10 — focus on
«Histoire du
Chevalier Des Grieux
et de Manon Lescaut»
Dal romanzo
dell’abate Prévost, la vicenda
di un amore in musica
focus on
M
di Loredana Bolzan
anon Lescaut, un titolo ricalcato su un personaggio, è la versione vulgata – ridotta e riduttiva –
di un’opera letteraria che recita per esteso Histoire du Chevalier Des Grieux
et de Manon Lescaut. È la fortuna postuma di quest’opera singola, avvalorata anche
dalle sue versioni extraletterarie – melodramma e altro
– ad averla scorporata da un
insieme più vasto incentrandola sulla figura dell’eroina
femminile. Nelle intenzioni
dell’autore, l’Abbé Prévost,
era semplicemente un episodio delle sue Mémoires et aventures d’un Homme de qualité qui
s’est retiré du monde, per la precisione il settimo e ultimo volume, uscito nel 1731, anche
se, già dagli anni successivi,
l’autore stesso aveva optato
per l’edizione separata.
Reintegrando nel t itolo
l’alter ego maschile dell’eroina
si corregge un’omissione
impropria, non solo sul
piano narrativo, visto che
l’avvincente storia d’amore
vede i due amanti sempre in
primo piano, magari sfasati
fisicamente, ma soprattutto
sul piano narratologico, visto
che è il Cavaliere Des Grieux
il narratore della sua vicenda
e l’esclusivo punto di vista.
Succedeva allora, allo stato nascente del romanzo
moderno, che la legittimazione di questo nuovo genere,
vagamente minaccioso per la tenuta di una società ancora
fortemente gerarchizzata, si affidasse alla veridicità del
documento ritrovato accidentalmente, oppure alla
testimonianza diretta di un protagonista della vicenda,
limitando con ciò la responsabilità morale della persona
che firmava il testo come autore. Anche quest’opera,
che fa della sregolatezza il suo asse principale, sia pure
con delle controspinte apologetiche della ragione e della
virtù, non sfugge a questo modello. Una cornice tipica da
romanzo d’avventura, fatto di spostamenti nello spazio e
di incontri lungo il cammino, fa sì che il latore del racconto
si imbatta per ben due volte a distanza di tempo (residuo
fiabesco della potenza del caso ancora
in epoca moderna!) con il Cavaliere Des
Grieux: la prima, quando il convoglio delle
filles traviate, di cui fa parte anche Manon,
in partenza per la Louisiana (da poco colonia
francese) per riscaldare la solitudine dei primi
colonizzatori e potenziare la demografia locale, è mosso
a compassione per lo strazio dell’amante e gli apre la
borsa affinché, prezzolando i carcerieri possa stare vicino
all’amata; la seconda, quando la storia è già conclusa,
Manon morta, il Cavaliere tornato in patria, con niente
più in mano se non il ricordo della sua storia. Ed è da lì
che parte il racconto, proprio una volta finita la storia.
Racconto retrospettivo, come è d’obbligo per i racconti
di secondo grado, il cui merito è insieme di sgravare il
cuore del protagonista grazie alla presenza partecipe
dell’ascoltatore e di fornire al lettore, al quale ne viene
offerta la trascrizione scritta,
la trama articolatissima della
vicenda. Divisa in due parti,
con il solo intervallo di una
cena, per fargli riprendere
fiato, la narrazione scaturisce
di getto dalla bocca dello
sfortunato protagonista, e le
vicissitudini incalzano senza
soluzione di continuità.
Del resto il racconto orale
non prevede deviazioni o
digressioni: è fedele solo alla
sequenza degli avvenimenti,
a l loro ord i na mento
cronologico, alle strategie
della persuasione, e poiché
il punto di vista è di parte,
le zeppe di commento, che
pure abbondano, servono a
giustificare la deriva della sua
vita. La quale ha deviato dal
suo corso a causa di una storia
d’amore e di passione che
genera disordine proprio per
l’inconciliabilità fra queste
due opzioni sentimentali in
quanto la natura ha provvisto
Manon di una spiccata
inclinazione al piacere mentre
ha dotato il Cavaliere di un
più temperato «umore dolce
e tranquillo». Se il Cavaliere,
con il suo ideale d’idillio amoroso, fatto di frugalità e
fedeltà, di una vita a due dove l’amore si coniuga con il
dovere, è in lieve anticipo sui tempi, Manon al contrario
è un’esemplare figlia del secolo. Il secolo in questione è
il periodo della Reggenza, quell’interregno che segue
alla morte di Luigi XIV, il Re Sole (1715), in cui, dopo
tanta austerità, trionfa la sregolatezza in tutte le sue
forme. Ma è anche il secolo del sentimento, o per meglio
dire delle sue derive sentimentalistiche, dove le lacrime
scorrono a fiumi (come qui) per dimostrare di volta in
volta tenerezza e languore, pentimento e riscatto, in altre
parole per avvalorare la veridicità del sentire.
Diciassette anni lui, ancora meno lei, si incontrano
in uno di quei classici momenti topici che costellano i
focus on — 11
all’inventario degli ultimi spiccioli, attraversa tutto il
romanzo. Soldi estorti in vario modo, non guadagnati
poiché il tempo nel romanzo è occupato ad amare, e la
vicenda si chiude con il protagonista ancora ventenne.
I procacciatori sono coloro che praticano (fra le altre) la
virtù della parsimonia, vale a dire che hanno abiurato la
sregolatezza, primo fra tutti l’alter ego del protagonista, il
fedele amico Tiberge, il quale incarna l’ideale realizzato di
virtù, conquistata sulla tentazione del vizio, che all’amico
non è invece riuscita. Gli riuscirà solo alla fine, ma avrà
dovuto maturare attraverso l’esperienza del male. A causa
della passione nefasta che lo travolge, si sarà macchiato
di un crimine per liberare Manon dalla prigione, avrà
praticato l’inganno e la simulazione, disonorato il padre
fino a farlo morire.
