Il tumore tiroideo aumenta ma fa meno danni

PROGRESSI NELLA CLINICA
Dai geni alla cura
In questo articolo:
tiroide
farmaci biologici
firme molecolari
Il tumore
tiroideo
aumenta
ma fa meno
danni
Benché sia in crescita negli ultimi anni,
forse anche per una migliore capacità
diagnostica, il tumore della tiroide
provoca sempre meno vittime grazie
ai progressi ottenuti dalla ricerca
sulle caratteristiche molecolari delle
forme più aggressive e alla messa a punto
di nuovi farmaci intelligenti
a cura di
AGNESE CODIGNOLA
n’esplosione dei
casi, che ha portato i tumori
della tiroide a
crescere
in
modo esponenziale in tutti i
Paesi dove sono diffusi strumenti di diagnosi: negli ultimi 30 anni, solo negli Stati
Uniti i casi sono triplicati e
dati simili si sono registrati
un po’ ovunque.
In Italia la malattia colpi-
U
sce circa 16.000 persone ogni
anno, 12.000 delle quali
donne; tra queste, negli ultimi vent’anni tale patologia è
passata dalla quattordicesima alla quinta posizione
della classifica di incidenza
dei tumori e ogni anno fa registrare, in generale, un aumento che sfiora il dieci per
cento. Una situazione, insomma, che preoccupa e che
suscita nei ricercatori interrogativi sulle sue vere cause.
Per fortuna, però, mentre la
malattia cresce, anche la ricerca è in movimento dopo
anni di stasi, come dimostra
l’approvazione, per la prima
volta dal 1974, di un nuovo
farmaco per questa patologia. Inoltre molte altre nuove
cure, pur essendo ancora in
fase sperimentale, sembrano
promettere bene.
RARAMENTE PERICOLOSO
In realtà meno del dieci
per cento dei tumori diagnosticati rappresenta un vero
pericolo per la persona e la
sopravvivenza a dieci anni dalla diagnosi (si calcola a dieci
e non a cinque anni come per gli
altri tumori, proprio perché è
molto lunga) è superiore al 90
per cento. Una realtà complessa dunque, che deve essere ancora interpretata in tutte
le sue sfaccettature.
La prima questione da affrontare è l’aumento delle
diagnosi che, secondo molti,
è stato causato dal fatto che
tra ecografie, TC e risonanze
si è creato un cortocircuito
simile a quello esistente per
il tumore della prostata: gli
strumenti vedono ormai lesioni di pochi millimetri, ma
non forniscono alcuna spiegazione sulla loro natura. E
così si va avanti: test diagnostici, interventi di asportazione della ghiandola, terapie. Per poi scoprire che in
tre casi su quattro il tumore
non avrebbe mai costituito un
reale pericolo.
Secondo
altri esperti non tutto è spiegabile in questo modo, perché tra i nuovi casi ci sono
tumori già di grandi dimensioni: se il punto debole fosse
solo un eccesso di diagnosi
È curabile
nel 90 per cento
dei pazienti
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PROGRESSI NELLA CLINICA
Dai geni alla cura
precoci,
e quindi di lesioni molto piccole,
quelle grandi e avanzate sarebbero quasi scomparse.
Spiega Riccardo Vigneri, docente di endocrinologia e direttore della Scuola di specializzazione in endocrinologia dell'Università di Catania: “Sulle possibili cause ci
sono varie ipotesi. Una riguarda l’eccesso di esami
che prevedono l’uso di radiazioni nei bambini e nei
ragazzi, sottoposti troppo
spesso a TC e radiografie di
testa e collo
e del torace.
La tiroide è
infatti particolarmente
sensibile
alle radiazioni ionizzanti – non a caso
è il tumore più frequente
dopo le contaminazioni nucleari come Chernobyl – e
l’accumulo del danno si può
tradurre, nell’età adulta, in
una neoplasia”. Altri hanno
puntato il dito sulla carenza
di iodio, ma secondo Vigneri
questa ipotesi è debole, perché non si sono verificati
mutamenti rilevanti nell’assunzione di iodio nella po-
polazione
(anzi, il sale che
contiene iodio è oggi
usato da milioni di persone)
e tali da giustificare la tendenza.
