno fa.
Emiliano Cito (Lab080)
45
MIGUEL ANGEL MARTIN
Playlove
Purple Press
A pochi mesi di distanza da Bitch,
la casa editrice
romana
Purple
Press manda nelle
librerie Playlove, il
nuovo graphic novel dello spagnolo
Miguel Angel Martin. Martin è autore di storie dalle
tinte forti, accolte
in modo contrastante dal pubblico
e dalla critica e,
come accadde in Italia nel 1998, con l’avvenuto sequestro di Psychopatia Sexualis, non certo
benvolute da certa magistratura censoria. In
Playlove si racconta la storia della giovane Ari,
che nello stesso giorno perde sia il lavoro che il
suo ragazzo. Giornata disastrosa che viene risollevata dall’incontro con Dani, l’uomo giusto al
momento giusto che, oltre ad essere un ottimo
amante, le trova un nuovo lavoro e riesce a restituirle il sorriso perduto. Dietro questa apparente
perfezione, però, Dani presenta un lato oscuro. A
volte è sfuggente, non ama farsi fotografare e la
sua perfezione è talmente assoluta da sembrare
irreale. Da qui parte la voglia di Ari di porre in
luce la vera identità di questo misterioso ragazzo
e i suoi pedinamenti porteranno a rivelazioni a
dir poco sorprendenti. Martin è abile nel tessere
il suo romanzo come un puzzle in cui ogni pezzo
s’incastra con gli altri, dando vita ad una rappresentazione gelida della nostra contemporaneità,
in cui non c’è spazio per la trasparenza dei sentimenti e in cui, molto spesso, è la falsità a tenere
in piedi le relazioni umane.
Rossano Astremo
RAYMOND CARVER
Principianti
Einaudi
Questo libro ha una lunga storia, finora sconosciuta a molti. È la più famosa raccolta di
racconti di Raymond Carver, Di cosa parliamo
quando parliamo d’amore, nella versione originale concepita dallo scrittore americano. A suo
modo un inedito, non solo un balocco per filologi
(con una bella traduzione di Riccardo Duranti),
se pensiamo al modo in cui a volte certe opere
cambiano significativamente prima di arrivare
al pubblico. Fu Gordon Lish, potente direttore
editoriale della casa editrice Knopf a manipolare il manoscritto all’alba degli anni ‘80, tra tagli
e correzioni di una
certa consistenza
che passavano anche per personaggi,
titoli e finali cambiati. Possibile? Sì,
dal momento che
all’epoca dei fatti,
il padre del minimalismo, uno dei
maggiori autori di
short stories del
Novecento, era ancora poco famoso
e si stava impegnando a ricostruire la sua vita
professionale e privata dopo anni di bocconi
amari (alcolismo, lavori precari, un matrimonio
fallito). Se ne dolse, Carver. Dolorosamente. Provò ad opporsi, a rivendicare il diritto dell’ultima
parola prima di andare in stampa, scrivendo a
Lish una lettera accorata: “Ti dico la verità, qui è
in gioco il mio equilibrio mentale. Ora non vorrei
fare il melodrammatico, ma davvero ho appena
fatto ritorno dai morti per rimettermi a scrivere
dei racconti.” La data è quella dell’8 luglio 1980.
L’editor tenne duro, lo scrittore (forse per paura,
forse per eccesso di stima) si rassegnò ad accettare ogni singola scelta e il libro uscì nell’aprile
1981. A rivelare lo scandalo, nell’estate del 1998,
ci pensò D.T. Max con un articolo apparso sulle
pagine del New York Times Magazine. Sconcerto e imbarazzo generale, visti i nomi in campo:
tutto vero, tutto da seppellire nel dimenticatoio,
se possibile. Qualcosa che dura ancora oggi, un
decennio dopo la sensazionale rivelazione, se è
vero che l’unico Paese in cui questo volume non
verrà pubblicato sono gli Stati Uniti. Mettendo a
confronto i due testi è interessante notare come,
in realtà, il ben noto rifiuto dell’etichetta di minimalista da parte di Carver non fosse del tutto
campato per aria: a Lish si devono sicuramente
certi tagli bruschi sul finale di un racconto, certe
soluzioni sospese, per non parlare dei dialoghi
ridotti all’osso, della rimozione di interi pezzi del
passato di un dato personaggio. Più ricca, più
ampia è la visione dell’insieme secondo Carver,
come testimonia del resto la raccolta Cattedrale, apparsa per la prima volta nel 1983. Leggere
Principianti significa dunque, anzitutto, andare
incontro a una rilettura di Raymond Carver senza filtri, senza le maledette forbici di Lish, vero
inventore del minimalismo.
Nino G. D’Attis
LIBRI 47
STIEG LARSSON
La regina dei castelli di carta
Marsilio
Terzo e ultimo capitolo
della Millennium trilogy che ha appassionato solo in Italia più di
un milione di lettori e
dalla quale verranno
tratti dei film che già
si preannunciano come
dei successi, questo
La regina dei castelli
di carta non tradisce
le aspettative dei numerosi fan di Mikael
Blomkvist e Lisbeth
Salander. Scoppiettante fin dall’inizio e ricchissimo di colpi di scena come ci ha abituati lo
sfortunato autore, morto per un infarto nel 2004
prima di vedere pubblicati i suoi libri, il romanzo
getta finalmente luce su acluni aspetti dell’inquietante protagonista, una sorta di Pippi Calzelunghe decisamente più gothic dell’originale.
Ed è proprio nell’originalità del personaggio di
Lisbeth che molti individuano la chiave del successo dei libri di Larsson. Lisbeth è una ragazza poco cresciuta, piena di tatuaggi e piercing,
dall’intelligenza superiore alla media e dal profilo psicologico piuttosto anomalo contro la quale
sembra che tutti in poteri forti di Svezia si siano
accaniti con inspiegabile e incredibile tenacia.
Come sempre il libro si lascia leggere d’un fiato.
Unico rimpianto: non poter sapere come va a finire la saga di cui l’autore pare avesse previsto
dieci volumi.
Dario Goffredo
JOSEPH WAMBAUGH
Il campo di cipolle
Einaudi
Ex marine ed ex poliziotto Joseph Wambaugh si
dimise dal servizio per
dedicarsi alla scrittura.
Considerato uno dei padri
della narrativa noir contemporanea, è stato ideatore e consulente di una
memorabile serie televisiva: Sulle strade della
California. In questo libro
pubblicato in America nel
1973, racconta una storia
vera. Due agenti di polizia vengono disarmati
48 LIBRI
e rapiti da due delinquenti che li portano in un
campo di cipolle. Ed è nell’odore pungente delle
cipolle, che si consuma la tragedia, uno dei poliziotti viene ammazzato mentre l’altro riesce a
scappare. Gli assassini vengono catturati ma il
finale della storia è ancora lontano e tutt’altro
che consolatorio e soprattutto tutto da leggere.
Il libro è una riflessione sulla giustizia che non
sempre funziona come dovrebbe e su come ogni
fatto di sangue segna l’esistenza dei colpevoli
e delle vittime in modo irreparabile. Una vera
chicca l’introduzione di James Ellroy, che vale
già da sola un salto in libreria.