Che l’opaco Tiberge sia di grande rilevanza simbolica si
evince dal fatto che accompagna praticamente il Cavalie-
Salvando a suo modo anche la morale perché se da un
lato il benessere va a vantaggio di entrambi, dall’altro
quello che conta è la fedeltà del cuore, anche se il corpo
si concede altrove. Un prezzo irrisorio da pagare se il
compenso è la profusione di beni materiali: bei vestiti,
gioielli – potente arma di concupiscenza nel romanzo –
interni di lusso, carrozze, servitù. E, sovrano fra tutti,
il mezzo che li procura, palpabile e onnipresente: il
denaro. Se Manon trionfa come spettacolo di seduzione
e ha bisogno di uno scenario adeguato che ne esalti la
figura, tocca viceversa al Cavaliere sporcarsi le mani nella
disperata ricerca di ciò che gli assicuri il suo cuore. Una
contabilità pervasiva, nel bene e nel male, strumento di
liberalità o di interesse, alleata del crimine, che va fino
re (pur restandone lontano) dall’inizio alla fine. Un tempo l’uno il doppio dell’altro, sarà ancora Tiberge a raccogliere l’amico oltre oceano dopo il naufragio della sua vita. Come gli sarà d’aiuto lo studio praticato in gioventù. È
lo stesso Des Grieux a fare riferimento alla parabola del
seminatore per annunciare la sua redenzione futura. ◼
focus on
romanzi pre-moderni: all’intersezione dei
luoghi, quelle locande o stazioni di posta
dove il contatto genera immediatamente
le peripezie distogliendo entrambi dalla
vita annunciata. Il Cavaliere, studente
modello di filosofia, avviato verso la carriera
ecclesiastica, Manon destinata a suo dire dalla famiglia
a farsi religiosa. Ma con il colpo di fulmine che scocca
già al primo sguardo, inducendo il Cavaliere a rapire
l’amata, si decide altrimenti la vita dei due, mentre la
mano implacabile del destino seminerà avvertimenti e
ostacoli per far deviare la rotta dalla felicità sperata. Nella
sua incolpevole leggerezza, Manon non fa mistero della
sua natura: l’amore ha bisogno di agi, perciò non si farà
scrupolo di sopperire alle ristrettezze economiche del suo
partner quando la sua avvenenza le mette facilmente a
disposizione coloro che hanno i mezzi per procurarglieli.
Sopra:
Maurice Leloir (Francia, 1853 - 1940)
La sepoltura di Manon Lascaut
(1892, olio su tela, Dahesh Museum, New York,
underpaintings.blogspot.com).
Nella pagina a fianco:
Antoine François Prévost d'Exiles (1697 – 1763)
12 — focus on
«Manon Lescaut»
l’esplosione
del genio
se. Sin dal primo istante sapeva che la sua
Manon avrebbe offuscato la fama della sorella: lo stile francese dell’opéra-comique soggiaceva a regole di gusto limitanti l’espressione universale, la sua arte invece aveva inglobato le istanze europee senza perdere la propria matrice nazionale.
Ogni grande artista prima o poi scrive un’opera in cui
di Michele Girardi
rivela se stesso con tutta la consapevolezza di essere uscito dalla fase dell’esperimento scrivendo il suo primo canno di grazia il 1893, e mese eletto per il teapolavoro – e si pensi, per fare un solo quanto illustre catro musicale il febbraio. A distanza di otto giorso alla Entführung aus dem Serail di Mozart. Con Manon Leni il melodramma ottocentesco di Verdi avrebscaut il genio di Puccibe passato le consegne
ni esplode. L’invenzioall’opera italiana e inne è a getto continuo e
ternazionale di Pucl’ispirazione vi domina,
cini. In cartellone alla
né risulta visibile l’acScala il Falstaff per il 9,
curato travaglio formamentre il Regio di Tole che pure presiede alla
rino aveva programstruttura.
mato per l’1 Manon LeEgli era del tutto
scaut. Una pura coinciconscio che la musica
denza? No di certo, vid’opera in Europa, dosto il talento imprendipo Wagner, non poteva
toriale dell’editore Giupiù essere la stessa. E fu
lio Ricordi, si tratta anil primo, e forse l’unico
zi di un evento di quelli
italiano a testimoniarche fanno la storia simlo con la musica, invebolica dei grandi fatce che con chiacchiere
ti artistici. Puccini era
da ciarlatano. Inalteraatteso con speranza e
to per lui restava il pritrepidazione alla prova
mato della melodia, lad’appello. Aveva conoscito verdiano, ma la
sciuto il pubblico delle
scrittura armonica doprime assolute alla Scaveva interessare di più.
la quattro anni prima,
E l’orchestra prendedove il suo Edgar era stare più parte al dramma.
to accolto nel 1889 in
La percezione del pubmodo sostanzialmente
blico si era molto affineutro. Tratti di genialinata, le platee cui rivoltà convivevano con cegersi molto più vaste,
dimenti di gusto inopiil mercato stesso delle
nati: non era il lavoro di
opere da un pezzo non
quel successore di Verera più fossilizzato su
di intravisto nelle Villi
idiomi nazionali. Biso(1884), che il grande edignava andare incontro
tore Giulio Ricordi volall’Europa guidando il
le lanciare investendo
pubblico al di là delle ripersonalmente in terspettive lingue. Puccimini di tempo, denaro,
ni seppe utilizzare temi
e passione.
e melodie per orientare
Buon giudice di sé e
l’ascoltatore nella comdegli altri Puccini non
prensione della vicenaveva niente da temeda, e comunicare l’emore a Torino. Disponeva
zione più intensa al di là delle parodi un soggetto che lo aveva attratto
Venezia – Teatro La Fenice
le. L’espressione universale non era
sin dal primo momento, condizioManon Lescaut di Giacomo Puccini
maestro concertatore e direttore Renato Palumbo
più miraggio ma realtà: la struttune principale del suo agire artistiOrchestra e Coro del Teatro La Fenice
ra musicale (melodie, armonie, eleco. Una storia d’amore disperata e
regia Graham Vick
menti sinfonici) narra insieme al
struggente già raccontata in musica
nuovo allestimento
canto, supplendo al messaggio verprima da Auber poi da Jules MasseFondazione Teatro La Fenice
bale. Wagner aveva perfezionato il
net con enorme successo nel 1884 e
in coproduzione
trattamento dei temi di reminiscenben nota al pubblico europeo. Concon la Fondazione Arena di Verona
za, tipici della tradizione operistica
fronto che avrebbe fatto tremare i
29 gennaio – 2, 3, 4, febbraio, ore 19.00
italiana e francese, «creando» il Leipolsi a chiunque, ma non al lucche30, 31 gennaio, ore 15.30
focus on
A
tmotiv, cioè il motivo che orientava l’inconscio dello spettatore suggerendogli legami
ideali fra la trama e la costellazione simbolica dei personaggi. Gli italiani usavano citare melodie e motivi in diversi contesti, a volte costruendo con le «reminiscenze» interi numeri – e si pensi all’aria della pazzia di Lucia – , ma preferivano affidare allo stile di canto il compito di caratterizzare il dramma. Puccini conciliò questi due mondi. Si pensi al momento in cui Manon giunge ad Amiens, accolta da
frotte di studenti curiosi. «Vediam!... / Viaggiatori eleganti»: ritroveremo quel profilo melodico di accordi quando
la protagonista incontrerà Des Grieux («Manon Lescaut
mi chiamo»), profilo che verrà poi richiamato nell’aria del
tenore «Donna non vidi mai» e prima del duetto dell’atto
secondo. Nell’episodio conclusivo la sua cellula costitutiva si trasformerà nella mimesi del vento caldo che spazza
il deserto americano, fino a chiudere l’atto nel segno del-
la desolazione. Tutta l’opera è intessuta di richiami come
questo, in cui una melodia o un motivo potranno essere di
volta in volta Leitmotiv (dunque presentarsi variati a seconda delle situazioni, come in Wagner) oppure essere richiamati come reminiscenza.