INQUINANTI E
FERTILIZZANTI
Un fattore importante
potrebbe essere quello ambientale, su cui Vigneri sta
lavorando anche grazie a finanziamenti AIRC. Spiega
l’esperto: “I dati di incidenza
suggeriscono che gli inquinanti ambientali, in particolare i nitrati, usati per fertilizzare i terreni, abbiano un
ruolo non secondario nello
sviluppo dei tumori tiroidei.
Oltre a ciò vi
potrebbero
essere fonti
naturali di
inquinanti
pericolosi: si
registrano
infatti picchi del numero
dei casi in diverse zone del
mondo vicine a vulcani attivi quali la Nuova Caledonia,
l’Islanda e le Hawaii; in Sicilia, vicino a Catania, l’incidenza è quasi doppia rispetto al resto dell’isola. Stiamo
conducendo alcuni studi
per cercare di capire se c’è
qualcosa di specifico in ciò
che rilasciano i vulcani e, se
sì, di che cosa si tratta: pen-
La speranza
da un nuovo
farmaco nato
per il fegato
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siamo potrebbero essere alcuni
metalli pesanti, ma abbiamo
bisogno di conferme”.
UNA NUOVA INDICAZIONE
In attesa che si comprendano meglio le cause della
tendenza all’aumento, coloro che si sono ammalati
hanno da qualche mese una
speranza in più: il sorafenib,
già utilizzato nei tumori del
fegato e del rene e approvato di recente dalla Food and
Drug Administration per i
casi avanzati di cancro della
tiroide.
Il sorafenib è una piccola
molecola che inibisce alcune proteine fondamentali
per la vita della cellula tumorale, le tirosin-chinasi. La
sua efficacia è stata dimostrata in uno studio condotto dagli oncologi del Penn
Medicine's Abramson Cancer Center i cui risultati
sono stati presentati al meeting dell’American Society
for Clinical Oncology del
2013. In esso oltre 400 pazienti con un carcinoma
progressivo differenziato,
localmente ricorrente o metastatico, che non avevano
risposto al trattamento con
iodio radioattivo (la terapia
più comune, che distrugge il
tumore “dall’interno”), sono
stati trattati con il farmaco o
con un placebo. Il risultato è stato un
raddoppio dei tempi di evoluzione della malattia (calcolata sulla base dei mesi liberi da progressione), passati da 5,8 a 10,8 mesi. Poiché
la molecola è già in uso per
altre indicazioni, la sicurezza della terapia è stata quella attesa e l’ente americano
ha acconsentito all’estensione anche alla tiroide.
“Oltre a questo, molti
altri farmaci cosiddetti intelligenti sono al momento
in fase di sperimentazione”
spiega Vigneri, “ma saranno
necessari ancora molti
studi, perché non è del tutto
chiaro il quadro delle mutazioni genetiche che intervengono nelle diverse
forme. Alcuni farmaci, comunque, sono già a disposizione nei centri oncologici
anche in Italia”.
LA FIRMA MOLECOLARE
“L’approccio basato sull’analisi genetica potrebbe
quindi aiutare molto la diagnosi e i trattamenti del tumore della tiroide” spiega
Massimo Santoro, docente
di patologia generale all’Università di Napoli e membro del Comitato tecnico
scientifico di AIRC.
“Per esempio, nei carcinomi
papilliferi, il tipo più comune di tumore maligno della
ghiandola, vi sono spesso
dei riarrangiamenti dei cromosomi. Quando non ci
sono, cioè circa nel 45 per
cento dei casi, vi sono mutazioni del gene BRAF, che si
riscontrano anche in una
frazione (20-30 per cento) di
carcinomi anaplastici della
tiroide, la forma più aggressiva. Vi sono poi mutazioni
a carico di diverse proteine
oncogeniche come RAS e
RET. Scoprire tutto ciò ci ha
permesso di avviare sperimentazioni cliniche con farmaci inibitori di RET e
BRAF che hanno dato risultati molto promettenti,
anche se compaiono fenomeni di resistenza. I prossimi obiettivi da raggiungere
comprendono quindi, accanto al perfezionamento
delle conoscenze sui geni
coinvolti nei carcinomi tiroidei, anche la scoperta di
nuovi farmaci in grado di
superare i meccanismi di resistenza”.