Dario Goffredo
CHRISTIAN FRASCELLA
Mia sorella è una foca monaca
Fazi
È convinto di saper
fare a botte, ma viene
messo come niente al
tappeto; non sa andare
in moto; fa il fico ma
con le ragazze è un povero imbranato: ecco il
sedicenne protagonista
di questo libro. Periferia di Torino: mentre
gli anni Ottanta stanno finendo, il ragazzo
colleziona lividi esterni
e interni, eppure continua ostinato a lanciare il
suo guanto di sfida alla vita. Del resto bisogna
tener duro: non è facile vedersela con suo padre,
soprannominato “Il Capo”, un alcolista che passa
tutto il tempo steso sull’amaca, ad affibbiare punizioni che sembrano uscite da un telefilm americano, come falciare l’erba del prato. Ed è snervante vivere accanto alla “Foca Monaca”, la sorella
triste e ubbidiente. Quanto alla madre, è scappata col benzinaio. Ma il protagonista di questa storia stringe i pugni, sbuffa e s’affanna, anche se la
vita gliele suona ogni giorno; anche se le prende
perfino da Chiara, la ragazza di cui s’innamora:
bella, sveglia e inaccessibile a sfigati come lui. Il
Muro di Berlino che crolla e un serie di citazioni
pop e da telefilm fanno da sfondo a questo romanzo, un Jack Frusciante da periferia che strappa il
sorriso a ogni pagina, illuminato da una scrittura
esilarante ma a tratti dolente, insieme cinica e
romantica come il suo protagonista. Frascella con
il suo libro d’esordio dimostra di avere tutte le
carte in regola per diventare una voce interessante nel panorama narrativo italiano.
CYNAN JONES
La lunga siccità
Isbn
Gareth una mattina si
accorge che una delle sue
vacche è scomparse. Si
mette alla ricerca e metro dopo metro il giorno
volge al termine. Presto
la sua giornata diventa
un lungo bilancio, una
presa di coscienza della
siccità che ha asciugato
le radici dei suoi affetti
familiari: la moglie secca,
che non riesce a scendere
dal letto, sua figlia piccola lasciata sola ad accudire le bestie. Gareth non sa ancora che alcuni
dei pensieri che non ha il coraggio di confessarsi prenderanno presto la forma di una tragedia
senza possibilità di riscatto. La lunga siccità è il
dolcissimo, commovente romanzo della solitudine, dell’ineluttabilità del dolore, della consapevolezza del senso della natura, scritto con uno
stile e una sensibilità verso ciò che (non) vedono
i nostri occhi che fa pensare ai migliori racconti
di Breece D’J Pancake.
ERRI DE LUCA
Il giorno prima della felicità
Feltrinelli
Don Gaetano è un tuttofare in un grande caseggiato della Napoli
degli anni cinquanta:
elettricista,
muratore, portiere. Da lui va
a bottega un giovane
chiamato “Smilzo”, un
orfano dalle passioni
silenziose.
Don Gaetano sa leggere nel pensiero della
gente e lo Smilzo lo sa,
sa che nel buio o nel
fuoco dei suoi sentimenti ci sono idee ed emozioni che arrivano nette
alla mente del suo maestro e compagno. Lo Smilzo impara con Don Gaetano a non aver paura
dei compagni, dei muri alti, delle grondaie, delle
finestre. Lo smilzo continua a guardare a una finestra in particolare, quella in cui, gli è apparso
un giorno il fantasma femminile. Un fantasma
che tornerà a sfidare la memoria dei sensi, a
postulare un amore impossibile. Lo Smilzo cresce attraverso i racconti di Don Gaetano, cresce
nella memoria di una Napoli che si ribella alla
sua stessa indolenza morale. Lo Smilzo impara
che l’esistenza è rito, carne, sfida, sangue. È così
che l’anziano e il giovane si dividono il desiderio
sessuale di una vedova, è così che l’uomo passa al giovane la lama con cui difendere l’onore,
è così che la prova del sangue apre la strada a
una nuova fuga che durerà il tempo necessario
a essere uomo. Con il suo stile inconfondibile De
Luca ci racconta il rapporto tra un maestro e il
suo allievo, con la sua sensibilità verso tutto ciò
che è umano, verso la poesia che solo una città
come Napoli è capace di trasmettere.
FRED VARGAS
Un luogo incerto
Einaudi
Dopo appena venti giorni
dall’uscita in libreria, il
nuovo libro della signora
del giallo francese è già in
vetta alla classifica dei libri più venduti. Non ci stupisce e nemmeno ci dispiace. Meglio Fred Vargas di
tante altre cose dopo tutto.
Non sarà l’ultima frontiera del noir più arrabbiato
e sorprendente, ma i suoi
personaggi, Adamsberg su
tutti, il suo modo di costruire le storie e dipanare gli intrecci, il suo humour,
la sua cultura (Fred Vargas è lo pseudonimo di
Frédérique Audouin-Rouzeau, archeozoologa e
medievalista), la sua capacità di creare dialoghi
succulentie strepitosi, fanno dei suoi libri un
piacevole passatempo e un diversivo intelligente. Certo, non ti fa incazzare, non ti fa venire voglia di spaccare tutto, non ti stringe l’epigastrio,
non ti muove emozioni e sensazioni sepolte, ma
non si può avere tutto dalla vita.
In questo Un luogo incerto il nostro amico Adamsberg, in compagnia del suo inseparabile Danglard si trova in Inghilterra per una riunione
della Grande Europa poliziesca per armonizzare i flussi migratori tra ventitré Paesi. Ma
il ritrovamento di diciassette scarpe spinge il
commissario a percorrere un’altra Europa che
da Londra, attraverso i dintorni dell’Hauts-deSeine e la Serbia, lo porterà alla tomba di Peter
Plogojowitz, riesumato nel 1725 col sospetto di
essere un vampiro. Ed ecco che il commissario
Adamsberg si ritrova a dover fare i conti niente
meno che con il mito del vampiro. E con un passato come sempre troppo ingombrante.
Dario Goffredo
LIBRI 49
INTERMEZZI
EDITORE
Certo è che le case editrici spuntano come i funghi. Altrettanto vero è che per ogni fungo ci sono
almeno trenta aspiranti scrittori – scrivitori,
d’ora in poi – il che, secondo alcuni, crea un effetto allucinatorio nel mercato librario italiano. Il
punto è forse capire chi ha qualcosa da dire, che
sia una casa editrice o uno scrivitore, e chi no. E
come si fa? Internet può aiutare: la pagina “chi
siamo” sul sito di una casa editrice, ad esempio,
può rappresentare un inizio. Così, un po’ per curiosità un po’ per il fatto che abbiano tra le loro
prime uscite un horror di Marco Candida, m’è
venuto di chiedere due o tre cose a Chiara Fattori di Intermezzi Editore. Una casa editrice che,
leggo, si occupa di viaggi e di intermedialità: dal
viaggio classico, dunque, a quello rappresentato
dalla rete. Non poteva essere altrimenti, visto
che Intermezzi è nata appunto nell’epoca della
rete e lì abita tra blog e social network. Insomma,
da un viaggio all’altro, siamo di nuovo ai funghi
(e mi fermo qui, non sono mica Jim Morrison).