L’orchestra. Densa nelle fasce armoniche e ricca di raddoppi – che ribadiscono il primato della melodia potenziata nel suo tratto più scoperto ed emotivo. Ma anche un
timbro duttile, piegato a mille artifici, e perfezionato da
un istinto raffinato. Verdi si era lamentato che nessuno gli
avesse insegnato l’orchestrazione: non era dissimile la situazione di Puccini, ma erano più frequenti le occasioni di
sentire la musiche orchestrali tedesche, più intenso il dibattito nei circoli colti. Certo non aveva imparato a orchestrare dal suo maestro Ponchielli. Tutta la tessitura timbrica di Manon Lescaut rivela un talento sconosciuto a un operista italiano di quel tempo (e imbattuto nei risultati sino
agli anni cinquanta del Novecento). Verdi aveva criticato
gli squarci sinfonici delle Villi, fatti «pel sol piacere di far
ballare l’orchestra»: ma questi episodi prendono parte integrante al dramma. Si ripensi all’Intermezzo sinfonico di
Manon – una musica a programma: la disperazione di Des
Grieux e il suo battersi in favore dell’amata – al sentimento d’angoscia mimato da violoncello e viola solisti che cantano nel registro acuto frasi cromatiche sopra armonie di
settime, universo irrisolto che si spalanca improvvisamente con una grande melodia diatonica in Si minore distesa
su un immenso arco a piena orchestra, rafforzata in tutte le voci. In quel momento la disperazione di Des Grieux
diventa quella di tutti noi, e quando la stessa frase riapparirà nell’ultimo atto mentre il giovane affranto singhiozza alla vista dello sfinimento della sua donna, l’effetto sarà potenziato dal riascolto. Questo è Puccini, che ha saputo fondere in un universo organico e personalissimo gli
elementi più disparati. Ancora una riflessione. L’inizio del
second’atto, trine, merletti, falsità da salotto che si aprono per un istante alla passione sensuale col ricordo de «In
quelle trine morbide».
Poi i musici, i minuetti e la canzone in stile
pastorale («L’ora o Tirsi»). Ma prima l’accordo
di Tristano, simbolo riconosciuto e riconoscibile dell’amore sensuale, fa capolino per un
istante, facendo presagire l’esplosione romantica del duetto dei due
amanti. Altro che «Tristano dei poveri», come
ebbero a scrivere alcuni commentatori: soltanto i ricchi d’ispirazione possono scrivere
una musica così riuscita, ricca, complessa, varia, eccitante.
Ci si ama davvero,
in Manon, di una passione immensa. Una
passione che non può
non travolgere ora come allora. Manon Lescaut fu l’inizio del successo perenne di Puccini, un meccanismo oliato sin nel dettaglio. Otto giorni dopo Verdi avrebbe prodotto la sua opera più antica in stile moderno, facendo ridere e pensare come solo il più grande degli italiani sapeva fare. Intanto Puccini aveva aperto la strada maestra che avrebbe collegato l’Italia all’Europa, su presupposti ancor più ravvicinati rispetto a quelli del suo illustrissimo predecessore. Fu il successore di
Verdi nello spirito e nel riscontro del pubblico, ma anche
l’ultimo innovatore della tradizione nazionale. Turandot
avrebbe chiuso la sua parabola e altri italiani, ma solo dopo il tramonto delle dittature, avrebbero capito che innovare non è rimestare l’antico o cantare il vero, ma continuare a «inventare il vero» con lo stile, conciliando complesse strutture musicali con l’ispirazione più autentica. ◼
Nelle immagini: Martina Serafin e Walter Fraccaro (nella foto insieme
Sondra Radvanovsky) rispettivamente Tosca e Manrico.
I due artisti aranno i protagonisti della Manon alla Fenice
(sopra: foto Dan Rest/Lyric Opera of Chicago 2009).
focus on
focus on — 13
14 — focus on
Puccini
drammaturgo,
regista,
orchestratore
bretti dei suoi lavori. Giulio Ricordi, nonostante le caratteristiche un po’ ostiche
che connotavano il compositore, nutriva
una vera e propria venerazione per lui e, da
persona intelligente e illuminata qual era, aveva capito fin dalle Villi e da Edgar la sua eccezionale portata. Certo se avesse fallito anche la Manon credo che qualche nodo sarebbe arrivato al pettine... E invece andò molto bene. Naturalmente con tutti i difetti che
hanno poi le opere di Puccini. Per tornare al discorso del
libretto, ad esempio, sono pochissimi i casi in cui quelli pucciniani siano belli di per sé: se i libretti di Da Ponte
di Luca Mosca
sono già meravigliosi anche senza il bisogno della musica, nel caso di Puccini non
elle vesti di compositore , che
è così, e la loro lettura è piuttosto funziosono quelle che mi appartengoQuesto intervento nasce
nale a ciò che il compositore ha in animo
no, tenderò a porre l’accento sulda un’intervista realizzata
di realizzare. Il libretto di Manon contiene
la musica di questa meravigliosa Manon
a Venezia
delle ellissi deliranti fra il primo e il seconLescaut.
nel mese di dicembre 2009.
do atto, fra il secondo e il terzo, fra il terzo
Per accennare a uno sguardo d’insieme,
e il quarto: ci sono dei veri e propri salti piuttosto difficianche per quel che concerne l’intricata storia del libretto,
li da mandar giù. E qui entra in ballo la musica, nel senso
non bisogna dimenticare che Puccini stava riemergendo
che è proprio lei a far sì che questi balzi siano digeribili, e
da due mezzi fallimenti: sia le Villi che l’Edgar, infatti, non
a far capire che proprio coavevano certo avuto un sucsì dev’essere, che ci devono
cesso strepitoso. La compliessere questi quattro quadri
cata gestazione del libretstraordinari, quasi indipento di Manon e tutti i passagdenti l’uno dall’altro.