Negli ultimi mesi sono
stati resi noti due studi: nel
primo, presentato al meeting annuale della Società
americana di endocrinologia, gli oncologi della Pontificia Università di Santiago del Cile hanno presentato i dati relativi all’analisi
di dieci geni che costituiscono la firma genetica del
tumore. Il test ha fornito risposte esatte nel 96 per
cento dei 300 pazienti coinvolti e si è rivelato in grado
di distinguere tra noduli
benigni e maligni, consentendo di evitare interventi
e terapie inutili.
Nel secondo, pubblicato
su Cancer, la firma genetica
è costituita dai microRNA,
frammenti di RNA prodotti
dal tumore e presenti nel
sangue. In questo caso gli
autori, oncologi dell’Università di Sidney, in Australia,
hanno dimostrato che il livello di due di questi frammenti, chiamati mRNA 222
e 146b, è circa dieci volte
più alto rispetto ai controlli
nelle persone con un tumore papillifero e con una patologia benigna come il
gozzo. Hanno poi visto che,
dopo l’asportazione del tumore, il loro livello si abbassa drasticamente, ma non in
tutti i malati: coloro che
sono più a rischio di recidiva e hanno una neoplasia
più aggressiva continuano
ad avere alte concentrazioni
di mRNA 222 e 146b. Il dosaggio di questi frammenti
potrebbe quindi diventare
un esame molto utile per coloro che si ammalano di carcinoma papillifero e per i
quali potrebbero essere impostate terapie personalizzate in base al rischio. Al
momento il dosaggio di questi microRNA è ancora sotto
osservazione, per verificare
come essi cambino nel
tempo nei malati operati.
STRATEGIE CONTRO LA RESISTENZA
PICCOLE E INTELLIGENTI
a speranza per i tumori tiroidei resistenti allo iodio
radioattivo viene ancora dal mondo delle cosiddette
“piccole molecole”, i farmaci intelligenti che hanno
modificato l’andamento di molti tumori. È infatti un
membro per ora sperimentale della categoria, chiamato
selumetinib, il primo farmaco in grado di far invertire la
tendenza dei tessuti tumorali a sviluppare una
resistenza alla captazione dello iodio. Lo studio sul
selumetinib è stato condotto dagli oncologi del
Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York,
prima su cellule e animali e poi su 20 pazienti, e i
risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of
Medicine.
Ai pazienti, dopo una dieta ricca di iodio per cinque
giorni, è stato somministrato il farmaco. Dopo quattro
settimane è stata misurata la capacità della ghiandola
tiroidea di “assorbire” lo iodio radioattivo e gli oncologi
hanno visto che, in otto pazienti, la cura aveva consentito
di raggiungere livelli terapeutici (cioè efficaci contro la
malattia) e che tale effetto rimaneva immutato per sei
mesi dopo il trattamento; tutti e otto, inoltre, avevano
livelli stabili di tireoglobulina (considerato marcatore del
tumore) nel sangue. Cinque malati, poi, avevano avuto
una risposta parziale e tre una stabilizzazione della
malattia. Nessuno ha avuto effetti collaterali diversi da
quelli attesi o gravi.
Il farmaco si è dimostrato efficace soprattutto nei
pazienti con un tumore con una mutazione nota: quella
del gene KRAS, già bersaglio di terapie specifiche in
altri tumori come quello del colon-retto.
Uno dei punti più importanti – hanno sottolineato gli
autori – risiede nel fatto che per indurre l’effetto voluto,
cioè il ripristino della capacità di captare lo iodio
marcato, è sufficiente una breve somministrazione di
farmaco e non, come in altri casi, una lunga terapia alla
quale, il più delle volte, il malato sviluppa resistenza e
per la quale sconta effetti collaterali spesso pesanti.
Ora si stanno progettando le fasi successive della
sperimentazione clinica, che servirà a verificare l’effetto
del selumetinib su un gran numero di pazienti; il trial
dovrebbe iniziare entro la fine dell’anno.
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