Detto da dottore in Comunicazione a dottori in Comunicazione e Lettere: cosa spinge dei giovanotti come voi ad aprire una
casa editrice in questo inizio secolo? Credo
che una casa editrice, proprio perché viene sommersa da manoscritti, debba anche
dare delle garanzie a un aspirante scrivitore (li chiamo così). In altri termini, qual
è la particolarità di Intermezzi Editore, ciò
che nessuna altra casa editrice può avere?
Ciò che ci ha spinti a fondare Intermezzi è stata la nostra passione comune per libri, cultura,
comunicazione, unita a una certa insofferenza
50 LIBRI
nei confronti dei lavori e dei contratti a progetto
che dopo la laurea ci venivano proposti. Abbiamo
pensato che fosse il momento giusto per provare
a fare qualcosa di nostro, abbiamo pensato che
potevamo avere qualcosa da dire, che eravamo
abbastanza preparati, abbastanza capaci, abbastanza incoscienti per farlo. E l’abbiamo fatto.
Per quanto riguarda le garanzie, io credo che il
punto di vista vada ribaltato: non sono gli “scrivitori” (mi piace “scrivitori”) i nostri utenti, ma
i lettori. Con gli autori lavoriamo, stipuliamo i
contratti, li rispettiamo. È molto semplice e se
da entrambe le parti c’è trasparenza e serietà
non ci sono problemi. Con i lettori invece è diverso: loro vanno conquistati, non ci sono contratti,
niente li potrà mai legare a noi e ai nostri libri. Loro devono fidarsi. Loro hanno bisogno di
garanzie. E l’unica garanzia che possiamo dare
è la qualità. Scegliamo le cose che ci sembrano belle, quelle che a noi, per primi, piacerebbe veder pubblicate, e le realizziamo per loro.
Siamo una casa editrice dalla parte dei lettori, insomma, ma non so se questa può essere una particolarità, una cosa che nessuna altra casa editrice può avere, anzi forse è una cosa che tutte “dovrebbero” avere.
La domanda di prima parte dal luogo comune che in Italia ci siano più scrivitori
che lettori. Io non credo che sia così. Ma
credo anche che, come per un disco o un
film, ci sia anche bisogno di responsabilità:
non tutto ciò che si scrive può necessariamente interessare gli altri. Forse si scambia il bisogno di comunicare con la scrittu-
ra vera e propria? (e soprattutto, chi decide
cosa interessa e cosa no? mi sto perdendo!)
Sicuramente non tutto può essere pubblicato,
non tutto può interessare. Decidono gli editori, ovviamente, responsabilmente e coscienziosamente, ma anche i lettori: se una cosa
non piace, non vende, non la si pubblica più.
È la legge della domanda e dell’offerta, insomma. Nemmeno io credo al luogo comune. Però
gli “scrivitori” sono davvero davvero tanti…
Di conseguenza: cosa pensate dell’autoproduzione in ambito librario (ilmiolibro.it,
lulu)? Io non so che pensare. Di certo potrebbe
tagliare le gambe all’editoria a pagamento.
Io penso che sia un’ottima cosa. È giusto che se
uno ha scritto un romanzo, un racconto, una poesia, un saggio o un testo qualsiasi che per lui è
importante, là dove non trova un editore, o mentre lo sta cercando, provi a raggiungere i lettori
per altre vie. La rete ci offre libertà di espressione e facilità di opportunità. Non vedo perché
non sfruttarle. Se questo poi taglierà davvero
le gambe all’editoria a pagamento tanto meglio.
Intermezzi, come suggerisce il nome, si
pone il problema dell’ibridazione, dello
scambio, del viaggio, e dell’intermedialità:
in cosa si tradurrà soprattutto quest’ultima
caratteristica? (un’anticipazione, insomma)
Intanto si sta traducendo in un continuo scambio
con la rete. I nostri libri, i nostri contatti, noi viviamo nella rete, praticamente. Questo per ovvie
ragioni: una casa editrice appena nata non ha la
forza, la possibilità, le risorse per vivere offline. I
canali di distribuzione, i media, sono difficilmente utilizzabili e raggiungibili per chi muove i primi passi. A parte i momenti delle presentazioni,
degli eventi che creiamo, non ci sono altre opportunità per noi. Qualche anno fa non avremmo mai
nemmeno pensato di aprire una casa editrice,
probabilmente. O se l’avessimo fatto non avremmo mai ottenuto in così poco tempo la visibilità
che, se pur minima, abbiamo. Oltre al nostro sito
(www.intermezzieditore.it), al blog (www.intermezzieditore.it/blog) e a vari social network in
cui siamo presenti e attivi, abbiamo da un mese
aperto il sito WebSite Horror (www.websitehorror.com), un portale di racconti horror curato da
Marco Candida, con l’idea di invitare gli autori
a cimentarsi in questo genere, così particolare
e spesso snobbato. Per adesso l’idea è stata ben
accolta e speriamo che possa avere un seguito.
Marco Montanaro
www.malesangue.wordpress.com
CHIUSA LA PRIMA FASE
DEL PREMIO “IL CENTRO
DEL DISCORSO”
Un’altra tappa del viaggio verso il centro del
discorso si è conclusa. Sabato 14 e domenica
15 marzo si è riunita a Roma, presso il Centro
Sperimentale Culturale RialtoSantAmbrogio, la
giuria della prima edizione del Premio nazionale di Drammaturgia Contemporanea “Il Centro
del Discorso” per selezionare i testi vincitori del
bando.
La giuria ha dichiarato vincitori della prima
fase del Premio, per la categoria under 26: Gli
Illuminati di Vittoria Tambasco; H di Rossella
Placuzzi, Ilaria Faletto, Carlotta Scioldo; per la
categoria over 26: Ricordati di ricordare, cosa?
Shoa di Valentina Diana; ed ex aequo tra loro,
Ente Conni di Erik Sogno e I Soccombenti di Paolo Musìo.
I vincitori riceveranno un contributo economico
per portare a termine il lavoro di scrittura.
Successivamente al completamento dei progetti
selezionati, verrà proclamato il testo vincitore,
che sarà presentato attraverso letture sceniche
o prove di studio e di perfezionamento in alcuni
circuiti e festival di teatro sul territorio nazionale. Il vincitore potrà inoltre usufruire di un
periodo di residenza finalizzato alla produzione
dello spettacolo, presso le Manifatture Knos di
Lecce, dove sarà presentato in anteprima durante la prima edizione di un Festival di Teatro e
Drammaturgia Contemporanei che si svolgerà
in autunno. Secondo gli ideatori Lea Barletti e
Werner Waas, dell’associazione Induma Teatro, “Il Centro del Discorso vuole contribuire a
rivitalizzare l’attività teatrale pugliese facendo
crescere il discorso culturale in una prospettiva
non localistica ma di apertura e riflessione sulla capacità di dialogare. Vogliamo che il Salento
sia motore di una rinascita a livello nazionale
dell’arte drammaturgica e culla di un nuovo ruolo del teatro nella comunità di cui è specchio ed
espressione. L’idea che in teatro si manifesti il
mondo in cui viviamo, e che questa manifestazione abbia la forza di modificare la percezione
della realtà e generare pensiero, ha fatto nascere un’occasione in cui l’arte scenica e la parola
drammatica possano riflettere sui tempi odierni,
sulla nostra vita di artisti e uomini, oggi. Vogliamo che il Salento, partendo dalla periferia, si
faccia centro propulsore di una rinascita a livello
nazionale dell’arte drammaturgica, per giungere, finalmente, al centro del discorso”.