gi che ci furono tra RuggePer quel che riguarda il
ro Leoncavallo, Marco Prapersonaggio di Manon, la
ga, Domenico Oliva, Luigi
sua evoluzione psicologica
Illica (cfr. pp. 16-17) probanon è particolarmente raffibilmente accaddero proprio
nata ed è invece tratteggiaperché Puccini, grande uota in maniera quasi brutale:
mo di teatro qual era, aveva
se da una parte è una doncominciato a rendersi conna avida di denaro e gioielto dell’importanza fondali, dall’altra è debole e sogmentale di avere fra le magetta all’invaghimento per
ni un buon libretto, una veDes Grieux. «La donna è
ra e propria sceneggiatura,
mobile», potremmo dire:
quasi cinematografica, che
questo è il tratteggio che ne
rispettasse le sue esigenze
fa Puccini. Il suo carattedi compositore. Per Manon
re può cambiare da un mopretese dunque un libretmento all’altro, la sua voluto inattaccabile. Probabilbilità sentimentale e la sua
mente non riuscì a scriverlo
venalità si susseguono concompletamente da sé, ma si
tinuamente, soprattutto nei
seppe rendere perfettamenprimi due atti, senza tante
te conto, con estrema chiasfumature psicologiche, in
rezza, di cosa avrebbe potumaniera netta e un po’ rozto essere giusto ai fini della
za. Eppure tutto si incastra
realizzazione del suo lavomeravigliosamente bene: un
ro. Oltre a essere un grande
vero capolavoro.
compositore, infatti, PucDes Grieux, dal canto suo,
cini era anche un eccellenama questa donna in maniete regista: dalla Manon alra quasi ottusa: è completala Turandot non ha più sbamente ottenebrato e prigliato niente dal punto di vivo di alcun tipo di visione
sta del montaggio della stocritica. È un po’ quello che
ria: è stato quasi infallibile.
avviene fra Sean Connery
Va anche ricordato che proe Tippi Hedren in Marnie,
prio a partire da Manon Pucstupendo film di Hitchcock
cini, personalità estremain cui nonostante lei sia una
mente critica e forse un po’
cleptomane, il personaggio
rompiscatole, contribuì formaschile se ne innamora intemente allo sviluppo dei li-
Un’analisi della «Manon»
focus on
N
condizionatamente. In questo senso direi
che Des Grieux è un po’ «malato» di Manon. Probabilmente sentiva dentro di sé l’urgenza, la necessità di innamorarsi, e infatti lo
esplicita fin dall’inizio, dichiarando il suo amore assoluto per questa donna, evidentemente affascinante anche se è, come si diceva una volta, «una poco
di buono».
Dal punto di vista più prettamente musicale si può innanzitutto sottolineare uno sbandierato wagnerismo: c’è
addirittura una citazione del Tristano e del suo celeberrimo
accordo, che arriva in mezzo a pagine e pagine di diatonismo, prive di qualsivoglia cromatismo. All’improvviso
emerge l’accordo del Tristano ed è meraviglioso e per niente
ingenuo: è anzi un voluto omaggio a Tristano e Isotta, anche
se forse questo «tristaneggiare» è la cosa meno interessante
fra le pagine della Manon. Più degna di nota è l’assimilazione che Puccini fa dell’invenzione wagneriana del Leitmotiv,
dove a mio parere diventa addirittura migliore di Wagner
stesso. Il suo personale utilizzo del Leitmotiv dalla Manon
in poi diventa uno dei tratti salienti della sua musica. Mentre in Wagner questo elemento è una specie di bandierina
segnaletica, quasi un’indicazione stradale che suggerisce
di andare a destra piuttosto che a sinistra, in Puccini viene usato in un senso squisitamente drammatico-teatrale.
Ad esempio, il Leitmotiv di Manon diventa strutturale con
l’opera stessa: ci sono alcuni passaggi in cui nemmeno si
sente e però è presente, come una specie di fil di ferro che
lega il tutto. E l’opera finisce proprio con i due accordi di
Manon, questa volta in tonalità minore, e quindi meno riconoscibili. L’uso continuo che di questo tema viene fatto
nel corso dell’opera è straordinario e Puccini, come i gran-
di compositori, riesce a realizzare tutto con grande leggerezza e senza alcuna schematicità. In Manon individua una
tavolozza di colori orchestrali che, se prima non possedeva, da questo momento in poi rimarrà costante. Da qui in
avanti, difatti, il musicista si serve di un’orchestra connotata da un colorismo incredibile, che lo caratterizza come
uno dei più grandi orchestratori fra gli operisti, sempre attento a quanto succede intorno. Uno dei vizi terribili della
musica italiana dell’epoca era infatti il provincialismo, che
portava a trattare l’orchestra alla stregua di un bambino
che colora un disegno. In Puccini invece il colore diventa strutturale, entra a far parte dell’idea, e questo lo mette
assolutamenbte alla pari con tutti i grandi a lui coevi, come Debussy, Mahler e persino Stravinskij, basti pensare a
Gianni Schicchi e Turandot dove l’influsso di quest’ultimo è
davvero notevole.
La caratterizzazione del personaggio
negativo, Geronte, è
poi davvero magnifica: uno dei passaggi
più cromatici è spesso abbinato proprio a
questo personaggio, il
cui tema è composto
da frammenti di scale cromatiche armonizzate. Geronte, carattere chiaramente
grottesco e malvagio,
è tuttavia tratteggiato
in maniera anche un
po’ ridicola.