CINEMA TEATRO ARTE
IO NEL RUOLO
DI DONNA
Intervista a Margherita Buy
Nel corso della sua lunga carriera Margherita
Buy ha lavorato con alcuni dei migliori registi
italiani, tra cui Moretti, Tornatore, Faenza ed
Ozpetek. Ma è con Sergio Rubini, suo ex marito e
“barese” di Grumo Appula, che la Buy ha scoperto il Salento e la Puglia, una terra ricca di suggestioni che a suo dire l’ha segnata profondamente.
La decima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce ha dedicato all’attrice romana
una retrospettiva con la proiezione di alcuni dei
suoi film più conosciuti.
Nel corso del Festival è intervenuta anche alla
presentazione del libro Margherita Buy. Immagine di donna, scritto dal critico cinematografico tarantino Massimo Causo per Besa editore.
Adesso è nelle sale nei panni della talentuosa
pianista Gabriella in Due partite, commedia
agrodolce di Enzo Monteleone tratta dall’omonimo lavoro teatrale di Cristina Comencini.
Hai frequentato l’Accademia di Arte drammatica a Roma. Poi la tua carriera dal teatro è migrata al cinema. Una scelta di vita?
Fare del teatro richiede numerosi sacrifici, è
molto faticoso e scomodo, per questo ammiro tantissimo chi lo fa in maniera stabile. Non
fraintendermi lo amo molto il teatro e di alcuni
lavori conservo bellissimi ricordi. C’è un clima
inconfondibile e familiare. Se dovessi scegliere
però preferirei il cinema.
Il tuo rapporto con la Puglia però nasce
proprio a teatro.
Direi di si, dal momento negli anni dell’accademia ho conosciuto Sergio (Rubini, ndr) con cui
poi ho lavorato, anche in Puglia. Ho avuto modo
di conoscere, attraverso la sua guida, alcune delle caratteristiche peculiari di una terra che amo
moltissimo e nella quale torno sempre con piacere. Se dovessero ripropormi di lavorarci non
avrei esitazioni.
Molti tuoi ruoli femminili sono rimasti
nell’immaginario collettivo. In questi giorni sei nei cinema con un altro ruolo di spessore, Gabriella, pianista che decide di mettere da parte il suo talento per amore del
marito e della famiglia. Come donna cosa
ne pensi di una scelta del genere?
È possibile che di quei tempi forse non sia rimasto nulla e che oggi una scelta del genere sarebbe
impraticabile o forse nemmeno sentita. Probabilmente anche Gabriella, come molte donne di allora, sarebbe stata una grande pianista, ma non
aver assecondato i suoi sogni l’ha messa in una
situazione di forte insicurezza e di dipendenza
dal marito. Credo che chi vedrà il film non potrà
non riflettere su questo. Non bisogna però mai
sottovalutare quello che un essere umano sarebbe capace di fare quando è innamorato. A volte le
scelte, quando sono dettate dall’amore, sono del
tutto irrazionali. Per quanto riguarda il ruolo,
è stato entusiasmate, ma anche duro interpretarlo, soprattutto per un salto che mi ha portata
indietro negli anni ‘60.
Per rimanere in tema Due partite, prima
che un film è stata un commedia teatrale,
che tu stessa hai interpretato. Quali sono
state le diversità del ruolo tra camera e palcoscenico?
Quello del film era un progetto di cui si era sempre parlato con Cristina Comencini, ma che poi
lei ha abbandonato per affidarlo a Enzo Monteleone. Non ero quindi del tutto impreparata a
dover adattare lo stesso personaggio al grande
schermo. Più che sulla diversità di cinema e teatro, ho cercato di concentrarmi sul rapporto con
il regista, in questo caso un uomo, circondato da
otto donne e da un universo femminile che spesso ai maschi sfugge. Enzo si rivelato del tutto
all’altezza della situazione.
Un’ultima valutazione, di carattere sociale
più che professionale. La totalità del cast
di Due partite è composto da donne, tra cui
nomi eccellenti come te, Alba Rohrwacher,
Isabella Ferrari e Paola Cortellesi. Troppe
prime donne per lo stesso set?
È stata un’esperienza originale, anche se a dire
il vero avevo già lavorato con molte donne nello
stesso cast. Non ci sono state difficoltà, anzi si è
creato un clima di intesa che solo tra donne può
nascere, qualcosa di particolare e molto intimo.
Insomma, un’esperienza da rifare.
C. Michele Pierri
cinema teatro arte 53
DIECI ANNI DI
CINEMA EUROPEO
La X Edizione del Festival del Cinema Europeo,
diretto da Alberto La Monica e Cristina Soldano,
che si è tenuto a Lecce dal 31 aprile al 5 aprile,
si è chiusa con un buon successo di pubblico.
La manifestazione quest’anno ha visto come
protagonisti del cinema Europeo: Costantin
Costa Gavras, Margherita Buy, Ferzan
Ozpetek, Raoul Bova (acclamato da centinaia
di fan), Mimmo Calopresti, Monica Guerritore,
Simonetta Solder, Riccardo Scamarcio, Nico
Cirasola (che ha presentato il suo nuovo film
Focaccia Blues), Tonino Zangardi, Adriano
Giannini, Andrea Osvart, Fulvio Lucisano, Sonia
Bergamasco, Fabrizio Gifuni, Giuseppe Piccioni.
La giuria internazionale, composta da Eva
Zaoralova (direttrice del festival Karlovy Vary),
Carlo di Carlo (regista e storico del cinema),
Carlos Hugo Aztarain (direttore di riviste,
attore), Dunja Klemenc (produttrice), Philip
54
Bergson (critico, sceneggiatore ed attore) ha
premiato con l’Ulivo d’oro per il Miglior Film
Kino Lika del croato Dalibor Matanic. Il Premio
per la Migliore Cinematografia è andato a
Tranquility dell’Ungherese Robert Alfoldi.
“Con sicuro mestiere e con una solida struttura,
riesce a raccontare con efficacia una storia
di solitudine e di disperazione di una piccola
comunità di un villaggio di montagna”, recita la
motivazione.
Altri premi per La belle personne di Christophe
Honorè (sceneggiatura), For a moment freedom
di Arash T. Riahi (premio speciale della giuria),
Mukha del regista russo Vladimir Kott (Premio
giuria Fipresci), Sonderbehandlung di Carlo
Michele Schirinzi (Puglia Show), “Per la ricerca
espressiva che rielabora materiali di repertorio
in un immaginario personale”.