Vorrei concludere chiamando in causa un momento che
trovo straordinario:
si trova nel terzo atto, cioè prima della famosa lettura dei dodici nomi delle donne
di malaffare che poi
verranno spedite in
America sul transatlantico. A questo punto, improvvisamente,
emerge il personaggio
del lampionaio, che
canta una canzoncina proprio in uno degli scambi più tesi del duetto tra Manon e Des Grieux, che stanno decidendo come riuscire a fuggire alla trappola in cui si sono messi. Il lampionaio canta dunque una canzone popolare, un
po’ come avviene nell’ultimo atto della Tosca, che comincia con la canzone del pastorello. Ma se in Tosca si tratta
dell’inizio di un atto, in Manon invece la figura del lampionaio passa proprio nel bel mezzo di un duetto, in maniera improvvisa, quasi fosse un fantasma. Anche se si tratta
di una particina minima, calandomi idealmente nelle vesti di cantante mi piacerebbe molto poterla interpretare. ◼
Sopra: Silvia Saas (Manon) e Placido Domingo (Des Grieux)
nella versione di Manon Lescaut
diretta da Claudio Abbado alla Scala nel 1978.
focus on
focus on — 15
16 — focus on
«Tu mi devi
fare un libretto»
Le tormentate vicende
del testo di «Manon Lescaut»
di Tommaso Sabbatini
focus on
F
orse non è del tutto
esatto affermare che
il libretto di Manon Lescaut vide la luce senza indicazione dell’autore. Nell’opuscoletto che gli spettatori della prima, nel 1893, si trovarono tra le mani comparivano tre nomi: Giacomo, Puccini, Giulio Ricordi e l’abate Prévost. Mancavano gli
estensori del testo, è vero,
ma venivano chiamati a fare
da garanti per il prodotto finito il compositore, l’editore
e il letterato del Settecento: i
responsabili dell’intera operazione artistica ed il nume
tutelare di cui si invocava la
protezione.
Ma chi ha fatto da mediatore tra il «mirabile libro» di
Prévost e Puccini? Oggi sappiamo che Puccini è debitore a Ferdinando Fontana, suo
librettista per Le Villi (1884)
e Edgar (1889), oltre che della scelta del soggetto di Tosca,
come era noto da tempo, anche dell’idea di un’opera da
Manon Lescaut. Nel 1885 Fontana annuncia a Puccini: «Ti
manderò quel tal dramma su Manon Lescaut. È bene che
tu vegga come io pensi all’avvenire e cioè a tenerti degli argomenti in pronto». Fontana, ovviamente, sta anche
pensando al proprio, di avvenire:
legarsi al promettente compositore non può
che tornargli utile. Ma
dopo l’infelice esito di
Edgar non sarà coinvolto né
in Manon né in Tosca,
e vivrà con comprensibile amarezza la sua
esclusione dai progetti.
«Quel tal dramma su
Manon Lescaut» è
stato identificato da Jacopo Pellegrini nel
«drame en cinq actes mêlé de chant» di
Théodore Barrière e Marc Fournier, rappresentato al Théâtre du Gymnase il 12 marzo 1851. C’è almeno un altro adattamento teatrale del romanzo, però, che proietta la sua ombra sulla genesi di Manon Lescaut: è Manon, il fortunato
opéra-comique di Massenet del 1884, che Puccini poteva
conoscere solo dallo spartito ma con il quale il confronto
sarebbe stato inevitabile, per
non parlare della competizione sul mercato estero.
Exit Fontana, ad ogni modo. Al momento di mettersi al lavoro sulla sua terza opera, Puccini gli preferisce il giovane commediografo Marco Praga, figlio del
prematuramente scomparso Emilio, scapigliato, sodale
di Boito e librettista. Una sera della prima metà del 1889,
Puccini varca la soglia del ristorante Savini in Galleria a
Milano sapendo di trovarci Praga, cliente abituale; lo
prende in disparte, lo porta fuori e «subito, a bruciapelo» gli ordina: «Tu mi devi fare un libretto». Ma Praga non
ha mai scritto libretti, e, «per
quanto figlio di poeta», non si
sente in grado di stendere un
testo in versi. «Se non vorrai
verseggiare […] sceglierai tu
stesso un collaboratore di tua
fiducia e di tuo gradimento».
Praga, stando al suo racconto, ha pronto il nome del collaboratore: «Domenico Oliva
che in quell’epoca aveva pubblicato un lodatissimo volume di poesie e che mi era amico fraterno, mi parve il più adatto, e lo proposi senz’altro
a Puccini che accettò». Assistiamo così alla formazione di
un tandem in cui le competenze del librettista sono ripartite tra un drammaturgo ed un poeta: è la soluzione che
Puccini e Ricordi perfezioneranno per le tre opere successive, affidate alle cure di Illica e Giacosa.
La Manon che prende forma sotto le mani di Praga è in
quattro atti: il primo e l’ultimo simili a quelli che conosciamo, il terzo diviso in due quadri che corrispondono
all’attuale secondo atto ed al terzo (ambientato però in
una «piazza presso l’Ospedale»: quello della Salpêtrière, a
Parigi, dove è detenuta Manon). Che il preludio all’attuale terzo atto porti ancora il titolo di «intermezzo» si deve proprio alla sua originaria collocazione tra due quadri
di uno stesso atto. Resta il secondo atto, che dovrebbe illustrare il momento in cui Manon, incoraggiata dal fratello, abbandona Des Grieux, con cui viveva felicemente
more uxorio, per Geronte. Situazione molto simile a quella
del secondo atto di Massenet, ma che pone un serio problema. Nel romanzo e in Massenet, Manon si sbarazzava di Des Grieux consegnandolo al padre, che lo aveva
destinato alla carriera ecclesiastica; in Puccini la famiglia
di Des Grieux è tenuta fuori dall’intreccio:
dunque, «come Renato [Des Grieux] arriva
al punto di lasciare Manon a disposizione del
vecchio?!» (lettera di Puccini a Ricordi).
Puccini è insoddisfatto. Ricordi pensa bene di
coinvolgere discretamente nell’impresa il brillante
(e talvolta fanfarone) Ruggero Leoncavallo, il futuro autore di Pagliacci (1892), che non è ancora mai stato rappresentato, ma ha già scritto Chatterton e sta ultimando I Medici. Delle tre professionalità che Leoncavallo, wagnerianamente, riunisce in sé, il
drammaturgo, il poeta ed il
compositore, Ricordi fa appello alla prima, chiedendogli una consulenza sulla materia che era competenza di
Praga. Praga, che abbia saputo dell’intervento di Leoncavallo o abbia solo percepito una generica mancanza di fiducia nel suo operato, si ritira dal progetto.
A questo punto, Puccini è
sempre più insicuro, mentre
Ricordi si sta spazientendo
e pensa di accantonare Manon per fare Tosca. A prendere in mano la situazione ci
pensa Luigi Illica, fresco del
successo della commedia
in dialetto milanese L’ereditaa del Felis (1891), librettista di casa Ricordi ed amico personale di Puccini. Illica elimina il primitivo secondo atto, dà all’atto in casa di Geronte il colore rococò che lo contraddistingue,
convince Puccini a costruire il grande assieme dell’atto di Le Havre intorno all’appello delle deportande con il
risultato, di rara potenza, che tutti conosciamo. Oliva gli
cede i versi già composti, che già non sentiva più suoi per
le troppe interferenze di Puccini; i vecchi librettisti ed il
nuovo arrivato, arbitro il drammaturgo Giuseppe Giacosa, si accordano perché il risultato degli sforzi comuni sia
pubblicato in forma anonima. Giacosa, a quanto si sa, non
contribuì al libretto in prima persona, anche se dei versi recentemente ritrovati tra le sue carte da Pier Giuseppe Gillio presentano sospetti tratti di affinità con «Tra voi belle,
brune e bionde».
Praga, Oliva, Illica, forse Giacosa: resta da dire che la
battuta del Comandante, incerta nella metrica ma drammaticamente felicissima, «Ah! popolar le Americhe, giovanotto, desiate?» è farina del sacco di Giulio Ricordi e
che, musicando il secondo atto nell’estate 1892, Puccini inserì qualche verso di propria creazione e due versi suggeritigli da Leoncavallo, suo vicino di casa nella villeggiatura svizzera di Vacallo.
Arriviamo così alla prima torinese. Ma le vicende di Manon Lescaut non sono finite. Il finale del primo atto, nella
versione andata in scena al Regio, era, rispetto a quello de-
finitivo, più simile ad un tradizionale concertato di opera
buffa, con un Lescaut ubriaco, spaccone e ben poco credibile quando promette a Geronte di ritrovare la sorella;
addirittura, in un abbozzo di pugno di Oliva pubblicato
pochi anni fa da Luigi Verdi, Lescaut continua a parlare a
Geronte senza accorgersi, tanto è brillo, che il suo interlocutore se ne è andato. Niente a che vedere con il lucido cinismo di cui il fratello di Manon fa mostra nel nuovo finale, andato in scena a Napoli, presente il compositore, il 21 gennaio 1894, ma
già sperimentato a Novara
un mese prima. Il cambiamento si deve ad Illica, che
sentiva il bisogno di colmare in qualche modo la forte
ellissi narrativa causata dalla soppressione dell’originario secondo atto: la soluzione consiste appunto nel far
predire a Lescaut gli eventi
che condurranno allo stato
di cose su cui si apre l’atto
successivo.
Manon è oggetto, come
tutte le partiture pucciniane, di continue revisioni da
parte dell’autore. In particolare, Puccini si accanisce
sull’aria di Manon nel quarto atto, finché, nel 1909, non
decide di ometterla completamente. Quando Toscanini, per la rappresentazione
scaligera del 26 dicembre
1922, lo convince a riaprire
il taglio, Puccini chiede aiuto per rifinire il testo a Giuseppe Adami, con cui sta lavorando a Turandot e che ha
da poco fatto rappresentare
una sua Manon in cinque atti. È solo trent’anni dopo la composizione dell’opera che
il verso che sul libretto si leggeva «Sola… perduta… abbandonata!… Sola!…» prende la forma oggi familiare:
«Sola… perduta… abbandonata / in landa desolata!». ◼
Sopra: Giacomo
Giacosa; a
destra: Ruggero
Leoncavallo.
Nella pagina
a fianco:
sopra, Jules
Massenet;
in basso:
Giacomo
Puccini.
focus on
focus on — 17
18 — focus on
Renato Palumbo
dirige Puccini
alla Fenice
focus on
S
di Patrizia Parnisari
ar à R enato Palumbo a dirigere Manon Lescaut in
Fenice. Abbiamo incontrato il maestro che ci ha raccontato il
suo lavoro con la partitura dell’opera pucciniana.
Quanto c’è di vero nella famosa asserzione di Giuseppe Verdi secondo cui, in Manon Lescaut, Puccini si era dimostrato più un
autore sinfonico che lirico? Cosa nella partitura conferma questo
giudizio?
Sicuramente Puccini in quest’opera mette in evidenza
tutta la sua abilità di orchestratore e compositore, basti
pensare alle polifonie e all’utilizzo di temi che sono veri e propri Leitmotiv, ma
lo fa sempre mettendosi al servizio del teatro.
Ogni scelta musicale ha
sempre un preciso scopo drammaturgico. La
riduzione del romanzo
di Prevost è perfetta: selezionando quattro momenti riesce a restituire
appieno i caratteri e il loro sviluppo, anche considerando le vicende travagliate di un libretto
dai molti padri. Il merito
credo vada ascritto proprio a Puccini, che riesce a imprimere a questa
drammaturgia un’identità ben precisa e a mettere
in musica il dramma della speranza e del dolore.
Come considera quest’opera
a paragone con gli altri lavori
drammatici pucciniani?
Il primo vero successo di Puccini è per me
un’opera caratterizzata da una grande sincerità artistica:
non c’è l’ansia di affermarsi che si notava nelle Villi o in
Edgar, non ci sono ancora il peso e la responsabilità del
successo. Non cerca di compiacere il pubblico, ma proprio per questo lo colpisce nel cuore con una drammaturgia perfetta, anche crudele. Si dice talvolta che il libretto
della Manon Lescaut non sia coerente: io trovo che sia invece costruito benissimo, perché sviluppa i quattro episodi del romanzo di Prevost senza perdere di vista un racconto unitario. È vero: non sappiamo nulla della convivenza dei due amanti a Parigi e sull’abbandono per il ricco Geronte, ma Lescaut entra subito in scena per aggiornarci sugli ultimi eventi; quando Manon viene arrestata
non è difficile collegarci al terzo atto e se anche perdiamo
le vicende americane che precedono la morte nel deserto, comunque l’azione procede sintetica e logica. Soprattutto ogni quadro ha un’identità stilistica e tematica ben
precisa: questa è l’opera della speranza e della gioventù,
che vengono deluse e si spengono tragicamente. Nel primo atto troviamo la luce, la
leggerezza, arie cesellate con spirito quasi
cameristico e concertati raffinatissimi. Nel
secondo è il classicismo, la citazione e la ricostruzione di un’epoca che realizza benissimo il
contrasto con il duetto d’amore, passionale sì, ma disperato, come disperato è il terzo atto, l’unico, forse, dove si
affacci il verismo. Il quarto è poi la tragedia, pura e semplice. È un’opera straordinaria per qualità di scrittura e
per drammaturgia.
Quali peculiarità musicali ha evidenziato rispetto ad altre precedenti esecuzioni di Manon Lescaut?
Mi interessa servire la musica, non distinguermi necessariamente fra i miei colleghi del passato e del presente.