GIUSEPPE PICCIONI
Giulia non esce la sera
Guido (Valerio Mastandrea) sa poco del mondo
e poco anche dei libri ma
fa lo scrittore e ha successo. Non parla francese, non ha letto Kafka,
non sa tener testa ai
giornalisti, si è solo messo a scrivere, ritrovandosi tra i finalisti di un prestigioso premio letterario. Le storie banali e irritanti che abbozza ribadiscono che la vita, dentro e fuori dai libri, è solo
vita, senza evidenti attributi estetici o morali,
materiale incompleto sia per il dramma che per
la commedia. Poi arriva Giulia (Valeria Golino),
con la sua tara dal passato espressa nel misterioso divieto di uscire la sera. I due s’incontrano,
s’innamorano, ma una logica fredda e coerente li
schiaccia sul proprio destino impedendo all’amore di operare trasformazioni. Giulia è trascinata
al fondo da una sofferenza “oggettiva”, mentre
Guido resta schiavo di una malattia immaginaria che si chiama insoddisfazione. Continuerà a
disprezzare il mondo letterario e a farne parte,
a ricevere complimenti da chi non ha letto i suoi
libri, si chiederà perché scrive e perché piace alla
gente, senza trovare risposte e senza smettere
di accumulare domande. La pellicola di Piccioni
risulta grigia, gravata da un senso di ovvietà che
risucchia personaggi rassegnati e segretamente
compiaciuti di un ruolo da vittima che li solleva
dalla responsabilità del cambiamento.
Francesca Maruccia
CLINT EASTWOOD
Gran Torino
Walt Kowalski trascorre
le sue giornate facendo
qualche lavoretto in casa
e sorseggiando birra in veranda sotto il tiepido sole
del Midwest, in compagnia
della sua fedele cagnetta,
l’unica rimastagli accanto
dopo la morte dell’amata
moglie. Il volto emaciato,
segnato dalle violenze e
dai ricordi della guerra in
Corea, lascia trasparire il
suo carattere scontroso ed irascibile, incapace di
dimostrare affetto ai suoi due figli che sembrano
preoccupati solo di mettere le mani sulla vecchia
casa e sulla Gran Torino. Questa automobile
costruita negli anni settanta dalla Ford, diviene motivo di incontro fra l’anziano patriota ed il
suo vicino di casa, un giovane di etnia Hmong.
Da quel momento la vita del rude Kowalski si
intreccia con quelle di Thao e di sua sorella Sue,
intraprendente e spigliata ragazza che introduce
lo scorbutico vicino nella cultura Hmong.
I preconcetti razziali del protagonista si scontrano con il cambiamento dei tempi. Quello che era
un quartiere operaio in cui gli abitanti erano per
lo più dipendenti della limitrofa azienda Ford di
Detroit, con gli anni e con la conseguente crisi
economica che ha travolto il settore automobilistico, si è trasformato in una zona in cui vige la
violenza delle gang cinesi, messicane, ed afroamericane. Uno stravolgimento sociale che però
aiuta Kowalski a mutare la belligeranza iniziale
verso gli estranei, i musi gialli, in un inaspettato
sentimento di affetto e di amicizia.
Il protagonista di Gran Torino ricorda le precedenti interpretazioni di Clint Eastwood. L’intrattabile patriota sembra muoversi nell’ombra
del testardo allenatore di Million Dollar Baby.
Entrambi vedovi, combattuti nella loro fede cattolica, instaurano con la disagiata e promettente
pugile e con il timido ed impacciato Thao, quel
legame paterno che mai erano stati in grado di
avere con i rispettivi figli.
In questa nuova pellicola, però, si assiste ad una
lenta mimesi fra il vecchio ed il bambino, l’insegnante e l’allievo. Il regista insiste su stacchi
di inquadratura che ritraggono Thao che lavora
sotto la pioggia, nel fango del giardino, ed il vecchio che lo osserva sotto la veranda. Un processo
di identificazione fra la sofferta esperienza vissuta in trincea ed il difficile percorso di crescita
del giovane asiatico.
Eastwood mescola diversi generi in questo film,
un western urbano che strizza l’occhio ai buoni
sentimenti, senza tralasciare l’aspetto comico (i
tentativi di trasformare il giovane Hmong in un
vero uomo, si esauriscono in grotteschi dialoghi
fra il ragazzo ed un barbiere italiano). Un ottimo
prodotto filmico, caratterizzato da una narrazione lineare che ha il pregio di aprire una finestra
sugli stravolgimenti socio culturali della provincia americana. Un’altra stella nella filmografia
dell’intramontabile attore e regista californiano.
Roberto Conturso
cinema teatro arte 55
MOMART
Ad Adelfia una nuova casa delle arti
La mia maestra delle elementari diceva che l’essere delle cose è nel loro nome. Mi sono ricordata
di questo suo insegnamento quando ho cominciato a leggere del progetto Momart, per scoprire
che l’acronimo si scioglie in Motore Meridiano
delle Arti. Parola ambivalente questa Momart,
che si compone di più pezzi: Moma è il primo,
è il nome di una discoteca particolarmente nota
nella mappa del divertimento notturno pugliese.
Nell’ottobre 2007 la discoteca è sequestrata a seguito di un’operazione coordinata dalla direzione
distrettuale antimafia di Bari. Ed è qui che la
parola comincia a diventare equivoca. Al primo
pezzo si aggiunge il secondo, Art, e diventa MOMart, se ne trasforma il senso. Perché il sequestro del Moma rappresenta un nuovo inizio nella
legislazione dei beni sequestrati ma non ancora
confiscati alla mafia; perché da lì comincia un
56 cinema teatro arte
nuovo modo di concepire la responsabilità dei
progetti culturali; perché da lì si scommette, con
responsabilità e concretezza, sulle potenzialità
di sviluppo civile e culturale del territorio.
Il progetto Momart nasce dalla collaborazione
tra il Teatro Kismet di Bari e l’Associazione
Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le
mafie, fondandosi sul desiderio comune di fare
di questo spazio riconquistato il simbolo di una
nuova politica e di una società civile che ripudia
l’illegalità in tutte le sue forme, e che ambisce
a sostenere, e a mettere in rete, gli organismi
dell’ impresa culturale locale e nazionale, nella
certezza che la cultura agisce come veicolo di informazione e sensibilizzazione su tematiche di
rilevanza sociale.
Dopo la firma di un protocollo di intesa, con il
quale si affida ai due organismi la gestione
dell’ex discoteca di Adelfia, comincia un impegnativo periodo di monitoraggio volto al confronto con gli operatori e le tante associazioni
pugliesi che lavorano nel campo della creatività.
Ad ottobre del 2008 Momart fa il suo ingresso
in società: lo slogan Momart mette in moto il
cambiamento segna la partecipazione alla prima
iniziativa pubblica, segnata da un forte spirito
di condivisione, partecipazione, voglia di creare
una rete di relazioni tra le varie realtà locali, sufficientemente forte per sostenere ed alimentare
il motore meridiano della arti.
Non a caso Momart, in accordo con il programma della Regione Puglia Bollenti Spiriti, elabora
forme di sostegno e interazione con le realtà giovanili del territorio, il sistema della produzione
nazionale e la rete internazionale della cooperazione artistica.