Noi abbiamo il compito di studiare a fondo la partitura e
renderla al meglio per trasmettere al pubblico un messaggio sempre attuale. Per questo in ogni nuova produzione
ci si deve anche confrontare con i cantanti che si hanno a
disposizione e con il regista per ottenere il miglior risultato possibile. Per l’opera e per il teatro.
Rispetto alla Manon di Massenet, in Puccini l’accento è più spostato sul personaggio del Cavaliere Des Grieux, il protagonista maschile, che non su Manon. Come ha dunque affrontato la parte del
tenore protagonista?
Puccini semplicemente rispetta la prospettiva del romanzo di Prevost, dove Des Grieux è voce narrante e
protagonista assoluto. Nel testo francese troviamo la storia di un uomo e della sua autodistruzione: Manon è quasi solo un’idea, una forza amorale che attraversa la sua vita e lo attrae inevitabilmente nell’abisso. Manon è l’incarnazione della tentazione. Puccini, come Massenet, ovviamente sviluppa il personaggio, lo rende più umano o,
se vogliamo, più melodrammatico (penso al finale: Prevost non si sofferma più di tanto sulla morte della donna,
dovuta a una generica febbre). Ciò non toglie che sia Des
Grieux, con la sua ossessione, il vero personaggio centra-
focus on — 19
ciando peraltro subito un accordo che sarà poi sviluppato
come un tema chiave dell’opera; la mantenuta elegantissima che cesella «L’ora o Tirsi» e si abbandona fra le braccia
di Des Grieux senza perdere di vista i suoi gioielli; infine
la donna che muore nel deserto tormentata dai suoi fantasmi. È tutto nella musica, ed era tutto nel romanzo, fatto salvo, appunto, per i rimorsi e le riflessioni dell’ultimo
atto, che coronano un ritratto umano di una creatura che
in Prévost non sembra più che una cinica espressione della filosofia libertina contrapposta invece a Des Grieux, un
sentimentale già preromantico, direi alla Rousseau. Il contesto è quello di Richardson, De Sade, De Laclos, solo che
la vittima è un uomo.
A parte i due protagonisti, c’è un carattere fra tutti che l’ha particolarmente affascinata musicalmente e al quale ha dedicato una speciale attenzione?
Intorno a Manon e Des Grieux gli altri personag-
miche e dei contrasti, seguendo scrupolosamente quel che
è indicato in partitura, in realtà dipingono assai meglio lo
spasimo, il dolore profondo che caratterizza l’epilogo della vicenda di Manon e Des Grieux. In quest’opera, soprattutto, c’è una tale perizia compositiva per cui credo vadano valorizzate proprio le miniature, i momenti più delicati e cameristici, i raggi di luce del primo atto o il classicismo raffinatissimo del secondo. Così anche la psicologia dei personaggi, e di conseguenza le loro passioni, viene messa appieno in luce così come Puccini l’ha concepita nella sua partitura.
Come ha affrontato la contraddittorietà di Manon?
Credo basti anche in questo caso seguire Puccini, senza
avere la presunzione di portare chissà quale sovrastruttura o di riscrivere ciò che già è stato scritto benissimo. La
sedicenne che intona «Manon Lescaut mi chiamo», enun-
gi sono più che altro funzionali all’atmosfera e all’azione, tutti egualmente importanti nel meccanismo perfetto di quest’opera. Potrei citare Edmondo, che con le
sue frasi definisce il clima di speranza e spensieratezza giovanile del primo atto, ma anche il Musico e il Maestro di ballo sono fondamentali per ricreare il mondo rococò dell’alcova di Geronte, così come il Lampionaio per le strade presso il porto di Les Havre. Tutti i personaggi meritano eguale attenzione perché, ripeto, ritengo quest’opera drammaturgicamente perfetta. ◼
focus on
le della vicenda: per questo Puccini gli impone una vocalità multiforme, che richiede
un’estrema forza ma anche un’estrema delicatezza. Come per ogni titolo bisogna lavorare con le voci che si hanno a disposizione per
far sì che l’opera si adatti loro come un abito.
Puccini spiegò la differenza della sua opera da quella di Massenet
in una frase che ben riassume il suo intento: «Massenet la sentirà alla
francese, con la cipria e i minuetti. Io la sentirò all’italiana, con passione disperata». La sua direzione tende a sottolineare e rinforzare
questa passione?
La passione non deve essere enfatizzata, urlata, né tantomeno credo ci sia necessità di rinforzare ciò che in Puccini ha già forza e intensità. Al contrario, penso che il dolore
sia tale proprio perché intimo e che pagine come l’Intermezzo perdano energia ed efficacia se se ne enfatizza allo
spasimo la passionalità. Il ritenuto, il controllo delle dina-
Sopra: Renato Palumbo (foto di Vito Mastrolonardo).
Nella pagina a fianco la locandina della prima rappresentazione
di Manon Lescaut al Teatro Regio di Torino, 1 febbraio 1893.
20 — focus on
Il teatro di regia
di Graham Vick
i suscita profonda tristezza questa patetica
incapacità di accettare che l’arte è tale solo se
sperimenta cambiamenti. Purtroppo uno dei
grossi problemi dell’Italia è che il potere, si parli di politica, musica o altro, è sempre in mano ai vecchi, che ignorano quanto di buono fanno i talenti più giovani. Noi registi andiamo avanti per la nostra strada ben sapendo che
dopo di noi ne verranno altri con idee più innovative delle nostre». Sono le parole del regista Graham Vick sul
«Corriere della Sera» del 23 agosto 2008 a proposito della polemica intorno alle sperimentazioni dei registi nelle
1982 in Zaide di Mozart, nel 1987 in Oberon di Weber, nel 1995 nei Puritani di Bellini; nel 1998 è invece a Padova con l’Inganno
Felice di Rossini, e recentemente è tornato in
Fenice con La rondine di Puccini per l’inaugurazione della stagione lirica veneziana 2008. Zaide era stato proprio il titolo con cui aveva debuttato nel
chiostro di Batignano, su un testo di Italo Calvino. Poco
a poco si afferma in Italia, con Tamerlano, Les Troyens I Maestri Cantori e Idomeneo a Firenze, Opricnik a Cagliari, Traviata all’Arena di Verona, alla Scala con l’applaudito Otello
diretto da Muti nel 2000 e con Macbeth.