Tre sono le declinazioni della parola Momart:
Moma live, uno spazio performativo in cui proporre serate live dedicate a musica, letteratura
e arti visive;
-Momart – motore della creatività giovanile, un
luogo dedicato alla produzione, alla formazione
e all’inserimento lavorativo degli artisti del territorio, da sviluppare attraverso formule quali
bandi, corsi di formazione, festival, seminari internazionali per la creazione di reti tra giovani
creativi;
Moma hub, un motore delle relazioni e della cooperazione internazionale, il cui compito sarà
quello di generare relazioni a tutti i livelli per
realizzare da un lato progetti di cooperazione
artistica internazionale, dall’altro relazioni di
stage con reti specializzate nel settore.
La prima formula operativa di MOMArt, con
la quale si aprono ufficialmente gli spazi della
struttura riguadagnata alla legalità, è quella dei
“Cantieri”, e il primo a partire è quello musicale
del progetto “Hub – networking per le attività
creative”. Nei prossimi mesi, seguiranno gli altri.
Se è vero, come diceva la mia maestra, che la
parola è il significato, appare chiaro che il senso
profondo del progetto MOMArt è quello di essere centro e riferimento di coordinamento fra le
numerosissime realtà creative della regione. Del
resto, come tutti i neologismi, che si presentano
più di frequente in culture che stanno cambiando rapidamente, anche MOMARt sorge in una
situazione culturale, quale è quella pugliese,
caratterizzata da una rapida diffusione dell’informazione e da un dinamismo, una spinta, che
lascia ben sperare noi “fannulloni” creativi delle
giovani generazioni.
Michela Contini
( A + B)³
Storia di un amore al Teatro
Kismet di Bari
Sul palco a e b, due amanti, un uomo e una donna qualsiasi, in un cubo, una struttura essenziale, fatta di legno e pannelli di stoffa.
I due vivono e raccontano la loro storia semplice,
uguale a tante altre: l’amore e la quotidianità, in
un susseguirsi di cene, bicchieri di vino, sigarette e promesse, sono bruscamente sostituiti dalla
guerra e dai suoi ritmi, che scandiscono la separazione, la distanza e la solitudine. Tutto si fonde in un racconto senza parole, agito all’interno e
attraverso la semplice cornice che è il cubo fatto
di legno e pannelli di stoffa. Pannelli che, da pareti, di volta in volta si trasformano in schermi
per videoproiezioni, o in teli per il teatro delle
ombre, giocando con le figure create attraverso
sagome e il proprio corpo. Ogni tecnica è svelata, costruita davanti agli occhi degli spettatori: i
due performer sono dentro e fuori lo spettacolo,
protagonisti e narratori, contemporaneamente
attori del qui e ora teatrali e latori di un messaggio universale, slacciato dal tempo e dallo spazio.
Si tratta di una narrazione teatrale attraverso
un linguaggio ricco di modalità espressive e stimoli, denso ma mai fine a sé stesso, come invece
è ormai buona parte del teatro di sperimentazione. Ogni ombra proiettata, ogni frenetico gioco di
luce, ogni intervento filmico, che danno allo spettacolo un impatto visivo straordinario, non rappresentano una sterile sperimentazione, ma una
struttura drammaturgica coerente e visionaria.
Il gruppo Muta Imago, nato a Roma nel 2004,
concentra la propria attività proprio sulla creazione di drammaturgie originali, sull’aspetto
visivo e sulla ricerca di nuovi linguaggi performativi.
Elisabetta Lapadula
57
58 EVENTI
EVENTI
DAL GIOVEDÌ ALLA DOMENICA
Appuntamenti alla Svolta di Lecce
Proseguono e si intensificano gli appuntamenti
della Svolta, un nuovo ristorante e jazz bar
di Lecce, che si presenta con una ricetta i cui
ingredienti principali sono la cucina semplice,
rispettosa dei cicli naturali degli alimenti, e la
musica jazz. Ogni giovedì serata “Casinò”, ogni
venerdì spazio alla rassegna “Svolta classic jazz
live”, serata all’insegna della purezza del Jazz e
della buona tavola, ogni sabato jam session. La
domenica infine (dalle 19.00) aperitivo a buffet
e musica dal vivo brasiliana. Info 329 8455974
– 3924300512
GIOVEDÌ 9
Bingo Bongo - Tributo ai Manonegra al Jack’n
Jill di Cutrofiano (Le)
Emanuele Pagliara e Tobia Lamare alla Città
del tempo di Lecce
Richard Sinclair alle Officine Cantelmo di Lecce
Dj Giovanni Ottini al Molly Malone di Lecce
It’s a musical ai Cantieri Koreja di Lecce
VENERDÌ 10
Withate vs Burning Seas all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
R’n’R 4 Jesus Party allo Skatafashow di Aradeo
(Le)
Una buona novella alle Officine Ergot di Lecce
Massimo Donno (voce e chitarra) e Luca
Barrotta (piano, fisarmonica, cori) propongono
un personalissimo tributo a Fabrizio De Andrè.
Nello spettacolo vengono riproposti tutti i brani
della “Buona Novella” rielaborati con sonorità
che spaziano dai suoni etnici del Mediterraneo,
fino a sonorità orientaleggianti, passando per le
suggestioni del valzer. Info 339.1200398
Open Mic al Molly Malone di Lecce
È un appuntamento fisso per tutti i musicisti
leccesi, armati di strumenti o semplicemente di
voglia di suonare ci si da appuntamento all’open
mic. Microfono aperto a chi si vuole esibire,
un cantautore, una band o semplicemente un
musicista in cerca di amici con cui suonare.
In un’atmosfera intima e rilassata è possibile
ascoltare canzoni inedite come grandi successi
della storia del rock.
Damien ai Sotterranei di Copertino (Le)
Mama Roots al Gabba Gabba di Taranto
Evolution Son Far alla Masseria Valente di
Crispiano (Ta)
The Snipplers allo Spazio Off di Trani (Ba)
SABATO 11
Amerigo Veradi e Marco Ancona live, dj set Tobia
Lamare presso le Officine Cantelmo di Lecce
QCK, dj Gopher e Soulfiero all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Matilda Mother alla Masseria Valente di
Crispiano (Ta)
The Hacienda al Gabba Gabba di Taranto
KEEP COOL V EDIZIONE
Torna Keep Cool, la rassegna organizzata da
CoolClub che questa’anno giunge alla sua quinta
edizione. Rock, punk, folk, noise, elettronica,
indie, lo-fi, beat: da aprile fino a giugno sette
concerti di musica indipendente.
Si parte giovedì 9 aprile con il concerto di
Richard (presso le Officine Cantelmo di Lecce),
il bassista e chitarrista inglese fondatore dei
Caravan, gruppo progressive della fine degli
anni ’60, uno dei principali protagonisti della
scena di Canterbury. Sinclair ha suonato nelle
più importanti formazioni della corrente di
Canterbury a partire dal 1964 tra cui The Wilde
Flowers, gli Hatfield and the North, i Camel e gli
In Cahoots oltre ai Caravan e ai Sinclair and the
South, gruppi da lui fondati.
Si prosegue sabato 18 aprile, sempre alle Officine
Cantelmo, con Aidan Smith, uno dei cantautori
più interessanti del new acoustic movement
inglese e paragonato addirittura a Badly Drawn
Boy. Aidan Smith, è capace di comporre leggere
filastrocche per semplici accordi di piano e basso,
testi brillanti e irriverenti che snocciolano finti
rimpianti con un sorriso sornione, condite da
quella forza sottile che trasforma un innocuo
numero lo-fi in una canzone piena, riuscita,
completa. A maggio e giugno Keep Cool ospiterà
Piers Faccini (9 maggio), The Phonems & Forest
City Lovers (13 maggio), Casador e Tecnosospiri
(23 maggio), Ulan Bator (30 maggio), Orange (13
giugno). Info: 0832303707; [email protected]
Foggy, Mad Kid & Fidoguido al Villanova di
Taranto
Le Single Blanc, Ada Nuki, Bogong in action
e Matilda Mother alla Masseria Valente di
Crispiano (Ta)
Serata Punk al Cloro Rosso di Taranto
Almamegretta al Cube di Bari
DOMENICA 12
Fitness Forever e Giorgio Tuma all’Istanbul Cafè
di Lecce
Il cantautore salentino e la band napoletana
scritturati dalla spagnola Elefant Records,
una delle più importanti etichette al mondo di
eventi 59
indie pop si esibiscono in questo speciale live
che arriva come una bella sorpresa pasquale.
Giorgio Tuma aprirà la serata per presentare in
esclusiva il nuovo “My Vocalese Fun Fair”, un
disco dalle mille coloriture in cui il tropicalismo
brasileiro incontra le armonie ariose di Burt
Bacharach, passando per l’indie intellettuale di
Stereolab e Belle & Sebastian. I Fitness Forever,
creatura POP di Carlos Valderrama, arrivano
da Napoli con il loro “Personal Train”, un disco
italianissimo, fatto di melodie sentimentali e
grandi arrangiamenti orchestrali.
Modena City Ramblers ad Acaya (Le)
Ada Nuki ad Alessano (Le)
Frontiera al Gabba Gabba di Taranto
Tributo a Fabrizio De Andrè al Cloro Rosso di
Taranto
LUNEDÌ 13
Pasquetta al Parco Gondar di Gallipoli (LE)
Inaugurazione delle nuova stagione del Parco
con un evento lungo 15 ore con 14 set differenti e
circa 50 artisti tra i quali Boosta, Salento Show
Case, Roy Paci, Apres la Classe,Code Fish e
Tuna, Villa Ada Sound, Groove Department, Boo
Boo Vibration, Dario Lotti, Kill Jim, Ecodek.(Le)
Yes we rock a Villa Concamarco a Vanze (Le)
Torna la pasquetta di Villa Concamarco
all’insegna del Rock and Roll. Una lunga giornata,
una maratona di concerti e dj set. A partire dalle
12:00 sul palco live si avvicenderanno Flavio
Jordan for Elvis, Psycho Sun, Spread your Legs,
Amerigo Verardi & Marco Ancona, Lola and
the Lovers, Bubble Bullet. La consolle invece
sarà animata dai dj Postman Ultrachic, Tobia
Lamare, Ballarock, jack Rosella, Tony Rucola,
Valeriana e tanti altri. Tutto questo e ancora:
video installazioni, angolo barbeque, animazione
per bambini e pranzo su prenotazione.
MARTEDÌ 14
Le Jam Del Birdland al Felix di Trepuzzi (Le)
Appuntamento con la rassegna coordinata e
diretta da Marco Bardoscia e Raffaele Casarano,
giunta alla sua terza edizione, è ormai una
tradizione per i cultori e gli amanti della più
moderna e affascinante musica popolare: il
60 EVENTI
jazz. Il progetto “Le jam del Birdland”, cerca
all’interno della classica jam session, una sorta
di laboratorio sulle interpretazioni dei classici
standard del jazz e sull’improvvisazioni con
il supporto di una ritmica di base (pianoforte,
batteria, contrabbasso) dal vivo, invitando
chiunque abbia voglia di suonare il jazz ad
avvicinarsi con il supporto tecnico di musicisti
competenti nel campo.
GIOVEDÌ 16
Serpentine al Molly Malone di Lecce
Carìon all’Auditorium Vallisa di Bari
VENERDÌ 17
Alessandra Celletti
al Conservatorio “Tito
Schipa” e al teatro Paisiello di Lecce
Blu Cianfano Jazz & Blues Jazz Trio al Kalì di
Melpignano (LE)
Samuel Katarro alla Saletta della Cultura di
Novoli (LE)
Progetto solista di Alberto Mariotti avviato
nel Maggio 2006, predilige la dimensione
acustica scarna ed essenziale e la povertà di
mezzi tecnici tipica dei primissimi bluesmen e
folksingers americani immersa in un’atmosfera
più nevrotica e schizofrenica propria del rock ed
in particolare di certa new wave americana degli
anni ’70. Nel Novembre 2008 è stato pubblicato
da Angle Records il suo album d’esordio Beach
Party co-prodotto e mixato da Marco Fasolo dei
Jennifer Gentle.
Silvered al Molly Malone di Lecce
Lost After Death e Waiting for better days al
Gabba Gabba di Taranto
SABATO 18
Inoki e Skizo all’Istanbul Cafè di Squinzano (LE)
Inoki nome d’arte di Fabiano Ballarin, rapper e
writer romano ma attivo sulla scena bolognese,
ha all’attivo numerosissime collaborazioni
prestigiose nel mondo hip-hop e ha realizzato
quattro album solisti. Dal 2006 fa parte della
scuderia Warner music e nel 2007 è stato eletto
dall’emittente televisiva Mtv “Scommessa MTV
dell’anno”. Bad Skizo Newz comincia la sua
avventura sui giradischi nell’84 fondando il
primo gruppo rap della storia italiana: i Radical
Stuff. Negli anni a seguire si consacra come uno
dei più grandi produttori Hip Hop nostrani e
dj di altissima qualità. Collabora con svariati
produttori a New York e produce in Italia gruppi
come Gente guasta, La Pina, Frankie Hinrg,
Alienarmy. Nel 96 si trasferisce in Australia
e collabora in produzione e tour con musicisti
come Torcha, Hijack, Thorn, DjSing, Dj Bonez,
facendo dell’Australia la sua seconda casa
artistica.