Nato a Liverpool, Vick rimane folgorato a cinque anni assistendo a Peter Pan, colpito da un mondo fantastico,
carico di immaginazione. Dopo gli studi al Royal College of Music di Manchester, ottiene il primo ingaggio
di agenzia a 22 anni e a 24 debutta alla Scottish Opera con l’opera Savitri di Gustav Holst. Nel 1987 fonda la
produzioni liriche, sintesi del pensiero moderno di un regista moderno riguardo al ruolo e al senso di una regia nel
mondo dell’Opera. Certo, gli allestimenti costano un occhio della testa, e fra i tagli inarrestabili ai finanziamenti
il problema su chi deve fare cosa, su che allestimento scegliere è ancora più vivo.
A 56 anni Graham Vick è considerato uno dei registi
d’opera più affermati e invitati dai teatri di tutto il mondo. Particolarmente attivo in Italia, fra nuove produzioni, coproduzioni e riprese di allestimenti dall’estero, dal
29 gennaio sarà alla Fenice per curare la regia della Manon
Lescaut di Puccini. Vick ama l’Italia: L’albero degli zoccoli di
Olmi è il suo film preferito («storia dolorosa, bellissima,
delicata»), Piero della Francesca è il suo pittore prediletto.
Non è la prima volta che varca le scene della Fenice: nel
Birmingham Opera Company, di cui è tuttora direttore, un progetto innovativo che aveva lo scopo di portare l’opera nei paesi più remoti delle isole britanniche e
nelle Highlands. Dal 1994 al 2000 è direttore degli allestimenti all’Opera di Glyndebourne, e gli incarichi prestigiosi iniziano a susseguirsi, oltre all’Italia, dal Covent
Garden, l’English National Opera e l’Opera di Birmingham al Metropolitan di New York e a Chicago, all’Operà di Parigi, all’Opera di Vienna e di Monaco, a Madrid e
Amsterdam, in titoli dal Barocco al Novecento, lavorando con direttori prestigiosi come Haitink, Muti, Mehta.
E poi le molte versioni video discografiche di titoli come Ermione, Manon Lescaut (nel 1997 a Glyndebourne nella direzione di John Eliot Gardiner con la London Philharmonic), La dama di Picche, Evgenij Onegin, Guerra e Pace,
M
focus on
«
di Mirko Schipilliti
Pelleas et Melisande, Il ratto di Lucrezia. In Italia ha vinto due Premi Abbiati (nel 1990 per
La Clemenza di Tito e nel 1997 per Armida, alla Scala), in Inghilterra il South Bank Show
Award for Opera, Honorary Professor of Music all’Università di Birmingham e Visiting Professor of Opera Studies all’Università di Oxford, in Francia è
Chevalier de l’Ordre des Arts et des Letters.
Una carriera in continua ascesa, fra produzioni che si
moltiplicano una dopo l’altra, sfatando il monito del suo
primo agente sullo scoglio dei 35 anni, età dopo la quale
si diceva fosse difficile continuare a reggere le redini della professione. Ma Vick è un gran lavoratore, viaggia continuamente, è a casa solo due settimane all’anno, uno stile
di vita che richiede energie continue, creando ansie e tensioni. In mezzo a tutto questo la lotta per affermare una visione del mondo che cambia, un atteggiamento di sfida per
comunicare la modernità colta nelle storie e nei soggetti
del teatro d’opera di repertorio, per corrodere ogni posizione arroccata su vecchi schemi. Persino l’atteggiamento
di sfiducia verso ciò che si discosta dalla consuetudine viene criticato da Vick su una precisa base storica partendo
dal teatro di Wagner, dove per la prima volta i cantanti-attori non cantarono più nell’ambiente illuminato della sala,
lasciando posto a un uditorio al buio, creandosi quindi una
netta separazione con la scena, e relegando gli ascoltatori
nel distacco, in una «cultura del confortevole, del familiare, del giudizioso». Con Vick i meccanismi drammaturgici
del testo diventano invece più importanti del puro e semplice filo narrativo da fiaba di una storia d’opera, aprendo
chiavi e versioni interpretative che vanno inevitabilmente a scontrarsi con le visioni più tradizionali e prevedibili.
È il cosiddetto «teatro di regia», di matrice tedesca, dove
la parola ha un peso speciale, dove i simboli giocano ruoli
nuovi anche a costo di sconvolgere la base teatrale di partenza. La ricerca di innovazione di Vick evita in realtà l’appariscenza e si concentra in astrazioni o gesti essenziali e
netti, in franche attualizzazioni anche con simbolismi esasperati. Così La Rondine di Puccini alla Fenice prendeva vita in una rappresentazione ambientata negli anni cinquanta, perché i conflitti sono senza tempo, specie se «in modo molto delicato la Rondine parla di cose forti e moderne – diceva Vick – di un mondo a-morale». Portare il pubblico di oggi, le sue abitudini, dentro la storia e viceversa non significa provocare, ma coinvolgere l’ascoltatore in
modo attivo, che si trova così in qualche modo rappresentato sulla scena. All’Arena di Verona un gigantesco cuore a trapunta invadeva la scena di Traviata, una processione
di ammiratori di Violetta sembrava ricordare il tappeto di
fiori steso davanti a Buckingham Palace in ricordo di Lady Diana, la festa si ambientava in un moderno locale alla moda fra abiti moderni. Per Carlo De Pirro, in
Traviata «Vick controlla
il palco e le sorprese, usa
la recitazione straniata, la
volgarità, la macchietta,
l’isterismo di massa. Tutto credibile, a tratti discutibile, emozione costruita
ma sempre vitale e ingegnosa». Alla Scala un cubo in Macbeth simboleggiava il destino; a Firenze
nei Troiani di Berlioz la legione straniera portava il
racconto nel Novecento
contro le dittature; la solitudine femminile veniva
esaltata in Lucia di Lammermoor contrapposta a
un mondo maschilista, o
in Desdemona in Otello di
Verdi nella secchezza degli arredamenti.
Innovare senza tradire sembra una delle prerogative di Vick, che riconduce ai giorni nostri storie di un tempo e
temi immortali, per rovesciare le regole contro ogni prevedibile sviluppo, intensificando al massimo l’immedesimazione e il coinvolgimento nei significati del testo. Solo così la musica parla, e secondo il maestro «la salute futura e lo sviluppo dell’Opera dipende dalla sua capacità di abbracciare l’intera società, il
che significa essere parte della società ed essere preparata a cambiare rapidamente come la società stessa». ◼
Sopra: Graham Vick.
Nella pagina a fianco: La Rondine di Giacomo Puccini
nell’allestimento di Graham Vick
(Teatro La Fenice, 2008 - foto Michele Crosera)
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