Superfreak all’Arci 37 di Giovinazzo (Ba)
The Ultra Twist al Gabba Gabba di Taranto
Burning Seas, Fomento e Rising Hate al Cloro
Rosso di Taranto
Moltheni allo Spazio Off di Trani
Gemboy allo Zenzero di Bari
Aidan Smith alle Officine Cantelmo di Lecce
DOMENICA 19
The Vicious Circles al Nordwind Discopub di
Bari
LUNEDÌ 20
Presentazione A.C.A.B di Carlo Bonini al Cloro
Rosso di Taranto
MARTEDÌ 21
Le Jam del Birdland al Felix di Trepuzzi (Le)
Mauro Pagani al Teatro Italia di Gallipoli (Le)
Moha e Vialka al Bohemien di Bari
MERCOLEDÌ 22 e GIOVEDÌ 23
Bascule ai Cantieri Koreja di Lecce
GIOVEDÌ 23
Spazio Live The Warlus + Mary Lame + Dj Set
Mr Moon e Dj Echoes al Jack’n Jill di Cutrofiano
(LE)
Lola & the lovers alla Città del Tempo di Lecce
VENERDÌ 24 E SABATO 25
Short Pieces ai Cantieri Koreja di Lecce
VENERDÌ 24
Lucia Manca al Kalì di Melpignano (LE)
Franco Morone alla Saletta della Cultura di
Novoli (LE)
Franco Morone è considerato il poeta italiano
della chitarra acustica. Le sue melodie, grazie
anche alle sue originali doti interpretative,
emozionano sin dal primo ascolto. In tutti i
suoi album, sia delle composizioni originali
che delle trascrizioni, i temi antichi e popolari
rivivono una seconda giovinezza. E questo
è ciò che maggiormente sorprende di questo
musicista. Per le sue ricerche e pubblicazioni in
campo didattico, Franco Morone è un punto di
riferimento per molti musicisti e appassionati che
frequentano i suoi seminari in Italia e all’estero.
Come chitarrista si esibisce regolarmente in
concerti in Europa, USA e Giappone, ed è
protagonista di prestigiose rassegne e festival
internazionali.
Trouble Vs Glues al Gabba Gabba di Taranto
Don Ciccio ft Gioman & Killacat al Cloro Rosso
di Taranto
SABATO 25
Soul Rebels al Parco Gondar di Gallipoli
Festa del 25 aprile - Villa Comunale - Zollino
Una grande manifestazione per una grande
giornata: sabato 25 aprile a Zollino presso gli
spazi della Villa Comunale l’ass. L’Ostro in
collaborazione con A.N.P.I., Comune, Pro Loco
e Centro Anziani di Zollino e con la consulenza
artistica di Dilinò organizza la festa del 25 aprile.
Uno spazio, nei pressi della villa comunale,
allestito in diverse aree per un grande evento
che abbraccia musica e letteratura con ospiti
importanti: si parte alle 19 con “Raccontare la
resistenza”, presentazione del libro “Zia, cos’è la
Resistenza?” di Tina Anselmi (Manni Editore)
con Antonio Errico (scrittore) e Maurizio Nocera
(Ass. Naz. Partigiani Italiani). A partire dalle
20 cena del 25 aprile con esibizione del gruppo
Tanto pe’ canta’. A partire dalle 21.30 sul palco
principale si dà il via alla musica live con i Nudo
al cubo trio atipico di musicisti ispirati alla scena
jazz norvegese e alle sonorità elettroniche. Si
prosegue con i Cosmica con il loro rock capace
di emozionare. A chiudere i live del main stage,
l’esibizione dei Crifiu, alle prese con il Rock in
Sud tour 2009, tour nazionale che sta toccando
i principali festival nazionali. In chiusura del
live, area dance hall finale con i Ghetto Child
Sound System_Roots & Culture, il suono della
notte salentina. Info: 328/8028846
Super Elastic Bubble Plastic allo Spazio Off di
Trani (Ba)
Avvolte al Gabba Gabba di Taranto
Foggy, Kalibandulu e Flag Sound al Villanova
di Taranto
Puglia Resistenza Hardcore alla Masseria
Valente di Crispiano (Ta)
Petrol e Cff al Cloro Rosso di Taranto
Aidan Smith e Runway al Circolo Arci 37 di
Giovinazzo (Ba)
Ascanio Celestini al Teatro Impero di Brindisi
Fabbrica di Ascanio Celestini nasce dopo due
anni di lavoro, di incontri, di dialoghi e una serie
di laboratori sparsi per l’Italia, per raccogliere la
memoria degli operai della prima metà del secolo
scorso. Un lavoro poderoso eseguito da un autore
straordinariamente eclettico, Ascanio Celestini,
che recita, racconta, scrive, canta e interpreta
antropologicamente il vissuto contemporaneo
in maniera dinamica e, certamente, non
cattedratica.
MARTEDÌ 28
Le Jam Del Birdland al Felix di Trepuzzi (Le)
Alexander de Large al Bohemien di Bari
GIOVEDÌ 30
Vascomania, tributo a Vasco Rossi al Jack’n Jill
di Cutrofiano (LE)
Polar for the masses allo Spazio Off di Trani (Ba)
Gerson al Gabba Gabba di Taranto
VENERDÌ 1 MAGGIO
Primo maggio a Kurumuny a Martano (Le)
Piccola Orchestra Apocrifa a San Cesario (Le)
SABATO 2
Polar for the masses ai Sotterranei di Copertino
(Le)
Asian Dub Foundation, Mascarimirì, Crifiu e
Insintesi all’Evening di Monteroni (Le)
Muffx all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)
Il gruppo stoner salentino presenta il nuovo
album: Small Obsessions. Una serata speciale
in cui saranno suonati i brani che compongono
il secondo lavoro in studio della band pubblicato
dall’etichetta Go down records e in distribuzione
in tutta Italia a partire dal 7 aprile.
GIOVEDÌ 7
Primo Tempo - tributo a Luciano Ligabue al
Jack’n Jill
VENERDÌ 8
Mariposa alla Saletta della Cultura di Novoli
SABATO 9
Piers Faccini alle Officine Cantelmo di Lecce
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Coolclub.it si trova in molti locali, librerie, negozi
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Libreria Apuliae, Ergot, Youm, Pick Up, Libreria
Icaro, Fondo Verri, Negra Tomasa, Road 66,
Shui bar, Cantieri Teatrali Koreja, Santa Cruz,
Molly Malone, La Movida, Biblioteca Provinciale
N. Bernardini, Museo Provinciale Sigismondo
Castromediano, Edicola Bla bla, Urp Lecce,
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Codacci Pisanelli, Sperimentale Tabacchi,
Palazzo Parlangeli, Buon Pastore, Ecotekne, La
Stecca, Bar Rosso e Nero, Pizzeria il Quadrifoglio,
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Calimera (Cinema Elio), Cutrofiano (Jack’n
Jill), Gallipoli (Libreria Cube), Maglie (Libreria
Europa, Music Empire, Suite 66), Melpignano
(Mediateca, Kalì), Corigliano D’Otranto (Kalos
Irtate), Otranto (Anima Mundi), Alessano
(Libreria Idrusa), Galatina (Palazzo della
Cultura), Nardò (Libreria i volatori), Leverano
(Enos), Novoli (Saletta della Cultura Gregorio
Vetrugno), Squinzano (Istanbul Cafè), Ugento
(Sinatra Hole), Brindisi (Libreria Camera a
Sud, Goldoni, Birdy Shop), Ceglie (Royal Oak),
Erchie (Bar Fellini), Torre Colimena (Pokame
pub), Oria (Talee), Bari (Taverna del Maltese,
Caffè Nero, Feltrinelli, Kismet teatro, New
Demodè, TimeZones), Taranto (Associazione
Start, Trax vinyl shop, Gabba Gabba, Biblioteca
Comunale P. Acclavio, Alì Phone’s
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